NèuraMagazine #3

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Nèura Magazine Numero 3 Modi di abitare Nèurastenie Gli appuntamen della semana 18-24/10 “Fiato d’arsta” Picasso a Milano I vetri di Savona Eunomia Ugo La Pietra racconta Milano I musei Vasarely tra Francia e Ungheria Logo ©Cristiano Baricelli 18 ottobre 2012 Non È Una Rivista d’Arte Pablo Picasso, Nu couché, 4 avril 1932. Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palaz- zo Reale in Milan from September 2012 to January 2013. © Succession Picasso by SIAE 2012 Pablo Picasso

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Modi di abitare

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Nèura Magazine Numero 3

Modi di abitare

Nèurastenie

Gli appuntamenti della settimana 18-24/10

“Fiato d’artista”

Picasso a MilanoI vetri di Savona

Eunomia

Ugo La Pietra racconta MilanoI musei Vasarely tra Francia e Ungheria

Logo ©Cristiano Baricelli

18 ottobre 2012Non È Una Rivista d’Arte

Pablo Picasso, Nu couché, 4 avril 1932. Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palaz-zo Reale in Milan from September 2012 to January 2013. © Succession Picasso by SIAE 2012 Pablo Picasso

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Logo in copertina e a pagina 3: ©Cristiano Baricelli, Ictus, 2005

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Indice - Numero 3

Eunomia - Ugo La Pietra: Abitare la città, raccontare

Milano

“Fiato d’artista” - Picasso, un eroe per tutte le stagioni

Eunomia - I due volti di Victor Vasarely: Aix-en-

Provence e Budapest

“Fiato d’artista” - Vetri d’artista. Non solo Murano

Nèurastenie - Maestri

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Eunomia - Ugo La Pietra: Abitare la città, raccontare Milano

Anna Castellari

Abbiamo incontrato Ugo La Pietra nel suo studio vicino a via Sarpi, a Milano. Tra i mille oggetti delle sue ricerche sulla città, un tavolo colmo di opere e una lezione d’arte contemporanea, l’artista ci racconta Mila-no (e le città d’Italia) secondo lui.

La mostra raccoglie un po’ tutti i suoi lavori riguardanti la cit-tà, dagli anni sessanta a oggi. Ce ne può parlare?

La mostra raccoglie una serie di lavori dagli sessanta a oggi, riferiti

Artefatti cinesi. Credits: Ugo La Pietra

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esclusivamente alla città di Milano (intesa come collocazione). Non si sofferma su tutti i miei lavori, solo su alcune esemplificazio-ni. Questo perché, quando faccio ricerche su certi soggetti legati all’ambiente urbano, opero una ricognizione su un argomento par-ticolare, su un territorio preciso, e produco una serie di lavori, tren-ta, quaranta, cinquanta... sufficienti per farne ogni volta una mo-stra. Nel momento in cui espongo alcune ricerche, è chiaro che si tratta di un’esemplificazione molto ridotta: ad esempio, su sessanta opere ne porto due o tre, introspettive.

Rispetto all’artista tradizionale o non tradizionale, il mio lavoro parte da alcuni temi, e trova poi materiali e strumenti per raccontar-li o indagarli. Ecco perché gran parte del mio lavoro è fatto di cose diverse: molti mi considerano un filmmaker, altri uno che ha lavo-rato con la fotografia, molti conoscono la mia pittura segnica, al-tri i lavori oggettuali. Non ho mai utilizzato un solo linguaggio, un solo mezzo espressivo.

Questa mostra esemplifica in maniera coerente le esperienze di ricerca sul territorio attraverso la documentazione e l’elaborazione (sono tutte elaborazioni fotografiche).

La sua è una ricerca propositiva o puramente introspettiva?Le mie ricerche hanno sempre un carattere di denuncia, analisi

critica, decodificazione. Già negli anni sessanta avevo teorizzato una modalità personale di estrinsecare questo lavoro, il cosiddetto siste-ma disequilibrante: si tratta di rompere l’equilibrio di persone, di cittadini che guardano la realtà in un modo codificato, e sono quin-di incapaci di leggere oltre le forme imposte, che dovrebbero inve-ce essere superate e trasgredite. Il mio lavoro può diventare una de-nuncia, o una semplice lettura di elementi più profondi, non facil-mente leggibili.

Quali sono gli elementi principali che vuole che il pubblico colga dalla mostra?

