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NO NEETSTORIE IDEE PROGETTI

PER SFIDARE LA PRECARIETÁ GIOVANILEa cura di Giuseppe Magistrali

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COMUNE DI PIACENZA

Il progetto “ No neet Work in Progress” è stato realizzato, nell’ambito del bando “Comunemente Giovane”, grazie alla collaborazione tra Comune di Piacenza, Associazione dei Comuni italiani (ANCI), Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale e un’ampia rete di partner del territorio piacentino, nella cornice di “Spazio 2- la Cittadella del lavoro e della creatività giovanile”. Un ringraziamento particolare agli autori del testo e a tutti i ragazzi che hanno dato vita e anima a questa esperienza.

NO NEETSTORIE IDEE PROGETTI

PER SFIDARE LA PRECARIETÁ GIOVANILEa cura di Giuseppe Magistrali

Il progetto “ No neet Work in Progress” è stato realizzato, nell’ambito del bando “Co-munemente Giovane”, grazie alla collaborazione tra Comune di Piacenza, Associazione dei Comuni italiani (ANCI), Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale e un’ampia rete di partner del territorio piacentino, nella cornice di “Spazio 2- la Cittadella del lavoro e della creatività giovanile”.

Un ringraziamento particolare agli autori del testo e a tutti i ragazzi che hanno dato vita e anima a questa esperienza.

© 2016, GL EDITORE - Piacenza

INDICE

Introduzione - Sfidare la precarietà giovanile a Piacenzadi Giulia Piroli pag 5Capitolo 1 - To neet or not to neet - I dilemmi della precarietàdi Giuseppe Magistrali pag 6Capitolo 2 - Rigenerare gli spazi urbani - Nuove politiche per i giovanidi Giovanni Campagnoli pag 14Capitolo 3 - Storie di vita come alfabeto della condizione precariadi Stefano Laffi pag 25Capitolo 4 - Manifesto della pedagogia hip-hop di Davide Fant pag 56Capitolo 5 - No neet work in progress è successo che...di Gessica Monticelli pag 71 Capitolo 6 - Sulle tracce del futuro dei giovani piacentini di Stefania Mazza, Anna Paratici, Claudia Praolini, Evelyn Uhunmwangho pag 85Capitolo 7 - Spazio Due anno 2020di Paolo Menzani pag 97

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Sfidare la precarietà giovanile a Piacenza

E’ un impegno che ci siamo assunti in questi anni consapevoli dell’estrema difficoltà della prova, a fronte di una crisi inedita per caratteristiche e portata, che si è accanita in particolare sulle giovani generazioni. La disoccupazione giovanile che supera il 40% a livello nazionale e avvicina il 30% anche in re-gioni come la nostra, l’inquietante fenomeno di chi vive in una bolla di esclu-sione e rinuncia, ci collocano in uno scenario oggettivamente drammatico insieme a Spagna e Grecia. Vanno poi considerate le occupazioni caratteriz-zate dall’incertezza e dalla temporaneità, forme di “flessibilità” velenose che ipotecano il futuro dei nostri ragazzi. Le opportunità per un’intera generazio-ne si restringono in una partita a carte truccate. La questione giovanile deve diventare una priorità sia a livello nazionale che locale, una chiave di volta delle politiche educative e sociali del nostro Paese. Alle amministrazioni locali ovviamente non può essere chiesto di creare il lavoro che non c’è, ma di attivare tutte le risorse della comunità per non la-sciare i ragazzi soli ad affrontare le insidie della precarietà.Così abbiamo cercato di fare con coraggio e testardaggine insieme ai giovani stessi, alle associazioni, alla scuola, alle realtà del terzo settore. Negli anni abbiamo sostenuto l’avvio di start up innovative, garantito informazione e orientamento alle opportunità del territorio, valorizzato i progetti e il protago-nismo dei ragazzi, avviato ricerche in grado di orientare l’azione del Comune, realizzato interventi all’avanguardia per il contrasto del disagio e la promozio-ne dell’inclusione scolastica.L’apertura lo scorso anno di Spazio-2 La cittadella del lavoro e della creatività giovanile, un servizio affidato alle cooperative sociali Arco, Solco e Officine Gutenberg, ha costituito elemento di sintesi e rilancio di tutte queste iniziati-ve. L’idea è di farne progressivamente il luogo simbolo dell’impegno colletti-vo contro la precarietà giovanile, la casa dei ragazzi piacentini che vogliono metterci la faccia, condividere le loro storie e i loro talenti, costruire insieme il futuro.Il progetto “ No neet work in progress” sostenuto da Anci e Dipartimento na-zionale per la gioventù e il servizio civile, nell’ambito del bando Comunemen-te Giovane, ha rappresentato un’ulteriore occasione di crescita per la nostra città. In questa pubblicazione estremamente ricca e qualificata proviamo a dar conto dei principali risultati nella cornice più ampia di un lavoro comples-so, difficile, ma allo stesso tempo entusiasmante.

* Assessora alle politiche educative e giovanili del Comune di Piacenza

di Giulia Piroli *

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L’affascinante viaggio condotto con il progetto “No neet work in progress” è partito da impegnative domande e da un’appassionata ricerca di sen-so, elementi indispensabili per orientare azioni e interventi di contrasto alla precarietà giovanile basati sul tentativo di ri-conoscimento di un fenomeno sfuggente e complesso. No neet è stata una sorta di invocazione e di programma, l’intuizione iniziale, il manifesto ideale basato sulla convinzione che andasse smontata la profe-zia e gli stereotipi di una narrazione centrata sull’epifania di una generazione perduta e arresa, fatta di fantasmi. Attraverso il coinvolgimento attivo a cascata di due youth worker, di dieci peer educator, di un centinaio di ragazzi con la voglia di mettersi in gioco si sono esplorate le storie di vita, progettati nuovi spazi e forme di partecipa-zione, si è fatta formazione a partire dalle esperienze condivise, si è costruito

uno spazio di parola, di in-contro di progetto.La cittadella del lavoro e della creatività giovanile che ha trovato casa a Spazio 2, un’ex Circoscrizione rein-ventata in un’operazione coraggiosa di rigenerazione urbana, è stato il crocevia di un’avventura che ci ha portato a confrontarci con i ragazzi di Piacenza ma anche con le realtà italiane di innovazione sociale più

avanzate.

Il contesto di riferimento, la dimensione della precarietà I dati statistici hanno costituito un punto di partenza imprescindibile per l’in-quadramento del fenomeno, arricchiti da un lavoro di ricerca qualitativa e autobiografica condotta in questi anni. Presentiamo qui una breve sintesi.Nelle classi di età giovanili la popolazione piacentina presenta livelli di par-

Capitolo 1 - To neet or not to neet - I dilemmi della precarietà di Giuseppe Magistrali 1

1 Dirigente del Comune di Piacenza, esperto di politiche educative e sociali. E’ autore tra l’altro del volume “Il futuro delle politiche sociali in Italia”, FrancoAngeli.

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tecipazione al lavoro contenuti: il tasso di occupazione dei giovani appar-tenenti alla fascia 15-24 anni è pari al 22%. Più significativa è la quota di occupati nella fascia successiva: tra i residenti di età compresa tra i 25 e i 34 anni lavorano circa sette giovani su dieci.L’analisi di genere evidenzia un significativo divario tra maschi e femmine nella partecipazione al lavoro dei giovani. Nella fascia di età 15-24 anni il divario di genere è di 8,7 punti percentuali a favore dei maschi, nella fascia successiva (25-34 anni) la differenza di genere risulta ancora più marcata (24,7 punti percentuali). I motivi della scarsa presenza di giovani nel mercato del lavoro sono da ricercarsi non solo nella maggiore difficoltà rispetto al passato nell’ingresso e permanenza nel mercato del lavoro, ma anche negli alti livelli di scolariz-zazione e quindi nella prolungata permanenza dei giovani dentro al sistema formativo che fa ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro. Il tasso di scolarizzazione dei giovani residenti, costruito rapportando il nu-mero di iscritti nelle scuole secondarie superiori e i residenti di età compresa nella fascia dei 14-18 anni, mostra come circa 9 giovani su 10 risultano inseriti in un percorso di studi superiori. I dati rilevati con riferimento alla popolazione scolastica ci offrono un’altra indicazione: nel corso degli anni, accanto alla crescita della partecipazione scolastica, sono cambiate le scelte di studio dei giovani piacentini, sempre più orientate verso i licei, a discapito degli istituti tecnici. Un altro indicatore utile per comprendere il grado di investimento in istruzio-ne da parte dei giovani residenti è rappresentato dal tasso di scolarizzazione universitaria, pari al 47%. Un aspetto interessante che emerge è la maggiore propensione delle ragazze a conseguire livelli più elevati di istruzione. I giovani piacentini, pertanto, scelgono di investire a lungo nella propria for-mazione; rimangono per diversi anni inseriti nel sistema formativo e solo in minima parte entrano nel mercato del lavoro. E’ quindi interessante osservare se al termine del percorso di studi l’inseri-mento nel mercato del lavoro sia efficace. I dati Istat relativi al tasso di disoc-cupazione disaggregato per fasce di età evidenziano come la fase di ingres-so nel mercato del lavoro per i giovani sia caratterizzato da forti difficoltà; i dati disponibili evidenziano per entrambe le fasce di età considerate una maggiore difficoltà per le ragazze a trovare (o mantenere) un’occupazione.La debolezza della domanda di lavoro e le forti difficoltà di inserimento oc-cupazionale nell’attuale periodo di crisi hanno penalizzato in modo evidente soprattutto la componente giovanile del mercato del lavoro.Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) risulta sicuramente pre-occupante, anche se leggermente inferiore alla media emiliano-romagnola ormai vicina al 30% e a quella italiana che drammaticamente coinvolge un

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giovane su due. Solo tre Paesi dell’Unione Europea registrano tassi di di-soccupazione più elevati di quelli italiani (Spagna 53,2%, Grecia 52,3% e Croazia 45,0%), mentre sono tre i Paesi che sono riusciti a mantenere la disoccupazione giovanile al di sotto del 10%: Germania (7,7%), Norvegia (7,9%) e Austria (9,7%).I giovani incontrano in questi anni di crisi forti difficoltà nel trovare e mante-nere un impiego. Essi si affacciano sul mercato del lavoro in un periodo in cui la domanda di lavoro è bruscamente diminuita. A partire dal 2011 si è assistito ad un aumento esponenziale dei livelli di disoccupazione giovanile, soprattutto per la fascia di età 15-24 anni. I motivi sono da ricercarsi nel generale deterioramento del mercato del la-voro e nella caduta dei fabbisogni occupazionali delle imprese, che han-no comportato la contrazione delle opportunità di trovare un’occupazione. La crescita della disoccupazione giovanile può essere collegata anche alla maggiore flessibilità connessa alle forme contrattuali più diffuse fra questi lavoratori. Negli ultimi anni la crescente diffusione di forme lavorative flessibili ha contribuito ad abbattere le “barriere all’ingresso” nel mercato del lavoro giovanile, consentendo a tantissimi giovani di entrarvi con maggiore facilità. La crisi ha però rallentato i processi fisiologici di trasformazione dei contratti flessibili in stabili, mentre sono aumentati i flussi di quanti sono passati dall’a-tipicità verso la disoccupazione.Un altro fattore che limita l’accesso al lavoro per la componente giovanile, accanto alle oggettive difficoltà in una fase di recessione, si lega alla mino-re domanda di lavoro “sostitutiva”, per rimpiazzare i lavoratori anziani che accedono alla pensione. Si tratta della conseguenza dei provvedimenti di riforma delle pensioni, che aumentando i requisiti di età e anzianità, fanno posticipare l’uscita dal lavoro per pensionamento.L’aumento della disoccupazione degli ultimi anni si accompagna anche ad un incremento della quota di disoccupati di lunga durata, in cerca di lavoro da almeno 12 mesi: molti dei disoccupati, una volta perso il posto di lavoro, non riescono più a ritrovare un impiego stabile, restando intrappolati in for-me di disoccupazione di lungo periodo. Lunghi periodi di inattività possono ridurre la capacità di reinserimento professionale del lavoratore, in quanto si genera un deterioramento del capitale umano. Si tratta di un aspetto par-ticolarmente critico per i giovani che hanno da poco completato gli studi, che non riescono a mettere a frutto nella fase di inserimento professionale le competenze acquisite durante il percorso scolastico.Il fenomeno dei cosiddetti neet (Not in Education, Employment or Training) evidenzia infine in modo emblematico quanti giovani non stanno investendo sul proprio capitale umano in termini sia di formazione che di sviluppo di competenze professionali, per effetto dell’acuirsi delle difficoltà di ingresso

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nel mercato del lavoro. L’alta quota di giovani italiani in condizione di NEET si spiega in buona parte con le difficoltà sperimentate nella transizione verso il mercato del lavoro una volta concluso il percorso di studi. Sono proprio le difficoltà associate alla mancanza di occasioni di lavoro che li spingono a rinunciare a lavorare, a cercare attivamente un impiego e anche ad investire nella propria formazione.La presenza di questo ampio bacino di offerta di lavoro giovanile non utiliz-zata dal sistema produttivo si lega alla percezione di insicurezza per il pro-prio futuro, alle difficoltà di formulare progetti, con forti rischi di disperdere l’investimento che il Paese ha fatto nella formazione dei giovani. A Piacenza il numero dei ragazzi al di fuori dei percorsi formativi e occupazionali supera ormai il 20% della popolazione di riferimento, dati che ci allineano al con-testo regionale e che rappresentano un rischio epocale di eclissi di futuro.

Una generazione immersa nell’incertezzaUno sforzo notevole del progetto è stato proprio quello di interpretare, smon-tare e problematizzare proprio la categoria di neet, che rischia di diventare una facile ma insidiosa etichetta. Come ci ricorda anche Alessandro Rosina dobbiamo stare at-tenti ai facili cliché e agli stereotipi che ci dipingono tout court una generazione perduta fatta di fan-tasmi arresi e rinun-ciatari. La condizio-ne multiforme della precarietà è risultata una chiave interpre-tativa più idonea e convincente.Pur con sfumature molto diverse a seconda dell’età, delle condizioni, delle storie personali, i ragazzi incontrati ci parlano infatti di un’ incertezza sistemica. Le rotte non sono certe e definite, si viaggia fuori dai binari, una dimensione che può al-ludere tanto alla scoperta quanto allo smarrimento. Mondi nuovi si profilano tra minaccia e opportunità. Dal lavoro di ricerca quali-quantitativa condotto in questi anni ricaviamo al-cuni elementi che ci aiutano a orientare la barra delle politiche.Senza dimenticare i tanti segnali preoccupanti, dalla disoccupazione giova-nile all’inadeguatezza del sistema formativo, i giovani piacentini tratteggiano

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tuttavia anche possibili scenari e orizzonti di futuro. La precarietà si carat-terizza infatti anche come inedito incremento storico di possibilità di scelta, occasione di trovare sentieri non battuti. Sull’asse crisi-precarietà-fiducia/sfiducia si gioca un’uscita non rassegnata o fatalista dalle difficoltà attuali. Il problema è come trasformare l’osserva-zione della crisi in tensione positiva verso il cambiamento. Si tratta di ritrova-re il senso del rischio non come maledizione ma come occasione di crescita.In generale due ragazzi su tre si dichiarano fiduciosi nel futuro. La percen-tuale di fiducia nella scuola scende sotto il 60% (con le femmine più fiducio-se), e prevale invece la sfiducia per il lavoro (60%), in questo caso sono le ragazze a risultare più scoraggiate. Luoghi rifugio per eccellenza gli amici (90% di fiduciosi) e anche la famiglia (86%) soprattutto nei più giovani. La coppia ottiene la fiducia del 71% con maggiori performance nella fascia 15-24 anni. Le femmine hanno più fiducia dei maschi nei confronti del gruppo degli amici e nella coppia.Due terzi dei più giovani piacentini percepiscono prevalente la tendenza alla collaborazione rispetto alla competizione. Emerge anche il bisogno di contesti più regolati, oltre che di libertà d’azione. La prima polarità legata alla percezione del rischio da un lato, la seconda alla ricerca di autonomia. Spesso regole e contesti normativi sono vissuti dai giovani come presuppo-sti di autonomia e protagonismo.Sul piano lavorativo la percezione di precarietà caratterizza i vissuti dell’80% dei ragazzi di Piacenza, un elemento che trascina l’intera visione esistenziale nei territori dell’incertezza anche se, come detto, amici e famiglia contri-buiscono a fornire stabilità ai nostri ragazzi. Su questo versante crescono in modo significativo le attese di stabilità collocate nel futuro, una possibi-le uscita dalla crisi percepita dai ragazzi su un orizzonte temporale di me-dio-lungo periodo. Una leggera maggioranza dei ragazzi si aspetta un futuro più difficile che tranquillo.I vissuti sulle proprie competenze e capacità di agire e assumere decisioni e iniziative sono positivi per la maggioranza dei ragazzi, anche se al di sotto del dato regionale. Nel contesto piacentino si confermano gli alti livelli di riconoscimento delle proprie capacità nei luoghi rifugio, mentre crollano le aspettative di riconoscimento nella sfera scolastica e lavorativa. I ragazzi (e soprattutto le ragazze) sentono una marcata crescita dei rischi, cui si somma una percezione prevalente di incapacità di farvi fronte. Una combinazione che sembra alludere ad un diffuso scetticismo sulla possibilità di incidere sul futuro. La maggioranza dei ragazzi piacentini dichiara di prendere decisioni in mi-sura più rilevante rispetto al passato, ma al contempo segnala la maggior difficoltà odierna nel farlo.

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Dar voce al futuro. Le prospettive delle politiche giovaniliA fronte degli scenari che abbiamo ricostruito in profondità, emergono le trame di un impegno collettivo delicato e complesso. I temi legati alle pro-spettive non solo occupazionali per i giovani, come pure le suggestioni con-nesse alla dimensione educativa delle nostre comunità, vanno considerati nodi strategici per le politiche sia nazionali che locali. La possibilità di futuro da assicurare alle giovani generazioni è “la questione” da mettere al centro dell’agenda politica, delle scelte economiche, culturali, civili, nonché della programmazione di un nuovo welfare capace di leggere in profondità i feno-meni e i bisogni sociali emergenti.Vanno sostenute azioni di sistema che vedano scuola, servizi educativi, ser-vizi socio-sanitari, associazionismo e terzo settore, famiglie alleati per pro-muovere interventi innovativi capaci di contrastare le diverse forme di disa-gio e far fronte ai bisogni educativi in una logica di inclusione attiva.A fronte degli scenari e dei vissuti rappresentati la precarietà può diventare una condizione vivibile e sfidabile a patto che non cali il silenzio della rimozio-ne e della rassegnazione. La vulnerabilità che si annida nella precarietà deve dunque essere “dicibile”, costituire un quadro di senso che collega mondo giovanile e mondo adulto in cerca di responsabilità e risposte condivise. Diversamente i ragazzi rischiano di vivere come desaparecidos sociali al tempo della crisi. I riferimenti ormai ricorrenti su chi non è più nei percorsi scolastici o formativi e non riesce ad affacciarsi al mondo del lavoro se-gnalano correttamente i rischi di una scomparsa dalla scena di ragazzi che finiscono per rintanarsi da qualche parte senza riuscire ad affrontare le sfide evolutive che si impongono. La rassegnazione e la rinuncia portano alla lun-ga a rischi di derive patologiche inquietanti.Il lavoro di coinvolgimento avviato con il progetto “No neet work in progress” ha avuto proprio la finalità di far emergere e quindi sfidare questa condizione cercando di sostenere con consapevole incoscienza la capacità di agire.L’ossimoro rende la complessità e il fascino della sfida. Le vie assistenziali o paternalistiche portano infatti nel vicolo cieco della crescente dipendenza giovanile. Al di là degli slogan i protagonisti nella costruzione del loro futu-ro (anche lavorativo ovviamente) non possono che essere i ragazzi stessi. Nel quadro dei riferimenti teorici di numerosi autori, tra cui il premio Nobel Amartya Sen, va scelta la strada del modello noto come “capabilities ap-proach”, promuovere forme di competenza esistenziale in un contesto dato, capaci di evocare buoni funzionamenti ed esperienze creative ed originali di successo. Del resto sostenere l’imprenditoria giovanile, come ha fatto il Comune di Piacenza con le diverse edizioni di “Giovani e idee d’impresa”, un articolato percorso di supporto alle start up può apparire temerario (a fronte della mortalità delle imprese testimoniate quotidianamente dalle fonti

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statistiche); diventa però una via percorribile e necessaria se si riescono a costruire condizioni tali da ribaltare la profezia.Il rifiuto di paternalismo e dipendenza non vuol dire che i ragazzi possano essere lasciati da soli. Per cavarsela è necessario innescare connessioni, al-leanze, relazioni nutritive e reciproche. E’ quello che si sta tentando a Spazio 2, la nostra “cittadella del lavoro e della creatività giovanile” che vuole essere crocevia, luogo di progetto, scambio e incontro; banco di prova per inedite forme di lavoro, aggregazione confronto tra generazioni. Una vera e propria “impresa sociale” attorno alla quale costruire un patto territoriale inteso non come ennesima ritualità ma come rete di sostegno capace di promuovere la fiducia. L’enfasi posta a tutti i livelli (dai programmi dell’Unione Europea alle progettazioni decentrate) sui temi della creatività e dell’innovazione come possibili vie d’uscita della crisi e condizioni di promozione del “lavoro gio-vane” deve essere adeguatamente compresa, per non ridursi a semplice moda o scorciatoia. In realtà va concimato un terreno in grado di far germo-gliare idee forti e premiare intelligenze e coraggio che non mancano. Come pure appare indispensabile rafforzare i livelli di conoscenza delle op-portunità esistenti attraverso azioni mirate di informazione, orientamento, tutoring. Si tratta però di ripensare le tradizionali strategie di comunicazione, valorizzando in chiave orizzontale lo scambio di esperienze e di saperi tra i ragazzi stessi. In questo senso andrà rivista la funzione dei servizi ormai con-solidati come gli Informagiovani e gli altri sportelli dedicati, in una strategia comunicativa fortemente dinamica e rinnovata. La responsabilità che ci rimandano le esperienze condotte finora è quella di costruire contesti sociali locali nutritivi che rendano il rischio un’insostituibile esperienza esistenziale e non un salto nel vuoto. La nostra responsabilità adulta è di farci coltivatori di speranza. Come dice Ivo Lizzola “Uomini e donne di parola, che non ti abbandonano, che ti ac-compagnano e poi ti lasciano andare”. Un’immagine splendida del legame che non imprigiona ma libera ed emancipa. Speranza da interpretare non come arte della previsione basata su progettazioni e calcoli, ma come visio-ne che rompe le logiche e consente al futuro di non essere semplice ripeti-zione. Per sovvertire la logica delle sliding doors, tornelli che rimandano al punto di partenza nel gioco dell’oca estenuante cui sono condannati troppo spesso i ragazzi, si tratta di recuperare quel diritto vitale all’aspirazione di cui parla Appadurai riferendosi alle periferie di Mombay, in tragitti originali e inediti la cui trama deve essere scritta dai protagonisti.Fuor di retorica l’esperimento piacentino ha messo in campo giovani corag-giosi che hanno gettato un sasso in acqua per provocare cerchi concentrici di coinvolgimento e di speranza.

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Un libro, una storiaQuesta pubblicazione vuole essere un racconto del progetto capace di dar conto delle tante cose che lo hanno preceduto e accompagnato e delle prospettive che si aprono, come anticipa nella sua introduzione Giulia Piroli. Il contributo di Giovanni Campagnoli inquadra tutto il nostro percorso all’in-terno della questione decisiva del recupero degli spazi urbani dismessi per farne luoghi, allo stesso tempo simbolici e concreti, di sperimentazione di nuove politiche giovanili. Non a caso numerosi bandi nazionali e regionali insistono su questa prospettiva di riuso degli spazi per riqualificare le nostre città e sostenere il protagonismo giovanile. L’autore ripercorre la vicenda di Spazio 2 operando un prezioso confronto con quanto sta avvenendo a livello nazionale.Stefano Laffi presenta l’analisi dei tragitti esistenziali dei ragazzi coinvolti at-traverso un abbecedario delle parole chiave che scaturiscono dalle storie di vita raccolte. Un lavoro di ricerca narrativa che costituisce un passaggio fondamentale del testo e di tutto il progetto. Partire dalle domande, dai punti di vista, dalle evocazioni per non arrenderci a visioni e frasi fatte, a formule e stereotipi, questo abbiamo voluto fare in sintonia con un percorso creativo che trova consonanze anche con quanto raccontato in altre parti del volu-me. Sulle suggestioni di una nuova pedagogia capace di attivare energie e sguardi inediti è incentrato il contributo veramente originale di Davide Fant che ci invita ad un viaggio virtuale dalle macerie del Bronx negli anni ’70 alle periferie delle nostre città, all’interno dei nostri centri giovanili. Nella cornice della tre giorni di maggio di Spazio 2, to neet or not to neet, in un pomeriggio di pioggia torrenziale va in scena un’alchimia di suoni, parole e immagini per scrivere insieme il manifesto della pedagogia hip-hop, capace di sfidare la precarietà e la rinuncia.Gessica Monticelli, che assieme a Leonardo Tonelli ha accompagnato l’in-tero progetto in qualità di youth worker, traccia una sorta di bilancio-rilancio dello stesso, alternando il racconto delle azioni e dei principali risultati con le testimonianze live dei peer educator che ne hanno costituito l’ossatura e l’a-nima. Stefania Mazza, Anna Paratici, Claudia Praolini ed Evelyn Uhunmwan-gho raccontano le fasi, i presupposti metodologici, i prodotti e i risultati del progetto pluriennale Tracce di futuro, ospitando le voci di insegnanti e ragaz-zi. Ne esce l’affresco di un’autobiografia comunitaria da raccordare stretta-mente al tragitto di ricerca e approfondimento realizzato da No neet work in progress.Last but non least, Paolo Menzani ci offre un affascinante viaggio nel 2020, dove i piani temporali e le iniziative di Spazio 2 si intrecciano e si mescolano e un brindisi finale diventa preludio di buon futuro…

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Capitolo 2 - Rigenerare gli spazi urbani, nuove politiche per i giovani

di Giovanni Campagnoli 2

La crescita del vuo-to: da persone sen-za spazi a spazi senza più persone.Il nostro Paese è passato, nel giro di pochi anni, da un’Italia formata da persone senza spa-zi, ad una realtà di spazi senza più per-sone. Si costruisce con la velocità di consumo del suolo di 8 metri al secon-

do, l’urbanizzazione è cresciuta tra il Dopoguerra ed il 2000 del 400%, men-tre la popolazione del 27%... La svalutazione dei beni immobiliari proprio per questo incremento di offerta sul mercato (che ne provoca un calo dei prezzi), ha causato una crisi di “sovra produzione”, che – come negli Usa ed in Spagna – è stata l’origine di difficoltà ben più complessive nel sistema economico, innescando crisi non solo di fine ciclo, quanto piuttosto strut-turali. Non è un caso che questa fase perduri dal 2008 e che oggi il Paese si ritrovi un patrimonio di oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (significa più di due volte la città di Roma vuota), tra abitazioni (5 milioni) ed altri immobili pubblici, parapubblici e privati, come ex fabbriche e capannoni industriali dismessi, ex-scuole, asili, oratori e opere ecclesiastiche chiuse, cinema e teatri vuoti, monasteri abbandonati, spazi di proprietà delle società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative Case del Popolo, Cantine Sociali, colonie, spazi comunali chiusi (sedi di quartiere, ospedali, scuole ed altri spazi di proprietà quali lasciti), stazioni impresenziate, Case cantoniere non utilizzate, beni confiscati alla mafia, “paesi fantasma”. E la lista dell’Italia la-sciata andare a se stessa sarebbe ancora lunghissima.

2 Economista, consulente e formatore è direttore della Rete Informativa Politichegiovanili.it. E’ autore tra l’altro del volume “ Riusiamo l’Italia, edizioni Il sole24ore.

