Nino Filastò - Maniac

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Racconto ispirato al mostro di firenze

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Maniacdi Nino Filastò

Se non avessi letto la notizia, probabilmente avrei cestinato l'invito, come gli altri annunci pubblicitari di cui è piena la cassetta delle lettere.

Avevo passato l'estate e parie dell'autunno su un'isola della Bretagna, più di tre mesi di calma lusso e voluttà, come dire lente passeggiate al mattino lungo uno dei sentieri côtiers che circondano l'isola, ostriche a desinare, e cinema serale.

Da quando sono andato in pensione continuo a rimandare il progetto di trasferirmi definitivamente sull'isola. Ogni anno verso la metà di ottobre, appena il clima sulla costa atlantica diventa più piovoso, mi prende la smania di ritornare nella mia città, come se m'aspettasse il lavoro consueto. Insegnavo criminologia nella facoltà di legge di una piccola città, quasi una cittadina, e piuttosto provinciale. Dopo secoli in cui la mia città s'era spesso trovata al centro di vicende d'importanza storica, un'inesorabile decadenza l'aveva trasformata in un posto sonnacchioso dove non succedeva mai nulla che potesse interessare il mondo. Questo finché non era stata funestata, dal 1968 al 1985, da una catena di delitti avvenuti sulle colline che la circondano. Le vittime, due alla volta per un totale di 16, erano coppie di giovani intente in auto ai preliminari del gioco amoroso.

Me n'ero occupato, ovviamente, considerata la mia professione; tuttavia a puro scopo speculativo, facendone oggetto di studio insieme ai miei studenti, nessuno mi aveva interpellato in via ufficiale. I risultati del mio lavoro di analisi furono considerati dai professionisti dell'inchiesta con sufficienza, se non con diffidenza, come se avessi inteso arare un campo altrui. Le conclusioni dei miei studi sugli aspetti psicopatologici dell'assassino erano state liquidate con degnazione che mascherava il fastidio. Non sarebbe stata roba da professori, secondo i pragmatici inquirenti, inutile elaborare teorie astratte, si dovevano scavare tracce concrete, e fatti, e testimonianze. Avevo avuto un bel protestare che altrove, negli USA, alla Scuola di Scienze Comportamentali di Quantico, per esempio, da anni ormai per casi simili si tracciava un identikit psicologico dell'autore ricavato dalle connotazioni obiettive dei delitti, e che questo era giustamente considerato il solo strumento per circoscrivere la ricerca: si trattava di trovare l'ago nel pagliaio, e prima di tutto bisognava sfoltire il pagliaio. Mi rispondevano che qualsiasi impostazione preconcettuale sarebbe stata fuorviante. Intanto continuavano a sbattere in galera persone che il vero assassino si preoccupava di scagionare commettendo un altro duplice omicidio mentre si trovavano carcerate.

L'inchiesta si era conclusa nel modo che io avevo previsto. I ricercatori avevano finito per modificare l'oggetto della loro ricerca, adattando i fatti a un colpevole creato a tavolino, e poi costruendogli le prove intorno, compresi alcuni complici.

Di ritorno da quelle che continuo a considerare le vacanze, anche dopo che tutto il mio tempo è diventato una lunga vacanza, trascorro almeno una settimana quasi senza muovermi di casa, intontito dalla noia, disgustato dai rumori e dagli odori cittadini — il benzene che penetra dalle finestre, lo strisciare delle gomme sull'asfalto, lo scroscio dell'acqua a pressione del vicino autolavaggio — pentito del ritorno. Ma il mattino del 10 ottobre 2010, benché sia rientrato da appena un giorno, una specie di tensione, come se mi mancasse qualcosa e dovessi procurarmela ad ogni costo, mi induce ad affrontare la strada di traffico intenso che interseca la via privata in cui si trova la mia palazzina condominiale. Più di due chilometri nel puzzo delle automobili fino all'edicola. Qui compro un paio di giornali, che sfoglio ansiosamente nel bar dove mi fermo a prendere un caffè, in qualche modo misteriosamente cercandola, la notizia. Ed eccola, difatti, in cronaca locale, un trafiletto di un paio di colonne: il Tizio è morto, chissà dove, chissà di che. I giornali non dicono altro: solo ch'è morto, pace all'anima, e che in questo modo "si chiude il capitolo".

