Newsletter - Edizione n. 23, 14 - 20 Giugno 2011 · quotidiano «Il Sole 24Ore» dell’agenda...

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1 Newsletter - Edizione n. 23, 14 - 20 Giugno 2011 Sommario A CURA DI GUIDA AL DIRITTO IL REGIME DEGLI INDENNIZZI Agenda aperta sulla riforma del danno alla persona alla ricerca di una comune base di "trattamento" Di Giovanni Comandè - Ordinario di Diritto privato comparato presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa PRIMO PIANO DANNO BIOLOGICO Micropermanenti: tabella ministeriale anche per le lesioni non auto Francesco Machina Grifeo e Filippo Martini (Guida al Diritto), 17 giugno 2011 SENTENZE DEL GIORNO COLPA PROFESSIONALE Responsabile l'infermiere che non si accorge dell'aggravarsi del paziente Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 giugno 2011 n. 24573 PRESCRIZIONE Telegramma: la ricevuta di invio delle Poste prova la ricezione Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 SPESE GIUDIZIALI La parte soccombente tenuta a rimborsare anche le "consultazioni con il cliente" successive alla sentenza Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 n. 13482 DIRITTO D'AUTORE Il venditore di fotocopiatrici deve indennizzare gli autori per la "copia privata" Cgue - Sentenza 16 giugno 2011 - Causa C-462/09 A CURA DI LEX24 PROVA PENALE Garanzie rafforzate sui testimoni d'accusa Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 16 giugno 2011 - Pagina 39 APPALTI PUBBLICI Codice appalti: società private al pari di "organismi di diritto pubblico" Manuela Veronelli, avvocato, Presidente C.A.S.P. - (Lex24) | 15.06.2011 REATI TRIBUTARI Concorso fra truffa e frode fiscale Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 14 giugno 2011 - Pagina 31 DIRITTO FALLIMENTARE Piena ammissibilità delle spese legali al passivo fallimentare Palumbo Francesco, Lex24 - Il Merito, 14 giugno 2011

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Newsletter - Edizione n. 23, 14 - 20 Giugno 2011 Sommario

A CURA DI GUIDA AL DIRITTO IL REGIME DEGLI INDENNIZZI Agenda aperta sulla riforma del danno alla persona alla ricerca di una comune base di "trattamento" Di Giovanni Comandè - Ordinario di Diritto privato comparato presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa PRIMO PIANO DANNO BIOLOGICO Micropermanenti: tabella ministeriale anche per le lesioni non auto Francesco Machina Grifeo e Filippo Martini (Guida al Diritto), 17 giugno 2011 SENTENZE DEL GIORNO COLPA PROFESSIONALE Responsabile l'infermiere che non si accorge dell'aggravarsi del paziente Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 giugno 2011 n. 24573 PRESCRIZIONE Telegramma: la ricevuta di invio delle Poste prova la ricezione Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 SPESE GIUDIZIALI La parte soccombente tenuta a rimborsare anche le "consultazioni con il cliente" successive alla sentenza Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 n. 13482 DIRITTO D'AUTORE Il venditore di fotocopiatrici deve indennizzare gli autori per la "copia privata" Cgue - Sentenza 16 giugno 2011 - Causa C-462/09

A CURA DI LEX24 PROVA PENALE Garanzie rafforzate sui testimoni d'accusa Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 16 giugno 2011 - Pagina 39 APPALTI PUBBLICI Codice appalti: società private al pari di "organismi di diritto pubblico" Manuela Veronelli, avvocato, Presidente C.A.S.P. - (Lex24) | 15.06.2011 REATI TRIBUTARI Concorso fra truffa e frode fiscale Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 14 giugno 2011 - Pagina 31 DIRITTO FALLIMENTARE Piena ammissibilità delle spese legali al passivo fallimentare Palumbo Francesco, Lex24 - Il Merito, 14 giugno 2011

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Gli approfondimenti di Lex24 RISARCIMENTO DEL DANNO Danno da perdita di chance: prova ammessa anche secondo calcoli di probabilità o per presunzioni Consiglio di Stato, Sezione 3, Sentenza 30 maggio 2011, n. 3243 - Rassegna di giurisprudenza (Lex24) RESPONSABILITA' MEDICA La responsabilità dell'ente ospedaliero nasce dal contratto di assistenza sanitaria Tribunale di Campobasso, Sentenza 2 maggio 2011, n. 270 - - Rassegna di giurisprudenza (Lex24) ERRORE MATERIALE Lo scambio di motivazione impone un altro ricorso Bresciani Remo, Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi 13 giugno 2011 - Pagina 54 CONFISCA PER EQUIVALENTE Compensazioni a rischio. Sanzionata la posizione del professionista nell'illecito Iorio Antonio, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 17 giugno 2011 - Pagina 29

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GUIDA AL DIRITTO IL SOLE-24 ORE 11 N˚ 26 25 GIUGNO 2011

Q ualche giorno fa scrivevo sulle colonne delquotidiano «Il Sole 24Ore» dell’agenda del-la riforma del danno alla persona segnalan-do alcuni punti. L’agenda è stata aperta; e a

farlo è stata la Suprema corte secondo una linea dicoerenza tracciabile a ritroso almeno fino ai primianni ’90 del secolo scorso.Andiamo per gradi: «Nella perdurante mancanza

di riferimenti normativi... considerato che il legisla-tore ha già espresso... la chiara opzione per una ta-bella unica da applicare su tutto il territorio naziona-le, la Corte di cassazione ritiene che sia suo specificocompito, al fine di garanti-re l’uniforme interpretazio-ne del diritto... fornire aigiudici dimerito l’indicazio-ne di un unico valore me-dio di riferimento da porrea base del risarcimento deldanno alla persona, qualeche sia la latitudine in cui siradica la controversia».Il punto importante della

decisione non è la sceltadelle tabelle milanesi comeparametro unificante né leragioni della loro scelta. Ilpunto importante è quellodi un diritto giurisprudenziale, come sostanzialmen-te è sempre stato quello del danno alla persona, chesi dimostra capace di regolare un settore assai pro-blematico, senza invasioni di campo sugli altri pote-ri e con pragmatica sistematicità. Mantenere la coe-renza nel corso degli anni, con il numero di sentenzeche produce (spaventosamente sproporzionato ri-spetto alle sorelle Corti supreme nel mondo), con ilvariare dei giudici nelle sezioni non è impresa facile.La recente decisione della Cassazione, almeno ci

prova e su diversi punti ci riesce.Il primo elemento di coerenza è quella con il pas-

sato non proprio recente. Il punto 3.2.2. della deci-sione parte dalle premesse che sin dal 1993 (ex pluri-mis sentenza 357) ha legato la liquidazione del dan-

no alla salute al criterio equitativo di cui agli articoli1226 e 2056 del Cc ancorandolo all’obbligo di moti-vazione, e in primis della scelta della tabella e dellemodalità di applicazione al caso concreto. In coeren-za, per la Corte del 2011 la decisione di merito èinsindacabile in sede di legittimità ove il giudice«dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie,ragioni del processo logico seguito» mentre «essa èinvece censurabile se sia stato liquidato un importomanifestamente simbolico o non correlato alla effet-tiva natura o entità del danno; o quando nella sen-tenza di merito non si dia conto del criterio utilizza-

to, o la relativa valutazionerisulti incongrua rispetto alcaso concreto, o la determi-nazione del danno sia pale-semente sproporzionataper difetto o per eccesso».Ribaditi questi punti in li-nea con il passato gli Ermel-lini si concentrano sull’ulti-mo mattone, in ordine ditempo, di costruzione dellacasa comune del danno al-la personaper i tribunali na-zionali: la comune base diequità poiché «il controlloin sededi legittimità del giu-

dizio equitativo esige che preliminarmente si stabili-sca quale sia la nozione di “equità” recepita dall’ordi-namento nell’art. 1226 c.c.».La ricerca della cifra dell’equità dell’articolo 1226

del Cc è la stessa che aveva condotto quasi vent’annifa a legittimare l’uso delle tabelle come referenzialiindicativi e di motivazione succinta dei parametrinormalmente usati per apprezzare il danno.Nelle parole del Collegio «equità in definitiva, non

vuol dire soltanto “regola del caso concreto”, maanche “parità di trattamento”». «All’uniformità di ba-se del risarcimento» è necessario che si «associnoampi poteri equitativi del giudice eventualmente en-tro limiti minimi emassimi, necessari al fine di adat-tare la misura del risarcimento alle circostanze del

Il tema della settimana

D opo i tribunali anche la Cassazione “elegge” le tabellemilanesi come parametro di riferimento nei risarcimenti

del danno alla persona, riaprendo, di fatto, il dibattito sullanecessità di una legge che garantisca uniformità su tutto ilterritorio nazionale. Con la sentenza 12408/2011 la Supremacorte, rompendo gli indugi, sembra infatti voler rimediare al-l’inerzia del legislatore senza tuttavia invaderne il campo. Sitratta di una scelta coraggiosa, non scevra da rischi e che hamesso in fermento gli operatori del settore. «Guida al Diritto»pubblica sull’argomento le riflessioni del professor Comandé ededica il primo piano della Rivista all’importante tema.

Agenda aperta sulla riforma del danno alla personaalla ricerca di una comune base di “trattamento”

DI GIOVANNI COMANDÉ - Ordinario di Diritto privato comparato presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa

E D I T O R I A L E

I L R E G I M E D E G L I I N D E N N I Z Z I

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GUIDA AL DIRITTO IL SOLE-24 ORE 12 N˚ 26 25 GIUGNO 2011

caso concreto» (una sorta di principio di adeguatez-za e proporzione, di uniformità di base e adegua-mento al caso concreto).È così che, per la Corte, il rispetto del principio di

adeguatezza e di proporzione impone la definizionedi un parametro uniforme di liquidazione da ade-guare al caso concreto. Fin qui, di solito il Supremogiudice si era limitato ad attendere il legislatore, dan-dogli le dritte e aspettando paziente la sua azione.Con la sentenza n. 12408, sono rotti gli indugi el’agenda (del completamento) della riforma del dan-no alla persona avviata quasi 40 anni fa viene riaper-ta e ancorata all’articolo 65 dell’ordinamento giudi-ziario, alla regola che impone alla Corte di cassazio-ne il preciso dovere di garantire«l’uniforme interpretazione dellalegge» e «l’unità del diritto oggetti-vo nazionale» agganciandolo all’ar-ticolo 32 della Costituzione. Se ilgiudizio equitativo è sindacabileove “sproporzionato” la Corte devedare la misura della proporzione.In questa direzione i giudici ta-

gliano una serie di nodi gordiani inuna prospettiva di sistema.Se da un lato dice no all’applica-

zione analogica della disciplinadei sinistri stradali (articoli 138 e139 del Cda) per la quantificazio-ne del danno alla salute fuori dalsuo settore di riferimento, dall’al-tro ancora alle sezioni Unite del 2008 l’applicazio-ne concreta della liquidazione del danno per le mi-cro permanenti, limitando il risarcimento «per tuttii pregiudizi areddituali che derivano da lesione deldiritto alla salute, entro i limiti stabiliti dalla leggemediante il rinvio al decreto annualmente emana-to... salvo l’aumento da parte del giudice» ai sensidell’articolo 139, comma 5, del codice delle assicu-razioni private.Per scegliere le tabelleMilanesi la Cortemuove da

alcune premesse lineari. Se il sistema delle Corti dimerito ha sviluppato «divergenti applicazioni delconcetto di equità» la Corte deve scegliere «tra i tanticoncretamente adottati» giacché essi si pongono«su un piano di pari dignità concettuale e... costitui-scono il frutto degli spontanei, lodevoli e spesso as-sai faticosi sforzi dei giudici di merito volti al perse-guimento degli stessi scopi che si intende ora realiz-zare sul piano nazionale».

Fare la media tra i criteri (leggi i valori monetari ele loro radici) sarebbe arbitrario perché l’operazionesarebbe fatta non conoscendo i valori originari, né ilnumero esatto dei precedenti, e quindi manchereb-bero i relativi pesi ponderali. Del resto, se i valorisono in astratto ponderabili, così non è per i criteridi costruzione delle tabelle che possono essere an-che molto diversi.E allora, non volendo inventare e contrapporre

una sua tabella, ragiona il Collegio, e visto che «aldi là delle diversità delle condizioni economiche esociali dei diversi contesti territoriali» ben 60 tribu-nali «hanno posto a base del calcolo medio i valoridel danno alla persona adottati per la liquidazione

dal tribunale di Milano... Essi co-stituiranno d’ora innanzi, per lagiurisprudenza di questa Corte, ilvalore da ritenersi “equo”, e cioèquello in grado di garantire la pari-tà di trattamento e da applicare intutti i casi in cui la fattispecie con-creta non presenti circostanze ido-nee ad aumentarne o ridurne l’en-tità».La scelta pesante e coraggiosa a

un tempo non è scevra da rischianche seri. Non è tanto il pericolodi una alluvione di ricorsi, cui ilSupremo collegio ha pensato espli-citando i criteri di ammissibilitàdel ricorso, quanto un problema

di tenuta della casa comune. Una volta costruita,infatti, la casa ha bisogno di manutenzione (aggior-namenti annuali) e di lavori straordinari (come èavvenuto nel 2008 e nel 2003). Quali le modalità peroperare le scelte in un grande condominio di tribu-nali? O le tabelle milanesi restano congelate fino adata da destinarsi. E poi quali tabelle milanesi? Se èvero chepiù di 60 tribunali nazionali avevano adotta-to i parametri nazionali è anche vero che alcuni tri-bunali sono rimasti alle vecchie tabelle e non seguo-no gli aggiornamenti post 2009. Ovviamente, la Cas-sazioneo (semi si passa lametafora) in questi decen-ni si è rivelata un capo condominio eccellente, mabisognerà vedere se l’assemblea seguirà e quantoeventualmente in modo agitato. n

Per saperne di più:

www.diritto24.ilsole24ore.com

Il punto importantedella sentenzanon è la scelta

delle tabelle milanesi,ma la nascita

di un diritto giurisprudenzialeche si dimostri capacedi regolare un settore

assai problematicosenza invasioni di campo

sugli altri poteri

E D I T O R I A L E

I L R E G I M E D E G L I I N D E N N I Z Z I

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A CURA DI GUIDA AL DIRITTO OSSERVATORIO LUISS-GUIDA AL DIRITTO Giurisdizione al GA sugli atti prodromici alla costituzione di società pubbliche di Barbara Lilla Boschetti (Guida al Diritto), 20.06.2011 L’Osservatorio nasce da una collaborazione tra l 'Università "Luiss-Guido Carli" di Roma e Guida al Diritto, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, per seguirne l’attuazione in giurisprudenza e lo studio da parte della dottrina. L’Osservatorio - realizzato nell’ambito del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” - è aperto a docenti e ricercatori universitari, magistrati del Consiglio di Stato e dei Tar, magistrati della Corte di Cassazione, avvocati di Stato e del libero foro. L’osservatorio opera con un comitato di coordinamento, un nucleo di collaboratori stabili e gruppi di ricerca istituiti per l’approfondimento di temi specifici. Per eventuali segnalazioni di sentenze sull'applicazione del Codice, con la specificazione del principio giuridico in esse contenuto, può essere utilizzato il seguente indirizzo [email protected]. di Barbara Lilla Boschetti Nel definire il confine della propria giurisdizione in relazione alle vicende societarie di cui sia parte un ente pubblico, il giudice amministrativo valorizza le potenzialità di tutela scaturenti dal sistema delle azioni del nuovo codice del processo amministrativo. Molte sono le questioni d’interesse processuale esaminate dalla sentenza in commento. La complessa vicenda vede contrapposti un istituto universitario - e alcune società da esso costituite - ad alcuni Ordini professionali, i quali avevano impugnato i provvedimenti con i quali l’istituto universitario deliberava la scissione di una società da essa partecipata, dapprima in qualità di socio unico, dando vita alla costituzione di una società di engineering operante sui mercati di riferimento dei ricorrenti. La prima questione affrontata – e risolta positivamente - riguarda la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo. L’Adunanza Plenaria esclude, innanzitutto, che la declaratoria d’inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione proposto dalla società scissa - nei cui confronti era stata ordinata l’integrazione del contraddittorio - possa implicare alcun giudicato in punto di giurisdizione, in quanto pronunciata per mere ragioni di rito. Quanto alla giurisdizione, argomentando a partire dalla distinzione tra fase pubblicistica e privatistica nelle procedure negoziali regolate dal Codice dei contratti, afferma la sussistenza della giurisdizione amministrativa sugli atti unilaterali prodromici ad una vicenda societaria posti in essere da un ente pubblico, in quanto atti che incidono sull’organizzazione dell’ente e costituenti espressione di potestà pubblica. Sebbene il giudice amministrativo non possa conoscere delle “sorti” degli atti negoziali che a tali provvedimenti si ricollegano, non potendosi fare applicazione analogica dell’art. 133, c. 1, c.p.a., spetta comunque al giudice amministrativo conoscere dei vizi del procedimento amministrativo; al giudice ordinario, invece, spetterà pronunciarsi sull’invalidità degli atti negoziali, ancorché derivata dalla caducazione dei suddetti provvedimenti amministrativi. Tale impostazione consente di risolvere positivamente anche la questione della sussistenza dell’interesse a ricorrere, e non solo in vista di una pronuncia (del g.o.) sulle cd. “sorti” del contratto. Infatti, l’annullamento consente di azionare rimedi risarcitori e di chiedere l’ottemperanza al giudicato amministrativo – sede nella quale, peraltro, il giudice può anche intervenire sulla sorte del contratto (Cons. Stato, ad.plen., 30 luglio 2008, n. 9). Proprio per questo, peraltro, deve ritenersi sussistente l’interesse al ricorso anche a fronte di eventuali sopravvenienze che possano far venir meno l’interesse all’annullamento, in applicazione dell’art. 34, c. 3, c.p.a. (nel caso di specie, l’ingresso di un nuovo socio pubblico nella compagine della società di engineering e l’iscrizione della società nel registro delle imprese): come affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2817/11, il petitum di annullamento consente infatti anche l’accertamento a fini risarcitori. In relazione alla sussistenza dell’interesse al ricorso, la questione del rito applicabile viene ritenuta del tutto irrilevante e comunque rilevabile d’ufficio: le sopravvenienze dalle quali il Tar aveva conseguito