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Fig. 1: Le tipologie di spazi vuoti oggi in Italia

Secondo il Censis, siamo un Paese dal “capitale inagito” proprio perché l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio cultu-rale di cui dispone (330 miliardi di euro). Senza contare il valore economico dei patrimoni potenzialmente oggetto di lasciti ad istituzioni di beneficenza entro il 2020, che si può stimare in circa 105 miliardi di euro, corrispondenti ai patrimoni di circa 340 mila famiglie, che non hanno figli e parenti, convi-venti al momento della morte (v. più avanti Fig. 3). Oggi però, la crescente disponibilità di spazi è dovuta anche a cambiamenti e trasformazioni dei processi produttivi, con i nuovi concetti di manifattura, andando ad eviden-ziare che il sistema di produzione / distribuzione dei beni che ha dominato gli ultimi 60/70 anni, potrebbe non essere l’unico, di certo non è già il più efficiente. Sono tutti segnali di una transizione da una economia ad un’altra, che in generale segnalano la fine di una società basata solo su logiche (e pensieri) industriali e statalisti. Questo ripensamento di modelli, porta avanti anche una diversa concezione delle città e dell’abitare, dove la crescita di “spazi ibridi”, ora luoghi marginali o “residui della storia”, segnala che qui si stanno scrivendo pezzi di futuro, fatto di innovazioni, micro-impresa e talenti creativi, accompagnato sempre dalla partecipazione e dal coinvolgimento delle comunità3.

3 V. Ilsole24ore: “Spazi vuoti rianimati da start up sociali”, www.ilsole24ore.com/art/tecno-logie/2014-12-21/spazi-vuoti-rianimati-startup-sociali-081323.shtml?uuid=ABHa53TC

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Sono percorsi trasversali per geografia e funzione d’uso originaria degli spa-zi (v. Fig. 2), accomunati dal presentare una vocazione culturale e creativa innovativa, occasioni di nuova socialità e di percorsi partecipativi dal basso. Con un obiettivo: riempire i vuoti di passioni, idee, talento, competenze4. A partire dalle periferie.

Fig. 2: Le vocazioni originarie delle best practices censite dalla ricerca di

“Riusiamo l’Italia”La Fig. 2 conferma come oggi il tema del riuso / rigenerazione degli spazi ha come suo naturale “terreno di gioco” principalmente quello delle città, specie quelle medie e grandi, lì dove il fenomeno del vuoto è ben visibile e diffuso a causa i tanti “scheletri” di edifici ex industriali, caserme, case sfitte o invendute, oltre a strutture pubbliche vuote ed abbandonate e, sempre più, anche spazi del terziario chiusi (uffici e banche in primis). In realtà, il tema del riuso / valorizzazione dei luoghi riguarda anche piccoli centri, il Sud Italia, nonché aree interne e non solo quelle metropolitane. Questa dimensione legata alla “innovazione sociale” non presenta infatti aspetti di “divide” tra Nord e Sud, tra centro e periferie, metropoli e aree interne. Lo dimostrano anche i dati dell’ultimo bando Culturability/Fonda-

4 V. www.riusiamolitalia.it

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zione Unipolis: dei 522 progetti presentati - da quasi 3.000 under35 - su altrettanti beni da riusare già disponibili, ben un terzo provenivano da Puglia, Sicilia e Campania. Non solo: l’anno prima le istanze provenivano per il 40% da piccoli Comuni e per il 60% da città capoluogo di provincia. Conferme a questa analisi arrivano anche dai risultati del bando ministeriale “Giovani per la valorizzazione dei beni pubblici” che puntava a sostenere il recupero di spazi comuni (nelle quattro Regioni del Sud a “Obiettivo convergenza”), al fine di restituirli al territorio, dando impulso all’imprenditoria giovanile e all’occupazione sociale. Risultati: ben 590 domande pervenute, delle quali 66 hanno ottenuto finanziamenti di circa 200.000 euro ciascuna.

Il valore strategico del recupero degli spazi urbaniIl riuso / valorizzazione di spazi vuoti è dunque un fenomeno che si attiva sempre più spontaneamente, sempre più a partire da cittadini che spesso sono gruppi di giovani “pionieri” e da tanti altri team di innovatori culturali e sociali. Tutto ciò rimane ancora “sotto traccia”, ma – cominciando a guar-dare anche ai contenuti che prendono vita in questi contenitori - sempre più si ha la sensazione di essere di fronte a segnali di un modello socio-econo-mico basato su nuovi paradigmi e valori, che cominciano a delinearsi. Così si assiste alla nascita di “fabbriche della conoscenza”, di co-working, incubatori ed acceleratori, green building, nuovi luoghi di arte e cultura, di welfare e nuovi sport, spazi di start up, arrivando a forme sempre più spinte di sharing economy (dove l’uso prevale sulla proprietà), di valorizzazione di intangibile assets (a partire da conoscenza e formazione), di fonti rinnovabili, di rigenerazione urbana e riuso anche temporaneo, di azioni di social and cultural innovation, di cohousing dove l’offerta di abitazioni si costruisce ag-gregando nuovi modelli di abitare, su comunità di interessi e valori comuni (es. rapporto casa, famiglia, lavoro). Tutto ciò esprime le direzioni verso le quali si sta andando, senza dimentica-re un fatto fondamentale: le esperienze di riuso attivate, hanno visto spazi e luoghi trasformarsi in beni comuni, “pubblici”, mai divenuti “luoghi privati” o “per pochi”. Prevale il cooperare, il condividere (che si esprime con i termini di co-working, sharing, crowdfunding, wiki) ed un approccio interdisciplinare alla soluzione dei problemi, dove le conoscenze sono uno strumento per la soluzione dei problemi e non la soluzione, vista la complessità degli stessi5. Tutte queste sono delle nuove sperimentazioni, capaci di originare questi luoghi che oggi rappresentano “nuove botteghe di mestieri e professioni”, paragonabili alle “botteghe rinascimentali” che hanno contribuito all’uscita

5 Lo Skyline dell’economia leggera, Ilsole24ore, v.: www.fondazionefeltrinelli.it/wp-content/uploads/2015/07/. Lo-Skyline-delleconomia-leggera.pdf

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dalla crisi dell’era precedente (il Medioevo) e formato una classe di innova-tori, artisti ed inventori di cui ancora oggi si parla. Botteghe ed artisti nati generalmente in “periferia”, per poi trasferirsi nelle città (es. Leonardo “da Vinci”, Michelangelo da “Caprese”, ecc.). In epoca più recente, “bottega” è stata sicuramente anche il mitico garage di “Palo Alto” di Steve Jobs, con i dischi di Bach e Janis Joplin, i libri di cultura hippie e zen, luogo condiviso con altri colleghi e da cui partì la sua grande avventura. E prima ancora la “factory” di Andy Warhol, le sale prova dei Beatles, ecc6. Questo è un cambiamento forte nel sociale, quando la corsa da parte di molti attori era a cercare luoghi ad uso esclusivo. Oggi questi progetti inno-vativi che rigenerano e danno nuova vita a spazi, propongono un mix di più dimensioni in quanto hanno a che fare con questioni legate a cultura, arte e creatività, innovazione, misurazione dell’impatto sociale, welfare, sviluppo di collaborazione e reti, sostenibilità economica, occupazione giovanile.La rinascita e il riuso dei “vuoti” urbani e non, di edifici, siti industriali, aree abbandonate o sottoutilizzate a partire dalla cultura e dalla creatività, è quin-di un tema di rilevante attualità, che sta assumendo una dimensione quanti-tativa e qualitativa importante (vedi Fig. 3), anche ai fini occupazionali. Secondo le stime dello scorso Rapporto Censis, in Italia, il numero di lavo-ratori nel settore della cultura (304.000, l’1,3% degli occupati totali) è meno della metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Inve-ce, in molte di queste iniziative legate al riuso / valorizzazione, la cultura può rappresentare il punto di partenza per avviare progettualità dal forte impatto

6Da Campagnoli G., “Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start up culturali e sociali”, Ilsole24, Milano, 2014.

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sociale, con processi di collaborazione e co-progettazione tra cittadini, or-ganizzazioni private e istituzioni pubbliche.

Fig. 3 I numeri del riuso

Dimensioni Stime Fonte

In questi percorsi vengono messe in campo piani di sostenibilità economi-ca con start up sociali e culturali composte molto spesso da under35, che puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni ex bancarie, alla partecipazione a bandi. I “numeri del riuso” dicono oggi di 5.000 esperienze attivate, con 1 miliardo di euro di fatturato annuo, dove emerge però – di interessante – che questi sono tutti posti di lavoro nuovi, “creati” là dove prima c’era uno spazio vuoto. Non solo: in queste esperienze, emerge la capacità dei progetti di fungere da moltiplicatore di contributi pubblici, là dove vengono erogati, generando da tre a cinque volte tanto, a partire dal terzo anno7.Infine due osservazioni sul settore dei beni culturali. Il nostro è anche il Paese dalla “bellezza diffusa”, non solo nelle città, ma nei piccoli centri delle aree interne (v. Fig. 4) e che rischia – anche in questo caso – di portare ad una situazione di “crisi di offerta”. La domanda però sembra molto interessante: il Censis rileva infatti che gli italiani si aspettano quale maggior impulso al mi-glioramento della loro vita, proprio la riqualificazione del patrimonio storico/artistico nazionale.

7www.comune.scandicci.�.it/rassegne/bancadati/20160229/SIM1064.PDF

I Centri Indipendenti di Pro-duzione Culturale sul territorio torinese”di Enrico Bertacchini e Gian-gavino Pazzola - Edizioni GAI 2015

Valore spazi pubblici 330 miliardi A. Bollo, Che fareValore spazi privati 105 miliardi Enti non profit, n. 3/2011 (pag. 23)N° spazi già riusati 5.000 unità IperPiano - Centro Studi horror VACUIImpatto socio economico 1 mld di euro “TORINO CREATIVA (200.000 euro budget medio annuale a spazio) 100.000 persone - (20 operatori a spazio) 13% con contratti continuativi, 34% temporanei, 53% volontari

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Fig. 4: Le dimensioni della “bellezza diffusa” in Italia

Beni StimeBeni di interesse culturale (cioè storico, artistico, 40.000architettonico presenti negli elenchi delle Soprintendenze) Musei pubblici e privati censiti dall’Istat 4.588Festival a carattere culturale (Censis) 1.200Eventi e sagre ogni anno 17.600

Nonostante la crescente diffusione di queste esperienze, sono ancora molte le criticità, a partire dal rapporto con la “finanza”, piuttosto che la carenza di una formula giuridica appropriata (soprattutto nella gestione dei rapporti con l’Ente Pubblico), quanto ad aspetti legati alla progettazione in “ambienti low cost” ed in situazione incerte, sempre “in via di definizione”, piuttosto che questioni relative alla sostenibilità economica e finanziaria di medio lungo periodo (oltre lo start up quindi), agli aspetti di governance e di organizzazio-ne in situazioni per lo più informali, partecipative, orizzontali, per non parlare poi degli aspetti burocratici autorizzativi che in questi spazi a “vocazione indecisa” possono costituire veri e propri blocchi ai percorsi. Le gestioni di questi spazi, quasi tutte stressate dal “qui e ora”, dall’urgen-te/importante, dal problem solving dell’emergente, lasciano meno spazi di pensiero strategico di sviluppo, mettendo in luce difficoltà di coordinamento tra queste esperienze (ad oggi non esiste un network formale di questi luo-ghi, mentre prevalgono – e sono ben salde - relazioni informali). L’esperienza di Spazio 2Le situazioni descritte in precedenza pongono, sempre più frequente, la questione di come si possa agire concretamente. Una domanda posta sia da amministrazioni pubbliche, attente a questi fenomeni di cambiamento, che da giovani “potenziali” riutilizzatori di spazi. A Piacenza questi due elementi trovano casa a “Spazio 2”, un ex centro di quartiere prima sotto utilizzato, poi rimasto vuoto. Giovani e spazi urba-ni, qui, hanno trovato come catalizzare un team di realtà del Terzo settore (associazionismo e cooperazione) che si sono messe in gioco ed hanno intrapreso una nuova strada, occupandosi non solo di assistenza socio edu-cativa ma anche di rigenerazione urbana. Il percorso di Piacenza parte da una storia che rispetto alle politiche giova-nili si è avviata con i tre percorsi di “Giovani idee di impresa”. I partecipanti, complessivamente un centinaio, segnalavano che le idee avrebbero dovuto atterrare in luoghi in grado di prevedere spazi con un uso condiviso. Poi la città ha una forte tradizione di spazi di aggregazione giovanile, che da anni

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formano un sistema di offerta di servizi. C’è uno staff politico amministrativo forte, che si interroga sulle nuove questioni ed ha portato il tema dei Neet dentro l’Assessorato. Infine c’è un Terzo settore di tradizione, maturo, che può mettersi in rete per sperimentare modelli innovativi di risposta ai bisogni dei giovani, a partire proprio dalla questione degli spazi. Questo mix ha saputo convogliare risorse (comunali, regionali e legate al bando Comunemente giovani, Anci / Dipartimento Gioventù) ed attivare un percorso a forte coinvolgimento giovanile, per la rigenerazione di Spazio 2. Un team di organizzazioni locali si è aggiudicata la concessione delle strut-ture e la gestione, coinvolgendo un gruppo di giovani peer che – a cascata – hanno coinvolti altre ragazze/i in città. Un esperimento con un forte impatto sociale, che ha visto non solo una co-progettazione dello spazio, ma una vera e propria co-realizzazione delle attività. Con una particolarità: le proposte sono percorsi che hanno tutte una ten-sione a ricercare nuovi pubblici giovanili, interessati ad attività formative su interessi di nuove generazioni per l’acquisizione delle 8 competenze chiave spendibili anche sul mercato del lavoro (v. Fig. 5). Oltre ad eventi culturali attenti a fare emergere le espressioni creative, ma ancora un po’ under-ground, della città. In questo percorso, le risorse in gioco sono prima di tutto le competenze di giovani che vengono spese per altri giovani e le loro reti sociali. In questo modo avviene il coinvolgimento diretto di più persone, ingaggiate anche sulle modalità di riuso di un bene che è già, immediata-mente, disponibile. Uno spazio che diventa una piattaforma capace di accogliere nuove pro-poste, un luogo dove i contenuti prendono una forma grazie ad un conte-nitore. Queste modalità di lavoro con i giovani sono oggi le più interessanti, che trovano maggior interesse, consenso, partecipazione. Non più un luogo che eroga servizi ai giovani, ma uno spazio in cui i giovani sono al servizio di altri giovani, della città.

Fig. 5: Le otto competenze chia-ve previste dall’Unione Europea quale finalità dei progetti di politi-che giovanili: un esempio di valu-tazione quantitativa

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Il design dello sviluppo del progetto “No neet” (Fig. 6) prevede un progredire di fasi e di coinvolgimento di persone sempre maggiore, generando un im-patto ben superiore alle risorse iniziali.

Fig. 6: Il design del progetto “No neet”8

In questo progetto, la pubbli-ca amministrazione ha il ruolo di promotore nel percorso, ha innovato nei requisiti richiesti nell’individuazione del gestore (valutazione alta del progetto e meno delle risorse messe in gioco), ha semplificato i re-golamenti gestionali ed auto-rizzativi, valutando il progetto di riuso per la sua capacità di generare impatto sociale (In-clusione, nuova cittadinanza,

partecipazione attiva) e culturale (eventi, live, folklore, memoria) sul territorio. L’Assessorato si è dotato di quei dispositivi per ridurre il rischio di formare “cattedrali nel deserto” o spazi non sentiti utili dalle comunità locali, puntan-do invece l’attenzione sul livello di innovazione del progetto, la tensione a generare nuova occupazione (giovanile in particolare), soprattutto in settori ad hoc (nuove forme di economia in primis).La pubblica amministrazione si occupa anche di monitoraggio e valutazione del progetto. Infatti ogni azione di questo genere va promossa individuando anche a priori i risultati attesi, in termini di quantità e qualità dei luoghi rige-nerati, processi creativi innescati, innovazione culturale e/o sociale sviluppa-ta, capacità di risposta ai bisogni individuati (in termini di risultati ottenuti), occupazione generata, ecc. Chiaramente anche questa fase – che diventa monitoraggio in progress e valutazione ex post – va resa pubblica ed attivata ciclicamente. Le risorse in gioco: nessuna operazione è a costo zero. Sicuramente si tratta di un percorso molto diverso dalla tradizionale programmazione delle opere pubbliche. Si tratta infatti in linea generale di agire su processi di innesco e di avvio dove il motto è “fare molto con poco”, dove vi è un “restyling crea-tivo delle funzioni d’uso” ed usando risorse che generano operazioni a forte impatto sociale sulle comunità. In questi percorsi di rigenerazione vi è poi

8 Rielaborazione da www.doppiozero.com/materiali/chefare/le-fatiche-della-rigenerazione

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una componente di lavoro volontario delle persone / comunità coinvolte, che si occupano della fase di avvio e innesco dei processi sulla base della passione (e quindi nella fase iniziale a costo zero). Nelle azioni di riuso/rigenerazione, l’attenzione è generalmente più sbilancia-ta sui processi sociali e culturali che si attivano localmente e sulle strumenta-zioni ed attrezzature tecniche necessarie (e spesso anche in ottica “tempo-rary” e di condivisione d’uso), le risorse economiche sono oggetto di attenta programmazione da parte del decisore pubblico, anche con un’ottica gene-rativa. Risposte a bandi diversi, attività di fundraising, crowdfunding, prestiti comunitari o bancari, sono di solito i principali strumenti. Non solo: il profilo di queste azioni è proporzionale alla capacità di tradurre in qualità creativa o innovativa il senso culturale / sociale del progetto di ri-generazione. Significa che le risorse investite dal Comune nella fase iniziale, devono prevedere dispositivi in grado di generare successive risorse co-stanti (e crescenti) nel tempo (es. bar, spazi per lo spettacolo dal vivo, ecc.).Questo nuovo modo di fare politiche giovanili (in un momento di forte disin-teresse nazionale) prevede che i giovani siano coinvolti con un approccio non di luogo connotante, quanto invece di uno spazio capace di accogliere ragazze e ragazzi “normali” e valorizzare lì capacità, talento, idee, sviluppare competenze chiave, professionalità, orientare al lavoro, alla vita.Volendo riconoscere un orientamento all’attuale politica giovanile di Piacen-za, è proprio quello di unire le dimensioni dell’esclusione/marginalità giova-nile, con quelle della promozione del talento e del merito9. Infatti per anni le politiche giovanili sono intervenute concentrandosi spesso sulle ali della popolazione giovanile (ed in particolare su quella delle marginalità / fragilità) e non su “ventre”, occupandosi prima di tutto degli esclusi e, poco, delle eccellenze (vedi ad esempio il fenomeno della “fuga di cervelli”10). Oggi l’in-tenzionalità dell’Assessorato è quella di unire i benefici di una società che punta proprio su inclusione e talento.Da tutto ciò emerge che la sfida del futuro delle politiche giovanili sarà quella di connettere politiche sociali, urbane, culturali, ambientali ed economiche, uscendo una volta per tutte dalla sfera del sociale, della marginalità, del disagio. Ciò, appunto, sempre valorizzando il ruolo dei giovani nei processi

9Ciò in linea anche con gli obiettivi della UE per il 2018, volti a creare per tutti i giovani, all’insegna della parità, maggiori opportunità nell’istruzione e nel mercato del lavoro e a pro-muovere fra tutti i giovani la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e la solidarietà (Fonte: Risoluzione del Consiglio su un quadro rinnovato di cooperazione europea in materia di gioventù (2010-2018), 29.11.2009).10Con 27.616 giovani tra i 20 ed i 40 anni espatriati lo scorso anno, ma secondo AIRE sono il doppio gli italiani all’estero rispetto a questo numero u�ciale.

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di cambiamento e creando una infrastruttura sociale aperta in grado di pro-muovere e vitalizzare altre nuove connessioni sociali.A Piacenza questa sfida può essere una delle migliori modalità per costruire coesione sociale e una nuova economia di comunità.

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Capitolo 3 – Storie di vita come alfabeto della condizione precaria

Di Stefano Laffi11

Premessa: le storie di vita, una questione di metodoIl progetto che abbiamo realizzato a Piacenza è basato su una particolare combinazione fra l’architettura delle relazioni di chi vi partecipa e la stratificazione delle loro esperienze di studio e lavoro. E’ una struttura per così dire a “cerchi concentrici”: due giovani youth worker a coordinare, cioè a motivare, sostenere, organizzare, connettere il lavoro del gruppo, il gruppo dei 12/13 peer, cioè giovani a vario titolo ascrivibili alla condizione di NEET, e poi la rete più ampia dei loro contatti nei rapporti fra pari, molti dei quali nella stessa condizione. In un arco di tempo di vita che va dai 18 ai 30 anni circa è presente con diversi gradi di intensità (anche nelle due figure di coordinamento) questa situazione di interrogazioni aperte, di ricerca di opportunità, di incertezza, di complessa organizzazione di attività diverse (frequentare corsi, fare colloqui, autoformarsi in un campo elettivo di interesse, coltivare contatti, cercare impieghi anche temporanei,…). Questa condizione esistenziale, nella sua accezione più “aperta” – cioè di domanda, ricerca, automobilitazione, sperimentazione,… e non di rinuncia, ritiro sociale, disincanto e smarrimento assoluti – è in realtà per la sociologia la condizione per eccellenza dell’individuo nella postmodernità. I principali analisti di tale condizione – solo per ricordare i più noti: Sennet, Giddens, Beck, Bauman,… – convergono sull’idea di un congedo dell’individuo nell’epoca contemporanea dalla forza delle tradizioni, dalla certezza di una linearità biografica, da un futuro prevedibile, da poche e solide scelte, da riti di passaggio e conseguente assunzione automatica di ruoli e riconoscimenti. Disancorati dalle tradizioni e senza forti passaggi di consegne dalle generazioni precedenti, siamo costretti a prendere continue decisioni, scegliere in un’epoca di eccedenza dei possibili, interrogarci su chi siamo e cosa vogliamo essere, estendendo questa domanda non solo allo studio e al lavoro, ma a tutte le declinazioni dell’identità.Se i “NEET” sono i ragazze e le ragazze nel momento di massima incertezza esistenziale perché al di fuori dell’involucro protetto di un percorso di studi definito o di un contratto stabile di lavoro, allora sono loro i “campioni del postmoderno”, il vertice biografico di una condizione assai diffusa, anche se meno codificata e forse meno radicalmente in impasse esistenziale. Il

11Sociologo, anima della cooperativa Codici, è esperto di politiche sociali e giovanili. Impe-gnato in numerosi progetti a livello nazionale è autore tra l’altro per Feltrinelli dei volumi “La congiura contro i giovani” e “ Quello che dovete sapere di me”.

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confronto con ragazzi e ragazze in quel passaggio è pertanto un dialogo in cui tutti possono sentire risuonare dubbi simili, snodi vissuti o attualmente presenti, perplessità condivisibili sui modi in cui la società regola tale passaggio.Siamo abituati – come adulti, come istituzioni - a confrontarci con ragazzi e ragazze in questa condizione offrendo risposte: servizi di informazione e di orientamento, segnalazione di opportunità lavorative e colloqui, corsi di formazione e stage, ecc. Non siamo invece abituati a fare domande, perché diamo per implicito che siano solo loro a farle, e riguardino esclusivamente le opportunità di impiego, e a noi tocchi rispondere di questo, e basta. Uno schema di confronto così ossificato impoverisce la situazione, subisce il ricatto dentro il quale molti di loro già vivono ovvero che la notizia del posto di lavoro vacante sia l’unica possibile, non consente di capire nulla di quella condizione, porta al riduzionismo implicito nello stesso termine NEET. Soprattutto, precipitare il confronto alla bacheca degli annunci di lavoro – che per altro non esiste più – nega un’acquisizione fondamentale cui quella riflessione sociologica è giunta, ovvero la necessità di un approccio riflessivo, di una rielaborazione continua della propria biografia, della ricerca costante di ipotesi e piste di ricerca. Come dimostrano chiaramente le storie di vita raccolte, i ragazzi e le ragazze qui protagonisti sono portatori di domande radicali, di senso, di scelte esistenziali, di ripensamento delle istituzioni, di creazione di nuove forme di economia, cioè non sono sprovveduti cui è mancata la “dritta” giusta nel momento di passaggio. Sappiamo che i cosiddetti NEET sono tanti, e che la disoccupazione giovanile è superiore al 40%, quindi la condizione di vita qui raccontata è molto diffusa, non la si può archiviare come residuale di un sistema altrimenti positivo. Questi giovani stanno modificando radicalmente il transito dallo studio al lavoro, volenti o nolenti, sono pionieri di un’esperienza di passaggio biografico che non somiglia affatto a quella dei loro genitori e nemmeno a quella dei loro fratelli maggiori: la scuola superiore si allontana come riferimento forte e vocazionale, perché spesso non ha funzionato così, l’università è un’opzione lunga e costosa, non per tutti, a volte sbarrata dai test di ingresso, le esperienze di volontariato e servizio civile si rivelano fondamentali, nella conoscenza di sé se non per il vero e proprio ingresso nel mercato del lavoro, il lavoro è quasi sempre deludente, perché tradisce sempre delle aspettative (di stabilità, di tempo, di mansioni, di ideali ecc.), per cui nasce l’idea di inventarlo, o di partire, o di dar forma professionale alle proprie passioni.Ma questa è una sintesi ricostruita a posteriori, proprio a partire dalle storie raccolte. Una generazione di pionieri sperimenta, prova e fa dei tentativi, capisce sempre dopo la soluzione più efficace, costruisce passo a passo

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i propri apprendimenti, a partire dalle proprie esperienze. Le storie di vita sono il “manuale” per eccellenza di una generazione di esploratori, sono l’eserciziario già svolto fino ad oggi: è lì la chiave per capire vocazioni, attitudini, sistemi di opportunità, cambiamenti in atto, esperimenti interessanti. Mentre ci si racconta, mentre si ascolta chi è come te, si elabora il sapere dell’esperienza, ci si chiariscono reciprocamente la visione del mondo, la definizione della situazione e il proprio posizionamento, viene l’idea di cosa fare, si constata cosa non rifare. Interviste reciproche e conversazioni di coppia sulla propria condizione esistenziale sono state pertanto la soluzione metodologica adottata, non solo per rendere giustizia con un materiale di ricerca qualitativamente significativo della varietà e complessità di questa condizione di vita, unificata sotto l’etichetta Neet, ma anche per sollecitare la riflessività di cui si è detto. Scambiarsi storie - oltre che accedere a corsi, seminari, incontri ecc. – è stato il dispositivo scelto per sostenere i protagonisti del progetto nella presa di consapevolezza e di parola, per cambiare la rappresentazione pubblica intorno a quell’etichetta e insieme per consentire loro di elaborare gli apprendimenti di quell’esperienza, così condivisa.Il progetto ha offerto corsi, seminari tematici, laboratori, incontri esemplari ecc. secondo la tradizionale strategia di ampliamento del sistema di opportunità a cui ragazzi e ragazze hanno potuto accedere, ma al contempo, in una veste più di protagonisti, i “peer” hanno imparato a raccogliere storie di vita, hanno svolto interviste e lunghe conversazioni con i loro contatti, spesso a partire da oggetti significativi come innesco narrativo e di confronto, hanno ragionato sui materiali raccolti e costruito una mappa delle parole chiave, hanno discusso sugli stereotipi della propria condizione, hanno provato ad elaborare una prospettiva originale, a partire dai materiali raccolti, sulla verità di questa condizione.L’esito delle 13 interviste/conversazioni – cioè di oltre 20 testimonianze – e delle riflessioni emerse, sulla base anche di altre biografie e situazioni note ai peer, è qui sintetizzato in forma di parole

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chiave, in ordine alfabetico. È una soluzione puramente “narrativa”, nel senso che la scansione fra una parola e l’altra e l’imputazione dei brani delle interviste all’una o all’altra è assai meno netta di quella che separa le lettere dell’alfabeto - lettere che peraltro qui non compaiono tutte perché non tutte avevano un corrispettivo di parola chiave - ma l’intento è quello di restituire la ricchezza potenziale, l’ampiezza e la completezza “enciclopedica” di vite che è davvero riduttivo fotografare come “quelle di chi non studia e non lavora”.

