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Nella classe multiculturale: nuovi sguardi, nuove consapevolezze a cura di Valentina Ferrucci

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Nella classe multiculturale: nuovi sguardi, nuove consapevolezze

a cura di Valentina Ferrucci

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Direzione Agenzia formativa Formarsi agli Innocenti Sabrina Breschi Ha curato la pubblicazione Valentina Ferrucci Realizzazione editoriale Cristina Caccavale, Marilena Mele Un ringraziamento a tutti gli insegnanti, educatori e operatori intervenuti nel percorso

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Indice

Presentazione ................................................................................................................................... 5 Valentina Ferrucci Parte prima CULTURE E INTERCULTURE, IDENTITÀ E APPARTENENZE ............................................ 7 Oltre le retoriche e le semplificazioni. La dimensione interculturale a scuola e in città ................ 9 Lorenzo Luatti Identità e cultura: concetti fluttuanti o statici? La sperimentazione in classe ............................... 16 Valentina Ferrucci Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti Lavorando sull’identità: il nome (Chiara Meriggi) ..................................................................................................... 21 Riflessioni su identità e cultura (Catia Redditi) .......................................................................................................... 22 Etnopsichiatria a scuola ................................................................................................................. 25 Lelia Pisani Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti Cambiare gli occhiali più spesso (Chiara Meriggi) ..................................................................................................... 32 Parte seconda INTERCULTURALITÀ E BISOGNI DELLA SCUOLA: LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI / LA SCATOLA DEGLI OCCHIALI ............................................................................................. 33 Osservare per comprendere e innovare. Proposte e strumenti per un’osservazione attiva e condivisa nella scuola plurale ....................................................................................................... 35 Lorenzo Luatti Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti “Parole belle per te…” non petali, ma biglietti…: da un lavoro in classe (Chiara Meriggi) ....................................... 48 La ragnatela dell’amicizia (Catia Redditi) .................................................................................................................. 49 I sollecitatori relazionali con i bambini adottati e affidati (Emiliano Proietto) ........................................................... 50 La mediazione del conflitto interculturale nella scuola multiculturale ......................................... 51 Valentina Ferrucci “C’era una volta… l’accoglienza”. La fiaba come strumento didattico di sensibilizzazione all’adozione ................................................................................................................................... 61 Tommaso Eredi Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti Un lavoro in classe: lettura d’immagini. inventiamo una storia guardando le illustrazioni di Guizzino (Chiara Meriggi) ...................................................................................................................................................................... 68 

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Parte terza COROS: LA DOCUMENTAZIONE PROGETTUALE .............................................................. 71 Il progetto: obiettivi, composizione dei gruppi classe, parole chiave, metodologia ..................... 73 M. Pia Misiti Riferimenti bibliografici ................................................................................................................ 78 

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Presentazione*

Penso sia questo il ruolo dell’educatore: mostrare a coloro che devono essere educati tutte le possibili difficoltà del vivere insieme quotidianamente ma anche tutta la ricchezza e le enormi

possibilità di crescita che il farlo offre a chi lo accetta serenamente. Sandra Puddu, insegnante di istituto superiore

Questa pubblicazione rappresenta l’esito di un lavoro realizzato con gli insegnanti sul tema dell’intercultura, che ha preso spunto dal progetto Coros (Coinvolgere ragazzi di origine straniera nei contesti scolastici ed extrascolastici), realizzato dall’Istituto degli Innocenti durante l’a.s. 2011/12, finanziato dal Fondo sociale europeo1, rivolto agli insegnanti di ogni ordine e grado, organizzato in incontri in aula e sostenuto da una piattaforma di discussione on line. Le tematiche affrontate sono inerenti la dimensione relazionale nel contesto scolastico multiculturale: osservare, ascoltare, raccontare, riconoscere il disagio, mediare il conflitto. Un lavoro costruito durante tutto l’arco dell’anno scolastico, un corso ma anche un percorso di accompagnamento, in cui i veri protagonisti sono stati loro, i docenti e le loro classi. Durante il percorso gli insegnanti sono stati invitati a sperimentare alcuni strumenti di lavoro sviluppati in ottica interculturale, a riflettere collettivamente sulla sperimentazione e a trarne risultati che potessero accrescere il patrimonio degli insegnanti che lavorano in classi multiculturali, e non solo. Da questo percorso, strutturato in due corsi differenziati per target (uno dedicato agli insegnanti ed educatori di scuola dell’infanzia e primaria, l’altro agli insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado, educatori di centri e strutture per adolescenti), sono emersi numerosi spunti di riflessione, che hanno trasformato in corso d’opera la progettazione e i suoi obiettivi: volevamo presentare e far sperimentare alcuni strumenti pratici, mentre abbiamo sviluppato, con il loro apporto fondamentale, una riflessione che coinvolge il modo di fare scuola, di intessere relazioni, di guardare il mondo. Ne è derivato così un percorso che ha messo in essere una riflessione complessiva sullo sguardo e gli sguardi con cui guardiamo il mondo, per farne derivare strumenti e spunti di lavoro. Non vi è la pretesa di rappresentare qui una serie di strumenti utili per ogni occasione, ma piuttosto di segnare un orizzonte di riflessioni e di contributi, che siano utili nella costruzione di percorsi infiniti e irrepetibili, tanti quanti sono gli allievi, quante sono le classi e le scuole. Il volume è dunque organizzato in tre parti: la prima, Culture e interculture, identità e appartenenze, introduce la riflessione “a monte” per il lavoro in classi multiculturali, attraverso contributi teorici. Qui si parla di intercultura e scuola, di identità e appartenenza culturale, declinata attraverso la discussione con chi lavora dentro la scuola. La seconda parte, Interculturalità e bisogni della scuola: la cassetta degli attrezzi / la scatola degli occhiali, presenta gli esiti del lavoro realizzato con gli insegnanti durante il corso, suddiviso per temi: osservare, raccontare, relazionarsi e affrontare il conflitto attraverso la presentazione di “strumenti” e riflessioni costruite all’interno del percorso con gli insegnanti, che in aula hanno riportato anche gli esiti dei lavori realizzati nelle rispettive classi. La seconda sezione è costruita in modo da presentare il lavoro realizzato attraverso il contributo teorico del docente, la sperimentazione in aula, i contributi degli insegnanti. Dal lavoro in classe, dalla sperimentazione nelle rispettive classi di insegnamento, dalla discussione virtuale e in aula con gli insegnanti partecipanti al corso, sono emersi infatti gli spunti per nuovi lavori in classe e nuove riflessioni, che non ci consentono di definire Coros un progetto concluso. Da queste esperienze abbiamo

* Valentina Ferrucci, ricercatrice. 1 Il progetto Coros è stato cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo, in attuazione del POR Toscana OB:2 Competitività Regionale Occupazione 2007-13, Asse IV, Capitale Umano Azione 7, con d.d. della Provincia di Firenze n. 1039 del 23/06/11.

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tratto i contributi che presentiamo inseriti nei vari capitoli, perché secondo noi rappresentano la parte più vitale della formazione, quella che è co-costruita con le insegnanti, gli allievi, la scuola tutta. La terza parte, Coros: la documentazione progettuale, illustra infine il percorso del progetto Coros: obiettivi, metodologia, composizione delle classi e bisogni formativi dei docenti. Questa parte racconta la storia di un progetto che trae la sua forza soprattutto nella metodologia, calibrata sui bisogni della scuola reale, rappresentata dagli insegnanti e, attraverso loro, dalle classi e dagli allievi e le famiglie completando la narrazione di un percorso che non vuole e non può dirsi concluso, e spera invece di essere proseguito e rimodellato attraverso l’azione creativa degli insegnanti e delle loro classi.

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Parte prima CULTURE E INTERCULTURE, IDENTITÀ

E APPARTENENZE

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Oltre le retoriche e le semplificazioni La dimensione interculturale a scuola e in città*

Dentro di me porto tutti i miei volti passati come un albero i suoi cerchi. La loro somma sono “io”. Lo specchio vede solo il mio ultimo volto,

io sento tutti i miei precedenti. Tomas Tranströmer, I ricordi mi guardano, 2011

1. Cittadinanza e interculturalità

Nell’epilogo de L’artefice (1960) il grande scrittore argentino Jorge Luís Borges narra di un uomo (un pittore, uno scrittore, lo stesso JLB?) che, prefiggendosi il compito di disegnare il mondo, dopo un’intera vita passata ad accumulare immagini di ogni dove (luoghi, animali, persone…), scopre che quel paziente labirinto di linee altro non è che l’immagine del suo volto. Nel frammento autobiografico riportato in epigrafe, il poeta svedese Tomas Tranströmer, premio Nobel per la letteratura nel 2011, ci dona una altrettanto suggestiva metafora del carattere processuale, stratificato e in divenire dell’identità-memoria di ogni persona. «Noi siamo le persone che incontriamo» scriveva Martin Buber, e la nostra identità è “un baule pieno di gente”, come recita il titolo di un libro di Antonio Tabucchi (1990) dedicato a Fernando Pessoa, nel quale il grande poeta e scrittore portoghese sostiene che ognuno di noi è una valigia piena di gente, aperta la quale si può forse ritrovare la bussola che riporti a se stessi. Ciascuno di noi disegna, nell’arco della propria esistenza, una intricata e fitta rete di relazioni. Oggi, le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dai progressi tecnologici, moltiplicando e velocizzando spostamenti, comunicazioni e scambi, rendono ancora più complessa e ricca quella trama di rapporti e incontri. Essa, in fondo, parla di noi, di come siamo, di come ci vediamo; contribuisce a definirci nelle nostre plurime identità, nel nostro stare al mondo. La vita sociale ci modella e ci rivela: «gli altri ci modellano incessantemente […] e noi stessi scolpiamo la loro vita, fin quando, bambini entriamo nel vortice delle relazioni» scrive Domenico Barrilà (2010), psicoterapeuta e analista adleriano. Siamo così abituati all’esperienza quotidiana dell’incontro e della relazione che la percepiamo come qualcosa di naturale e scontata, come respirare o camminare; la attraversiamo spesso con superficialità e frenesia, scarsa disposizione verso l’altro, immersi nel nostro egocentrismo. Fino a quando non ci accorgiamo, anche da un piccolo e marginalissimo particolare che spesso altri ci fanno notare che qualcosa è andato storto. Eppure stare positivamente nella relazione richiede competenze e sensibilità che non nascono da sole, ma vanno formate, sviluppate, curate, costantemente, tanto più nel tempo attuale. Imparare a svolgere l’incontro e la relazione con le “alterità”, nelle loro molteplici forme (culturale, sociale, generazionale, di genere…) e nei diversi luoghi e contesti (locali e globali, pubblici e privati, del lavoro e del tempo libero…) in cui esse quotidianamente si esprimono e manifestano, si rivela condizione imprescindibile per la costruzione del cittadino di oggi e di domani. In questo senso, la dimensione interculturale, che pone a fondamento il livello relazionale (l’incontro personale, la percezione delle differenze, il rispetto delle altre culture e degli altrui stili di vita, valori, tradizioni…), è un elemento irrinunciabile dell’educazione alla cittadinanza. Il livello relazionale però deve necessariamente allargarsi anche a un macro livello che considera lo sfondo in cui le “culture” agiscono, i fenomeni di interdipendenza, la responsabilità su scala mondiale (Santerini, 2001). In questo senso, trova spazio un’idea di cittadinanza che riconosce la differenza, la complessità del mondo e promuove la relazione tra diversi, centrata su un’identità * Lorenzo Luatti, ricercatore.

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multipla e plurale delle persone. Così l’educazione alla cittadinanza in prospettiva interculturale può giocare un ruolo nel contribuire alla prevenzione dei conflitti, alla difesa dei diritti umani, e nel contrastare il determinismo culturale. Purché si faccia chiarezza sul significato di intercultura, termine troppo abusato e ormai divenuto una sorta di chiave universale buona per qualsiasi evento che coinvolga in modo più o meno determinante individui o aspetti di cultura diversa. Intercultura – e la sua versione transitiva, il dialogo interculturale – rischia di diventare (se già non lo è diventata) una etichetta “vuota” e uno slogan bonne à tout faire. Ma un conto è consentire al principio astratto, un conto è misurarsi sul concreto. Un maestro dell’interculturalità come Raimond Panikkar ha affermato coraggiosamente che «l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, quindi il nostro stesso mondo, non è l’unico» (Panikkar, 2002, p. 90). Che sia così, a ricordarlo, è la prospettiva storica. Il dialogo interculturale (e quello interreligioso di cui è parte integrante) non appartiene alla prassi comune delle relazioni internazionali, né a quelle più feriali e tuttavia non meno importanti dei rapporti quotidiani tra persone appartenenti a culture e a religioni diverse. Intanto perché le esperienze storiche prevalenti, nelle relazioni tra gli stati e tra i popoli, non sono state e non sono di dialogo, di riconoscimento reciproco, ma piuttosto di dominio se non addirittura di sopraffazione. L’altro, il diverso, nella cultura storica più diffusa che poi si è affermata come mentalità prevalente, va tenuto sotto controllo, va dominato o quanto meno messo in condizioni di non turbare l’ordine costituito, di non mettere in discussione gli atteggiamenti condivisi dalla maggioranza “omogenea”. Un quadro sintetico sull’intercultura, come componente fondante l’educazione alla cittadinanza, deve quindi partire da questi due poli: da un lato l’apparente diffuso consenso intorno a questa idea, e dall’altro il sotterraneo problematico scontro di visioni, interpretazioni e interessi in cui si fabbrica il senso quotidiano dell’incontro e del dialogo interculturale nel mondo globalizzato. Va dunque compreso leggendo le grandi proclamazioni e le facili convergenze alla luce dei reali termini problematici.

2. Le matrici dell’intercultura: ampliare lo sguardo

Che cos’è dunque “intercultura”? In quali contesti ha luogo? In cosa consiste e qual è l’approccio interculturale? E ancora: quali competenze e attitudini richiede? Per rispondere a queste domande si possono sommariamente individuare alcuni assi a partire da altrettanti semplicistici luoghi comuni.