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l’inammissibilità dei ricorsi erano infatti state introdotte con memoria tardiva se si fosse ricaduti – ma sul punto l’Adunanza Plenaria risolve negativamente perché gli atti impugnati non avviano procedure di privatizzazione (il capitale delle società partecipate è interamente pubblico ) né sono estensibili per analogia i casi sottratti al rito ordinario - nel rito dell’ex art. 23 bis, l. Tar (ora art. 119 c.p.a.). La sentenza affronta anche altre questioni d’interesse, statuendo che il grado di specificità dei motivi d’appello, alla luce dell’art. 101, c. 1., c.p.a., deve essere parametrato alla specificità della sentenza contestata; la legittimazione degli ordini professionali laddove sia in gioco la par condicio nel settore di riferimento (e solo nei limiti di questo); l’impossibilità di appellare la parte della sentenza relativa alla trasmissione degli atti alla Corte dei Conti. Entrando nel merito, l’Adunanza plenaria ritiene illegittimi i provvedimenti impugnati in quanto per essi l’istituto universitario costituisce una società commerciale con oggetto non strettamente ai propri fini istituzionali né dotata dei meccanismi per assicurare la strumentalità. (La sentenza verrà pubblicata con un commento di Davide Ponte sul prossimo numero di Guida al Diritto, 27/2011) Gli interventi precedenti Ammessa l’azione di adempimento nel processo amministrativo di Andrea Carbone L'impossibilità dell'annullamento apre la strada ad accertamento e risarcimento di Barbara Boschetti Cpa: In caso di soccombenza spese pesanti per il ricorrente di Giuseppe Urbano L'accoglimento del vizio di incompetenza non esclude l'analisi degli altri motivi di Marcello Clarich Al giudice civile l'affidamento su atto illegittimo di Marcello Clarich Legittime le azioni di annullamento senza efficacia ex tunc di Giuliano Fonderico © RIPRODUZIONE RISERVATA SENTENZE DEL GIORNO COLPA PROFESSIONALE Responsabile l'infermiere che non si accorge dell'aggravarsi del paziente Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 giugno 2011 n. 24573 21 giugno 2011 All’interno degli ospedali gli infermieri hanno una funzione di «garanzia», e «svolgono un compito cautelare essenziale nella salvaguardia del paziente». Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 24573/2011, richiamando al principio di responsabilità, nella tutela dei malati ricoverati, non solo i medici ma anche gli infermieri. Il caso era quello di due infermieri dell'ospedale civile di Canosa di Puglia incolpati, dalla famiglia di un paziente, di aver sottovalutato le condizioni del familiare, operato a seguito di un incidente stradale e morto nel decorso post operatorio per emorragia cerebrale. Gli infermieri, in particolare, erano stati accusati per non ver chiamato subito il medico al peggiorare delle condizioni del malato, nonostante le richieste dei parenti. Il gip di Trani aveva dichiarato «non luogo a procedere» e aveva anche sottolineato che gli infermieri non avevano profili di colpa in quanto svolgono una «funzione ausiliaria» e non hanno «l'obbligo di avvertire il medico di reparto di qualsiasi lamentela dei parenti del paziente». Decisione bocciata dai giudici della Quarta Sezione Penale, che hanno annullato la sentenza con rinvio. Scrive, infatti, la Cassazione nella sentenza «rientra nel proprium non solo del sanitario ma anche dell'infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, così da poter porre le condizioni, in caso di dubbio, di un tempestivo intervento del medico». Non solo, la considerazione fatta dal gip «finisce con il mortificare le competenze professionali di tale soggetto, che

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invece, svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente, essendo, l'infermiere onerato di vigilare sul decorso post-operatorio, proprio ai fini di consentire, nel caso, l'intervento del medico». © RIPRODUZIONE RISERVATA PRESCRIZIONE Telegramma: la ricevuta di invio delle Poste prova la ricezione Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 20 giugno 2011 Prescrizione bloccata anche con la sola presentazione della ricevuta di spedizione della raccomandata. Non serve l’avviso di ricevimento. L’esibizione in giudizio del tagliandino della Poste, infatti, è sufficiente anche a far presumere che la lettera sia effettivamente arrivata a destinazione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 13488/2011. Secondo la Suprema corte, infatti, <<un telegramma, così come una lettera raccomandata, anche in mancanza di avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta>>. Dalla ricevuta, dunque, consegue la presunzione di <<arrivo al destinatario e di conoscenza dell’atto>>. In quanto, secondo i giudici di Piazza Cavour, vanno considerate <<l’ordinaria regolarità del servizio postale>> e <<le univoche e concludenti circostanze>> che attestano la spedizione. Una presunzione, però, non assoluta in quanto il destinatario può sempre fornire la prova contraria. Una confutazione che però nel caso di specie non vi è stata, non avendo il destinatario addotto alcun elemento di prova a suo discarico. Quali per esempio <<la circostanza che il plico non contenga alcuna lettera>>, o ne contenga <<una di contenuto diverso>>, o anche <<l’assenza dalla residenza o domicilio indicati nel telegramma all’epoca della convocazione>>> o l’aver compiuto degli atti specifici, come la sollecitazione di accertamenti presso le Poste tali da <<verificare l’assunta mancata ricezione>>. © RIPRODUZIONE RISERVATA SPESE GIUDIZIALI La parte soccombente tenuta a rimborsare anche le "consultazioni con il cliente" successive alla sentenza Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 20 giugno 2011 n. 13482 20 giugno 2011 La parte condannata a pagare le spese processuali è tenuta a versare alla controparte anche le "consultazioni con il cliente" succesive alla sentenza definitiva. Lo ha affermato la terza sezione civile della Cassazione con la sentenza 13482/2011 secondo la quale gli onorari e i diritti di procuratore per le voci tariffarie "consultazioni con il cliente" e "corrispondenza iinformativa con il cliente" sono ripetibili nei confronti della parte soccombente in sede di precetto intimato dalla parte vittoriosa anche successivamente e in relazione alla sentenza definitiva. © RIPRODUZIONE RISERVATA DIRITTO D'AUTORE Il venditore di fotocopiatrici deve indennizzare gli autori per la "copia privata" Cgue - Sentenza 16 giugno 2011 - Causa C-462/09 16 giugno 2011 La previsione di una eccezione per “copia privata” alle regole del diritto d’autore, non esonera lo Stato membro dall’obbligo di garantire comunque una riscossione effettiva dell’“equo compenso” destinato ad indennizzare gli autori. E l’obbligo non viene meno neppure qualora il venditore professionale dei supporti di riproduzione sia stabilito in un altro Stato membro. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza 16 giugno 2011 Causa C-462/09.

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La direttiva del Parlamento europeo 1999/44/CE sul diritto d’autore attribuisce il diritto esclusivo di riproduzione di materiale sonoro, visivo o audiovisivo agli autori, agli artisti interpreti ed ai produttori. Tuttavia, consente, a titolo di eccezione, che gli Stati membri possono autorizzare la realizzazione di copie private, a condizione che i titolari del diritto d’autore ricevano un «equo compenso». Il caso specifico è olandese e la normativa interna prevede l’eccezione della copia per uso privato con il pagamento a carico del fabbricante o importatore del supporto di riproduzione. La Stichting de Thuiskopie, l’organismo olandese incaricato di riscuotere il prelievo, ha chiamato in causa l’Opus, una società con sede in Germania, che vende, tramite Internet, supporti di riproduzione vergini, nei Paesi Bassi. L’Opus non paga alcun prelievo per copia privata per i supporti venduti, né nei Paesi Bassi né in Germania, sostenendo di non poter essere qualificata tecnicamente come importatore come, invece, sostenuto dalla società degli autori olandese. Una tesi poi accolta sia in primo grado che in appello. A questo punto, però, è scattato l’ulteriore ricorso in Cassazione e la Suprema Corte ha chiamato in causa la Corte di giustizia. In via preliminare, la Corte Ue ha rilevato che la direttiva non disciplina espressamente l’individuazione del soggetto debitore. Tuttavia, siccome il soggetto che ha causato il pregiudizio al titolare del diritto è quello che realizza la riproduzione senza chiedere la previa autorizzazione, spetta a lui risarcire il danno. La Corte ha tuttavia ammesso che, tenuto conto delle difficoltà pratiche per individuare gli utenti privati e per obbligarli a pagare, è consentito agli Stati membri istituire un «prelievo per copia privata» gravante su coloro che dispongono di apparecchiature di riproduzione digitale e che le mettono a disposizione dei privati. La Corte rammenta, infine, che l’introduzione dell’eccezione per copia privata non deve in alcun modo arrecare pregiudizio agli interessi del titolare del diritto d’autore. Ne consegue che le disposizioni della direttiva sul diritto d’autore impongono allo Stato membro che ha introdotto l’eccezione per copia privata un obbligo di risultato. Nel caso di specie, non vi è dubbio che il pregiudizio è sorto nei Paesi Bassi, dato che è lì che risiedono gli acquirenti. E siccome risulta impossibile riscuotere il compenso presso i privati, spetta alle autorità dello Stato membro “in particolare a quelle giurisdizionali, ricercare un’interpretazione del diritto nazionale conforme al citato obbligo di risultato, la quale garantisca la riscossione di tale compenso presso il venditore che ha contribuito alle importazioni dei suddetti supporti mettendoli a disposizione degli utenti finali”. Mentre non ha alcuna incidenza il fatto che, nel caso di contratti negoziati a distanza, il venditore professionale sia stabilito in un altro Stato membro. © RIPRODUZIONE RISERVATA

A CURA DI LEX24 PROVA PENALE Garanzie rafforzate sui testimoni d'accusa Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 16 giugno 2011 - Pagina 39 Contraddittorio rafforzato sulle dichiarazioni d'accusa. Sia alla luce della Costituzione sia di quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Lo precisa la sesta sezione penale della Corte di cassazione con sentenza n. 24039 del 15 giugno. La Corte ha così annullato la condanna emessa in appello a Milano nei confronti di un presunto spacciatore. La condanna era stata emessa anche sulla base delle dichiarazioni rese da un testimone che si era reso poi irreperibile. Ora, tra i motivi avanzati dalla difesa a supporto dell'impugnazione, ha trovato posto anche il fatto che l'irreperibilità del teste non poteva essere considerata oggettiva, involontaria e imprevedibile. Insomma, si lamentava la mancata effettuazione di tutti gli accertamenti necessari al pieno rispetto dei diritti della difesa. La Cassazione ha accolto la tesi dell'imputato arrivando all'enunciazione di due principi di diritto che vanno oltre anche quanto stabilito di recente: - l'irreperibilità del teste può essere dichiarata solo quando risultano svolte infruttuosamente, oltre alle ricerche previste per l'imputato dall'articolo 159 del Codice di procedura penale, tutti gli accertamenti «congrui alla peculiare situazione personale quale risultante dagli atti, da deduzioni specifiche delle parti, dall'esito dell'istruttoria nel giudizio»;

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- la valutazione sulla ragionevole impossibilità di svolgere ulteriori efficaci ricerche è di competenza del giudice di merito che deve motivare le conclusioni cui è approdato in maniera non contraddittoria. Insomma, provando a esemplificare, i tentativi previsti dal Codice, che fanno perno su luogo di nascita, residenza e dimora, rappresentano solo il minimo che l'ordinamento esige. L'eventuale esistenza di genitori o fratelli e sorelle rende «ovvia» anche l'assunzione di informazioni presso di loro; così come eventuali precedenti luoghi di lavoro o contatti di qualsiasi genere con le strutture pubbliche. Solo una volta svolti tutti questi accertamenti è possibile una, motivata, dichiarazione di irreperibilità, che permette di poter utilizzare dichiarazioni rese da un testimone senza lo svolgimento del contraddittorio. Dopo l'approvazione del nuovo articolo 111 della Costituzione sul «giusto processo», infatti, è la dialettica tra accusa e difesa a rappresentare l'"ambiente" naturale di formazione della prova. Le eccezioni devono essere fondate e certificate. E non basta la precedente sostanziale equiparazione tra quanto stabilito per la ricerca dell'imputato. Non è più questo il termine di paragone. Una linea che viene corroborata anche dal riferimento alla Convenzione europea dei dei diritti dell'uomo e alla relativa giurisprudenza della Corte, soprattutto con riferimento all'articolo 6 che prevede esplicitamente il «diritto di esaminare e fare esaminare i testimoni a carico» come elemento chiave di un processo svoltosi nel rispetto dei diritti di difesa. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Corte di Cassazione Sezione 6 Penale Sentenza del 15 giugno 2011, n. 24039

Integrale

Prova penale - Testimoni - Dibattimento - Testimone - Irreperibilità - Dichiarazioni - Impossibilità di ripetizione - Ricerche infruttuose - Accertamenti ulteriori - Impossibilità - Obbligo di motivazione - Fondamento

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SESTA SEZIONE PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. GIOVANNI DE ROBERTO - Presidente - Dott. FRANCESCO SERPICO - Consigliere Dott. GIACOMO PAOLONI - Consigliere Dott. CARLO CITTERIO - Rel. Consigliere - Dott. GIORGIO FIDELBO - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: 1) Mo. Me. N. IL (...) avverso la sentenza n. 2065/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del 17/11/2010 visti gli atti, la sentenza e il ricorso

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udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/05/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CARLO CITTERIO Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SELVAGGI che ha concluso per l'annullamento con rinvio Udito, per la parte civile, l'Avv Udito il difensore l'Avv. Co. per l'annullamento senza rinvio RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con sentenza del 17.11 - 16.12.2010 la corte d'appello di Milano ha confermato la condanna alla pena di giustizia, inflitta dal Tribunale di Como a Mo. Me., per i reati di cui agli artt. 73.5 D.P.R. 309/90, 629 e 61 n. 2 c.p. e 14.5 ter D.Lgs. 286/98. Secondo le prime due imputazioni, l'imputato aveva ceduto a Fr. Pi., per più volte, dosi di cocaina, costringendolo poi a saldare il debito contratto con tali acquisti. Risulta dalle sentenze di merito la versione di Mo. Me., che aveva a sua volta denunciato Fr. Pi. per calunnia, di aver invece egli prestato una somma di denaro a Fr. Pi., come documentato da un bonifico fatto dalla propria sorella direttamente a Fr. Pi.. Risultava altresì che la polizia giudiziaria aveva assistito ad un passaggio di denaro dall'imputato al denunciante, rinvenendo in esito alla successiva perquisizione, eseguita nell'abitazione in uso all'imputato, 2 grammi di varia sostanza stupefacente e 700 Euro. Le dichiarazioni di Fr. Pi. erano state acquisite all'udienza ex art. 512 c.p.p., essendo il teste divenuto irreperibile. 2. Il ricorso deduce, con primo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 512, 526.1 bis c.p.p., 6.3 lett. D) legge 848/1955, art. 111.3 c. 4 Cost. e manifesta illogicità della motivazione. Il ricorrente ricorda le ragioni, già indicate nei motivi d'appello, per le quali l'irreperibilità di Fr. Pi. non poteva essere definita oggettiva, involontaria, imprevedibile ed accertata con sicurezza, ed evidenzia come nella risposta dei Giudici di merito: - gli stessi elementi - lo stato di tossicodipendenza ed il possibile timore di ritorsioni - erano stati considerati idonei a spiegare la non intenzionalità dell'irreperibilità ma non pure la prevedibilità dell'irripetibilità della prova; - l'affermazione della diversità di contenuto delle ricerche tra imputato e teste contrastava con le regole del giusto processo specialmente quando si trattava dell'unica fonte di prova; - mancava motivazione sui punti dell'oggettività e dell'involontarietà della irreperibilità. Il tutto, in violazione dei principi di diritto insegnati da questa Corte di legittimità con le sentenze 28666/2010, 29949/2009, 43331/2007, nonché dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo nelle sentenze Bracci e Ogaristi. Con secondo motivo è dedotta omessa motivazione circa l'attendibilità del denunciante e manifesta illogicità della motivazione con riferimento: - alla contestata mancanza di riscontri probatori alla denuncia, in relazione alla prova, anche travisata, costituita dal titolo di pagamento che la sorella dell'imputato aveva inviato non già al fratello ma proprio a Fr. Pi.; - all'attendibilità di Fr. Pi., confermata dalla Corte ambrosiana con affermazione apodittica che non si era confrontata con le specifiche contraddizioni, dedotte nei motivi d'appello e ricordate nel ricorso; - all'equivocità del passaggio di denaro osservato dalla polizia giudiziaria, compatibile anche con la versione difensiva; - alla non decisività delle telefonate ricevute, atteso il sequestro di due cellulari, uno di altro soggetto, senza che fosse stato specificato l'abbinamento delle chiamate di tossicodipendenti con l'uno o con l'altro cellulare. 3. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito argomentati, dovendosi annullare la sentenza impugnata, con