Non un’opera ma una quindicina di temi che ho sviluppato, dal sessanta a oggi, guardando la città di Milano e osservandone alcuni aspetti caratteristici: a quell’epoca la periferia si trasformava e c’era bisogno di recuperare la manualità. È una delle necessità cui facevo

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cenno prima e che – ancora oggi – considero un fenomeno della nostra società, che cerca sempre di superare la dimensione della vir-tualità, per entrare in quella fattuale (vedi tutte le correnti di design che vogliono recuperare l’artigianato).

Il monumentalismo è un altro tema che Milano ha coltivato, at-traverso i grattacieli: e qui sono praticamente inutili, perché nascono dalla necessità di collocare più gente possibile in uno spazio limita-to. Infatti, sono rimasti mezzi vuoti. Si tratta di operazioni di specula-zione edilizia e non di reali necessità di carattere sociale. Denunciare queste operazioni è uno degli scopi che la mostra si prefigge.

Come è cambiata la città di Milano nel corso di questi anni?Uno dei cambiamenti più radicali che si è sviluppato negli ultimi

vent’anni è la composizione della città, in termini di formazione di ghetti o ‘quasi ghetti’. Per esempio, il quartiere Sarpi contiene trenta-mila abitanti cinesi. Penso a New York, dove si è creata una situazio-ne molto critica. Da sempre, due elementi diversi, se accostati, han-no un punto di contatto, così tra due gruppi sociali, o segni diversi: bene, quel punto rappresenta la rottura, il momento critico. La so-luzione migliore, quindi, sarebbe non creare mai situazioni estreme.

Milano città senza morale. Credits: Ugo La Pietra

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L’altro punto critico – la parte peggiore, soprattutto a Milano – è che un pezzo della città si è progressivamente trasformato in un porto, un deposito di container provenienti dalla Cina, si è svilup-pato un traffico di carico e scarico sproporzionato e anomalo. Tut-to ciò è una follia, è una delle più grosse forme di devastazione del tessuto urbano.

E non finisce qui. Ricordiamo anche che ogni anno, a Milano, c’è una grande kermesse, dove si condensa un alto tasso di qualità cre-ativa e di design: il Salone del Mobile e il Fuorisalone. Finito tut-to, dopo quattro giorni di feste e bagarre, come nei paesi della tra-dizione, le giostre e le luminarie si smontano, e si ritorna come pri-ma, senza vantaggi aggiunti. La città, certamente, è diventata negli anni un centro internazionale di confronto, ma ha perso il prima-to della vendita. Il Salone è oggi un luogo di scambi, di confron-ti, dove s’incontra il meglio delle genialità del design mondiale. Ep-pure, nonostante questo, la città è una delle più miserande e pove-re al mondo quanto ad ambiente e arredo urbano. Ci troviamo in una realtà radiocentrica: tutte le piazze o, più in generale, gli spazi aperti, sono mostruosi incroci di strade. Non ci è dato di conosce-re il valore della piazza, tranne quella del Duomo che però è sovra-dimensionata, rispetto alle altre italiane. Soffriamo a causa di una struttura così diversa e non abbiamo una città che guarda alle ne-cessità e ai comportamenti dell’individuo. E il consumo è esagerato: tutto ciò che si deve ‘fare’, costa, e quel tanto di comfort non è ga-rantito: per esempio non si può riposare, non ci sono panchine, se non nei parchi. Milano è una città poverissima per quanto concer-ne i servizi alla cittadinanza.

Tornando al Salone, mi è venuto in mente che forse c’è una to-tale mancanza di dialogo tra una manifestazione così e la citta-dinanza di Milano.

È vero, ma solo in parte. La città ne approfitta: il dialogo c’è se il Comune deve concedere spazi a pagamento. Va benissimo, e que-sti non bastano mai, come per la moda. Basta pagare, e il Comune è contento. Piazza Duomo era piena di padiglioni, come una fiera, purché si paghi.

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Parlavo proprio del dialogo con il pubblico, che è comple-tamente venuto a mancare... è tutta colpa dei cittadini o è una mancanza di manifestazioni come questa?

Il dialogo con le amministrazioni esiste in quanto sfruttamen-to reciproco. Ma i cittadini sono abituati a vedere Milano come un luogo che non dà niente, è un’abitudine ormai consolidata. Nessu-no si aspetta di vedere il lungo naviglio come luogo di piacere, ri-poso, godimento – come a Parigi sul lungo Senna. Spesso, nelle cit-tà che si affacciano su fiumi e canali (come Tolosa) c’è un minimo di godimento. La natura viene in qualche modo organizzata; è pre-sente un’attenzione per il paesaggio che Milano non ha mai avuto. Come dicevo, le piazze non ci sono anche per una questione strut-turale, non c’è un fiume ma avevamo i canali, esistono elementi na-turali che possono contribuire a un incremento del benessere, ma sono quasi scomparsi.