AttesaL’attesa è uno stato molto frequente nelle vite di questi giovani, ed è tipica di una condizione dispari di potere, di chi dipende dagli altri, di chi è costretto a contare il tempo perché dipende nella sua vita da una notizia, una risposta, l’esito di un test, la decisione di qualcuno. Non è vero che i cosiddetti Neet non fanno nulla, perché più spesso se fermi stanno aspettando l’esito di qualcosa. È un rapporto col tempo invertito rispetto a quello naturale e vissuto precedentemente – per esempio a scuola o all’università - che nel tempo vede nascere qualcosa, come una competenza, un’abilità, una passione, una relazione: qui il tempo non scorre più ma scade, è un conto alla rovescia, decisamente più ansiogeno. Perché sanno di avere il tempo contato, perché è scaduta una stagione della vita ma non ne è ancora iniziata un’altra.L’attesa ha scale diverse, è una questione micro, si misura sui giorni, è calcolo quotidiano fra i tanti tentativi in cui disperdono le loro energie, perché – se accettiamo serenamente il fatto che di mercato si tratta - i giovani sono una “merce”, preziosissima per l’Università, meno per il mondo del lavoro: cosi tocca calcolare con quale facoltà provare e attendere l’esito dei test per sapere che succederà di sé il prossimo anno, e al lavoro destreggiarsi fra diverse prove di selezione e gestirsi i tempi di attesa e risposta per indovinare l’opportunità migliore, come racconta questa ragazza quando spiega il suo ingresso da diplomata in un ufficio “paghe e contributi”.

“Prima del colloquio per questo impiego ne avevo fatto un altro, mi dovevano ancora dire se mi prendevano o no, ma il lasso di tempo che mi avevano detto di due settimane era già passato, ne erano passate altre due, cosi mi sono detta ‘non posso più aspettare, se mi capita qualcos’altro lo accetto, quelli là si arrangiano’. Perché tu vai a fare il colloquio, ti dicono ‘sì, fra un po’ ti facciamo sapere’, poi non è mai vero, passa sempre più tempo, infatti io ho fatto il contratto qui dopo 3 giorni dal colloquio, senza aspettare quella risposta.”

Ma se sulle strategie del quotidiano i giovani imparano presto a destreggiarsi, nello slalom che caratterizza il loro percorso fra opportunità e ostacoli, è

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più difficile gestire l’attrito fra quel tempo che scorre, quindi della crescita e della formazione, e quello che scade, cioè del responso e della selezione. È in parte l’inevitabile fatica della prima assunzione di responsabilità, dell’impatto col dover dimostrare quanto si vale e si sa fare perché è finita l’età dell’innocenza, ma si arriva spesso male a questo appuntamento, più con la sensazione di perdita che di opportunità, e non perché si rimpianga l’innocenza ma perché le occasioni che si presentano non appaiono certo quelle promesse, almeno dagli studi, non corrispondono all’autopercezione delle proprie potenzialità.

“Ora ho 24 anni e mi rendo conto che ad oggi non ho la possibilità di costruire, lo so, detta così sembra una sciocchezza, ma credo sia una parte fondamentale per la vita di ogni persona il “costruire”. Inizi da piccolo, poi magari arrivi ad un punto e ti rendi conto che non lo stai più facendo, non perché ti senti arrivato, tutto il contrario: non stai andando da nessuna parte. Ti trovi impantanato in una realtà che era ben lontana da ogni aspettativa.”

Ci sono casi, però, in cui l’attesa è agita, ovvero si decide di sfilarsi da un percorso di studi o da un impiego per prendersi una pausa, per capire meglio, per riverificare le ipotesi su cosa si vuol fare da grandi. Si ragiona come fa questa ragazza, che interrompe gli studi universitari non perché va male, ma per ripuntualizzare il proprio percorso. Qui l’attesa diventa una scelta, un tempo strategico di rielaborazione, per poter poi essere più sicuri dei propri passi.

“Ho deciso di smettere perché voglio capire cosa posso fare davvero nella mia vita, questa idea è partita da quello che ho fatto negli ultimi quattro anni, cioè del “sano e bello” volontariato.”

Disincanto/disillusioneTutti questi giovani si sentono traditi. Perché chiedere l’impegno dello studio se non ne consegue nulla? Perché avere una Costituzione che sancisce il lavoro come fondamento di questo Paese nel suo primo articolo se poi è così difficile accedervi? Perché avere sotto gli occhi prove di benessere, ricchezze diffuse, grandi possibilità ed esserne esclusi? Perché sentire di essere nell’età delle più forti potenzialità e non trovare spazio? Nei loro racconti i conti non tornano e le responsabilità sono chiaramente definite. Non ci stanno ad attribuirsi il senso di un fallimento personale – parola che per altro non compare mai nelle loro descrizioni – per il semplice fatto che questa condizione è troppo diffusa per essere il problema di qualcuno.

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“E’ stato fatto troppo poco, non è sufficiente, non sono io a dirlo, sono i dati, c’è una disoccupazione giovanile che è impressionante, non si è in grado di creare posti di lavoro, probabilmente anche per le tasse che sono così alte, si fa prima a comprare una macchina, che assumere dieci dipendenti, è la nostra economia e il sistema fiscale a penalizzare il lavoro.”

Il senso di ingiustizia non si trasforma però in conflitto o richiesta collettiva, l’evidenza di una condizione diffusa non diventa soluzione condivisa, l’esito è personale e introspettivo, non politico, per qualcuno sarà l’invenzione di un proprio lavoro per non cadere nel ricatto delle poche opzioni disponibili, per altri invece è proprio la revisione delle scelte dentro quel perimetro così stretto.C’è anche un po’ di disincanto e disillusione nei confronti di una realtà, di una situazione o di un contesto che dovrebbe dare tanto, o comunque dovrebbe dare quello che ci si aspetta che dia secondo le aspettative di ognuno, ma che poi fondamentalmente dà molto poco e costringe, appunto, le persone a rivedere, ripensare quelle che sono le loro scelte di vita.Il racconto della crisi economica di questi anni – almeno dal 2009 – non è certo stato terreno di coltura di illusioni per queste generazioni, anzi, infatti nessuno lamenta promesse mancate. È però evidente che il mercato del lavoro distribuisce in modo fortemente ineguale le opportunità presenti, in modo non coerente rispetto alle competenze e alle conoscenze della popolazione, così che il percorso di formazione di queste competenze e conoscenze appare frustrante rispetto al risultato. Solo per fare un esempio, questi giovani sanno per esempio di conoscere lingue e tecnologie meglio dei loro selezionatori nei colloqui di lavoro, il più delle volte, ma vengono scartati.

EsperienzaÈ una parola chiave della condizione precaria, è una delle più ricorrenti nelle loro storie. Le ragioni sono chiare, in una generazione di esploratori, in vite che non hanno vissuto l’automatismo del passaggio dalla scuola all’impiego, tocca interrogare l’esperienza come fonte di apprendimento, di scoperte e di intuizioni.La prima accezione in cui compare è amara, frustrante. Si tratta della frase ricorrente in diverse storie, ovvero quel cercasi ragazzo con esperienza che lascia sempre esterrefatti, per l’evidente cortocircuito fra la richiesta di una giovane età e al contempo di una precedente esperienza nel campo. Qui l’esperienza intesa è quella lavorativa e suona come rinfacciare ai neolaureati o diplomati ciò che non possono avere, è la propria mancanza, in un sistema che la esige ed è quindi impermeabile, perché solo chi è dentro la può vantare.

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I giovani denunciano questo paradosso sociale, profondamente ingiusto anche perché è stato chiesto loro fino a quel momento di studiare – non di agire esperienze – e non si capisce la ragione di un’esclusione da quell’esperienza fino ad oggi, se poi ora è quella che serve. È ovvio che si arriva così a riflettere retrospettivamente sul percorso scolastico, anche se brillante, ed è la scuola a uscirne male, ovvero come investimento sbagliato.

“Io alle superiori ho dedicato forse il duecento per cento allo studio e se tornassi indietro non dedicherei così tante ore perché alla fine il diploma è un pezzo di carta e adesso la gente che ti valuta il curriculum non guarda se sei uscito con cento, con ottanta o con sessanta, specialmente se hai fatto un liceo perché se esci da un liceo non hai in mano praticamente niente. Se fossi uscita da una scuola professionale mi direbbero ‘tu sai fare questo, questo e questo’, ma da un liceo linguistico? Dico, so parlare bene l’inglese, parlo il francese e lo spagnolo e mi rispondono ‘vai a parlarlo là’. Ci sono veramente pochi sbocchi per chi esce senza una laurea.”

Se l’esperienza scolastica esce svilita dal confronto impari con quella lavorativa quando questa è pretesa all’ingresso, non vale così per le numerose esperienze di volontariato che spesso questi ragazzi e ragazze hanno conosciuto. In quell’agire, spesso per gli altri, così diverso da studiare, resta il segno di un passaggio cruciale nella propria formazione di persona, capace di resistere anche alla severità percepita di un mercato del lavoro che sembra voler decidere per te cosa serve o non serve del tuo passato. Questo è il racconto di una ragazza molto studiosa, e del suo primo contatto al liceo, poi rimasto nel tempo, con un’associazione.

“L’insegnante di religione ci ha portato un foglio con una lista di associazioni di Piacenza dove prestare servizio durante le ore scolastiche in cambio di crediti formativi e il 10 in condotta... Io ero una persona che stava sempre sui libri e si dedicava alle amiche solo ogni tanto, mi sono trovata catapultata in una realtà che era molto diversa da quella che pensavo che fosse, mi sono dovuta confrontare con il diverso ed è stato davvero molto forte. Mi ricordo la prima volta che sono andata, ero molto agitata, non parlavo quasi e avevo paura, non mi sentivo nel mio posto. Dicevo ‘sono venuta qua per conoscere queste persone’, mi sono ritrovata in una sala enorme a suonare dei tamburi africani che non avevo mai visto né sentito e tanti ragazzi che ballavano intorno a me ed erano felici. La cosa mi ha affascinato molto, perché la felicità è una cosa molto difficile da trovare, soprattutto nei giovani…Io sono arrivata e il primo giorno questa

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ragazza down mi ha detto che io ero il miele e lei un’ape che mi veniva ad abbracciare. Questa cosa mi ha segnato perché io avevo pensato di andare li a fare del bene agli altri, ma quando sono tornata a casa mi sono resa conto che questa cosa aveva cambiato me in prima persona.”

Ci sono esperienze, come questa, che possiamo definire “trasformative”, perché decisive in quel processo di comprensione di sé, delle proprie vocazioni, delle proprie aspirazioni. Sono in realtà esperienze decisive anche nella ricerca del lavoro, perché sempre più spesso vengono lette dai datori e selezionatori come campi di prova significativi, di abilità e competenze. Le interviste, le conversazioni, proprio per questo insistevano su questa voce, per agire maieuticamente rompendo l’incantesimo che porta a credere che l’unica esperienza nominabile sia quella di un lavoro già fatto. Così, oltre al volontariato, al servizio civile – preziosissimo in questo senso, come ponte verso il mondo del lavoro – compare la storia di chi è stato all’estero, ha fatto un viaggio significativo.

“L’Africa è stata un po’ il punto di svolta di tutta la mia vita perché ha condizionato molto il mio p e r c o r s o successivo e quello che ne è conseguito perché avevo fatto Lettere alla triennale e dopo che sono tornata

dal Kenya ho cambiato percorso e mi sono iscritta ad Antropologia, un po’ ispirata da questo mondo. Oltre che a livello accademico è stata l’esperienza più significativa di vita perché mi sono confrontata per la prima volta con una realtà culturale totalmente altra ma anche a livello umano mi ha dato tantissimo. È difficile dire a parole quello che ti dà. Tutti e due gli anni che sono andata ho tenuto un po’ un diario per rileggerlo poi a casa. Dalla foto sembrano tutti belli e sorridenti, dal diario emergeva un po’ di più quello che avevo visto come le contraddizioni del Kenya, i momenti di difficoltà, perché uno tendenzialmente tende a ricordarsi i sorrisi, le cose belle come nella foto, ma non è stato sempre così. Penso che se ti innamori

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dell’Africa, del Kenya, penso che duri un po’ per sempre. L’esigenza di tornare si ripresenta… Questa esperienza ha aggiunto tanto. Non sarei mai andata in Svezia a fare un master in studi africani se prima non fossi andata in Kenya e non avrei conosciuto le persone che ho conosciuto in Svezia, non avrei fatto antropologia.”

È interessante notare in questo stralcio il passaggio sulla funzione del diario. Del passato, delle esperienze trascorse, di quei momenti siamo abituati a tener traccia con fotografie, oggi ancor di più, spesso con soggetti in posa. Il confronto col diario, invece, ricorda un po’ anche la funzione di questo scambio di storie di vita, che prova a raccontare cosa sta attorno a quella posa, restituisce profondità e complessità, cioè dà valore a quelle esperienze. La terza tipologia di esperienze trasformative o comunque significative sono quelle di dolore, di perdita. È giusto e naturale che sia così, non c’è nulla di “Neet” in questo, ma è importante ricordare che i protagonisti del progetto sono soprattutto persone, esposte ai casi della vita, forse in crisi nella ricerca del lavoro ma molto lucide nel riconoscere ciò che conta nella vita.

“La morte di mia zia. Affrontare la morte non è bello, quando ti succede in primo piano non sai come reagire, per noi che siamo sempre stati una famiglia cresciuta a quattro, con due mamme, la mia e mia zia, quattro fratelli, io, mio fratello e i miei cugini, un unico nucleo famigliare, sempre insieme, e mi ricordo che era successo tutto nel giro di poco tempo, mia zia era andata a lavoro, si è sentita male, e nel corso di mezza giornata ci ha lasciato. Ti trovi ad affrontare la cosa cosi, in cui il diretto interessato era mio zio, i miei cugini, i miei nonni, mia mamma e io, mio fratello e mio papà cercavamo di tenere insieme il tutto. E ti trovi a vedere che le persone coinvolte cambiano drasticamente, io sono una persona… non mi viene la parola, emotiva?”

FuturoÈ l’enigma di questa generazione, la parola che appare sempre col punto interrogativo. Si è detto in premessa che si tratta di una condizione generalizzata, quella di incertezza e impossibilità ad una prefigurazione forte del tempo a venire, ma va pur detto che l’impatto è diverso fra le generazioni. La disoccupazione adulta vale un quarto di quella giovanile, la gran parte dei genitori è proprietaria di case ed è poco verosimile che si trovi costretta a cambiare casa, città, paese, lingua. Non così i loro figli, costretti a tener aperte molte di queste variabili biografiche, connesse al lavoro. I cosiddetti Neet sono tipicamente coloro che si sono fermati ad uno snodo, quello compreso fra studio e lavoro, e non hanno al momento la soluzione

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per uscirne. La condizione cognitiva è la stessa per tutti – nessuno rivendica di saperne di più, di aver più sotto controllo la situazione, di aver risolto l’enigma – ma è diversa la reazione, questo è l’elemento interessante. C’è chi registra lo scacco, combatte fra idealismo e realismo e sceglie il secondo, si impegna con quel che trova penando per la miseria delle soluzioni trovate.

“Il futuro non lo vedo, è un’incognita, certo posso fantasticare su come vorrei che fosse, come vorrei costruirlo se ne avessi la possibilità, ma per forza di cose poi bisogna tornare coi piedi per terra perché dare qualche lezione saltuariamente a ragazzini delle scuole medie non ti dà certo da vivere, hai la possibilità di toglierti qualche sfizio ogni tanto, ma siamo ben lontani dall’indipendenza economica.”

Altri invece guardano lo sfondo, preoccupati, vedono che alla voce “futuro” mancano all’appello tante cose e provano allora ad esprimere un desiderio, un augurio più che un progetto personale, e aggiungono un segno di discontinuità, molto forte e molto comune nel gruppo dei peer. Va infatti messo in evidenza che la questione della disoccupazione giovanile più volte è stata associata all’idea di un modello di sviluppo sbagliato, e non alla pura carenza di posti di lavoro. È come se la richiesta implicita non fosse di un posto in più in questo sistema economico - che non si vuole, non si trova, non si cerca, dipendentemente dai casi – ma di un’economia diversa per tutti, più sostenibile prima ancora che più ricca di posizioni vacanti.

“Vedo grigio perché, comunque non c’è stato ancora niente di efficace per ridurre il dato della disoccupazione, per creare posti, insomma, per darci un minimo di speranza. Forse quello che c’è stato per i nostri nonni e per i nostri genitori, cioè la stabilità, il poter desiderare di…insomma di costruirsi, di realizzarsi, ci sarà anche per noi, cioè, la mia speranza è che le cose cambino, che il principale pensiero non sia creare posti di lavoro su delle piattaforme in mezzo al mare, perché quello si sarà pur lavoro, ma rovini l’ecosistema che hai attorno, finché non si capisce, non passa il messaggio che dobbiamo creare lavoro, dobbiamo creare un’economia, basata sul rispetto della natura.”

Infine c’è chi rifiuta radicalmente il “ricatto del futuro”, rivendica un principio di autodeterminazione, di responsabilità individuale e non del sistema sul proprio destino, e rilegge le proprie scelte come esercizio di libertà e di personalità. Qui non ci sono più certezze, più prefigurazione del futuro e più soluzioni rispetto all’atteggiamento di cui sopra, c’è forse una diversa fiducia nelle proprie possibilità, c’è l’assunzione forte di sé come punto di partenza,

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c’è una forza della dimensione ideale e valoriale come guida all’azione.

“Ci hanno educato con la concezione che bisogna avere paura del proprio futuro, come se fosse un evento (negativo) al quale siamo destinati, senza sapere cosa possa accaderci, come se nascendo maturassimo un debito con il futuro. Io non credo che bisogna averne paura perché siamo noi stessi, nel bene o nel male, a costruircelo attraverso le scelte e le azioni, che sono nostre e non di qualcosa di più grande di noi. Questa è una visione che secondo me vale per tutti, anche per chi parte svantaggiato, perché se ognuno di noi volesse veramente cambiare la propria situazione o arrivare ad un obiettivo si arma di tutto quello che ha per raggiungerlo, e se alla fine non si riesce almeno non ci saranno pentimenti. Io ho finito la triennale in Comunicazione Interculturale, grazie ad un’ex collega sono riuscita a trovare un lavoro che mi piace, nell’attesa di ricominciare con l’università, mi iscriverò ad Antropologia Culturale, probabilmente a Torino, con la consapevolezza che è una delle facoltà che in Italia dà meno aspettative di lavoro, ma non saprei cos’altro fare, perché è questo quello che mi piace, poter conoscere gli eventi e gli umani, e le culture come si producono e riproducono. Penso che tutti dovremmo essere un po’ più antropologi dentro, è un ambito che ti lascia ogni volta con la bocca aperta, smonta e rimonta tante concezioni a cui siamo abituati spesso a causa della mala informazione a cui siamo sottoposti. Io vorrei che tutti potessimo veramente essere liberi di fare ciò che sentiamo, senza sentire costrizioni che spesso sono alla base delle scelte, dei bivi, vorrei che questa parola, “libertà”, possa essere usata svestita di qualsiasi speculazione e usarla veramente per il suo vero significato.”

Gioia e felicità“Spesso quando si parla di precarietà si vedono musi lunghi, si vedono stati d’animo sicuramente di scoraggiamento e sicuramente non di felicità. Io ho deciso di trasformare questo stop nella mia vita come in una vera e propria occasione per dare linfa nuova alla mia vita, e credo di poterla cambiare in una vera e propria occasione di felicità. Si spera.”

Ragazzi e ragazze fra i 18 e i 30 anni - ma fra i 18 e i 25 – sono questo, giovani nel pieno delle loro forze. Il fatto che non dispongano di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, della laurea in cui speravano, dell’autonomia economica è frustrante, ma non impedisce loro di accedere a stati d’animo positivi, leggeri, spensierati. Chi ha partecipato al progetto non era evidentemente soggetto a forme di ritiro sociale o autoisolamento,

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come può accadere in chi vive la condizione di Neet e non solo quella, ma è importante non stereotipare quella condizione riducendola al cruccio continuo della ricerca di un lavoro. Nessuno ha rinunciato alla propria felicità anche se riconosce momenti bui, nessuno censura le proprie passioni anche se non trovano forma nelle opportunità di studio o lavoro, nessuno si astiene da relazioni piacevoli per senso di colpa da mancato collocamento. È probabile che giochi a favore la giovane età, ovvero il fatto che la condizione di precariato sia un dato per loro biograficamente recente, e quindi non percepito come cronico bensì passibile di trasformazioni e colpi di scena. Ma è nota la teoria dell’autorealizzazione delle aspettative, ed è per questo che gli spunti di gioia e felicità vanno coltivati, non certo espunti dalla storia di vita come fuori tema. Sollecitati a raccontarsi attraverso oggetti significativi, quasi tutti gli intervistati hanno scelto simboli di felicità, di una positività tipica della giovane età, risorsa preziosa di fronte alla prospettiva di un passaggio faticoso. Tre esempi, molto distanti rispetto al modo di intendere la vita, eppure accomunati da quella vitale ricerca della felicità.

“Ho scelto questa cravatta, che rappresenta me stesso, mi descrive, c’è scritto “let’s party” e significa per me cogliere l’attimo e vivermelo al massimo.Adoro i tatuaggi, in ogni tatuaggio c’è dentro me e la mia famiglia. Questo nello specifico l’avevo fatto per me e per lui (mio fratello) ed è tradotto come ‘buona fortuna nella vita, che il vento soffi nel modo giusto, che tu possa andare sempre in alto verso le stelle’.Ho portato questo libro di Charlotte Bronte perché la storia è molto bella, leggerlo mi staccava dalla routine quotidiana, e poi dovevo assolutamente portarti un libro, leggendo da tutta la vita io divoro i libri come il pane con

la nutella. Penso che i libri siano l’evasione dalla realtà in assoluto, insieme alla musica.”

Abbiamo già vist vedremo oltre come l’esperienza di volontariato sia stato per molti un momento importante, la scoperta di una felicità possibile nell’incontro con

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l’altro, come racconta la storia già citata della liceale alle prese con il suo primo contatto con una ragazza affetta da sindrome di Down. La felicità è fatta di esperienze trasformative come quella, ma anche di occasioni spensierate, momenti leggeri, di fuga e trasgressione, che restano per anni nelle rievocazioni dei protagonisti, con la retorica e il registro epico tipico dei “sopravvissuti” a quella pazzia.

“È il primo addio al celibato a cui ho partecipato e da testimone; la foto è significativa perché il gruppo di persone che vedi - eravamo in undici - erano tutti dei matti da manicomio, da non far uscire! Sono amici di mio fratello ma ci conoscevamo tutti, e siamo riusciti a fare questa cosa bellissima, partire per Praga, facendo credere a mio fratello che stava andando a lavorare, e di farlo trovare ubriaco nel momento in cui ha appoggiato le valige in aeroporto sino al momento in cui siamo tornati! La prima volta che fai una cosa del genere con gente tutta più grande di te, ma simile per mentalità, voglia di festeggiare, la stessa età dentro, quella di dodicenni scalmanati, che vedono per la prima volta il mondo e che vogliono spaccarlo tutto! E abbiamo fatto tre giorni bellissimi e deliranti. È significativa perché, nonostante io sia sempre andato in giro per il mondo, quella volta sono riuscito a perdere portafoglio, passaporto e documenti, occhiali, cellulare scarico e ho rischiato di rimanerci!”

Ancora due esempi di felicità raccontate, in queste storie di vita, a riprova di quanto sia difficile immaginarsi le cose con gli indizi disponibili. La prima è parte della stessa biografia che celebra l’addio al celibato e sorprende per la carica poetica così diversa dall’altra immagine. La seconda appartiene ad una storia singolare che rovescia l’immaginario comune, il laureato in ingegneria con un impiego stabile dalle 8 alle 17 in ufficio a fare il mestiere per cui ha studiato, che trova però la sua felicità nei campi, facendo il contadino, come suo nonno.

“Questa foto è un paesaggio di Cape Town, Città del Capo, è un tramonto, è stata fatta da me intorno alle 6 di sera, stavamo lavorando, lavoravamo dalle 6 di mattina alle 8 di sera, e questa foto è una delle tante ma la più bella, riprende il paesaggio, al tramonto, verso il Polo Sud. C’è un po’ tutto, la gru di mezzo, io sull’impianto che stavo facendo la foto, un paesaggio che non credo di rivedere più… sta a significare che ho avuto la fortuna di fare questo lavoro, oltre al guadagno, ho avuto la fortuna di visitare posti che la maggior parte delle persone non riescono a vedere. Uno dei miei sogni è stato sempre quello di viaggiare, di veder il mondo, ed essere lì, a Città del Capo a veder una cosa del genere, a fare una foto, che puoi

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vedere su internet, su una rivista ma la stai facendo tu in quel momento, è bellissimo. Mi capitava anche di lavorare 15-16 ore fermandomi solo per i pasti, non di più. Una vita e una giornata molto meno scandita rispetto ad adesso che sono in un ufficio. Non mi è mai pesato, non guardavo l’orologio, lavoravo all’aria aperta.. un lavoro veramente diverso…“Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”. Una citazione che avevo letto su un giornale tempo fa, ed ho proprio pensato che parlasse di me. Io ho testato questa cosa sulla mia pelle. Ho lavorato 12 anni ma non mi sembra nemmeno, mi sembra solo di essermi divertito.”

Incertezza/precarietàTutte le voci rimandano a questo tratto esistenziale, che è quello più trasversale. L’imprevedibilità del futuro e l’attesa di responsi, la crucialità delle scelte e il peso di una disparità di potere fra le generazioni, la qualità dei contratti e lo slalom fra gli stage dicono l’incertezza, lo stato di sospensione in cui si vive aspettando di conoscere il proprio destino. “Precarietà” è semplicemente non sapere che ne sarà di te, ovvero quale lavoro, a quali condizioni, in quale città, per quanto tempo, e di conseguenza, con quale reddito, tenore di vita, famiglia, casa, città, indipendenza economica. La rassegna dei riferimenti alle interviste parte giustamente da chi fugge, emigra alla ricerca di un futuro e arrivando in Italia si scontra con il tradimento di quella promessa di riscatto. È la condizione di molti immigrati negli ultimi anni, non di coloro che li hanno preceduti: l’aver vissuto con noi residenti la riduzione delle aspettative, e lo scacco di un benessere mancato, come recita il lapidario stralcio di questa intervista.

“Ho 21 anni e ho origini rumene, sono venuto in Italia per cercare lavoro e stabilità, due cose che non ho ancora trovato.”

C’è chi invece è avvisato da subito, non ha di fronte promesse ma avvertenze, sa che le sue scelte portano a quella condizione di precarietà, la fortuna di studiare ciò che piace paga pegno sul mercato del lavoro, secondo un “trade off” – cioè costretti a scegliere fra interessi personali o impieghi possibili - che è condizione recente. Va ricordato che in passato ci si è domandato di meno cosa davvero piacesse e rispondesse alle proprie vocazioni, le scelte avvenivano in un perimetro ristretto dalle possibilità economiche e da altri vincoli famigliari, si faceva quel che si poteva o doveva, disponendo di fatto di poche opzioni. È più recente questa introspezione di massa del proprio talento, l’idea di coltivare interessi nell’extrascuola con corsi ad hoc, la convinzione – che in un certo periodo fra i ’70 e gli ’80 è parsa realistica

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– che il mercato avrebbe regalato posti corrispondenti alle diverse abilità. Oggi di quell’epoca è rimasta la premessa (la possibilità di coltivare interessi, sviluppare passioni) e assai meno il seguito (sbocchi lavorativi corrispondenti), eppure è la scarsità assoluta di posti di lavoro, non solo di quelli più prossimi agli interessi giovanili, che riabilita questi ultimi come logica nelle scelte di studio. In sintesi, nell’incertezza assoluta sui lavori di domani e quindi sulle competenze strategiche, tanto vale seguire le proprie vocazioni. L’incertezza quindi è in questo caso intesa come la scommessa di un azzardo, trovare lavoro nel campo delle passioni personali: accade spesso nel caso delle scelte universitarie per le facoltà umanistiche.

“Ricordo che il professore di latino del corso, quando arrivammo il primo giorno ci disse: “se fate questa facoltà per hobby, è la facoltà per voi”, perché lettere è una facoltà con pochissimi sbocchi lavorativi, ma che ti arricchisce a livello di testa.”