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rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per un nuovo giudizio. 3.1 In ragione di tale annullamento, sarà la stessa Corte del rinvio a deliberare anche sul reato di cui al capo C), pur non oggetto di ricorso, alla luce del recentissimo insegnamento di Sez. 1, sent. 22105 del 28 aprile - 1 giugno 2011, in relazione alla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, pronunciata in pari data (28.4.2011) nella causa C-61/11 PPU (ric. Hassen El Dridi), la cui rilevanza è ora confermata anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 179/2011. 3.2 Quanto ai capi B e C, è infatti fondato il primo motivo, relativo all'illegittimità, allo stato, dell'utilizzazione dei verbali delle dichiarazioni di Fr. Pi., in ragione dell'erroneamente ritenuta irreperibilità dello stesso (irreperibilità che costituisce il primo momento dell'iter logico-giuridico che conduce prima all'utilizzazione dei verbali delle dichiarazioni rese nella fase di indagini preliminari e, poi, alla valutazione della loro idoneità a fondare una legittima affermazione di responsabilità). E poiché la sentenza impugnata non ha argomentato in ordine alla non decisività della deposizione di Fr. Pi. per la condanna di entrambi i reati di spaccio e di estorsione, o anche di uno solo di essi, tale illegittimità impone il suo annullamento. 3.2.1 Investita dello specifico motivo, la Corte distrettuale ha argomentato che "quanto all'ipotizzata carenza nell'effettuazione delle ricerche del denunciante Fr. Pi., invero va affermato che le ricerche del testimone non debbono avere le stesse caratteristiche delle ricerche che si effettuano per l'imputato, pertanto correttamente sono state dal primo giudice riconosciute esaustive le informazioni fornite dalla polizia giudiziaria che hanno fatto ritenere irreperibile Fr. Pi.". La prima parte dell'affermazione realizza un errore di diritto, nei cui confronti non può provvedersi solo ai sensi dell'art. 619 c.p.p., perché dalla sentenza di primo grado risulta che effettivamente le ricerche di Fr. Pi. da parte della polizia giudiziaria si sono limitate e risolte nell'accertamento: della pregressa cancellazione dal comune di ultima residenza, della non reperibilità all'ultimo domicilio di residenza (pur l'uno e l'altro - ha evidenziato la difesa - indicati tuttavia da Fr. Pi. nella denuncia) e della non restrizione carceraria; quindi, in concreto, le ricerche neppure si sono svolte in tutti i luoghi corrispondenti a quelli previsti dall'art. 159 c.p.p. per l'imputato. 3.2.2 In consapevole dissenso con precedente giurisprudenza di legittimità che sosteneva la tesi ora fatta propria dalla Corte d'appello (Sez. 2, sent. 15-31.5.1996, Vassiliev), già Sez. 6, sent. 3937 del 28.1-28.3.2000, Ibrahimi ha insegnato che le ricerche necessarie per verificare l'irreperibilità del testimone (ovvero di uno dei soggetti indicati dall'art. 210 c.p.p.), da cui derivi l'impossibilità di ripetizione delle sue dichiarazioni, debbono coincidere con quelle richieste per la constatazione della irreperibilità dell'imputato, in ragione della natura eccezionale della regola dettata dall'art. 512 c.p.p., norma che deroga al principio del contraddittorio e richiede quindi necessariamente un'interpretazione di particolare rigore. Dopo la compiuta modifica dell'art. 111 della Costituzione, e sviluppando il senso dei rilievi della sentenza Ibrahimi, la sentenza Sez. 2, n. 43331 del 18.10-22.11.2007, Poltronieri ed altro ha insegnato che, ponendo tale articolo in evidenza la necessità che l'impossibilità dell'esame debba essere "accertata", l'interpretazione costituzionalmente adeguatrice dell'art. 512 c.p.p. impone siano espletate "tutte quelle rigorose ricerche che consentano, in relazione al singolo caso, di affermare con certezza l'irreperibilità del teste e, quindi, l''impossibilità del suo esame in contraddittorio" (di accertamento con rigoré aveva parlato anche S.U. sent. 36747 del 28.5-24.9.2003, Torcasio). Argomentando poi specificamente sul punto della diversità di posizione tra imputato (la cui situazione è espressamente disciplinata dagli artt. 159 e 160 c.p.p.) e teste, la sentenza 43331/2007 ha avvertito che "a fondamento dei rigorosi accertamenti in merito all'irreperibilità del testimone, come situazione rilevante ai fini di cui all'art. 512 c.p.p., sta il rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova che, al pari del diritto di difesa, è oggetto di un espresso riconoscimento costituzionale". Sicché, "la deroga che il sistema acquisitivo ex art. 512 c.p.p. apporta ai principi di oralità, immediatezza e formazione dialettica della prova, impone di verificare tutte le possibilità di cui si dispone per assicurare la presenza della prova in dibattimento". Da qui l'avvenuta formulazione del principio di diritto che la lettura ai sensi dell'art. 512 c.p.p. è legittima, tra l'altro, solo se l'irreperibilità del teste sia stata accertata sulla base di rigorose e accurate ricerche condotte a tal fine. L'insegnamento è stato recentemente confermato, in esatti termini, anche da Sez. 2, sent. 28666 del 24.6-21.7.2010, in proc. Pentiuc.

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Se quindi la sentenza Ibrahimi, in contemporaneità con l'iter di modifica dell'art. 111 cost., affermava che le ricerche del teste dovevano, al fine di dichiararne poi l'irreperibilità, esser svolte (quantomeno) con le modalità previste per l'imputato dal codice, in ragione della natura derogatoria dell'art. 512 c.p.p., dalle sentenze successive, ed in particolare dalla sentenza Poltronieri, emerge un insegnamento che, in piena coerenza con la sopravvenuta piena ed esplicita "costituzionalizzazione" del diritto al contraddittorio nella formazione della prova, va - pur senza affermarlo espressamente - già oltre tale equiparazione. Del resto, se la conclusione concreta dovesse essere solo quella della parificazione delle modalità e dei contenuti di ricerca, tra imputato e teste, sarebbe stato sufficiente il richiamo agli artt. 159 e 160 c.p.p. ovvero la mera affermazione di un tale "agevole" ed inequivoco principio. Invece, l'utilizzazione di locuzioni come "rigorosi accertamenti", "rigorose e accurate ricerche", "verificare tutte le possibilità di cui si dispone", manifesta un'esigenza specifica ed inequivoca: la necessità che siano svolti tutti gli accertamenti utili in relazione al caso concreto, sicché le modalità di cui all'art. 159 c.p.p. non sono che il parametro per individuare il "minimo" che va fatto per ricercare il teste, un minimo suscettibile di integrazione congrua, appunto, alle particolarità del caso concreto. Così, esemplificando, l'eventuale esistenza in vita e reperibilità di genitori o fratelli/sorelle rende ovvia anche l'assunzione di informazioni presso di loro; così come gli eventualmente conosciuti contesti di pregressa attività lavorativa o di contatti di qualsiasi genere con strutture pubbliche. 3.3 Già la sentenza 43331/2007 ha introdotto pure il tema dell'incidenza, nell'interpretazione rigorosa del concetto di irreperibilità, dei principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, quali risultanti dall'elaborazione della Corte Europea dei diritti dell'uomo, in particolare con riferimento all'art 6 lettera 3 d) della Convenzione che prevede esplicitamente, tra l'altro, il "diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico". Come ricordato dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze 348 e 349 del 2007 la stessa Corte delle leggi è costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo - integrino, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dal primo comma dell'art. 117 Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Ciò anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sent. 80/2011). Per ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, questo comporta che, nel caso di potenziale contrasto tra la norma interna e la norma CEDU, il giudice nazionale deve "verificare anzitutto la praticabilità di un'interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione". Questo contesto "Europeo", nella sua pregnante incidenza nel sistema delle fonti del diritto interno applicabile, ha ricevuto ora un ulteriore e davvero determinante riconoscimento. Con la recente sentenza 113/2001 la Corte costituzionale ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza (o del decreto penale di condanna) al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Ora, se è vero che la decisione della Corte costituzionale formalmente riguarda i soli singoli casi che siano stati esaminati e decisi dalla Corte Europea, appare evidente che va in realtà colta l'essenza sistematica della novità. Che è quella di riconoscere alla violazione della giurisprudenza Cedu in tema di diritti riconosciuti nell'ambito del procedimento penale la "sanzione" della vanificazione del giudicato. Il che rafforza, davvero in modo francamente poco superabile, la conclusione che il diritto al contraddittorio riconosciuto nella formazione della prova, nella specie dichiarativa, impone che l'impossibilità oggettiva di procedere al confronto orale sia assistita dall'esclusione di ogni ulteriore ragionevole possibilità di utile contatto. In definitiva, in assenza di un'esplicita disciplina codicistica dei contenuti e dei "limiti" delle ricerche del teste, sia l'intrinseca natura derogatoria dell'art. 512 c.p.p. ai "normali" principi sistematici endoprocessuali, sia la previsione costituzionale del diritto al contraddittorio nella formazione della prova e dell'eccezionalità delle deroghe, sia i principi posti dall'art. 6 della Convenzione Europea nell'elaborazione della Corte Europea dei diritti dell'uomo (ed ora con la potenziale immediata efficacia "interna" anche al singolo processo) concorrono a concludere che l'irreperibilità del dichiarante, quale primo dei presupposti per l'utilizzabilità delle sue pregresse dichiarazioni, rese al di fuori del contraddittorio, sussista solo quando non siano più possibili ulteriori ragionevoli accertamenti, oltre quelli minimi, già previsti dall'art. 159 c.p.p. per l'imputato. 3.4 Quando anche per il teste siano state infruttuosamente eseguite le ricerche nei luoghi indicati dall'art.

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159 c.p.p., diviene apprezzamento di stretto merito quello relativo alla possibilità di provvedere, nel caso concreto, ad ulteriori accertamenti, congrui alla peculiare situazione personale quale risultante dagli atti, da deduzioni specifiche delle parti, dall'esito dell'istruttoria nel giudizio. Tale apprezzamento compete ovviamente al giudice del merito, che ne deve dar conto secondo i consueti parametri, della motivazione non apparente, non manifestamente illogica e non contraddittoria. 3.5 Devono pertanto formularsi i seguenti principi di diritto, cui il Giudice del rinvio dovrà attenersi: - l'irreperibilità del teste può essere dichiarata solo quando risultino espletate infruttuosamente, oltre alle ricerche previste per l'imputato dall'art. 159 c.p., tutti gli accertamenti congrui alla peculiare situazione personale quale risultante dagli atti, da deduzioni specifiche delle parti, dall'esito dell'istruttoria nel giudizio; - l'apprezzamento della ragionevole impossibilità di svolgere ulteriori efficaci ricerche compete al giudice del merito, che di ciò deve dar conto con motivazione non apparente e non manifestamente illogica o contraddittoria. 3.6 La Corte d'appello, quale giudice del rinvio, ove giudichi la deposizione di Fr. Pi. essenziale per la decisione relativa ad entrambi i reati di cui ai capi A e B, o di anche uno solo di essi, potrà provvedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per verificare la possibilità di escutere in contraddittorio Fr. Pi., previe nuove ricerche congrue al principio di diritto sopra enunciato. L'inutilizzabilità per inadeguatezza delle ricerche, infatti, è patologia che attiene alla violazione non di un divieto probatorio bensì delle regole che disciplinano l'acquisizione della prova (Sez. 5, sent. 24033 del 19.5-23.6.2010; Sez. l, sent. 16908 del 9-21.4.2009; Sez. 1, sent. 5636 del 22.1-5.2.2008; Sez. 2, sent. 23627 del 20.6-6.7.2006). 3.7 L'accoglimento del primo motivo assorbe gli altri, il cui contenuto sarà comunque opportunamente oggetto di specifico confronto argomentativo da parte del Giudice del rinvio, tenuto conto della ricordata immediata incidenza anche della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo sulla problematica disciplinata dall'art. 512 c.p.. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per nuovo giudizio. APPALTI PUBBLICI Codice appalti: società private al pari di "organismi di diritto pubblico" Manuela Veronelli, avvocato, Presidente C.A.S.P. - (Lex24) | 15.06.2011

Il fatto Nel 2003, la Gesip s.p.a. stipula con Banca Nuova s.p.a. un accordo quadro finalizzato alla concessione di finanziamenti ai suoi dipendenti a fronte della cessione da parte dei medesimi del quinto dello stipendio. Una società concorrente, la Assifn s.r.l., impugna tale accordo dinanzi al Tar Sicilia, deducendo l'illegittimità della suddetta convenzione per non aver rispettato Gesip s.p.a. le procedure dell'evidenza pubblica di cui al Dlgs n. 163 del 2006 s.m.i. Il Tar, ma poi anche il Consiglio di giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, accolgono nel merito il ricorso, annullando la predetta convenzione. Banca Nuova s.p.a. impugna la decisione ai sensi dell'art. 111 Cost e dell'art. 362 c.p.c., co. 1 dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione deducendo, contrariamente a quanto sostenuto dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, che la Gesip s.p.a. non può essere considerata al pari di una amministrazione pubblica. La decisione Nel confermare quanto statuito dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, il Supremo Collegio ha ricordato come la nozione di "organismo di diritto pubblico" sia stata introdotta a livello comunitario nell'ambito della direttiva 92/50/CEE proprio in tema di appalti di servizi, e poi recepita nel nostro ordinamento con l'art. 3, co. 26, del D.Lgs. 17 aprile 2006, n. 163. In base a tale ultima disposizione, in particolare, è definito "organismo di diritto pubblico" qualsiasi ente, anche societario, istituito 1) per soddisfare specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, 2) dotato di personalità giuridica e 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto

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pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di quest'ultimi oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblici. Dette tre condizioni, così come ribadito dalla Corte di giustizia (si v. per tutte Corte di giustizia sentenza 15 gennaio 1998, causa C-44/96, Mannesman Anlagenbau Austria e a.) devono sussistere cumulativamente e non alternativamente. Nel caso in specie, il Collegio ha riscontrato nella società Gesip s.p.a. la presenza di tutti e tre gli elementi che definiscono un "organismo di diritto pubblico". Tale società, infatti, oltre ad essere dotata di personalità giuridica, è compartecipata al 51% dal Comune di Palermo e al 49% da Italia Lavoro s.p.a., società a sua volta interamente posseduta dal Ministero dell'Economa e delle Finanze. Essendo titolari, il Comune di Palermo e Italia Lavoro s.p.a., dell'intero capitale azionario, essa è anche sottoposta ad una influenza dominante pubblica. Per quanto concerne la sua attività, infine, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che Gesip s.p.a. svolge operazioni a carattere non commerciale e industriale, in quanto si occupa della gestione di una serie di servizi strumentali affidati senza gara dal Comune di Palermo, quali ad esempio la pulizia, la manutenzione, custodia e gestione di impianti e presidi di aree. In qualità di partecipata da Italia Lavoro s.p.a, invece, attua politiche sociali di promozione del lavoro sul territorio siciliano, sempre in regime di non concorrenza. Proprio sulla base di tali considerazioni, la Gesip s.p.a., secondo al Corte di Cassazione, è stata qualificata come un "organismo di diritto pubblico", sottoposto alle regole dell'evidenza di cui al Dlgs. n. 163 del 2006 s.m.i. Tale decisione, peraltro, è stata assunta dalla Corte nonostante l'accordo in parola non avesse raggiunto un importo pari a quello indicato dalla Comunità per l'applicazione delle regole dell'evidenza pubblica. Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno ricordato come l'art. 121 del DLgs. n. 163 del 2006 s.m.i. abbia operato una sostanziale unificazione della disciplina dei contratti sopra soglia comunitaria con quelli sotto soglia, sancendo l'applicabilità anche a quest'ultimi di gran parte delle norme del Codice dei contratti. Tra le norme generali, valevoli anche per i contratti sotto soglia, in particolare, la Corte ha evidenziato l'art. 244 D.Lgs. n. 163 del 2006 s.m.i., richiamato dallo stesso art. 121, che demanda alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alle procedure di affidamento svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente, ad applicare la normativa comunitaria in materia di appalti. Rassegna di giurisprudenza Opere e lavori pubblici - Aziende municipalizzate - Gara - Aperta - Eccezioni - Ex R.D. 1924/827 All'amministrazione non è consentito prescindere dall'attivazione delle procedure di concorso aperte a tutti i candidati in possesso dei requisiti di idoneità, unica eccezione essendo rappresentata dalle particolari ipotesi previste dall'art. 41 r.d. 23/5/1924 n. 827. Quindi le aziende municipalizzate, al di fuori delle suddette deroghe, devono concorrere con tutti gli altri soggetti, non rilevando in senso contrario il fatto di essere inserite dalla Consob nello speciale elenco dei revisori di bilancio, tra tutti i cui iscritti, alcuni anche diversi dalle suddette aziende, del resto è aperta la selezione, in omaggio ai principi della libera concorrenza. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 10 marzo 2003, n. 1295 Contratti e obbligazioni della Pubblica Amministrazione - Appalti sotto soglia - Facoltatività della procedura ad evidenza pubblica - Controversie - Giurisdizione del giudice ordinario. L'art. 6, 1° comma, L. 21/7/2000 n. 205 e l'art. 33, 2° comma, lett. d), D.Lgs. 31/3/1998 n. 80 vanno interpretati nel senso che la controversia relativa all'aggiudicazione dell'appalto sotto soglia comunitaria indetto da una società controllata da un ente locale, anche nell'ipotesi in cui siano state indette procedure equipollenti a quelle ad evidenza pubblica, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 18 novembre 2004, n. 7554 Contratti e obbligazioni della Pubblica Amministrazione - Appalti sotto soglia - Organismo di diritto pubblico - Indizione di procedure ad evidenza pubblica - Normativa applicabile. In caso di appalto inferiore alla soglia comunitaria, una società per azioni, ancorché qualificabile come organismo di diritto pubblico, non è tenuta ad osservare le specifiche procedure ad evidenza pubblica previste dalla normativa Ce, ma deve osservare esclusivamente i principi fondamentali del trattato (libera circolazione delle merci, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, nonché i principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza), ora sanciti nel secondo 'considerando' della direttiva Ce 2004/18 del 31/3/2004. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 18 novembre 2004, n. 7554

