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Newsletter n.10 - Dicembre 2019 AGSZ Studio di Avvocati 1 NEWSLETTER DI INFORMAZIONE GIURIDICA NUMERO 10 DICEMBRE 2019 AGSZ Studio di Avvocati ATTENZIONE: questa Newsletter è stata preparata da AGSZ Studio di Avvocati per finalità di informazione generale e non è in nessun caso destinata ad affrontare esigenze particolari od a costituire o sostituire alcuna forma di consulenza, parere o analisi giuridica. I lettori sono quindi invitati a non fondare decisioni aziendali o personali semplicemente sulla base delle informazioni qui riportate e senza un preventivo consulto con un legale. Per ricevere maggiori informazioni sulle notizie pubblicate, per comunicare note, commenti, suggerimenti o la volontà di essere cancellati dalla mailing list, contattare [email protected]. La nostra informativa privacy è consultabile sul sito www.agszavvocati.it

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Newsletter n.10 - Dicembre 2019 AGSZ Studio di Avvocati 1

NEWSLETTER DI INFORMAZIONE GIURIDICA

NUMERO 10 DICEMBRE 2019

AGSZ Studio di Avvocati

ATTENZIONE: questa Newsletter è stata preparata da AGSZ Studio di Avvocati per finalità di informazione generale e non è in nessun caso destinata ad affrontare esigenze particolari od a costituire o sostituire alcuna forma di consulenza, parere o analisi giuridica. I lettori sono quindi invitati a non fondare decisioni aziendali o personali semplicemente sulla base delle informazioni qui riportate e senza un preventivo consulto con un legale. Per ricevere maggiori informazioni sulle notizie pubblicate, per comunicare note, commenti, suggerimenti o la volontà di essere cancellati dalla mailing list, contattare [email protected]. La nostra informativa privacy è consultabile sul sito www.agszavvocati.it

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IN QUESTO NUMERO

231 & RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI Con la conversione in legge del D.L. 124/2019 (Decreto Fiscale) si amplia l’elenco di reati tributari che entrano a far parte di quelli presupposto ex D.Lgs 231/01, per i quali si conferma l’operatività della c.d. “confisca allargata”

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CONTRIBUTI REGIONALI La Regione Emilia-Romagna offre contributi a fondo perduto alle imprese regionali che desiderano partecipare a Expo 2020 a Dubai

Pag. 5

E-COMMERCE & CONSUMATORI Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale UE la Direttiva 2019/2161 “per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori”

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INTERNAZIONALE 1. Stati Uniti, Messico e Canada apportano sensibili modifiche al testo dell'USMCA

Pag. 8

2. Stati Uniti e Cina raggiungono l'accordo sulla “Fase Uno” di un futuro accordo di libero scambio

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SOCIETARIO 1. Anche l’atto di scissione societaria può essere oggetto di azione revocatoria ordinaria

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2. Repetita iuvant: le dimissioni per giusta causa non salvano il sindaco da responsabilità per omissione di controllo o denuncia

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LOCAZIONI COMMERCIALI La Corte di Cassazione ribadisce: sono nulle quelle clausole che prevedono l’automatico incremento del canone di locazione in maniera diversa o misura maggiore rispetto all’adeguamento Istat

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IMMOBILIARE Legittimo il rifiuto del promissario acquirente di stipulare il rogito se il promittente venditore non riferisce di avere ricevuto l'immobile in donazione

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TRIBUTARIO IMMOBILIARE Illegittima la rettifica catastale in assenza dei dettagli delle modifiche subite dalla microzona di riferimento e dal singolo immobile riclassato

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GIURISPRUDENZA DI LAVORO IN PILLOLE Selezione mensile di sentenze di legittimità

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231 & RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI Con la conversione in legge del D.L. 124/2019 (Decreto Fiscale) si amplia l’elenco di reati tributari che entrano a far parte di quelli presupposto ex D.Lgs 231/01, per i quali si conferma l’operatività della c.d. “confisca allargata”

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 301 del 24.12.2019 è entrata in vigore lo scorso 25/12 la Legge n. 157 del 19.12.2019 di conversione -con modificazioni- del D.L. 124/2019 rubricato “Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili” (il c.d. “Decreto Fiscale”). Come anticipato nell’ultima Newsletter, il legislatore ha scelto di allargare il novero di reati tributari da inserire tra quelli presupposto del D.Lgs. 231/01. Infatti, il nuovo art. 39 del Decreto Fiscale, come modificato dalla legge di conversione, stabilisce che: “Dopo l’articolo 25-quaterdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231, è aggiunto il seguente: Art. 25-quinquiesdecies (Reati tributari) 1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n.74, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall’articolo 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’articolo 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’articolo 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall’articolo 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote. 2. Se, in seguito alla commissione dei delitti indicati al comma 1, l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e)”, ovvero il divieto di contrattare con la PA, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da

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agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi con la revoca di quelli eventualmente già concessi e il divieto di pubblicizzare beni o servizi. Dunque, rispetto all’originaria formulazione dell’art. 39 che prevedeva l’inserimento di un solo reato tributario tra quelli presupposto del D.Lgs. 231/2001, ovvero il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 2 D.Lgs. 74/2000, il nuovo art. 25-quaterdecies del medesimo D.Lgs. 74/2000 ne aggiunge altri 4. Per la quasi totalità di questi delitti è pure prevista, in caso di condanna o patteggiamento, l’applicazione della c.d. confisca estesa ex art. 12-ter D.Lgs. 74/2000, anch’esso introdotto dal Decreto Fiscale in commento. Ai sensi di questa novella, infatti, “1. Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti di seguito indicati, si applica l’articolo 240-bis del codice penale quando: a) l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro duecentomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 2 [dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti]; b) l’imposta evasa è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 3 [dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici]; c) l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro duecentomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 8 [emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti]; d) l’ammontare delle imposte, delle sanzioni e degli interessi è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 11, comma 1 [sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte]; e) l’ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro duecentomila nel caso del delitto previsto dall’articolo 11, comma 2 [sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte]”. Dunque, a meno che non si tratti di una svista del legislatore, tra i reati tributari presupposto ex art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 231/2001, soltanto il reato di cui all’art. 10, ovvero l’occultamento o la distruzione di documenti contabili, non comporterebbe, allo stato attuale, l’applicazione della confisca estesa in caso di condanna o patteggiamento.