L’interculturalità non insiste sulle “culture”, ma è attenta alle relazioni tra le persone

L’idea che le culture siano identità rigide e univoche, non multiple, e che i loro confini siano difficilmente modificabili, è ormai minoritaria negli studi e nel dibattito scientifico, ma non ancora nel più diffuso senso comune. È su quest’idea che affondano le loro radici le visioni di tipo differenzialista, che possono andare da un multiculturalismo tollerante, ma poco incline allo scambio culturale, fino a vere e proprie forme di “neorazzismo culturale”, cioè fondato sulla diversità delle culture. È questo, per esempio, lo scenario che potrebbe dar vita a quello che è stato chiamato “scontro di civiltà”. La ricerca antropologica ha mostrato tuttavia che la questione è molto più complessa. Le culture non sono organiche e chiuse, ma passano attraverso processi di trasformazione e di adattamento. Le contraddizioni interne, mosse dalle dinamiche sociali, inducono cambiamenti; e il contatto con altre culture può influenzare l’evoluzione in un certo modo, piuttosto che in un altro, può attivare meccanismi di apertura e cambiamento, oppure meccanismi difensivi di rafforzamento identitario. In ogni caso le culture non orientano in maniera deterministica il contatto tra gli individui. Cultura e identità sono quindi concetti “in divenire”, non dati una volta per tutte, continuamente aggiornabili e penetrabili da influenze “esterne”. Sono costituzionalmente entità relazionali. Occorre pertanto avere chiara consapevolezza della propria identità e di come questa

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si viene formando proprio attraverso successive, ininterrotte mescolanze con alterità che da lontane si fanno vicine, da estranee divengono familiari. Abbiamo piedi, non radici come le piante condannate a rimanere aggrappate a un terreno che dà loro di che vivere (Maalouf, 2004, 1999; Bettini, 2012). Ciò non significa che non sia essenziale cercare di capire chi si è, a cosa si crede, come si vuole vivere; significa non accontentarsi di etichette preconfezionate e affrontare la propria esistenza consapevoli di essere sempre “in ricerca”. Pertanto, quando utilizziamo la parola cultura in un contesto di interculturalità, osserva giustamente Marco Aime (2004), non è corretto parlare di culture che si incontrano, ma di persone che veicolano una certa cultura e che si incontrano. L’intercultura insiste non sulle “culture” che sono in gioco e sulle supposte differenze degli altri, ma sul prefisso inter, sullo spazio che sta nel mezzo, che si colloca nel territorio dell’incontro e delle possibilità di interazione (Mantovani, 2004). Ciò nonostante la reificazione delle culture (e delle identità) continua a essere una tentazione molto diffusa nelle pratiche quotidiane (e in quelle scolastiche), sostanzialmente perché le idee semplici e semplicistiche sono più popolari delle idee complesse. Un’intercultura intenta a scoprire le culture e a cercare di afferrarle tende a ignorare questo rischio, non accorgendosi, peraltro, di compiere un tentativo vano. L’obiettivo dell’approccio interculturale è dunque imparare come svolgere l’incontro e non imparare la cultura dell’altro. Occorre portare questo sguardo, questa grande lezione dell’antropologia culturale nell’intercultura, nella scuola plurale: formare ed educare a una mente multiculturale, a una forma mentis interculturale, versatile, aperta all’ascolto e all’incontro, complessa, dialogica, al plurale e tensionale, in grado di esprimere nuove forme culturali più fluide e composite (Anolli, 2006, p. 164; Cambi, 2006).

L’intercultura non è un’esclusiva del fenomeno migratorio

Da quando significativi flussi migratori hanno sempre più interessato l’Italia, cambiando il paesaggio delle città e della società, abbiamo iniziato a definirci multiculturali. A ben vedere, più che parlare di pluralismo culturale come un aspetto nuovo che interessa l’Italia è più indicato parlare di una sua maggiore visibilità e articolazione. Il pluralismo culturale, come quello religioso, da sempre caratterizza ogni società nel mondo, non c’è nulla di nuovo in questo. È indubbio che il mutamento oggi prodottosi, per le sue dimensioni e per la diffusione nel territorio, disegna uno scenario inedito. L’Italia si scopre plurale e questo non è senza conseguenze. Oggi, in questa fase, parlare di intercultura spinge a calare questo concetto dentro il contesto migratorio. Per molti l’intercultura è semplicemente delegata all’incontro tra persone provenienti da contesti geografico-statuali diversi. Del resto l’educazione interculturale, soprattutto in Italia, è nata sotto la spinta del fenomeno dell’immigrazione. Difficile negarlo. Una copiosa e risalente normativa ministeriale dal 1989 in poi ha unito i due temi, intercultura e inserimento degli alunni stranieri. Nondimeno il metodo interculturale considera la molteplicità degli stili, dei modelli, degli atteggiamenti, delle sfumature che le componenti della società esprimono in modo differenziato. Differenziato per classe, per genere, per generazione, per appartenenza geografica, per appartenenza urbana o rurale, per potere contrattuale, per letture del presente e concezioni sul futuro. Dovremmo piuttosto parlare al plurale, di interculture. L’intercultura può fare emergere le dinamiche delle relazioni fra diverse soggettività che interpretano i propri modelli di appartenenza in modo differenziato secondo le loro esperienze. Fornisce abilità, conoscenze, atteggiamenti necessari ad affrontare i conflitti, a lavorare in una società plurale, ad analizzare i propri valori culturali, promovendo la tolleranza, il rispetto e la comprensione reciproca, l’apertura verso gli altri. Sul piano pratico, significa passare da una concezione “compensativa” e specialistica riservata agli stranieri, a una concezione ordinaria e pervasiva. Ciò implica che gli interventi devono essere rivolti a tutti. Occorre assumere e praticare l’interculturalità come normalità e, come viene spesso ripetuto, sfondo integratore.

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L’intercultura non è mai rinuncia, censura, negazione, impoverimento

La prospettiva interculturale non comporta mai una perdita di aspetti identitari importanti, in quanto la conoscenza non deve mai significare necessariamente né adesione né condivisione di ciò che viene conosciuto. È importante segnalare che dove nascono conflitti, fortemente mediatizzati e dibattuti, sono spesso gli stessi autoctoni a innescarli, erigendosi a difensori della “diversità” (come è avvenuto per la questione della presenza del crocefisso o del presepe in classe). Infauste iniziative di singoli operatori, del tutto ignari che il pluralismo e l’intercultura non funzionano per sottrazione, ma semmai per addizione e per sintesi. In definitiva, è questo un modo di sentire le differenze, proprie o altrui, come minaccia o annullamento dell’identità dell’altro, e non come arricchimento e moltiplicazione.

L’intercultura non è compito esclusivo della scuola. I luoghi dell’intercultura

Non può esistere educazione interculturale – come non può esistere educazione alla cittadinanza – che non consideri l’appartenenza della persona a una serie di cerchi concentrici, che vanno dalla classe al mondo globale, passando dalla famiglia, l’ambiente sociale, il territorio e la nazione in cui si vive. L’ambito scolastico è centrale nei processi educativi e interculturali, e la scuola ha un ruolo importante nella formazione di cittadini come soggetti di diritti e nel potenziare le abilità che li mettono in grado di esercitarli; tuttavia – per quanto banale possa sembrare ribadirlo – essa non è in grado di assolvere a tale compito da sola, oggi ancora meno di ieri, e sarebbe assai anacronistico agire senza la consapevolezza delle connessioni esistenti tra i diversi luoghi e contesti, a livello locale e globale, in cui si costruisce una cittadinanza aperta e plurale, attiva e responsabile. L’intercultura ha bisogno di una pluralità di contesti in cui i ragazzi e le ragazze (italiani e migranti), e le loro famiglie, possano incontrarsi, frequentarsi, creare momenti di educazione e crescita culturale collettiva; spazi di partecipazione e discussione. I giovani hanno l’esigenza di trovare spazi effettivi di espressione, riconoscimento e partecipazione, che permettano loro di sperimentare e consolidare – entro una continuità di vissuto personale – sia una pluralità di appartenenze sia un’appartenenza condivisa a contesti significativi comuni. L’educazione interculturale è frutto di percorsi che avvengono soprattutto fuori dalla scuola, quando si esce dai vincoli di un contenuto da trasferire o di competenze da sviluppare. Questi percorsi si producono nella famiglia, quale primaria agenzia educativa e luogo privilegiato di educazione interculturale, benché oggi in sofferenza e poco sostenuta, nonostante sia avvolta da tanta retorica e demagogia. I percorsi avvengono nel territorio e nelle città, nonostante il progressivo logoramento di spazi e luoghi pubblici per lo scambio e l’incontro, e dunque per la vita civica, a causa della continua commercializzazione degli spazi pubblici o del senso di insicurezza alimentato dai mass media. È questo un ambito di intervento molto importante, che ci porta direttamente nella città, negli spazi urbani: discende dalla constatazione della mancanza/scarsità di luoghi, occasioni e contesti significativi dove i giovani, italiani e stranieri, possono incontrarsi e socializzare. Il tempo si riduce sempre più a quello privato e l’esperienza dello spazio pubblico, matrice della formazione sociale e politica, diventa sempre meno significativa. Da qui il bisogno di creare o riprogettare luoghi, formali e informali, che accolgano tutti e favoriscano esperienze collettive; luoghi di passaggio, di scoperta casuale, di incontro e di partecipazione, anche per coloro che sembrano aver perso il senso del bene comune; territori dove il cittadino può venire a contatto con punti di vista diversi, e conoscere il piacere dello stare insieme e di sentirsi parte della comunità. Il che indica la necessità e l’importanza di lavorare sempre di più sui contesti e su progetti comuni, anche a scuola, con i bambini, con i ragazzi e con le famiglie. Quali sono le situazioni, gli eventi, le esperienze che possono farci riscoprire le ragioni di una buona convivenza e il senso di appartenenza a un territorio e a un destino comuni? Come possiamo lavorare nei vari contesti e servizi, per costruire situazioni di questo tipo, e riconoscerle, promuoverle, rafforzarle affinché non siano effimere o contingenti? Si è consapevoli che percorsi

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di cittadinanza possono compiutamente realizzarsi quando si fanno esperienze dotate di senso, in luoghi della vita quotidiana, e a cui si riconosce un valore per la propria costruzione identitaria. Riconoscimento di un ruolo, di uno spazio attivo di partecipazione, collocato all’interno di azioni di senso, che favoriscano la costruzione identitaria e il senso di appartenenza. Praticare riconoscimento a partire dalla valorizzazione dei saperi, delle abilità, dei talenti di ciascuno. Dunque, intercultura non solo a scuola e nel mondo dell’educazione, ma sfida professionale e umana da vivere e rendere pratica quotidiana nei luoghi di vita e di prossimità, nei servizi per tutti, nei territori comuni, nei modi e tempi dell’abitare insieme. L’intenzione pedagogica è quella di valorizzare tali relazioni in direzione della costruzione di contesti scolastici o extrascolastici in cui le differenze (tutte, non solo quelle culturali) possano essere riconosciute entro uno “sfondo integratore” comune (Favaro, 2011; Zoletto, 2012).

Non c’è intercultura senza dialogo, non c’è dialogo che non sia interculturale

I due termini, per quanto sempre più abusati, presentano un’evidente correlazione. Nella sua accezione l’interculturalità è un concetto che si lega a quello di dialogo, pace, convivenza possibile e si contrappone ad altri concetti come scontro di civiltà, integralismo, guerre etniche, razzismo e xenofobia ecc. Il dialogo è interculturale o non è. Affinché esso sia fecondo e autentico occorrono tuttavia alcune condizioni preliminari: la centralità dell’alterità e della relazione, che comportano come portati ineliminabili la disposizione interiore all’accoglienza della differenza, la reciprocità, l’interiorizzazione della propria non-assolutezza e della non indiscutibilità delle proprie istanze, dando luogo ad atteggiamenti di accoglienza, empatia, apertura, tolleranza, rispetto. Il dialogo quindi prevede una sana posizione di relativismo e laicità, che passa attraverso il riconoscimento di valori fondamentali, quali il pluralismo, la libertà e la democrazia, condizione propedeutica per la costruzione di un dialogo interculturale. Elementi costitutivi e strutturali sono l’intenzionalità, il prefisso inter di intercultura, l’empatia, il decentramento, la transitività cognitiva e una intrinseca politicità. L’incontro e il dialogo comportano fatica, sono disseminati da incomprensioni, diffidenze e difficoltà: se queste non si stemperano nella banalità dei buoni sentimenti o nel rifiuto intollerante dell’altro, si può aprire la strada per una esperienza interculturale dove il conflitto diventa occasione di conoscenza e rivisitazione reciproca delle proprie appartenenze.

3. La dimensione politica dell’interculturalità

Come si è detto la cultura è plurale in quanto presenta molteplici voci e non è una neanche nel singolo individuo (multiculturale lui stesso) che è multiculturale nel senso che contiene in sé diversi frammenti provenienti da altri contesti. Ma è altresì interculturale perché questi frammenti fanno sì che individui appartenenti agli stessi contesti possano agire secondo diverse modalità. La multiculturalità è un dato di fatto, è l’insieme delle parti che compongono il mosaico; intercultura è il metodo per prendere coscienza di tale multiculturalità. L’interagire produce compromessi perché la relazione significa anche la ricerca di un’accettazione reciproca. Allora diviene interessante capire come avvengono questi aggiustamenti o questi compromessi, come avviene questa ricerca dell’accettazione reciproca, vale a dire in modo negoziato, conflittuale, dialettico. Avviene con grande difficoltà quando le soggettività interagiscono all’interno di una relazione asimmetrica. E, di fatto, l’intercultura non può trascurare che i rapporti avvengono spesso in forma asimmetrica tra i soggetti della relazione. In questo senso, l’intercultura è espressione di rapporti di potere e il carattere politico diventa parte del dialogo interculturale nel suo essere necessariamente dialogo tra persone che si incontrano e si mettono in discussione. Si pensi ad esempio ai rapporti tra immigrati e società di approdo, dove i primi occupano una posizione in netto svantaggio e hanno minori possibilità di incidere nella relazione stessa. Ma è anche un approccio complessivo e trasversale a ogni aspetto della società, dalle relazioni interpersonali agli assetti di potere.

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Per un corretto dialogo interculturale occorrerà dunque evitare letture ideologiche e metafisiche dell’altro. In primo luogo bisognerà riconoscere che a dialogare non sono entità astratte (le culture), ma uomini e donne con storie, vissuti, sofferenze, speranze proprie, peculiari e irripetibili. Creare e favorire occasioni di incontro in luoghi e spazi che favoriscano il contatto effettivo, l’ascolto reciproco, la narrazione altrui, ma anche valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo possono aiutare senz’altro il percorso. Così partire dagli elementi che ci accomunano piuttosto che da quelli che ci dividono è una buona indicazione di metodo. Il dialogo interculturale non è un’attività riservata agli specialisti, ma coinvolge tutti, e tutti sono chiamati a praticarlo. Ognuno ne è protagonista e non può limitarsi a ricoprire il semplice ruolo di teorizzatore. Certo è che per una reciproca conoscenza ci vuole del tempo. Il cammino potrà rivelarsi complesso e accidentato. Occorrono umiltà e mitezza nell’affrontare il dialogo interculturale: l’umiltà di chi sa che non ha mai tutta la verità e la mitezza di chi cerca di capire quanto di positivo c’è negli altri prima di condannare senza appello quello che ancora ci divide. In questo cammino sarà utile avere a mente quanto pragmaticamente ha osservato Bernard Weber: «Fra quel che io penso / quel che voglio dire / quel che credo di dire / quel che dico / quel che voi volete sentire / quel che sentite / quel che credete di capire / quel che volete capire / e quel che capite / ci sono almeno 9 possibilità / di non capirsi».