Ma più spesso l’incertezza è proprio l’impossibilità di scegliere, perché a decidere sono altri, è altro. È la situazione tipica della condizione postmoderna, ovvero l’esposizione alla globalizzazione, l’interdipendenza dei sistemi, l’essere parte di un mondo di cui non si ha il controllo e che cambia il nostro destino. La sociologia della postmodernità ci ricorda che siamo stati sempre esposti, anche più di oggi – per esempio agli eventi naturali – e che in passato abbiamo elaborato riti e religioni per proteggerci, scongiurare e farci una ragione di questo, ora il clima culturale è cambiato, con la tecnologia abbiamo creduto di controllare sempre più variabili, di prevedere e tutelarci, ma molto ancora ci sfugge, nella società complessa. Così un’azienda può chiudere all’improvviso, “perché c’è la crisi”, o perché banalmente va in pensione il titolare…

“Dopo i miei studi e una laurea con lode in management per l’impresa sono approdata qualche anno fa in un’azienda della grande distribuzione organizzata con quello che è il fatidico e forse anche, al giorno d’oggi, tanto aspirato contratto di apprendistato. Causa quello che ormai sappiamo essere all’ordine del giorno, acquisizioni tra varie aziende, proprio ad ottobre la sede presso cui lavoravo chiude i battenti e da qui inizia la mia storia di precarietà. È prossima alla pensione, può darsi che dica ‘basta, finito, chiuso!’, i clienti dovranno cercarsi un altro commercialista e anche voi siete a spasso. È una grande incognita, non solo per me e l’altra apprendista ma anche per tutte le altre.”

La precarietà è quindi non trovare un lavoro, è perderlo, è averlo ma instabile.

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Oppure averlo ma non governarlo per nulla, non conoscerne il compenso, gli orari, i tempi di pagamento, i vincoli, le possibilità. Molti impieghi – soprattutto nel terzo settore, nel campo delle relazioni di aiuto – sono così, destrutturati, variabili, incerti. Si tratta di impieghi a volte molto gratificanti e fra i presenti nel sistema di opportunità per i giovani, spesso sorti come evoluzione di un’attività di volontariato o di servizio civile, ma fuori dal proprio controllo e quasi sempre per brevi periodi di tempo.

“Non c’è mai la certezza di sapere di lavorare un tot di ore alla settimana e quindi di avere un dato compenso o riconoscimento, di qualsiasi tipo si tratti, a fine mese. C’è sempre un po’ questa paura, precarietà, domanda come ‘cosa faccio oggi? andrò a lavorare? come andrà oggi? fino a che ora starò oggi?’. Quando mi capita di fare queste ore al doposcuola, la mia domanda è la stessa che mi fanno i miei genitori quando esco di casa, quando mi chiedono ’ma tu quando smetti?”. Dico ‘guarda che non lo so, so a che ora vado, ma non so a che ora finisco”, quindi è un po’ il sintomo della precarietà giovanile.”

In questa situazione il vero tabù sono i soldi. Poche interviste affrontano davvero la questione, cioè dichiarano i livelli retributivi percepiti, la puntualità o i ritardi dei pagamenti negli impieghi trovati, l’inevitabile condizione di dipendenza economica dai genitori, i conti in tasca al proprio tenore di vita. Ai genitori può apparire paradossale, ma molto spesso si fanno colloqui di lavoro senza sapere nulla della retribuzione, senza quasi poterne parlare, senza garanzie sulla regolarità degli stipendi.

“C’è una domanda ancora più grande del lavoro che farò, cioè il quesito sui soldi: ‘quanti soldi mi darà? con il guadagno, con lo stipendio che ottengo cosa ci posso fare? cioè, posso costruirmi qualcosa di mio, iniziare a pensare di uscire di casa, o comunque mantenermi un po’ le spese da solo, senza dover chiedere sempre ai genitori, o a pagarmi gli studi, o comunque mettere da parte qualcosa per costruirmi una famiglia domani?.”

L’incertezza e la precarietà non sono sostenibili a lungo e non sono compatibili con un progetto di vita, questa è la banale valutazione di chi la vive. Può essere una condizione temporanea, può riguardare chi si affaccia al mercato del lavoro con una strategia esplorativa, ma non può essere l’unica soluzione, anche perché è palesemente ingiusto che sia quasi interamente a carico delle giovani generazioni, che “non se lo meritano” come dicono molte interviste raccolte.

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“Se hai una famiglia la stabilità è la prima cosa a cui pensi, se no cosa le do da mangiare? È la prima cosa a cui pensi.Ho bisogno di trovare lavoro in fretta, mi piacerebbe trovare qualcosa di stabile, soprattutto per la mia sicurezza e la mia mente.Io ho 27 anni e sono precario, non credo di essermi mai meritato di essere lasciato a casa, non è solo perché non c’è lavoro - guardandomi intorno mi sono accorto che chi ha un po’ di potere va avanti, anche se il giovane che ha di fronte ne sa di più, cosa che non è da escludere - morale della favola quelle persone sono ancora lì e io sono a casa! Come tanti ragazzi non si meritano di essere trattati da schiavi, la precarietà per me è questo, io sono una persona prima di essere un operaio, e quando una persona è portata al limite poi scoppia. Non so come sarà il domani, vorrei essere ottimista e dire che andrà tutto a gonfie vele, perché penso di meritarmelo e che se lo meritino tutti quelli nella mia stessa condizione, ma la realtà è che non lo so. Posso solo fare supposizioni, ma sono precarie anche loro, come me e come noi.” [7]

JungleÈ un’espressione che usa una sola persona intervistata e di seguito riportata, ma l’idea ricorre anche in altre. Per questi giovani non c’è una strada maestra, non c’è linearità, c’è invece una selva di possibilità, di strade da tentare, di possibili vie di uscite alla condizione di stallo - iscriversi o no a Garanzia Giovani perdendo quell’impiego precario? quale facoltà o corso provare, investendo soldi o cercando solo quelli gratuiti? a chi mandare il curriculum, come porsi al colloquio? provare a partire e per dove? ecc. – che chiedono continuamente decisioni, assunzione di rischi, negoziazioni in famiglia sulle proprie scelte, richieste di sostegno. Insomma, una grande fatica, senza nemmeno aver ancora cominciato il lavoro.Siamo di fronte alla percezione di un vero e proprio darwinismo sociale, in fondo la persona intervistata usa proprio l’espressione “lotta per la sopravvivenza”. La buona notizia però è che da nessuna intervista trapela l’immagine di una competizione fratricida – mors tua, vita mea – la scarsità di opportunità non si traduce in una concorrenza spietata, in uno spirito di rivalità nelle relazioni fra pari. È molto più forte il senso di solidarietà, al limite di sconforto condiviso, perché il nemico non è chi cerca come te, ma se mai un’economia avara di posti, e in definitiva come si è visto sbagliata nei suoi fondamentali. La giungla allora è questa fatica a districarti fra le cose, a reggere la corsa delle competenze, a rigenerare di continuo la motivazione che cancella lo sconforto. La giungla è proprio la metafora di un ambiente ostile, che

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seleziona anziché accogliere e non consente a tutti di reggere. “Io la chiamo giungla, perché, insomma…è un po’ una sorta di lotta per la sopravvivenza, vince il più forte, o sei forte e hai talmente tanto fegato che non ti fermi, non ti demotivi mai, vai avanti, cerchi, ti formi per essere il più competente possibile e quindi allora prima o poi trovi o se, tanto tanto ti lasci andare alla debolezza, vieni mangiato da tutto il resto.”

LavoroIl tema del lavoro appare da queste interviste non il “grande assente” ma la questione irrisolta. Difficile generalizzare a tutti i cosiddetti Neet, ma queste storie sono ricchissime di esperienze lavorative, e povere di contratti stabili e di retribuzioni. Fra periodi di alternanza

scuola-lavoro, tirocini, stage, servizio civile e volontariato la vita di un 20-25enne ci appare tutt’altro che vergine rispetto all’esperienza del lavoro, sono in molti ad averne provati diversi, solo che l’incontro non è andato a buon fine. Vediamo la casistica delle diverse ragioni.C’è la condizione frequente, di aver scoperto al liceo la propria vocazione, di aver svolto un’attività appassionante, che però non ha poi trovato sbocco e quello che sembrava la palestra di un futuro lavoro è rimasto il ricordo di un’esperienza felice.““La Pulce” è la testata giornalistica del Liceo Colombini, di cui sono stato incaricato della direzione nell’ultimo anno del liceo e che mi ha dato, appunto, la possibilità di fare delle esperienze importanti, formative, seguendo eventi, incontri, conferenze, seminari. In qualche modo ho avuto la possibilità di avvicinarmi a quella che è sempre stata una mia grande passione, fare il giornalista, seguire i fatti da vicino, informare, seguire gli eventi, le notizie, i fatti più importanti che riguardano la vita sociale di un determinato contesto.”

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C’è chi il lavoro l’ha perso, per la crisi, ma si trovava male, e chi invece ha avuto la fortuna di trovarlo, e non gli piace perché ripetitivo, o lo definisce un incubo perché ha scoperto sulla propria pelle, superato lo scoglio di avere un contratto stabile, che il lavoro è soprattutto quello che devi fare e con chi lo devi fare, e quando si fa fatica su questi due piani è difficile reggere, e gioire del proprio impiego solo perché se ne ha uno.

“Ero sotto l’agenzia interinale e l’azienda faceva troppi alti e bassi, già non andava bene, lo stavo già pensando da mesi, anche l’azienda mi aveva detto che stavano tenendo gli ultimi ragazzi assunti nella speranza che la situazione migliorasse ma è andata così… Meglio, stavo diventando scemo là dentro! Mi ha contattata, mi ha detto ‘se ti interessa c’è questa opportunità’, io sono andata a sentire e praticamente da subito, pronti via, dopo neanche due minuti di chiacchierata, mi ha messo il bigliettino della società in mano e mi ha detto, tu lavorerai per questo... È andata così, è il sogno di trovare un datore di lavoro che appena inizia a leggere il curriculum ti dice ‘ok sei preso’, però può essere anche l’incubo, perché, io poi ho realizzato dopo, il carattere del capo è quello che è. Ti rendi conto dopo che forse dovevi pensarci, rallentare le cose, dire se è veramente quello in cui ti vuoi immergere, perché comunque il lavoro che faccio è un lavoro dove pian piano mi sono state appioppate determinate responsabilità, e dove magari anche il minimo errore che viene fatto, anche se è la prima volta che fai un lavoro e fai un errore, come può essere normale, comunque ti viene fatto pesare, anche in modo prepotente, io ho passato una notte a continuare a girarmi nel letto dicendo ‘non ho mandato, non ho finito quello che dovevo fare’.Io sono dell’idea di come quando ho cominciato, non conoscevo nulla prima, ma volevo fare un lavoro in cui mi devo spaccare la testa, in cui c’è sempre qualcosa che non sai, dove posso imparare. Bisogna fare un lavoro stimolante, con degli input, sennò diventi una macchina. Quando ho lavorato in catena di montaggio, dopo che avevo fatto anni a girare, tutti i giorni una cosa nuova, è difficile per me stare fermo a fare la stessa cosa tutti i giorni.” Più spesso l’esperienza lavorativa però è un’altra, è quella di una collezione a volte davvero molto ampia di impieghi brevi, temporanei, “lavoretti” spesso molto casuali, diversi fra loro, rispetto ai quali si nutrono valutazioni spesso molto diverse, a volte anche positive, ma tutte accomunate dalla precarietà. È proprio questa condizione che richiede riflessività, capacità di elaborare la propria storia per trarne apprendimenti, valutare cosa è successo e cosa ne

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consegue, per capire meglio il sistema di opportunità da cui si è circondati e la propria posizione rispetto ad esso. Da questo confronto può nascere anche l’attrito con la dimensione più ideale, il conflitto fra ciò che tocca fare e cosa si vorrebbe agire nella società, perché la precarietà in queste vite appare anche come una “non rassegnazione all’esistente”, ovvero la rivendicazione di aspetti ideali, di valorizzazione di sé, di un’economia e di un lavoro più attenti all’ambiente e alle qualità umane.

“Ho trovato questo lavoretto (funzione di segreteria a corsi dello SVEP) e per vie traverse grazie a mia nonna, grazie ad alcune sue conoscenze ho fatto un mese di prova, andavo bene e quindi mi hanno tenuta. È un lavoretto che non mi dispiace, poi ne ho fatto un altro, altri saltuariamente, sono stata aiuto educatore e aiutante in un campo inglese che si tiene tutti gli anni presso la scuola elementare di Gossolengo e da due anni, quest’anno è il terzo, ricopro il ruolo di assistant e anche questo lavoretto non è, non era la mia ambizione, però, insomma, mi ha aiutato, sia nella parte linguistica, perché ho modo di parlare inglese e con persone che non vengono solo dalla Gran Bretagna, ma, comunque, che vengono anche dalle ex colonie della Gran Bretagna, tipo Australia, Nuova Zelanda, oppure dall’America e sì, beh, sono stata molto a contatto con i bambini, poi ho avuto anche altre esperienze, ho fatto lo stage di una settimana in un centro per disabili e ho lavorato due mesi in un grest con cento bambini, ho fatto tanti lavori, tutti un po’ saltuari.Allora nell’ambito educativo ho lavorato agli Ospizi Civili con i minori stranieri per uno o due mesetti, non ricordo, beh è stata un’esperienza molto molto bella, infatti è da lì ho deciso che questo era un contesto che mi poteva interessare tantissimo, poi a Casa Morgana con i bambini, che era più centro estivo, poi con gli anziani al Maruffi, non mi è piaciuta però.Sono anche molte le cose che secondo me perdo. Tra le tante c’è la fiducia: in me stesso, fiducia soprattutto nella società e nello Stato. Io vorrei insomma prima di tutto stare bene e fare qualcosa che mi piace veramente. Perché i lavori che ho fatto finora non mi hanno dato altro che fatica, e non ho fatto altro che quello che mi veniva detto.Ci sono dei valori, in quello che uno fa, nel suo operato quotidiano che passano. È come vorrei vivere quello che sto facendo. Oltre che alla valenza pratica, anche la valenza più idealistica del servizio civile io ci credo. A volte sembri un po’ un sognatore se lo dici, però io ci credo molto nell’impegno civile, ecco. E credo che sia una bella opportunità per spendersi per la società.” C’è chi rovescia la sfida fra lavoro ideale e lavoro trovato, creandoselo.

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Nel corso del progetto ci sono stati anche diversi confronti con startupper piacentini, si è ragionato sui dati esistenti intorno all’evoluzione di questi percorsi di autoimprenditoria, per prendere coscienza delle opportunità ma anche delle loro fragilità, ma una sola storia raccolta testimonia questa soluzione. È la vicenda di una ragazza che sta provando via web a rilanciare ricette tradizionali, a organizzare feste o eventi per andare incontro a genitori troppo impegnati. È un esempio di lavoro creato in risposta ad un posto perduto per chiusura aziendale, di cui è interessante riportare in citazione lo stato d’animo che ha ispirato la sfida. Questa fine io la preferisco definire l’inizio di una vera e propria avventura.

“Mi hanno sempre detto “chi si ferma è perduto”, quindi lascio perdere il diffondersi di stati d’animo di scoraggiamento e decido di intraprendere in primis un lavoro personale proprio su me stessa e decido di rispolverare passioni fin ad oggi lasciate in un cassetto”.

Mamma e papàAlmeno in Italia, a questa età i giovani sono ancora molto “figli”. A maggior ragione se manca l’autonomia economica di un impiego stabile. Volenti o nolenti, i genitori sono una chiave per comprendere queste situazioni, da diversi punti di vista. La prima chiave è quella affettiva. Non si tratta solo del comune legame fra genitori e figli, ma del suo valore nella condizione psicologica della precarietà: l’incertezza della propria situazione, l’imprevedibilità del futuro, l’assenza di garanzie economiche accrescono il desiderio di stabilità, non certo di avventura. La propria famiglia di origine rappresenta appunto questa rassicurazione, a fronte dell’incertezza di tutto il resto, un punto di appoggio stabile, la leva per reggere la fatica della precarietà, per tentare quello che si dovrà tentare.

“Ho portato diverse foto che raffigurano mia mamma, i miei fratelli e mio papà. Il collage sta a significare che fino a quando avrò il supporto di tutte queste persone o comunque le sentirò vicino e saranno presenti nella mia vita, qualsiasi cosa mi troverò a fare, qualsiasi sia la condizione, sarà tutto affrontabile, nel senso sarò in grado di affrontare tutto se avrò il supporto, l’amore e la vicinanza di queste persone.”

La seconda chiave è quella materiale. Tutte o quasi le persone intervistate vivono ancora coi propri genitori, per ovvie ragioni. Diverse fra loro hanno sperimentato periodi fuori casa, per ragioni di studio o di impieghi temporanei,

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ma il ritorno a casa è stato inevitabile, in assenza di un reddito. Non è una condizione facile e l’argomento evidenzia il suo carattere problematico per chi ne parla, è chiaro che il mancato transito lineare dallo studio al lavoro ha messo in crisi gli equilibri, costringe oggi a chiedersi cos’altro si può chiedere ai propri genitori essendo stati mantenuti da loro fino ad oggi. La terza chiave è molto connessa alle prime due, è relativa al peso dei genitori nelle scelte. Più di un testimone racconta di scelte di studio, riconosciute a posteriori come sbagliate, fatte per accondiscendere ad un desiderio dei genitori. E il conflitto fra desideri e aspettative – di chi per altro è così importante nella tua vita, e ti mantiene – arriva anche alle scelte professionali. Non c’è in gioco solo la questione di sempre, di visioni diverse non sempre mediabili fra genitori e figli, perché il forte cambiamento sociale e del lavoro in particolare se mette in crisi i giovani disorienta ancora di più i genitori, che appartengono ad un mondo fatto di mestieri, contratti, orari, routine che non sono più all’orizzonte per chi entra oggi. Come testimoniava una citazione già riportata, è difficile per una madre adattarsi all’idea che tua figlia va a lavorare ma non sa quando esce di casa con quale orario, per quanto tempo, a quale retribuzione, con quali compiti. O accettare che tuo figlio preferisca lavorare nei campi 15 ore al giorno, senza ferie, che stare in ufficio 8 ore onorando la sua laurea di ingegnere.

“Sento che il mio lavoro non è quello dell’ingegnere. I miei genitori credo che non reagiranno bene. Anche adesso cercano di farmi capire che quello di adesso è un lavoro bello, con determinati orari, che sono in un ufficio, e che anche in prospettiva futura, ad una certa età, non mi i ritroverò sotto il sole d’estate o sotto l’acqua d’inverno. Potrei avere uno stipendio che con l’anzianità potrebbe anche crescere. Loro stanno facendo di tutto per farmi fare l’ingegnere, scelta dettata forse dal fatto che anche mio padre è abituato a lavorare in un’azienda metalmeccanica, in mezzo alla gente, con persone che provano piacere a smerdarti davanti ai capi, con colleghi che non ti parlano, che non ti aiutano, perché hanno paura che gli prendi il posto. Tutte cose che ho notato fin da subito anche se sono in azienda da poco. “

NeetÈ il termine con cui si identifica chi non risulta iscritto ad alcun percorso di studi né possiede un impiego lavorativo, pur essendo nell’età in cui si dovrebbe fare o l’uno o l’altro. Ha il grosso difetto di identificare per negazione, per doppia negazione – anziché dire che si tratta di chi è alla ricerca di…. - e di suggerire un’immagine di staticità, omogeneità, rinuncia, quando le vite di questi ragazzi e queste ragazze risultano spesso dinamiche, differenziate,

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impegnate in tante esperienze lavorative precarie e corsi di diverso tipo. I peer di questo progetto e i loro intervistati si sentono giudicati più che definiti da quel termine, e pongono diverse obiezioni. La prima, ovvia, è l’invito a non generalizzare, e a ricordare che una quota di disimpegno fra i ragazzi è sempre esistita.

“Sulla terra non possiamo fare tutti la stessa cosa. Queste persone che dicono che noi non facciamo nulla non so cosa facessero alla loro età, però probabilmente anche ai loro tempi ci saranno stati quelli più laboriosi e quelli meno laboriosi, nel senso che - ci piaccia oppure no - credo che esistano anche adesso ragazzi che non hanno avuto grandi possibilità economiche eppure splendidi, brillantissimi, che però magari hanno dovuto andare a lavorare in fabbrica a 15 anni e magari gente che non sa fare nulla e sta all’università dieci anni. Queste cose credo esistano da sempre e stupirsene lo trovo assurdo.”

La seconda ricorda invece qualcosa che spesso si ignora, ovvero il fatto che uscire dalla condizione di NEET ha un costo, che qualcuno non si può permettere, e trovare un lavoro è un rompicapo che richiede un enorme sforzo, che è ingiusto scambiare per pigrizia.

“Neet ha un’accezione piuttosto brutta, non mi piace, però dovrebbero domandarsi ‘perché queste persone non lavorano e non studiano? Allora, studiare ha un costo: non si sono mai fatti una domanda che magari i genitori non sono in grado di sopportare i costi di un’università, pur statale? Lavoro…lavoro…Cerchi, cerchi, cerchi, ne fai di tutti i colori, eppure non trovi, o perché non sei sufficiente, sufficientemente qualificato e magari non hai soldi per qualificarti meglio, per formarti meglio e magari quello per cui hai studiato è un settore che nel mercato non funziona, o perché la domanda è già largamente soddisfatta e l’offerta è tale per cui non trovi lavoro. Secondo me ci sono dei motivi e vanno ricercati, insomma, i cosiddetti bamboccioni, i fannulloni, non esistono, secondo me, sono tutte scuse che i politici utilizzano perché non sono in grado di supplire a questa mancanza di posti di lavoro.Io lo dico sempre, quando sono tornata a casa dopo la Svezia ho sofferto tanto, per una che è stata abituata cinque anni a vivere da sola gli sta un po’ stretto. A proposito del fatto che gli italiani sono un tutti un po’ mammoni, non è vero, se io potessi uscirei di casa anche oggi, però mi mancano un po’ di risorse economiche.”

Sfilarsi da quella condizione risulta difficile, sono ragazzi e ragazze che

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vogliono lavorare e che non trovano sbocchi, che consideravano finito il loro debito con l’istruzione e sono spiazzati dalla mancanza di opportunità, che sono costretti a riconsiderare la necessità di integrare il loro ciclo di studi con corsi o altri titoli ma spesso non sanno quali danno vere garanzie di impiego, perché anche quello dei corsi e dei master è un mercato in cui non è facile districarsi. Neet è quindi la condizione di chi scopre all’improvviso che un diploma considerato più che sufficiente non basta, di chi si scontra con la retorica dell’esperienza, già ricordata.

“Io sono andata a fare domanda in agenzie viaggio dove di solito chiedono questo tipo di competenze linguistiche, ma loro ti dicono ‘Hai fatto questa scuola, ma hai esperienza nel nostro settore?’, io rispondo ‘no, sono uscita da un annetto, non ho esperienza.’ ‘Ma noi cerchiamo giovani con esperienza!’. E’ una cosa che non capisco, io sono appena uscita, devo ancora fare esperienza, tu mi dovresti formare.Non perché non cercassi lavoro, assolutamente, semplicemente le richieste lavorative in genere vengono formulate più o meno così: cercasi apprendista con esperienza. Come faccio ad avere esperienza se nessuno è disposto a farmi fare esperienza? Come faccio ad essere un apprendista, quindi colui che impara qualcosa, ed avere già esperienza? Se ho esperienza mi pare ovvio che non sono più un apprendista, qualcosa non torna...“Hai un diploma di un istituto commerciale, troverai lavoro sicuramente”, anni fa probabilmente era così, ma ora? La crisi incombe ancora sull’Italia, e la percentuale di lavoratori in cassa integrazione non è mai stata così alta, che si fa? Ridendo con gli amici dicevo che mi sarei presa un anno sabbatico per pensare al mio futuro, ma mai mi sarei immaginata che questi anni si moltiplicassero.”

Passioni/vocazioniGià conosciamo dalle citazioni precedentemente riportate la storia dell’ingegnere che vuol rinunciare all’impiego stabile in ufficio per coltivare la sua passione di lavoro nei campi, o quella del ragazzo scopertosi giornalista grazie all’esperienza col giornalino del liceo che coltiva quel sogno. Complice il dispositivo scelto di innescare l’intervista a partire da oggetti significativi della loro vita, queste storie sono disseminate di passioni, com’è giusto che sia, ma non scontato in un’intervista che ha come tema centrale il cortocircuito vissuto nel passaggio dagli studi al lavoro.La questione delle passioni e delle vocazioni è in un certo senso “politica”: perché c’è spesso un conflitto fra interessi personali e opportunità reali, fra aspirazioni e posti disponibili, fra passioni e competenze richieste.

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In breve, è la dialettica fra sé e il mondo, in un momento di passaggio e di riconoscimento sociale che ha in questi anni messo in luce un problema nuovo, l’imprevedibilità del futuro: se non conosciamo i lavoro di domani, non disponiamo di una domanda di competenze credibile e stabile, e non possiamo formare quelle oggi richieste certi che domani avranno sbocco professionale. Per questo sono in crisi i servizi di orientamento e chiunque – tutti i genitori, ad esempio, e molti insegnanti - si trovi sollecitato a suggerire cosa fare, cosa scegliere. La riflessione sulle passioni non è più quindi un mero esercizio di raccontare cosa ti piace fare, ma è diventata una preziosa fonte informativa per fondare scelte, in assenza di altre basi solide. È come se quella voce che in passato coincideva col tempo libero o l’hobby personale avesse oggi un altro significato.

“L’idea di dipingere è nata per caso, come tutte le cose, anche se credo di aver sempre avuto questa vena artistica. E’ nata così, nel senso che una mia amica mi disse ‘te che sei un po’ artistoide perché non inizi a dipingere’, allora ho preso una tela ed è nata questa attività, c’era intesa tra me e quella tela e sono nate varie idee, ore le tele sono esposte in questo locale.Per adesso non sto studiando perché vorrei comunque che la mia scelta di studio seguisse l’impronta di quello che voglio fare nella mia vita. Il mio sogno è sempre stato leggere. Io leggo da quando sono molto piccola e nei libri ho sempre trovato molte cose che mi hanno portato ad essere ciò che sono adesso. Ho pensato così che magari “Lettere” era la facoltà per me, poi mi sono detta ‘quando finirò questa università cos’avrò in mano?, a livello lavorativo cosa mi potrà rimanere?’, così mi sono bloccata.”

Questa ricerca personale, divenuta oggi così cruciale, delle proprie vocazioni avviene certo a scuola, dai riscontri nelle diverse materie, ma avviene molto spesso fuori, nelle diverse esperienze che capita di fare. Fra queste certamente il volontariato risulta oggi, per molti ragazzi e ragazze, un terreno molto fertile di sperimentazione di sé, un’occasione fra le più forti per scoprire

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in cosa ci si scopre efficaci, per quali attività si è davvero portati.

“Mi sono sempre un po’ spesa in ambito di volontariato. Ma scegliere di partire, penso che a volte, lo fai un po’ più per te stesso con la supponenza di andare a fare del bene. Non era quello il fine ultimo. Lo era di più il fatto di mettermi alla prova, oltre all’idea di fare qualcosa di concreto. Perché chiaramente, la prima volta che sono partita, non avevo la pretesa di cambiare realmente le cose in tre, quattro settimane di permanenza in Kenya. “

Ma la passioni non sono oggi solo prefigurazioni di lavori forse non ancora codificati e riconosciuti, palestre per scoprire le proprie vocazioni e quindi i mestieri in cui si potrebbe riuscire. Sono certamente anche agli antipodi di tutto questo, sono l’antidoto al lavoro, il puro piacere senza ambizione professionale, l’esercizio di libertà e fuga dalla realtà per bilanciare giornate di impegno lavorativo o faticosa ricerca di un lavoro. E, in questo senso, non sono meno importanti, meno attuali.

“Ho portato le scarpe da calcio perché ho cominciato quando ero un ragazzino, seriamente da quando avevo 5 anni, e gioco tutt’ora, tra alti e bassi, infortuni al ginocchio ecc. Come ogni sportivo quando ci sei dentro è un mondo a parte, tutto il resto non c’è, o meglio c’è ma non ci pensi, la famiglia, gli amici, cioè sei tu, undici voi e undici loro, la palla in mezzo e basta. È la cosa che avrei voluto fare ma non ho avuto le possibilità. Diciamo che è l’unica cosa che mi toglie il pensiero di quello che è la vita reale, di quello che può succedere… staccare da tutto, metto sui quegli scarpini, fare una corsa, giocare con i tuoi compagni amici… ed è come una droga, nel senso che se potessi fare sempre qualcosa giocherei a calcio ovunque! Per i campi, nelle strade, nei centri commerciali, sempre pallone e scarpini, vivere nel mondo così.”