Milano, orti urbani, 1969. Credits: Ugo La Pietra

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In alternativa si potrebbe lavorare sull’artificio, come fanno a Ri-mini, dove il mare è inesistente e si punta sul divertimento. Mi stu-pisco anche per questo: tutto questo ingegno milanese, i designer e gli architetti non hanno prodotto niente. In questo senso, non c’è dialogo tra amministrazione, creatività, qualità e ingegno: c’è sem-pre stato, ma non si è mai espresso.

Dal punto di vista espositivo come vede i cambiamenti nella città?C’è una cosa leggibilissima. Il degrado è enorme: di mostre se ne

vedono tante, fin troppe. Ma cosa non vedi mai? Una mostra di progetto. Cioè, si ha la possibilità di visitare esposizioni con ope-re che arrivano da lontano, ad esempio di grandi artisti come Van Gogh, Picasso, ma sono sempre ‘chiuse’ in se stesse.

Certo, in alternativa ci sono autori nostrani. Ma sono sempre più rare le mostre che si soffermano su un tema

contemporaneo, come l’indagine o l’esplorazione delle periferie, della vita e del tempo libero, esplorativo. Oggi, riuscire a fare pro-grammi concreti sul lungo termine sembra sempre più complesso: per questioni politiche, commissariamenti, ma anche finanziamen-ti ridotti all’osso.

Nei musei stranieri, quando si fa una mostra di ricerca, si lavora a lungo. Qui invece funziona in modo un po’ diverso: si telefona a un po’ di galleristi, si mette tutto insieme, e si parte, con un budget molto basso. Che poi questo sia solo una scusa per non affrontare una mostra come si deve è un altro discorso.

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“Fiato d’artista” - Picasso, un eroe per tutte le stagioni

Roberto Rizzente

Se n’è parlato per mesi. Le vie della città sono state prematuramente tappezzate di manifesti. Politici e assessori hanno fatto a gara per tessere le lodi di questa mostra grandiosa, la terza a Milano dedicata a Pablo Picasso (1881-1973), dopo quelle del 1953 e del 2001, attirando a sé e alla propria amministrazione i meriti dell’operazione. Logico presu-mere, dinanzi a tanta sicumera e considerando il nome di Picasso — c’è una società, la Picasso Administration, deputata alla tutela e lo sfrutta-mento dei diritti d’immagine — una qualche gabola.

Come talvolta accade, a Palazzo Reale: si ricordino solo, nel 2004 e 2010, le mostre su Van Dyck e Cattelan. E come inse-gnano i casi di Linea d’ombra a Brescia o Torino: mostre gran-diose, un battage pubblicitario imponente, numeri impressionanti

Pablo Picasso, Massacre en Corée, 18 gennaio 1951. Olio su compensato, cm 110 x 210.Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palazzo Reale in

Milan from September 2012 to January 2013 © Succession Picasso by SIAE 2012

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al botteghino. Ma povere dal punto di vista dell’allestimento e dell’innovazione. Tanto da far pensare a un’intelligente e sgama-tissima operazione di marketing, più che ad un’operazione cultu-rale storicamente fondata.

Nonostante le premesse, “Picasso. Capolavori dal Museo Naziona-le Picasso di Parigi” (fino al 6 gennaio) ha una sua ragione di essere. Merito principale dell’operazione è quello di aver fatto conoscere in Ita-lia la collezione del Museo Picasso di Parigi. Dal 2008, anno del restau-ro dell’Hotel Salé, il Museo ha avviato una tournée mondiale (Europa, Medio Oriente, Giappone, Russia, Stati Uniti, Australia, Cina, Taiwan, Canada), nella quale Milano è stata lesta a infilarsi. Sono 250 le opere, alcune delle quali inedite in Italia, distribuite al piano nobile su una su-perficie di oltre 2.000 metri quadri.

L’allestimento di Anne Baldassari segue il percorso cronologico impresso da Picasso, che nella sua convulsa vicenda biografica ha at-traversato più strade, sempre esaurendo le vecchie e aprendone di nuove. Si comincia con una ricostruzione virtuale di Guernica, si-gnificativamente collocata, come nel 1953, nella Sala delle Cariati-di. Al centro, una serie di pannelli per ricostruirne l’evoluzione, la ricerca sulle fonti, gli studi cromatici, le tematiche e un’intelligen-te documentazione fotografia sull’uomo Picasso, attraverso lo sguar-do, tra gli altri, di Dora Maar, Doisneau e Robert Capa.