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Giustizia amministrativa - Appello - Difetto di giurisdizione - Rilevanza d'ufficio - Limite - Fattispecie Il principio della rilevabilità d'ufficio, e in ogni stato e grado del processo, del difetto di giurisdizione va coordinato con il sistema delle impugnazioni, con la conseguenza che il Consiglio di Stato, se il Tar si sia pronunciato sulla giurisdizione in modo esplicito o implicito, può conoscere della questione di giurisdizione soltanto se sia stata riproposta con l'impugnazione (nella specie, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l'eccezione di difetto di giurisdizione fosse stata implicitamente riproposta nell'appello ed ha riformato sul punto la sentenza del Tar). Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 18 novembre 2004, n. 7554 Competenza e giurisdizione civile - Giurisdizione amministrativa - Giurisdizione esclusiva - Contratti - Sotto soglia - Non sussiste. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall'art. 6 L. 21 luglio 2000, n. 205, si estende esclusivamente alle procedure di scelta del contraente che un'amministrazione aggiudicatrice sia tenuta a seguire in base al diritto comunitario, nazionale, o regionale, mentre restano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative a gare d'appalto che sfuggono a tale disciplina. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 18 novembre 2004, n. 7554 Appalto - Appalti di lavori - Sotto soglia comunitaria - Affidamento - Controversie - Giurisdizione del giudice ordinario. In caso di affidamento di appalto inferiore alla soglia comunitaria, disciplinato dall'ente appaltante con una procedura simile a quella di evidenza pubblica pur non essendo l'ente medesimo a ciò obbligato, la controversia relativa alla procedura di scelta del contraente sfugge alla giurisdizione del giudice amministrativo per essere ricondotta nella competenza del giudice ordinario. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 18 novembre 2004, n. 7554 Processo amministrativo - Improcedibilità - Cessazione della materia del contendere In caso di indicazione di una procedura aperta per l'affidamento del servizio di espletamento della prova preselettiva dei concorsi per l'assunzione di personale da parte di una società a partecipazione pubblica operante nel settore della distribuzione del gas naturale, non si applica la parte terza del nuovo codice dei contratti pubblici, recente di disciplina per i settori speciali (articoli 206, ss.), in quanto non direttamente afferente all'artività tipica descritta all'articolo 208 del codice stesso; infatti, l'applicabilità della disciplina di cui alla parte terza del codice dei contratti pubblici, relativa ai settori speciali, richiede la contemporanea presenta dell'aelemento soggettivo, concernente gli enti che operano nei predetti settori, e di quello oggettivo, inteso come riferibilità della concreta attività, oggetto dell'appalto, al settore speciale di attività. T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 12 giugno 2008, n. 1480 Giurisdizione civile - Giurisdizione ordinaria e amministrativa - Servizi pubblici - Appalto sotto soglia comunitaria - Controversia - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l'affidamento di un appalto di servizi sotto soglia comunitaria da parte di soggetti di diritto privato aventi i caratteri dell'organismo di diritto pubblico, tenuti all'indizione di procedure di evidenza pubblica. T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 12 giugno 2008, n. 1480 Appalti - Affidamento - Soglia comunitaria - Appalto inferiore - Difetto giurisdizione A.G.A. - Non sussiste La giurisdizione esclusiva in materia di appalti è delimitata dall'art. 6 della legge 21 luglio 2000, n. 205, che la riferisce alle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture «svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria, ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale», con la conseguenza che sulle relative controversie in tanto sussiste la giurisdizione amministrativa in quanto si controverta di una procedura ad evidenza pubblica (disciplinata dalla normativa comunitaria, nazionale o regionale); nell'ambito di detto riparto sono attratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie insorte in merito all'affidamento di appalti di servizi sotto soglia comunitaria, da parte di soggetti di diritto privato aventi i caratteri dell'organismo di diritto pubblico, tenuti all'indizione di procedure di evidenza pubblica in base alle norme del Trattato CE immediatamente precettive, nonché in base alle norme contenute nel Titolo II della Parte Seconda (artt. 121-ss.) del Codice dei contratti pubblici (1). (M.Ambr.) T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 12 giugno 2008, n. 1480 ------

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(1) Cfr. Cass., Sez. un., sentenza 20 novembre 2003, n. 17635. Appalti - Disciplina - Affidamento di appalti di servizi sotto soglia comunitaria - Soggetti di diritto privato aventi i caratteri dell'organismo di diritto pubblico - Controversie - Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L'art. 244, 1° c., del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163, deve essere interpretato nel senso che sono attratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie insorte in merito all'affidamento di appalti di servizi sotto soglia comunitaria, da parte di soggetti di diritto privato aventi i caratteri dell'organismo di diritto pubblico, tenuti all'indizione di procedure di evidenza pubblica in base alle norme del Trattato CE immediatamente precettive, nonché in base alle norme contenute nel Titolo II della Parte Seconda (artt. 121-ss.) del Codice dei contratti pubblici. T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 12 giugno 2008, n. 1480 Appalti - Disciplina settori speciali (artt. 206 e ss. D.LGS. 12/4/2006 n. 163) - Applicazione - Presupposti. L'art. 238 del D.Lgs. 12/4/2006 n. 163 (Codice dei contratti pubblici), circoscrive l'applicazione della Parte Terza, relativa ai settori speciali (artt. 206-ss.), alle sole procedure di affidamento di appalti sotto soglia comunitaria "che rientrano nell'ambito delle attività previste dagli articoli da 208 a 213". L'applicabilità della disciplina di cui alla Parte Terza del Codice dei contratti pubblici richiede, infatti, la contemporanea presenza dell'elemento soggettivo, concernente gli enti che operano nei predetti settori, e di quello oggettivo, inteso come riferibilità della concreta attività, oggetto dell'appalto, al settore speciale di attività. Pertanto, non rientra nell'ambito di applicazione della Parte Terza del nuovo Codice dei contratti pubblici, l'appalto del servizio di espletamento delle prove preselettive per i concorsi pubblici, seppure messo a gara da una società a partecipazione pubblica operante nel settore della distribuzione del gas naturale in quanto non direttamente afferente all'attività tipica descritta all'art. 208 del Codice stesso. T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 12 giugno 2008, n. 1480

© RIPRODUZIONE RISERVATA REATI TRIBUTARI Concorso fra truffa e frode fiscale Giovanni Negri, Il Sole 24 Ore Norme e Tributi 14 giugno 2011 - Pagina 31 Concorso ancora possibile tra reati tributari e truffa ai danni dello Stato. A patto che dalla truffa derivi un profitto ulteriore e diverso da quello ottenuto con l'evasione fiscale come, per esempio, l'indebito ottenimento di finanziamenti pubblici. Conferma la lettura data pochi mesi dalle Sezioni unite penali, la sentenza n. 23667 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha accolto il ricorso presentato dalla difesa contro l'ordinanza con la quale il tribunale del riesame di Bergamo aveva confermato la misura del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente di 132 milioni di euro nell'ambito di un procedimento per "frodi carosello" nel quale veniva ipotizzato il concorso tra la truffa aggravata ai danni dello Stato e i reati tributari. La possibilità della coesistenza dei due reati era, nel caso esaminato, determinante per consentire l'applicazione della confisca per equivalente, ammessa solo a partire dal 2008 nel campo delle frodi fiscali. I giudici, nell'esaminare il caso, però, avevano dedotto che le condotte poste in essere dagli imputati fossero destinate non solo alla commissione di reati tributari, ma anche a quello di truffa aggravata da un insieme di elementi, tra cui: la costituzione di numerose società nel Regno Unito, in Svizzera, e nelle Isole Vergini; la richiesta e il conseguimento da parte di alcune delle società coinvolte di una partita Iva in Italia; l'emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di altre società estere che hanno effettuato operazioni imponibili Iva utilizzando partite Iva intestate a soggetti terzi inconsapevoli; l'interposizione di queste società estere nel carosello fraudolento di cartiere società filtro, e l'intestazione delle quote di controllo di spa italiane destinatarie finali a fiduciarie di diritto inglese destinate a occultare i reati commessi; l'affidamento della rappresentanze legale di alcune spa italiane a soggetti prestanome. Tutti aspetti, tuttavia, che la Cassazione non considera decisivi nel costituire il reato di truffa ai danni dello Stato, ma piuttosto alla integrazione degli illeciti tributari contestati. Infatti, spiegano i giudici «a ben vedere,

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la costituzione di diverse società in Paesi esteri, l'attribuzione a queste ultime di partita Iva, l'interposizione di tali società, quali cartiere, nello schema di "carosello" ipotizzato dalla Procura, altro non sono che gli stessi passaggi che consentono da un lato di considerare le fatture contestate come soggettivamente inesistenti e dall'altro di considerare evasa l'Iva da parte delle società destinatarie finali della merce oggetto del giro di fatture contestato». La stessa attribuzione di partita Iva non può certo essere ritenuta un indice qualificante di un'avvenuta truffa, dal momento che si tratta di una condotta che non può, da sola, andare a incidere sul patrimonio dello Stato. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Corte di Cassazione Sezione 3 Penale Sentenza del 13 giugno 2011, n. 23667

Integrale

Truffa aggravata ai danni dello stato - Reati tributari - Frodi "carosello" - Concorso tra i delitti - Configurabilità

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Terza Sezione Penale Composta dai Signori: 1. dr. Alfredo Teresi - Presidente 2. dr.ssa Claudia Squassoni - Consigliere 3. dr.ssa Guida Mulliri - Consigliere Rel. 4. dr. Giulio Sarno - Consigliere 5. dr. Luca Ramacci - Consigliere all'esito dell'udienza in camera di consiglio dell'11 maggio 2011 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma. Ga. Ro. Pa. Gi. Pe. Va.

indagati artt. 640 2° co c.p., 2 ed 8 D.L.vo 74/00

avverso l'ordinanza del Tribunale per il Riesame di Bergamo in data 10.6.09 Sentita, in udienza, la relazione del cons. Guida Mulliri; Sentito il P.M. nella persona del P.G. dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato.

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Sentito il difensore degli indagati avv. Lu. Ri., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso; osserva 1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso - L'ordinanza impugnata ha respinto la richiesta di riesame proposta avverso il provvedimento di sequestro preventivo emesso, in data 9.5.09, dal G.i.p. - in vista di

una confisca per equivalente ex art. 322 ter c.p. -con riferimento alla somma di 132.573.776,47 Euro

nell'ambito di un procedimento nel quale è stata ipotizzata la violazione, concorrente, dei delitti di truffa

aggravata ai danni dello Stato e dei reati fiscali di cui agli artt. 2 ed 8 D.L.vo 74/00.

Avverso tale decisione, gli indagati hanno proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo:

1) violazione di legge penale e processuale (art. 606 lett. b) c.p.p. in rel. agli artt. 15, 322 ter e 640 c.p., 125 c.p.p.). Si fa, infatti, notare che l'ordinanza del G.i.p. è fondata esclusivamente sulle contestazioni di truffa aggravata ai danni dello Stato ma che non è affatto pacifico il concorso tra tale figura criminosa ed i reati fiscali contestati che, invece, costituiscono fattispecie speciale e, come tale, assorbente. In particolare, si fa notare che la possibilità di configurare una ipotesi di truffa accanto a fattispecie tributarie di rilievo penale può essere ammessa unicamente là dove la materialità della condotta tipica del reato fiscale vada ad inserirsi in una cornice più ampia, quale strumento per realizzare un obiettivo truffaldino esterno ed ulteriore rispetto all'illecito tributario, il quale ultimo costituisce, in tal modo, solo un ulteriore anello della truffa. 2) vizio di motivazione dal momento che, sebbene nell'istanza di riesame, fosse stata censurata l'assenza di riferimenti individualizzanti delle condotte ipotizzate e verso gli odierni ricorrenti, non si rinviene alcuna risposta nel provvedimento impugnato. D'altro canto, proprio questa "impersonalità" induce a dubitare della stessa legittimità costituzionale della

misura prevista dall'art. 322 ter c.p. posto che, per interpretazione della stessa Consulta (n. 97/09), la confisca per equivalente è caratterizzata dalla assenza di pericolosità dei beni che ne sono oggetto nonché dall'assenza di un rapporto di pertinenzialità tra il reato ed i beni con il risultato che la misura in esame ha una natura eminentemente sanzionatoria. In altri termini, la confisca per equivalente costituisce una vera e propria sanzione penale. A tale stregua essa dovrebbe coordinarsi con i principi costituzionali: 1) della personalità della responsabilità penale (visto che va a colpire in via anticipata i beni di soggetti indagati in maniera del tutto svincolata dall'accertamento del grado di effettiva responsabilità); 2) del diritto di difesa (art. 24 2° co.) perché la persona che patisce un sequestro per equivalente non può contestare nel merito la fondatezza del provvedimento; del principio di uguaglianza perché, a differenza di altre misure cautelari, l'applicazione del sequestro per equivalente non deve essere basata su gravi indizi di colpevolezza e può anzi andare a colpire anche uno solo degli indagati a prescindere dal ruolo svolto nell'attività criminosa ipotizzata. I ricorrenti concludono per l'annullamento dell'ordinanza impugnata 0, in subordine, per una messa in

discussione della legittimità costituzionale dell'art. 322 ter c.p.

Con memoria ex art. 127 c.p.p. depositata in data 5.5.11. la difesa degli indagati rammenta, in primo luogo, il contenuto della decisione di queste SS.UU. depositata il 19.1.11 con cui si è stabilita l'esistenza di un rapporto di specialità tra la fattispecie di cui all'art. 640 cpv. n. 1 c.p. e quelle tributarie (artt. 2 ed 8 d.l.vo 74/00) e si evidenzia il passaggio di questa sentenza nella quale si ammette il concorso tra i due delitti nella misura in cui sia riscontrabile un "ulteriore vantaggio o danno extratributario". Un secondo passaggio della memoria richiama i punti 2 e 4 delle "osservazioni al p.v. di constatazione" redatte su avallo del P.M. da parte del custode delle società che fanno capo agli odierni ricorrenti e che amministra una parte dei beni sottoposti a custodia con i provvedimenti dei quali si discute. In tali punti, infatti, viene esclusa l'esistenza della c.d. "frode carosello" ipotizzata dai P.M. in quanto, al contrario le

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vendite ai clienti finali delle merci transitate per società commerciali estere sono "oggettive, vere ed effettivamente avvenute" sì che eventuali irregolarità delle società britanniche ovvero delle ed. cartiere non hanno alcuna connessione con la posizione fiscale delle società verificate facenti capo ai ricorrenti. Si ribadiscono, infine, le considerazioni già sviluppate nel ricorso a proposito della natura di misura cautelare anticipatoria degli effetti della sanzione penale del sequestro per equivalente e della conseguente necessità che essa sia compatibile con i principi di non colpevolezza previsti dalla Costituzione e della presunzione di innocenza di cui alla CEDU. 2. Motivi della decisione - Il ricorso è fondato. 2.1. Il provvedimento del Tribunale - emesso prima della sentenza delle Sezioni unite (28.10.10, Giordano, Rv. 248865) si limita a dare atto della esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema del possibile concorso tra le ipotesi criminose formulate ma sottolinea che la stessa decisione apparentemente contraria al concorso - citata dalla difesa degli impugnati - non preclude in modo assoluto la possibilità che i due reati coesistano sottolineando, però, la necessità che, a tal fine, siano riscontrabili nella fattispecie elementi sintomatici di un obiettivo truffaldino esterno ed ulteriore rispetto all'illecito tributario. Il tema, ovviamente, è stato approfondito e puntualizzato dalla importante decisione di questa Corte a S.U. ove, però, è stato anche enunciato con chiarezza il principio di diritto secondo cui "i reati in materia fiscale

di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1, c.p.". L'affermazione sopraggiunge all'esito di un'articolata riflessione sulle caratteristiche delle due fattispecie e si conclude con il rilievo che "il sistema sanzionatone in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all'interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell'interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali. Effettivamente, come accennato anche nella ordinanza impugnata, la predetta sentenza non chiude tutti gli spazi alla eventualità di un concorso tra i delitto di truffa ed il reato fiscale ma ciò solo con riferimento alle "ipotesi in cui dalla condotta di frode fiscale derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale", quale l'ottenimento di pubbliche erogazioni. Il principio, enunciato già anche in altre precedenti decisioni di questa S.C. (S.U. n. 27 del 2000, Sez. Il, 23.11.06, Bellavita, Rv. 235593; Sez. III, 17.3.10, Lovison, Rv. 246968) non sembra, però, avere trovato adeguata applicazione nel provvedimento impugnato. Secondo il Tribunale per il Riesame, indici del fatto che le condotte poste in essere fossero destinate, non solo, alla commissione di reati tributari, ma anche, a quella di truffe aggravate, sarebbero presenti ed individuabili: 1) nella costituzione di numerose società nel Regno Unito, in Svizzera e nelle Isole Vergini Britanniche; 2) nella richiesta e nel conseguimento, da parte di talune di tali società, di una partita Iva in Italia (secondo

la procedura di cui agli artt. 17 e 35 ter D.L.vo 74/00);

3) nell'emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di altre società estere che hanno effettuato operazioni imponibili Iva utilizzando partite Iva intestate a soggetti terzi inconsapevoli; 4) nell'interposizione delle citate società estere nel carosello fraudolento di "cartiere" e società "filtro", in quella di altre società e nell'intestazione delle quote di controllo delle S.p.a. italiane "destinatarie finali" a società fiduciarie per conto di società di diritto inglese destinate ad occultare i reali titolari delle medesime; 5) nell'affidamento della rappresentanza legale di talune S.p.a. italiane "destinatarie finali" a soggetti prestanome. In realtà - come giustamente censura il ricorso in esame - la predetta elencazione non appare né esaurientemente approfondita né univocamente sintomatica per i fini anticipati.