4. Praticare l’intercultura a scuola stimolando curiosità e stupore: la proposta di un curriculum plurilingue

Da tempo si afferma la necessità di individuare e avviare una nuova fase per l’educazione interculturale, per superare gli equivoci e le semplificazioni del passato. Un’educazione interculturale che superi approcci emergenziali, funzionalistici, episodici e settoriali fin qui di fatto presenti nella scuola italiana, nonostante le dichiarazioni e gli atti normativi, per considerare le differenze come norma, delineando modelli educativi, didattici e organizzativi coerenti (Nanni, Curci, 2005; Demetrio, Favaro, 2002; Favaro, 2011). La strada appare ancora lunga e in salita, come hanno evidenziato recenti ricerche condotte nelle scuole interculturali di “seconda generazione” in Italia e in Europa (Santerini, 2010; Alleman Ghionda, 2009). A oggi hanno prevalso iniziative centrate (e spesso adagiate) su una dimensione interculturale più esplicita, diretta, poco elaborata, anche se talvolta rivelatasi ricca di piste e intrecci. Risultano ancora più episodiche e dichiarate che implementate realmente l’apertura interculturale dei curricoli e la valorizzazione del plurilinguismo. Un rinnovo delle pratiche interculturali dovrebbe ripartire dai metodi, dall’intercultura come irrinunciabile approccio metodologico della pedagogia e della didattica: dalla didattica dei “copioni” al decentramento cognitivo e alla capacità di considerare i diversi punti di vista nella ricostruzione del passato, dal metodo comparativo a quello narrativo, dal metodo decostruttivo a quello del riconoscimento del debito culturale. Metodi e strategie didattiche che si rivelano particolarmente feconde nelle attività finalizzate alla valorizzazione del plurilinguismo oggi presente nelle nostre classi. La declinazione del diritto “alla qualità e all’equità dell’istruzione” si realizza nel riconoscimento del valore di tutte le lingue presenti nelle storie individuali di ciascun bambino-alunno: è questa la prospettiva educativa, linguistica e interculturale, recentemente proposta dal Consiglio d’Europa nel denso documento Guida per lo sviluppo e l’attuazione di curricoli per una educazione plurilingue e interculturale (novembre 2010). Le consapevolezze trasversali minime da diffondere a proposito delle lingue di origine sono, come afferma la Guida, che «queste lingue non siano ignorate e non passino sotto silenzio; siano una delle risorse a disposizione della scuola per la formazione di tutti gli allievi; costituiscano una parte importante della storia e dell’identità di ciascuno e un’opportunità per il contesto e il Paese che accoglie». A scuola non possiamo ignorare un elemento culturale così significativo come le lingue, e i dialetti, che innervano la vita quotidiana. Riconoscere e valorizzare le L1 presenti in classe fa parte delle attenzioni pedagogiche e didattiche che risultano importanti per tutti i bambini e i ragazzi. Si tratta allora di dar loro un posto nel curricolo scolastico individuando gli

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apprendimenti possibili e le ricadute formative. Ci sono molte ragioni per “far posto” alle altre lingue: far assumere consapevolezza della varietà linguistica nel mondo, allargando gli orizzonti di tutti gli alunni; dare agli allievi bilingui o plurilingui l’occasione di dimostrare le loro abilità linguistiche; superare atteggiamenti negativi o di vergogna verso lingue e culture; offrire opportunità ai genitori di partecipare attivamente ad alcuni momenti della vita scolastica coinvolgendoli nelle attività linguistiche; esplorare aspetti ed elementi circoscritti delle lingue e delle forme di scrittura in modo da favorire la riflessione linguistica mediante un approccio ludico che faciliti confronti, rilevazione di somiglianze e differenze e una sempre maggiore consapevolezza della dimensione linguistica (Favaro, 2009 e 2011, p. 101 ss.). Far entrare nella scuola parole e segni delle lingue parlate dai nostri alunni stimola la curiosità verso la varietà linguistica. Eccolo davvero un grande tema, una prospettiva preziosa, che può avere una valenza sociale se diventa l’asse di un approccio pedagogico: coltivare la curiosità nei nostri alunni e imparare a stupirsi.

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Identità e cultura: concetti fluttuanti o statici? La sperimentazione in classe*

A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di

razzismo. Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire.

Marco Aime, Eccessi di culture, 2004

1. Identità e cultura: concetti fluttuanti o statici?

All’interno di un percorso su intercultura e scuola è essenziale affrontare i concetti di identità e cultura, poiché da questi, dall’idea che vi costruiamo sopra, scaturisce l’idea che ci formiamo rispetto alle identità e culture altre. Le parole sono pietre, pietre da scagliare, ma anche pietre con le quali costruire interi universi di significati e di pratiche. Riflettere sull’utilizzo delle parole è fondamentale per tutti, e lo è ancor di più per gli insegnanti che si apprestano a svolgere la propria azione educativa con i ragazzi e i bambini. Identità e cultura sono concetti di uso comune, tanto che può sembrare di averli sempre utilizzati, ma dare per scontato che il concetto di identità o di cultura sia un concetto acquisito, stabile e statico, induce a costruire dietro di esso una serie di “discorsi sociali” che possono creare una cattiva comunicazione, possono creare giudizi e pregiudizi che vanno a compromettere la relazione con l’altro. Il concetto di identità si lega fortemente al contesto e all’epoca contemporanea, è un concetto giovane (Le Breton, 2005), che si affaccia con prepotenza proprio quando diventa difficile stabilire un’identità stabile e univoca, in un’epoca in cui le identità «non sono assicurate da una garanzia a vita, ma sono in larga misura negoziabili e revocabili; e i fattori cruciali per entrambe [identità e appartenenza] sono le proprie decisioni, il modo in cui si agisce» (Bauman, 2003); quando, nella “modernità liquida”, si fa più pressante la necessità di definire sé e gli altri, di stabilire distanze e confini, per non scivolare inghiottiti dall’insicurezza globale. In questo senso l’identità non è qualcosa che esiste a priori, ma si costruisce nell’interazione quotidiana con gli altri, in un processo di riaggiustamento continuo. In questo senso Bauman parla di identità riferendosi a un concetto legato al cambiamento: «l’identità ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto, come il traguardo di uno sforzo, qualcosa che è necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto… è uno status precario… L’idea di identità è nata dalla crisi dell’appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea» (Bauman, 2003). Il concetto di identità richiama nei diversi autori aspetti diversi ancorché collegati: vi è l’aspetto dell’unicità individuale e dell’appartenenza, ben rappresentato da Maalouf, per cui l’identità diventa «ciò che fa sì che io non sia identico a nessun’altra persona. […] L’identità di ogni persona è costruita da una moltitudine di elementi che non si limitano ovviamente a quelli che figurano sui registri ufficiali» (Maalouf, 1999), l’identità è una composizione di “appartenenze” pensate, la cui combinazione non è mai uguale tra persone, «ed è proprio ciò che fa sì che ogni essere sia unico e potenzialmente insostituibile» (ibidem). Ma «le appartenenze che contano nella vita di ognuno non sono del resto sempre quelle, ritenute fondamentali, che hanno a che vedere con la lingua, il colore della pelle, la nazionalità, la classe sociale o la religione» (ibidem). Inoltre, per Maalouf, esiste una gerarchia tra queste appartenenze, che non è immutabile, cambia con il tempo e modifica profondamente i comportamenti.

* Valentina Ferrucci, ricercatrice.

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Per Remotti invece il concetto di identità si lega al processo di memoria e oblio su cui ciascuno costruisce il proprio io, le proprie appartenenze, il proprio pensarsi: «avere un’identità dipende da ciò che vogliamo trattenere di un fenomeno; dipende dal nostro tipo di interessi per quel fenomeno; dipende dal modo con cui intendiamo perimetrarlo, recingerlo. L’identità allora, non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. Non esiste l’identità, esistono modi diversi di organizzare il concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene sempre, in qualche modo, costruita o inventata» (Remotti, 2005). L’identità dunque diventa, anziché qualcosa di fisso e immutabile, qualcosa che si definisce nelle interazioni sociali, che si può “scegliere” attraverso un’operazione di selezione delle proprie appartenenze e del proprio interesse a rappresentarle, ma l’identità è anche qualcosa che ci viene “imposta” dagli altri. Il grado di scelta/imposizione dipende molto dalla forza che abbiamo a livello sociale di imporre le nostre scelte o al contrario di essere condizionati dalle scelte degli altri. Per Bauman infine, l’identità ha a che vedere con il concetto di potere, per cui chi possiede maggiore “capitale culturale” (Bourdieu, 2001) è in grado di scegliere maggiormente la propria rappresentazione di sé: «l’identificazione è un potente fattore di stratificazione, uno di quelli che creano le maggiori divisioni e differenze. A un’estremità dell’emergente gerarchia globale stanno coloro che possono comporre e decomporre le loro identità più o meno a piacimento, attingendo dall’immenso pozzo di offerte planetario. All’altra estremità stanno affollati coloro che si vedono sbarrare l’accesso alle identità di loro scelta, e che si vedono infine affibbiare il fardello di identità imposte da altri» (Bauman, 2003). In un ipotetico continuum tra scelta e imposizione, le strategie possibili di “conquista dell’identità” possono essere molteplici: si può cercare di tendere verso un equilibrio tra le due identità, quella che ci viene attribuita dagli altri e quella che selezioniamo per noi, o adattarsi sull’identità imposta, ancorché negativa, o reagire per affermare l’identità scelta e rifiutare l’identità imposta, o infine lavorare per rendere plausibile l’identità negativa imposta. Le strategie sono praticabili a seconda degli strumenti che abbiamo a disposizione e del vantaggio che possiamo trarne1, per dirla con Leone l’Africano «voglio inferire che dove l’uomo conosce il suo vantaggio, sempre vi corre quando può. Onde se gli Africani saranno vituperati, dirò ch’io sono nato a Granata e non in Africa, e sel mio paese verrà biasimato, recarò in mio favore l’essere io stato allevato in Africa e non in Granata». Dalle diverse accezioni deriva un’idea fluida del concetto di identità, prodotta dall’interazione tra processi individuali di memoria/oblio (cosa ricordare e cosa dimenticare di noi stessi e delle nostre appartenenze) e processi sociali di scelta/imposizione, inseriti nel contesto in cui ci troviamo ad agire: le nostre identità sono dunque mutevoli come i contesti del nostro agire sociale2. Porsi verso gli altri attribuendo identità fisse e rigide può rinchiudere gli altri in un abito troppo stretto, che li costringe a limitare le proprie possibilità di controllare in modo adeguato il proprio percorso esistenziale (Aime, 2004), poiché «è il nostro sguardo che rinchiude spesso gli altri nelle loro più strette appartenenze» (Maalouf, 2005). Da queste riflessioni scaturisce una posizione meno inflessibile rispetto al concetto di cultura e appartenenza culturale: la cultura non è più un limite invalicabile, ma anch’essa è il prodotto di un agire collettivo e individuale, di una “contrattazione sociale” che porta a individuare elementi degni di memoria ed elementi da dimenticare. Il contesto culturale diventa necessario per condividere una sorta di “griglia interpretativa” che fornisce le lenti per leggere il mondo circostante. Ma concretamente la cultura in sé non esiste, esistono individui che interpretano la cultura in cui sono “immersi”, essa diventa una sorta di “cornice” dell’agire collettivo, al cui interno ogni individuo si situa, a seconda della sua “posizione sociale e relazionale”, e costruisce

1 Utile a questo proposito la citazione di Maalouf: «osserviamo per strada un uomo a Sarajevo: nel 1980 avrebbe dichiarato “sono jugoslavo!”. Lo stesso uomo, incontrato 12 anni dopo, avrebbe risposto con fierezza “sono musulmano!”. Oggi il nostro uomo si dichiarerebbe prima bosniaco, poi musulmano, ma ci terrebbe a dire che il suo paese fa parte dell’Europa» (Maalouf, 2005). 2 «Un individuo agisce come intestatario di vari ruoli e li porta tutti su di sé anche quando, a seconda delle circostanze, uno di questi si trova a essere determinante» (Gluckman, 1972).

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una sua particolare posizione rispetto alla cultura dominante, che chiameremo qui “cultura incarnata”. Definiamo infatti cultura “incarnata” l’interpretazione che ogni individuo dà delle griglie interpretative del mondo fornite da un contesto culturale, come individuo che costruisce e negozia un modo di leggere il mondo nella relazione con l’altro e con il contesto che lo circonda. Così come il concetto di identità, anche il concetto di cultura diventa fortemente imperniato sulla relazione con l’altro, senza il quale la distinzione che si opera per riconoscersi e per definire se stessi non avrebbe senso.

2. Cultura e appartenenza: significati e interpretazioni

Partendo da queste riflessioni, la sperimentazione in classe ha voluto affrontare il tema dell’identità e della cultura attraverso la messa in discussione dei concetti elaborati dagli insegnanti stessi. Per questo, prima ancora di presentare le diverse interpretazioni degli autori su “identità e cultura”, si è lavorato attraverso il “brainstorming” in aula. È stato dunque chiesto ai due gruppi di insegnanti di rispondere individualmente alle domande “Quali elementi caratterizzano la cultura cui pensi di appartenere? Quali caratteristiche ti appartengono completamente come individuo?”; scriverlo su un foglio e poi parlarne in gruppo. Dalla discussione in gruppo sono emersi diversi temi interessanti. In sintesi, gli elementi che definiscono la cultura di appartenenza emersi dal brainstorming con gli insegnanti, sono organizzabili secondo alcune direttrici:

- consuetudini: abbigliamento, costumi, rituali, feste, musica, danze, cibo, quotidianità, tradizioni (feste, cucina, ritualità),

- storia: usi comuni di tradizione popolare, storia/passato; - lettura della realtà/valori: modo di pensare/affrontare difficoltà/affrontare la vita, idea dell’altro,

famiglia, capacità critica, valori comuni (non prevaricare, rispetto dell’altro, rispetto dell’infanzia, rispetto della debolezza, senso di appartenenza; religione, matrice cattolica intesa come senso di colpa, attenzione al fine e non al percorso, senso del sacrificio; tolleranza in luogo di integrazione, valori-modelli: ambizione/arrivismo; credenze: amore eterno, importanza del denaro, senso dell’apparenza e del bello);

- lingua: lingua, codici comunicativi; - territorio: senso del territorio, ambiente come habitat/spazio, paesaggio culturale / paesaggio urbano,

clima, ruralità; - organizzazione sociale: ruoli di genere all’interno della famiglia (senso della famiglia e del ruolo

maschio-femmina); rapporto con gli altri; storia del diritto, norme (leggi, costituzione, categorie/gruppi-classi sociali, rigidità dei gruppi sociali); diritti (all’istruzione, allo star bene, alla non discriminazione delle donne, alla partecipazione civile); libertà (di espressione, di movimento; regole condivise); scuola (come percorso comune, diritto all’istruzione e istruzione di massa, contenuti, doveri, educazione/acculturazione delegata alla scuola e non alla comunità, lavoro),

- comportamenti: comunicazione del corpo e non verbale; atteggiamenti; comportamenti (tappe di vita, schiettezza, rigidità/rigore); uso del tempo).

Per quanto riguarda l’appartenenza culturale, le risposte si sono sviluppate in un continuum ideale che va dal coinvolgimento nella dimensione privata, in cui la famiglia emerge come primo nucleo sociale, fino a dimensioni che via via marcano meno la dimensione geografica e privilegiano quella ideologica:

famiglia, napoletanità, lucchese, regionale, Sud Italia, italiana, cristiano-illuministica, occidentale, mitteleuropea, mondiale3.