Si prosegue con le opere giovanili: La morte di Casagemas, 1901, anteriore all’arrivo a Parigi. E poi La Célestine (1904), Le Fou (1905), opere chiave del periodo blu e poi del periodo rosa, note-voli per l’insofferenza alle forme precostituite e la predilezione per la monocromia. Troppo ridotta la sezione cubista, a lungo prepa-rata (Tre figure sotto un albero, 1908), e poi rilanciata dalla Testa di donna (Fernanda) del 1909 e il dittico Uomo con chitarra e Uomo con mandolino del 1911. Fino alle sperimentazioni tridimensionali dei primi collages, le composizioni (la Chitarra del 1912) e le con-structions (Chitarra e bottiglia di Bass, 1912).

Né mancano le opere degli anni Venti, segnate da un generico ri-torno all’ordine e l’amore per il classico, Ingres e gli impressionisti (Ritratto di Olga in poltrona, 1917, Due donne che corrono sulla spiag-gia, 1922, Paulo nei panni di Arlecchino, 1924). O la produzione surrealista, che impone un certo dinamismo alla tela, sostituendo

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la linea curva alla rigida griglia d’impronta cubista. Come nelle “Te-ste di Boisgeloup”, dedicate alla modella Marie Thérèse e notevoli per la sperimentazione formale che arriverà a livelli attualissimi, ne-odada, nella Testa di donna del 1929-1930, in ferro, molle, lamie-ra e scolapasta.

Ma il vero clou della mostra sono le creazioni dei tardi anni Trenta e Quaranta (La donna che piange, 1937, Gatto che divora un uccello, 1939, Massacro in Corea, 1951). L’esperienza della guerra suggerisce a Picasso nuovi colori, nuove forme, più drammatiche, e un’idea nuova dell’arte, pubblica, civile, democratica. Sarà una lezione importante, che tornerà negli anni Cinquanta e Sessanta, segnati da una cospicua

Pablo Picasso, La Célestine (La Femme à la Taie). Marzo 1904. Olio su tela, cm 74,5 x 58,5. Masterpiece from the Musée National Picasso Paris to be held at Palazzo Reale in Milan

from September 2012 to January 2013.© Succession Picasso by SIAE 2012

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produzione in ceramica, accanto alla rivisitazione, in un certo sen-so postmodernista dei capolavori del passato (La colazione sull’erba, 1960, Les Meniñas, 1958).

Dispiace, tuttavia, constatare come molto spesso questo percor-so rischi di diventare blandamente illustrativo. Mancano le connes-sioni interne, una prospettiva critica nuova, una scansione tematica capace di rivelare l’intrinseca unità del corpus picassiano. Ma, cosa più grave, mancano i contesti. Le opere non vengono adeguatamen-te storicizzate, a confronto con i contemporanei, le tradizioni e an-che le correnti a venire. Le fonti sono tralasciate, l’eredità del Mae-stro ignorata, facendo perdere di vista uno dei lati fondamentali di questa produzione, profondamente radicata nel Novecento.

Così, nel caso del cubismo, manca ogni riferimento a Braque, che del movimento è stato l’inventore, accanto a Picasso. Nell’esposi-zione dedicata a Guernica non viene approfondito l’enorme impat-to che quest’opera ebbe sull’arte europea, persino sull’informale (si vedano i grumi, drammatici, di linee, spesso liberati dai profili del-le campiture). La fondamentale mostra del 1953 è ricostruita – con grande dispiego di mezzi, documenti, lettere persino – nella sua ge-nesi, ma senza un’adeguata riflessione sull’influsso che quella mostra ebbe presso i giovani artisti del Jamaica a Milano.

Morale, la grande mostra di Palazzo Reale è sì importante. Con il suo ampio dispiegamento di tele e sculture, segna un percorso ne-cessario per avvicinare i giovani a Picasso. Perché questo si traduca in un’opportunità per la storia dell’arte, oltre che per le casse del-la Picasso Administration, è necessario tuttavia uno sforzo in più. Meno (auto)celebrativo e più critico. Come nel 1953.

Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale di Parigiwww.mostrapicasso.itMilano, Palazzo Reale20 settembre 2012 – 6 gennaio 2013Orari: lunedì, martedì, mercoledì 8.30-19.30 giovedì, venerdì, sabato, domenica 9.30-23.30Ingresso: 9 euro intero | 7.50 euro ridotto

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Eunomia - I due volti di Victor Vasarely: Aix-en-Provence e Budapest

Silvia Colombo

Per conoscere la produzione di Victor Vasarely, esponente dell’optical art, basta seguirne le tracce biografiche, in Ungheria – dove è nato – e in Francia, patria adottiva. In questi Paesi sorgono due centri d’arte de-dicati al maestro, differenti per natura e identità, a partire dall’accento sul nome. Vasarély o Vasarelý? Si può anche fare a meno di scegliere.

Capita, talvolta, che un artista sia ‘manager’ di se stesso e si preoc-cupi del destino della sua opera post mortem, di che cosa ne sarà del lavoro da lasciare ai posteri. Già, ma quali posteri?

C’è chi, lungimirante e accorto, ha deciso di costruire da sé il proprio futuro, investendo risorse e scegliendo il luogo migliore per fondare un monumento artistico di imperitura memoria.

Tra gli esempi più celebri la Fondació Dalí a Figueres, il Musée Tinguely di Basilea, la cui donazione risale alla vedova Niki De Saint Phalle e – in Italia – il Museo Marino Marini, a Firenze e Milano (prima alla GAM, oggi al Museo del 900).

Fondation Vasarely, Aix-en-Provence. Credits: Silvia Colombo

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Vasarely (1906-1997) rientra in questo medesimo contesto. Nato a Pécs all’inizio del XX secolo, segue la vocazione artistica, dopo alcuni tentativi universitari fallimentari sollecitati dalla famiglia, e completa la sua formazione alla scuola di Műhely, votata a un in-segnamento interdisciplinare. All’inizio degli anni trenta si trasferi-sce a Parigi, dove lavora come grafico pubblicitario, interessandosi, contestualmente, allo studio dell’ottica e alla composizione di opere fondate sull’equilibrio forma/colore.

Il linguaggio, altrimenti conosciuto come Op Art, si sistematizza negli anni cinquanta ed è la ricerca che il maestro perseguirà per

Fondation Vasarely, Aix-en-Provence. Credits: Silvia Colombo

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Vasarely Museum, Budapest. Credits: Silvia Colombo

tutta la vita. Le opere, scientificamente corrette e otticamente in-gannevoli, sono – secondo quello stesso principio di commistione tra le arti che aveva predominato all’interno della sua educazione – tele, ma anche sculture tridimensionali e fibre tessili.

Dunque se, con gli anni, il problema si focalizza sul come e il dove conservare una produzione così vasta, Vasarely risponde con alcuni progetti espositivi permanenti: nel 1970 apre il Musée didactique di Gordes (poi chiuso e smantellato nel 1996) e, solo sei anni dopo, la Fondation Vasarely di Aix-en-Provence.

La struttura, visibile poiché situata su una collina della periferia verdeggiante di Aix, rappresenta una compenetrazione simbiotica tra arte e natura ed è riflesso del lavoro di Victor: un edificio com-posto da corpi cubici aggregati gli uni agli altri, in lastre di alluminio e vetro, coronato da decorazione geometrica. Nel prato circostante, compare – disseminata – qualche scultura (in stato di conservazione non propriamente impeccabile), a partire dall’imponente ‘V’, sigla che introduce il suo nome.

La fondazione, con sede unica oggi in Provenza, è diretta dal figlio Pierre Vasarely ed è attiva anche grazie al mecenatismo di privati che contribuiscono alla sua programmazione culturale. Essa nasce come centro architettonico e si radica nel territorio francese, divenendo

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l’esemplificazione di tanto desiderati scambi tra architettura, pro-gettazione, arte e interazione sociale. Oltre all’esposizione di una collezione permanente, quarantaquattro lavori di grandi dimensio-ni firmati Victor Vasarely, la Fondation ospita mostre temporanee

Un’immagine di una mostra temporanea al Vasarely Museum di Budapest. Credits: Silvia Colombo

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di autori che proseguono il medesimo indirizzo interdisciplinare di colui che, tempo prima, aveva interpretato l’arte in questo modo.

A un decennio di distanza dall’apertura del centro di Aix, Vasa-rely va oltre, e pensa a un museo preposto alla conservazione dei suoi lavori ubicato nella terra natia, e più precisamente a Budapest. Detto, fatto, il Vasarely Museum (Vasarely Mùzeuma) inaugura nel 1987. Di natura differente dalla versione francese, la sede ungherese è di carattere pubblico e di impatto visivo modesto, pressoché ine-sistente. L’edificio si incontra quasi per caso, nel cuore di Obuda (la vecchia Buda) ed è una struttura anonima, mal segnalata, con un ingresso all’interno di un cortile alberato, facilmente confondibile con il bookshop.

