Nessun luogo è lontano | Catalogo Cristiano Menchini

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UNO SGUARDO IN PRIMA PERSONA DENTRO LUOGHI LONTANI, PRIMORDIALI, PRIMITIVI.

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UNO SGUARDO

IN PRIMA PERSONA

DENTRO LUOGHI

LONTANI,

PRIMORDIALI,

PRIMITIVI.

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1. Tòpos n.4 - 58 x 58,5 cm - serie di carte topografiche, china su carta, 20142. Cycas Aenigma - 200 x 174,5 cm - acquerello e acrilico su tela, 20143. Nessun luogo è lontano - 4,40 x 155 cm - studio del trittico, acquerello e acrilico su tela, 20144. Grotta all’Onda - 174,5 x 154 cm - acquerello e acrilico su tela, 20135. Zum Zeri - 200 x 155 cm - china su carta, 20136. Tòpos n.11 - 58 x 58,5 cm, serie di carte topografiche, china su carta, 2014

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Nessun luogo è lontano

Veronica de Giovanelli

Andrea Grotto

Cristiano Menchini

Stefano Moras

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dal 6 Settembre

al 5 Ottobre 2014

Ex Macello

via Alvise Cornaro 1/b

Padova

nessunluogo.tumblr.com

sottobosco.net

UN PROGETTO DI

Sottobosco

MOSTRA A CURA DI

Eugenia Delfini

PROMOSSO DA

Assessorato alla Cultura e Turismo

Comune di Padova

CON I PATROCINI DI

Fondazione Bevilacqua La Masa

FAI – Delegazione di Padova

Kio-A-Thau Sugar Refinery Artist Village

PROGETTO GRAFICO

Sottobosco

VISUAL IMPROVEMENT

Tiziano Manna

MEDIA PARTNER

Sherwood

SPONSOR TECNICO

Winezon

_P. D’Angelo, Filosofia del Paesaggio, Quodlibet, 2010U. Morelli, Paesaggio e mente, Bollati Boringhieri, 2011M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, 2009 F

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2014

La parola paesaggio designa tanto una porzione di territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica, quanto la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici: a partire da questo presup-posto, le ricerche in mostra indagano il paesaggio sia in quanto espres-sione della nostra identità sia in quanto generatore di esperienze este-tiche.

Nonostante a un primo sguardo si possano cogliere notevoli differenze stilistiche tra i lavori esposti, sono diversi gli aspetti teorici e metodo-logici che li accomunano. Per gli autori in mostra l’uomo è parte inte-grante del paesaggio, non esterno ad esso, e la pittura di paesaggio non un’attività di mimesi ma lo strumento attraverso il quale tentare di riav-vicinarsi e di riappropriarsi del reale. Questo movimento sui margini, tra il reale e la sua riproposizione estetica, permette loro di costruire una relazione sempre nuova con il mondo, di scoprirlo e di ripensare ciò che ci è conosciuto, contribuendo alla produzione di altri punti di vista. In questo lavoro di identificazione e successiva rielaborazione del paesag-gio, la tela diventa sinonimo di possibilità e il lavoro un procedere per gradi: il tempo per soffermarsi su un particolare vissuto o luogo e per dare visione al presente, qualsiasi cosa suggerisca.