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CONTRIBUTI REGIONALI La Regione Emilia-Romagna offre contributi a fondo perduto alle imprese regionali che desiderano partecipare a Expo 2020 a Dubai

La Regione Emilia-Romagna, con delibera della Giunta Regionale n. 2325 del 22.11.2019, ha approvato il Bando straordinario per progetti di promozione delle imprese in occasione dell’Esposizione Universale di Dubai 2020. Alle imprese emiliano-romagnole che intendono realizzare azioni promozionali con ricadute internazionali nel periodo di durata di Expo Dubai 2020 (dal 20.10.2020 al 10.4.2021), tanto all’interno dell’area Expo quanto in altro contesto sempre negli EAU, la Regione concede contributi a fondo perduto fino al 50% delle spese ammissibili, per tali intendendosi:

(i) spese per prodotti e servizi finalizzati all’organizzazione degli eventi e delle iniziative di promozione;

(ii) il costo d’affitto dell’area utilizzata per l’iniziativa di promozione; (iii) i costi connessi all’allestimento dell’area; (iv) le spese di trasporto di materiali e di prodotti; (v) il costo di hostess e interpreti; (vi) il costo per la produzione di materiali promozionali in lingua inglese da

realizzare per la promozione dell’iniziativa, (10% del costo totale del progetto).

Non sono invece ammesse le seguenti spese: (a) per partecipazioni fieristiche; (b) di personale dell’impresa, delle reti di imprese o dei consorzi beneficiari; (c) spese generali (spese telefoniche, cancelleria, segreteria, ecc.); (d) spese di viaggio, vitto e alloggio di personale dell’impresa, delle reti di

imprese o dei consorzi beneficiari; (e) spese doganali; (f) spese per la certificazione dei prodotti o per la registrazione marchio; (g) spese relative all’acquisto o al nolo di uffici, negozi, magazzini, e quanto altro

sia dedicato ad attività permanenti o alla commercializzazione dei prodotti; (h) consulenze prestate per servizi continuativi o periodici, per contratti di

rappresentanza e agenti di commercio, o consulenze finalizzate alla gestione ordinaria dell’impresa, fra le quali (in modo non esaustivo): contabilità, gestione del personale, redazione e/o registrazione dei contratti, consulenza fiscale o legale.

Le domande di concessione del contributo dovranno essere presentate a partire dalle ore 9:00 del 3.2.2020 e fino alle 17:00 del 13.3.2020. Il valore minimo del progetto deve essere di € 15.000, mentre il valore massimo del contributo è di € 30.000 per le singole imprese, € 40.000 per le reti di imprese ed € 80.000 per i consorzi di imprese.

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E-COMMERCE & CONSUMATORI Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale UE la Direttiva 2019/2161 “per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori”

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale UE del 18.12.2019 della Direttiva 2019/2161, l'Unione Europea apporta sostanziali modifiche all’attuale quadro normativo composto dalle Direttive 93/13/CEE, 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE, imponendo agli Stati membri l’aggiornamento delle regole interne per una maggiore armonizzazione e l’allargamento della tutela dei consumatori, anche per i servizi digitali gratuiti che raccolgono dati. Innanzitutto, viene ridisegnato il quadro delle sanzioni per le violazioni dei diritti dei consumatori, soprattutto in caso di pratiche commerciali scorrette, incluso il marketing aggressivo. Tra le novità più significative, che dovranno essere recepite entro il 28.11.2021 e che in Italia porteranno alla modifica del Codice dei consumatori, la maggiore trasparenza nelle transazioni online che, con la nuova direttiva, include anche l’utilizzo delle recensioni, la fissazione personalizzata dei prezzi sulla base di algoritmi e la tutela nel caso di servizi digitali gratuiti. La principale modifica alla Direttiva 2005/29 -relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori- riguarda l’allargamento del suo raggio di azione con una nuova nozione di prodotto non limitata a beni e servizi, inclusi i beni immobili, ma estesa anche ai servizi e ai contenuti digitali. Viene esteso anche il perimetro delle azioni ingannevoli che non riguarderanno unicamente quelle relative ad informazioni false in grado di ingannare il consumatore medio, ma anche le attività di marketing che promuovono un bene in uno Stato membro facendolo apparire come identico a “un bene commercializzato in altri Stati membri”, malgrado la composizione o le caratteristiche siano “significativamente diverse”. Sulle omissioni ingannevoli sono previste maggiori responsabilità per il professionista che pubblica recensioni dei consumatori sui prodotti. In particolare, sono considerate informazioni rilevanti delle quali il consumatore ha bisogno per prendere una decisione consapevole, quelle che indicano “se e in che modo il professionista garantisce che le recensioni pubblicate provengano da consumatori che hanno effettivamente acquistato o utilizzato il prodotto”. Nell’applicare le sanzioni, gli Stati membri dovranno valutare le violazioni commesse in precedenza dal medesimo professionista. Il restyling dell’apparato sanzionatorio riguarda anche la Direttiva 93/13, con l’aggiunta di una norma in materia di sanzioni tra le quali figura quella di natura pecuniaria che, all'esito di un procedimento amministrativo o giudiziario, potrà

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arrivare ad un importo massimo pari al 4% del fatturato annuo del venditore o fornitore negli Stati membri oppure, in mancanza di questa informazione, a 2 mln di euro. Per gli obblighi informativi, la Direttiva 2019/2161 interviene inserendo una nuova norma sulle informazioni supplementari previste per i contratti conclusi su mercati online.

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INTERNAZIONALE 1. Stati Uniti, Messico e Canada apportano sensibili modifiche al testo dell'USMCA