Relazioni fra le generazioniÈ un tema che ritorna nelle interviste, giovani versus non-giovani, il ricambio generazionale, le differenze di potere, la netta sensazione di un’ingiustizia sociale nella distribuzione delle opportunità, e dei redditi. L’articolazione dei discorsi, molto diversi fra loro, consente di ricostruire una sorta di grammatica del problema, per fondare una relazione più corretta, dal punto di vista di queste biografie. La prima indicazione, già richiamata in una precedente citazione, è la sollecitazione a non generalizzare nello sguardo fra generazioni diverse. E contemporaneamente a condividere fra pari questa situazione, perché

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l’unico vantaggio dei cosiddetti Neet è che non si tratta della vergogna di uno ma della condizione oggettiva di tanti.“Poi di quartiere in quartiere, di città in città, è comunque diversa. “giovani”, i giovani cosa vuol dire? Ci saranno quelli così, quelli cosà… L’aspetto “positivo” è che questa situazione non è andata ad interferire sulle relazioni sociali, mi spiego: quando si parla di lavoro con ragazzi nella mia fascia d’età sono sicura di aver di fronte qualcuno che mi capisce, perché è nella mia stessa situazione (salvo qualche fortunato caso), non mi sento giudicata o guardata male perché condividiamo, purtroppo, la stessa esperienza. Non si può invece sempre dire lo stesso con le persone più grandi, dove l’epiteto di fannullone è sempre dietro l’angolo.”

La seconda indicazione è quella di non giudicare le persone, ma guardare i contesti di vita, perché i comportamenti e gli atteggiamenti ne risultano molto condizionati.

“Noi viviamo in una città in cui non puoi fare nulla, perché tutte le persone sono fredde, sono ostili, tutto quello che fai è la fine del mondo, è ovvio che non fai niente e ti barrichi in casa, sei terrorizzato! Strutturi anche tu la mentalità della paura, insomma non è un contesto amichevole e si fa più fatica. Appunto perché siamo giovani, ci chiamano giovani, caspita un giovane è pieno di insicurezze, di paure… non è facile vivere così.”

La terza indicazione è a valorizzare lo specifico giovanile, costruire un sistema in cui proprio l’irriducibilità dei comportamenti e degli schemi mentali dei ragazzi e delle ragazze ai modelli adulti trovi spazio e riconoscimento, produca innovazione sociale.

“Molti di noi vogliono fare di testa propria, ma bisogna anche prendere i ragazzi per quello che sono e saperli attirare con le adeguate risorse.”

La quarta indicazione è rompere le invidie, le rivalità per età, le barriere all’ingresso, e rendere le aziende, le istituzioni e in generale le organizzazione del lavoro più aperte.

“Io vedo sul lavoro persone con un briciolo di potere in più che non vogliono che un ragazzino gli rubi la scena. È la cosa più brutta, perché togli possibilità a chi è davvero dotato, a chi è una risorsa per l’azienda.”

E poi c’è un’indicazione molto forte, sfidante, che ritorna in due interviste, ovvero la proposta di sospendere uno sguardo per età, la prefigurazione

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delle capacità di chi si ha di fronte deducendole dagli anni. È l’invito a superare il pregiudizio dell’età, lo stereotipo dell’inesperienza giovanile, in antitesi all’idea di un ragionamento “per quote”. Ragazzi e ragazze non chiedono un lavoro perché è loro dovuto – certo, in parte anche questo laddove i tassi di disoccupazione sono così diversi fra giovani e adulti - ma perché ritengono di avere capacità utili a tutti, e rinunciarci sia una perdita per la società.

“L’età non si chiede mai. Perché secondo me chiedere l’età ad una persona, poi ti condiziona anche sul giudizio della persona. E invece magari una persona ha tanto da darti e da dirti al di là dell’età. Quindi non bisogna pensarci. Magari c’è uno che ha dieci anni meno di me che mi illumina. Che ne sai. Non soffermiamoci sull’età anagrafica.Bisognerebbe iniziare i rapporti lavorativi basandoli sulla parità tra uomini, nel senso che siamo alla pari per portarci rispetto reciproco, non sul nonnismo… come spesso accade invece. Se sbaglio è giusto riprendermi, ci mancherebbe, però un metodo che ho vissuto è stato quello messo in pratica da un mio ex-responsabile che se sbagliavamo ci obbligava a portare cibo per tutti, però cosi si cementava il gruppo, c’era modo di discuterne insieme ma in maniera conviviale.”

ScelteTutte queste storie sono disseminate di scelte, di passaggi nei quali si è dovuto decidere fra opzioni diverse, a volte davvero distanti, quindi difficili. Oppure di scelte che non si è potuto agire, perché non se ne avevano i mezzi, cioè troppo costose. Ogni storia di vita, non solo quella di questi ragazzi e queste ragazze si può leggere in termini di scelte, di decisioni prese di fronte ad un bivio. Ma qui ci sono almeno due specificità, che rendono questa voce significativa nell’enciclopedia della condizione precaria. La prima è che si sceglie ma si è anche scelti, oggi più di prima, perché i passaggi sono disseminati di prove, test, selezioni, casting, come non avveniva in passato. È questa ambivalenza a caricare quelle scelte di una portata significativa, perché espone all’ansia del risultato, alla frustrazione in caso non si superi la prova.

“Io ho finito di studiare quest’estate, mi sono diplomata al Liceo Colombini, indirizzo Liceo delle Scienze Umane con opzione economico-sociale, poi avevo l’intenzione di fare l’università, ma purtroppo non sono stata presa subito alla facoltà che volevo, in quanto era a numero chiuso e le iscrizioni si sono chiuse nel giro di un giorno. Sono finita in graduatoria in fondo in fondo, mi hanno chiamato alla fine

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di Ottobre, ma non sono andata, a metà Settembre avevo trovato questo lavoretto in una palestra. Non era la mia massima ambizione, ma ho la filosofia del “ciò che trovo, faccio”, anche se magari non mi piace, perché mi servono soldi.”

Le biografie di cui parliamo hanno spesso alle spalle insuccessi, dubbi, rimpianti e rimorsi: si è in molti senza lavoro, questo conforta, ma sono di più quelli che lavorano o studiano, e resta il pensiero di come sarebbero ora le cose se… Insomma, l’impasse attuale è riletta spesso come una scelta sbagliata, un calcolo errato, una rappresentazione smentita dai fatti su quello che sarebbe successo. Così oggi è più difficile scegliere, i margini di errore si riducono se forse hai già sbagliato, le negoziazioni in famiglia si fanno più faticose, le risorse da investire sono in parte bruciate. Ma le scelte pesano perché sono anche lo strumento del riscatto, l’affermazione di identità e non solo di mediazioni strette fra opzioni scarse. Così qualcuno rivendica questo esercizio di personalità e di autodeterminazione, succede quando si seguono le passioni per prenderle sul serio, come si è già visto, o quando si ha la lucidità di puntare ad una professione a partire da un’abilità scoperta per caso in un’attività di volontariato.

“A volte mi ritrovo ancora a pensare ‘ho quasi 21 anni, mettiamo le basi per fare qualcosa di serio nella vita’. È questo che ancora oggi mi sto chiedendo. Quindi ho detto ‘sono un’animatrice’, ho fatto questo tirocinio, mi hanno detto che lo posso fare. Faccio volontariato da 4 anni, so stare coi bambini, facciamo qualcosa che arricchisca me e gli altri.”

Tentativi e ripartenzeLa condizione di incertezza cambia gli schemi cognitivi appresi a scuola, e applicati nei mestieri dove la razionalità strumentale vige. Siamo infatti abituati a pensare all’obiettivo, ricostruire la strada delle azioni che ci separano da quel risultato, e procedere agendo quelle, sapendo che la strada garantisce la meta. Per molti, certamente per i ragazzi, lo schema non vale più, non con le stesse garanzie. Non è detto che quello che studi si traduca nel suo mestiere equivalente, perché quel mestiere può risultare - a studi conclusi - non più disponibile in termini di posizioni vacanti, modificato nelle competenze richieste, letteralmente in estinzione.Oppure non è accessibile il percorso di studi previsto perché saturo, troppo costoso, impedito all’ingresso dai test. Ammesso che si abbia chiara la meta. I cosiddetti Neet hanno studiato qualcosa cui non corrisponde un lavoro, o non più, o non più con l’immediatezza di prima, oppure hanno sbagliato gli studi, la meta giusta era un’altra. Così prendono tempo per

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capirne di più, rivedere fini e mezzi. La condizione di precarietà è quella che congeda dalle certezza della razionalità strumentale “mezzi-fini”. Dato un obiettivo non conseguono scelte che lo garantiscono, data una relazione fra mezzi e fini è sempre possibile e sempre più probabile che accada qualcosa che indebolisce quella relazione. E allora occorre muoversi per tentativi, ovvero provare, accettare il fatto che le cose si chiariscono mentre si agisce, si fanno ipotesi sui dati disponibili e si verificano i risultati, perché in questa logica per tentativi le soluzioni derivano dall’esperienza. Le biografie che si muovono per tentativi appaiono da fuori spesso incoerenti, ma è inevitabile in una logica esplorativa, ovvero costretta a provare “quel che capita”, in attesa di trovare la strada più convincente.

“La mia situazione presente non è male perché ho trovato un impiego nel castello di Gropparello ed è una cosa che non mi aspettavo, perché l’ho fatta completamente a caso. Ho visto un annuncio sul giornale, ho mandato il curriculum, ho fatto un colloquio e mi hanno preso. Ero partita dicendomi: ‘ho fatto il Classico, ho un diploma in mano che non vale niente’, e vado lì dicendo ‘la tentiamo’, come tutte le altre cose dove poi ti chiamano e ti dicono ‘no guarda non importa, abbiamo preso qualcun altro.’ Io invece sono andata lì e il giorno dopo mi hanno chiamato e mi hanno detto che ero piaciuta. Allora ho detto ‘cavoli! forse una speranza c’è per tutti!’. Quindi sto facendo questa cosa che non è il lavoro della mia vita, è un lavoro stagionale che va in base alle esigenze delle scuole e delle famiglie che vanno in gita.”

Tante citazioni testimoniano questo schema “paratattico”, che associa azioni parallele in una logica orizzontale per tentativi – come è di fatto inviare il proprio curriculum a diverse aziende, fare tanti colloqui, iscriversi ai test di differenti facoltà,… - per cui crediamo sia evidente la sua ricorrenza nelle esperienze dei giovani. È invece più interessante riportare la frase di una ragazza intervistata, che sintetizza in modo esemplare l’apprendimento di questo schema di azione, anche se con una formula inapplicabile.

“Servirebbero due vite. Una per fare i tentativi e l’altra per fare le cose giuste.”

Vuoto (tempo)Tutte le vite hanno pieni e vuoti, momenti intensi e altri meno definiti, risolti. La vita dei bambini e dei ragazzi è spesso molto piena - di scuola, compiti e attività extrascolastiche – mentre l’estate è la stagione in cui si libera spazio, si accettano la noia e l’ozio, ci si muove senza la pressione del risultato

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atteso, della performance. Ma l’estate è appunto la “vacanza”, il periodo vuoto, l’eccezione alla regola del pieno, ovvero dell’impegno, di studio o lavoro, nelle vite di questi ragazzi e queste ragazze.Col vuoto abbiamo un rapporto ambivalente, ne riconosciamo il potenziale creativo ma subiamo l’horror vacui, la vertigine del disimpegno, il timore di non aver nulla da fare. Questa ambivalenza si avverte nelle storie di vita raccolte, in cui è evidente l’attesa di una svolta, e al tempo stesso lo sforzo per organizzare le giornate aumentando l’efficacia della propria azione. È come se aleggiasse in modo latente lo spettro della “perdita di tempo”, l’accusa di non fare il massimo per uscire dallo stallo. Ecco due citazioni in cui si prova a difendersi da quell’accusa. Ma ricordiamo anche le precedenti da cui si intuisce quanto tutto questo sia subito, e insieme quanto sia prezioso per ricompensare la fatica dei vari tentativi, per maturare le proprie scelte, riflettere su di sé, elaborare il coraggio di decisioni forti, fuori dagli schemi e dalle routine di ricerca risultati evidentemente inefficaci.

“Nella vita di nessuno esiste il tempo vuoto, poi io sono anche pigra, un po’ tanto, comunque quando ho dei momenti personali amo scrivere sui muri di casa mia, mi piacciono molto molto i film, sicuramente ho passato molto tempo guardando i film, e poi…anche solo ascoltare della musica a me piace veramente tanto… che per alcuni queste cose possono essere delle perdite di tempo. Tempo vuoto ne ho avuto molto, forse due anni fa prima di cominciare il mio tirocinio mi sono ritrovata alla fine della scuola altamente sfiduciata, mi dicevo ‘adesso non so cosa fare, non so assolutamente da dove partire”, sapevo però che potevo continuare ad andare a fare del sano volontariato, quello fa bene. Però mi sono trovata molti giorni a casa sola a dire ‘ok, adesso?’, vedevo molte mie amiche che avevano le idee chiare, molti che avevano la strada aperta e mi trovavo in un vicolo cieco. E’ un muro che un po’ mi sono messa io con le mie insicurezze, un po’ è stato frutto di cose esterne... Leggevo, uscivo, andavo all’associazione, cioè facevo le cose che fanno i giovani quando non hanno niente da fare. A volte mi piaceva anche uscire da sola con la musica nelle orecchie camminavo, passeggiavo, oggi a volte canto a casa quando ho un momento vuoto, mi ritiro e canto perché penso che la musica sia un modo per evadere dal tutto insieme ai libri. I libri ti mandano in un’altra realtà, con la musica ti costruisci tu una realtà al di fuori di quella che hai. Quindi, in un certo senso, il tempo non era vuoto... Era vuoto perché non lo occupavo in un modo che fosse importante, ma non era tempo perso, era tempo che occupavo a far niente di importante, dove io lo occupavo facendo le cose che mi piacevano, ma allo stesso tempo io non avevo una svolta nella mia testa e nella mia vita.”

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Durante i mesi in cui si è articolato il progetto No-Neet work in progress sono stati organizzati molti momenti di incontro con persone che avevano qualcosa di interessante da raccontare rispetto al tema della condizione giovanile in quest’epoca di precarietà. Ci si è confrontati con sociologi, youth workers, servizi informagiovani all’avanguardia, makers, esperti in comunicazione digitale e tanti altri. A partire dalla propria esperienza e dalle proprie riflessioni, ognuno ha dato un contributo utile ad inquadrare la realtà dei giovani senza la certezza del lavoro, a porla sotto una luce inedita, ma soprattutto a prospettare alcuni possibili sentieri percorribili per vivere e reagire a questa condizione. Questo capitolo è dedicato ad uno di questi incontri, forse il più ardito. Si tratta del confronto con quelli che, è facile supporre, siano stati i primi Neet dell’epoca contemporanea. Sono i giovani che abitavano il ghetto newyorkese del Bronx negli anni ’70, coloro che per primi hanno dovuto affrontare la sfida della precarietà diffusa prodotta dalla società post-industriale, ma anche i primi che hanno attivato energie inedite per reagire; sono i creatori di quel fenomeno, chiamato hip-hop, che oggi è la cultura giovanile più diffusa al mondo. L’incontro ovviamente virtuale, avviene attraverso una inusuale performance condotta da un DJ che ha fatto la storia dell’hip-hop italiano (DJ Vigor), uno dei migliori MC attualmente in circolazione (Musteeno) e il sottoscritto, uno strano formatore e ricercatore che a tempo perso si diletta nella spoken word poetry. Il tutto in un giovedì pomeriggio di maggio di pioggia torrenziale, il primo dei tre giorni dell’evento “To neet or not to neet” uno dei momento focali del progetto.Come macchina del tempo viene utilizzata la consolle di Vigor: due piatti, un mixer ed un laptop che per l’occasione non mixano solamente musica ma anche video, a provvedere ad un’ondata di suoni e immagini dal forte effetto evocativo, ideali per accompagnare i presenti a viaggiare nello spazio e nel tempo; gli altri due compari sono invece al microfono ad accompagnare questi stimoli multimediali con letture, rap e slam poetry, tratte in gran parte dal mio volume “Pedagogia hip hop”. Una mezz’ora di stimoli sensoriali e cognitivi che coinvolgono il pubblico

Capitolo 4 –Manifesto della pedagogia hip-hop. Otto lezioni dai giovani delle periferie

di Davide Fant12

12 Pedagogista, ricercatore, formatore è autore tra gli altri del volume “Pedagogia Hip-hop-gioco, esperienza, resistenza”, Carocci.

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presente: operatori sociali, ragazzi dei servizi educativi, persone a vario titolo coinvolte nel progetto e semplici curiosi.Il fine è quello di capire come hanno fatto quei ragazzi a reagire ad una situazione che, seppur estrema, aveva tanti punti in contatto con la nostra, e scoprire se qualche buona intuizione sarebbe possa tornare utile anche a noi.

Un mondo lontano, o forse molto vicinoQuando il disco, sotto la puntina magica di DJ Vigor, comincia girare, il panorama sullo schermo di fronte ai presenti é piuttosto desolante. Il Bronx, quartiere di una delle più importanti e ricche città del mondo, ritratto alla fine degli anni ’70, come luogo di bruttezza e disfacimento, di proliferazione di tensioni sociali ed etniche; la disoccupazione e il lavoro precario come esperienza quotidiana della maggior parte degli abitanti. In quelle immagini abbondano macerie delle case abbattute per una politica urbana e immobiliare scellerata ma che simbolicamente potevano anche rappresentare le macerie prodotte dallo sgretolarsi delle certezze “solide” della modernità. La crisi non aveva solo colpito la dimensione economica ma anche quella del senso: era l’inizio della fine delle “grandi narrazioni”, in cui i fondamenti su cui si era ancorato il pensiero occidentale fino a quel momento cominciavano ad andare in frantumi. Si trattava anche del periodo in cui le evoluzioni sociali, economiche e tecnologiche mostravano un mondo improvvisamente accelerato e ampliato. Si percepiva una società che diveniva sempre più complessa, la velocità dei cambiamenti prospettava un ambiente di vita sempre più incontrollabile, tanto più per chi era maggiormente sprovvisto di risorse sociali e materiali. Il Bronx era il luogo della ricerca di un lavoro e di un senso, della d isoccupaz ione e dell’incertezza, della nullafacenza e dell’assenza di progetti in cui credere e investire. L’apoteosi del nostro panorama contemporaneo?Dopo solo pochi

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minuti di esplorazione del territorio l’atmosfera è però repentinamente cambiata. DJ Vigor lancia “it’s just begun” di Jimmy Castor, pezzo funk dall’imponente energia ritmica, e improvvisamente appaiono i protagonisti di questa storia, i nostri consulenti di quel giorno.

HIP-HOPQuello che fecero, istintivamente, un gruppo di adolescenti per reagire a questa situazione, fu organizzare feste di quartiere. Sullo schermo sono apparse immagini di questi eventi che avevano luogo all’aperto, nei campi da basket dei parchi gioco. I “Block parties”, così vennero chiamati, divennero presto occasione di aggregazione per tutto il vicinato: giovani, famiglie, anziani e persino membri delle gang; erano luoghi d’incontro per tutta la comunità, atipici centri comunitari di aggregazione in un panorama desolato.Il centro gravitazionale dei party di strada era il DJ che aveva il compito di far scatenare i partecipanti nel ballo. Le sue selezioni comprendevano, oltre che funk, musica caraibica, rock, reggae e talvolta anche musica classica. I DJ miscelavano tutto ciò che era la propria esperienza sonora: riportavano nelle feste di quartiere la complessità, l’esperienza del ghetto come luogo di incontro e scontro di culture ed esperienze. Anche la particolare danza che si sviluppò in questi contesti aveva un carattere particolarmente energetico, inusuale e meticcio. Nel breaking (o break-dance, come questo stile di ballo divenne impropriamente famoso), era facile riscontrare la rielaborazione creativa del mondo in cui quei giovani erano immersi, immaginari riguardanti il passato, il presente ed il futuro. In questa danza, spesso spettacolare e acrobatica, si trovavano richiami ai riti iniziatici dell’Africa nera, mimi che rappresentavano persone amputate o ferite di ritorno dal Vietnam, movimenti di robot in corto circuito che rimandavano all’immaginario fantascientifico. Durante questi eventi di strada ogni DJ era affiancato dai propri maestri di cerimonia (MC), ragazzi armati di microfono che incitavano i partecipanti alla festa e alla danza, che esaltavano le sue qualità ai piatti improvvisando rime sul tempo, trasformando il vigoroso tappeto sonoro in una base per comunicare in maniera inconsueta ed efficace. In breve tempo queste rime oltre che improvvisate cominciarono ad essere scritte, e da semplice incitazione al ballo e al divertimento divennero un veicolo per comunicare la vita quotidiana, i vissuti del ghetto: racconti di violenza, droga, povertà ma anche di desiderio di reagire e cambiare le cose. Nello stesso periodo in cui DJ ed MC organizzavano le prime feste nelle strade del Bronx, nel ghetto vedeva la luce un altro strano fenomeno: le stazioni e le carrozze della metropolitana erano sotto assedio, su cemento

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e lamiera comparivano nomi, firme a pennarello o bomboletta ad opera di misteriosi scrittori. Questi ragazzi si definivano semplicemente così, “writers”, giovanissimi che come estremo grido di esistenza, cominciarono ad imporre la propria presenza attraverso l’atto più immediato e provocatorio che potesse essere immaginato a tale scopo, scrivendo il proprio nome (o più spesso streetname, nome di strada) ovunque sui muri del quartiere. Col tempo, al fine di evidenziare il proprio nome rispetto agli altri, i writers cominciarono ad interessarsi alla resa grafica delle proprie scritte: esse divennero sempre più grandi tanto che spesso arrivavano ad occupare l’intera fiancata esterna di una carrozza, ma soprattutto sempre più elaborate. Le lettere venivano piegate, incastrate, sezionate, smontate e rimontate fino a perdere la propria leggibilità mutandosi in una sorta di opere astratte, proponendo un’arte pittorica mai vista prima caratterizzata da elementi dal forte valore simbolico.

L’insieme di questo pratiche venne chiamato hip-hop.Nell’hip-hop confluivano le quattro discipline artistiche sopra descritte (dette “i quattro elementi”) e la più vasta cultura che in relazione veniva generandosi. E’ possibile parlare di cultura perché intorno a questo fenomeno nacquero un particolare tipo di abbigliamento, uno slang, un modo di atteggiarsi e, soprattutto, un universo valoriale specifico. L’originalità era la regola numero uno, lo studio maniacale per creare sempre qualcosa di nuovo: nei passi di danza, nei testi, nella selezione dei dischi dei DJ, nell’elaborazione delle lettere, nell’abbigliamento, nello slang. Altri valori caratteristici della cultura hip-hop furono invece mutuati dalla cultura delle gang, mondo dal quale molti hiphopper provenivano. Il legame al gruppo, la solidarietà e fedeltà alla squadra, luogo di apprendimento tra pari, erano fondamenti imprescindibili. Questa cultura ha fatto si che i giovani del Bronx si potessero prendere cura di sé, e costruire nuovo senso tra quelle macerie. Oggi l’hip-hop è la cultura giovanile più diffusa nel mondo e, a sentire i suoi protagonisti, tra cui anche tanti giovani di Piacenza, il motivo di tanto successo è dovuto a questo suo valore “curativo”, questa sua inalterata capacità di aiutare a sopravvivere tra le sabbie mobili dell’epoca contemporanea. Ora che i problemi dei ragazzi del ghetto (la disoccupazione, la precarietà, la gestione di copiosi flussi mediatici, la mancanza di un senso unificante) sono questioni con cui dobbiamo raffrontarci tutti, l’intuizione di quei giovanissimi del Bronx è diventata ispirazione per molti coetanei anche a migliaia di chilometri di distanza.La domanda che ci si è posti è stata allora qual’è la ricetta dietro a questo fenomeno, su quali elementi di senso pone le proprie fondamenta, e soprattutto se le intuizioni di questi ragazzi possono essere d’aiuto ad una fascia più ampia di popolazione, magari non per forza giovanissimi, magari

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non appassionati di musica rap o disposti a ballare in modo acrobatico sulla testa, a tutti i cosiddetti Neet o semplicemente a chiunque si trovi chiamato ad abitare questo tempo così instabile e difficile da decifrare. A partire dagli stimoli emersi, abbiamo cercato di definire una “pedagogia hip-hop” che potesse andare al dì là delle peculiari manifestazioni artistiche giovanili e divenire una risorsa aperta a tutti, il contributo dei più giovani alla sfida di abitare la contemporaneità. Si è arrivati così a svelare il “Manifesto della pedagogia hip-hop”, il tentativo di sistematizzare le intuizioni, i percorsi di senso portati da questi (e dai nostri) ragazzi, ma soprattutto un invito virtuale a non arrendersi, a guardare quanto di più creativo le nuove generazioni stanno producendo, il cui valore forse

ci sfugge perché mascherato dietro a manifestazioni espressive e culturali che talvolta ci paiono lontane dal nostro gusto e sensibilità personale. Un manifesto in 8 punti, 8 “lezioni” che, una alla volta, andremo ad approfondire.

Il Manifesto della Pedagogia hip-hop

1 Looking for the perfect beat – Il gusto di apprendere per essere di più

Il primo insegnamento:Riscoprire le esperienze di apprendimento come un valore e un piacere in sé, fare esperienza di sè e del mondo, “sentirsi funzionare” al di là di ricompense esterne, della promessa che un titolo di studio porterà un

futuro sicuro.

I ragazzi del ghetto non avevano nessuna aspettativa e non avevano nulla da perdere. Hanno cominciato a sviluppare le proprie competenze, le proprie capacità non perché immaginavano che questo gli avrebbe dato un ritorno nel futuro, un titolo di studio o un buon lavoro, ma per il piacere di sentire il proprio valore, di scoprire le loro capacità, di essere vivi nel mondo, sentire

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stima nei propri confronti.In una società in cui non c’è connessione lineare tra il percorso scolastico e il lavoro che si farà in futuro, una delle poche ragioni che può ancora spingere i giovani ad apprendere non è esterna ma è interna, intrinseca all’apprendimento stesso, è da rinvenirsi principalmente nel piacere, nel desiderio, nel godere della conoscenza e dell’atto di creare.

2 T.a.z. (Temporary Autonomous Zones) - Creare spazi incantati di crescita e trasformazione

Il secondo insegnamento:E’ fondamentale per crescere e attivare cambiamento confinare spazi altri, liberi dall’immaginario dominante e dal suo giudizio. Luoghi in cui

sia possibile immaginare per sé nuove identità e mettersi alla prova liberamente, sperimentarsi, vivere l’ideale qui ed ora.

Portando i sound system nelle strade, i ragazzi del Bronx avevano creato spazi dove si sperimentavano un’immagine di sé e dinamiche relazionali differenti da quelle quotidianamente esperite. Erano spazi iniziatici in cui si ribattezzavano con un nuovo nome, aprivano possibilità in una realtà apparentemente senza via d’uscita. In un mondo in cui è tutto percepito come troppo grande, vasto, una mega-macchina che ci inghiotte con le proprie regole che ci sembrano imperativi impossibili da cambiare, in cui tutto va troppo veloce, è fondamentale autoproclamare e confinare spazi di crescita personale retti da regole altre, in cui sia possibile vederci al di là dell’immagine che ci viene forzatamente riflessa dal mondo esterno, dove si possano sperimentare nuove modalità, agire in spazi di magia, di incanto per re-inventarsi e respirare l’aria di un futuro possibile.

3 Crew e tribù – Coltivare micro-comunità conviviali di sostegno e apprendimento reciproco

Il Terzo insegnamentoIn un contesto sempre più incontrollabile, sfilacciato, complesso, in continuo cambiamento, il gruppo di riferimento, gli affetti, le piccole comunità di pari, sono una delle risorse più preziose. La tribù diviene

spazio di apprendimento continuo, luogo che protegge e che dona forza.