Il nostro è sempre stato un paesaggio culturale, ovvero non solo na-tura ma anche opera umana, territorio sul quale l’azione dell’uomo ha inciso in profondità, attraverso i millenni, lasciando ben poco della sua conformazione originaria. Di conseguenza la nostra coscienza del paesaggio è quella di una natura percepita attraverso una cultura (Paolo D’Angelo) e l’esperienza che compiamo di fronte ad esso non può essere mai un’esperienza puramente sensoriale, ma un processo che organizza quel che vediamo sulla base di componenti immaginative, emotive, memoriali e identificative. Su questo discorso si innesta il lavoro di Veronica de Giovanelli che riflette sul paesaggio come dimensione relazionale frutto della mediazione tra stato di natura ed esigenze umane. La sua è una forma di esplorazione intima e di presa di coscien-za della singolarità dei luoghi, un’indagine costante tra sé e i contesti attraverso cui cogliere e restituire le qualità inespresse di un determi-nato spazio. Da sempre interessata a quelle che sono le energie sottese e le variabili dello stato di natura, da una parte nelle sue opere inscena manifestazioni di fenomeni naturali e dall’altra gli interventi per mano dell’uomo che hanno inciso profondamente sul paesaggio. Attraverso il punto di vista aereo e l’applicazione di velature fresche, fatte sedimen-tare in tempi diversi, Veronica evoca i luoghi e le strutture che abitano il nostro territorio, evidenziando l’idea di paesaggio come palinsesto e stratificazione vorticosa.

Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi (Ugo Morelli), per ciò la relazione con la natura non può ridursi alla sola identificazio-ne estetica, come mera immagine, ma va ricercata anche all’interno di dimensione cognitiva e simbolica del paesaggio. Negli ultimi anni Andrea Grotto ha attraversato diverse fasi di ricerca che lo hanno por-tato a ripensare il paesaggio come ad un insieme simbolico di oggetti: realtà di riferimento da cui partire per interpretare il mondo ed esplora-re i nostri universi concettuali ancorati al reale. Questo atlante simboli-co in progress, annette forme sedimentate nel suo immaginario, deline-ando da una parte una sua personale geografia emotiva e dall’altra il suo interesse per le connessioni esistenti tra le immagini che compongono la nostra quotidianità e quelle radicate nell’immaginario collettivo. Il tempo è sospeso, gli ambienti non sono riconducibili a qualcosa di identificabile, il paesaggio si fa scultura, il fruitore è libero di identifi-carsi con l’immagine o semplicemente di farla propria. Il serbatoio di immagini da cui attingere non è più allora solo il paesaggio ma la sua personale memoria, i ricordi d’infanzia e le suggestioni legate a specifici luoghi: è a partire da tutto questo che Andrea ricostruisce dei set attra-verso la sola riproposizione dei suoi elementi ausiliari - tappeti, scivoli,

vasi, bastoni e scatolini - come fossero muti testimoni da cui ripartire per una rielaborazione dei luoghi del vivere.

Rispetto a questo approccio sui confini tra il proprio mondo interno e quello esterno, Stefano Moras vive il paesaggio come una materia sempre ricca di suggestioni, luogo dell’accadere, palcoscenico delle trasformazioni organiche e vegetali.I suoi lavori sono il risultato di studi ravvicinati della natura, un discor-so molto personale tra autore e linguaggio, una ricerca costante che gli permette di comunicare e relazionarsi con il mondo. I suoi quadri sono come delle piattaforme sulle quali frammenti stratificati e parcellizzati della realtà si accumulano, scompaiono o riemergono. Fuori o dentro la superficie pittorica, la sua è una ricerca legata ai processi che possono suggerirci delle visioni del nostro reale, un modo di procedere nel quale ogni esperienza si sovrappone a quella precedente in un continuum ed incessante evolversi e ridefinire il suo apparire. Stefano non è interessato alla riproduzione o alla traduzione della realtà fine a sé stessa quanto alla sua rielaborazione a cui arriva attraverso un delicato lavoro di scompo-sizione e ricostruzione per frammenti. Così la tela diventa spazio vivo dove individuare delle coordinate e procede attraverso la proposizione di piccoli atti poetici, fatti di intagli, accostamenti, associazioni libere di forme, materiali e colori.Negli ultimi lavori in particolare l’ascolto dei fenomeni naturali e dei loro passaggi di stato non è più qualcosa di esterno ma qualcosa che si ritrova nel suo stesso fare, riscoprendoli come parte del processo pit-torico. Nulla è stabilito, si tratta di inseguire una necessità, legata al pro-prio sentire, che tende verso processi di scoperta ignoti e inaspettati che si cristallizzano in visioni di insieme, frutto del confronto costante con la realtà circostante.