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Ed infatti, è corretta l'obiezione difensiva secondo cui i pretesi elementi costitutivi della truffa (indicati, prima, dal Gip. e, poi, dal Tribunale) sono esattamente quelli che portano alla integrazione delle fattispecie penal-tributarie contestate. A ben vedere, la costituzione di diverse società in Paesi esteri, l'attribuzione a queste ultime di partita IVA, l'interposizione di tali società, quali cartiere, nello schema di "carosello" ipotizzato dalla Procura, altro non sono che gli stessi passaggi che consentono, da un lato, di considerare le fatture contestate come soggettivamente inesistenti e, dall'altro, di considerare evasa l'IVA da parte delle società destinatarie finali della merce oggetto del giro di fatture contestato. Né, di certo, è corretto considerare come atto di disposizione patrimoniale, qualificante la truffa, l'attribuzione della partita IVA alle società coinvolte nella pretesa truffa posto che si tratta di condotta che difficilmente può incidere sul patrimonio dell'Erario. In realtà, deve essere chiaro che l'ulteriore evento di danno che il soggetto agente si rappresenta attraverso le condotte poste in essere non deve inerire esclusivamente al rapporto fiscale e, sul punto, è abbastanza evidente che l'approccio dei giudici di merito non è stato dei più specifici ed approfonditi avallando, in tal modo, le critiche mosse dal ricorrente nel primo motivo. E' intuibile che, come rilevato anche dalle S.U. nella sentenza "Giordano" prima citata, la decisione impugnata abbia risentito in qualche modo della percezione della "inadeguatezza" della disciplina del

D.L.vo n. 74 del 2000, soprattutto, in considerazione della impossibilità di applicare la confisca per

equivalente, prevista, invece, in relazione al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 quater c.p.). Di certo, però, il lodevole intento di assicurare un efficace contrasto alle frodi fiscali non può mai

giustificare l'adozione di una misura al di fuori dei casi consentiti e, come noto, solo con la legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, (Legge Finanziaria 2008), è stata prevista la possibilità di

applicare l'art. 322 ter c.p. anche alle ipotesi di frode fiscale penalmente rilevanti come quelle qui ipotizzate. Peraltro, la decisione qui impugnata, risulta praticamente priva di motivazione in relazione alla valutazione della aggravante dell'associazione transnazionale ipotesi che viene solo sfiorata in motivazione e che, invece, se opportunamente approfondita, potrebbe costituire valida giustificazione per tenere conto anche dei reati fiscali antecedenti il 2008. 2.2. Le conclusioni che precedono sono tanto più valide valutando le censure difensive di cui al secondo motivo. Procedendo per gradi, deve, innanzitutto, dirsi che non sussiste nella specie alcuna violazione dei dettami costituzionali. Innanzitutto, perché, la questione per come è stata prospettata, finirebbe per riguardare più in generale l'intero regime dei presupposti applicativi delle misure cautelari reali, secondariamente, perché la proiezione di pericolosità che caratterizza nello specifico la misura del sequestro per equivalente deriva dal fatto che ciò che viene appreso è, per l'appunto, l'equivalente del profitto lucrato dal delitto; è dunque tale equivalenza che proietta sul bene la sua pericolosità sì che non è ravvisabile neppure alcuna lesione al diritto di difesa perché la persona nei cui confronti si procede dovrà e, potrà, rispondere proprio sul collegamento tra il bene ed il profitto. Né valgono i dubbi avanzati con riferimento alla mancata "individualizzazione" della misura perché è stato già ribadito anche dalla Consulta (e. Cost. sent. n. 48/94) che il sistema delle misure cautelari reali prescinde da qualsiasi profilo di colpevolezza in quanto, in questi casi, la funzione cautelare non si proietta necessariamente sull'autore del fatto criminoso. Analogamente infondata è la questione posta con riferimento alla possibilità che la misura cautelare in esame possa attingere ciascun concorrente per l'intero importo. Si tratta, infatti, di aspetto già valutato ed autorevolmente avallato da questa S.C. (S.U. 27.3.08, Fisia Italimpianti, Rv. 239926). Nessun dubbio, invece, della necessità di applicare la misura a condotte poste in essere successivamente alla legge che consente il sequestro per equivalente. Ma è, per l'appunto, anche a tal fine che vi è ragione di annullamento dell'ordinanza impugnata stante la necessità di verificare funditus la sussistenza, a monte, di condotte criminose legittimanti e, nel caso (ovviamente), valutarne l'epoca di verificazione.

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A tal fine, è anche opportuno sottolineare che, se è vero che, ai fini dell'applicazione del sequestro per equivalente, non occorrono gravi indizi di reità non può neppure ritenersi sufficiente la mera attribuzione ipotetica di un reato a taluno. Pur non dovendosi estendere all'accertamento del merito dell'azione penale, la verifica sui presupposti per le misure cautelari reali non deve neanche risolversi in un mero controllo formale e cartolare ma, al contrario, deve essere "concreto" e condotto "secondo il parametro del "fumus" del reato ipotizzato" (Sez. I, 11.5.07, Citarella, rv. 236474; S.U., 23.2.00, Mariano, Rv. 215840) tanto è vero che - si soggiunge - il controllo può avvenire con riferimento anche all'eventuale difetto dell'elemento soggettivo, "purché di immediato rilievo" (v. anche Corte cost., ord. n. 153 del 2007). Tutto ciò si ritiene doveroso sottolineare considerato che, al contrario, anche con riferimento a questo aspetto, il provvedimento risulta alquanto evasivo limitandosi a richiamare il provvedimento del G.i.p. che, a propria volta, richiama l'informativa di P.G. e relativi allegati e, quindi, risulta senza maggiori specificazioni per raccordare le emergenze investigative alle ipotesi criminose formulate nel concreto. Si impone, pertanto, un annualmente dell'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bergamo per nuovo esame alla luce dei rilievi fin qui formulati. P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p. annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Bergamo per nuovo esame.

DIRITTO FALLIMENTARE Piena ammissibilità delle spese legali al passivo fallimentare Il Sole 24 Ore - Il Merito - 14 giugno 2011 di Palumbo Francesco Tribunale di Latina, sentenza 10 marzo 2011, n. 755 - Giudice Relatore Dott.Roberto Amatore La questione. Un creditore che aveva dapprima chiesto ed ottenuto la declaratoria di fallimento di una società, chiedeva l'ammissione al passivo del fallimento per il credito rappresentato dalle spese legali necessarie per la sua assistenza tecnica nel procedimento dichiarativo del fallimento, rappresentando che le dette spese avevano natura conservativa, essendo state sopportate per la dichiarazione di fallimento. Tale credito non veniva ammesso, per cui il creditore impugnava con ricorso ex Art.98 L.F. il decreto che rendeva esecutivo lo stato passivo. Resisteva in giudizio il fallimento convenuto, il quale si riportava alla motivazione del Giudice delegato che in precedenza aveva escluso l'istante, ribadendo che il credito azionato non aveva natura conservativa e che le suddette spese legali per la presentazione della domanda di fallimento non erano affatto necessarie, potendo il ricorso essere presentato anche dalla parte personalmente, per cui chiedeva il rigetto della domanda. Il Tribunale stante la contestazione da parte della curatela del fallimento, disponeva procedersi alla istruzione della causa ex art.183 c.p.c.. e successivamente definiva il giudizio con la sentenza in oggetto, con la quale veniva accolta l' opposizione ed affermato il diritto della parte opponente ad insinuarsi nel passivo fallimentare della società resistente, per le spese legali necessarie all'assistenza tecnica dei difensori del creditore istante il fallimento, in via privilegiata ex artt. 2755 e 2770 c.c., con la corresponsione degli interessi sino alla data di deposito del progetto di riparto, trattandosi di credito assistito da privilegio generale.

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La sentenza del Tribunale di Latina n.755 del 10 marzo 2011. Con il suddetto esaustivo provvedimento il Giudice estensore ripercorre circa cinquanta anni del diritto fallimentare, per poi concludere affermando un innovativo principio di diritto, che si presta ad importanti applicazioni nell'attuale universo giuridico. In ordine alle spese legali, la disciplina generale prevede che se la richiesta di fallimento viene presentata dal creditore, questi può chiedere che le spese da lui sostenute vengano ammesse al passivo, trattandosi di spese che, in ragione del sostanziale parallelismo ravvisabile tra la posizione del creditore procedente nella procedura esecutiva singolare e quella del creditore istante nella procedura concorsuale, possono ritenersi assistite dal privilegio per le spese di giustizia ex artt. 2755, 2770 e 2777 Cod. civ. ( Cass. 2000/6787 ; Trib. Torino 10.02.1990, Fall. 90, 752 ). La Corte di Cassazione ha specificamente affrontato, seppure con decisioni contrastanti (che rispecchiano la stessa contrapposizione delle tesi espresse sul tema dalla dottrina), la diversa ma contigua questione del rimborso delle spese sostenute dal creditore istante nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, allorquando l'opposizione del fallito sia respinta. Dapprima, con sentenza 22.4.1959, n. 1201, cui segui' altra conforme del 23.10.1959, n. 3040, ebbe ad affermarsi il principio che quelle spese sono assistite dal privilegio per le spese di giustizia, e, successivamente, con sentenza 23.2.1966, n. 567, cui seguirono altre due conformi del 13.7.1968, n. 2502, e 22.12.1972, n. 3659, veniva affermato il diverso principio che quelle stesse spese debbono essere rimborsate con la prededuzione prevista dall'art. 111, n. 1, legge fall., siccome considerate indispensabili per l'amministrazione del fallimento. Nella citata sentenza 22.4.1959, n.1201, la Corte di Cassazione, quale premessa sistematica della questione allora formulata e specificamente affrontata (per la prima volta in sede di legittimita'), ebbe a valutare incidenter tantum anche la contigua questione, ora esaminata dal Tribunale di Latina, risolvendola alla stregua delle seguenti ragioni: "..Trattasi di stabilire se le spese sostenute dal creditore istante per ottenere la dichiarazione di fallimento vanno ammesse al passivo con il privilegio riconosciuto alle spese di giudizio. Al riguardo e' communis opinio che la soluzione affermativa discenda dalla equiparabilita' della dichiarazione di fallimento ad un pignoramento generale, onde l'applicabilita' dell'art. 95 cod. proc. civ., secondo cui le spese sostenute nel processo di esecuzione dal creditore procedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile. Il debitore esecutato, sia cioe' fallito o non, sopporta le spese che il creditore procedente e' costretto a sostenere nella procedura esecutiva singolare o concorsuale, in virtu' di esplicita norma di legge ed ogni differenziazione non ha ragion d'essere, giacche' alla procedura speciale il creditore deve fare obbligatoriamente ricorso ogni qual volta il debitore sia un imprenditore commerciale, e ricorrano le altre condizioni stabilite dalla legge fallimentare. Circa l'applicabilita' alla fattispecie del privilegio di cui agli artt. 2777, 2755 e 2770 cod. civ., e' sufficiente osservare che la condizione prescritta dalla legge di essere state le spese erogate nel comune interesse dei creditori trova facile riscontro nella funzione istituzionale della dichiarazione di fallimento, la quale sottrae alla libera disponibilita' del fallito tutti i beni di questo per assicurarli al soddisfacimento di tutti i creditori...". Ciò premesso, va detto che la Suprema Corte, nell'importante arresto giurisprudenziale sopra ricordato ( Cass. 2000/6787, cit. supra ) ha sostanzialmente condiviso tali ragioni e la conseguente soluzione in positivo del problema dell'ammissibilita' in via privilegiata al passivo fallimentare delle spese sostenute dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento, dovendosi superare l'opposta obiezione secondo cui, nell'esecuzione collettiva fallimentare, coinvolgente l'intero patrimonio del debitore, manca quell'imprescindibile nesso tra credito e specifico bene, caratterizzante il privilegio attribuito dagli artt. 2755 e 2770 c.c., e che l'istanza di fallimento non ha alcuna funzione conservativa, iniziando lo spossessamento a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento, di cui il ricorso del creditore puo' considerarsi atto meramente preparatorio, e neppure necessario. Ed invero, la dichiarazione di fallimento e' equiparabile all'atto di pignoramento, come espressamente prevede l'art. 54, comma terzo, legge fall., e, per l'appunto, ad un pignoramento generale, posto che dalla data della pronuncia il fallito viene privato dell'amministrazione e della disponibilita' del suo patrimonio (art. 42, legge fall.), ed i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali su quel patrimonio (art. 51, legge fall.) (così Cass. cit. supra ). Ne consegue, nell'innegabilita' del processo di fallimento quale processo esecutivo concorsuale (caratterizzato da una complessita' di fasi e procedimenti in se' anche di natura non esecutiva), l'applicazione della disciplina delle spese del processo di esecuzione, e cioè dell'art. 95 Cod. proc. civ., in forza del quale le spese sostenute dal creditore procedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile ( artt. 2755 e 2770 c.c., ed art. 2777 c.c. sull'ordine di preferenza accordato). In realtà, non v'e' dubbio, come evidenziato nella citata sentenza 22.4.1959, n. 1201, che il debitore esecutato, sia fallito o non, debba sopportare le spese che il creditore procedente e' costretto a sostenere nella procedura esecutiva, singolare o concorsuale, in virtu' di apposita norma di legge, ed ogni differenziazione non ha ragion d'essere, giacche' alla procedura speciale il creditore deve far ricorso

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obbligatoriamente allorquando il debitore sia un imprenditore commerciale e versi in stato d'insolvenza, chiedendone per l'appunto il fallimento mediante ricorso, cui e' espressamente legittimato ex art. 6, legge fall.. Pertanto, deve concludersi, conformemente alla giurisprudenza di legittimità già sopra richiamata, che vi è un sostanziale parallelismo tra creditore procedente nella procedura esecutiva singolare e creditore istante nella procedura esecutiva concorsuale, tale da attribuire anche a quest'ultimo il diritto alla ripetizione prelatizia delle spese sostenute per l'esercizio dell'unico mezzo consentitogli al fine di recuperare il proprio credito, che e' poi mezzo realizzante il suo come l'interesse degli altri creditori, cui indubitabilmente giova la sottrazione dei beni alla disponibilita' del debitore e la loro destinazione al soddisfacimento dei propri crediti in forza della dichiarazione di fallimento da lui obbligatoriamente richiesta. Deve ritenersi che con tale mezzo il creditore istante persegue anche l'interesse comune degli altri creditori, cosi' che viene a realizzarsi la condizione prevista dagli artt. 2755 e 2770 c.c. al fine del riconoscimento del privilegio speciale dei crediti per spese di giustizia, che l'art. 95 Cod. proc. civ. tiene fermo. Del resto, nella procedura esecutiva concorsuale, il collegamento tra privilegio speciale e beni determinati, che si ritiene costituisca imprescindibile presupposto di tale causa legittima di prelazione, e' in concreto realizzato con la prevista legale sottoposizione ad espropriazione dell'intero patrimonio del fallito, eccezion fatta per alcuni beni soltanto ( art. 46, legge fall.) ( così, sempre Cass. cit supra ). Ne consegue che riconoscibile si presenta il privilegio delle spese di giustizia per quelle sostenute dal creditore istante al fine della dichiarazione di fallimento, un privilegio -questo- che, diversamente da altre cause legittime di prelazione, non e' in realta' derogativo del principio generale della par condicio creditorum, di cui all'art. 2741 c.c., giacchè l'eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore implica, necessariamente, l'onere di concorrere alle spese necessarie al soddisfacimento di tale diritto egualitario. Tutto ciò premesso, occorre ricordare come il provvedimento di rigetto della istanza di insinuazione emesso dal Giudice delegato, e poi impugnato nella fattispecie esaminata dal Tribunale di Latina con la sentenza in esame si basi, da un lato, sulla considerazione che l'attività svolta dai legali del creditore istante non avesse natura strettamente conservativa e, dall'altro, sulla ulteriore circostanza che l'istanza non necessita di assistenza legale. Tale motivazione è stata ritenuta dal Tribunale di Latina non più condivisibile e la fattispecie è stata completamente innovata. Il nuovo orientamento. L'ammissibilità in sede di ammissione al passivo fallimentare del rimborso delle spese di rappresentanza legale sostenute per la presentazione del ricorso e quelle successivamente maturate nel corso del giudizio prefallimentare sino alla dichiarazione di fallimento. Il Tribunale di Latina con l'innovativo provvedimento in esame, ritiene che il processo di fallimento - quale processo esecutivo concorsuale - richiede l'applicazione della disciplina delle spese del processo di esecuzione, e cioè dell'art. 95 c.p.c. in forza del quale le spese sostenute dal creditore procedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile negli artt. 2755 e 2770 c.c. e quanto stabilito dall'art. 2777 cod.civ. sull'ordine di preferenza accordato, dovendosi riconoscere un sostanziale parallelismo tra creditore procedente nella procedura esecutiva singolare e creditore istante nella procedura esecutiva concorsuale tale da attribuire anche a quest'ultimo il diritto alla ripetizione prelatizia delle spese sostenute per l'esercizio dell'unico mezzo consentitogli al fine di recuperare il proprio credito. Tale strumento esecutivo è diretto a realizzare l'interesse del creditore istante, come quello degli altri creditori, cui indubitabilmente giova la sottrazione dei beni alla disponibilita' del debitore e la loro destinazione al soddisfacimento dei propri crediti in forza della dichiarazione di fallimento da lui obbligatoriamente richiesta. Sempre il Tribunale di Latina afferma che appare indubitabile la natura strettamente conservativa delle spese sostenute dal creditore per la presentazione della istanza di fallimento e quelle successivamente maturate nel corso del giudizio prefallimentare sino alla dichiarazione di fallimento, e ciò anche in riferimento alle spese legali di assistenza tecnica del creditore istante. Con il provvedimento in esame viene altresì, affermato l'importante ed innovativo principio di diritto, in virtù del quale, deve ritenersi che l'iniziativa del creditore poggia sull'esercizio di un'azione e che l'art. 15 L.F. richiama ora espressamente l'esercizio di attività tecnico-procedurali (richieste di copie autentiche, notifiche ovvero, ancora, articolazione di mezzi istruttori) e che, infine, l'art. 22 L.F. fa indirettamente riferimento alle spese di lite, sicchè deve ritenersi necessaria l'assistenza tecnica del creditore istante nella presentazione ed istruzione della domanda di fallimento, con la conseguente legittimità della richiesta da parte del creditore, in sede di ammissione al passivo, del rimborso delle spese di rappresentanza legale sostenute per la presentazione del ricorso. Sempre il Tribunale di Latina pur riconoscendo che il procedimento fallimentare si svolge nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio, nei quali, secondo l'opinione comune, di regola non sussiste l'obbligo del patrocinio, tuttavia ritiene che questa argomentazione non appaia di per sè decisiva, e ciò se solo si

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considera che anche, in presenza di riti camerali espressamente previsti dal legislatore nello stesso procedimento fallimentare (si pensi al regime processuale delle impugnazioni ex art. 99 l. fall. ovvero quello “camerale” ormai abrogato di cui al secondo comma dell'art. 24 l. fall. ), non era in discussione la necessità dell'assistenza legale delle parti. Pertanto, con la fortemente innovativa (e pienamente condivisibile) sentenza del Tribunale di Latina n.755 del 10 marzo 2011, viene così affermato l'importante principio giuridico, in virtù del quale viene riconosciuto che il procedimento fallimentare è caratterizzato da una serie di attività strettamente processuali ed istruttorie, che rendono necessaria l'assistenza tecnica dei difensori, con conseguenti effetti in ordine alle spese legali.