Lo scorso 10.12.2019 Stati Uniti, Messico e Canada hanno sottoscritto un Protocollo di emendamenti al nuovo accordo di libero scambio nordamericano, noto come USMCA - United States–Mexico–Canada Agreement (o CUSMA - Canada-United States-Mexico Agreement, come preferiscono chiamarlo in Canada), già sottoscritto dalle parti il 30.11.2018 e che sostituirà il vecchio NAFTA - North American Free Trade Agreement in vigore tra le medesime parti dal 1.1.1994. Le modifiche, molte delle quali fortemente volute dagli Stati Uniti, riguardano: - la tutela del lavoro e dell’ambiente; - la risoluzione delle controversie tra Stati; - la proprietà intellettuale in materia farmaceutica; e - le regole di origine per i prodotti e componenti automobilistici. In sintesi, con le modifiche all’USMCA: (i) sarà più difficile per i veicoli a motore fabbricati in uno dei tre Paesi contraenti, ottenere un trattamento esente da dazio quando importati in altro Paese contraente; il testo USMCA sottoscritto a novembre 2018 già stabilisce che per i prodotti automobilistici la regola dell’origine si intende rispettata, e dunque è garantito il trattamento in esenzione dai dazi, soltanto se almeno il 70% dell’acciaio e dell’alluminio utilizzato dal produttore proviene dal suo Paese di origine. Le modifiche all’USMCA rafforzano ulteriormente queste regole imponendo che, a partire da 7 anni dopo l'entrata in vigore del nuovo accordo, l’acciaio o l’alluminio si intenderanno originari di un determinato Paese contraente soltanto se tutti i suoi processi di produzione (tranne alcuni processi metallurgici) si svolgono in quel Paese. Dunque, mentre gli input di materie prime, come rottami o minerali di ferro, potranno essere importati senza influire sull’origine, tutta la restante produzione -dalla fusione e dal versamento in avanti- dovrà avvenire in Canada, negli Stati Uniti o in Messico; (ii) ai Paesi contraenti non sarà più richiesto di modificare le rispettive leggi sulla proprietà intellettuale per i prodotti farmaceutici. In particolare, Messico e Canada non dovranno più concedere dieci anni di protezione brevettuale ai prodotti biologici (compresi i farmaci biologici), che nel caso del Canada avrebbe costituito una sensibile modifica rispetto alla protezione di otto anni attualmente concessa dalla sua legge interna; (iii) si ripristina il meccanismo di risoluzione delle controversie tra Stati già previsto dal NAFTA, con l’automatica costituzione del panel di giudici su richiesta di uno dei Paesi contraenti. Il meccanismo di risoluzione delle controversie per le controversie commerciali tra le parti, già introdotto dal NAFTA e ripreso dal testo USMCA del 2018, è di fatto sospeso da oltre 20 anni perché gli USA hanno sistematicamente bloccato la formazione del panel.

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Con la costituzione automatica del panel si mira pertanto a risolvere questa situazione di blocco; (iv) si evita scientemente di affrontare questioni ancora spinose, come la creazione di un’imposta sui servizi digitali. Il testo USMCA del novembre 2018 contiene un capitolo sul commercio digitale in gran parte conforme a quello previsto nell’Accordo TPP (Trans-Pacific Partnership) sul commercio elettronico e include, fatte salve le eccezioni sulla privacy, un divieto di localizzazione dei dati come condizione per fare affari in un Paese contraente. Una differenza importante rispetto al modello TPP è che il testo USMCA include una disposizione che richiama l’art. 230 del U.S. Communications Decency Act, il quale fornisce protezione ai fornitori di servizi Internet in relazione ai contenuti resi disponibili dagli utenti. In molti auspicavano la rimozione di questa disposizione con le modifiche in commento, ma così non è stato. Gli emendamenti, inoltre, omettono di intervenire sulle politiche fiscali digitali dei tre Paesi contraenti, i quali cercano di tassare le entrate generate da servizi digitali forniti nel loro territorio; (v) in caso di violazione delle leggi a protezione dei lavoratori o dell’ambiente da parte di uno degli Stati contraenti, sarà richiesto alla Parte accusata di provare il contrario; viene altresì istituito un comitato per monitorare l’attuazione da parte del Messico delle riforme del lavoro e il rispetto delle disposizioni USMCA in materia. L’USMCA, come modificato, entrerà in vigore il primo giorno del terzo mese successivo al momento in cui ciascuna Parte avrà notificato il proprio strumento di ratifica dell'accordo. Il Messico ha già ratificato lo USMCA modificato, mentre USA e Canada potrebbero provvedervi a gennaio; in tal caso il testo modificato dell’USMCA entrerebbe in vigore già il prossimo 1.4.2020.

2. Stati Uniti e Cina raggiungono l'accordo sulla “Fase Uno” di un futuro accordo di libero scambio

In data 13.12.2019 Stati Uniti e Cina hanno raggiunto l'accordo sulla c.d. “Fase Uno” di una futura intesa commerciale tra i due Paesi, così neutralizzando l’entrata in vigore dell’ulteriore round di dazi previsti per il 15.12.2019. Secondo quanto recentemente “twittato” dal Presidente Trump, la firma dell’accordo è prevista a Washington D.C., alla Casa Bianca, per il 15.1.2020 e subito si avvieranno i negoziati per la “Fase Due” mediante incontri delle parti a Pechino. L’intesa formalizza di fatto la prima tregua fra i due Paesi dall’avvio delle tensioni commerciali a metà 2018 e si compone di 6 capitoli che disciplinano questioni di proprietà intellettuale, trasferimenti di tecnologia, barriere non tariffarie in ambito agricolo, servizi finanziari, valuta e commercio. Quest’ultimo, in particolare, prevede l’impegno della Cina ad acquistare dagli USA, nei prossimi 2 anni, beni e servizi aggiuntivi per un ammontare non inferiore a 200 miliardi di USD, contribuendo in tal modo a ridurre il deficit commerciale esistente.

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Tale somma andrà suddivisa in quattro categorie merceologiche: prodotti agricoli, manufatti, energia e servizi. Al momento non è nota la quota riservata a ciascuna di tali categorie, fatta eccezione per i prodotti agricoli per i quali sono previsti maggiori acquisti da parte cinese per almeno 40 miliardi di USD all’anno. In cambio gli USA hanno bloccato l’aumento dei dazi del 15% sui restanti 160 miliardi di USD di import dalla Cina che sarebbero scattati il 15.12.2019 e si sono impegnati a ridurre delle metà (dal 15% al 7,5%) i dazi sui 120 mld di acquisti in vigore dal 1.9.2019. In parallelo la Cina ha neutralizzato la seconda tranche di dazi sulle 5.070 linee tariffarie corrispondenti a circa 75 miliardi di USD di import dagli USA, che sarebbe anch’essa entrata in vigore il 15.12.2019.