La storia si chiude, altro che il capitolo. Con la morte di U.C. si spegne l'ultima favilla di un fuoco che non ha mai fatto luce, solo fumo e puzzo di bruciato. U.C. è stato l'ultimo a morire fra i vecchi di paese che nelle indagini hanno preso il posto dell'assassino seriale. Lo scomparso fu una specie di scemo del villaggio, convinto a trasformarsi nella bocca della verità dal terrore di finire in

galera, e dai vantaggi del regime di protezione. Viveva della carità del curato, senza lavoro, senza casa, quasi un accattone, quando, allettato dalla promessa d'impunità come un testimone della Corona Inglese, da uno stipendiuccio mensile e dalla camera in un albergo di quarta categoria, aveva incominciato ad infilare come perle false una quantità di corbellerie, che chi gliele suggeriva aveva fatto in modo che formassero un disegno. Disegno contorto e infantile, uno scarabocchio in cui la storia atroce si riduceva al passatempo periodico di un gruppetto di anziani alcolisti che di sabato si sborniavano nel bar di uno dei paesi di campagna intorno alla città. Accantonati e senza risposta tutti i perché, e cancellata la perversa, fredda geometria dei delitti. E tuttavia, dopo trent'anni di indagini, dopo trent'anni di errori costati la galera per lunghi periodi a sei innocenti, la gente aveva finalmente i colpevoli al plurale. I quali del resto erano tutti morti, compreso quest'ultimo collaboratore, che i giornali non erano riusciti neppure a scoprire dove fosse morto, in quale posto sperduto, così che si manteneva, fino all'ultimo, la segretezza del suo rifugio, e questo per tenere il dichiarante al coperto, fino all'ultimo, da domande indiscrete. Il tempo e la morte ora avevano congelato ogni cosa; restava solo negli animi più sensibili come il mio un sentimento di insoddisfazione e di sfiducia, che tuttavia non avrei saputo dire se non fosse la traccia d'ombra un poco più scura di un inconscio collettivo umbratile, da secoli adusato a misteri irrisolti.

E questa è la notizia. L'invito lo scopro poco dopo, quando coi giornali sotto il braccio apro lo sportello della cassetta delle lettere, e mi faccio piovere nelle mani il mucchietto della corrispondenza accumulata durante la mia assenza. Ripeto che gli avrei dato solo un'occhiata distratta, e gli avrei fatto prendere subito la via della pattumiera se la morte di U.C. non mi avesse restituito sensibilità al problema, oscurato dall'indifferenza corale della città e dal tempo trascorso.

Aperta la busta, attira la mia attenzione l'immagine grafica sul verso del cartoncino: due piedi enormi calzati da scarpacce sormontati dalle gambe di un paio di pantaloni. Una scritta, in bianco su fondo rosso, nasconde in alto il corpo senza testa del possessore delle scarpe e dei pantaloni: "I WARNED YOU NOT TO GO OUT TONIGHT".

Il testo dell'invito è sul retro, e comincia cosi: "La Signoria Vostra è invitata…".Avverto il fastidio del linguaggio vetero-giudiziario. Vent'anni fa — oggi non più, l'uso è

cambiato — si chiamavano "signorie vostre" i giudici e i pubblici ministeri. In questo modo gli imputati si rivolgevano nei verbali all'interrogante: "A contestazione della S.V. rispondo…". Ad accrescere la distanza stellare fra i due soggetti impegnati in quello ch'era tutt'altro che uno scontro dialettico, bensì, nell'immaginario più o meno consapevole del magistrato, il prodromo d'una confessione con cui il poverocristo avrebbe aperto l'animo suo al sacerdote-confessore, quest'ultimo diventava spesso S.V.I., cioè Signoria Vostra Illustrissima. Veniva di lontano, l'uso, dal milleseicento…

Dunque la Signoria Vostra, cioè io, neppure abbreviata dalla sigla, è invitata alla proiezione di alcuni films, riuniti nel programma "culturale" da una costante: il cinema horror americano degli anni Ottanta. Che cosa costituisca l'interesse culturale della rassegna, l'invito non lo dice; devo presumere che sia d'ordine sociologico, o storico, o semantico, perché di artistico hanno ben poco i filmetti di serie B compresi nella lista, basta leggere i titoli per rendersene conto:

"NUDA PER UN PUGNO DI EROI, BLACK KAT, CANNIBAL FEROX, L'ALDILÀ, LE NOTTI DI SALEM, SCHIZOID, IL KILLER DELLA NOTTE, MANIAC".