Prima di tutto va evidenziata la varietà di definizioni in cui i singoli del gruppo si sono identificati (dal livello nazionale, locale, cristiano-illuministica…) e le diverse gradazioni attribuite al concetto di appartenenza culturale, a dimostrazione del fatto che definire il concetto

3 Le definizioni riportate sono quelle emerse dal lavoro di gruppo con le insegnanti.

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di cultura attraverso le sue caratteristiche peculiari rivela un universo di significati che non trova accordo tra i membri di una stessa comunità ristretta (insegnanti del territorio). Abbiamo inoltre sottolineato la dicotomia tra familiare/mondiale nell’esprimere il concetto di “appartenenza”: da un lato infatti è emersa la “volontà” di appartenere a un “sistema mondo”, inteso forse più come un altrove o come un “di più” che non costringa entro gli orizzonti definiti, dall’altro invece un ritorno al familiare, per certi versi con lo stesso intento di sottrarsi all’orizzonte inteso dal senso comune: l’orizzonte nazionale. Ma anche una sorta di sbilanciamento tra il territorio e l’universale, inteso come elementi di necessità ed elementi di scelta. Nello specifico alcuni partecipanti hanno evidenziato come alcuni aspetti individuati come “culturali”, legati alla sfera territoriale/familiare, siano elementi che “restano attaccati”, agiscono dentro la persona a livello inconscio, strutturano la persona e sono “automatici”, rappresentando elementi di cui non si può scegliere di liberarsi, anche volendo. Altri elementi culturali invece vengono vissuti come scelti, per cui elementi legati alla dimensione più ampia (nazionale, transnazionale) possono essere respinti quando diventano “abiti troppo stretti”. Questo ci deve far riflettere sul nostro posizionamento individuale e collettivo rispetto al concetto di cultura. Intesa come “cultura incarnata”, che ognuno di noi sente di assumersi come propria, la cultura assume una quantità di aspetti e di significati che varia per ognuno di noi, non è più un orizzonte definito, ma pieno di sfumature anche contrastanti tra loro. Un altro aspetto importante è legato alla riflessione sul concetto di identità e cultura come prodotto dell’operazione di memoria-oblio, ovvero il raccontare un Noi che evidenzia alcuni aspetti rispetto ad altri (a volte negativi a volte positivi). In questo senso per esempio il primo gruppo ha evidenziato, individualmente ma soprattutto collettivamente, aspetti della cultura di appartenenza fortemente caratterizzanti in positivo, tanto da definire l’immagine della cultura cui appartiene il gruppo nel suo insieme una sorta di specchio che restituisce “la principessa”, mentre nel secondo gruppo è emersa al contrario l’immagine della cultura di appartenenza come “strega”, con accezioni per lo più negative, anche fortemente contrastanti con gli elementi indicati dal primo gruppo. Una delle ragioni possibili per questa differenziazione nell’immagine della “stessa cultura” (la principessa e la strega) portate nella discussione in parallelo dei due gruppi, è la differenza di composizione dei due gruppi: il primo composto quasi totalmente da insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, l’altro composto prevalentemente da educatori sociali e insegnanti della scuola secondaria di secondo grado. La differenza di valutazione del sistema culturale di appartenenza tra il primo e il secondo gruppo, nonostante entrambi i gruppi siano “immersi” nello stesso “mare culturale”, ha rappresentato un elemento di riflessione rispetto all’importanza del ruolo rispetto al posizionarsi all’interno di uno stesso contesto culturale. Un elemento ulteriore emerso nella discussione è legato all’idea di identità migrante. L’esperienza dei corsisti infatti, seppure legata a vissuti di viaggio/migrazione all’interno della stessa cornice nazionale, ha fatto emergere un condiviso senso di estraneità dovuto allo spostamento, a un senso di sradicamento legato alla doppia appartenenza a due “mondi culturali”, nonostante la vicinanza fisica (spostamenti da città a città o interregionali). La riflessione ha evidenziato la portata sia positiva sia negativa del senso di sradicamento, il non riconoscere alcuni elementi o il riconoscerli e avere la consapevolezza che non appartenere più e non appartenere ancora a nessuna delle due realtà di riferimento può essere trasformato in risorsa così come in criticità, e molto dipende dal modo in cui ci si relaziona agli altri.

3. Identità migranti e incontro con la scuola

Partendo dalle premesse della sperimentazione attuata con gli insegnanti, è utile riflettere su cosa significhi identità migrante, su quale possa essere la portata del concetto di identità e cultura per una persona che migra, e ancor più per un bambino o adolescente con origini straniere. Prima di tutto dobbiamo allenarci a “smontare” le categorie che diamo per assunte: attribuire un’identità o un’appartenenza culturale fissa e predeterminata a un bambino o adolescente migrante significa non tener conto di quanti significati nasconda il fatto migratorio.

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Sotto il fenomeno generico di migrazione infatti si nascondono vissuti molto differenti tra loro: un minore straniero non accompagnato ha vissuto sicuramente una migrazione differente rispetto a un suo coetaneo che è emigrato con la famiglia, o ancora da chi è giunto nel nostro Paese per ricongiungimento familiare, o chi addirittura nel nostro Paese è nato da uno o entrambi i genitori stranieri. Ma anche all’interno di queste macrocategorie, la migrazione, come ogni evento della vita, resta un fatto esclusivamente individuale, legato ai propri vissuti e inserito in mille contesti differenti. La migrazione in sé dunque poco ci informa del vissuto di quel bambino particolare, la migrazione ha in sé elementi di criticità o di risorsa, o più spesso entrambe le cose, e molto dipende anche dalla relazione che riusciamo a intessere con lui. La migrazione è fattore di cambiamento, e questo può rappresentare una risorsa o una complicazione, resta comunque un evento faticoso nella vita di una persona. Il fatto migratorio può portare a un eccessivo carico emotivo e di responsabilità (pensiamo ai bambini-mediatori tra la famiglia di origine e la scuola), a un senso di spaesamento dovuto all’essere in bilico tra due universi culturali e non essere a pieno inserito in nessuno dei due, ma anche allo sviluppo di un’elasticità di pensiero e di condotta, utile a soddisfare il bisogno di appartenenza a entrambi gli universi. La missione educativa degli insegnanti rappresenta un tassello fondamentale e delicatissimo nella costruzione dell’identità dei minori migranti. L’insegnante e la scuola, nella sua dimensione relazionale, rappresentano infatti un universo di riferimento che per il minore straniero è denso di significati e che lo informa anche delle relazioni che potrà stabilire con la realtà sociale allargata del Paese di arrivo. Le difficoltà che un bambino straniero può incontrare nell’incontro con la scuola possono essere molteplici, e si legano soprattutto alla dimensione comunicativa e relazionale. Possono essere dovute allo sguardo “svalorizzante” dell’insegnante, che innesca una relazione opprimente e crea demotivazione verso l’apprendimento, o alla frustrazione dell’incomprensione, dovuta a codici comunicativi differenti, o alla difficoltà di non poter adattare le competenze acquisite nell’ambiente familiare con quelle spendibili nel sistema classe: per questo è richiesto all’insegnante di trasformare il proprio modo di stare in classe e di trasformare la classe in un ambiente di apprendimento interculturale. Partendo dai fondamenti dell’agire educativo, ossia lo sviluppo di ambienti di apprendimento in cui sia sviluppata la dimensione motivazionale e quella relazionale, è importante assumere come proprio il principio per cui la classe diventa ambiente-comunità di apprendimento, in cui l’apprendimento sia co-partecipazione della classe al processo educativo, lavorando sulle differenze di ognuno, e valorizzando le potenzialità individuali e collettive; smontare i dualismi “noi/loro” partendo dal presupposto che “siamo tutti unici”; infine lavorare sull’organizzazione dei curricoli in senso interculturale, attraverso la messa in discussione dei punti di vista etnocentrici delle diverse discipline.

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Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti

LAVORANDO SULL’IDENTITÀ: IL NOME (CHIARA MERIGGI)

Riflettendo sul tema complesso dell’identità culturale, mi domandavo quale potesse essere un approccio strutturato alla questione, ma che fosse vicino ai bambini e non troppo calato dall’alto. La collega Margherita uscendo dal corso, suggeriva l’idea di un lavoro sul nome… poteva essere la strada giusta, ma come attuarla? Il la, come spesso accade, lo ha intonato una bambina: Alessia, nel nostro lavoro settimanale di lettura espressiva, ha scelto dal libro di Roberto Piumini che usiamo a questo scopo, la storia della bambina senza nome. Il breve racconto ci ha colpiti tutti e in cerchio, immediatamente dopo la lettura, ci immaginavamo come deve essere brutto non avere nome. Da qui è nata l’attività che, necessariamente, ha coinvolto anche i genitori. A ogni bambino è stata consegnata una copia del racconto, da rileggere insieme ai propri familiari.

La storia della bambina senza nome

C’era una bambina che aveva un nome come tutti i bambini del mondo: era allegra, e andava spesso a giocare in un certo giardino. Un giorno lanciò la palla al di là di una siepe, e quando andò a cercarla, non la trovò. Cerca qua, cerca là, la palla non c’era: la bambina era stupita e anche un po’ spaventata. A un tratto senti una vocina, in alto: – E tua questa bella palla, piccolina? La bambina guardò su, e vide un omettino magro seduto a cavallo di un ramo: aveva la palla fra le mani. – Certo che è mia. Dammela! – disse la bambina. – E tu cosa mi dai, in cambio? – Niente! La palla è mia! – Ma adesso ce l’ho io! – Non ho niente da darti! – disse la bambina. – Si che ce l’hai: dammi il tuo nome! Pensando che l’ometto scherzasse, la bambina gli disse: – Va bene, te lo do: butta la palla! Quello sorrise, lasciò cadere la palla, lei la prese e tornò a casa: si sentiva strana. E più strana si senti quando si accorse che la salutavano senza più dire il suo nome: poi, pensandoci, si accorse che nemmeno lei lo ricordava. – Mamma, come mi chiamo io? – disse allora la bambina a sua madre. – Tu? Non hai nessun nome, – disse la mamma. La bambina andò a guardare i suoi libri, i suoi quaderni, e vide che non c’era nessun nome. – Tu, scendi a fare merenda! – gridò la mamma di sotto. «La mamma mi ha sempre detto di non chiamare nessuno con un Tu… È perché proprio io un nome non ce l’ho…» pensò con tristezza. Allora, piangendo, la bambina prese la palla, andò al giardino, arrivò sotto l’albero. L’omarino era ancora lassù, con la mano chiusa, e sorrideva. – Ridammi il mio nome! – gridò la bambina. – Ti darò la palla, se vuoi. – Tieniti la palla, piccolina, e anche il tuo nome: e un’altra volta, non darlo a nessuno, capito? Apri la mano, e all’improvviso la bambina ricordò di chiamarsi Antonella, e si mise a saltare per la gioia. Corse a casa, e la mamma chiese: – Dove sei andata, Antonella? – Avevo perso una cosa importante, mamma, – disse la bambina, e lo disse così seria, che la mamma le diede un bacio di quelli che fanno rumore. (da R. Piumini, C’era una volta, ascolta, Torino, 2009)

Dopo di che su un foglio a parte è stato chiesto ai bambini di rispondere a queste domande:

– Ho letto la storia di R. Piumini una bambina senza nome. Rifletto, chiedo e scrivo. – Il mio nome è……………….. – Lo ha pensato e scelto per me……………… – A chi lo ha scelto piaceva perché…………….. – A me piace sentire chiamare il mio nome quando………………..

perché…………………….. (descrivi brevemente situazione ed emozione) – A me non piace sentire chiamare il mio nome quando………………..

perché……………….. (descrivi brevemente situazione ed emozione) – Quando scrivo il mio nome su un quaderno, un foglio, un disegno, un biglietto d’auguri

penso che………………..

Lunedì mattina tutti i bambini erano desiderosi di condividere le loro scoperte. Ognuno di loro ha letto a voce alta (un paio di bambini con DSA hanno chiesto a me di farlo al posto loro) quanto avevano scoperto. Alla conclusione della lettura del primo elaborato è partito spontaneo l’applauso; così si è ripetuto per ogni nome, per ogni bambino.

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Abbiamo concluso il lavoro in modo simbolico. I bambini erano tutti rimasti affascinati, durante un lavoro di storia, dalle impronte di un adulto e di un bambino, probabilmente ominidi australopitechi, ritrovate a Laetoli in Tanzania, di cui avevo mostrato loro le foto. Così, su una lunga striscia di carta, ognuno di loro, col pennarello del colore che preferiva, ha disegnato le sue impronte dei piedi. Vicino alle impronte ha scritto il proprio nome e due parole per sintetizzare le sue scoperte, per esempio… storia e scienza, per chi si chiama Leonardo come da Vinci; coraggio e libri-racconti, per chi si chiama Alice, come la più nota, viaggiatrice nel paese delle meraviglie; imperatrici e sante per chi si chiama Teresa; nonni zii, amicizia, musica, antichità… e così via. Ognuno ha poi completato le sue impronte personalizzandole con l’uso del colore a cera. La striscia con le impronte, appena completata è stata appesa in classe sulla parete dove si trova il planisfero. Credo che questa attività, nata in modo un po’ intuitivo, ma “pilotata” attraverso l’intervista abbia raggiunto diversi obiettivi: per me insegnante, comprendere ancora meglio dove si colloca ogni bambino, in quale rete di “storie”, memorie, affetti si è inserito il suo arrivo, e con quale desiderio, passatemi il termine, ma nel senso etimologico del termine, de sidera, dalle stelle, con quale “sogno” è stato pensato dai genitori. E, credetemi, su questo punto avrei tanto da dirvi. Per i bambini: fare esperienza di “significanza”, di dare cioè senso e significato profondo a sé e alla propria storia, per poter guardarsi e scriversi” con un maggiore orgoglio e consapevolezza.

RIFLESSIONI SU IDENTITÀ E CULTURA (CATIA REDDITI)

La costruzione della propria identità umana e sociale e la trasmissione del patrimonio culturale può essere garantito:

– sul piano pratico (agito) costituito dall’insieme di relazioni interpersonali che si instaurano e si consolidano a livello sociale;

– sul piano metacognitivo, e quindi dall’educazione in senso lato, ossia dall’apprendimento di contenuti culturali (ciò che, ad es. a scuola, avviene a livello progettuale attraverso i contenuti che scelgo di condividere con i ragazzi e i metodi che adotto).

Nella nostra società complessa e ancora in trasformazione, resta da capire quale riforma della conoscenza e dell’insegnamento possa garantire l’acquisizione di competenze capaci di contrastare le forme di pensiero che sono alla base delle identità personali e culturali statiche (immobilità di pensiero, di idee e comportamenti) e che impediscono lo scambio e la comunicazione tra individui in una società in cui ognuno è chiamato a diventare cittadino dell’Europa e del Mondo. Nella scuola e nella vita extrascolastica, nel quotidiano (inteso come dimensione esistenziale) sono presenti popoli e culture diverse: ogni luogo (inteso come ambiente naturale, sociale, culturale) può costituirsi come occasione per la promozione (o limitazione) della mediazione culturale tra le diversità presenti e la costruzione sociale dei saperi nel segno del pluralismo. L’acquisizione dei sistemi simbolico-culturali del Paese ospitante, deve consentire a tutti gli stranieri di ogni luogo (altro Paese, altra nazione europea ed extraeuropea) di avvalersi dei sistemi simbolici e culturali propri del Paese di provenienza, al fine di garantire il passaggio concettuale dalla cultura vissuta in prima persona a quella ricostruita a livello intellettuale, come rielaborazione della conoscenza, dove l’io si incontra con l’altro per diventare noi. Ogni cultura può e deve essere riconosciuta e collocata nel reticolo delle relazioni, sulla base della conoscenza delle uguaglianze e anche delle diversità. Secondo me la cultura è in parte collegata alla memoria collettiva e in parte è frutto di un lavoro di rielaborazione delle esperienze che l’individuo svolge a livello personale e sociale. La memoria collettiva è data dal bagaglio culturale che si trasmette di generazione in generazione, per via orale e/o scritta, ed è riferita (a mio avviso) agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, ai pregiudizi che costituiscono la mentalità di un gruppo sociale.