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SOCIETARIO 1. Anche l’atto di scissione societaria può essere oggetto di azione revocatoria ordinaria

Con la sentenza n. 31654 del 4.12.2019 la Corte di Cassazione ha deciso che l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., qualora ne ricorrano le condizioni, può essere validamente esperita anche nei confronti di un atto di scissione societaria, in aggiunta ai rimedi concessi ai creditori e già previsti dagli artt. 2506 – 2506 quater c.c.; infatti, “in difetto di adeguato fondamento normativo (…) non può quindi ritenersi che l'opposizione che compete ai creditori sia un rimedio sostitutivo e necessario e non solo aggiuntivo rispetto all'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria, di cui sussistano i presupposti”. In caso di scissione societaria il Codice Civile prevede una serie di tutele per i creditori sociali -come l’art. 2506-quater c.c. che disciplina la responsabilità solidale tra società scissa e società beneficiaria, nei limiti del patrimonio assegnato a quest’ultima, per le obbligazioni della società scissa che essa non riesca a soddisfare dopo che la scissione abbia avuto efficacia- oppure rimedi per opporsi alla scissione, come l’art. 2503 c.c. richiamato dall’art. 2506-quater c.c. Nella giurisprudenza di merito alcune sentenze hanno escluso l’esperibilità dell’azione revocatoria nei confronti dell’atto di scissione proprio in considerazione dell’anzidetto quadro normativo che costituirebbe un sistema sufficiente ed esclusivo per la tutela delle ragioni dei creditori della società partecipanti alla scissione. Un’altra parte della giurisprudenza di merito, invece, ritiene ammissibile l’azione revocatoria perché manca una norma che ne impedisca l’esperimento verso la scissione e sul fatto che l’azione revocatoria è un rimedio di carattere generale e, cioè, apprestato per ogni caso in cui il creditore vede diminuito il patrimonio del debitore per effetto di atti da questo compiuti in frode alle ragioni creditorie. Secondo questa tesi, l’esperimento dell’azione revocatoria non potrebbe essere ostacolato nemmeno dall’articolo 2504-quater c.c. secondo il quale, una volta iscritto l’atto di scissione nel Registro Imprese, non è più possibile contestarne la validità, atteso che l’accoglimento dell’azione revocatoria comporta l’inefficacia relativa dell’atto impugnato senza pregiudicare la stabilità dell’organizzazione societaria nel suo complesso. La pronuncia in commento della Cassazione, che aderisce a questo secondo filone di merito, pare essere la prima in materia, non rinvenendosi precedenti orientamenti di legittimità favorevoli o contrari all’esperibilità dell’azione revocatoria nei confronti di un’operazione di scissione societaria.

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2. Repetita iuvant: le dimissioni per giusta causa non salvano il sindaco da responsabilità per omissione di controllo o denuncia

Con la sentenza n. 32397 dell’11.12.2019 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di responsabilità solidale del sindaco in caso di suo omesso controllo oppure omessa denuncia all’autorità inquirente. Questi i fatti. I sindaci di una S.p.A. poi fallita sono stati condannati, in solido tra loro e con gli ex amministratori, al risarcimento dei danni causati dall’omessa denuncia al PM delle condotte contra legem poste in essere dall’organo gestorio. Non è bastato ai sindaci aver puntualmente rilevato le irregolarità commesse nella gestione della società, avendo suggerito le misure più corrette per il risanamento aziendale, e poi rassegnato le dimissioni definitive per giusta causa per avere l’organo gestorio impedito all’organo di controllo l’esercizio dei propri compiti. La Suprema Corte ha ricordato che dovendo “il comportamento dei sindaci ispirarsi al dovere di diligenza proprio del mandatario (secondo la formulazione dell'art. 2407 c.c., comma 1 vigente al tempo dei fatti di causa) o comunque essere improntato al principio di correttezza e buona fede, esso non può esaurirsi nel solo espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge, ma comporta l'obbligo di adottare ogni altro atto che sia necessario per l'assolvimento dell'incarico, come la segnalazione all'assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate e financo, ove ne ricorrano gli estremi, la denuncia al P.M. per consentirgli di provvedere ai sensi dell'art. 2409 c.c.”. La Corte ha ricordato altresì che “in presenza di gravi irregolarità ed illegittimità di tipo gestionale, l'insufficienza dei rimedi interni alla società non vale di per sè a determinare la non imputabilità all'organo sindacale del fatto impeditivo dell'efficace adempimento del dovere di controllo sull'amministrazione della società. Non essendo dubbia la legittimazione del sindaco (non già a promuovere il procedimento ex art. 2409, bensì) a denunziare la irregolarità al P.M. per l'esercizio dei poteri di iniziative che gli spettano, anche una tale iniziativa può divenire doverosa, quando sia rimasta, davvero, l'unica praticabile in concreto, per poter legittimamente porre fine alle illegalità di gestione riscontrate, o interrompere la successione di comportamenti contra legem che arrecano pregiudizio al patrimonio sociale. Rileva, a tal fine, la diretta incidenza del rimedio così esperibile non sulla tutela di interessi in qualche modo esterni alla società, bensì proprio sulla legalità e correttezza dell'azione sociale, nell'interesse della società stessa, che sono i valori istituzionalmente affidati anche ai sindaci”. Non è dunque sufficiente, per escludere qualsiasi responsabilità solidale in capo al sindaco, dimettersi per giusta causa qualora i rimedi societari siano insufficienti o ostacolati dall’organo gestorio, dovendosi -nel caso- attivarsi prontamente con la denuncia al P.M.

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Infatti “le dimissioni non sono certo idonee ad esimere da responsabilità, quando -come nel caso di specie- non siano accompagnate anche da concreti atti volti a contrastare, porre rimedio o impedire il protrarsi degli illeciti, per la pregnanza degli obblighi assunti dai sindaci proprio nell'ambito della vigilanza sull'operato altrui, e perchè la diligenza impone piuttosto un comportamento alternativo: equivalendo allora le dimissioni ad una sostanziale inerzia ed, anzi, divenendo esemplari della condotta colposa e pilatesca tenuta dal sindaco, del tutto indifferente e inerte nel rilevare la situazione di illegalità reiterata”.