In un contesto dove i legami famigliari sono sempre più deboli, dove l’incertezza, economica e identitaria è sempre più diffusa la dimensione della

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comunità ritorna ad essere un elemento irrinunciabile.I ragazzi del ghetto per questa ragione avevano posto al centro della loro organizzazione sociale la gang che con l’avvento dell’hip-hop è diventata la crew, la posse. Si tratta di gruppi, tribù, fondate sul mutuo aiuto, sull’apprendimento tra pari, rifugio dalle insidie ma anche luogo in cui si cresce e si forma la propria identità.In una situazione in cui la complessità è troppo grande è inutile il tentativo di trovare sicurezza attraverso il controllo su tutte le variabili del mondo circostante. La migliore garanzia di sopravvivenza in questi casi consiste nell’amicizia, nel sapere che almeno una parte dei flussi che ci circondano non sono pericolosi e che l’interesse comune tra gli umani può prevalere sul loro interesse conflittuale. In un mondo in cui il futuro sembra non esistere più, in cui l’esperienza dei padri è troppo lontana da quella dei figli i migliori maestri possono essere i fratelli maggiori. Chi ha fatto esperienza dello stesso mondo e ora si trova un passo avanti, con un po’ più strada percorsa.

4 Inner city griots: Divenire narratori di storie e creatori di contro-narrative

Il Quarto insegnamentoE’ necessario imparare a raccontare storie, dare un nome e un flow ai propri vissuti, esplicitando passaggi, connessioni, rotture. Generare

narrazioni come azione di apprendimento riflessivo e di trasformazione. Divenire creatori di miti, generatori di contro-narrative, di nuovi copioni e

finali inediti.

Nel ghetto i ragazzi avevano ricominciato a scrivere. Raccontavano di sé stessi, dei loro eroismi, delle proprie debolezze della difficoltà della vita nella periferia post-industriale. Scrivevano storie in rima per porre nuova luce su di sé e la propria condizione, per esplorare nuovi finali ancora difficilmente immaginabili.Nell’epoca che abitiamo è fondamentale sviluppare la competenza del saper raccontare storie. Saper costruire senso attraverso l’articolazione di racconti e la definizione di trame. Raccontare per dare ordine, senso e dignità alla propria esperienza ma anche per costruire narrazioni inedite in opposizione al racconto dominante.

5 Remix e sampling: Competenze di ricombinazione

Il Quinto insegnamentoAgire nel mondo con la logica del dj. Sviluppare la competenza della

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ricombinazione, del remix, del campionamento di frammenti della realtà per creare forme nuove, inaspettate.

I ragazzi del ghetto avevano ereditato macerie, frammenti, esperivano l’eterogeneità. Verso questo panorama disorientante si sono posti come dj. Nell’hip-hop hanno assemblato elementi provenienti da mondi diversi: la fantascienza, le arti marziali, i riti africani, le immagini della televisione commerciale, il funk, il reggae, la cultura caraibica, la militanza afroamericana. Hanno preso frammenti della propria esperienza e hanno costruito qualcosa di completamente nuovo. L’estetica delle sue forme artistiche: musica campionata, lettere scomposte, la danza del break permettono una continua selezione, inclusione e ricombinazione di elementi diversi dando forma e senso alla frammentazione.Componendo musica e cucendo segmenti audio differenti provenienti dal proprio vissuto, secondo l’approccio del DJ, gli hiphoppers vivono e valorizzano l’esperienza dell’eterogeneità, coltivano il concetto di identità culturale meticcia, in movimento, sviluppano la capacità creativa di mettere assieme frammenti nella libertà di riorganizzare, ri-significare.L’unica cosa che si può fare, se si vive tra le macerie, è quella di saperle utilizzate per costruire, sapere cogliere cosa può funzionare ancora, smontare quello che non va più e connetterlo con qualcosa d’altro. Campionare, mixare è una competenza imprescindibile. Il concetto di ibrido, di sincretico, un valore irrinunciabile.

6 Hacking: Riappropriarsi degli strumenti tecnologici

Il sesto insegnamentoPorsi verso la tecnologia con uno sguardo attivo e ricombinante.

Sviluppare un rapporto con gli strumenti tecnologici in cui essi possano essere violati, se ne possano esplorare potenzialità al di là di quanto

previsto dai protocolli d’utilizzo.

I b-boy hanno preso un giradischi e lo hanno trasformato in uno strumento musicale, si allacciavano alla corrente elettrica del servizio pubblico per alimentare i sound system durante i block parties. La tecnologia era oggetto di gioco. Con l’attitudine degli hacker (e dei bambini) gli adolescenti del ghetto si rapportavano agli strumenti tecnologici e li modificavano a seconda delle proprie necessità, incuranti degli scopi per cui erano stati costruiti.In un mondo in cui sempre più spesso siamo passivi rispetto alla tecnologia, è fondamentale approcciarsi a queste risorse in modo creativo utilizzandole come strumenti emancipanti e in grado di costruire esperienza autentica,

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superando vissuti di passività e dipendenza a cui spesso inducono.

7 Body and Soul: Il valore del corpo pulsante

Il Settimo insegnamentoE’ necessario riscoprire la dimensione in cui mente e corpo sono

tutt’uno. In cui abbia diritto di esistere anche il corpo imperfetto. Una mente-corpo che sente le emozioni, gli da un nome, un corpo erotico opposto al corpo frigido del web, corpo vivo che si impone allo spazio

asettico della città.

Nel ghetto la danza del break riportava in vita riti tribali, sciamanici, il corpo era un elemento imprescindibile del rito sociale, un corpo vivo, che apprende, mostrato nella sua potenzialità e con le sue ferite, le sue disarmonie. Si ballava in strada, il corpo si relazionava con lo spazio urbano, lottando per non esserne sopraffatto.In una società dove il corpo perde di valore a favore della mente e del virtuale, o la pubblicità lo vuole assoggettato ai propri standard di bellezza, diventa fondamentale riscoprire il suo valore, i suoi bisogni, i suoi tempi, le sue imperfezioni, la sua intelligenza. Imparare ad ascoltare il corpo e ascoltare con il corpo.

8 DIY - Micro-economie di desiderio

L’ottavo insegnamentoValorizzare la dimensione D.I.Y. come strumento di emancipazione, di

controllo sul proprio lavoro, di possibilità e di creatività al di là dei vincoli del mercato mainstream.

Nel mondo hip-hop sono nate etichette discografiche indipendenti quando nessuno voleva prendersi la responsabilità di distribuire determinati dischi: troppo scomodi, troppo underground. Eppure gli artisti, fin dall’inizio, hanno pensato che potevano fare della propria arte il proprio mestiere, il proprio sostentamento, mantenendone il controllo, senza essere obbligati a scendere a patti con imposizioni esterne. Nel mondo del mito della start up, in cui tanti giovani sognano di arricchirsi inventando servizi o applicazioni digitali spesso dal dubbio valore pratico, può essere molto importante riscoprire il motto D.I.Y. (do it yourself! Fallo da solo!). E’ la pratica di rendere concrete le proprie idee, portare nel mondo le proprie passioni, farne anche una fonte di sostentamento, ma senza dover sottostare ai ricatti del mercato meanstream, accettando invece la fatica di

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avviare piccole, etiche, imprese indipendenti.

No Neet un “progetto Hip-Hop”?Giunti a questo punto una riflessione interessante potrebbe partire dalla domanda “quanto è stato hip-hop il progetto No Neet Work in progress?”, “Quanto, più o meno inconsapevolmente, sono stati messi in pratica in questi mesi i suggerimenti virtuali di quei ragazzi del Bronx? (e di tutti i cultori dell’hip-hop?)”.Non poco direi.

Spazio2, uno spazio altro

No Neet Work in progress nasce con/per/da Spazio2. Ha un legame inscindibile con la sua casa. Si tratta di un progetto-luogo per un luogo-progetto. Spazio2 è un territorio sottratto alla vita frenetica della città, al riparo dalle logiche commerciali, dai pensieri scontati: è uno spazio dove incontrarsi, stare bene insieme, un’isola per coltivare idee, progetti. Uno spazio dove essere perturbati e perturbare. Un’area che durante i mesi del progetto è diventata sempre più “luogo”, spazio fisico significativo, abitato, portatore di una cultura aperta che col tempo è andata crescendo. Un luogo di ricerca, di confronto, di partenza per mille imprese, iniziative, nuovi passi. Come le feste di quartiere nel Bronx uno spazio ‘altro’ nella città, con una velocità diversa e modalità relazionali inedite.

Un progetto fatto di storie

Attraverso l’hip-hop molti ragazzi hanno ripreso a scrivere e raccontare storie. Per dare un nome a ciò che succedeva, per poterlo organizzare, per prenderne le distanze e osservarlo meglio. Per raccontare la propria storia al di là di quella che era imposta loro dall’esterno. Avevano colto l’importanza di divenire storytellers.Anche nel progetto No Neet le storie sono state fondamentali. Il gruppo di ricerca ha raccolto le narrazioni dei coetanei, vicende di precarietà per incontrare e dare voce, dietro l’etichetta Neet, a persone reali, vive, e alla loro quotidianità, per dipingere, a partire dalla voce dei protagonisti, un immaginario che andasse oltre il riflesso di facili stereotipi. No Neet work in progress: il titolo del progetto è stato pensato fin dall’inizio con il desiderio di cercare racconti nuovi, di tessere trame inedite.Molto intenso è stato il pomeriggio in cui, per esercitarsi nella successiva raccolta di storie per la ricerca, il gruppo si è messo in gioco condividendo scorci delle proprie esperienze di vita. La consegna per ognuno era di

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individuare nel proprio vissuto momenti di apprendimento significativi, che “hanno fatto di noi quello che siamo” disponendoli all’interno di una linea del tempo. Questi momenti dovevano essere raccontati attraverso disegni dal valore simbolico. A coppie si è poi condiviso il risultato, alternandosi tra ruolo di tellers e quello di ascoltatori attivi.Pur nel contesto di un’esercitazione si è trattato di un momento magico. E’ capitato che che i partecipanti si stupissero di come fossero riemersi eventi nel tempo talvolta dimenticati, di come il loro intreccio producesse connessioni di senso inesplorate, di come ci fossero similitudini inaspettate tra i loro racconti e quelli degli altri.Al termine del lavoro è parso chiaro come essere “ascoltatori di storie” sia un ruolo molto delicato, si è evidenziata l’importanza, nel futuro compito di ricercatori, di instaurare con l’intervistato un incontro autentico, di profondo rispetto ed empatia, avendo a che fare con quanto di più prezioso egli possiede: la sua storia.

la crew NoNeet

L’intensità di questo lavoro è stata determinata anche dal fatto che il gruppo dei ricercatori è diventato nei mesi qualcosa di molto simile ad una crew: un luogo di condivisione, una squadra di alleati retta da vincoli di attenzione e fiducia reciproca. Un incontro di persone con alle spalle tratti di strada di lunghezza differente che ha saputo confrontare le reciproche esperienze e imparare insieme.

Un approccio critico

Durante i mesi in cui si è sviluppato il progetto NoNeet si è riflettuto, con un approccio critico, su alcune questioni che già i ragazzi del Bronx si ponevano, cercando come loro di non fermarsi alle risposte più superficiali. Si è riflettuto sull’autoimprenditoria, facendo un confronto tra la logica delle start up e quella del D.I.Y., tra ricerca di ricchezza e quella di trasformare in un lavoro la propria vocazione personale; si è messo in relazione il desiderio di realizzazione personale con l’importanza del rimanere concreti, di non mitizzare, e allo stesso tempo non sminuire, il bisogno umano di stabilità.Si è approcciato in modo problematizzante il ruolo dei social network, risorsa ma spesso anche criticità nel contesto lavorativo e di vita attuale.Il progetto è stato hip-hop soprattutto nell’attitudine di fondo, nell’energia, nell’idea di non cedere alla rassegnazione, di non “piangersi addosso”, ma credere profondamente nelle risorse che le nuove generazioni possono mettere in campo, aperte a nuovi e inaspettati paradigmi.

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La chiusura di capitolo sarà la stessa della performance live: il manifesto della pedagogia hip-hop scritto nello stile della slam poetry, un ideale sunto della saggezza dai ragazzi del ghetto, indirizzato a tutti noi impegnati ad affrontare il tempo presente e volonterosi di accettarne la sfida, con il giusto groove.

MANIFESTO DELLA PEDAGOGIA HIP-HOP

E’ ormai chiaramente smascherata la truffa che un pezzo di carta aprirà le porte del nostro futuro,che se - studiamo – sudiamo -

accumuliamo titoli, avremo assicurato il dopo ci proteggeremo dal fuoco dell’incertezza

è ormai chiaro che qualsiasi progetto lineare – consequenziale- non vale il tempo impiegato per concepirlo

a noi non è rimasto che imparare per imparare, per sentirci funzionare, maratoneti di sbattimenti enormi, solo per la vertigine di fare esperienza di noi e del mondo per l’assenza - la noia - per gioco, per l’urgenza di

mettere in ordine il troppo, per ricompensa intrinseca, pulsione libidica, non ci è rimasta che fatica gratuita, per il vezzo d’ essere di più, il

capriccio di rimanere liberi. per l’arroganza di sentirci vivi. Per perdita di tempo per il conforto del senso

Ritaglieremo aree, zone temporaneamente incantate autoproclameremo

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eterotopie. Spazi dove valgono magie, territori di potenzialità retti da regole altre, ergeremo bordi per non straripare e cornici d’incontro autentico, saremo crew – posse – tribù, reti di fiducia - affi nità – affettività, piccoli gruppi d’ apprendimento tra pari, famiglie non

convenzionali banchetti conviviali.Si è scoperto che le grandi narrazioni non avevano chiusure all’altezza - finali - altrettanto belli. Il discorso delle logiche biografiche è in brandelli

ritesseremo trama, il suono del racconto di noi sarà il nostro filo di Arianna principio d’ordine nel caos,saremo metrica, intrecceremo parole

afferrando il ritmo trovando equilibrio per non cadere,saremo griot – cantastorie,la parola sarà viaggio messaggio massaggio,protezione,

barriera, dimora, cura, giardinieri di miti in questa radura.Sciami di scorie mediatiche ci si sbriciolano addosso labili incontrollabili

flussi di stimoli, tutto si è riusciti a spezzettare, dichiariamo allora che ognuno di questi frammenti sia materia del nostro gioco, mattoncini

colorati per architetti bambini. Saremo dj-mixeremo ri-mixeremo queste rovine creando nuova musica meticcia, per coreografie che superano le vostre categorie artigiani della

ricombinazione, apprenderemo facendo collage cut up, raffineremo l’arte dell’ibrido e del sincretico, saremo migranti che imparano a tenere

insieme mondi campionando e tagliando – incollando e sfumando una nell’altra le esperienze, rimettendole sul tempo sbloccando il loop

dell’eterno presente con un’entrata a strappo, in questo troppo sarà solo questione di una buona selezione,

dichiariamo che come abbiamo trasformato un giradischi in strumento musicale utilizzeremo qualsiasi oggetto tecnologico arrogandoci la libertà

di violarne i protocolli d’uso,esplorandone le potenzialità - piegandolo alle nostre necessità - al dì la - dello scopo per cui è stato concepito

superando la passività indotta con la fotta radicale di un bambinol’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata, l’unica

tecnologia che amiamo l’abbiamo già smontata artisti del riciclorovisteremo nelle discariche estrarremo orrida materia prima, sarti degli

scampoli - reality samplers, salderemo - sviteremo e riavviteremodopo attenta disamina seguiremo curiosi dove portano i fili che ci avete

conficcato nell’animae torneremo corpo che avete piegato con quei banchi di prigione

frontale dimenticato davanti ad uno schermo di coscienza sbragata appiattito in un’immagine photoshoppata di perfezione ritroveremo un

senso ripartendo dai sensi, riconquisteremo lo spazio modellando il movimento virtuosi della bellezza del gesto, saremo danza di ferite e

possibilità, tensione mente-corpo in forma- flusso, saremo l’aria che ci

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attraversa, voce-respiro saremo vibrazione, meditazione accompagnata da ritmi nuovi, atti gratuiti di bellezza silenzio e acrobazie, sciamani

d’inattese ecologie.

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Di fronte a un’offerta di scelte e di possibilità di formazione sempre più articolate, e a un mercato del lavoro che presenta opportunità ma anche incognite e incertezze, quali sono gli strumenti che deve possedere un giovane oggi, per affrontare in maniera consapevole e adeguata la scelta del proprio futuro?Questa è stata la riflessione che mi ha accompagnato durante questo anno, in cui mi sono dedicata con i miei compagni di viaggio, al progetto “No Neet work in progress, giovani protagonisti di uno spazio innovativo di progettazione del lavoro”. L’obiettivo iniziale è stato quello di un confronto autentico con i miei pari, con ragazzi che come me vivono la condizione “dell’eterno precario”, e fare del mio meglio per far emergere le loro capacità e i loro interessi, secondo gli obiettivi del progetto.Nell’ambito dell’avviso ComunementeGiovane sostenuto da Anci e Dipartimento per la Gioventù e il servizio civile, il Comune di Piacenza ha sviluppato questo progetto, che ha visto coinvolti a diversi livelli i giovani del territorio piacentino, tra cui la sottoscritta. Il valore aggiunto di questa esperienza è stato non solo aver partecipato attivamente alla progettazione di iniziative per giovani come me, ma anche aver avuto la possibilità di interfacciarmi direttamente con loro, oltre che con le istituzioni, per decidere insieme come far diventare uno spazio datoci in maniera completamente libera e gratuita. Spazio 2, La cittadella del lavoro e della creatività giovanile è stata la cornice in cui si è sviluppato il progetto, nell’ambito di un’azione più ampia di aggregazione giovanile, con lo scopo di diventare un luogo attrattivo dove i giovani si possano cimentare in laboratori creativi, spazi di co-working, luoghi di apprendimento di competenze poi spendibili nel mercato del lavoro.Il progetto ha puntato ad avere come protagonisti giovani che hanno come comune denominatore la condizione di precariato, più che a ragazzi che rispondessero alla condizione di “neet” in senso stretto. Sicuramente la contro-narrazione emersa in questi mesi è che la figura del giovane “choosy” e passivo di fronte alle difficoltà del mercato del lavoro, è un mero stereotipo. Tutti i ragazzi incontrati in questi mesi dimostravano di essere coinvolti in azioni, passioni, insomma qualsiasi cosa pur di non vivere passivamente il

Capitolo 5 - No neet work in progress è successo che...

13 Youth Worker del progetto“No Neet work in progress: giovani protagonisti di uno spazio innovativo di progettazione del lavoro”.

Di Gessica Monticelli 13

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proprio tempo. Quando, come Youth Worker, mi sono trovata a dover selezionare i ragazzi che mi avrebbero affiancato in questo viaggio, ho trovato solo giovani intraprendenti e mai rassegnati, con il denominatore comune di voler scrivere il proprio racconto, la

propria storia, anche se il nostro tempo ci impone di farlo in condizioni svantaggiose.Ci sono stati tanti momenti importanti, il fil rouge è stato il racconto dell’esperienza: chi è venuto per raccontare un progetto realizzato, un sogno nel cassetto da sviluppare, chi è venuto semplicemente a raccontarsi e a condividere un sapere e una capacità, chi è venuto e basta! È stato bello vedere come di mese in mese questo luogo diventava polo attrattivo per i ragazzi del territorio.Ovviamente essendo un progetto pionieristico le difficoltà non sono mancate. Le criticità riscontrate dai protagonisti del progetto sono state, sopra ogni cosa, il coinvolgimento più ampio dei ragazzi e delle loro reti sociali di riferimento, questo per la difficoltà legata ad una rigida interpretazione della categoria “neet”, ovvero persone che in nessun modo sono inserite in percorsi formativi o lavorativi. La ricerca quindi è stata rimodulata verso i giovani che si trovano in una condizione generale di precarietà. Il coinvolgimento dei ragazzi piacentini è stato sin dall’inizio l’obiettivo principale, ma il coinvolgimento fine a se stesso si è dimostrato poco produttivo. I Peer Educators hanno faticato a coinvolgere altri giovani per l’iniziale mancanza di una proposta concreta all’interno dello spazio a disposizione, sede del progetto ma ancora con cantieri aperti per la ristrutturazione degli immobili. Da qui la necessità di portare avanti una ricerca che ci permetteva di dare valore ai partecipanti e di restituire un risultato visibile ai soggetti stessi. Un altro obiettivo emerso per rispondere a queste esigenze è stato quello di dare una voce e una rappresentazione reale dei ragazzi e ragazze dai 18 ai 35 anni che vivono nel precariato oppure in totale disoccupazione; da qui l’idea di raccogliere

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le storie di vita dei giovani intercettati, che si sono messi a disposizione per raccontare la propria storia, e la volontà dei Peer Educators a cimentarsi in questa “impresa” di ricerca sociale. L’impegno e l’energia dei ragazzi nello svolgimento delle diverse attività sono stati condivisi con i vari soggetti partner del progetto in uno sforzo comune per la necessaria trasformazione di uno spazio da restituire ai giovani e alla città.La giornata in cui sono state aperte le porte del progetto alla cittadinanza, ai giovani, per il momento di progettazione condivisa, è stato il punto di svolta dinamica in cui ci si è mossi veramente per la realizzazione delle proposte. Da quel momento i giovani coinvolti hanno sentito di essere sulla strada giusta e i giovani chiamati a raccolta sono stati invitati a esprimersi su come volevano che diventasse Spazio 2, di quali idee e saperi si facevano portatori ma soprattutto quali desideri da realizzare insieme. Generale è risultato l’apprezzamento per la creazione condivisa e partecipata di laboratori creativi di orientamento al lavoro, per la raccolta delle storie di vita proprie e dei contatti da loro attivati, come proposte effettivamente concrete da realizzare affinché il progetto assumesse non solo una dimensione teorico-informativa, ma anche e soprattutto pratico-operativa.È emerso come la visione del mondo dei ragazzi sia costituita da alcuni elementi essenziali (la famiglia, gli affetti, la condivisione, la creatività, il cercare il proprio posto nel mondo), che risultano cruciali per loro e che ne raccontano le prospettive, molto diverse da quelle che una certa letteratura contemporanea fornisce proprio sul tema dei giovani.I Peer Educators quindi si sono trovati ad essere sia creatori che fruitori degli spazi laboratorio e dei percorsi di formazione.Inizialmente la parte più consistente ha riguardato gli incontri di orientamento alle diverse opportunità offerte dal mondo del lavoro. Successivamente invece si sono sviluppati maggiormente incontri laboratoriali più pratici e modulati secondo le idee e gli interessi dei ragazzi. L’attenzione posta alle prospettive del futuro che ci attende ha significato per me educare alla scelta. Fare orientamento significa mettere in campo una serie di attività che aiutino i giovani a conoscersi, conoscere l’ambiente in cui vivono e le varie offerte formative e lavorative, affinché possano decidere in modo consapevole ed essere protagonisti del proprio progetto di vita. Partire da se stessi, dalle proprie passioni e inclinazioni, guardarsi intorno, sperimentare, provare, partecipare e considerare le varie opportunità che un progetto come questo ha saputo dare.Credo che sia l’insuccesso il maggior problema che affligge i giovani contemporanei, il fenomeno delle “porte girevoli”, ossia vivere un’esperienza lavorativa ma poi vederla terminare dopo un certo periodo di tempo, a causa delle regole del mercato del lavoro.

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Il principale desiderio dei ragazzi penso sia quello di essere delle persone che attraverso il lavoro si possano “nobilitare”, mettendo a frutto le proprie passioni, senza la necessità di guardare solo al fattore economico; la realizzazione della persona è la cosa più importante.Molti dei giovani coinvolti durante questo percorso hanno rivalutato la loro condizione di precarietà lavorativa, vista come uno stato negativo da cui risulta difficile uscire.La natura dinamica del progetto, costantemente caratterizzato da elementi di novità, mai frutto di una programmazione prestabilita a priori, ha permesso di rispondere con maggiore efficacia alle esigenze e ai bisogni dei ragazzi coinvolti.Rispetto alla riflessione sul lavoro, i giovani interpellati sostengono che la meritocrazia dovrebbe essere il punto cardine da cui partire; emerge una forte insofferenza per un dislivello basato sull’appartenenza a generazioni diverse, a tratti sembra di denuncia verso un sistema di nonnismo ancora radicato. Quando si accosta il binomio giovani-futuro quello che emerge è sia un’insofferenza per la mancanza di un riconoscimento formale delle proprie capacità (“farsi largo”) ma anche una speranza forte di poter costruire qualcosa di unico e in linea con le proprie passioni. Una società che, anche solo a livello locale, si fa carico di queste problematiche e non vede i giovani contemporanei solo in un’ottica assistenzialistica, ha maggiori capacità di accrescere la creatività, di sviluppare il cambiamento, di sostenere un sistema nuovo e attenuare la disuguaglianza e l’immobilismo sociale.Il punto di vista dei protagonisti, i peer educatorsI veri protagonisti del progetto hanno sviluppato un percorso riflessivo sull’anno trascorso, facendo delle considerazioni sui propri vissuti e su quale sia stato il valore aggiunto del percorso. Queste sono le testimonianze raccolte.

L’anno di Marco. Sin dalle fasi iniziali di sviluppo del progetto ho percepito la sensazione di appartenenza a un’idea di lavoro orientata ad un fine comune, nel quale mi sono sentito investito di una importante responsabilità. A questo proposito, non ho potuto evitare di chiedermi la motivazione che avesse portato i promotori dell’iniziativa a scegliere proprio me, piuttosto che altre persone che sarebbero potute essere più brillanti e competenti. Una domanda esistenziale che caratterizza tutte le sfide che la vita ci pone di fronte: “Perché io?”. Un quesito problematico con una risposta altrettanto difficile. Credo che questa stia in una fiducia nei giovani come portatori di

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nuove idee brillanti ed innovative, che con la loro capacità provano a lasciare il proprio segno nel mondo. È con questo spirito che ho accolto la possibilità che mi è stata offerta e nella quale ho cercato di mettere in campo tutte le mie competenze umane e professionali che potessero essere utili alla causa, nell’ottica di un costante confronto reciproco orientato non solo alla crescita personale, ma anche e soprattutto collettiva.Ho avuto la possibilità di approfondire e sviluppare, oltre alle conoscenze del mondo del lavoro nelle sue varie forme, anche e soprattutto le mie competenze professionali di educatore, con l’obiettivo di migliorarle e di metterle a disposizione in un campo concreto di applicazione.Personalmente, ritengo che il valore aggiunto che ha permesso di sistematizzare tutte le attività realizzate durante lo sviluppo del progetto sia stato la consulenza e l’accompagnamento di esperti. Il loro contributo è stato fondamentale in quanto ha permesso di dare forma e direzione alle nostre idee, aprendo un orizzonte nuovo sui temi della precarietà giovanile, andando oltre semplici pregiudizi e stereotipi che la caratterizzano esclusivamente come un fenomeno negativo, un problema da risolvere, prospettando invece una direzione positiva, un’opportunità da cui ripartire per restituire dignità e valore a coloro che sono spesso vittime di concetti ed etichette precostituite, i giovani, appunto. In questo processo è avvenuto in me una sorta di rispecchiamento in loro, immaginando lo sviluppo della mia carriera professionale per la quale queste personalità rappresentano ora un importante punto di riferimento da cui trarre ispirazione. In particolare ho sentito vicina la loro guida durante la fase di progettazione del disegno di ricerca a cui è seguita la raccolta delle storie di vita e la loro elaborazione, restituzione e condivisione. In queste attività, ho percepito di lavorare a stretto contatto con esperti brillanti e competenti che con la loro grande professionalità hanno contribuito ad arricchire le mie conoscenze e competenze.Ho potuto conoscere nuove persone che ben presto sono diventate miei colleghi e con cui ho potuto lavorare in un gruppo unito e motivato in cui confrontarci reciprocamente attraverso lo scambio di idee ed opinioni diverse tra loro, ma con l’obiettivo comune di sviluppare il progetto in una direzione possibilmente vicina a giovani come noi. Per poter realizzare tutto ciò, è stato molto importante il contributo apportato da parte dei rappresentanti delle varie istituzioni locali, che ho avuto la possibilità di conoscere più da vicino annullando la distanza che spesso i giovani lamentano da esse.