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«…Essa è anche la cultura con la quale veniamo inconsapevolmente a contatto nell’ambiente di origine e che utilizziamo, in modo del tutto acritico, come primo sistema di orientamento nella realtà sociale» (Landi, 1988, p. 47-48).

Ciò può rimandare anche a un senso di staticità e fissazione, mentre la continua rielaborazione porta a una continua ricerca di valori e significati di vita. La contemporaneità spaziale e temporale della nostra epoca multimediale e virtuale tende a valorizzare il presente nel suo incessante divenire e a mettere in discussione la staticità dei valori che hanno caratterizzato il nostro passato. Io vivo in questa realtà e, di conseguenza, le mie idee e i miei pensieri incentrati su tutto ciò che mi circonda (livello spirituale, filosofico, culturale, sociale), i costumi, le abitudini (tradizioni, musiche, cibo, uso del corpo, comportamenti, buone maniere e galateo), i valori (etici, religiosi, sociali) e gli atteggiamenti (verso me stessa, gli altri, l’ambiente in senso lato) risentono di ciò che l’ambiente naturale, i miei genitori e la scuola mi hanno “passato” attraverso gli insegnamenti, più o meno formalizzati… ma si intersecano anche con le mie esperienze personali, gli incontri, i viaggi, le culture con le quali sono venuta a contatto. Tutto ciò ha modificato e continua a modificare i miei orizzonti e io sono una persona diversa dalla mia mamma, dalla mia maestra … sono unica…

«La mia identità è ciò che fa sì che io non sia identico a nessun’altra persona. […] Ciascuna delle mie appartenenze mi unisce a un gran numero di persone; tuttavia, più le appartenenze che prendo in considerazione sono numerose, più la mia identità risulta specifica. L’intera umanità non è fatta d’altro che di casi particolari, la vita è creatrice di differenze, e se c’è riproduzione, non è mai in maniera identica» (Maalouf, 2005).

Mi ritrovo tantissimo in queste parole: infatti, per certi aspetti mi sento paesana (legata alle tradizioni del mio mondo familiare) o italiana, (anche se non troppo nazionalista), a volte europea, altre “pluriculturale”… a volte mi sento ancora in costruzione… Credo che non sia importante avere un modello rigido da seguire…piuttosto avere punti di riferimento che guidano il tuo essere e il tuo fare….e ciò si rispecchia tantissimo nelle tue azioni: come ti poni con i bambini, come li ascolti, quanto li rispetti, come sono i rapporti con il tuo partner, con i figli, con gli sconosciuti, con l’ambiente… Rispetto alla domanda: «Quali caratteristiche ti appartengono completamente come individuo?», mi sento di poter rispondere che:

– sono una donna libera di poter esprimere il mio pensiero qualunque esso sia (a livello politico, sociale, culturale);

– credo nella famiglia come gruppo di persone che condividono una stessa condizione; – credo che la scuola sia, oggi, una delle agenzie educative e formative che non riesce, in

toto, a rispondere alla domanda personale e sociale di educazione e di istruzione avanzata dalle giovani generazioni, perché mancano le risorse umane e materiali per agire con modalità che rispettino il singolo individuo e il gruppo allo stesso tempo, ma credo che la buona volontà possa sopperire a tante mancanze… E io avverto molto il senso del dovere verso gli alunni e verso la società e, inoltre, sono esigente nei miei confronti… Il valore della costante crescita personale mi porta a guardarmi intorno e confrontarmi con gli altri (a non prendere la ricetta e applicarla);

– mi sento figlia e in dovere di aiutare le persone che mi sono vicine, anche sacrificando i miei interessi e non ascoltando i miei bisogni, se necessario… ritengo importante ascoltare l’altro, destrutturare un problema e cercare più modalità di soluzione, anche se non sempre ci riesco;

– ritengo che i linguaggi non verbali (metterei la lingua in secondo piano) costituiscono i sistemi simbolici che consentono la comunicazione, l’espressione e la comprensione dell’altro: a volte basta guardare un bambino negli occhi ed è come dire «Ti vedo. Sei importante. Ci sono.»… Anche se nella nostra cultura europea si tende a dire verbalmente quasi tutto aiutandosi con gesti, credo che lo sguardo, la prossemica, il contatto corporeo,

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l’agitazione o la lentezza dei movimenti possa far passare più messaggi significativi di una frase;

– assumo come valore il rispetto del senso comune, ad esempio utilizzando un abbigliamento consono al mio ruolo (ai miei ruoli), comportamenti di responsabilità;

– assumo come valore il ricordo del passato, la nostra storia, i valori che hanno permesso alla nostra società di diventare ciò che è (siamo), il ricordo delle situazioni vissute dai miei nonni, genitori e umanità che hanno segnato una o più generazioni e che hanno caratterizzato anche quello che io sono oggi.

Purtroppo, quando guardo la mia città o una città italiana, non sempre riesco a carpire solo le bellezze e rimanerne meravigliata (come dicevano alcune colleghe), ma colgo anche quegli aspetti di degrado che osservo in certe vie o piazze… osservo anche l’indifferenza delle persone di fronte all’ambiente (ad es. buttare tutto per terra) e agli altri…

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Etnopsichiatria a scuola*

Conosciamo le difficoltà scolastiche che possono avere gli alunni di origine straniera. Alcuni diventano stranieri alle loro famiglie e alla scuola.

Sibille de Pury

1. Introduzione

L’etnopsichiatria pone alla base del suo intervento nel contesto scolastico la questione fondamentale di come fare a tener conto contemporaneamente delle specificità culturali e linguistiche che costituiscono l’universo simbolico del bambino migrante e le intenzioni e le modalità educative dell’istituzione scolastica. Nonostante le strategie di inclusione di una scuola che si vuole laica e di tutti, troppo spesso i bambini e ragazzi migranti mostrano delle difficoltà scolastiche sia a livello dell’apprendimento che dei comportamenti che possono compromettere, se non portare al fallimento definitivo del progetto educativo. Frequentemente le difficoltà a scuola si ripercuotono anche nella famiglia e sono origine di tensioni tra genitori e figli. Il disagio si amplifica e apre la via della devianza o dell’emarginazione. Il dispositivo etnopsichiatrico nella sua operatività mette in sinergia le risorse della psicologia e dell’etno-antropologia creando la possibilità di uno spazio di confronto aperto che permette alle teorie psicologiche e pedagogiche di pensarsi nei loro presupposti epistemologici e all’etnologia di agire come uno strumento di cambiamento e di intervento rendendo percepibili i mondi e le etno-teorie, i loro presupposti e il loro modo di agire. Tutte le società hanno delle teorie su cosa è un bambino, su come e perché si sviluppa, su come valutare i progressi del suo sviluppo e su come agire per far sì che divenga l’adulto competente per vivere al meglio nel mondo che lo accoglie. Queste teorie sono costruzioni complesse che emergono non solo dal discorso esplicito ma soprattutto dai modi di fare, dai luoghi e dalle persone coinvolte nella cura e nell’educazione dei bambini. Gli approcci interculturali di tipo sia psicologico sia pedagogico affrontano i temi relativi alla crescita e all’educazione utilizzando vari strumenti e modalità di ricerca. In generale ritroviamo tre tipi di studi: le monografie che studiano il processo di crescita in un ambiente isoculturale; gli studi comparativi in cui un fenomeno è studiato in culture diverse; gli studi in contesti multiculturali. Il primo tipo di approccio fornisce studi monografici su una società data; gli studi comparativi si sono focalizzati soprattutto sulle fasi dello sviluppo nelle sue varie componenti (motorio, cognitivo, affettivo ecc.); mentre gli studi nei contesti multiculturali sono focalizzati prevalentemente sulle modalità relazionali e sulla comunicazione sociale. Da ognuno di questi filoni si hanno informazioni utili e preziose. Nonostante non sia questo il contesto per una loro presentazione ci sembra utile mettere in evidenza alcuni risultati:

– necessità di una distinzione netta tra competenza e performance cognitiva (Dasen, 1993, 1998);

– influenza della cosiddetta “nicchia ecologica di sviluppo” cioè come i contesti fisici e sociali, le pratiche educative e le etnoteorie genitoriali interagiscono tra loro e hanno effetti sul bambino (Super, Hakness, 1986, 1997);

– importanza delle etnoteorie, cioè alle rappresentazioni degli adulti relative al bambino e al suo sviluppo; è da sottolineare che sono state studiate prevalentemente quelle dei genitori mentre si sa molto poco di quelle degli insegnanti e degli altri professionisti che intervengono attivamente su questi processi di presa in carico dei bambini e dei giovani, come ad esempio gli insegnanti e i pediatri, e più in generale dei rappresentanti del

* Lelia Pisani, etnopsicologa.

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progetto educativo della società e delle istituzioni di riferimento quali la Scuola e le Strutture socio-sanitarie;

– carenza di informazioni sulle teorie e atteggiamento dei professionisti della scuola verso la diversità culturale e di informazioni su che cosa accade quotidianamente nelle aule, su come i saperi vengono trasmessi; quali siano le negoziazioni nelle relazioni all’interno della comunità classe; come si strutturano le alleanze tra insegnanti e allievi e tra alunni a partire da identità che necessariamente comprendono le appartenenze culturali, linguistiche, di genere ecc. e la loro influenza sul rendimento scolastico e l’inserimento sociale di più ampio respiro.

I rari studi etnopsicologici sulla cultura scolastica evidenziano la presenza di quello che è stato definito il curriculum nascosto, che in modo spesso inconsapevole coesiste e agisce con il curriculum esplicito con i suoi programmi, regolamenti e orari (Henriot, Van Zanten, 2000). L’osservazione antropologica nelle classi in Francia e in Spagna, ha mostrato come spesso gli insegnanti in modo del tutto inconsapevole facciano riferimento continuo alla nozione di tempo e sul suo calore, sollecitando senza tregua il rispetto degli orari e il fare in fretta (Vasquez-Bronfman, Martinez, 1996). Ogay e i suoi collaboratori suggeriscono che ciò faccia parte del processo di inculturazione indubbiamente più adatto alle cadenze della società industriale e all’efficienza che è uno dei valori fondamentali delle società postindustriali.

2. Julie1. Nel mondo, tra mondi

L’umano è un essere culturale: per crescere, svilupparsi e vivere ha bisogno di un contesto sociale che lo accolga e organizzi in una struttura di senso la sua esistenza. L’etnopsichiatria pensa quindi alla cultura come involucro indispensabile alla costruzione e al mantenimento dell’equilibrio psichico delle persone, una sorta di doppio esterno, liminale indissociabile dal nucleo interno del soggetto (Nathan, 1986, 1987, 1994). Cultura come insieme di codici e di pratiche che rende il mondo comprensibile e prevedibile, involucro culturale che protegge dalla perplessità e dalla paura e fornisce indicazioni sulle strategie comportamentali per far fronte agli eventi della vita (Devereux, 1973). Nel lavoro di confronto e discussione con gli insegnanti è emersa chiaramente la complessità di questo involucro-membrana che mette in forma e con-tiene ma al tempo stesso è un tessuto connettivo che collega e unisce i molteplici livelli del mondo e degli esseri: dal locale al transnazionale, dall’intimo al sociale. Un sistema complesso, i cui elementi, lingua, religione, storia, territorio, organizzazione sociale, vita quotidiana, odori, sapori ecc. si organizzano strutturando il mondo a cui apparteniamo. Il tema dell’appartenenza, declinata dai partecipanti nel continuum tra necessità, possibilità e desiderio ha evidenziato come alcuni aspetti culturali, quelli legati alla sfera territoriale e familiare siano elementi che “restano attaccati”, “agiscono sulla persona a livello inconscio”, “strutturano la persona”, “sono automatici”, “sono elementi di cui non si può scegliere di liberarsi, neanche volendo”. Altri aspetti dell’appartenere, si sono rivelati meno definitori e permettono una più ampia libertà di scelta: sono questi i livelli sociali più ampi2. Le esperienze personali di migrazione, tra Sud e Nord, Isole e continente, hanno anche messo in evidenza la doppia appartenenza a mondi culturali diversi legati. I partecipanti hanno descritto il senso di estraneità e sradicamento vissuto nello spostamento da una regione all’altra: «a un certo punto ti accorgi che sei estraneo, non appartieni più e non appartieni ancora». Le esperienze narrate hanno reso vive le parole della teoria e il dolore della perdita della pelle, dell’involucro culturale della persona, alone impalpabile ma necessario per la costituzione dei referenti personali e della migrazione.

1 Come d’uso, i nomi e le informazioni che avrebbero permesso di identificare la situazione discussa sono stati omessi o modificati. 2 Cfr. sopra, Ferrucci V., Identità e cultura: concetti fluttuanti o statici? La sperimentazione in classe.

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E ancora, la migrazione è trauma, modifica i rapporti con il tempo, introduce un buco nella continuità del tempo. Crea una nuova cronologia: prima-dopo l’evento migratorio, che si costituisce come evento primordiale, tempo zero a partire dal quale il migrante riorganizza la storia, ridefinisce una filiazione, un’appartenenza. Tra memoria e oblio; migrazione come perdita degli oggetti d’amore, oggetti concreti, casa, odori, sapori; e astratti: lingua, codici comportamentali, regole condivise, valori ecc. È stato anche evidente come i concetti di cultura e involucro culturale non esauriscano la complessità del vissuto, per alcuni il problema è quello di come diventare altro, come produrre la lacerazione che permette di adeguare alla nuova forma un “abito divenuto troppo stretto”. Impossibile tornare indietro, essere chi eravamo, difficile mantenere la propulsione creativa verso l’avanti, compiere la missione. Quali possibili mediazioni tra i mondi del mondo? La riflessione si dipana attorno alla proposta metodologica dell’etnopsichiatria, pensare le persone partendo dai loro attaccamenti. Bruno Latour (2001) ne sviluppa il concetto e lo definisce nella sua componente sociale come “ciò che fa fare”, ciò che fabbrica l’appartenenza. Mentre Tobie Nathan considera gli attaccamenti – «attaccamenti multipli a lingue, divinità, antenati e modi di fare» – la base sulla quale pensare le persone nel loro funzionamento psicologico e nelle modalità di interazione (Nathan, 2007). Pensare le persone partendo dai loro attaccamenti permette un’analisi delle situazioni di disagio psicologico che tiene conto della complessità delle realtà attuali nel mondo globalizzato. L’esplorazione degli attaccamenti delle parti in relazione (alunni e insegnanti; famiglia e scuola) permette di capire ed esplicitare le visioni del mondo di ognuno, sciogliere i malintesi, identificare le fragilità e i punti di forza, costruire delle soluzioni negoziali che tengano conto di tutte queste dimensioni. Julie, nove anni, è cinese, frequenta la quarta elementare di una scuola della campagna toscana. L’insegnante ce ne parla nel corso di un’esercitazione. Si tratta di descrivere una situazione problematica e pensare insieme come migliorare la situazione.