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LOCAZIONI COMMERCIALI La Corte di Cassazione ribadisce: sono nulle quelle clausole che prevedono l’automatico incremento del canone di locazione in maniera diversa o misura maggiore rispetto all’adeguamento Istat

Con la sentenza n. 34148 del 20.12.2019 la Corte di Cassazione ha ribadito la nullità della clausola, inserita ab origine o successivamente aggiunta in un contratto di locazione commerciale, che prevede la maggiorazione del canone di locazione in misura maggiore a quella consentita con l’adeguamento ISTAT. Infatti, “in tema di locazioni di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 della legge n. 392 del 1978 ma veri e propri aumenti del canone deve ritenersi nulla ex art. 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunziare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti”. Aggiunge la Suprema Corte che “il diritto del conduttore a non erogare somme eccedenti il canone legalmente dovuto (corrispondente a quello pattuito, maggiorato degli aumenti c.d. Istat, se previsti) sorge nel momento della conclusione del contratto, persiste durante l'intero corso del rapporto e può essere fatto valere, in virtù di espressa previsione di legge, dopo la riconsegna dell'immobile, entro il termine di decadenza di sei mesi”. Però le parti sono sempre libere di modificare il contratto di locazione con una transazione novativa, così sostituendo il precedente rapporto locatizio con uno nuovo, avente contenuto diverso ed eventualmente canone di locazione maggiorato: “quanto sopra evidenziato non esclude, tuttavia, la ipotizzabilità di una valida transazione novativa, ove possa configurarsi sussistente, anche nel corso del contratto di locazione, pure con riferimento all'entità (in aumento) del canone”.

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IMMOBILIARE Legittimo il rifiuto del promissario acquirente di stipulare il rogito se il promittente venditore non riferisce di avere ricevuto l'immobile in donazione

Con la sentenza n. 32694 del 12.12.2019, la Corte di Cassazione ha sancito un innovativo principio in materia di compravendita immobiliare e del diritto del promissario acquirente di rifiutare di procedere alla stipula del contratto definitivo per inadempimento del promittente venditore. Secondo gli Ermellini, infatti, “in tema di preliminare di vendita, la provenienza del bene da donazione, anche se non comporta per sè stessa un pericolo concreto e attuale di perdita del bene, tale da abilitare il promissario ad avvalersi del rimedio dell'art. 1481 c.c. [sospensione del pagamento del prezzo se si teme che la cosa compravenduta possa essere rivendicata da terzi], è comunque circostanza influente sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell'acquisto programmato con il preliminare. In quanto tale essa non può essere taciuta dal promittente venditore, pena la possibilità che il promissario acquirente, ignaro della provenienza, possa rifiutare la stipula del contratto definitivo, avvalendosi del rimedio generale dell'art. 1460 c.c. [eccezione di inadempimento], se ne ricorrono gli estremi”. Quindi il promissario acquirente di un immobile proveniente da donazione deve essere messo al corrente di tale pericolo per valutare appieno la convenienza, non solo economica, dell’acquisto. Diversamente il promittente venditore, che taccia all’altra parte questa dirimente circostanza, si renderebbe inadempiente del proprio obbligo di garantire il compratore contro l’evizione del bene da parte di terzi. La sentenza si segnala perché effettua un ulteriore passaggio interpretativo ed evolutivo rispetto a principi piuttosto consolidati nella giurisprudenza di legittimità secondo i quali “il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere oggetto teoricamente di una futura azione di riduzione per lesione di legittima esclude di per sè che esista un pericolo effettivo di rivendica e che il compratore possa sospendere il pagamento del terzo o pretendere la prestazione di una garanzia” ex art. 1481 c.c. Per la Cassazione, infatti, non si può negare che la provenienza da donazione porta con sé la possibilità che questa possa essere attaccata in futuro dai legittimari del donante, i quali, una volta ottenutane la riduzione, potrebbero pretendere la restituzione del bene donato anche nei confronti dei terzi acquirenti. Nello stesso tempo, però, è altrettanto innegabile che la teorica instabilità insita nella provenienza non determina per sé stessa un rischio concreto e attuale che l’acquirente del donatario si veda privato dell’acquisto, ciò che pertanto porta all’esclusione del rimedio previsto dall’art. 1481 c.c. Osserva la Corte che il diritto alla legittima si costituisce solo al momento della morte del donante in base al valore dei beni, relitti e donati, riferiti a quel momento.

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Solo all’apertura della successione, quindi, è possibile appurare se sussiste una “lesione di legittima”. Inoltre, l’esistenza di una lesione di legittima non comporta necessariamente il sacrificio dei donatari, né tanto meno il sacrificio indistinto di tutti i donatari. Le donazioni infatti non sono riducibili se non dopo avere esaurito il valore dei beni relitti e comunque non si riducono proporzionalmente come le disposizioni testamentarie, ma secondo un criterio cronologico, cominciando dall’ultima e risalendo via via alle anteriori. A ridurre ulteriormente il rischio concreto ed effettivo di una possibile evizione del bene proveniente da donazione, e quindi per escludere il rimedio ex art. 1481 c.c., la Corte osserva che: a) il legittimario può pretendere dai donatari solo l’eventuale differenza fra la legittima, calcolata sul relictum e sul donatum, e il valore dei beni relitti: se questi sono sufficienti i donatari sono al riparo da qualsiasi pretesa, qualunque sia stata la scelta del legittimario nei riguardi dei coeredi e beneficiari di eventuali disposizioni testamentarie; b) il legittimario non può recuperare a scapito di un donatario posteriore quanto potrebbe prendere dal donatario anteriore: se la donazione posteriore è capiente le anteriori non sono riducibili, anche se la prima non sia stata attaccata in concreto con l'azione di riduzione. In base a tale sistema è inevitabile dedurne che l’esistenza di un rischio concreto e attuale a carico dell’avente causa del donatario, nel senso previsto dall’art. 1481 c.c., potrebbe dirsi attuale solo dopo la morte del donante, quando diviene attuale il diritto del legittimario. Questo, tuttavia, non significa che il promissario acquirente al quale sia stata taciuta la provenienza da donazione dell’immobile promesso in vendita non possa avvalersi dell’eccezione di inadempimento prevista dall’art. 1460 c.c. e rifiutarsi di sottoscrivere il contratto definitivo. In altre parole, è certo che in presenza di un concreto e attuale pericolo di rivendica, inteso nel senso sopra descritto, il promissario, al quale sia stata taciuta la provenienza da donazione, sarà certamente abilitato a rifiutare la stipula del contratto definitivo. Nello stesso tempo, però, tale conclusione non può voler dire a contrario che, fino a quando quel pericolo non sia configurabile, la provenienza da donazione sia circostanza irrilevante sulle condizioni dell'acquisto, tale da poter essere impunemente taciuta dal promittente venditore, rimanendo il promissario, ignaro della provenienza, invariabilmente obbligato all'acquisto. Quindi “il semplice fatto che il sistema di tutela dei legittimari contempli teoricamente eventualità che siano sacrificati anche gli acquirenti del donatario, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia, costituisce circostanza che non è priva di conseguenze sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell'acquisto programmato con il preliminare. Sotto questo profilo è decisivo il rilievo che il rischio, insito nella provenienza, esiste sempre, qualunque sia la situazione personale e patrimoniale del donante al tempo della donazione. Una donazione, che appare immune da rischi al momento della disposizione, perchè il disponente ha un patrimonio ampiamente capiente, potrebbe risultare lesiva al momento della morte.