Il paesaggio è allora ciò che risulta dalla nostra relazione con il mondo, ovvero il risultato artificiale di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura, tanto che l’esperienza del paesaggio è in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé (Michael Jacob).Perché esista un paesaggio devono allora esserci inevitabilmente un in-dividuo e la natura, e tra i due deve innescarsi una relazione. La ricerca di Cristiano Menchini nasce proprio dal confronto fisico con il pae-saggio, dal contatto diretto e dallo studio quasi scientifico di micro-cosmi vegetali. Muovendosi nello scarto che c’è tra il vero e la finzione, Cristiano ripropone universi simbolici, metafore di un mondo percepi-to, superfici dinamiche e indipendenti dalla realtà, non tanto per ripro-durre un semplice gioco di rassomiglianze, quanto per evocare spazi altri senza tempo, che da qualche parte forse esistono o sono esistiti. L’interesse è per i processi a noi invisibili che determinano lo sviluppo del mondo vegetale, la parte organica e morfologica della natura che cambia a seconda del clima, del vento, della luce. Alcuni suoi lavori evo-cano calibrati ecosistemi vegetali, altri invece scenari primitivi realizzati in scala reale, altri ancora infine, attraverso la ripetizione di un unico elemento vegetale nello spazio della tela, orientano il discorso verso l’astrazione formale.

Nessun luogo è lontano nasce come punto di incontro di più esperienze per osservare il quotidiano attraverso l’arte e per riflettere sui differenti modi di vedere, percepire e fare esperienza del paesaggio. In un’epoca in cui la relazione con la natura non è più data ed è da reinventare e ricreare, la mostra, vuole restituire il desiderio di entrare in risonanza con il paesaggio, provando a recuperare questa relazione attraverso la visione estetica e la sua rappresentazione. Il titolo della mostra, tratto dal libro omonimo di Richard Bach, riporta l’attenzione su questo: nes-sun luogo è lontano, tutto ciò che non è in mostra è possibile guardarlo fuori o ritrovarlo dentro di noi come qualcosa che non è mai andato perduto.

Eugenia Delfini

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Una pratica che volge l’attenzione al paesaggio, all’esterno, a tutto ciò che sta fuori dall’uomo ma è l’uomo stesso in quanto estensione ed espressione della sua identità storico culturale: qual è stato il tuo percorso? E cosa ti ha portato, oggi, ad oc-cuparti di “pittura di paesaggio”?

Ho cominciato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, nell’Atelier F di Carlo Di Raco nel 2008. I primi due anni li ho passati a sperimentare l’acquerello, su piccoli formati, dipingendo frammenti di foglie, ed ele-menti organici in decomposizione, rami, piante, sterpi. Poi mi sono allargato e quei frammenti sono diventati terreno per ambienti più complessi, paludosi. Certe volte non so cosa stia fuori o dentro, quello che mi ha spinto a rappresentare il paesaggio è questo scarto, questo confine: entrare nei luoghi per scoprirli, uscirne nella pittura, per poi rientrare.

Parlami di come vivi questo confine, questa condizione di pas-saggio tra la selezione di un soggetto e la sua riproposizione attraverso la pittura: quale processo si innesca quando inizi un lavoro, come scegli il soggetto e cosa intendi per paesag-gio?

Ciò che più mi affascina è la diversità dei luoghi, la personale morfo-logia che cambia a seconda del clima, del vento, della luce, il processo invisibile della crescita. Non c’è da vedere il quadro come una finestra che da su un luogo, una porzione di una parte di visione fotografica, ma più come una superficie in cui delle forme si muovono nello spazio creando un’immagine. In questo modo il lavoro ha una sua natura, una sua esistenza, figlia della realtà ma al tempo stesso indipendente, il con-fine, forse, è il pittore stesso che deve capire in che direzione il lavoro lo porterà. Il paesaggio è una parte del tutto, di ciò che possiamo vedere, rappresentarlo permette di scoprilo più a fondo.