È una classe a tempo pieno, 18 bambini quasi un’isola felice, di livello medio in cui c’è una bambina cinese, il mio pallino. Questa bambina cinese l’abbiamo avuta fin dalla prima elementare, è nata in Italia. È arrivata dalla scuola materna, anche se aveva frequentato poco. In prima elementare ha fatto il percorso di alfabetizzazione come tutti gli altri bambini, partiva pari. Però mentre gli altri facevano i passi avanti nella lettura e nelle altre materie, lei rimaneva molto chiusa soprattutto nell’esposizione orale. Si capiva fin da subito che la bambina era molto intelligente e capiva tutti i comandi però nella parola orale, non avevamo dei risultati. Ad aprile della prima elementare, quando la situazione sembrava stesse sbloccandosi, i genitori hanno deciso di portarla in Cina dove aveva la sorella maggiore. Era importante per loro che la bambina imparasse a scrivere e a leggere in cinese. È partita per la Cina, noi abbiamo finito la nostra prima, abbiamo fatto tutta la nostra seconda, l’anno scorso a settembre della terza abbiamo ritrovato Julie nel nostro gruppo, era tornata. Per lei la situazione si è fatta ancora più difficile, si è ritrovata coi suoi amici, che ha riconosciuto felice, le maestre. Ma è come se si fosse interrotto qualcosa, è ancora a quel momento della prima elementare, quando ci aveva lasciato, mentre noi abbiamo fatto tutto un percorso. Quindi, mentre noi facevamo altre cose, lei è ripartita daccapo con le letterine ma non abbiamo ottenuto molti risultati. Qualche parola la legge ma oramai più per memoria visiva che per altro. Non riusciamo a ottenere dei risultati nell’orale. Non vediamo che da parte sua c’è uno sforzo, non per imparare l’italiano perché lei lo sa l’italiano, uno sforzo, un passo verso di noi. Di sua iniziativa lei non fa niente, non chiede nemmeno di andare in bagno, né se può bere. Io insegno le discipline dell’ambito matematico, anche quando ha finito un compito, a matematica tiene bene il passo con la classe, non ha problemi, in alcune cose è molto, molto brava, però ecco, non dice mai: ho finito. Non c’è questo suo dimostrare, far vedere che ci tiene, far vedere che sa.

L’insegnante continua a raccontare, è turbata dal fatto che la bambina non parli spontaneamente e, se interrogata, risponde a monosillabi e a volte neppure quello.

I problemi li do semplici, figurati, non con un testo complicato. Non solo con lei, anche con la classe il problema vero e proprio della matematica si sta affrontando pian piano. Però per quello che riguarda tutte le operazioni, anche le operazioni a due cifre, magari non sa dire il nome del numero 15 e dice diecicinque, però sa che 3 per 5 fa 15. Non lo dice ma lo sa. I calcoli li fa dentro di sé, io non so cosa le passa per la testa, ma il risultato c’è. Nella matematica è una cosa spontanea, in italiano non è che abbia problemi, se le diamo le

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schedine con le frasi da completare o frasi da leggere, lei legge, però deve essere sempre fortemente stimolata, non prende mai l’iniziativa. Non parla mai e se anche le si fanno domande non risponde, anche domande a cui deve rispondere sì o no. Gesticolo molto con lei per aiutarla, cerco di comunicare con il corpo ma niente.

Il gruppo inizia il suo lavoro di interrogazione. Le esperienze si incrociano, altri insegnanti hanno avuto esperienze simili con alunni cinesi. Alcuni sottolineano la loro riservatezza e compostezza rispetto agli alunni italiani o di altri Paesi, altri evidenziano come ciò non sia necessariamente un il sintomo di un disagio?. «Avevo in classe un ragazzino cinese, in quinta elementare non diceva una parola, voleva fare l’architetto, adesso sta facendo l’università, architettura». Lavoriamo sugli impliciti che derivano dalle nostre formazioni, sulle teorie psicologiche che sono alla base di queste griglie di osservazione e di lettura: come si comporta un bambino sano? Quali segni indicano disagio? Che cos’è il disagio? Una bambina che va bene a scuola, che ha risultati nella media, in alcune materie addirittura buoni, non parla, se non il minimo indispensabile e mai spontaneamente. Osserva con attenzione e interesse i compagni che giocano, apprende le regole dei giochi anche i più complessi, che poi inappuntabilmente applica quando, solo se invitata, partecipa. Perché la madre di Julie, quando le insegnanti la invitano a un colloquio a cui partecipa anche un mediatore linguistico che traduce ciò che hanno da dirle per essere sicure che capisca la gravità del problema, “ride molto” e quando le maestre le chiedono di insistere perché Julie a scuola si impegni e parli, «risponde che glielo dice, ma poi continua: Julie è così… sorride e non dice altro». Dalla pratica clinica etnopsichiatrica abbiamo appreso la necessità di esplorare alcune questioni di base nel lavoro con i bambini che presentano situazioni o comportamenti che la Scuola considera come problematici o sintomo di problemi e la famiglia non risponde adeguatamente, non prende sul serio la questione. L’insegnante dichiara inquieta:

Vorrei capire… non è che mi trovo a disagio con lei, vorrei capire se lei si comporta così perché è un modo della sua cultura, e allora io lo accetto, lo voglio accettare, e la posso difendere a spada tratta di fronte anche ad altri insegnanti che dicono: «eh però non parla!» O se c’è anche qualcos’altro, magari… Un disagio più profondo. Ecco in questo caso vorrei trovare un modo per poterla aiutare. Posso accettare che lei non mi chieda altro cibo per educazione ma non vorrei che non me lo chiedesse perché c’è dietro altro.

L’ipotesi, esplicitata nella discussione è un pensiero condiviso tra insegnanti e psicologi, all’origine del problema vi è la “scissione” tra la cultura di origine e quella di accoglienza. Trasportati da un mondo all’altro i migranti perdono la loro sostanza, il loro ethos. Alcuni propongono il tema della nostalgia, nostalgia per la nonna, per la Cina, così presente nel mondo familiare, ma al tempo stesso molto lontana. Un’altra insegnante:

Ricordo un caso di una bambina cinese, lei non era qui, per lei il mondo era il ricordo della Cina e dei nonni. Aveva una grandissima affettività verso la sorella maggiore e nei suoi disegni, nelle storie che raccontava c’era solo la Cina. Ha avuto un inserimento difficilissimo, tendeva a isolarsi, intelligentissima, per certi aspetti sopra la media, molto solitaria. Quando pian piano siamo riusciti a entrare nei racconti, nelle storie è venuto fuori questa grossa, enorme nostalgia dei nonni e del suo Paese. Era ancora là era come se non vivesse qui.

Ma Julie non è lontana, assente, c’è, partecipa ma in modo particolare, non ha niente dell’irruenza dei compagni, è silenziosa, partecipa ai giochi solo se invitata, alla mensa non chiede mai doppia razione di cibo, va in bagno solo durante l’intervallo. Va bene a scuola e i compagni “l’adorano”. La famiglia ha contatti con la scuola senza nessuna preclusione conflittuale, i genitori lavorano tutto il giorno e le due figlie minori sono affidate alle cure della sorella maggiore. Anche le ipotesi di un possibile disfunzionamento a livello delle relazioni affettive e delle cure primarie: madre assente, sorella ancora troppo giovane ecc. Ma le ipotesi nel momento stesso in cui vengono formulate sono scartate. La famiglia è adeguata, certo

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l’organizzazione del quotidiano è diversa, ma il clima è sereno e nessuno pensa che ci siano problemi di incuria o difficoltà a questo livello. E allora colpisce ancora di più l’attivazione degli insegnanti e dei compagni, Julie “sorvegliata speciale”. Il suo silenzio, la sua pacatezza crea inquietudine. La madre ride e cerca di tranquillizzare dichiarando in modo semplice, tranquillo e preciso: «Julie è così!». Così come? Chi è Julie? Abbiamo trovato il bandolo, i limiti al lavoro che c’è da fare per capire sono evidenti, non abbiamo il sostegno di nessun rappresentante del mondo cinese, né della madre o altri membri della famiglia. Mancano le parole, «Julie è così», è evidente che la madre ha un’idea chiara di che cosa succede e su chi è Julie. L’intervento del mediatore etnoclinico nel lavoro in etnopsichiatria permetterebbe di prendere sul serio gli enunciati e di rendere esplicito il confronto tra le teorie che si profilano dietro le parole (sul ruolo del mediatore nel lavoro etnoclinico cfr. de Pury, 1998). Evidentemente il dubbio che assilla gli insegnanti è il mutacismo che si delinea dietro la constatazione che nonostante tutti gli sforzi la bambina non parla:

Io gesticolo molto con lei per aiutarla, cerco di comunicare con il corpo ma niente. Per esempio anche stamani nella correzione dei compiti, divisioni e un problemino. Lei aveva fatto tutto, tutto bene. Dopo un po’ gli altri bambini sono venuti a dirmi che stava piangendo. Mi avvicino: «Julie ti senti male? Pancia? Testa? Bagno? Bere?» Lei nulla, non dice nemmeno no. Ti mette in difficoltà, le dico: «una parola, di’ una parola, trovamela nel vocabolario, una parola che mi faccia capire qualcosa». L’altra volta ha cercato nel vocabolario la parola “testa”. le faceva male la testa e piangeva. Stamane non era nemmeno quella la parola, a un certo punto si è messa a piangere poi le è passato ma siamo arrivati alla fine della mattinata senza aver trovato il motivo del pianto.

Il non capire è ciò che pone problemi, c’è urgenza nel dover chiarire l’origine del disagio, malattia o sofferenza psicologica? Qual è il senso, anche se ancora inaccessibile e indecifrabile? Delle teorie a cui si riferisce la madre non sappiamo nulla ma è adesso chiaro a tutti noi che ci sono e che conoscerle permetterebbe di agire sul contesto scolastico favorendo la possibilità di articolazione tra due visioni del mondo. Ci sembra anche utile modificare gli occhiali con cui si guarda Julie. Proponiamo un esperimento: per una settimana, guardare Julie come un essere sconosciuto, uno “straniero” di cui sappiamo poco e di cui dobbiamo scoprire abitudini e codici evitando al massimo le richieste di omologazione.

3. Malika. Abbandonata in un ambiente ostile

Nella teoria etnopsichiatrica una delle immagini utilizzate per esemplificare la situazione del figlio dei migranti è quella dell’esposizione (Nathan, Moro, 2000). Gli ingredienti di questa “categoria clinica” provengono dalla mitologia, dall’antropologia e dalla psicologia. Il concetto di esposizione rimanda all’idea di abbandono in un ambiente ostile, dove per sopravvivere è necessario, come per l’eroe del mito, vincere l’alterità del mondo. Malika, giovane donna o poco più che bambina, a seconda da chi e da dove si guarda, è di origine marocchina. Percorre incerta a passi pensosi la distanza che da bimba la farà donna. L’adolescenza è uno dei momenti critici dell’esistenza. La letteratura psicologica la descrive come il periodo di maggiore vulnerabilità, caratterizzato da manifestazioni del disagio di trovare una propria collocazione nel mondo. Tipici di questo periodo sono i comportamenti antisociali che possono arrivare a disturbi del comportamento, tossicomania ecc., tentativi di suicidio e disturbi alimentari, depressivi e attacchi di panico. La necessità di sentire i limiti e di esistere comporta spesso la ricerca attiva di situazioni di pericolo. L’adolescenza si configura come l’occasione di uno sconvolgimento burrascoso, di un’attesa impellente di riparazione immediata. La migrazione altrettanto. Gli adolescenti migranti o figli di migranti, tagliati fuori dalla loro filiazione naturale devono fabbricarsi da soli una nuova filiazione che permetta loro l’entrata nel mondo. Privi di filiazione, con il solo bagaglio dei dolori e dei lutti familiari, si ritrovano immersi nell’erranza. Esseri tra

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due culture, tra due lingue, non potendo interiorizzarne nessuna, permangono nell’impossibilità di articolare senso di fronte alle domande essenziali: qui-là, io-non io, prima-dopo. Il tentativo è quello di diventare un altro, cercando di ricostruire un tempo mitico al quale collegarsi, cercando il ground zero dal quale ricostruire una genealogia. Malika è nata in Marocco in una famiglia numerosa con un padre che l’insegnante definisce “geloso e soffocante”. Un padre che non condivide i modi e le libertà delle ragazzine italiane. Nessuna festa di compleanno, a scuola per le attività minime obbligatorie, il resto del tempo in casa con le donne della famiglia in «un circolo vizioso: esclusione che chiama esclusione» e contro il quale l’insegnante lotta cercando si aprire spazi di socializzazione ma rischiando di compromettere il rapporto di fiducia che si è creato con la famiglia. Malika è in difficoltà e comincia ad andare male a scuola. Nel confronto di gruppo cerchiamo un modo, dei concetti che ci aiutino a pensare la situazione. Il confronto tra le teorie e i modelli dei presenti mette in luce in modo chiaro il “curriculum nascosto” e il ruolo degli insegnanti nel promuovere ideali che possono non essere condivisi dalle famiglie degli alunni, in particolare da quelle migranti che fondano il loro progetto di “fabbricazione” di uomini e donne in orizzonti culturali profondamente diversi3. Malika, come ogni adolescente migrante si trova doppiamente esposta. Le radici tradizionali, di cui i genitori sono rappresentanti spesso poco flessibili e cristallizzati, non offrono sicurezza e modelli adeguati a cui riferirsi. I modelli della società ospite se adottati in modo manifesto e a volte caricaturale producono separazione, distanza e lacerazioni talora difficilmente ricomponibili. Come l’ambiente dell’infanzia che non invecchia, per i migranti, il ricordo del mondo prima della migrazione resta intatto, incistato, non si usura col tempo. E allora il ricordo non è più un referente temporale strutturante, ma dolore della ricerca impossibile di ricostituzione di un mondo passato meraviglioso, da salvaguardare a tutti i costi. L’esposto si percepisce ed è spesso percepito, come radicalmente estraneo a coloro che lo hanno generato e al mondo che lo ospita. Non potrà mai essere completamente fedele agli uni o agli altri. L’insegnante riporta il suo scoramento quando, nonostante le sollecitazioni e le aperture, la ragazzina si chiude a riccio e torna a casa con le donne velate. Il conflitto diventa così un conflitto di affiliazione e di filiazioni: a quale mondo appartengo? A quale decido di appartenere? Come riconoscersi in un continuum con la famiglia? Per crescere, i figli adolescenti dei migranti devono ogni giorno incontrare il mondo in modo traumatico, traumatico in quanto non preparato, non controllato, e in cui gli adulti perdono la loro funzione di riferimento. Con l’interiorizzazione delle immagini proposte dalla società ospite i genitori e i loro valori vengono svalorizzati e considerati obsoleti. Contemporaneamente, proprio grazie a quelle immagini, l’appartenenza al mondo fisico e culturale assume valore negativo ed espone e condanna alla solitudine e alla “non appartenenza”. In questo senso i figli dei migranti sono, nella clinica etnopsichiatrica, spesso pensati come eroi che agendo in un mondo ostile hanno come missione quella di vincere l’alterità del mondo. Succede anche che i figli dei migranti siano i “portatori del viaggio non elaborato” dei genitori e della conseguente loro mancata integrazione nel mondo in cui vivono, se, come Malika, nati nel Paese ospite, sono spesso vissuti dai genitori come fatti di un’altra pasta. La faglia, nella trasmissione dell’appartenenza si manifesta nell’impossibilità di strutturarsi attorno a un pensiero che inglobi non solo l’individuo ma anche le generazioni precedenti. Il figlio dei migranti eredita la rottura, la frattura stessa, priva di contenuti significativi. È questo un passaggio delicato in cui si esplicita la debolezza della situazione: i genitori hanno perduto le protezioni che derivano dal rapporto dialettico e costruttivo con la radice e non sono in grado di offrire sicurezza. Le istituzioni della società ospite entrano con forza nella vita quotidiana e nei progetti per il futuro, si pone il problema di dove trovare protezioni con chi allearsi e come. Si pone anche quello di capire chi deve trovarle. E spesso si assiste a un

3 La dimensione antropopoietica delle pratiche educative e di socializzazione è nota all’antropologia: per l’inquadramento generale vedi Consigliere (in corso di stampa); per un esempio relativo a una cultura specifica vedi Pisani, 2007.