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L’anno di Andrea14. Dopo una serie di scelte sbagliate a scuola, di delusioni dal punto di vista dell’inserimento nel mondo del lavoro, a ottobre 2015 ho iniziato a vedere i primi spiragli di luce, per la prima volta c’era qualcuno che credeva in me. Ero stata contattata dalla coordinatrice dei ragazzi coinvolti nel progetto No Neet, una degli youth worker del progetto, una ragazza che avevo conosciuto facendo volontariato. Mi proponeva di partecipare al progetto. E da lì è stato tutto più facile, concretamente nella mia vita non cambiava nulla, ero ancora senza lavoro perché non si può parlare di lavoro, occupa poche ore a settimane, però metteva in discussione il mio modo di vedere la cosa. Il motivo per cui questa persona mi aveva chiamata è perché mi aveva visto fare qualcosa che mi piaceva e ci mettevo tutta me stessa ed è naturale che le persone si ricordino e credano in te, perché se tu dovessi assumere qualcuno vorresti qualcuno di motivato e determinato o qualcuno che passa le proprie giornate ad auto-commiserarsi? Nel suo caso lei aveva avuto tempo per capire come ero fatta, ma nel caso di un datore di lavoro lui deve giudicarci sulla base del nostro curriculum e sull’impressione che gli diamo. Quindi quando riceviamo un “no” non dobbiamo chiuderci in noi stessi, ma metterci in discussione e ripartire più forti di prima. E poi lavorare con ragazzi che hanno più o meno la tua stessa età e vivono più o meno la stessa situazione ti fa sentire meno sola e ti fa capire che non

14 L’intervista ad Andrea è stata fatta la prima settimana di marzo 2016, in quanto in seguito all’esito positivo di un colloqui di lavoro, ha lasciato il posto come Peer Educator, seguendo tuttavia gli incontri a Spazio 2.

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sei tanto meglio o tanto peggio di nessuno, semplicemente sei un ragazzo con le idee confuse come ce ne sono tanti ma questo non ti rende sbagliato, ti rende semplicemente confuso e in quanto tale non devi cambiare, devi capire chi sei e combattere per realizzarti. Albert Einstein diceva: “Ognuno è un genio ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido”.E pian piano ha cominciato a mettersi in moto un processo. Non ve lo saprei spiegare, però tutto ha preso il proprio posto. Le agenzie alle quali avevo portato il curriculum all’inizio mi contattavano perché sulla carta avevo ciò che cercavano, però ci sentivamo una volta o due e poi smettevano di cercarmi perché gli dimostravo di non credere in me e come vi dicevo prima, come puoi aspettarti dagli altri qualcosa che ti neghi per primo? Il mio primo colloquio l’ho avuto mercoledì scorso, mi sono comprata una camicia e sono andata lì con la mia determinazione e la voglia che ho di fare e mi hanno assunta. Non c’entrava nulla con il settore secondario ma sono andati oltre perché un mestiere si impara. Il messaggio che vorrei lasciarvi è che non dovete avete paura, il lavoro se lo cercate nella maniera giusta c’è, però prima lavorate su di voi, perché siete voi quelli che contano davvero. Un mestiere prima o poi lo imparano tutti, non è da tutti, invece, imparare ad essere. Fate, scopritevi, capite cosa volete e poi muovetevi per ottenerlo e vedrete che ogni cosa prenderà il proprio posto.

L’anno di Leonardo. Coordinare come youth worker il progetto è stata una bellissima esperienza, ho potuto relazionarmi con dei ragazzi che vivono la condizione di precario ma che si vogliono spendere, vogliono mettere in campo le loro competenze e si sono impegnati per il progetto. È stato fornito loro uno spazio dove poter metter a frutto le loro idee; è stato un percorso coinvolgente, mi ha dato modo di confrontarmi e discutere, conoscere altre realtà. È stato splendido lavorare con un gruppo di ragazzi così in gamba; sono stati raggiunti alcuni obiettivi e risultati anche alti. Diciamo che la loro dedizione al progetto è stata notevole. L’impegno è stato costante e non hanno mollato sino alla fine, come invece è fisiologico fare, anzi l’hanno portata avanti l’esperienza e hanno cercato di gettare delle basi per il futuro.Il valore aggiunto del progetto è stato proprio il fatto di averci dato uno spazio fisico, spazio per delle idee, alcune in via di sviluppo; a volte ci siamo sentiti dire dai ragazzi con cui venivamo a contatto “io vorrei poterlo realizzare, ma non posso di certo farlo nel garage di casa mia!”; ecco aver avuto uno spazio a disposizione per realizzare dei progetti è stato esattamente questo.

L’anno di Alessandro. il valore aggiunto del progetto per me è proprio la questione che abbiamo scoperto che il concetto “neet” non è un problema.

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Nel senso che già la volontà di trovare delle risposte, e questo è quello che abbiamo provato a fare, anche attraverso delle azioni concrete, andando a Spazio 2 e non solo facendo momenti di riflessioni sul problema dei neet o della precarietà; abbiamo provato a cimentarci in azioni concrete, per vedere se scaturiva qualcosa o meno, se generavamo opportunità di lavoro.Poi personalmente ho apprezzato molto tutto l’aspetto di crescita personale su temi come l’innovazione sociale. Sono cose che ho imparato adesso, io ho studiato all’università di tutto questo problema solo l’aspetto spaziale, tutta la parte riguardante i luoghi fisici, e mi sono arricchito parecchio durante questa esperienza di tutto l’aspetto sociale. La questione del mettere in rete, cosa significa mettere in rete dei giovani e le loro idee per riattivare uno spazio, cosa vuol dire ripartire attraverso la rigenerazione, attraverso logiche non convenzionali. In questo caso è stato un esperimento ben riuscito, l’amministrazione comunale si è messa in gioco e questo l’ho trovato molto soddisfacente personalmente, perché non mi aspettavo un’apertura in questo senso. Si può fare di più secondo me, come per ogni cosa, diciamo che si può allargare la collaborazione, dare in qualche modo continuità al progetto fatto e alla rete di relazioni create. Coinvolgere ancora più persone preparate e diversificate; io mi sono sentito valorizzato, nel senso che sono stato ascoltato per le cose che sapevo fare.

L’anno di Francesco. Io sono subentrato nel progetto dopo il primo momento pubblico di apertura e presentazione del lavoro alla cittadinanza. Il valore aggiunto del progetto siamo stati noi ragazzi: da noi sono partite le idee, le intuizioni per realizzare il tutto. Mi ha dato uno stimolo molto forte, infatti ho deciso di presentare la domanda e candidarmi per il servizio civile, anche grazie ai corsi di formazione che ho seguito a Spazio 2. Gli incontri sul lavoro sono stati interessanti e ricchi, quando ho intrapreso la strada della ricerca lavorativa sono stati molto utili, mi hanno stimolato molto. Vedere a Piacenza una realtà dove dei ragazzi si possono incontrare, fare e proporre delle attività non è cosa comune.Il pensiero è stato “provo a mettermici dentro”, sono stato molto lusingato della proposta ricevuta dagli youth workers di collaborare al progetto; qualcuno aveva visto in me delle capacità, dell’impegno e di questi tempi non è facile, per questo sento di ringraziare chi ha visto in me del potenziale.

L’anno di Federica. La parte più importante è che, a livello personale, il progetto mi ha dato la possibilità di avere in mano qualcosa per la prima volta. La seconda parte del progetto, quella in cui ci siamo messi di sana pianta a fare qualcosa, è lì che mi sono detta “è bello fare queste cose, che comportano

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impegno”. Impegno non solo mentale ma anche fisico, cosa che non avevo mai fatto prima, è una cosa nuova che ho imparato di me e mi rendo conto che sono in grado di fare; prima di questa esperienza non mi sarei mai immaginata ad usare una macchina per falegnameria, oppure pulire veramente un posto che prima era dismesso con delle aree davvero abbandonate! Quando abbiamo sistemato Spazio 2 per gli eventi pubblici, abbiamo deciso dove mettere quella determinata cosa, dove posizionare quell’altra, cose molto pratiche. Ho adorato questa parte, più che tutta la parte riguardante la progettazione, perché l’ho sentita più mia! Perché magari mettersi a tavolino e progettare è più difficile per me, invece quando sei nello spazio fisico e devi valutare, vedi le cose e ti viene più facile pensare. La mia creatività e la mia vena operativa ha avuto un exploit che non credevo proprio di avere. Non so se questo a livello lavorativo mi potrà aiutare, ma credo che mi porterà a qualcosa.Il valore aggiunto è stato che ho visto un cambiamento in essere, se prima mi lamentavo dello spazio piccolo, dove mi sembrava difficile poter fare qualcosa, per la prima volta ho potuto fare qualcosa io, per questo per me è stato bellissimo; so che non potrò continuare a frequentare questo luogo perché andrò a studiare fuori sede, ma un giorno potrò ritornare o fare la stessa cosa in un altro posto, perché so che più o meno ne sono capace, anche rispetto alla situazione so come funzionano le cose nella mia città. Noi ragazzi e i partner del progetto siamo stati davvero concreti nel realizzare le nostre richieste, ci sono state concesse davvero tante cose, e questa è stata una sorpresa. Mi sarebbe piaciuto vedere tutte le proposte arrivate e realizzate al termine del progetto, però vedo che la cosa non finisce qui, che ci sarà un continuo.

L’anno di Ale. All’inizio del progetto ero molto confuso, nel senso che la cosa non era ben definita e ho arrancato nel comprendere bene il fine del progetto; poi abbiamo preso la strada giusta dopo il momento pubblico di presentazione del progetto alla città, abbiamo chiamato dei ragazzi e li abbiamo invitati a chiedere cosa avrebbero voluto fare, cosa avrebbero

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voluto farne degli spazi, insomma che ci dessero delle idee!Era quasi meglio fare questi momenti pubblici subito, ho visto proprio l’importanza di chiedere dal basso e farci portavoce delle richieste. Sento di aver dato il mio contributo, sono una persona che si fa coinvolgere nelle cose, a volte ci finisco per caso, però quando mi sento do il 100%.Anche se a volte non sono mancati i momenti di disorientamento, ho vissuto il progetto positivamente, sono riuscito a lasciare un’impronta, qualcosa di me, anche nelle piccole cose! Se all’inizio di questo percorso ero scettico, più passava il tempo più sono riuscito a infilarmi dentro la cosa e a crearmi uno spazio. Tra gli aspetti negativi la difficoltà nel coordinare diverse persone, non tutti collaborano nello stesso modo proprio perché ci sono individualità ben definite; la cosa positiva è che si è aperto uno spazio dove uno se ha delle idee, ha dei progetti in testa può avere uno spazio di manovra. È bella l’idea da centro sociale, dove incontri altre persone, che magari condividono le tue idee, la tua visione del mondo, e la bellezza sta che poi magari possono nascere dei progetti insieme, fare cose… trovi appoggio e condivisione della tua idea! L’aspetto più positivo sicuramente è quello, fare degli incontri; Spazio 2 come luogo degli incontri e io in quest’anno ho incontrato tante persone e tante realtà che mi possono servire qui, ma anche fuori.

L’anno di Lucia. Il progetto mi è piaciuto, avrei preferito fosse sviluppato in maniera diversa, non so neanche io come, ma forse dico cosi perché a volte faticavo a comprenderlo, essendo una cosa in costruzione con noi ragazzi. Ho apprezzato l’impegno dei miei compagni di viaggio, ma ho fatto fatica a capire appieno come e quando potevamo utilizzare questi spazi. Mi mancava la motivazione, perché reclutare questi ragazzi? A volte mi è mancata la motivazione interna, però grazie a questo ho capito che, a distanza di un anno, la mia tendenza a procrastinare le cose è la stessa di quando andavo alla scuole superiori, e questa cosa è da migliorare assolutamente se voglio impegnarmi attivamente nel lavoro. Già ne ho preso atto ed è tanto; ingenuamente pensavo che terminata la scuola ed entrata nel mondo del lavoro non ci dovessero essere dei “compiti a casa”; pensavo di riuscire a fare con i tempi giusti le “consegne” che mi venivano date e invece mi sono resa conto che non sempre riesco o che comunque faccio molta fatica; ho fatto fatica a comprendere il progetto al 100%; però spesso questa motivazione che mancava in me l’ho presa dagli altri Peer Educators, che hanno vissuto appieno il percorso e lo hanno fatto loro.Un po’ di difficoltà l’ho trovata nelle tempistiche, anche se l’obiettivo c’era, di coinvolgere altri ragazzi a cascata e di fare un progetto diverso e innovativo.

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Mi è servito anche a capire che non devo avere timore di chiedere, di fare più domande per capire meglio, è anche questo un percorso di crescita e consapevolezza. Quando mi si davano dei compiti, mi impegnavo e cercavo di portarli a termine comunque, in previsione del bene comune. Spero di aver fatto le domande giuste, nell’insieme essere riuscita a portare il mio contributo. Penso di aver contribuito anche in minima parte al contrasto della precarietà!

L’anno di Giorgia. Facendo un passo indietro cronologico, ricordo che quando una dei due youth worker mi ha chiamata per chiedermi se volevo far parte di questo percorso, il cui scopo era di coinvolgere altri ragazzi e fare rete sul territorio, mi ci sono buttata a capofitto! Se all’inizio non mi erano molto chiare le varie fasi, via via che si andava avanti mi si sono precisate, soprattutto dopo l’incontro pubblico in cui ci siamo presentati alla città, in cui ci siamo aperti in un’ottica di scambio. Da lì in poi sono nati i laboratori, il lavoro sulle storie di vita, da quel momento insomma ho assaporato di più la concretezza del progetto. Abbiamo visto tanta partecipazione di giovani, ho visto tante idee che si possono sviluppare anche di là della conclusione del progetto; le idee in campo ci sono, bisogna trovare soluzioni di continuità ma i pensieri per riqualificare lo spazio ci sono. E da lì sono partititi laboratori manuali, aula studio, recupero di materiali, tantissime idee. Anche il momento pubblico che ha coinvolto i giovani gruppi musicali del territorio under 25 ha dato tantissima visibilità al progetto.Inizialmente faticavo a “catturare” dei ragazzi, anche perché da progetto ci siamo inizialmente concentrati su soggetti che rispondessero al requisito di neet, ossia giovani dai 18 ai 35 anni che non studiano e che non lavorano, in realtà non li abbiamo trovati, non tanto perché non abbiamo fatto un buon lavoro noi, ma perché non ci sono; quando ho assistito all’intervento di uno dei relatori intervenuti al nostro evento del progetto mi sono segnata una sua affermazione; lui sosteneva che i giovani di oggi è come se si trovassero in un labirinto, faceva questa bellissima metafora che secondo me ha molto senso: tra la fine della scuola e l’ingresso nel mondo del lavoro non c’è più collegamento; all’uscita dalla scuola, che siano le superiori o un percorso universitario c’è questo labirinto, dove tutti siamo inseriti, ci si può perdere, torni indietro, a volte sei stanco di girare e prendi la prima scorciatoia che trovi, anche se non è quella che ti porta effettivamente dall’altra parte, fai dei tentativi. Quindi in realtà neet ce ne sono molto pochi; in realtà ci è stato dato un rimando, una fotografia dei giovani del territorio piacentino che neet non sono ma che si muovono! Sono in questo labirinto, non sanno cosa fare, si accontentano delle vie d’uscita con lavoretti saltuari.

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La cosa più difficile è stata proprio intercettarli, ma poi quando abbiamo modulato la nostra ricerca verso i precari allora abbiamo avuto meno difficoltà. Forse si è ancora un po’ restii a venire in uno spazio nuovo della città… io mi auguro diventi veramente un luogo attrattivo, capace di “aiutare per far crescere”. È come se noi con il progetto avessimo seminato e adesso occorre innaffiare per fare in modo che germogli qualcosa.Questa esperienza l’ho vissuta con grande entusiasmo, con la curiosità di vivere una storia che non era stata già scritta prima. È stato un po’ come dare gli esami all’università per me, mi spiego: all’università permette di autogestirti, devi calibrare il tuo tempo, ti devi organizzare, sai che hai una consegna ma come utilizzi il tempo da quando ti viene dato un compito alla valutazione finale, effettivamente te lo devi gestire in autonomia. Anche il confronto con gli altri è stato arricchente, innanzitutto perché la youth worker che mi ha selezionata ha creduto in me, per cui sono partita con una carica di autostima abbastanza alta, convinta di poter fare qualcosa di positivo lì. Il nostro gruppo di peer educators è molto eterogeneo, ognuno di noi ha diversi modi di pensare, proporsi e approcciarsi e lì mi sono conosciuta un po’ di più. Ho capito che sono sempre energica, a volte anche troppo, nelle cose in cui credo; so anche di avere senso di responsabilità nel portare avanti un determinato compito assegnatomi, specialmente se devo rendere conto del lavoro fatto a diverse persone ed enti sopra di me che cercano di coordinare il tutto. Anche le tempistiche sono state importanti: se io nel mio

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piccolo faccio il mio pezzo, come tutti, si riesce a portare a casa il risultato, un buon prodotto finale.

L’anno di Laura. Mi sento di far parte di un gruppo, si è formato un gruppo che vuole creare qualcosa di bello insieme! È importante e spero che vada avanti anche oltre la fine del progetto, ho apprezzato molto il fatto di aver conosciuto nuove persone, di essere entrata in contatto con tante personalità interessanti.Sicuramente per le mie ambizioni lavorative di giornalista sono stati importanti gli incontri, avere nuovi spunti e nuove idee, ho potuto svolgere anche in parte il mio lavoro: mi avete lasciato svolgere i compiti relativi ai video, al racconto di quello che succedeva; ho avuto modo di conoscere dei professionisti in questo campo, di avere degli incontri con formatori veramente interessanti e preziosi. E’ stata sicuramente un’esperienza positiva perché ho vissuto momenti che mi hanno aiutato in una crescita, oltre che personale, anche professionale, per quello che io sogno di fare!Avrei preferito cimentarmi ancora di più sui laboratori. Il “reclutamento” degli altri ragazzi non è stato facile perché essendo un progetto in costruzione la proposta era “venite a Spazio 2 e vediamo”. In mancanza di qualcosa di concreto da far fare, tenerli agganciati è stato difficile. Ho ravvisato che era difficile convincere qualcuno a frequentare con costanza un luogo in assenza di qualcosa da “toccare con mano”!Avrei fatto lavorare i gruppi ancora di più sui laboratori. Tuttavia il lavoro più teorico sulle storie di vita mi è piaciuto molto, ho imparato delle nuove metodologie utili anche per il mio lavoro, saper far bene un’intervista e scriverla è fondamentale e conoscere nuovi metodi di raccolta è stato importante. Altro aspetto positivo è stato l’apertura del progetto alla cittadinanza, attraverso il nostro evento pubblico. L’idea di fare una tre giorni di riflessione sulle idee e i progetti di contrasto alla precarietà stato momento fondamentale per far vedere quanto è stato innovativo il progetto “No neet work in progress”.

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Il progetto Tracce di futuro è un ampio percorso di ascolto, conoscenza e consultazione del mondo giovanile piacentino, promosso dal Comune di Piacenza, a partire dal 2012. Il fine ultimo della ricerca, parte integrante dei Piani di Zona distrettuali e ancora in corso nel 2016, è favorire il protagonismo e la partecipazione giovanile, dando voce ai ragazzi nell’espressione dei loro bisogni e dei loro punti di vista. Tracce di Futuro, adottando una metodologia a carattere narrativo, ha cercato di costruire una sorta di “autobiografia comunitaria”, mediante la raccolta di forme diversificate di espressione (voci, storie, immagini), a testimonianza della condizione giovanile e di come questa oggi guardi al futuro. Nel realizzare questa raccolta, si è scelto di valorizzare le esperienze locali virtuose, sia raccogliendo materiali significativi già creati dai ragazzi, sia proponendo loro la produzione di nuovo materiale ispirato ai macro temi del percorso: le immagini del mondo giovanile, le relazioni, gli affetti e la percezione e la costruzione del futuro.Anche oggi il futuro può essere vissuto come un buco nero da molti ragazzi come dimostrano le numerose rilevazioni e ricerche in materia. Per non dare per scontata e irreversibile questa eclissi di futuro e di speranza è stato avviato questo articolato progetto di ricerca sulle immagini, le percezioni, le paure, le attese di oltre mille ragazzi delle scuole di Piacenza.Nel corso degli anni Tracce di Futuro ha convogliato diversi progetti, che hanno coinvolto giovani piacentini nell’ampia fascia di età 12 – 35 anni.Nell’avviare iniziative che si inserissero in questa cornice è stata posta particolare attenzione alla loro valenza formativa, nello spirito della ricerca partecipata. Nell’anno scolastico 2012-2013 è stato realizzato il Progetto “Voci di ragazzi. Appunti sulla condizione giovanile”, un’iniziativa condotta in collaborazione col CIDIS (Centro di Informazione e Documentazione per l’Innovazione Scolastica e formativa) che ha coniugato l’esperienza piacentina delle testate giornalistiche studentesche e dei percorsi di formazione in ambito giornalistico, con i temi di Tracce di futuro, portando alla produzione di un ricco capitale di articoli, sondaggi e interviste prodotto da giovani studenti.Nell’anno scolastico 2013-2014 si è invece puntato sull’alto potenziale comunicativo delle immagini, attraverso i laboratori “Le immagini in testa:

Capitolo 6 - Sulle tracce del futuro dei giovani piacentini

Di Stefania Mazza, Anna Paratici, Claudia Praolini, Evelyn Uhunmwangho15

15 Stefania Mazza, formatrice e docente universitaria; Anna Paratici tutor Università Cat-tolica di Piacenza; Claudia Praolini, anima dell’associazione culturale Concorto; Evelyn Uhunwangho, psicologa ed esperta di tematiche giovanili

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sulle tracce del futuro attraverso film, video…”, un’importante opportunità formativa di conoscenza, approfondimento, espressione e partecipazione per altri giovani studenti piacentini. Grazie al progetto “le immagini in testa”, promosso dal Comune e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore della sede di Piacenza, con la collaborazione dell’Associazione Concorto, il tema del futuro, è stato affrontato, lavorando direttamente in alcune scuole secondarie di secondo grado del territorio della città: Liceo Artistico Statale “Bruno Cassinari”, Istituto professionale Casali e Liceo Colombini. Sono stati coinvolti un centinaio di ragazzi delle ultime due classi della secondaria di secondo grado.A partire dall’anno scolastico 2014-2015, “tracce di futuro” ha arricchito l’autobiografia comunitaria valorizzando anche la dimensione narrativa del racconto di storie e aggiungendo il punto di vista di ragazzi nella fascia di età più giovane, con il coinvolgimento delle scuole secondarie di primo grado. Il titolo del progetto con le scuole negli anni 2014/15 e 2015/16 è stato “Prove di futuro” - attività di ricerca e promozione del protagonismo giovanile. Zoom sulle scuole. Sono stati coinvolti quasi 200 ragazzi, fra le ultime due classi della secondaria di primo e di secondo grado.Nell’anno scolastico 2015/16 il progetto è proseguito, con il coinvolgimento di circa 300 alunni della secondaria di primo grado.Tutte le iniziative di Tracce di Futuro, nei diversi anni, sono state condotte nello spirito della ricerca partecipata, ponendo sempre attenzione alla

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valenza formativa e trasformativa di un intervento nel quale in sostanza, con diverse modalità, si va a chiedere a giovani persone di raccontare di sé, dei propri sogni, dei propri timori, delle proprie speranze nel guardare al futuro. La logica è quella della prevenzione del disagio o meglio ancora della promozione del benessere e dell’empowerment. Si è partiti infatti dall’idea che il contesto attuale chiede di lavorare con insegnanti e ragazzi per costruire benessere, inteso come ricerca di equilibrio e capacità di trovare e utilizzare strumenti per affrontare i passaggi critici e i compiti di sviluppo che si presentano in particolare negli ultimi due anni della secondaria di primo e di secondo grado.La finalità è stata quella di stimolare nei ragazzi la percezione del sé come persona. Si è inteso proporre un lavoro che potesse aiutarli a sviluppare un atteggiamento interrogativo rispetto al grado di autonomia agito nelle scelte; a riconoscere le proprie fragilità e la precarietà del contesto come possibile risorsa; a vivere il disorientamento, connaturato ai periodi di passaggio, senza perdersi. Orientarsi significa anche essere in grado di sganciare il percorso individuale di scelta dagli stereotipi sociali, dalle mode e dalle influenze del gruppo di amici. Compiere una scelta, in particolare riferita al cosa fare dopo la scuola secondaria di primo grado, è un processo complesso che coinvolge fattori fondamentali come gli interessi e le inclinazioni specifiche degli studenti, ma che viene influenzato anche da altre variabili, non sempre facili da identificare, come ad esempio le pressioni provenienti dall’ambiente sociale in cui gli adolescenti vivono e dal gruppo dei pari.«Non sono quello che dovrei essere e neanche quello che ho intenzione di essere, però non sono più quello che ero prima» (Erik Erikson) è l’aforisma che guida gli adolescenti e che li caratterizza soprattutto nelle fasi di passaggio.Ogni preadolescnte/adolescente ha un lavoro da svolgere per poter uscire dallo stato infantile e approdare a quello di giovane adulto; un lavoro su se stesso e nei rapporti con gli altri (famiglia, coetanei, società) che alcuni riescono a svolgere agevolmente, altri con più difficoltà ma che interessa tutti quanti. Un importante compito di sviluppo riguarda infatti la costruzione della propria identità. Prima di riuscire a trovare un’identità in cui riconoscersi, l’adolescente dovrà fare prove e autovalutazioni, indossare identità diverse, capire come gli altri lo vedono e alla fine venire a patti con la realtà, rinunciando in parte al sogno di una totale libertà di scelta e di autodeterminazione.I media e il mercato si sono inseriti in modo aggressivo e invasivo nella problematica identitaria degli adolescenti, fornendo immagini di identità di successo in gran parte irraggiungibili e di identità-surrogato legate ai consumi.La costruzione dell’identità individuale però, soprattutto in un mondo in

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continuo movimento e di non facile interpretazione come quello attuale, richiede impegno, è tutt’altro che immediata e non è riducibile alla semplice acquisizione di abiti alla moda, automobili, rituali rassicuranti o gadget più o meno sofisticati.Il progetto negli anni ha voluto indagare assieme ai ragazzi le dinamiche del processo di scelta, supportandoli in particolare nella delicata fase di riflessione sulla scelta post-diploma e nella progettazione su di sé per il futuro. Le attività sono state progettate e condotte attraverso il paradigma della ricerca qualitativa-fenomenologica e partecipativa. In un’ottica fenomenologica, quando si imposta una ricerca in ambito pedagogico quello che interessa non è solo la fotografia e la descrizione di una realtà, la definizione oggettiva di un fenomeno, di comportamenti o di situazioni, quanto piuttosto l’analisi del senso che quei fatti “oggettivi” assumono per i soggetti. Interessa la ricaduta che particolari fatti hanno sul vissuto dei preadolescenti/adolescenti. Punto di partenza è l’esperienza vissuta per investigare significati che si sono depositati e che si stanno strutturando. Questa metodologia evita le generalizzazioni, in cui l’essenza singolare si dileguerebbe. Le emozioni diventano parte integrante dell’atto conoscitivo in quanto non sono aspetti incidentali dell’esperienza umana e neppure elementi irrazionali. Sono componenti intelligenti della cognizione in quanto rendono possibile una più complessa comprensione del fenomeno.E’ discovered oriented cioè il metodo si costruisce lungo il cammino della ricerca e viene continuamente rimodulato in collaborazione diretta con tutti gli attori coinvolti nel progetto: ragazzi, insegnanti e “ricercatori”. L’approccio partecipativo assume che la ricerca non si fa “sulle” persone, ma “con” le persone.16 Nella raccolta dati si sono utilizzati strumenti come il focus group, le narrazioni, la ricerca di immagini significative da parte dei ragazzi (foto, video…). In particolare il cuore del progetto è stato quello di provare ad utilizzare con i ragazzi linguaggi e strumenti del web a favore del proprio lavoro di progettazione del futuro. Mostrare un nuovo punto di vista con cui i ragazzi possono guardare gli strumenti tecnologici. Le giovani generazioni “nuotano” in un oceano comunicativo totalmente composto di immagini e le utilizzano spesso senza interrogarsi sui messaggi che veicolano. Negli incontri laboratoriali nelle classi si è chiesto agli studenti di utilizzare fotografie e video evidenziando le connessioni con il proprio vissuto.