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Nemmeno l'acquisto per donazione da chi sia privo in quel momento di congiunti rientranti nella categoria dei legittimari preserva da questo rischio, perchè i legittimari potrebbero sopravvenire successivamente. Ai fini della riducibilità non è consentita distinzione tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere dal rapporto da cui deriva la qualità di legittimario. D'altronde è fatto oramai di comune esperienza che il sistema bancario è restio a concedere credito ipotecario, se l'immobile offerto in garanzia sia stato oggetto di una precedente donazione. La mancanza di un pericolo concreto ed effettivo di rivendica da parte del legittimario non è allora argomento sufficiente per negare al promissario, ignaro della provenienza, la facoltà di rifiutare la stipula del definitivo avvalendosi del rimedio generale dell'art. 1460 c.c. Non si può negare a priori che già il rischio teorico che l'acquirente possa trovarsi un giorno esposto alla pretesa del legittimario, con i correlativi impedimenti alla circolazione del bene che da subito quel rischio si porta dietro, possa rappresentare, nelle singole situazioni concrete, un elemento idoneo a pregiudicare la conformità del risultato traslativo attuabile con il definitivo rispetto a quello programmato con il preliminare”.

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TRIBUTARIO IMMOBILIARE Illegittima la rettifica catastale in assenza dei dettagli delle modifiche subite dalla microzona di riferimento e dal singolo immobile riclassato

La Corte di Cassazione è intervenuta con due distinte decisioni in materia di revisione del classamento ex art. 1 c. 335 c.1 L. 311/2004, dettando in entrambi i casi le condizioni per la validità dell’operazione dell’Agenzia del Territorio. 1. Con l’ordinanza n. 33031 del 16.12.2019, la Corte ha deciso che è illegittima la rettifica catastale operata dall’Agenzia in difetto dell’esatta descrizione del metodo seguito per il nuovo classamento e soprattutto dei parametri, dei fattori determinativi e dei criteri di riclassificazione della microzona di riferimento che hanno portato all’incremento della classe dell’immobile. Nel caso di specie l’Agenzia del Territorio ha notificato ad un contribuente un avviso di accertamento rettificativo della classificazione di un immobile di sua proprietà. Nei primi due gradi i giudici di merito avevano dichiarato la legittimità dell’atto di classamento, ma la Cassazione ha ribaltato questi verdetti rilevando innanzitutto che l’atto di classamento consiste nella collocazione di ogni singola unità in una data categoria e classe, in base alle quali è attribuita la rendita. La categoria è assegnata in considerazione della normale destinazione funzionale dell’unità immobiliare, tenuto conto dei caratteri tipologici e costruttivi specifici e delle consuetudini locali. La classe, invece, rappresenta il livello reddituale ordinario dell’immobile, ed è attribuita in base alle caratteristiche edilizie e alla qualità urbana e ambientale della sua microzona (infrastrutture, livello di pregio, degrado paesaggistico, ecc.). Nel nostro ordinamento possono individuarsi 3 ipotesi di revisione del classamento su iniziativa dell’Amministrazione. Con la prima (art. 3, L. 662/1996) il Comune può chiedere l’intervento dell’Agenzia delle Entrate per ottenere la revisione di un immobile, quando il relativo classamento risulti non aggiornato o palesemente incongruo rispetto a fabbricati similari. Un’altra ipotesi (art. 1, c. 336, L 311/2004) riguarda il classamento di fabbricati che non sono stati dichiarati o che hanno subito variazioni edilizie non denunciate. L’ultima (art. 1, c. 335, L. 311/2004) consente la rettifica del classamento quando il rapporto tra il valore medio di mercato e il corrispondente valore catastale si discosta significativamente dall’analogo rapporto delle microzone interessate. La Cassazione ha così precisato che le tre citate ipotesi sono tra loro distinte ed hanno presupposti, condizioni e procedure diverse. Più precisamente, le prime due dipendono da fattori riguardanti il singolo immobile considerato, la terza, invece, attiene a variazioni catastali dipendenti da fattori che interessano la macroarea. Con riferimento a quest’ultima ipotesi, se l’Agenzia del Territorio intende rivedere il classamento deve seguire un iter composto di due fasi:

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“Nella prima fase, ha l'onere di accertare i presupposti di fatto che legittimano la c.d. riclassificazione di massa. Nella seconda fase l'Amministrazione ha l'onere di individuare ed applicare i parametri, i fattori determinativi ed i criteri di riclassificazione della singola unità immobiliare”. Per la correttezza della revisione è dunque necessario che “siano esattamente identificati, calcolati, rilevati ed elaborati i quattro parametri prescritti dalla norma e cioè: il valore medio di mercato della microzona (per mq); il valore catastale medio della microzona; il valore di mercato medio per l'insieme di tutte le microzone; il valore catastale medio per l'insieme di tutte le microzone”. In particolare, prosegue la Suprema Corte, “per questi due ultimi parametri occorre che sia specificato se la media dei valori di mercato e catastali per la generalità degli immobili del territorio comunale sia stata effettuata sulla base dei valori delle singole unità immobiliari ovvero facendo la media dei valori medi delle singole microzone. In questa seconda ipotesi, infatti, il metodo sarebbe erroneo se attuato senza i necessari meccanismi di correzione, data la diversa composizione quantitativa delle singole microzone ed i conseguenti ovvi effetti distorsivi. Allo stesso modo, è necessario che siano specificati i criteri in base ai quali è stato operato il rapporto tra valori catastali e valori di mercato: posto che i primi fanno riferimento ai vani ed i secondi ai metri quadri di superficie, il rapporto tra due misure così disomogenee ha bisogno di essere in qualche modo corretto ed occorre dar conto di come ciò sia stato fatto. Infine, occorre che sia specificata la data alla quale faccia riferimento la rilevazione della media dei valori medi catastali e la data della rilevazione della media dei valori di mercato. Senza una piena coincidenza delle date di rilevazione le comparazioni tra zona e zona ipotizzate dalla norma non hanno infatti alcun senso e la mancata specificazione dell'anno di riferimento impedisce al contribuente di effettuare il controllo dell'informazione fornita e di svolgere al riguardo le sue difese. Anche con riferimento alla seconda fase della valutazione, atteso il carattere diffuso dell'operazione, l'avviso di accertamento deve essere adeguatamente motivato in ordine agli elementi che, in concreto, hanno inciso sulla revisione in relazione al singolo immobile”. Ciò in quanto “la revisione serve a riallineare la microzona "anomala" alle altre mediante la rideterminazione delle rendite catastali delle singole unità immobiliari, in essa situate, che abbiano risentito del significativo aumento di valore della microzona di appartenenza. Devono pertanto essere spiegate le ragioni in virtù delle quali il significativo aumento del valore medio di mercato degli immobili siti nella microzona "anomala" abbia avuto una ricaduta (e in quali termini di classamento e di rendita catastale) sulla specifica unità immobiliare che viene assoggettata al riclassamento. Inoltre, deve anche essere illustrato il metodo utilizzato per eseguire l'intervento perequativo, mediante l'indicazione delle operazioni compiute e dei dati utilizzati”. Nel caso deciso dall’ordinanza in commento, l’atto di classamento impugnato non riportava i dati sopra descritti, sicché è stato annullato. 2. Con l’ordinanza n. 34297 del 23.12.2019 la Suprema Corte ha reiterato il principio secondo cui “in tema di estimo catastale il nuovo classamento adottato ex articolo 1, comma 335, della legge 211/2004 soddisfa l'obbligo di motivazione se, oltre a contenere il riferimento ai parametri di legge generali, quali il significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato e il valore catastale rispetto