Il primo titolo e l'ultimo titolo mi provocano una scossa elettrica, tanto che la mano che regge l'invito ha un tremito.

NUDA PER UN PUGNO D'EROI è un film non americano, ma giapponese, ambientato in un ospedale da campo durante la guerra cino-giapponese del secolo scorso. La prima coppia uccisa, quella del lontanissimo 1968, era andata a vedere nel cinema del suo paese alle porte della città proprio questo film, almeno secondo la mia ipotesi. Pellicola esteticamente dignitosa, benché carica di un sadismo inenarrabile. Protagonista un'infermiera giapponese carina e disinibita, che in mezzo al sangue, alle amputazioni esposte con crudo realismo, ai gemiti, alla disperazione dei feriti, si presta volentieri a concedere a tutti, innanzitutto ai morenti, l'ultima gioia. A tutti, ai cani e ai porci, tranne che al chirurgo: pour cause, perché il medico del campo di battaglia è impotente per abuso di cocaina. Una bomba aerea distrugge l'ospedaletto, e risolve il finale con la catarsi onnidistruttiva,

esclusa la ragazza generosa che si salva. La coppia del '68, prima di essere aggredita e uccisa dall'assassino che poi sarebbe diventato seriale, era entrata nel locale in cui si proiettava questo film, seguita a ruota da un giovane che aveva acquistato l'ultimo biglietto.

Per quanto riguarda l'altro titolo in programma — MANIAC— mi ero occupato del film nello studio criminologico in cui cercavo di ricostruire l'identità psicologica dell'assassino, e avevo concluso che proprio quella pellicola avesse dato all'omicida l'ultima spinta per i due delitti del 1981, avvenuti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro, e che MANIAC avesse dato a colui che i giornali avrebbero definito banalmente "il mostro" l'idea di compiere sul corpo della ragazza uccisa le orribili escissioni che avrebbero rappresentato in seguito un'atroce costante dei suoi delitti. Il film non ero riuscito a vederlo, avevo avuto l'anticipazione di esso in un trailer trasmesso in tivù, e avevo letto la trama su una rivista specializzata, ed ecco che ora mi si presentava l'occasione di approfondire se la mia intuizione fosse esatta. Le proiezioni sono bisettimanali, mi sono perso tutti gli altri films, tranne MANIAC.

Il locale è in periferia, non lontano dalla mia abitazione. È un cinema multisala, nato negli ultimi anni Novanta quando la settima arte stava riacquistando parte del pubblico a suo tempo lasciato in balia della televisione. Una saletta, fra le cinque di cui consta il locale, è dedicata all'attività di un cineclub che raccoglie periodicamente indomiti cinefili. Il baretto prima dell'ingresso offre enormi contenitori cilindrici di pop-corn, il corridoio che precede il tendaggio da cui s'accede al sancta sanctorum della nostalgia, è tappezzato da manifesti da antiquariato, la maggior parte in bianco e nero. Su un cavalletto è esposto il manifesto della proiezione in corso: rivedo i piedoni, le scarpacce, la scritta in inglese, il titolo in corsivo bianco, chiazzato di rosso sangue — MANIAC — sul cartoncino d'invito. L'ho esibito all'ingresso a una ragazzina annoiata, che gli ha dato un'occhiata distratta, trasferendo poi lo sguardo sul mio viso. Vi leggo, nello sguardo della ragazza, una certa ansietà, come se s'aspettasse qualcosa di strano da quest'invitato, come se qualcosa di strano e di allarmante fosse già avvenuta durante le proiezioni precedenti. Mi sembra un po' sulle spine questa ragazzina, ma forse è solo un'impressione. L'ingresso è continuato, come nei cinema della mia infanzia, le proiezioni si susseguono l'una all'altra per tutto il pomeriggio fino a tarda notte.

Appena gli occhi si sono abituati all'oscurità, m'accorgo che la saletta è semivuota, solo una coppia di ragazzotti intenti a sbaciucchiarsi nell'ultima fila, e qualche solitario di sesso maschile sparso qua e là. Mi siedo su una poltrona comoda, con molto spazio fra una fila e l'altra, tanto che mi è concesso distendere le gambe, l'aria è secca, sa di moquette polverosa.