Tuttavia, se si è interessati alla produzione dell’artista, vale la pena varcarne la soglia. Certamente, non tanto per l’allestimento o la di-stribuzione spaziale degli interni (che pure sono sufficienti a ospita-re tutti i servizi, sale adibite a laboratori didattici comprese) quanto per la collezione – una vasta panoramica dell’opera del maestro, dagli esordi in seno alla grafica sino alla produzione optical più ardita. Non manca proprio nulla: costruzioni tridimensionali in plexiglas, scultu-re totemiche, opere op specchianti e un tappeto di dimensioni note-voli. Il tutto nello stile colorato, geometrico e impeccabile di Vasarely.

Non solo: come nel caso francese, anche a Budapest il museo ospita, parallelamente, esposizioni temporanee molto interessan-ti. Al momento è allestita la collettiva Paris-Vienna-Budapest transfer, dedicata al lavoro del gruppo Magyar Műhely, fondato a Parigi nel 1962.

Unica pecca, una volta rimasti ammaliati dalle collezioni e deside-rosi di saperne di più in materia di arte nazionale, sono i cataloghi, per la maggior parte pubblicati in ungherese. Senza traduzione a fronte, of course.

Fondation Vasarelywww.fondationvasarely.frAix-en-ProvenceOrari: martedì-domenica 10-13 e 14-18Ingresso: 9 euro intero | 6 euro ridotto | 4 euro bambini (fino ai 6 anni)

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Vasarely Museumwww.vasarely.huBudapestOrari: martedì domenica 10-17.30Ingresso: 3 euro intero| 1.50 euro ridotto[permesso fotografico acquistabile in loco]

Vasarely Museum di Budapest. Credits: Silvia Colombo

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“Fiato d’artista” - Vetri d’artista. Non solo Murano

Sonia Cosco

Anche in provincia di Savona si nasconde un borgo, Altare, che ha tan-te storie di vetro da raccontare: tra arte, artigianato e design.

Uno dei vetri artistici più famosi ed enigmatici della storia dell’ar-te contemporanea è sicuramente il Grande Vetro di Duchamp. Opera rompicapo a cui l’artista lavora dal 1915 al 1923. Una sor-ta di environment che nel tempo ha cambiato se stesso - nel mol-tiplicarsi dei significati - e l’artista stesso. Il titolo completo è La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli ed è una firma della proble-maticità interpretativa che caratterizza le opere di un genio della

Rosanna La Spesa. Anime d’acqua

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contemporaneità. Forse, solo una provocazione per chi vuole a tutti i costi cercare un senso. Ma non solo Duchamp, anche altri grandi della storia dell’arte si sono confrontati con la tecnica vetraria: Cés-ar, Tony Cragg, Lucio Fontana, Da Graham, Orlan, Joseph Kosuth, Man Ray, Jean Arp.

Fragilità e preziosità del vetro, figlio di magiche alchimie e di necessità pragmatiche, di espressione creativa e tecnica. Il vetro può essere opera d’arte, boccetta per i medicinali, materiale indu-striale. Sarà per questo che gli eventi dedicati al vetro rimangono sempre a metà strada tra arte, artigianato e design, come Altare Vetro Design e Altare vetro Arte, due appuntamenti che fino al 4 novembre ci portano a scoprire un piccolo borgo nella provincia di Savona, Altare, con una kermesse dedicata all’arte vetraria tra mostre, incontri, laboratori.

L’evento è stato ideato da Maria Teresa Chirico ed Enzo L’Acqua, promosso da ISVAV (Istituto per lo Studio del Vetro e dell’Arte Vetra-ria) e dal Museo dell’arte vetraria altarese. Ospite d’onore è l’architetto e designer Enrico Bona che unisce tecniche antiche e tecnologie d’a-vanguardia e ha creato per l’occasione Altarina — un abat-jour di pic-cole dimensioni che manda luce bianca attraverso gli effetti cromatici del vetro soffiato — e Arcubaleni, cubetti disegnati dallo stesso Enrico Bona che diventano segnaposti, portafoglietti e portafotografie.

Tutti sappiamo (e Glass Stress, evento collaterale alla Biennale di Venezia 2009, ce lo aveva ribadito con un grande evento) quanto Venezia e il piccolo centro di Murano leghino la loro storia al vetro. Quelli che pochi invece sanno è che, se le cose fossero andate diver-samente — e questa non è sede per analizzare i “se” — anche Savo-na avrebbe avuto la sua Murano, perché Altare, paese della provin-cia, è stata per secoli fucina e laboratorio di vetro artistico e artigia-nale (oggi anche industriale) e la lavorazione del vetro ha caratteriz-zato anche la vita economica e sociale del paese.