Tribunale Latina Sentenza del 19 aprile 2011, n. 755

Integrale

Procedure concorsuali - Fallimento - Spese legali - Ammissibilità al passivo fallimentare.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LATINA Nella persona dei Sigg.ri Magistrati Dott. Giuseppe D'Auria - Presidente Dott. Roberto Amatore - Giudice Rel. Est. Dott. Raffaele Tuccillo - Giudice ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 2375 del Ruolo Generale per gli Affari Contenziosi dell'anno 2008 trattenuta in decisione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 2.12.2010. TRA Fallimento Ro. S.p.a., in persona del curatore Dott. F. Ca. elettivamente domiciliato in La., Via Do. Mi. (...), presso lo studio dell'Avv. Ar. Fa., che lo rappresenta e difende per procura a margine del ricorso introduttiva. E Fallimento Ge. Le. S.r.l., in persona del curatore Dott. Sa. elettivamente domiciliato in La., presso lo studio dell'Avv. Pa. Ce. da cui è rappresentato e difeso in virtù di mandato in atti. RESISTENTE OGGETTO: opposizione allo stato passivo. Conclusione delle parti coma da verbale di udienza del 7.12.2010 MOTIVI DELLA decisione Con ricorso ex art. 98 l.f. depositato in cancelleria e ritualmente notificato la parte ricorrente indicata in

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epigrafe, premesso che aveva chiesto il fallimento della società Ge. Le. S.r.l.; che aveva chiesto di essere ammessa al relativo stato passivo per Euro 27.000,00 (Omissis) da privilegio ex artt. 2755 e 2770 Cod. Civ.; che il credito riguardava le spese legali necessarie per la sua assistenza tecnica nel procedimento dichiarato del fallimento della società convenuta; che le dette spese avevano natura conservativa essendo state sopportate par la dichiarazione di fallimento; tanto premesso, la parte ricorrente chiedeva l'ammissione, in via privilegiata ex artt. 2755 e 2770 cod. civ., allo stato passivo del fallimento della Ge. Le. S.r.l. della somma indicata nel ricorso introduttivo, oltre interessi e rivalutazione monetaria. Con memoria depositata in Cancelleria si costituiva in giudizio il fallimento convenuto, il quale premesso che il g.d. aveva legittimamente escluso l'istante, non avendo il credito azionato natura conservativa e non essendo le spese legali necessarie per la presentazione della domanda di fallimento; che, peraltro, la quantificazione del credito era errata non essendo stata applicata la tariffa relativa a cause di valore indeterminato; tanto premesso, il fallimento convenuto chiedeva il rigetto della domanda. Il G.D., stante la contestazione da parte della curatela del fallimento, disponeva procedersi alla istituzione della causa ex art. 183 c.p.c. La domanda presentata dalla parte ricorrente opponente deve essere accolta. Sul punto, va detto in termini generali che se la richiesta di fallimento è stata presentata dal creditore, questi può chiedete che le spese da lui sostenute vengano ammesse al passivo; si tratta di spese che, in ragione del sostanziale parallelismo ravvisabile tra la posizione del creditore precedente nella procedura asecutiva singolare e quella del creditore istante nella procedura concorsuale, possono ritenersi assistite dal privilegio per le spese di giustizia ex artt. 2755, 2770 e 2777 cod. civ. (Cass. 2000/6787; Trib. Torino 10.02.1990, Fall. 90, 752). Ebbene, va ricordato che la Corte di cassazione ha specificatamente affrontato, seppure con decisioni contrastanti (che rispecchiano la stessa contrapposizione delle tesi espresse sul tema della dottrina), la diversa e contigua questione del rimborso delle spese sostenute dal creditore istante nel giudizio di opposizione alla sentenza dichiarata di fallimento, allorquando l'opposizione del fallito sia respinta. Dapprima, con sentenza 22.4.1959. n. 1201, cui seguì altra conforme del 23.10.1959, n. 3040, ebbe ad affermarsi il principio che quelle spese sono assistite dal privilegio per le spese di giustizia e, successivamente, con sentenza 23.2.1966, n. 567, cui seguiranno altre due conformi del 13.7.1968, n. 2502, e 22.12.1972 n. 3659, s'è affermato il diverso principio che quelle stesse spese debbono essere rimborsate con la prededuzione previste dall'art. 111, n. 1, legge fall., siccome considerate indispensabili per l'amministrazione del fallimento. Nella citata sentenza 22.4.1959, n. 1201, la Corte di Cassazione, quale premessa sistematica della questione allora formulata e specificatamente affrontata (per la prima volta in sede di legittimità), ebbe a valutare incidenter tantum anche la contigua questione, ora sottoposta all'esame anche di questo giudizio, risolvendola alla stregua delle seguenti ragioni. "... Trattasi di stabilire se le spese sostenute dal creditore istante per ottenere la dichiarazione di fallimento vanno ammesse al passivo con il privilegio riconosciuto alle spese di giudizio. Al riguardo è communis opinto che la soluzione affermativa discenda dalla equiparabilità della dichiarazione di fallimento ad un pignoramento generale, onde l'applicabilità dell'art. 95 cod. proc. civ., secondo cui le spese sostenute nel processo di esecuzione dal creditore precedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile, il debitore esecutato (Omissis) cioè fallito e non, sopporta le spese che il creditore precedente è costretto a sostenere nella procedura esecutiva singolare o concorsuale, in virtù di esplicita norma di legge ed ogni differenzazione non ha ragion d'essere, giacché alla procedura speciale il creditore deve fare obbligatoriamente ricorso ogni qual volta il debitore sia un imprenditore, commerciale, e ricorrano le altre condizioni stabilite dalla legge fallimentare. Circa l'applicabilità alla fattispecie del privilegio di cui agli artt. 2777, 2755 e 2770 cod. civ., è sufficiente osservare che la condizione prescritta dalla legge di essere spese erogate nel comune interesse dei creditori trova facile riscontro nella funzione istituzionale della dichiarazione di fallimento, la quale sottrae alla libera disponibilità del fallito tutti i beni di questo per assicurarla al soddisfacimento di tutti i creditori ...". Orbene, va detto che la Suprema Corte, nell'importante arresto giurisprudenziale sopra ricordato (Cass. 2000/6787, cit. supra) ha sostanzialmente condiviso tali ragioni e la conseguente soluzione in positivo del problema dell'ammissibilità in via privilegiata al passivo fallimentare delle spese sostenute dal creditore istante per la dichiarazione di fallimento, dovendosi superare l'opposta obiezione secondo cui, nell'esecuzione esecutiva fallimentare, coinvolgente l'intero patrimonio del debitore, manca

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quell'imprescindibile nesso tra credito e specifico bene, caratterizzante il privilegio attribuito dagli artt. 2755 e 2770 c.c., e che l'istanza di fallimento non ha alcuna funzione conservativa, iniziando lo spossessamento a seguito della sntenza dichiarativa di fallimento, di cui il ricorso del creditore può considerarsi atto meramente preparatorio, e neppure necessario. Ed invero, la dichiarazione di fallimento è equiparabile all'atto di pignoramento, come espressamente prevede l'art. 54, comma terzo, legge fall., e, per l'appunto, ad un pignoramento generale, posto che dalla data della pronuncia il fallito viene privato dell'amministrazione e della disponibilità del suo patrimonio (art. 42, legge fall.), ed i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali su quel patrimonio (art. 51, Iegge fall.) (così Cass. ut supra). Ne consegue nell'innegabilità del processo di fallimento quale processo esecutivo concorsuale (caratterizzato da una complessità di fasi e procedimenti in se anche di natura non esecutiva), l'applicazione della disciplina delle spese del processo di esecuzione, e cioè dell'art. 95 Cod. proc. civ. in forza del quale le spese sostenute dal creditore precedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile (artt. 2755 e 2777 c.c., ed art. 2777 c.c. sull'ordine di preferenza accordato). In realtà, non v'è dubbio, come evidenziato dalla citata sentenza 22.4.1959, n. 1201, che il debitore esecutato, sia fallito e non, debba sopportare le spese che il creditore precedente è costretto a sostenere nella procedura esecutiva, singolare o concorsuale, in virtù di apposita norma di legge, ed ogni differenzazione non ha ragione d'essere, giacché alla procedura speciale il creditore deve far ricorso obbligatoriamente allorquando il debitore sia un imprenditore commerciale e versi in stato di insolvenza, chiedendone per l'appunto il fallimento mediante ricorso, cui è espressamente legittimato ex art. 6, legge fall. Pertanto, deve concludersi, conformemente alla giurisprudenza di legittimità già sopra richiamata, che vi è un sostanziale parallelismo tra creditore precedente nella procedura esecutiva singolare e creditore instante nella procedura esecutiva concorsuale, tale da attribuire anche a quest'ultimo il diritto alla ripetizione prelatizia delle spese sostenute per l'esercizio dell'unico mezzo consentitogli al fine di recuperare il proprio credito, che è poi mezzo realizzante il suo come gli interessi degli altri creditori, cui indubitabilmente giova la sottrazione dei beni alla disponibilità del debitore e la loro destinazione al soddisfacimento dei propri crediti in forza della dichiarazione di fallimento da lui obbligatoriamente richiesta. Deve ritenersi che con tale mezzo il creditore istante prosegue anche l'interesse comune degli altri creditori, così che viene a realizzarsi la condizione prevista dagli artt. 2755 e 2770 c.c. al fine del riconoscimento del privilegio speciale dei crediti per spese di giustizia, che l'art. 95 cod. proc. civ., tiene fermo. Del resto, nella procedura esecutiva concorsuale, il collegamento tra il privilegio speciale e beni determinati, che si ritiene costituisca imprescrivibile presupposto di tale causa legittima di prelazione è in concreto realizzato con la prevista legale sottoposizione ed espropriazione dell'intero patrimonio del fallito, eccezion fatta per alcuni beni soltanto (art. 46, legge fall.) (così sempre Cass. ut supra). Ne consegue che riconoscibile si presenta il privilegio delle spese di giustizia per quelle sostenute dal creditore istante al fine della dichiarazione di fallimento, un privilegio - questo - che, diversamente da altre cause legittime di prelazione, non è in realtà derogativo del principio generale della par condicio areditorum, di cui all'art. 2741 c.c., giacché l'uguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore implica, necessariamente l'onere di concorrere alle spese necessarie al soddisfacimento di tale diritto egualitario. Tutto ciò premesso, occorre ricordare come il provvedimento di rigetto dell'istanza di insinuazione emesso dal g.d. e qui censurato si fondi, da un lato, sulla considerazione che l'attività svolta dai legali del creditore istante non avesse natura strettamente conservative e, dall'altro sulla ulteriore circostanza che l'Istanda non necessita di assistenza legale. Tale motivazione non è in realtà condivisibile. Sotto il primo profilo, occorre qui solo richiamare l'arresto giurisprudenziale da ultimo ricordato, che questo Collegio condivide e fa proprio, secondo cui il processo di fallimento - quale processo esecutivo concorsuale - richiede l'applicazione della disciplina delle spese del processo di esecuzione, e cioè dell'art. 95 Cod. proc. civ., in forza del quale le spese sostenute dal creditore precedente sono a carico di chi ha subito l'esecuzione, fermo il privilegio stabilito dal codice civile negli artt. 2755 le 2770 c.c. e quanto stabilito dall'art. 2777 c.c. sull'ordine di preferenza accordato, dovendosi riconoscere un sostanziale parallelitismo tra creditore precedente nella procedura esecutiva singolare e creditore istante nella procedura esecutiva concorsuale tale da attribuire anche a quest'ultimo il diritto alla ripetizione prelatizia delle spese sostenute

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per l'esercizio dell'unico mezzo consentito al fine di recuperare il proprio credito. Tale strumento esecutivo è invero diretto a realizzare l'interesse del creditore istante come quello degli altri creditori, cui indubitabilmente giova la sottrazione dei beni alla disponibilità del debitore e la loro destinazione al soddisfacimento dei propri crediti in forza della dichiarazione di fallimento da lui obbligatoriamente richiesta. Ne discende che appare indubitabile la natura strettamente conservativa delle spese sostenute dal creditore per la presentazione della istanza di fallimento e quelle successivamente maturate nel corso del giudizio prefallimentare sino alla dichiarazione di fallimento, e ciò anche in riferimento alle spese legali di assistenza tecnica del creditore istante. Sotto il secondo profilo, deve ritenersi che l'iniziativa del creditore poggia invero sulI'esercizio di un'azione e che l'art. 15 richiama, ora espressamente l'esercizio di attività tecnico-processuali (richieste di copie autentiche, notifiche ovvero, ancora, articolazioni di mezzi istruttori) e che, infine, l'art. 22 fa indirettamente riferimento alle spese di lite, sicché non può non concludersi nel senso di ritenere necessaria l'assistenza tecnica del creditore istante nella presentazione ed istruzione della domanda di fallimento, con la conseguente legittimità della richiesta da parte del creditore, in sede di ammissione al passivo, del rimborso delle spese di rappresentanza legale sostenute per la presentazione del ricorso. E' pur vero che il procedimento fallimentare si svolge nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio, nei quali, secondo l'opinione comune, di regola non sussiste l'obbligo del patrocinio, tuttavia ritiene il Collegio che questa argomentatone non appare di per sé decisiva, e ciò se solo si considera che anche, in presenza di riti camerali espressamente previsti dal legislatore nello stesso procedimento fallimentare (si pensi al regime processuale delle impugnazioni ex art. 99 I. fall. ovvero quello "camerale" ormai abrogato di cui al secondo comma dell'art. 24. I. fall.), non era in discussione la necessità dell'assistenza legale delle part. Del resto, risulta decisiva l'argomentazione sopra riferita della previsione nel procedimento fallimentare di una serie di attività strettamente processuali ed istruttorie che rendono necessaria l'assistenza tecnica dei difensori. Ne discende l'accoglimento, in parte qua, della proposta opposizione e l'affermazione del diritto della parte opponente ad insinuarsi nel passivo fallimentare della società resistente per le spese legali necessarie all'assistenza tecnica dei difensori del creditore istante il fallimento. Peraltro, va anche aggiunto che, così superata la questione preliminare di carattere generale daIl'ammissibilità della istanza di insinuazione al passivo per le spese legali di assistenza del creditore proponente la domanda di fallimento, deve ritenersi provato l'an della pretesa creditoria, avendo la parte istante dimostrato per tabulas la ricorrenza dei falli costitutivi del suo diritto di credito attraverso l'ampia documentazione allegata alla memoria istruttoria versata in atti, da cui emerge con chiarezza lo svolgimento da porte dei due professionisti nominati dalla curatela Ha. S.p.a. del mandato professionale, così come diretto ad ottenere la dichiarazione di fallimento della società Ge. Le.S.r.l. Venendo ora ad esaminare l' eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa della parte opponente già nelle memorie ex art. 183, 6 comma, Cod. proc. civ. in relazione alle deduzioni difensive avanzate; da parte della curatela resistente, giova ricordare, in termini generali e ricostruttivi, che l'opposizione ex art. 98 l. fall., è configurabile come gravame a carattere tipicamente sostitutivo, atto a promuovere, il diretto riesame, a cognizione piena ed esauriente, delle stesse situazioni soggettive (sostanziali e processuali), oggetto della domanda di ammissione al passivo, e ciò in vista di una pronuncia che tenga luogo di quella precedentemente emanata al riguardo dal g.d. a cognizione meramente sommaria. Il rimedio, pertanto, introduce un giudizio, a rito speciale, di cognizione di natura contenziosa - nel quale l'opponente assume la veste di attore ed il curatore quella di convenuto - sull'esistenza e sull'efficacia nei confronti del fallimento del credito insinuato (così Cass. 74/2133; Cass. 71/393) ovvero delle garanzie che lo assistono o del diritto di ottenere la restituzione o la rivendicazione di un bene. Peraltro, va aggiunto che, nel vigore della precedente disciplina, applicabile ratione temporis anche al caso di specie, si è sempre affermato che l'opposizione allo stato passivo costituisce lo sviluppo, in sede contenziosa, della precedente fase di verificazione e di accertamento dei credili (cfr. Cass. 86/5496). Deve tuttavia in essere precisato, anche per quanto interessa le questioni dedotte dalle parti oggi in causa, che un principio regolatore del giudizio di opposizione nel regime previgente (applicabile, si ripete, alla controversia oggi sub iudice) era quello secondo cui l'indagine del tribunale non era limitata alla legittimità del provvedimento del g.d., ma era estesa al riesame dell'intero rapporto da cui ebbe origine il credito insinuato (cfr. Appello Bologna 19.12.1972, D. fall. II, 173; Trib. Como 20.11.1981, Fall. 82, 1273; Trib. Milano 25.07.1983, Fall. 83, 1199), risultando, pertanto, consentito al giudice e alle parti esaminate tutte le ragioni ed eccezioni dirette rispettivamente, a sorreggere ed a contrastare li fondamento delle domande originarie