Sullo schermo un uomo, visto di spalle, guida un'auto per le vie di una città che parrebbe New York. Le immagini delle strade notturne sono accompagnate da una voce femminile che nasce nel pensiero del guidatore: "… Ti ho detto di non uscire, stanotte — dice la voce fuori campo — ogni volta succede sempre la stessa cosa. È ridicolo e non porta da nessuna parte! Tu pensi che non lo sappiano, e invece sì! Io lo sento, lo so. Tutti lo sanno, e non mi piace più…".

Avverto un movimento in una delle ultime file. Qualcuno s'è alzato e sta attraversando velocemente la sala diretto verso il mio posto. Con la coda dell'occhio intravedo una sagoma alta che s'introduce nella fila alle mie spalle. Si siede dietro a me, avverto il lieve cigolio della poltrona che accoglie il nuovo peso.

"Oh, tu hai ragione da vendere riguardo a loro — continua la voce dallo schermo, mentre la macchina procede per una via che costeggia il fiume — sono tutte uguali! Io lo so bene riguardo a loro!"

La persona che adesso siede alle mie spalle protende la testa in avanti, sta di sbieco rispetto al posto da me occupato, avverto un alito pesante che sa di sigaro toscano:

— Benvenuto… — sussurra la persona. Mi volto: intravedo un vecchio molto alto, che sorride nel buio.

— Prego?— No, voglio dire… Benvenuto, professore.Sullo schermo l'auto procede in una zona più buia e deserta di traffico, si susseguono moli e

magazzini sul fiume, la voce dallo schermo continua:"… Io lo so come sono. Anche se non posso fare le cose che fanno, non vuol dire che non

capisca… Sono tutte uguali! E noi cosa dovremmo fare? «Seduto e sorridi!» e: «Sì, Signora!» e: «No, Signora!», «Non adesso, Signora!», «Come piace a voi, Signora!» Lo so, lo so! Con i loro capelli, i loro sguardi ed il loro… Il loro… Ti… Ti fanno diventare p-a-z-z-o!…"

— Un po' infantile, non trova? — sussurra la voce del vecchio alle mie spalle.— Prego?— No, voglio dire… Troppo elementare… E banale, non trova? Certamente uno studioso come

lei avrebbe saputo trovare termini più appropriati… Scientifici, voglio dire, più adatti alla sindrome…

— Che studioso, scusi? — Mi volto a guardare nell'incerta luce che si riverbera dallo schermo il volto del vecchio, che mi è sconosciuto, me lo ricorderei se l'avessi incontrato. Un viso nobile, si direbbe, segnato di rughe, con quel tanto di infantilismo e di placidità che assume il volto di certi vecchi senza rimpianti quando si è spenta l'ansia di avere e di godere, e tutto ormai s'è ridotto ad accettare l'attesa dell'inevitabile. l nostri sguardi s'incrociano nella penombra del cinema, il suo sguardo fermissimo afferra il mio, lo trattiene a lungo. Oltre la calma dignitosa di questi tratti fermi e appassiti come una pagnotta di pane raffermo, gli occhi inquietano, incavati sotto l'ombra delle sopracciglia bianche e folte. C'è una sorta di luce ammiccante e nera nel profondo degli occhi, un guizzo ironico, l'opposto della saggezza senile, piuttosto l'anticipazione divertita di una sorpresa gioiosa e divertente che lui mi darà, che sarebbe disposto a partecipare con me.

— Eh, — sospira il vecchio. — io la conosco bene, sa? A suo tempo lei è stato l'unico ad avvicinarsi alla verità.

Intanto sullo schermo continua la sequenza dell'auto in corsa lungo i docks del grande porto metropolitano, la voce fuori campo è diventata stridula:

"No… Non volevo dire questo… È solo che… Non sanno fermarsi. Non sanno mai quando fermarsi. Ecco perché devono essere fermate! È un tuo diritto. È giusto. Ma non cosi, non in quel modo! Per favore! Devi stare attento, devi ascoltarmi! Io ho bisogno di uscire ed ogni volta è sempre uguale! Mi spaventa che ti prenderanno… Ma non ce la faranno se fai come ti dico! Non ti prenderanno mai… Mai, lo giuro! Mai!"