Si tratta di una lavorazione introdotta nel Medioevo forse da ve-trai di origine fiamminga o da monaci benedettini che creano le pri-me fornaci. Inizialmente il vetro si crea per uso farmaceutico, poi diventa espressione artistica.

Ci sono minuscoli paesi che, del poco che hanno, riescono a farne volano turistico, economico, artistico, culturale, ci sono minuscoli

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paesi che, del tanto che hanno, rischiano di perderne a poco a poco i pezzi. Ecco perché sono importanti iniziative come queste, pur nel-la consapevolezza che ci sono aspetti migliorabili. Gli eventi dedica-ti al vetro, come Altare Fest Glass quest’estate o come Altare Vetro Design adesso, si stanno moltiplicando, perché si sente finalmente l’urgenza di mostrare un passato — e un presente — di lavorazioni

Rosanna La Spesa, Luna d’acqua

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artistiche e artigianali pregiate, di sensibilizzare il pubblico e gli stu-denti ad avvicinarsi alla lavorazione e suggestione del vetro, in con-testi in cui designer e artisti si confrontano con i maestri vetrai, in uno scambio di competenze e sensibilità.

Quello del vetro è fenomeno straordinario, esperienza estetica dalle sfumature alchemiche e, come già sottolineato, molti sono gli artisti che s’invaghiscono del materiale e si cimentano nel trasfor-marlo in espressione creativa, ma difficilmente si trovano persone che esprimono la loro arte solo ed esclusivamente attraverso il ve-tro. Un’artista della provincia savonese, la cui produzione è legata in particolar modo al vetro, è Rosanna La Spesa, reduce da una mo-stra presso le Grotte dei Dossi (Cn), in cui le sue installazioni dialo-gavano — sospese — con l’ambiente naturale. «Mi sono innamora-ta del posto e quindi ho deciso di esporre le mie opere qui» dichia-ra l’artista «e la presenza dell’illuminazione ha permesso di dare ri-lievo alle opere». Quello che si valorizza è dunque l’aspetto etereo delle opere in vetrofusione, il connubio interessante con le concre-zione delle grotte molto colorate per la ricchezza di ferro e altri mi-nerali. «L’incontro tra arte e natura è già insito in molte mie opere per i temi a cui mi sono da sempre ispirata — l’acqua, le rocce, la luce, i sassi, i fossili — che fanno parte della mia poetica e la scelta di esporre in tal contesto è stata spontanea, senza dimenticare la de-nuncia delle problematiche che insidiano costantemente questi luo-ghi dell’anima, patrimonio dell’umanità».

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#Pavia

Iniziamo il viaggio nell’arte del Novecento con uno dei padri dell’Im-pressionismo, Pierre-Auguste Renoir (1841-1919). Artista prolifico, con i suoi cinquemila e più quadri, negli ultimi anni della vita, para-lizzato dai reumatismi, aprì nuove strade all’arte, influenzando la ge-nerazione dei fauves. La vie en peinture, curatela di Philippe Cros, lo documenta con un’ampia selezione di dipinti, pastelli e disegni, pro-venienti da realtà museali internazionali come il National Gallery of Art di Washington, il Columbus Museum of Art (Ohio), il Centre Pompidou di Parigi e il Palais des Beaux Arts di Lille.

Pierre-Auguste Renoir, La Cueillette des fleurs, 1875

Nèurastenie - #Maestri

Roberto Rizzente

Dove e quando Pavia, Scuderie del Castello Vi-sconteo15 settembre-16 dicembre

Info e contattiOrari. Da lunedì a venerdì 10-13/15-19 (giovedì apertura fino alle 21.00). Sabato, domenica e festivi 10-13/14-19Ingresso. Intero 10 euro. Ridotto 9, 8.50, 5 euroSito web www.scuderiepavia.come-mail [email protected]. 0382538932

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Modi di abitare

#PisaNon ci saranno tutte le tele del Blaue Reiter, ma Wassily Kandin-ksy. Dalla Russia all’Europa ha il merito di ricostruire con una fitta sequela di rimandi alla tradizione folclorica russa, lo sciama-nesimo e i modelli pittorici coevi (Munter, Jawlensky, Werefkin e Schonberg), il fondamentale periodo in cui il padre dell’astrattismo (1866-1944) elabora il proprio linguaggio, chiarendone le implica-zioni e i sottili scarti interni, all’indomani dell’addio definitivo alla Russia sovietica, nel 1922. La mostra è curata dalla direttrice ag-giunta del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, Eugenia Petro-va, in collaborazione con Claudia Beltramo Ceppi.