A te non interessa la riproposizione del dato naturale così com’è, i tuoi quadri non sono delle finestre su cui è stato adat-tato il mondo esterno, sono invece dei microcosmi simbolici e immaginifici all’interno delle quali si intersecano elementi vegetali. Puoi approfondire questa questione e per farlo ci in-trodurci a qualche tuo lavoro?

Tutta la mia produzione si muove in questo senso, che sia pittura o di-segno. Un lavoro che descrive in modo corale la mia poetica è Grotta all’Onda, un dipinto del 2013, dove rappresento un groviglio di piante e forme organiche abbozzate, una parte non dipinta in negativo crea una palma, in contrapposizione, al centro si forma uno squarcio di oscurità che sta dietro agli elementi in primo piano che allude ad un’ipotetica entrata primordiale. Questo luogo non esiste, ma quando osservo il quadro vedo evidente il richiamo della Grotta all’Onda.

Nel tuo personale processo di ricerca il paesaggio è allora il serbatoio da cui attingere forme ed elementi organici, e le opere porzioni di spazio generate dal disciplinato esercizio

dello tuo sguardo in dialogo con il mondo, evocazioni di una geografia dell’essere che si orienta nella dialettica tra il sé e il paesaggio, è così?

Ci deve essere un distacco finale dalla realtà, non deve essere solo un gioco di rassomiglianze, vedo i miei lavori come degli ambienti sim-bolici, metafore di un mondo percepito.

Alcuni tuoi quadri sono come degli studi dell’elemento natu-rale e della sua estetica, mentre altri presentano la rielabo-razione di microcosmi immaginifici. Vuoi parlare di qualche altro tuo lavoro?

Quando utilizzo la penna stilografica sono molto più analitico, i lavori effettuati con questa tecnica possono essere degli studi dell’elemento naturale, come il disegno Zum Zeri o la serie Tòpos sulle topografie, anche se in tutti e due i casi è presente anche un lato metafisico, un po’ come un’ideale mondo delle idee…aspaziale. Tutto è tratto dall’esperienza del mio percorrere, vivere i luoghi e paesaggi, tramutati attraverso il segno ed il colore. Mi piace pensare che in una parte casuale del mondo esista il luogo che ho dipinto, che in una particolare data, ora, o situazione metereologica si possa osservare la stessa cosa. Nella pittura mi distacco di più rispetto al disegno, l’acquerello mi permette di giocare con le campiture di colore, con i pieni ed i vuoti. Adesso sto realizzando un trittico in cui rifletto sul concetto di ripetizione ed astrazione. Attraverso la rappresentazione di un unico elemento, una foglia di palma, creo un muro, quasi come un pattern, è interessante vedere come queste sovrapposizioni vadano a creare una forma unica, che necessita di tutte le parti, come un grande organismo.

Come nasce la serie Tòpos e come mai hai pensato di lavorare su delle carte topografiche?

Uno dei vantaggi di avere uno studio condiviso con altri artisti è il confronto, in questo caso mi riferisco agli studi della Fondazione Bevilacqua la Masa vinti nel 2013 con il gruppo How We Dwell (An-drea Grotto, Marco Gobbi, Adriano Valeri ed io). Mi è capitato un giorno di trovare una serie di mappe in una libreria dell’usato a Vene-zia, l’Acqua Alta, e mentre ero in studio cercavo un modo per capire come poterle unire insieme per un grande disegno, utilizzando la parte ingiallita del retro. Poi è arrivato Marco Gobbi, uno dei componenti del gruppo, e parlando ha buttato lì la possibilità di lavorare direttamente sulla mappa, una di quelle cose dette al momento giusto. Come ho già detto il confronto ti porta a ragionare ed attivare certe soluzioni che da soli è più difficile raggiungere, i segni delle topografie si sposavano perfettamente con il mio stile, e così nasce Tòpos.