La voce del vecchio alle mie spalle, ridente, ripete l'ultima battuta sullo schermo, formando una specie di cànone. Mi volto ancora, stupito. Il vecchio mi guarda e sorride apertamente; esibendo il movimento delle labbra per scandire le sillabe, e anticipa la battuta successiva, che mi giunge anche dal cavernoso altoparlante con lieve ritardo:

"… Giovani, carine, con quei loro vestiti incollati sulla pelle, quelle labbra sporche che ti sorridono sempre… Ma io posso fermarle! Ed allora, finalmente, smettono di ridere per sempre!"

— Lo sa a memoria? — mi stupisco.— Eh, già — ridacchia il vecchio — a furia di sentirlo, questo narratage… Un po' insipido, stile

cinematografico, si capisce, la versione elementare per necessità di narrazione di sentimenti ben più profondi, di motivazioni ben più complesse. Ma lei aveva ragione, sa? L'assassino l'aveva visto questo film… Prima, voglio dire. È molto eccitante: ecco, guardi la scena successiva.

Un tema musicale drammatico sostituisce la voce fuori campo. Il punto di vista cambia, dalla porta d'ingresso di un locale musicale escono due giovani, un ragazzo e una ragazza, e salgono sulla loro auto. Raggiungono l'ombra discreta dei piloni di sostegno di un grande ponte, la macchina da presa inquadra le vertiginose capriate del ponte da Verrazzano. Seminascosta da una struttura di sostegno s'intravede la macchina della scena iniziale. I due giovani a bordo della loro auto scelgono per appartarsi una zona buia. L'auto della scena iniziale spegne i fari, ne scende il guidatore. Dentro l'auto i due giovani hanno incominciato le loro effusioni. Un'ombra si avvicina al finestrino sinistro. La ragazza s'avvede dello spione e spalanca la bocca in un grido d'allarme. Anche il giovane s'accorge dell'estraneo, ma prima che possa tentare qualsiasi reazione, l'uomo balza sul cofano della macchina come un gatto, spiana l'arma — una carabina — spara, e uccide il ragazzo. Poi salta a terra, aggira l'auto, e spalanca lo sportello. Gli è apparso in mano un corto coltello affilatissimo, con cui colpisce al petto ripetutamente la ragazza. Poi l'afferra per i capelli, incide la pelle della fronte, il sangue sprizza, l'assassino completa lo scotennamento.

Il trailer di questo film, con questa identica scena, l'avevo visto quand'era passato infinite volte

nella primavera del 1981 nel palinsesto di una televisione locale. Mi aveva colpito l'affinità della scena con il duplice delitto avvenuto in una località di campagna nei paraggi della città nel giugno del 1981, poco dopo che la tivù locale aveva cessato di trasmettere il trailer con questa scena. Le coincidenze erano notevoli: l'uscita, spiata dall'assassino, dei ragazzi dal locale notturno (nel delitto si trattava di una discoteca); la coppia in auto in un posto isolato e buio, l'omicida che osserva i trasporti dei due giovani; all'inizio dell'azione l'attacco con l'arma da sparo contro il ragazzo, poi contro la ragazza all'arma bianca; la sopravvivenza, per qualche istante, della ragazza che aveva così modo di rendersi conto con terrore di quello che stava accadendo, prima di soccombere anch'essa; e soprattutto — particolare questo inedito nei delitti precedenti — l'asportazione dal corpo della ragazza di una sorta di feticcio.

— Scommetto che quello che la colpì fu la coincidenza cronologica, è vero? — dice il vecchio sorridendo con arguzia. — I trailer prima del giugno '81, e la proiezione del film per intero in un piccolo cinema della città nella settimana precedente il secondo duplice delitto di quell'anno, dal giovedì 15 ottobre al giovedì 22 ottobre. Deduzione esatta, puntuale: l'assassino vide i trailer ripetuti ossessivamente sul piccolo schermo, e quindi vide MANIAC per intero. Se ne sentì stimolato, come dire? In un certo modo autorizzato, capisce? E fu appunto allora che concepì l'idea di accrescere la procedura con le escissioni. Bravo! Avrebbe dovuto essere lei a guidare le indagini!