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all'analogo rapporto sussistente nell'insieme delle microzone comunali e ai provvedimenti amministrativi su cui si fonda, consente al contribuente di evincere gli elementi che non possono prescindere da quelli previsti dalla legge (quali la qualità urbana del contesto nel quale l'immobile è inserito, la qualità ambientale della zona e altro). Elementi che in concreto hanno inciso sul diverso classamento, ponendo il contribuente, in condizione di conoscere ex ante le ragioni specifiche che giustificano il singolo provvedimento di cui è destinatario, seppur inserito in un'operazione di riclassificazione a carattere diffuso”. Dunque anche le qualità costruttive e ambientali del singolo immobile devono essere valutate dall’atto di revisione del classamento; altrimenti è impugnabile per vizio di motivazione.

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GIURISPRUDENZA DI LAVORO IN PILLOLE Selezione mensile di sentenze di legittimità

Si riportano di seguito alcune sentenze in materia di lavoro emesse dalla Corte di Cassazione nel mese di dicembre.

Il possesso di droga al di fuori degli ambienti e orari di lavoro legittima il licenziamento, se così è previsto nel CCNL (Cass. n. 31531 del 3.12.2019) Nel caso di specie un dipendente di Poste Italiane S.p.A., addetto alla mansione di portalettere, era stato sottoposto a procedimento penale per il possesso di diverse tipologie di sostanze stupefacenti -circa 60 gr.- conclusosi con sentenza di patteggiamento alla pena di 4 mesi di reclusione ed € 800,00 di multa, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Il datore di lavoro, tuttavia, appresa tale vicenda extra lavorativa e all’esito di procedura disciplinare, ha intimato al dipendente il licenziamento per giusta causa ai sensi delle previsioni del CCNL di settore invocando fatti di gravità tale da ledere irreversibilmente il rapporto di fiducia tra le parti. Tribunale e Corte d’appello hanno respinto l’impugnativa del licenziamento perché il CCNL invocato dal datore di lavoro prevede espressamente l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso allorché il lavoratore sia condannato con sentenza passata in giudicato -alla quale è da equiparare, ai fini del procedimento disciplinare, la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.- per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario. La Corte ha altresì ricordato che “con specifico riferimento ai dipendenti di Poste Italiane s.p.a. è stato affermato che una condotta estranea all'esecuzione della prestazione lavorativa può assumere rilievo allorché sia di gravità tale da compromettere il rapporto fiduciario fra le parti, avuto riguardo, fra l'altro, alla natura dell'attività svolta dal datore di lavoro (v. Cass. n. 3136 del 2015). In tale ultima sentenza è stato osservato che "..è infatti noto che l'attività, dello Stato o degli enti pubblici, intesa a soddisfare pubblici interessi, assenti nei fini dei medesimi soggetti pubblici, può essere svolta attraverso attività costituenti diretta manifestazione dell'autorità degli stessi soggetti ossia come attività della pubblica amministrazione, che si trova in posizione di supremazia nell'interesse generale della collettività, oppure attraverso un'attività privatistica, caratterizzata dalla posizione di parità del soggetto che opera per la soddisfazione dell'interesse pubblico e soggetti collaboratori ovvero fruitori del servizio. Quest'attività privatistica può essere svolta, come avviene spesso e in particolare per il servizio postale, mediante la costituzione di società con capitale prevalentemente o totalmente pubblico. La natura privatistica

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di questi soggetti societari spiega perchè essi debbano operare in regime di concorrenza oppure perchè siano assoggettati al comune regime della contribuzione previdenziale (Cass. 10 dicembre 2013 n. 27513) o delle garanzie legislative a tutela dei lavoratori contro situazioni di precariato (Cass. 18 ottobre 2013 n. 23702). Tuttavia l'impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., non è senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza, anche nella condotta extralavorativa”. Quindi non tutti i casi di possesso extra lavorativo di sostanze stupefacenti legittimano il licenziamento, ma solo quelli espressamente previsti dal CCNL e da esso sanzionati con la pena espulsiva giustificata dalla particolare natura dell’attività svolta dal datore di lavoro.