Parlami di quest’ultimo lavoro Cycas Aenigma che hai esposto di recente alla Galleria Tognon a Venezia.

Cycas Aenigma evoca una giornata torrida, quelle in cui sta per arrivare un temporale, ma non sai se arriverà o se le nuvole scivoleranno via,

negandoti il refrigerio. È un quadro molto carico, alcune piante sono proprio dietro il mio studio a Venezia, una grande palma morta afflo-sciata, con una punta all’apice e sterpaglie varie, tutta una serie di piante in via di crescita, le altre invece sono tutte prese da un vivaio in Toscana vicino a dove abito.Il quadro nel suo insieme racchiude il mio stile, visione frontale, senza una vera e propria prospettiva, data dagli scuri, che alludono ad uno spazio che sta dietro, che spazia, si dirama e va oltre. I miei lavori sono come quegli studi che facevano alla fine dell’Ottocento dove creavano degli ecosistemi dentro a delle sfere sigillate, era tutto calibrato in modo che ogni pianta, animale, desse il giusto contributo per stabilizzare l’ecosistema.

Rispetto alla tua ricerca possiamo pensare allora al processo pittorico come a un percorso di scoperta del mondo attraverso cui interiorizzare e ripensare la realtà circostante? Oppure? In altri termini tu come lo definiresti?

Vorrei prendere in prestito alcune parole di Maurice Merleau-Ponty tratte dal libro L’occhio e lo spirito che si ricollegano al nostro discorso: “Non si tratta di aggiungere una dimensione alle due dimensioni della tela, di organizzare un’illusione o una percezione senza oggetto la cui perfezione consiste nel rassomigliare il più possibile alla visione empi-rica. La profondità pittorica (come l’altezza e la larghezza dipinte) viene da non si sa dove a posarsi, a germogliare sul supporto.”

Come mai nei tuoi quadri non si trova traccia della figura uma-na? Dov’è l’uomo in questa relazione?

Ho sempre trovato piacere nel fare camminate nei boschi, in montagna da solo, una cosa necessaria, è molto diverso che farlo con altre persone, il tempo si dilata in maniera diversa. Questo approccio intimo nei con-fronti delle cose è diventato anche il mio modo personale di dipingere. La serie di lavori che espongo all’Ex Macello sono realizzati in un ipo-tetica “scala reale” per dare la sensazione di sprofondare all’interno della scena, l’uomo è immerso nella visione dell’immagine in sé: uno sguardo in prima persona dentro luoghi lontani, primordiali primitivi.

Possiamo allora concludere dicendo che la tua è una ricerca dedicata al paesaggio e al mondo vegetale che testimonia la necessità onnipresente dell’uomo di rimanere in contatto con la natura per riappropriarsene in quanto parte integrante della sua identità, è così?

Si, tutto il mio lavoro tende proprio a questo contatto, ma non par-lerei di appropriazione da parte nostra, anche noi come uomini siamo natura, intesa come l’insieme di tutte le cose. Bisogna trovare il giu-sto equilibrio nel nostro modo di vivere sulla terra che ci permetta di dialogare, preservare gli elementi e non tendere al semplice e disinte-ressato utilizzo delle risorse. Una maggiore consapevolezza e sensibilità nei confronti della natura che vada oltre noi stessi ci potrà permettere questo riavvicinamento nei confronti del mondo.Sempre se a quel punto ci vorrà ancora…

UNA CON-VERSAZIONE TRA EUGENIA DELFINI E CRISTIANO MENCHINI

_Cristiano Menchini nasce nel 1986 a Viareggio. Nel 2012 consegue il Diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e nel 2013, con il progetto How we Dwell (M. Gobbi, A. Grot-to, C. Menchini, A. Valeri), è tra gli assegnatari di un atelier della Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia. Da quest’anno ha iniziato a collaborare con la Galleria Caterina Tognon di Venezia.