Allunga una mano e mi fa piovere sulla spalla una pacca d'approvazione. La mano è dura, come se mi avesse colpito con un legno. Mi scuoto spolverando la spalla:

— Ma lei chi è scusi? Perché non mi lascia guardare il film in pace?— Ah, perdoni il mio entusiasmo… Ma bisogna compatirmi… Provi ad immaginare un artista

che abbia lasciato opere somme. Però nessuno sa che sono sue, le opere. Sono state attribuite da critici disattenti a mediocri falsari, in maniera tale che non solo l'artista autentico è misconosciuto, ma le opere stesse sono state in qualche modo trasformate, le hanno rese banali e stupide adeguandole ai pretesi autori. L'ha detto lei, mi pare, l'ha esposto brillantemente lei in un suo scritto questo giro vizioso: il soggetto ricercatore trasforma l'oggetto della ricerca, l'oggetto così trasformato chiama in causa un altro soggetto considerato a torto l'autore, a sua volta questo nuovo soggetto s'immedesima nel ruolo manipolando di nuovo l'oggetto della ricerca, e trasformandolo in un guazzabuglio informe a sua immagine e somiglianza. Una faccenda del genere è definita da un filosofo americano col termine "fallacia'. Proprio questo è stato fatto con quel povero cristo deceduto qualche giorno fa, lo fecero diventare il coautore dell'ignobile pastrocchio che si è sostituito nella considerazione di tutti, o di quasi tutti, ai veri delitti. Ma è perverso, non trova? Sarà stato tranquillizzante, sarà stato pacificante, ma è nefasto!

Decido di cambiar posto. A un tratto la presenza di questo disturbatore mi è diventata insopportabile. Lo sento incombere dietro di me, la sua voce capovolge il piccolo mondo del cinematografo, è come se mi riversasse dentro le immagini del film contrappuntate dai ricordi dei delitti, ed io mi trovassi a guardare le une e gli altri dall'orlo di un burrone provando una tremenda sensazione di vertigine. Raggiungo il corridoio fra le file di poltrone con le spalle rivolte allo schermo. La musica drammatica aumenta d'intensità. Mi volto a guardare. La scena è cambiata, si svolge ora in un suburbio povero, una fila di case misere con i gradini protetti da ringhiere di ferro che immettono su portoncini scrostati. Una giovane prostituta, bruna, seduta su un gradino, schiude le gambe e adesca un uomo che di spalle s'arresta davanti a lei. Sull'architrave del portoncino s'illumina a scatti la scritta al neon: "PENSION". L'uomo segue la prostituta in una camera. Incombe su di lei, coglie l'espressione irridente della prostituta dinanzi alla sua inutile agitazione. Le mette le mani intorno al collo, stringe con lentezza, il volto della ragazza si stravolge, spalanca la bocca con un urlo, dopo le convulsioni il corpo resta immobile, appare nella destra dell'uomo il coltello tozzo, MANIAC procede allo scotennamento.

Ho raggiunto un posto più vicino allo schermo, sono appena seduto che mi raggiunge la voce del vecchio dalla mia destra, s'è seduto nella stessa fila, lasciando fra me e lui due posti liberi:

— Non creda di liberarsi tanto facilmente di me. In fondo lei è mio ospite. Di chi crede sia stata l'idea di questa rassegna? Il proprietario del locale è mio amico. Ma nessuno poteva pensare che l'iniziativa avrebbe avuto tanto successo. Lei ha scelto un'ora morta, negli spettacoli serali la sala è

colma, è difficile trovare posto. Ha visto la scena della prostituta? Non le dice nulla?Non rispondo, ostentando di guardare fissamente lo schermo.— Eppure — continua il vecchio — è stato lei a scrivere nel suo saggio che il cosiddetto

maniaco delle coppie, chi l'ha detto che uccidesse solo in quel modo? Perché avrebbe dovuto lasciare intervalli di tempo così lunghi fra un duplice delitto e l'altro? Non ospitava forse, questa città, un altro maniaco che uccideva prostitute e ragazze sole? Fu lei, se non sbaglio, ad attirare l'attenzione su una lettera spedita da un anonimo a un giornale. E cosa diceva, questa lettera? "16 sono pochi", diceva. E diceva anche: "Non odio nessuno, ma devo farlo se voglio vivere…" Proprio così: se voglio vivere! Come dire: non ne posso fare a meno! È pensabile che qualcuno possa esercitare una funzione per lui vitale, riuscendo ad addormentare l'istinto per lunghi anni? Anche in questo aveva ragione lei. L'ha guardata bene la bruna prostituta del film? Non le ricorda nulla? Si rammenta la puttanella strangolata a casa sua, nel suo letto, nell' '82? Non aveva lo stesso viso volgare del film? E il giovane dell'agguato sotto il ponte da Verrazzano, non ha notato che assomiglia… Pensi al taglio dei baffi! al giovane ucciso del secondo delitto dell' '81? Crede che sia stato facile? Capisce ora cosa voglio dire quando parlo di un artista misconosciuto?