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capovolgimento tra i ruoli: il figlio che parla la lingua, comunque meglio dei familiari, diventa guida, esploratore rispetto alla famiglia: genitore dei genitori. Il capovolgimento dei ruoli tra genitori e figli: il figlio è l’esperto e assume posizioni di filtro con l’esterno rende i genitori deboli, sottomessi, in difficoltà; e porta in sé il pericolo di morte culturale. Il passaggio da un contesto culturale a un altro è quello del tempo zero della creazione di un nuovo lignaggio, senza però le necessarie scelte e mediazioni che permettono a tutti i membri di mantenere un ruolo attivo nel mantenimento e nella costruzione della vita sociale dentro e fuori la famiglia e di restituire ai genitori l’autorevolezza e la possibilità di svolgere la loro funzione e il loro ruolo. È solo riacquistando una posizione che non mette in discussione il suo ruolo di genitore che il padre di Malika potrà negoziare permettendosi e permettendo ai membri della famiglia, di cui ha la responsabilità, di rispondere, trovando la misura, alle richieste della comunità e delle istituzioni della società che lo ha accolto evitando il disagio e la stigmatizzazione.

4. Conclusioni

Ciò che più ci colpisce è la sorpresa gioiosa dell’insegnante: «Non so che dire. Un’altra Julie». Non sarebbe meglio raccontare qualcosa in più del percorso compiuto? C’è un vero e proprio salto dal racconto della critica situazione iniziale di Julie alla descrizione della ripresa. Si capisce che la bambina è stata “lasciata stare” ma non è detto in modo chiaro come l’insegnante sia arrivata alla decisione di cambiare approccio. Racconta che all’inizio, semplicemente osservare non era stato semplice. La cosa più complicata era stata il tenere a bada l’abitudine alla sollecitazione, a pensare che la quiete e il non parlare fosse qualcosa a cui porre rimedio perché segno di disagio o sofferenza. La disposizione a uno sguardo che non sovrappone l’interpretazione a ciò che è osservato; che non si lascia guidare nella propria azione solo da questa ma lascia lo spazio per altre possibili interpretazioni e azioni ha reso evidente che Julie nella pacatezza silenziosa era attiva e presente. Tutto questo era facilmente prevedibile e intuibile dai partecipanti fin da prima dell’esperimento. Le teorie sull’osservatore che fabbrica ciò che vede sono note in letteratura. Ma ciò che ci interessa è sfuggire al rischio solipsistico di tali prospettive che riducono lo spazio relazionale e l’interesse per ciò che sta fuori. E allora come ha reagito Julie al cambiamento di comportamento dell’insegnante e dei compagni: come avrebbe vissuto la diminuzione di inviti e sollecitazioni? Il racconto nel suo procedere rende conto della sorpresa e della gioia dell’insegnante. Col passare dei giorni Julie viene fuori, piccoli movimenti di ricerca dell’altro e di esplicitazione di bisogni e stati emotivi: «il massimo è stato, due giorni fa, ero seduta alla cattedra, sento qualcuno che mi batte sul braccio, mi volto era lei. Era lei in lacrime che mi dice che ha lasciato i quaderni su cui ha fatto i compiti a casa. Non ci credevo!». La cosa si conclude pochi minuti dopo, la madre, resasi conto che il quaderno era rimasto a casa, lo porta a scuola. Rimangono inesplorate, in questo caso, alcune delle domande che guidano l’intervento etnopsichiatrico. Rispondere a queste domande evita di interpretare i fatti e gli eventi tenendo conto di una sola prospettiva culturale e rimette in gioco ciò che necessariamente ha influenza sulla vita delle persone. Ognuno di noi potrebbe spiegare questa narrazione partendo dalle teorie interpretative psicologiche, possiamo farlo e accontentarci di queste finché va tutto bene. È invece necessario operare per cogliere le teorie familiari e culturali quando così non va e il disagio impone l’intervento terapeutico. Atto che tende a ristabilire, agendo sul contesto, ridefinendolo e ristrutturando i legami con la persona e il suo ambiente e il mondo nel quale è inserito e da cui proviene. L’etnopsichiatria muovendosi tra etnologia e psicologia ne mette in sinergia le risorse rispettive, creando uno spazio aperto in cui sia possibile il confronto tra teorie dei vari attori (scuola, istituzioni, famiglia, gruppo di appartenenza ecc.), pensare le persone a partire dai loro attaccamenti e la negoziazione di un intervento che tenga conto di tutte queste dimensioni.

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Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti

CAMBIARE GLI OCCHIALI PIÙ SPESSO (CHIARA MERIGGI)

Durante l’ultimo incontro la dott.ssa Pisani a un certo punto ha suggerito questa riflessione «pensate di scrivere storie… datemi il potere di scrivere storie… posso inventare situazioni possibili…». Pensando ai miei alunni, e in particolare a quelli che sono “perle” in quanto con loro è più faticosa e a volte dolorosa la relazione, mi è tornata in mente la famosa frase di Danilo Dolci «nessuno cresce se non è sognato…». Allora forse cambiare gli occhiali più spesso, può essere utile, per inventare altre storie, usando il coraggio e la fantasia.

«Il racconto non ha la capacità di modificare quel che è successo, può però trasformare ciò che verrà. È questa la forza della narrazione: quando viene ascoltata, diviene parte di chi la sente propria e agirà quindi su ciò che non è ancora accaduto. Ogni racconto ha questo margine indeterminato, che risiede nella coscienza di chi ascolta. Ascoltare un racconto e sentirlo proprio è come ricevere una formula per aggiustare il mondo. Spesso concepisco il racconto come un virologo un virus, perché anche un racconto può divenire una forma contagiosa che trasformando le persone trasforma il mondo stesso» (Saviano, 2011, p. 23).

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Parte seconda INTERCULTURALITÀ E BISOGNI DELLA SCUOLA:

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI / LA SCATOLA DEGLI OCCHIALI

Questa scatola io la chiamerei lo scatolonzolo magico,

perché cassetta mi dà l’idea di un oggetto professionale, ermetico, chiuso, spigoloso e ingombrante. Scusate, ma io sono così:

in casa ho molte cassette con attrezzi che non so usare, mentre ho tante scatole che maneggio con frequenza

Insegnante di scuola primaria

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Osservare per comprendere e innovare. Proposte e strumenti per un’osservazione attiva e condivisa nella scuola plurale*

1. L’insegnante antropologo: imparare a osservare e a osservarsi (per agire)

Saper osservare significa imparare a guardare intenzionalmente, in modo da poter “serbare”, cioè conservare i dati osservati, per poterci tornare sopra e riflettere. A scuola c’è poco tempo per studiare quanto succede intorno a noi e per osservare e riflettere su quanto sul suo senso del nostro agire, sull’opportunità e congruenza delle decisioni rispetto ai valori di riferimento. Ciò nonostante tutte le volte che un insegnante è messo in condizioni di osservare in profondità, ne trae non solo soddisfazione ma anche nuove conoscenze professionali. Raccontare del proprio fare come “viaggio pensoso”, senza autocompiacimento ma con una disposizione altruistica, è elemento di qualità del proprio lavoro, perché implica un processo di sistematizzazione guidato dalla scrittura che obbliga a rileggere e riflettere sul proprio fare (spesso connesso a quello di altri attori coinvolti), a ripensare alle proprie azioni con consapevolezza, prendendo da esse le distanze: diviene così uno strumento importante di autoriflessione e di analisi dei propri itinerari e metodi di lavoro. Si rivela un esercizio di decentramento e di straniamento altamente formativo. Praticare l’osservazione, così intesa, significa sostenere processi di qualità e innovazione; osservare diviene sinonimo di ricercare, in grado di produrre nuova conoscenza. Certo, si tratta di una pratica che dispone all’inquietudine verso se stessi, faticosa e impegnativa. Anche per questo il coinvolgimento dei docenti non avviene facilmente. L’antropologo americano Clyde Kluckhohn formulò una celebre metafora per definire il lavoro dell’antropologo e la funzione dell’antropologia: «il giro più lungo è spesso la via più breve per tornare a casa». Con queste parole voleva dire che l’antropologo deve sì andare a cercare lontano da casa l’oggetto dei suoi studi, ma deve poi fare ritorno. Insomma questo viaggio è fondamentale per capire, al ritorno, noi stessi, in quanto conclude Kluckhohn, «l’antropologia porge all’uomo un grande specchio che gli permette di osservarsi nella sua molteplice varietà» (citato in Aime, 2008, pp. 22-23). Così se un insegnante fa esperienze di osservazione puntuale, matura e amplifica le capacità di riflessione a beneficio del suo lavoro quotidiano; saprà cogliere, meglio e più rapidamente, tutte quelle evidenze, quei dati che normalmente acquisisce in forma “impressionistica”; inoltre, un lavoro di questo tipo, ci rende più sensibili alla varietà, a leggere e meglio “focalizzare” le diversità e il movimento in contesti che non conosciamo, che conosciamo poco, che pensiamo di conoscere. Si vengono a scoprire cose che semplicemente non sapevamo. Vi sono strumenti e percorsi di ricerca e formazione, già sperimentati e validati, che consentono di rivedere e rileggere concretamente il nostro agire, i nostri metodi, le nostre procedure e le nostre pratiche – attivando un canale riflessivo mentre si conduce l’azione –, ed eventualmente rinnovarle e adeguarle alle mutevoli situazioni ed esigenze. Essi consentono di riscoprire il senso più profondo del nostro fare.

2. Uno strumento per osservare i cammini di integrazione degli alunni di origine immigrata

Nel corso degli ultimi anni numerosi docenti di ogni ordine di scolarità di molte città italiane hanno utilizzato il Quaderno dell’integrazione, uno strumento che si propone di rilevare le dinamiche integrative degli alunni stranieri e, al tempo stesso, di osservare il contesto in cui

* Lorenzo Luatti, ricercatore.

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avviene il percorso di inserimento e l’efficacia dei dispositivi realizzati1. Gli indicatori di integrazione che attraverso il quaderno ci si propone di osservare sono (Favaro, 2004, 2008):

– la situazione dell’inserimento scolastico e dei risultati scolastici, che consentono di progettare una prosecuzione degli studi con opportunità più o meno equivalenti rispetto a quelle dei compagni italiani;

– la competenza nella lingua italiana, osservata rispetto alle capacità nella comunicazione interpersonale e nella lingua veicolare dello studio;

– la qualità delle relazioni in classe e la possibilità di partecipare, da parte di ciascuno, alle interazioni e alle attività comuni, sia nei momenti scolastici che in quelli ludici e delle scelte elettive;

– la qualità e la quantità degli scambi nel tempo extrascolastico, le occasioni di partecipazione e di incontro nelle attività ludiche e sportive, le opportunità di stabilire e mantenere scambi e amicizie, di “abitare insieme il territorio” considerato come la dimora comune;

– il rapporto dell’alunno straniero con la lingua materna, praticata in casa e con i connazionali (e le diverse situazioni di bilinguismo, perdita, mantenimento o sviluppo) e il legame con le proprie origini, il Paese di provenienza, la propria storia passata;

– la situazione di autostima, di fiducia nelle proprie possibilità, di accettazione delle sfide e dei compiti comuni; che si traduce, tra le altre, nella capacità di prefigurare il proprio futuro e di costruirlo giorno dopo giorno.

Come si vede, alcuni indicatori riguardano il cammino di integrazione dei bambini e dei ragazzi stranieri, altri invece si collocano entro le dimensioni comuni delle interazioni e degli scambi. La proposta di indicatori dell’integrazione, con gli strumenti correlati, offre un quadro culturale di riferimento ampio e articolato in cui vengono proposti aspetti che sovente non sono del tutto o sono solo parzialmente considerati: le immagini e le aspettative del futuro dei bambini e dei ragazzi, il loro rapporto con lingua e cultura della famiglia e della comunità di origine ecc. Il quaderno guida gli insegnanti a essere “avvertiti” della complessità dell’integrazione, amplia il ventaglio delle variabili da considerare e aiuta a connetterle fra di loro e agli obiettivi scolastici. Non è questa la sede per ripercorrere le varie esperienze realizzate e le molteplici acquisizioni maturate (si rinvia ai testi citati in bibliografia). Merita invece soffermarsi su alcune “scoperte” che i docenti hanno fatto attraverso l’attività di osservazione guidata dal quaderno. Ad esempio, scoprire alcuni frammenti delle biografie dei bambini e dei ragazzi prima sconosciuti; osservare il modo in cui si strutturano le relazioni in classe e fuori della classe; far emergere le dinamiche dei processi di ricomposizione identitaria dei propri studenti ecc. Inoltre il quaderno in alcune sue parti si è rivelato uno strumento “integrativo” (anche questa è stata una “scoperta”), che di per sé può favorire l’instaurarsi di modalità relazionali nuove, più favorevoli ai processi di integrazione nella classe e per i singoli studenti con cittadinanza non italiana. La proposta di sollecitatori e strumenti, che devono essere utilizzati con gli alunni, ha ricadute significative sullo stesso processo di integrazione dei singoli. Numerose sono infatti le testimonianze degli insegnanti a questo riguardo. Fra le tante, ricordo che il fatto stesso di “sottoporre” gli alunni a un questionario che li riguarda, ha rappresentato per questi una occasione di apertura relazionale che ha costituito in molti casi una svolta positiva. Un insegnante di scuola secondaria di primo grado, ad esempio, racconta di un ragazzino che si sottrae al racconto di sé, dà segni di insofferenza e di rifiuto in classe; si apre solamente quando percepisce che si sta “facendo

1 Il Quaderno dell’integrazione, ideato da Graziella Favaro e Lorenzo Luatti, è stato sperimentato nelle scuole della provincia di Arezzo, Pesaro, Padova, Milano (anni 2004-2007) e poi nelle scuole del Comune di Firenze (2008-2010), della Regione Friuli Venezia Giulia, delle Province di Fermo (2009-2011) e Arezzo (2010-2011), dalla Rete scolastica Treviso integrazione (2010-2012). Gli strumenti presentati in queste pagine sono stati utilizzati e validati da gruppi di docenti in varie parti della penisola. Queste esperienze sono documentate nei seguenti testi: AA.VV., 2011; Bonucci, 2007; Favaro, Luatti 2004; Favaro 2008; Luatti, 2012; Ricci, 2011. Versioni del Quaderno dell’integrazione sono rinvenibili sul web; la versione più recente (dicembre 2011) è sui siti del Centro Come (www.centrocome.it) e della rivista web Agorà, sezione “strumenti” (www.vanninieditrice.it/agora_home.asp).