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(Appello Bologna, cit.) ed al curatore, più in particolare, di far valere, nei limiti entro cui le regole del processo di cognizione lo consentono, ragioni di infondatezza della pretesa del ricorrente diverse da quelle enunciate nell'originario provvedimento di non ammissione del credito al passivo (Cass. 96/6963). Ciò posto, ritiene, pertanto, il Collegio giudicante che la eccezione di inammissibilità delle deduzioni difensive della curatela non coperte dal provvedimento di diniego del g.d. - eccezione sollevata dalla difesa della parte opponente allegando la maturazione di un "giudicato endofallimentare" - debba essere disattesa, atteso che il curatore, nel giudizio di opposizione, ben può far valere, come sopra accennato ragioni di infondatezza delle pretesa del ricorrente diverse da quella enunciate nell'originario provvedimento di non ammissione del credito al passivo, non comportando questa soluzione né la violazione del divieto di "reformatio in peius" né tanto meno la proposizione di un thema decidendum inammissibile perché non considerato nel provvedimento ammesso dal g.d. Se così è allora, deve trovare accesso l'esame anche delle ulteriori questioni sollevata dalla parte resistente in ordine, da un lato, alla mancata prova, del credito di cui si reclama in questa sede la insinuazione al passivo e, dall'altro, alla dedotta erroneità della quantificazione del credito stesso in relazione alla tariffa professionale applicata dagli istanti per la liquidazione del credito professionale. Sotto il primo profilo, occorre qui richiamare quanto già sopra osservato in ordine alla prova documentale allegata dalla parte ricorrente per dimostrare la fondatezza del suo credito pecuniario, con la conseguenza che la eccezione sollevata da parte della curatela resistente va pertanto disattesa. In relazione al secondo profilo, ritiene il Collegio non condivisibile quella giurisprudenza richiamata dalla parte resistente, giacché la stessa riguarda invero la diversa questione degli onorari professionali maturali nel corso del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Ne consegue che appare corretta l'applicazione della tariffa professionale relativa al credito fatto oggetto della richiesta di fallimento. Deve tuttavia, precisarsi che va riconosciuto alla parte istante il credito maturato da uno solo dei due professionisti incaricati, atteso che non appare necessaria la nomina di due legali per il patrocinio dell'istanza di fallimento. Ne discende che il quantum richiesto deve essere necessariamente ridotto per le ragioni ora indicate. Pertanto, deve riconoscersi agli istanti la complessiva somma pari ad Euro 7.200, somma commisurata anche alla quantità e qualità della prestazione professionale prestata, così come dimostrata dagli istanti sulla base della documentazione allegata. Deve pertanto ammettersi la parte ricorrente al passivo fallimentare per la somma richiesta di Euro 7.200, in via privilegiata ex artt. 2755 e 2770 c.c., con la corresponsione degli interessi sino alla data di deposito del progetto di riparto, trattandosi di credito assistito da privilegio generale. In ossequio al principio della soccombenza le spese di giudizio vanno poste a carico del fallimento convenuto e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando in contraddittorio delle parti costituito, ogni diversa e contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1. Ammette la parte ricorrente passivo del fallimento Ge. Le. S.r.l. per la somma di Euro 7.200, in via privilegiata ex artt. 2755 e 2770 c.c., oltre agli interessi legali sino alla data di deposito del progetto di riparto; 2. Condanna il fallimento convenuto al pagamento delle spese processuali in favore della ricorrente, facendo delle stesse liquidazioni in complessivi Euro 1.800, di cui Euro 800 per diritti ed Euro 1.000 per onorari di avvocato, oltre rimborso forfettario. Iva e, CPA.

GLI APPROFONDIMENTI DI LEX

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PROCEDIMENTO CAUTELARE Risarcimento del danno Danno da perdita di chance: prova ammessa anche secondo calcoli di probabilità o per presunzioni Consiglio di Stato, Sezione 3, Sentenza 30 maggio 2011, n. 3243 (Lex24)

SELEZIONE TRATTA DALLA BANCA DATI GIURIDICA LEX24 Danno da perdita di chance - Danno patrimoniale - Vantaggio economico - Mera possibilità di conseguirlo secondo una valutazione ex ante collegata al momento in cui il comportamento illegittimo ha inciso su tale possibilità - Risarcibilità - Prova. (Cc, art. 1226) Il danno da perdita di chance consiste in un danno patrimoniale relativo alla perdita non già di un vantaggio economico, bensì della mera possibilità di conseguirlo secondo una valutazione ex ante collegata al momento in cui il comportamento illegittimo ha inciso su tale possibilità. Trattasi, pertanto, di un pregiudizio che si configura come danno attuale e risarcibile, sempreché ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, sicché alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., al contrario diretta a fronteggiare l'impossibilità di provare non la esistenza del danno risarcibile, bensì del suo esatto ammontare. La perdita di chance di rilievo risarcitorio, in quanto entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e non mera aspettativa di fatto o generiche ed astratte aspirazioni di lucro, deve dunque correlarsi a dati reali, senza i quali risulta impossibile il calcolo percentuale di possibilità delle concrete occasioni di conseguire un determinato bene, e che dunque il danneggiato ha l'onere di fornire. Rilevato quanto innanzi non può procedersi alla liquidazione del danno richiesto qualora, come nella specie, l'istante nulla provi al riguardo. Consiglio di Stato, Sezione 3, Sentenza 30 maggio 2011, n. 3243 Perdita di chance - Nozione - Danno futuro - Distinzione - Dimostrazione dell'effettivo conseguimento di un vantaggio - Irrilevanza - Mera possibilità - Sufficienza - Valutazione equitativa del danno. La chance è una forma di danno che può essere definita come occasione favorevole di conseguire un risultato vantaggioso, sotto il profilo dell'incremento di un'utilità o della sua mancata diminuzione, diversa dalla mera aspettativa di fatto. La domanda per perdita di chance va distinta da quella di danno futuro, posto che la prima riguarda la perdita della possibilità di raggiungere il risultato sperato ed attiene al danno emergente, mentre la seconda riguarda il mancato raggiungimento del risultato ed attiene al lucro cessante. La perdita di chance è risarcibile indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione: l'idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta conseguenza è, viceversa, rilevante soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa ex art. 1226 c.c., posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all'esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla. Tribunale di Piacenza Civile, Sentenza 24 maggio 2011, n. 448 Risarcimento del danno - Perdita di chance - Liquidazione in via equitativa. La perdita di chance è risarcibile indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. E l'idoneità della chance a determinare

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presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta conseguenza è, viceversa, rilevante soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa ex art. 1226 del c.c., posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all'esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla. Tribunale di Piacenza Civile, Sentenza 24 maggio 2011, n. 448 Risarcimento del danno - Perdita di chance - Danno futuro - Distinzione. La chance deve essere intesa come una forma di danno che può essere definita come occasione favorevole di conseguire un risultato vantaggioso, sotto il profilo dell'incremento di un'utilità o della sua mancata diminuzione, diversa dalla mera aspettativa di fatto. La domanda per perdita di chance va, dunque, distinta da quella di danno futuro, posto che la prima riguarda la perdita della possibilità di raggiungere il risultato sperato ed attiene al danno emergente, mentre la seconda riguarda il mancato raggiungimento del risultato ed attiene al lucro cessante. Tribunale di Piacenza Civile, Sentenza 24 maggio 2011, n. 448 Appalti - Danno curriculare - Nozione - Valutazione equitativa - Possibilità. Il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico, anche a prescindere dal lucro che l'impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante, costituisce fonte per l'impresa di un vantaggio non patrimoniale ma - comunque - economicamente valutabile, poiché di per sé accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti. In tale ottica deve pertanto ritenersi risarcibile il "danno curriculare", il quale consiste nel pregiudizio subito dall'impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale, ossia per la circostanza di non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'Amministrazione (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 09 giugno 2008 n. 2751). Tale pregiudizio, a prescindere dalla carenza di prove offerte dalla ricorrente in ordine alle perdite economiche da essa subite, fuoriesce - altresì - dagli ambiti meramente probabilistici della valutazione delle chances e si pone in termini obiettivi per il fatto stesso dell'intervenuta esclusione della ricorrente dal mercato "pubblico", ed è pertanto intrinsecamente d necessariamente valutabile dal giudice in termini equitativi ai sensi dell'art. 1226 c.c. Consiglio di Stato, Sezione 4, Sentenza 16 maggio 2011, n. 2955 Appalti - Illegittimi provvedimenti di esclusione - Danno curriculare - Risarcibilità. La partecipazione ad un appalto pubblico, nonché la fase di esecuzione dello stesso, rappresentano per l'impresa concorrente un vantaggio economicamente valutabile, in quanto accresce la capacità di competere sul mercato e, dunque, la chance di ottenere l'affidamento di futuri appalti. Pertanto, deve ritenersi risarcibile il danno c.d. "curriculare", il quale consiste nel pregiudizio subito dall'impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale, ossia per la circostanza di non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione di un appalto dal quale si sia stati esclusi a causa del comportamento illegittimo dell'amministrazione. Tale pregiudizio, peraltro, prescinde dalla carenza di prove offerte dal concorrente in ordine alle perdite economiche da esso patite, ponendosi in termini obiettivi per il fatto stesso dell'intervenuta esclusione dal mercato "pubblico", ed è quindi necessariamente valutabile dal giudice in termini equitativi, ai sensi dell'art. 1226 c.c. Consiglio di Stato, Sezione 4, Sentenza 16 maggio 2011, n. 2955 Appalto pubblico di forniture - Gara - Illegittima aggiudicazione - Esclusione di un'impresa - Mancanza da parte di tale impresa della prova che in caso di ammissione si sarebbe aggiudicata l'appalto - Sussistenza comunque di un danno - Impossibilità di concorrere all'affare. In materia di appalti pubblici, deve rilevarsi che l'impresa che venga esclusa in una gara d'appalto illegittimamente aggiudicata, anche laddove non riesca a dimostrare che in caso di ammissione si sarebbe aggiudicata l'appalto, subisce tuttavia un danno. In tal senso, infatti, essa perde la possibilità, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, di concorrere al conseguimento dell'affare oggetto della gara. T.a.r. Puglia, Bari, Sezione 1, Sentenza 6 maggio 2011, n. 683

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Risarcimento danni - Danno da perdita di chance - Caratteristiche - Necessità di provare il nesso causale fra il fatto e la ragionevole probabilità del verificarsi, in futuro, del danno - Sussistenza Il danno da perdita di chance è un danno futuro, consistente non nella perdita di un vantaggio economico, ma nella perdita della mera possibilità di conseguirlo secondo una valutazione ex ante da ricondursi al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale. Tale voce di danno è risarcibile a condizione che il danneggiato dimostri (anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate) la sussistenza di un valido nesso causale fra il fatto e la ragionevole probabilità del verificarsi, in futuro, del danno. Tribunale di Cassino, Sezione Lavoro, Sentenza 28 aprile 2011, n. 613 Risarcimento del danno - Vittima della strada - Perdita di chance. In tema di danno da perdita di chance, se a causa del lungo periodo di invalidità temporanea (oltre un anno), dovuto a un incidente stradale, la vittima ha dovuto interrompere gli studi universitari, perdendo la possibilità di laurearsi, il giudice ne deve tener conto nella valutazione del danno biologico, morale e patrimoniale. Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza 6 aprile 2011, n. 7868 Sanzione disciplinare - Danno da demansionamento - Prova del danno subito - Utilizzabilità della prova presuntiva - Necessità di una precisa allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio subito - Indicazione generica di un danno da dequalificazione professionale privo di riferimenti a circostanze fattuali - Inidoneità a provare il danno - Sussistenza. Il demansionamento - il quale si concretizza nella privazione in tutto o in parte delle mansioni cui il lavoratore ha diritto - si configura non soltanto quando un lavoratore viene adibito ad una mansione inferiore, ma anche quando è sottoposto a un periodo di inattività prolungato ed ingiustificato (demansionamento omissivo). Anche il demansionamento può essere un fenomeno generatore di danno nella sfera del lavoratore. Si può trattare di un danno patrimoniale (consistente, oltre che nell'eventuale riduzione della retribuzione, nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità ed eventuale perdita di chances), sia, eventualmente, di danno non patrimoniale. Come tutti i pregiudizi di carattere non patrimoniale, anche in questo caso assume rilievo tipico la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, con incidenza sulla vita professionale. La prova del danno subito può essere fornita in giudizio con qualsiasi mezzo. Ai fini della dimostrazione della sussistenza del danno non patrimoniale può, invero, assumere rilievo la prova presuntiva: per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Tuttavia, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno derivante dal demansionamento non può prescindere da una precisa allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio subito. La generica indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio, della sussistenza di un danno da dequalificazione professionale, in ragione di un'illegittima sottrazione di competenze e dell'impoverimento del bagaglio professionale, senza alcun riferimento a circostanze fattuali, da cui desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio, non consente al giudice di identificare la natura e le caratteristiche del pregiudizio e non è pertanto sufficiente a fondare una decisione di accoglimento della domanda. Corte d'Appello di Potenza, Sezione Lavoro, Sentenza 29 marzo 2011, n. 97 Risarcimento - Risarcimento per equivalente - Reintegrazione in forma specifica. Fermo restando che la domanda risarcitoria non può essere mutata in appello, laddove sia chiesto il risarcimento dei danni subiti per effetto di un'illegittima esclusione da una procedura concorsuale e si sia dunque lamentato un danno da perdita di chance (e non un danno da mancata promozione in senso stretto), una volta ottenuta la reintegrazione in forma specifica sotto la specie della riammissione alla procedura o della ripetizione della procedura, deve essere escluso il risarcimento del danno per equivalente. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 24 marzo 2011, n. 1796 Gara pubblica: risarcimento dei danni - Gara pubblica - Accertata illegittimità degli atti di gara - Comportamento colposo della stazione appaltante - Pregiudizio nei confronti dell'impresa concorrente - Inutilità della spesa sostenuta per la partecipazione alla gara - Risarcimento danni a carico della stazione appaltante - Caso concreto - Riconoscimento del danno emergente, lucro cessante e danno curriculare.

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In caso di partecipazione ad una gara pubblica, qualora venga accertata l'illegittimità degli atti di gara per fatto imputabile alla stazione appaltante che (come nel caso di specie in cui è stato ravvisato un comportamento colposo della stazione appaltante, attesa la palese negligenza dell'omessa verifica dei requisiti di regolarità contributiva in capo all'impresa aggiudicataria, escludente l'errore scusabile) pregiudichi all'impresa concorrente sin dall'inizio la possibilità di aggiudicazione, determina di per sé l'inutilità della spesa dalla stessa sostenuta proprio a tale scopo, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., ne deve rispondere la stazione appaltante. Ed infatti, quest'ultima, con la sua condotta illegittima, ha di certo vanificato la funzione causale che sorregge l'onere della spesa di partecipazione alla gara e deve, pertanto, risarcire i danni patiti dall'impresa concorrente. Nel caso di specie, stante quanto detto, si è riconosciuto alla società appellante, tanto il danno emergente, relativo alle spese inutilmente sostenute per la partecipazione alla gara, liquidate in via equitativa, quanto il lucro cessante, corrispondente all'utile che l'appellante avrebbe conseguito dall'esecuzione del servizio, e fissato in una liquidazione pari al 5% del prezzo ribassato del 10%, nonché il cd. danno curriculare. Consiglio di Stato, Sezione 5, Sentenza 21 marzo 2011, n. 1738 Medici - Scuole di specializzazione ante 1991/92 - Tardivo recepimento nello Stato delle direttive comunitarie riguardanti la remunerazione - Risarcimento del danno da perdita di chance - Onere della prova - Necessità - Elementi. La domanda risarcitoria da perdita di chance (punteggio superiore da far valere in pubblici concorsi, esercizio della professione in altro Stato della Comunità), avanzata dai medici che hanno frequentato le scuole di specializzazione ante anno 1991/1992 a causa della tardiva trasposizione nell'ordinamento italiano delle direttive europee nn. 362/75 e 82/76, non esonera gli attori dall'onere di fornire la prova della possibilità perduta, né del pari la richiesta di una liquidazione equitativa del danno integra una "relevatio ab onere probandi". Relativamente ai concorsi pubblici la perdita di chance deve essere, infatti, dimostrata con la prova dell'esclusione del candidato ovvero dell'inutile collocamento in graduatoria proprio per carenza del punteggio riconosciuto solo agli specializzati post 1991-92; mentre la impossibilità di esercitare il diritto di stabilimento, deve trovare riscontro probatorio in specifici e concreti atti (individuazione della località di stabilimento, contatti con studi professionali, richieste di lavoro presso enti pubblici od altri soggetti privati, ecc.) diretti all'esercizio dell'attività professionale in altri Stati membri nonché nell'effettivo impedimento dello svolgimento dell'attività medica a causa della non equipollenza del titolo professionale. Tribunale di Roma, Sezione 2 Civile, Sentenza 15 marzo 2011, n. 5464 Continua a ad approfondire il DANNO DA PERDITA DI CHANCES in Percorso Operativo Responsabilità Civile di LEX24 © RIPRODUZIONE RISERVATA LA RESPONSABILITA’ MEDICA Risarcimento dei danni La responsabilità dell'ente ospedaliero nasce dal contratto di assistenza sanitaria Tribunale di Campobasso, Sentenza 2 maggio 2011, n. 270 (Lex24) SELEZIONE TRATTA DALLA BANCA DATI GIURIDICA LEX24 Responsabilità della struttura sanitaria - Natura contrattuale - Effetti - Applicabilità dei criteri di ripartizione dell'onere probatorio seguiti in materia contrattuale - Sussistenza. (Cc, art. 2043). La responsabilità della struttura sanitaria ha natura extracontrattuale, poiché l'accettazione del paziente in ospedale, sia ai fini del ricovero che per una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto: il contratto di assistenza sanitaria. Il fondamento di responsabilità dell'ente ospedaliero va pertanto individuato nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili alla struttura e, perciò, i criteri di ripartizione dell'onere probatorio sono quelli ordinariamente seguiti in materia contrattuale e che impongono al creditore l'onere di provare il contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno, nonché di allegare un inadempimento del debitore - e più precisamente un inadempimento qualificato e cioè astrattamente