— Ma lei chi è, scusi? — chiedo col terrore della risposta.Ma la risposta non arriva. Fa un gesto vago d'indifferenza, come per accennare a una cosa

superata, di cui non val più la pena di parlare. Riprende dopo una lunga pausa:— Un successo, un grande successo, come le dicevo. Specialmente con l'ultimo film, con questo

MANIAC. Il proprietario ha intenzione di lasciarlo in proiezione indefinitamente, sera dopo sera: potrebbe diventare una specie d'istituzione in questa città, tanto povera, d'altra parte, di manifestazioni culturali stimolanti. Sera dopo sera, verranno tutti, tutti! Non creda di essere stato lei il primo. È già stato qui il Grande Investigatore in persona, la settimana scorsa. S'è seduto in questa saletta, sollecitato dal mio invito, sto parlando del Superinquisitore che ha imbastito la storiella dei vecchietti terribili. È entrato anche lui a film iniziato, come lei. E gli sono andato a sedere accanto, lo toccavo ogni tanto col ginocchio come fosse stato una bella donna con cui tentare l'approccio. Da crepare dal ridere, quando spalancava gli occhi per guardarmi, credo che soffra un po' d'esperopia, non gli riusciva d'inquadrarmi per bene. Gli ho parlato in termini anche più espliciti di quanto non abbia fatto con lei. A un certo punto, non ne ha potuto più, e se n'è andato. È scappato! Camminava così di furia, come fosse in trance, che nel corridoio è andato a sbattere contro un ragazzo che veniva avanti reggendo nelle mani uno di quei cilindri immensi carichi di pop-corn. 1 bruscolini sono schizzati via per tutto il cinema. La saletta è piccola, abbiamo continuato a sentirceli sotto i piedi per giorni. E verranno anche gli altri, ci può scommettere: il Grande Magistrato, verrà, verranno i giudici, verranno i giornalisti affezionati al teorema dei vecchi alcolisti campagnoli; e verranno gli oppositori della teoria, come lei, chissà che una bella sera non scoppi una rissa, fra queste poltrone! Sarebbe un bel fatto, non trova? La voce del resto si sta spandendo, che qui, in questo cinematografo di periferia, dopo trent'anni di indagini, di fiumi di carta stampata, l'infinito blablà televisivo di sommi giornalisti, di esperti criminologi… Insomma qui dentro, in questo cinemuzzo suburbano, c'è la chiave del mistero. E c'è il mistero medesimo in carne e ossa, seduto tranquillamente in una poltrona. Perché ho deciso di venire qui, ogni sera, ad assistere alle proiezioni, in attesa degli ospiti, ogni santissimo pomeriggio e ogni santissima sera, durassero anni e anni queste proiezioni, com'è nei voti del proprietario del locale…

Si cheta, lo vedo che s'incupisce, passandosi una mano sulla fronte:— Già, una gran bella idea, questi spettacoli…Sullo schermo una coppia campeggia in tenda su una spiaggia. MANIAC con la solita rapidità,

freddezza e determinazione parte all'attacco. Prima uccide la ragazza, una bruna con i capelli a caschetto: la rassomiglianza della vittima femminile cinematografica con quella reale, quando nel 1985 il maniaco uccise una coppia di campeggiatori, è impressionante. Ho le mani bagnate di sudore, me l'asciugo col fazzoletto.

— Suda? — sogghigna il vecchio.MANIAC ha aggredito il giovane, lo sgozza col cutter, il solito coltello corto affilatissimo.— Gran bella idea — bofonchia il vecchio — però a volte penso a una specie di contrappasso.

Potrebbe essere il mio inferno… Qui, per l'eternità, costretto a vedere e rivedere questo film… Per l'eternità… — La voce del vecchio è diventata triste.