Sacrosanto il diritto di critica del dipendente, nei limiti della “continenza formale e sostanziale” (Cass. n. 31395 del 2.12.2019) Si è trattato del licenziamento di un operatore ecologico, che rivestiva anche la carica di delegato sindacale, per aver rilasciato dichiarazioni su un quotidiano locale in merito al trasferimento di un collega di lavoro da un Comune ad un altro, senza alcun utilizzo di toni dispregiativi, volgari, denigratori o polemici. Il giudice d’appello, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato la nullità del licenziamento. La Suprema Corte, nel confermare la decisione del giudice di secondo grado, ha precisato che “l’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro può essere considerato comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro, e costituire giusta causa di licenziamento, quando avvenga con modalità tali che, superando i limiti della continenza formale, si traduca in una condotta gravemente lesiva della reputazione, con violazione dei doveri fondamentali alla base dell’ordinaria convivenza civile”. Quindi la critica può “trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare, laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana (…) ossia della corrispondenza a verità dei fatti narrati (c.d. continenza sostanziale) e delle modalità espressive che possano dirsi rispettose dei canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui (c.d. continenza formale), anche considerando che le modalità espressive possono assumere una valenza diversa a seconda che la manifestazione del pensiero sia contenuta in un articolo di stampa o in un servizio televisivo, oppure in un’opera letteraria o cinematografica, o in un pezzo di satira, ovvero se la critica sia esercitata nell’ambito di un rapporto contrattuale di collaborazione e fiducia che lega lavoratore e datore di lavoro”. Poiché sia il giudice d’appello che la Suprema Corte hanno accertato che tutte le circostanze riferite dal dipendente erano corrispondenti al vero, sottolineando così la veridicità della dichiarazione, il licenziamento è stato giustamente dichiarato illegittimo.

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Repêchage: la Cassazione torna ad occuparsene, con una decisione che ricapitola i principi sino ad oggi espressi in materia (Cass. 31520 del 3.12.2019) Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha stabilito che “nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può ritenersi che non vengono in rilievo, ai fini dell'obbligo del repêchage, tutte le mansioni inferiori dell'organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con il bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza. Ciò è possibile affermare (…) in un'ottica di compatibilità e di non ingerenza nella determinazione dell'assetto aziendale, non essendo previsto un obbligo del datore di lavoro, secondo la precedente versione dell'art. 2103 c.c., di fornire un'ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro. Resta fermo, comunque, che grava sul datore di lavoro l'obbligo di provare - in base a circostanze oggettivamente riscontrabili - che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell'obbligo di repêchage risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell'imprenditore”. Pare una sentenza leggermente recessiva rispetto ad altri orientamenti già espressi in passato dalla medesima Corte, nei quali si era deciso che l’obbligo di repêchage in capo al datore di lavoro si doveva spingere fino a verificare, eventualmente col consenso del lavoratore, la possibilità di conservare il rapporto di lavoro adibendolo anche a mansioni inferiori, senza l’obbligo di verificare che le mansioni inferiori fossero compatibili con col bagaglio professionale del lavoratore. La Suprema Corte è arrivata alla conclusione in commento seguendo questo iter logico-motivazionale, ricostruttivo anche dei principi cardine in materia: - l’obbligo di repêchage, ossia l’onere di riutilizzare il dipendente interessato dal recesso in altre mansioni diverse da quelle che svolgeva, costituisce una creazione giurisprudenziale unanimemente riconducibile alla tematica del giustificato motivo oggettivo del licenziamento che richiede la prova datoriale ex art. 5 L. 604/1966; - la finalità dell’istituto è garantire, attraverso un contemperamento tra l’interesse del datore di lavoro a perseguire una organizzazione produttiva ed efficiente e quello del lavoratore diretto alla stabilità del posto, che il recesso datoriale rappresenti l’extrema ratio cui ricorrere; - la regola del repêchage, che non è applicabile a tutte le tipologie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, viene sicuramente in rilievo nella fattispecie in esame ove la causale del recesso intimato è stata individuata nella soppressione della posizione lavorativa; - la problematica specifica sottesa al motivo, oltre all’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni anche inferiori, coinvolge una serie di questioni riguardanti sia l’obbligo di prospettazione che incombe sul datore di lavoro in ordine all’utile tentativo di reimpiego del lavoratore anche in mansioni inferiori, sia il contenuto dell’obbligo datoriale in relazione alla individuazione delle mansioni stesse cui potenzialmente adibire il destinatario del recesso; - quanto alla prima tematica, in attuazione del principio di buona fede e di correttezza, il datore di lavoro deve prospettare al dipendente, al fine di ottenerne il consenso, la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori e l’eventuale consenso, a

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tale prospettazione, deve essere anteriore o coevo al licenziamento e non può essere successivo ad esso; - il consenso, inoltre, deve essere espresso liberamente, anche in forma tacita, ma attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del lavoratore di aderire alla modifica “in peius” delle mansioni; - la motivazione dell’eventuale licenziamento, poi, non deve essere dettagliata sul punto, nel senso di dovere esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento, ma deve essere in grado di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; - quanto alla seconda tematica sopra richiamata, è pacifico che la possibilità del cd. repêchage vada condotta con riferimento a mansioni equivalenti; - la giurisprudenza si è, però, posta il problema se l’espulsione del lavoratore dal processo produttivo non possa avvenire se non prima che non sia stato tentato ogni utile tentativo di reimpiego all’interno dell’azienda, anche in mansioni inferiori e su tale tema si registrano varie posizioni nell’ambito della giurisprudenza di legittimità; - secondo un risalente orientamento che poneva come presupposto del proprio argomentare il divieto del “patto di demansionamento”, sancito dall’art. 2103 c.c., nella versione antecedente alla novella legislativa del 2015, l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, in ottemperanza a tale divieto, poteva risolversi anche in un pregiudizio per il prestatore stesso, così escludendo del tutto la possibilità di impiego in mansioni inferiori; - si è poi affermato un altro indirizzo che, proprio partendo da alcune eccezioni al divieto del patto di demansionamento previste dal legislatore, ha ritenuto possibile l’interesse al mantenimento del posto di lavoro rispetto all’estinzione del rapporto. Ad esempio, nell’ipotesi di sopravvenuta infermità permanente, con conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, è stato affermato il principio con il quale si è valorizzata l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente inidoneo, costituendo tale possibilità un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto: adeguamento che deve essere sorretto, oltre che dall’interesse, anche dal consenso del prestatore. In tal caso le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro sono state considerate prevalenti su quelle della salvaguardia della professionalità del lavoratore; - quindi, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha operato una sintesi dei due orientamenti affermando sì la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori, purché queste rientrino nel bagaglio professionale dello stesso; - a tal proposito si è anche precisato che, qualora il lavoratore svolga ordinariamente in modo promiscuo mansioni inferiori oltre a quelle soppresse, sul datore di lavoro grava l'obbligo di repêchage anche per tali mansioni inferiori, nel rispetto della ragionevolezza dell’operazione e della dignità del lavoratore consenziente.

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