#GenovaSono circa ottanta le opere (oli, ma anche terracotte, bronzi e

Dove e quando Pisa, Palazzo Blu13 ottobre-3 febbraio

Info e contattiOrari. Da martedì a venerdì 10-19. Sabato e domenica 10-20Ingresso. Intero 10 euro. Ridotto 8,50-4 euro.sito web. www.mostrakandisnky.ite-mail. [email protected]. 050891349, 050894088

Kandinsky, Auf Weiss I, 1920

Joan Miro, Femme dans la rue, particolare, 1973

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acquerelli), mai giunte in Italia, selezionate da Maria Luis Lax Ca-cho per documentare la carriera di Juan Miró (1893-1983), espo-nente principe del surrealismo. Particolare attenzione viene riservata all’ultimo trentennio, dal 1956 alla morte, un periodo particolar-mente felice per l’artista catalano che, nel nuovo studio di Mallorca, a stretto contatto con la natura, poté sviluppare nuove idee, in linea con quel gusto per l’indagine psicanalitica e la scomposizione fan-tastica che avevano caratterizzato la rivoluzione surrealista. Consi-derata l’importanza che Mirò attribuiva al luogo di lavoro, viene ri-costruito inoltre l’atelier, con tanto di oggetti, pennelli e strumenti originari, conservati dalla Fondazione Miró di Barcellona.

#FirenzeNon solo Francis Bacon (1909-1992): la mostra fiorentina, cura-ta da Franziska Nori e Barbara Dawson, muove da un nucleo di di-pinti del maestro dublinese per indagare la condizione esistenziale dell’uomo nell’opera di cinque artisti internazionali contempora-nei: Nathalie Djurberg (Svezia 1978), Adrian Ghenie (Romania

Dove e quando Genova, Palazzo Ducale5 ottobre-7 aprile

Info e contattiOrari. Da martedì a domenica 9-19. Lunedì 14-19Ingresso. Intero 13 euro. Ridotto 10,5 euro.sito web. www.mostramiro.ite-mail. [email protected]. 0109868057

Bacon, Portrait of Henrietta Moraes, 1969

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Modi di abitare

1977), Arcangelo Sassolino (Italia 1967), Chiharu Shiota (Giappo-ne 1972), Annegret Soltau (Germania 1946). La sezione su Bacon è corredata da un ricco repertorio di still di film, riproduzioni di ca-polavori del passato immagini di riviste e ritratti fotografici, utiliz-zato dal Maestro per la creazione delle opere e messo a disposizione dalla Dublin City Gallery The Hugh Lane.

#fuoritemaÈ alto due metri e mezzo e lungo trenta. Fu realizzato nel 1983 a Milwaukee, nel luogo dove sarebbe sorto il nuovo Museo Hagger-ty, su invito dell’Università Marquette. Composto da ventiquattro pannelli in legno, con le sue fantasie di bambini, cani, ballerini di breakdance e televisori, il murale è un documento importante della prima stagione creativa di Keith Haring (1958-1990), direttamen-te ispirata ai disegni della metropolitana di New York. Già ospitato dal Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, torna ora in Italia, alla Reggia di Caserta, per una mostra d’eccezione. Per l’occasione,

Dove e quandoFirenze, Palazzo Strozzi5 ottobre-27 gennaio

Info e contattiOrari. Da martedì a domenica 10-20. Giovedì gratuito 18-23Ingresso. Intero 5 euro. Ridotto 4, 3 euro.sito web. www.strozzina.orge-mail. [email protected]. 055391711

Murale della Marquette University, Milwau-kee Wisconsin, 1983. Fronte uno dei pannelli

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verrà accompagnato da un acrilico della collezione Terrae Motus, costituita da Lucio Amelio nel 1980.

Dove e quando Caserta, Reggia di Caserta2 giugno-4 novembre

Info e contattiOrari. Da lunedì a domenica 8.30-19.30Ingresso. Intero: 13,2 euro. Ridot-to 10,20-5,10 euro

sito web. www.reggiadicaserta.benicultu-rali.ite-mail. [email protected]. 0823-448084/277380

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Nèura Magazine è uno spazio culturale di prospettiva.

La redazione è composta da Anna Castellari, Silvia Colombo, Sonia Cosco e Roberto Rizzente.

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