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efficiente alla produzione del danno - ed al debitore il compito di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, oppure che pur essendovi stato non può configurarsi nella fattispecie come causa del danno. Tribunale di Campobasso, Sentenza 2 maggio 2011, n. 270 Responsabilità professionale medica - Omessa diagnosi - Sussistenza - Onere della prova dell'esatto adempimento - A carico del sanitario - Sussistenza - Principio della cd. "vicinanza della prova" - Specificazione. Porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno conseguenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione. Ciò a maggior ragione nel caso di obbligazioni professionali, in cui il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto. (Nel caso di specie il medico radiologo e la casa di cura sono stati condannati al risarcimento del danno per omessa diagnosi di un nodulo mammario). Corte d'Appello di Roma, Sezione 3 Civile, Sentenza 22 marzo 2011, n. 1210 Sanità - Contratto di assistenza al parto - Limiti di equipaggiamento od organizzazione della struttura sanitaria - Danni al neonato - Obbliog informativo del paziente circa i limiti della struttura - Sussistenza - Violazione dellì'obbligo di informare - Conseguenze - Responsabilità della struttura e del medico - Configurabilità - Condizioni. L'obbligo informativo circa i limiti di equipaggiamento o di organizzazione della struttura sanitaria grava anche sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa, che abbia concluso con la paziente un contratto di assistenza al parto presso la casa di cura in cui era convenuto che ella si sarebbe ricoverata. Ne consegue che in caso di violazione dell'obbligazione di informare, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato, delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico con il quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica. Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza 17 febbraio 2011, n. 3847 Sanità - Contratto di assistenza al parto - Limiti di equipaggiamento od organizzazione della struttura sanitaria - Danni al neonato - Obbligo informativo del paziente circa i limiti della struttura - Sussistenza - Violazione dell'obbligo di informare - Conseguenze - Responsabilità della struttura e del medico - Configurabilità - Condizioni. Ogniqualvolta l'azione o l'omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l'evento il difetto di accertamento di un fatto astrattamente idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia «più probabile che non», da chi quell'accertamento avrebbe potuto compiere e non abbia effettuato. Ne consegue che è responsabile il personale sanitario dell'ospedale per omessa vigilanza, errata diagnosi e ritardo nell'attuazione di idonea terapia, ogniqualvolta sussista il nesso di causalità tra la condotta e l'evento e non venga fornita una prova positiva di assenza totale di colpa da parte del personale sanitario stesso. Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza 17 febbraio 2011, n. 3847 Responsabilità della struttura sanitaria - Responsbailità professionale medica - Inquadramento giuridico - Rapporto paziente-struttura - Autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive - Applicazione delle ordinarie regole in materia di inadempimento - Riparto dell'onere probatorio. L'inquadramento giuridico della responsabilità professionale medica ha luogo riconsiderando il rapporto paziente-struttura in termini distinti rispetto al rapporto paziente-medico, riqualificando il primo quale autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive, in relazione al quale trovano applicazione le ordinarie regole sull'inadempimento di cui all'art. 1218 c.c. La configurabilità di forme autonome di responsabilità dell'ente, del tutto prescindenti dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, trova, pertanto, la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente medesimo. Inquadrata nell'ambito contrattuale sia la responsabilità della struttura sanitaria, quanto quella del medico nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio è, conseguentemente, risolto con rinvio ai criteri fissati in materia contrattuale in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento. In tal senso, pertanto, a fronte di una istanza risarcitoria del paziente, spetta al debitore (medico) provare la insussistenza di qualsivoglia inadempimento, ovvero che, pur sussistendo, non

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è stato affatto causa di danno. All'uopo deve, tuttavia, aggiungersi che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di comportamento è non già qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno, per cui l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento qualificato e dunque astrattamente efficiente alla produzione del danno. L'applicazione dei suesposti principi alla fattispecie per cui è causa consente di concludere per il mancato raggiungimento della prova (pur in esito alla disposta consulenza d'ufficio), in ordine alla riconducibilità alla convenuta struttura sanitaria di comportamenti qualificabili alla stregua di un inadempimento rilevante al fine di configurare una ipotesi si responsabilità professionale medica e per la sussistenza, sotto il profilo causale, di fattori terzi, imprevisti ed imprevedibili, che consentono di escludere la sussistenza di un rapporto eziologico tra le condotte ascrivibili al personale della struttura sanitaria medesima ed i danni lamentati dall'attrice )cicatrice residua iperestesica). Tribunale di Trieste, Sentenza 11 febbraio 2011, n. 113 Professione medica - Responsabilità civile e penale - Errata esecuzione della prestazione medica - Responsabilità di natura contrattuale - Onere probatorio e nesso di causalità. Il medico, alla stregua di qualsivoglia professionista, è soggetto nell'esercizio della propria attività a responsabilità civile e penale, per cui sarà chiamato a rispondere in sede civile dei danni causati al paziente, ed in sede penale per i reati eventualmente commessi nell'esercizio della medesima attività professionale. Avuto in particolare riguardo ai medici liberi professionisti, alle cliniche private ed alle strutture ospedaliere, deve rilevarsi che la responsabilità per i danni arrecati al paziente a causa di una errata esecuzione della prestazione medica, deve pacificamente ricondursi nell'alveo della responsabilità di natura contrattuale, con gli effetti che ne conseguono in ordine al regime dell'onere probatorio e della prescrizione. Quanto all'onere della prova, in particolare, deve rilevarsi che il paziente, il quale si assuma danneggiato da un errore medico, è tenuto a dimostrare non solo che l'operazione era di facile esecuzione, risultando, in caso contrario, attenuata la responsabilità del medico ex art. 1176 c.c., ma altresì che per effetto dell'intervento del professionista ha subito un peggioramento delle proprie anteriori condizioni di salute. Sul professionista, invece, incombe l'onere di fornire la prova contraria, e dunque che la prestazione richiesta è stata eseguita in modo idoneo e corretto e che l'esito peggiorativo deve unicamente attribuirsi al sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero alla esistenza di una particolare condizione del paziente, non accertabile, in quanto tale, con il ricorso alla ordinaria diligenza professionale. L'intervenuto assolvimento dell'onere probatorio gravante sul paziente ed il conseguente accertamento in ordine alle riscontrate omissioni terapeutiche a suo danno, determinanti l'insorgere di una malattia dagli esiti invalidanti (avendo a tal uopo altresì riguardo all'accertamento dei fatti compiuto in sede penale), determina l'accoglimento della formulata istanza risarcitoria. Tribunale di Potenza, Sentenza 2 febbraio 2011, n. 114 Struttura sanitaria - Paziente - Contratto di spedalità - Obbligazioni di natura complessa - Responsabilità contrattuale - Esclusione - Presupposto - Diligente adempimento della prestazione medica - Onere probatorio - Rapporto di causalità. Il contratto concluso dal paziente con la struttura sanitaria, pubblica o privata, deputata a fornire assistenza sanitaria e/o ospedaliera ai fini di una visita ambulatoriale o di un ricovero, deve essere ricondotto alla fattispecie del contratto di spedalità, determinante la insorgenza di obbligazioni di natura complessa, che vanno dalla prestazione di diagnosi e cura a quelle latu senso alberghiere, nonché di sicurezza ed organizzative. In tal senso, pertanto, quello della prestazione medica in senso stretto diventa un momento del complesso sviluppo contrattuale composto da una serie di prestazioni variegate, il cui diligente adempimento costituisce presupposto per la esclusione di qualsivoglia tipo di responsabilità. Il ricorso di una ipotesi di responsabilità contrattuale incide, naturalmente, sul profilo dell'onere probatorio e del rapporto di causalità. All'uopo deve, in particolare, rilevarsi che ad una impostazione tradizionale, la quale accollava al paziente, oltre che alla prova del danno e del nesso causale, anche la dimostrazione in ordine alla difettosa esecuzione della prestazione del professionista, tenuto, tuttavia, unicamente ad allegare e provare la impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione, se ne è affiancata una più recente. Questa, proponendo un'attenta rilettura degli artt. 1218 e 2697 c.c. e rielaborando i principi in tema di onere della prova in ordine all'inadempimento ed all'inesatto adempimento, è giunta alla individuazione di una regola di carattere generale, secondo cui il creditore, ovvero il paziente, è chiamato ad allegare l'inadempimento, incombendo sul medico debitore la prova di aver assolto alla diligenza necessaria nell'adempimento della propria prestazione e, dunque, la non imputabilità dell'inadempimento. Quanto al nesso di causalità tra la prestazione del medico non conforme alle regole dell'arte e l'evento danno, l'onere di dimostrare la

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sussistenza del legame eziologico sulla base dei principi generali è posto a carico del paziente, indipendentemente dal grado di difficoltà dell'intervenuto eseguito dal professionista. Tribunale di Potenza, Sentenza 19 gennaio 2011, n. 37 Assistenza ospedaliera - Contratto di prestazione d'opera atipico di spedalità - Prestazioni accessorie - Attrezzature adatte alla patologia del paziente - Inadempimento - Responsabilità. Il rapporto che si instaura tra la struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera ed il soggetto che, ivi accettato, vi si ricoveri o sia solo soggetto a visita ambulatoriale, integra un contratto atipico di prestazione d'opera di spedalità che comporta tutta una serie di prestazioni accessorie rispetto a quelle strettamente mediche e chirurgiche. In particolare, la struttura citata, oltre a dover fornire servizi di natura alberghiera, quali il vitto e l'alloggio, è tenuta a mettere a disposizione medicinali, personale medico ausiliario ed attrezzature funzionali alla situazione patologica del singolo paziente. In tale ottica, in riferimento al caso di specie, è qualificabile come inadempimento contrattuale la mancata prestazione di assistenza continua a soggetto, affetto da demenza cognitiva, che, lasciato solo su di una barella senza sponde, sia dalla stessa caduto procurandosi una frattura. Atteso che, come detto, è onere della struttura approntare tutte le cautele necessarie al fine di garantire una consona fruizione del servizio sanitario offerto al singolo paziente, tenendo in debito conto, necessariamente, delle esigenze di cui è portatore, la struttura deve essere ritenuta responsabile per i danni che lo stesso si sia involontariamente provocato in quanto lasciato privo della necessaria assistenza oltre che sistemato su attrezzatura non idonea alle sue condizioni psicofisiche. Tribunale di Ivrea, Sentenza 10 gennaio 2011, n. 9 Approfondisci l'argomento nel Percorso Operativo Diritto Penale di Lex24 © RIPRODUZIONE RISERVATA Lo scambio di motivazione impone un altro ricorso Norme e Tributi 13 giugno 2011 Pagina 54 di Bresciani Remo La scarsa diligenza del giudice nello svolgimento della sua attività può costare caro alle parti in causa. Infatti, se nella sentenza emessa sono riportati motivazione e dispositivo di un altro provvedimento, non è possibile ricorrere al procedimento di correzione dell'errore materiale ma sarà necessario instaurare un vero e proprio giudizio di impugnazione. A queste conclusioni è giunta la sezione II civile della Cassazione con la sentenza 12035/2011 che ha accolto il ricorso di un cittadino in lite con il proprio condominio. L'uomo, in particolare, contestava la legittimità dell'avviso di convocazione dell'assemblea e l'addebito di spese inesistenti. I giudici hanno respinto la domanda, condannando il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controparte, e la decisione è stata confermata anche in appello. Nella sentenza di secondo grado, però, sono stati riportati per errore del magistrato lo svolgimento del processo e il dispositivo di un altro provvedimento. Per questo motivo il condominio vincitore ha chiesto alla stessa Corte d'appello di provvedere alla correzione dell'errore materiale della sentenza, istanza alla quale si è invece opposto l'originario ricorrente. Il collegio ha accolto la domanda di correzione sostituendo la parte motiva e il dispositivo della decisione precedente con quella effettiva e confermando nel merito tutte le statuizioni precedenti in merito alle spese. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condomino secondo il quale non era possibile procedere alla correzione non essendo possibile ricostruire il percorso compiuto dal giudice nel motivare il provvedimento. I giudici di legittimità, nel l'accogliere il ricorso, hanno affermato che in questa circostanza non si poteva applicare il procedimento di correzione dell'errore materiale. Infatti, ha chiarito la Suprema corte, il collegio di merito adducendo un mero disguido del magistrato nella scelta del file da selezionare e stampare, ha di fatto sostituito completamente la motivazione e il dispositivo della sentenza rispetto al testo precedente esorbitando rispetto al procedimento di correzione. Quest'ultimo, infatti, è esperibile per ovviare a un difetto di corrispondenza tra «l'ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica». A questo istituto, pertanto, non è demandata la funzione di porre rimedio a un vizio di formazione della volontà del giudice alla quale sono deputati i normali mezzi di impugnazione.

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Ne consegue che l'adozione del procedimento di correzione da parte del collegio di merito si deve considerare «clamorosamente illegittima», poiché con il ricorso a questo procedimento e la sostituzione completa dello svolgimento del processo e del dispositivo si è adottata una nuova sentenza, «con la forma dell'ordinanza correttiva, caratterizzata, oggettivamente e soggettivamente, da un nuovo contenuto decisionale, logico, giuridico e sostanziale, in alcun modo rapportabile al testo corretto se non per la mera comunanza dell'intestazione». In conclusione – ha sottolineato la Suprema corte – il collegio di merito ha di fatto "rimediato" alla scarsa diligenza nell'organizzazione del lavoro di un magistrato, ma ha posto in essere una condotta al di fuori dei ristretti limiti in cui è ammissibile la correzione del l'errore materiale. © RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilsole24ore.com/ norme/documenti La sentenza 12035/11 della Cassazione Compensazioni a rischio. Sanzionata la posizione del professionista nell'illecito Norme e Tributi 17 giugno 2011 Pagina 29 di Iorio Antonio Linea dura della Corte di cassazione nei confronti del consulente che svolge un ruolo attivo nell'indebita compensazione a favore del cliente: è legittimo il sequestro preventivo dei suoi beni finalizzato alla confisca per equivalente. A fornire questa importante indicazione è la sentenza n. 24166 del 16 giugno 2011. La vicenda trae origine da un'indagine svolta dalla Guardia di finanza che segnalava alla competente Procura della Repubblica un'associazione per delinquere finalizzata alla commissione di vari reati tributari, tra i quali l'indebita compensazione di imposte. Dell'associazione avrebbero fatto parte sia gli imprenditori, sia il consulente delle relative società che avrebbero, tra l'altro, eseguito indebite compensazioni attraverso il modello F 24 con crediti inesistenti, omettendo il versamento di tributi per oltre un milione di euro. Il Gip disponeva, contestualmente all'adozione di misure cautelari, anche il sequestro di beni finalizzato alla confisca per equivalente, nei confronti del consulente. Il ricorso era rigettato dal Tribunale del riesame che confermava, nella sostanza, la legittimità del provvedimento del Gip. Il professionista ricorreva allora per Cassazione ribadendo l'illegittimità del sequestro preventivo poiché relativo a beni appartenenti a soggetto del tutto estraneo al reato di indebita compensazione. Secondo la tesi difensiva, infatti, il professionista si era limitato a svolgere la propria attività di consulenza professionale a favore delle società coinvolte nella vicenda senza alcuna partecipazione diretta all'attività di indebita compensazione. I giudici di legittimità hanno, invece, ritenuto infondato il ricorso, in quanto riproponeva le medesime censure di merito già puntualmente esaminate dal tribunale del riesame. La sentenza, a questo proposito, ricorda che in sede di legittimità e in materia di misure cautelari, il sindacato del giudice deve essere limitato alla sola «verifica dell'astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato senza sconfinare nel sindacato della concreta fondatezza dell'accusa». La Corte, nella specie, ha ritenuto comunque di indicare ulteriori elementi relativi alla condotta del consulente. In particolare veniva evidenziato che, con riferimento alle indebite compensazioni effettuate dal gruppo di società, il professionista non si era limitato a svolgere la richiesta attività di commercialista, ma era stato l'ideatore dell'utilizzo illecito del modello F 24 concorrendo consapevolmente alla realizzazione delle indebite compensazioni. La pronuncia della Corte, ancorchè non attenga l'accertamento della responsabilità del commercialista nei citati illeciti, ma la legittimità del sequestro preventivo dei suoi beni, deve obiettivamente far riflettere. Il reato di indebita compensazione, introdotto nel nostro ordinamento con il decreto legge 223/06, scatta per somme superiori a 50.000 euro in presenza dell'utilizzo di crediti inesistenti o non spettanti. Anche per il tecnicismo richiesto per la compilazione e la trasmissione del modello di versamento (F24), di norma è un adempimento cui si fa carico direttamente il consulente del contribuente. È evidente che, in base a quanto prospettato dalla sentenza, non sarà semplice per un professionista – che cura anche la contabilità del cliente – poter dimostrare la sua estraneità a tale reato (ruolo non attivo), in presenza di crediti evidentemente inesistenti. Non fosse altro perché è proprio il medesimo consulente che, tenendo la contabilità, segue la formazione e l'utilizzo degli eventuali crediti utilizzati in compensazione.

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© RIPRODUZIONE RISERVATA www.ilsole24ore.com/norme Il testo della sentenza MASSIMA Ad abuntantiam si osserva: a) che X quanto alle indebite compensazioni effettuate dal gruppo delle società y non si era limitato a svolgere l'attività professionale di commercialista richiesta in riferimento a dette società, ma era stato l'ideatore dell'utilizzo illecito dei meccanismi di cui al modello F24, concorrendo consapevolmente alla realizzazione delle indebite compensazioni come contestate in atti; b) che il valore complessivo dei beni immobili e mobili di proprietà di x (come determinato in atti) era certamente inferiore alla somma globale dei tributi evasi, somma superiore a un milione di euro; c) che il provvedimento del Gip del 20 settembre 2010, con cui si disponeva il sequestro per equivalente dei beni intestati a x conteneva, anche se in modo implicito (come già evidenziato dal tribunale di Brescia) le ragioni inerenti sia alla legittimità del sequestro de quo, sia alla pertinenza dei beni sottoposti al vincolo reale. Cassazione penale sentenza n. 24166 del 2011