Il metodo utilizzato si ispira al Photovoice (Wang e Burris, 1994), un metodo

16 Luigina Mortari, Cultura della ricerca e pedagogia, Carocci Editore, Roma 2007; R. LYn e J.m. Morse, Fare ricerca qualitativa, F. Angeli 2009

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di ricerca-azione partecipata che incorpora il processo di documentazione fotografica con la pratica dell’empowerment. Questo approccio fornisce ai partecipanti l’opportunità di esprimersi, produrre racconti sulla propria vita quotidiana, utilizzando il linguaggio delle immagini.Le persone sono messe nella condizione di esprimere, attraverso la ‘concretezza’ e l’impatto emotivo del linguaggio visuale, il proprio sapere, le proprie abilità ed esperienze e rivestono un ruolo fondamentale durante l’intero processo.Dal punto di vista operativo il progetto è si articolato in:

- incontri di progettazione partecipata con insegnanti;- attività laboratoriali svolte con i ragazzi nella dimensione del gruppo classe;- utilizzo di strumenti di media education: produzione di filmati, social network, web reputation….- attività dei ragazzi chiamati a realizzare al termine del progetto dei prodotti audio-video in cui riconoscersi;- progettazione partecipata con ragazzi ed insegnati di un evento pubblico finale, al termine di ogni edizione, aperto alla cittadinanza

Le riflessioni emerse dal progetto, sono sintetizzate in modo efficace direttamente dalle voci degli insegnanti riportate di seguito.

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“Noi insegnanti pensiamo spesso al futuro dei nostri ragazzi, perché ciò ci è richiesto sul piano istituzionale - nelle attività di orientamento - e perché ci viene spontaneo sul piano del coinvolgimento emotivo che ci lega agli studenti. Con queste motivazioni abbiamo deciso di partecipare al progetto Tracce di futuro perché ci è sembrata un’opportunità importante, qualificata e significativa per ragionare sul futuro degli studenti in modo non pragmatico (non attraverso le solite brochure), ma in modo riflessivo, attraverso l’invito a guardarsi dentro, a farsi domande e a proiettarsi nel futuro prima di fare scelte importanti.E’ stata anche un’occasione per vedere gli studenti nella loro interezza e complessità e per coglierne la crescita al di fuori del normale contesto scolastico.”

“Come Liceo Artistico ci è sembrato che questo progetto potesse avere una valenza didattica poiché era centrato sulla significatività e sull’uso delle immagini, sulla loro comprensione, decontestualizzazione e ricontestualizzazione.Abbiamo trovato stimolante, per noi e per i ragazzi il metodo di lavoro utilizzato, in particolare ci è piaciuto questo nuovo approccio all’orientamento, il coinvolgimento costante dei ragazzi, l’ascolto, il rispetto di tutte le richieste, delle opinioni e dei punti di vista dei ragazzi (solitamente gli adulti propongono, asseriscono e parlano invece di ascoltare), il fatto di cogliere i loro desideri e le loro aspettative, il fatto di rappresentare se stessi con gli strumenti di immagine con i quali sono abituati a comunicare.Il prodotto finale rispecchia totalmente quanto detto sopra e ci ha colpito perché nel rispetto delle singolarità di ciascun ragazzo riesce a fare emergere tutte le loro diversità e le armonizza in un unico coro.”

“I nostri studenti ci hanno chiesto se il video ci avesse suggerito aspetti di loro che nell’attività scolastica non avevamo colto.In realtà con questo progetto siamo riuscite ad apprezzare sfumature della loro persona grazie al loro mostrarsi con freschezza, autenticità e semplicità, alla serietà e all’ impegno profuso lungo tutto il percorso e alla loro consapevolezza dell’essere adulti facendosi domande di senso su valori autentici.Ci ha fatto piacere cogliere la ricchezza e l’evoluzione dei percorsi di crescita e che siano ormai persone con aspettative e desideri significativi.Infine riteniamo davvero importante questa occasione di confronto condiviso tra ragazzi e insegnanti, adulti, mondo della formazione, Comune

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di Piacenza - confronto che gli studenti vorrebbero esteso ai coetanei e ai genitori – e ci vi viene in mente un proverbio africano che recita “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”: riteniamo questa esperienza un forte richiamo alle nostre responsabilità di adulti.”

Molto significative e ricche di spunti sono le riflessioni elaborate dai ragazzi coinvolti.

“Giunti ormai al termine del ciclo di studi liceali, la domanda naturale che sempre più spesso incalza i nostri pensieri ha a che fare con un concetto tanto affascinante quanto oscuro: il nostro futuro. Dal latino futurus, participio futuro del verbo esse, è il termine stesso che affonda le sue radici etimologiche nel comportamento dell’essere, cioè della persona che, attimo per attimo, si stacca dalla dimensione presente e sviluppa una nuova immagine della sua realtà.”

“Altrettanto nuova e stimolante è stata la possibilità di far parte del progetto “Tracce di futuro” promosso dal comune di Piacenza in collaborazione con l’Università Cattolica che, oltre a noi, ha coinvolto le ultime classi degli Istituti Leonardo e Colombini. Tre incontri hanno scandito e per poco interrotto la nostra ripetitiva ma “artisticamente viva” routine scolastica nelle ultime settimane; tre incontri nei quali il tempo a disposizione non sembrava mai sufficiente ma è stato sfruttato al meglio per la realizzazione di un video, un prodotto finale che raccogliesse, attraverso una serie di immagini, tutte le nostre idee, sensazioni, paure, speranze e prospettive del futuro che ci aspetta.”

“Le riflessioni emerse sono state varie, dissonanti fra loro ma comunque accomunate da più fattori, riassunti nel video da alcune frasi significative. E’ infatti la diversità che ci caratterizza, e della quale andiamo fieri, a far emergere la nostra personalità, le nostre singole passioni e talvolta anche la presenza di una non-certezza che esse possano realizzarsi. Verso il futuro ignoto non nascondiamo la nostra piccolezza e talvolta, per alcuni di noi, esso si presenta come un interrogativo costante. Nonostante questo, rimane sempre presente la volontà di realizzare i nostri sogni e le nostre aspettative, messe a rischio da un contesto economico e sociale che non ci aiuta.”

“Tra fotografie in movimento, una musica dal ritmo “pulsante” e figure un po’ impacciate, chi guarderà il nostro video troverà un messaggio positivo e quella “nuova immagine della realtà” che attimo per attimo,

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ognuno di voi e di noi sta costruendo e di cui siamo tutti parte integrante. Ci piacerebbe, fra qualche anno rivedere, a nostra volta, il frutto del lavoro svolto, per capire che è bene avere il desiderio e la speranza di poter fare la differenza, di trovare un lavoro che ci soddisfi, di far sentire la nostra voce, di aiutare gli altri, di viaggiare, di costruire una famiglia e di lasciare un messaggio importante, quello del nostro futuro.”

I ragazzi hanno sottolineato anche l’efficacia del metodo di lavoro utilizzato.

“La ricerca a nostro parere è stata funzionale proprio per la metodologia che gli operatori hanno messo in campo, cercando di evitare il più possibile la solita lezione frontale: ci è stato chiesto di scegliere immagini, musica e video che rispecchiassero al meglio la nostra idea di futuro e gli operatori si sono astenuti dal cercare di indirizzarci o dal condizionarci e per questo il risultato ottenuto è stato reale . Questa strategia di lavoro ci ha entusiasmato perché è al passo con il modo di comunicare di noi ragazzi ed ha permesso appunto un maggior coinvolgimento in un momento per noi così difficile di scelte e di bilanci. Musica e immagini hanno tradotto infatti letteralmente i nostri pensieri, le nostre aspettative, speranze e paure. Probabilmente le parole non ci avrebbero rappresentato così significativamente. Per tutti questi motivi pensiamo che anche la scuola dovrebbe indirizzarsi maggiormente verso questa metodologia di lavoro per aumentare la motivazione e favorire il dialogo educativo.”“Al giorno d’oggi, per noi ragazzi, risulta sempre più complesso interrogarci sul nostro futuro, una realtà poco tangibile, lontana e dai confini incerti; ed è proprio questa la finalità che il progetto ‘Immagini in testa’ si è prefissato: non solo conoscere le nostre aspettative, ma anche e soprattutto aiutarci a riflettere su noi stessi, sui nostri dubbi e sulle nostre speranze. Il percorso compiuto durante questi mesi con le nostre insegnanti, con le docenti l’università Cattolica e con l’associazione Concorto ci ha coinvolto direttamente, eravamo o meglio siamo noi giovani e il nostro futuro i protagonisti, soggetti attivi che grazie all’aiuto di professionisti hanno raggiunto risultati per noi soddisfacenti. Attraverso questo progetto e le nostre riflessioni, il messaggio che desideriamo trasmettere è semplice e diretto, proprio come noi ragazzi: sfatare il mito che ci definisce come una ‘generazione piatta’, priva di valori e legata esclusivamente al benessere e all’apparire.”

“Il futuro che abbiamo immaginato, a dispetto di quanto si possa pensare, è un futuro concreto, fatto di valori semplici, quotidiani, di speranze

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realizzabili. L’immagine quasi ossimorica che ci rappresenta è quella di “sognatori con i piedi per terra”: al successo abbiamo preferito una famiglia felice, la professione che desideriamo concilia il lavoro con gli affetti più cari, il forte desiderio di viaggiare esprime la nostra curiosità nei confronti dell’Altro, di nuove realtà e culture e non una fuga da un paese che ci offre poche possibilità. Quest’anno ad esempio molti di noi dovranno confrontarsi con uno dei primi passi importanti per la costruzione del proprio avvenire: la scelta universitaria. L’importanza che noi attribuiamo a questa decisione è un chiaro esempio di come per noi giovani le domande che ci poniamo sul nostro futuro sono quotidiane tanto da renderlo un elemento caratterizzante del nostro presente, ed è per questo che ci teniamo a ringraziare tutte le persone che ci hanno seguito in questo percorso, per l’interesse mostrato nei nostri confronti.”

I ragazzi del Istituto Professionale Leonardo Da Vinci nella restituzione finale del progetto hanno confessato di non aver capito all’inizio del percorso cosa avrebbero dovuto fare e soprattutto di non aver avuto le idee chiare sul futuro, tuttavia ben presto, coinvolti dalla passione e entusiasmo delle insegnanti e delle docenti dell’università, hanno cominciato a riflettere e così si sono aperte loro “mille strade”

“Anche noi ragazzi abbiamo partecipato alla grande nonostante tutte le difficoltà; abbiamo fatto quello che potevamo La cosa più interessante è stato il confronto tra di noi; ognuno ha esperienze diverse, etnie e religioni differenti. Ognuno di noi ha delle passioni, dei sogni che lo portano ad avere degli obiettivi e in questo progetto abbiamo voluto raggruppare tutto quello che ogni singolo soggetto tra i partecipanti aveva da dare: esperienze, immagini, ambizioni, passioni e idee.Il lavoro ci ha messo dentro una domanda: “Che cosa vogliamo dal nostro futuro?”. Attraverso le immagini abbiamo cercato di rispondere a questa domanda. È un progetto che ti fa emozionare molto, perché permette di concentrarti su cose che quotidianamente non fai, come ad esempio pensare al mio futuro che è molto importante per capire chi e come sarò…”

“Con le immagini e con pochissime parole siamo riusciti ad esprimere concetti alla base dell’umanità, tra i quali l’amicizia, la famiglia … Il lavoro ci ha fatto riflettere su come potrà essere il nostro futuro, tenendo ben presente però le nostre radici.Questo progetto ci rappresenta ed è stato il modo per provare che anche

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noi possiamo riuscire a combinare qualcosa per la scuola. Il progetto ci ha fatto riflettere su come il nostro futuro può cambiare con una semplice decisione.Dovrebbe essere proposto a tutte le classi quinte di tutti gli Istituti.”

La soddisfazione è stata palpabile e aver messo a fuoco concetti basilari quali l’amicizia, la famiglia, il lavoro ha dato forma ad una proiezione nel domani tenendo ben presente però le proprie radici, ovvero la volontà dei ragazzi di essere dei “ sognatori con i piedi per terra”.

“Il video è bellissimo e anche la musica di sottofondo dà sicurezza, energia e adrenalina; Le parole che scorrono con la musica ti aprono tante porte e la tua testa inizia ad immaginare a fare tanti viaggi. Vedere i nostri video potrebbe servire a qualcuno a chiarire le idee sul futuro. Sarebbe bello e importante per noi rivederlo tra qualche tempo per vedere che cosa è cambiato.”

I lavori realizzati direttamente dalle classi coinvolte nel progetto, con la guida ed il supporto di esperti (registi, videomakers e formatori) si sono concretizzati in prodotti audio-video, in cui i ragazzi hanno messo la faccia, con coraggio, determinazione e allegria. I video realizzati dalle secondarie di secondo grado e dalle secondarie di primo grado sono prodotti visualmente immediati e dinamici che parlano il linguaggio di una generazione formatasi visivamente su tempi di montaggio molto rapidi, più simili ai canoni dei video clip che a quelli del cinema accademico. Nell’anno scolastico 2104/15 i ragazzi delle secondarie di secondo grado hanno trasposto le loro riflessioni in storie che hanno immaginato sul proprio futuro, partendo dall’interrogarsi su cosa avrebbero voluto portare con sé

nel domani del loro io di adesso, scegliendo un oggetto che li rappresenti. Le loro riflessioni sono state trasposte in cortometraggio dal titolo evocativo “Fra venticinque anni fa”. Anche per noi ideatori e curatori del progetto, il lavoro è stato l’occasione di sperimentare modalità nuove che hanno richiesto

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la partecipazione attiva di tutti gli attori (insegnanti, studenti, Università, Concorto e Comune) nel costruire step by step le singole azioni.Essere autori del proprio percorso ha consentito agli studenti di esprimere liberamente anche le parti più intime dei loro vissuti e dei loro pensieri rispetto al futuro.L’altro aspetto peculiare, del quale siamo soddisfatti come gruppo di lavoro, è stato arrivare alla realizzazione di un prodotto tangibile in cui i ragazzi si riconoscono, sia per i contenuti trattati, sia per il linguaggio audio-visivo con cui si sono espressi direttamente, arrivando anche a mettere a disposizione alcune loro competenze personali (come ad esempio quelle musicali nella composizione della colonna sonora originale). Ci ha colpito anche scoprire che gli studenti sono interessanti a condividere questi loro prodotti con adulti significativi (genitori, insegnanti, istituzioni…), con cui confrontarsi direttamente in un dialogo fattivo.

Infine riportiamo alcune notazioni sull’utilizzo delle immagini in Tracce di Futuro.

Anno 2014 – Raccolta di immagini fotografiche simboliche di concetti relativi alla percezione del futuro dei giovani. I prodotti realizzati si sono avvalsi di template video grafici nei quali le immagini sono state composte realizzando un prodotto audiovisivo dove emergono paure, aspirazioni, sogni, desideri dei ragazzi/e e valori su cui fondare il futuro ( famiglia, affetti…)Anno 2015 – La prima fase del lavoro è coincisa con un’attività di scrittura; i ragazzi/e sono stati invitati ad immaginare e raccontare il loro futuro come se fosse una storia già vissuta. Questo primo percorso a portato alla realizzazione del cortometraggio “Tra 25 anni fa”, un gruppo di ragazze e ragazzi riflettono sul proprio futuro a partire dalle proprie aspirazioni. Il sogno diventa lo strumento per immaginare la propria storia e dare corpo ai desideri e alle paure di ognuno di loro.Fa da cornice visiva il racconto di Johnny che, per mezzo di una conversazione con il proprio padre “invisibile”, ci parla della sua esperienza di vita, prima ragazzo poi adulto costretto a fare delle scelte che (forse) sono andate contro le sue profonde aspirazioni.Cuore del film è una serie di “tableaux dormant”, collocati in un ambiente scarno ed essenziale che non priva i soggetti della loro diversità; nella dimensione rarefatta (e autentica) del sogno, gli interpreti si raccontano, ci parlano delle loro passioni, dei loro desideri; ne nasce un flusso di storie nel quale le diverse esperienze si intrecciano e allo stesso tempo appare sempre chiara la meta condivisa di ognuno di loro: esprimere se stessi, essere veri, vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.

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Il cortometraggio “Tra venticinque anni fa” è stato realizzato durante il workshop “Audiovisiva 2015”, laboratorio che ogni anno è organizzato da Associazione Concorto nell’ambito di Concorto Film Festival di Piacenza. 17

Anno 2016I ragazzi/e sono stati invitati ad utilizzare tre codici differenti che permetteranno di comporre un prodotto audiovisivo basato sul format pubblicitario del “rubamatic” (una serie di sequenze video non appositamente realizzate per la campagna di promozione ma bensì “rubate” da web allo scopo di fornire un’idea dello stile che si intende adottare per lo spot finale). I tre codici differenti sui quali si è lavorato sono: il testo, le immagini video e la musica. Il prodotto finale formerà una specie di spot dove verranno condensati i concetti emersi dai ragazzi in merito alla loro percezione del futuro.

17 Regia e montaggio Stefano Cattini; direzione della fotogra�a Simona Brambilla; produzio-ne associazione Concorto e Doruntina �lm; soggetto, sceneggiatura, riprese e colonna sonora i ragazzi degli istituti superiori di Piacenza Tramello-Cassinari, Casali, Colombini, Gioia.

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Spazio Due, Piacenza, un giorno qualunque della primavera del 2020. Arriviamo alla Cittadella del lavoro e della creatività giovanile percorrendo la pista ciclabile che costeggia le mura della città medievale: un anello di otto chilometri che unisce Porta Milano, Porta Roma, Porta Genova e Porta Torino, e collega l’abitato al fiume Po tramite il futuristico ponte pedonale di Porta Borghetto. Accanto alla pista, le rotaie della MiniMetro Piacenza, con il convoglio elettrico appena inaugurato. L’ingresso del centro di aggregazione è un bel biglietto da visita: sulla ringhiera perimetrale i tabelloni metallici, un tempo destinati alla cartellonistica pubblicitaria sono stati trasformati in opere d’arte ispirate al mondo del lavoro, mentre l’entrata carrozzabile è ingombrata da una vecchia transenna da lavori pubblici riportante la scritta “Carfree Zone”. Il cortile è ordinato e decorato con arredi urbani vintage quali lampioni, cabina telefonica e una vecchia bicicletta con annesso un carretto; in un angolo alcuni bancali in legno riciclati sono allineati a creare una sorta di piccola gradinata. Sul cortile si affacciano un piccolo edificio adibito a uffici e open space, il locale centrale cuore di Spazio Due, a sua volta collegato alle officine creative da una struttura leggera e rimovibile, ricoperta di rampicanti a ricreare l’effetto veranda: sotto il portico tavolini e sedie, tutti rigorosamente risultato di attività di riuso, come area esterna del bar educativo. Alle spalle delle officine, gli originali orti urbani cresciuti nel tempo fino a diventare un corridoio naturale che conduce alla palestra della mente, la vecchia officina adibita alle attività artistiche, teatrali, musicali e circensi. Al piano superiore, infine, la sala per gli studi e la progettazione europea.Entriamo negli uffici, dove incontriamo Stefano, coordinatore del centro di aggregazione per conto di una cordata di cooperative sociali comprendente L’Arco, Solco e Officine Gutenberg: “Il centro di aggregazione fu avviato definitivamente nel 2015 a seguito di una gara pubblica per la selezione di un ente gestore, dopo qualche anno di gestione sperimentale da parte della mia cooperativa. Questi locali ospitavano un tempo la sede amministrativa del quartiere 2, che comprendeva l’area ovest del comune di Piacenza, quando ancora era suddiviso in circoscrizioni. Il consiglio comunale volle differenziare quest’area rispetto a Spazio4, luogo al centro delle politiche giovanili comunali e sede di numerosi eventi di carattere musicale, dandogli una forte connotazione

18 Presidente della cooperativa sociale “O�cine Gutenberg”, attuale gestore di Spazio 2 insie-me ad Arco e Solco.

Capitolo 7. Spazio Due anno 2020

Di Paolo Menzani 18

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sul lavoro giovanile, vera e propria emergenza del periodo. I centri per l’Impiego ufficiali erano destinati a seguire le sorti, ancora incerte, delle amministrazioni provinciali, e c’era un forte rischio di accentramento e di disinvestimento a livello locale sulle politiche del lavoro. Nacque così, non senza qualche diffidenza, la Cittadella del Lavoro e della Creatività giovanile”. Stefano ci mostra lo sportello informativo che ospita Young up per la ricerca attiva del lavoro, Aster per le idee imprenditoriali da sviluppare in sinergia con università e centri di ricerca, e I Move per l’orientamento alla mobilità internazionale. L’altro locale è adibito a sala riunione per i coworkers, le start-up giovanili e le associazioni che gravitano attorno al centro. “Gli inizi non furono facili, dal momento che non tutti gli edifici si trovavano nelle condizioni ideali per essere da subito adibiti alle attività. La crescita è stata graduale e costante, grazie ad un’operazione di riprogettazione sul medio-lungo periodo che ha coinvolto tutte le parti in causa, che hanno saputo coinvolgere nel progetto altre istituzioni e fondazioni, locali e nazionali, che hanno immesso periodicamente risorse preziose”. Nel biennio di avvio Spazio2 è stato sede di un progetto sperimentale sui Neet, i giovani impegnati né in attività di studio né in percorsi di studio, dall’acronimo Not (engaged) in Education, Employment or Training: “Il primo progetto finanziato al Comune da Anci, ha visto coinvolte come partner le cooperative che gestiscono Spazio2, con un ruolo che è diventato via via più importante.No neet era stato pensato come una sistema piramidale, se non addirittura una catena di Sant’Antonio, dove i giovani neet più solidi e strutturati coinvolgevano altri neet, che a cascata inserivano altri giovani appartenenti alle loro reti sociali e relazionali. E’ così che ci è creato un gruppo di ragazzi intraprendenti che ha saputo farsi spazio, e a fare suoi questi spazi. Con noi hanno completato l’allestimento del locale adibito alle attività formative e seminariali, che con il loro aiuto è diventato una sala dedicata allo studio, alla progettazione europea e a un coworking in versione light. Grazie a loro sono stati avviate le officine e gli orti.”Mentre ricostruisce la storia di Spazio2, Stefano ci invita a seguirlo per una visita guidata ai vari spazi. Alcuni ragazzi sono intenti a lavorare su un tornio, mentre altri stanno verniciando delle vecchie cassette di legno trasformati in originali mensole. Alle pareti sono esposte opere d’arte, oggetti e complementi di arredo. Diversi accessori per bicicletta fanno invece bella mostra di sé su una scaffalatura alle spalle di un piano di lavoro riservato alla ciclo officina. “Le officine creative sono state ricavate nei vecchi garage. Quella frontale è da subito diventata la sede di un laboratorio per le attività artigianali e di falegnameria, con grande spazio al mondo del riuso e del riciclo di materiali

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e oggetti. Il confronto con esperti dei vari settori, interessante anche dal punto di vista generazionale, ha fatto crescere decine di ragazze e ragazzi desiderosi di apprendere un mestiere”. Il garage successivo è stato invece diviso in due aree di lavoro distinte: “Un secondo laboratorio è adibito alle attività creative, progettuali e multimediali, realizzate in collaborazione con le scuole, le università e l’Urban Hub, con cui abbiamo saputo fare rete”. Una stampante 3d, presa a prestito dal maker space di via Alberoni, sta producendo un originale pezzo di ricambio per mountain bike, in plastica gialla. “Arduino e le altre tecnologie all’avanguardia sono arrivati anche a Spazio2” chiosa Stefano. L’ultimo garage ospita invece un temporary shop, con attività commerciali al dettaglio a rotazione: in vendita sia prodotti dei laboratori di Spazio2, che articoli provenienti dall’esterno, sempre nell’ambito di attività imprenditoriali di start up giovanili.

Il passaggio di esperienze e competenze è stato un elemento fondamentale per l’attivazioni degli Orti urbani, luogo di sperimentazione e di recupero di vecchie tradizioni. Tecniche innovative convivono con il vecchio pollice verde e la buona volontà, e i ragazzi si rendono disponibili con tutti i cittadini interessati a ritagliarsi “il proprio orticello in città”. Siamo ora seduti ai tavolini dell’Open Space, bar educativo aperto all’interno della palazzina centrale, quella del Quartiere 2. Nella bacheca esterna, ottenuta grazie al riciclo di una vecchia brandina metallica, sono elencati gli eventi futuri: una rappresentazione teatrale organizzata dall’associazione Crisalidi, una rassegna di cantautori piacentini alle prese con i grandi classici

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sul tema del lavoro, una rassegna cinematografica sulla cooperazione, le anteprime della rassegna hip hop Alley Oop e di AFA, il festival elettronico delle frequenze anomale. E le Luci della centrale elettrica, musicisti di livello nazionale (e il linea con il concetto di riuso di vecchi edifici, a livello di naming) per il Festival del Rock d’Autore. “Il bar educativo è l’ultimo arrivato a Spazio2, inizialmente era stata attrezzato come locale pubblico un angolo della Palestra della Mente. L’ampio salone si presta ad ospitare eventi di ogni tipo, in stile caffè letterario o piccolo club: nel corso degli anni abbiamo intercettato quasi tutte le realtà locali attive nell’organizzazione di eventi musicali e culturali per i giovani, e a tutti abbiamo fatto spazio, aprendo loro l’utilizzo dei nostri locali e delle nostre attrezzature. Senza fare concorrenza alle altre realtà pubbliche e private attive nel settore”. Il salone dell’Open Space è arredato in modo originale, e le pareti sono ricoperte di centinaia di dischi prodotti nell’ultimo decennio della scena musicale locale, in un’originale logica “Km zero”. Un palco, due americane per le luci e un impianto audio lo rendono una location molto fascinosa per spettacoli acustici e reading. Durante il giorno l’ampia sala si presta ad attività di aggregazione e socializzazione, e ospita una serie di postazioni di coworking molto “free”, che vengono proposte ai giovani a tariffe molto agevolate, con l’orginale proposta base della postazione a rotazione (e quindi non in esclusiva) al prezzo di un caffè al giorno, che viene servito nell’area bar comunicante con le officine tramite il porticato. Usciamo dall’Open Space e, seguendo due strisce di orti urbani colmi di erbe e verdure di stagione, giungiamo all’ingresso della Palestra della Mente, dove alcuni ragazzi dell’associazione Tadam sono impegnati in esercizi circensi da artisti di strada. “Il recupero del vecchio capannone è il risultato più eclatante dal punto di vista del riuso di vecchi edifici” commenta Stefano. “Il progetto è stato sul tavolo per diversi anni, finchè progettualità e unione di intenti hanno permesso di portare alla luce, viene da dire, che questa meraviglia” aggiunge orgoglioso. Il soffitto altissimo, le enormi vetrate e l’ampiezza della sala principale hanno permesso di ricavarci un club metropolitano molto “cool”, aperto ad ogni sperimentazione artistica e ad ogni spunto di creatività. Sulle pareti il manifesto dei venerdì di Sound Bonico, dei corsi di danze popolari, di Busker Due e di Spazio store, i mercatini diventati con il tempo una sorta di Portobello piacentina. Una scala interna permette l’accesso ai servizi, e alla Sala degli studi prevista al piano superiore: lavagna interattiva multimediale, connessione wireless e moderne postazioni pc rappresentano una sorta di biblioteca 2.0; gli scaffali Ikea stracolmi di volumi per il book sharing un’ancora al passato. “La sala polivalente non è dedicata solo allo studio, ma ospita un centro di progettazione europea all’avanguardia, dove i ragazzi possono collaborare

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e lavorare in sinergia con tutte le realtà locali che possano supportarli” commenta Stefano. Una porta finestra ci permette di uscire all’area aperta, e, attraverso la scala antiincendio, di accedere all’area eventi esterna, dove sotto una tettoia sono allineati tavoli, panche e gli spillatori della birra. La frenetica attività dei ragazzi indica che è imminente un evento, che Stefano conferma: “Sono i ragazzi dell’Associazione Dateci Spazio, nata all’interno del primo progetto sulla precarietà giovanile. Da ormai cinque anni ci supportano nella gestione del centro, e organizzano eventi e attività in piena autonomia. Il nostro orgoglio!”. Arriva la birra, non rimane che brindare. Buon futuro, Spazio Due!

Finito di stamparenel mese di Luglio 2016 pressoGrafiche Lama S.r.L., Piacenza