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qualcosa appositamente per lui”, quando l’insegnante entra in contatto diretto con lui utilizzando gli strumenti e i sollecitatori del quaderno: coglie un interessamento personale, una sorta di riconoscimento. Da quel momento ha cominciato a lavorare “un po’” e addirittura a mostrare humor e autoironia, ingredienti fondamentali dei percorsi di resilienza delle persone che vivono situazioni traumatiche o di vulnerabilità. Per tutti è stato sorprendente vedere il modo in cui i bambini e i ragazzi hanno “reagito” a certe proposte del quaderno, reazioni sempre molto significative quando non ci si soffermi a una lettura superficiale: rivelano ad esempio come il contesto e il modo in cui viene proposto un sollecitatore o viene posta una domanda non sono mai neutri e finiscono per condizionare i risultati. L’utilizzo delle proposte del quaderno dell’integrazione nella didattica evidenzia dunque che nessun educatore può essere semplicemente un osservatore esterno, un rilevatore di dati. Infatti un insegnante raccoglie informazioni mentre agisce e agendo introduce per ciò stesso cambiamenti nella situazione e nei rapporti che intende rilevare e monitorare: una circolarità che, divenendo consapevole, costituisce il fondamento della ricerca-azione. Il quaderno e il percorso di osservazione allenano gli insegnanti a diventare registi più consapevoli e competenti dei processi di inclusione dei loro alunni. Una buona indicazione di metodo è dare la massima attenzione a tutte le “scoperte” o situazioni inaspettate con cui capita di imbattersi durante l’osservazione. Dobbiamo accogliere gli imprevisti e fermarsi a riflettere con i colleghi.

3. Cosa ricaviamo dall’attività di osservazione?

I docenti delle scuole che hanno fatto osservazione hanno sottolineato che il quaderno dell’integrazione:

– ha spinto a osservare con più attenzione l’alunno/a, o meglio tutti gli alunni, per cercare di capire le dinamiche relazionali del gruppo classe, a riflettere strategie che a lungo termine possano produrre una positiva integrazione degli alunni di origine straniera («osservando lei – scrive una docente – ho dovuto osservare sistematicamente anche la classe, facendo scoperte sulle dinamiche relazionali e amicali per niente scontate»; «il quaderno ha consentito di adottare uno sguardo diverso sulla storia personale dell’alunno osservato», osserva un’altra insegnante; «è un valido strumento per monitorare i progressi nel processo di integrazione e un’opportunità per una osservazione più sistematica delle dinamiche di tutto il gruppo classe», aggiunge un’altra insegnante);

– ha dato ai docenti la possibilità di confrontare i vari punti di vista, mediarli e superarne la naturale soggettività, nonché di avere un piano d’azione sempre rispondente al contesto («ci ha permesso di vivere momenti di confronto e di riflessione con colleghi di altre scuole»);

– ha consentito di affinare lo sguardo e mettere in atto un’osservazione attenta e consapevole, favorendo una maggiore consapevolezza del ruolo dell’insegnante nel promuovere l’integrazione dell’alunno straniero («è l’insegnante che veicola per prima la cultura dell’integrazione, attraverso il suo atteggiamento umano e professionale», scrivono alcuni docenti; «ha permesso di lavorare sul rafforzamento dell’autostima e di un’immagine positiva dell’alunna», affermano altri);

– «potrebbe diventare una sorta di “carta d’identità” che accompagna l’alunno nel suo iter scolastico e nei suoi eventuali spostamenti», propongono alcuni docenti osservatori dopo aver espresso, su più piani, un apprezzamento per lo strumento e il lavoro svolto.

Inoltre, i docenti “osservatori” hanno potuto verificare con mano che l’oggettività dell’osservazione non esiste. È bene esserne consapevoli: la nostra attività di osservazione è sempre connotata e caratterizzata dalla soggettività dello sguardo. Ciò che vediamo è spesso ciò che noi vogliamo vedere. In antropologia qualcuno ha radicalizzato la critica al carattere oggettivistico della disciplina, sostenendo che ciò che vediamo è ciò che noi vogliamo vedere di ciò che altri hanno reso evidente di ciò che essi stessi hanno voluto vedere. Questo significa che non possiamo e non dobbiamo mai prendere per “verità rivelata e incontrovertibile” quanto

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emerge dal nostro lavoro di osservazione. La nostra osservazione è “situata”, cioè correlata al contesto, al punto di vista, al ruolo di chi la produce, inclusa la sua percezione di quello che gli altri vogliono sapere. Questo non è un problema: il problema è non esserne consapevoli o, addirittura, nasconderlo. Il rischio di cadere in malintesi e false rappresentazioni osservando è sempre in agguato, e il rischio di favorire equivoci e malintesi comunicando le evidenze emerse dall’osservazione è reale: è una strada disseminata di ostacoli e possibili fraintendimenti. Occorre sempre coltivare il dubbio. Se l’osservazione non può essere “oggettiva”, poiché lo sguardo dell’osservatore è filtrato da lenti che sono “colorate” da convinzioni e valori, come è possibile abbassare la soglia di soggettività? È possibile, se queste nostre osservazioni sono condivise e discusse criticamente insieme agli altri colleghi; se vi è una pluralità i contesti di osservazione (la classe, la scuola, il piccolo gruppo del laboratorio linguistico, l’extrascuola…); se si fa ricorso a una pluralità di metodi e strumenti per l’osservazione; se, infine, a distanza di tempo torniamo a osservare un medesimo aspetto/contesto (carattere diacronico e dinamico dell’osservazione). Ancora una volta si sottolinea l’importanza del percorso, che stempera la dimensione soggettiva dell’osservazione, relativizzando certe evidenze raccolte. E il percorso di osservazione si rivela importante, professionalmente rilevante, se trova dei momenti di condivisione partecipata. Una buona indicazione è poi svolgere l’osservazione a coppie o nel piccolo gruppo di insegnanti (coppie e triplette miste: docenti di classe, di laboratorio, insegnanti di sostengo, ma anche facilitatori e mediatori) perché quattro o sei occhi sono meglio di due e soprattutto, se l’attività di osservazione è veramente condivisa, i rischi della soggettività sono in parte attenuati. Ecco poi perché periodicamente il gruppo intero di insegnanti si incontra con i tutor e i coordinatori: un ulteriore e più ampio momento di condivisione che rimescola le carte in tavola e fa rivedere con altri occhi quanto da noi osservato nel recinto dell’“unità di osservazione”. Un’ulteriore acquisizione è la cura dei setting/contesti di osservazione. È bene esplicitare sempre le situazioni e le modalità (i setting) con cui sono raccolte le osservazioni, con particolare attenzione a quelle riferite ai “sollecitatori”, perché situazioni e contesti non sono mai neutri e possono influire sul tipo di risposta dei soggetti osservati. L’inserimento dei sollecitatori comporta tuttavia una programmazione didattica e i necessari raccordi con le attività curricolari che devono essere in qualche misura previsti dagli insegnanti. I tempi talvolta troppo stretti con cui è stata presentata la proposta del quaderno ha influito negativamente su questo aspetto. Dalle esperienze realizzate emerge il tocco registico degli insegnanti nel promuovere i processi di inte(g)razione. Bisogna rileggere attentamente le esperienze realizzate finora, alla luce delle acquisizioni (punti di forza, di criticità, punti da sviluppare meglio…) e dei cambiamenti intervenuti nella scuola e nell’immigrazione. L’obiettivo ambizioso è rendere i docenti più sensibili, consapevoli e competenti rispetto alle dinamiche e ai cammini di integrazione nei contesti classe/scuola e nell’extrascuola. Affinché essi possano svolgere al meglio quel ruolo di promozione e di regia dei processi di integrazione che a loro compete ed è richiesto, pur tra le mille difficoltà e le fatiche quotidiane del fare scuola oggi. A partire dalle nostre osservazioni possiamo sviluppare strumenti, dispositivi, suggerimenti operativi mirati, da utilizzare per guidare con maggiore incisività e competenza i processi di inclusione, e le forze anche minute che quotidianamente si manifestano sui banchi di scuola. I profili, i “ritratti” degli studenti seguiti con il quaderno dell’integrazione, ad esempio, rappresentano una preziosa risorsa a questo riguardo.

4. Strumenti per osservare le relazioni in classe e nell’extrascuola e le relazioni scuola-famiglia

Nei successivi paragrafi presentiamo alcune proposte di strumenti, ampiamente sperimentati da insegnanti di scuole multiculturali, di vari livelli di istruzione e contesti territoriali. Possono essere ricondotti a due blocchi tematici:

– l’approfondimento delle dinamiche relazioni tra scuola e famiglia e le diverse rappresentazioni che vi sono alla base;

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– l’osservazione sulle dinamiche relazionali in classe e fuori dalla classe. Un aspetto comune agli strumenti qui proposti è il loro inserimento all’interno di momenti e occasioni di confronto e scambio tra i docenti. Possono essere utilizzati con profitto individualmente dall’insegnante; tuttavia, se le osservazioni sono raccolte e condivise con un altro/i insegnante/i e, periodicamente sono discusse e scambiate con altri docenti, i risultati raccolti da questi percorsi di ricerca azioni acquistano un valore formativo maggiore.

Il rapporto tra la scuola e le famiglie straniere

Il rapporto tra famiglia e scuola costituisce un nodo problematico, disseminato da incomprensioni, fraintendimenti, silenzi. Gli insegnanti spesso individuano nella lontananza il tratto comune alle famiglie immigrate, che di volta in volta si traduce in disinteresse, delega, abbandono, fiducia assoluta nella scuola e nell’istruzione. Non mancano certamente situazioni – e sono sempre più numerose –, che evidenziano una relazione scuola/famiglia positiva, aperta, di dialogo costante. Ma l’impressione che si ricava ascoltando gli insegnanti è che si tratti di situazioni minoritarie, soprattutto nei livelli di scolarità più alti. Spesso i docenti riconducono a una certa appartenenza nazionale/culturale le difficoltà di comunicazione con la famiglia migrante. L’organizzazione e la cultura del nucleo familiare incidono sicuramente sulle richieste e le aspettative nei confronti della scuola; tuttavia una lettura schiacciata sull’appartenenza etnica, di tipo “culturalista”, che pretende di riscontrare “un comportamento tipico” in cui categorizzare un’intera comunità, viene smentita dall’esistenza di esperienze di segno contrario. Così facendo si costruisce una categoria, quella della famiglia immigrata che è tutto fuorché omogenea. L’inefficacia del criterio di appartenenza etnica, quale chiave di lettura per giustificare certi comportamenti delle famiglie, riporta in evidenza il ruolo di altri fattori. Tra questi va ricordata la condizione economica e il ruolo che giocano le non rare situazioni di marginalità sociale; gli anni di permanenza nel nuovo Paese, il periodo di tempo intercorso dal ricongiungimento con l’altro coniuge e con il figlio/a, nonché la presenza di precedenti esperienze con figli inseriti nella scuola italiana. Un fattore di rilievo è poi il capitale culturale detenuto dai nuclei familiari sull’investimento formativo: il livello culturale familiare struttura le relazioni tra famiglie e scuole, e contribuisce a determinare il rendimento scolastico e la propensione alla prosecuzione negli studi del figlio. La capacità di instaurare un dialogo tra le istituzioni scolastiche e le famiglie è dunque elemento centrale per comprendere meglio la situazione e le difficoltà degli alunni di origine straniera e per mediare tra l’educazione trasmessa a scuola e in famiglia. Alla base di queste esperienze, e di ogni azione ben meditata, c’è sempre un’attività propedeutica con una precisa finalità conoscitiva: far emergere e comprendere meglio le problematiche e le aspettative dei due attori della relazione. È da qui che occorre partire per pensare possibili attività e servizi, più rispondenti ai bisogni. Questi due strumenti di osservazione – una griglia per l’autosservazione e un questionario per i genitori – possono offrire un piccolo contributo da cui partire per comprendere meglio la situazione familiare dei nostri studenti stranieri, consentendo di andare un po’ più in là di “visioni impressionistiche” o a valutazioni superficiali, che poggiano spesso sul senso comune.

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Griglia di osservazione Indicare se i genitori dell’alunno straniero - sono presenti in maniera assidua (incontri collettivi e individuali) sì no - sono informati e partecipano ad alcune iniziative sì no - sono presenti a tutti gli incontri individuali sì no - sono presenti saltuariamente sì no - non partecipano mai sì no Indicare se i genitori sono attenti - alla frequenza scolastica (assidua e continua) sì no - alle comunicazioni scuola-famiglia sì no - allo svolgimento dei compiti assegnati per casa sì no - al rispetto dell’orario scolastico sì no - al materiale scolastico sì no Se possibile, si spieghino le ragioni dei comportamenti assunti dai genitori nel rapporto con la scuola

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Questionario genitori (da proporre, ad esempio, durante i colloqui individuali) Padre La mia lingua madre è:………………………………………………………. Madre La mia lingua madre è:………………………………………………………. In casa parliamo……………………………………………………………… - Desideriamo molto che nostro/a figlio/a conservi la lingua e la cultura del nostro Paese, non deve dimenticare le sue origini sì no - Pensiamo che la scuola possa aiutarci in questo sì no - In realtà desideriamo tornare nel nostro Paese appena possibile sì no - Desideriamo molto che nostro/a figlio/a scelga la lingua e la cultura che preferisce sì no - Pensiamo che questo l’aiuterà a vivere meglio in Italia sì no - Siamo molto contenti se impara la lingua del Paese in cui vive e non importa se non ricorderà più la nostra lingua sì no - Speriamo che vivrà in Italia sì no - Anche noi non torneremo nel nostro Paese sì no

Una parte dei conflitti e dei malintesi tra scuola e famiglia sono riconducibili al funzionamento implicito di norme e consuetudini relazionali e comunicative. Creano “imbarazzo”, ma sono risorse importanti per interrogarci su di noi e sul nostro operato. Sono episodi in cui possiamo specchiarci e aiutano a rivedere le nostre pratiche. Per questo vanno colti, rielaborati, discussi insieme… L’analisi degli “incidenti critici” condotta in gruppo (a volte con la presenza di una mediatrice straniera che può introdurre anche il punto di vista dell’altro) consente di individuare e di promuovere atteggiamenti di apertura: a) conoscendo meglio se stessi e gli altri, essere consapevoli che i propri atteggiamenti, comportamenti, gesti e attitudini si sono modellati a partire da certi valori, riferimenti, cornici culturali, ma sono invece vissuti come universali (decentramento);

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b) mettersi nei panni dell’altro, saper osservare, ascoltare, facendo leva anche sui messaggi non verbali, ricondurre le osservazioni dei comportamenti e delle pratiche al loro contesto e a riferimenti generali, senza tuttavia negare la soggettività delle scelte e dei comportamenti (empatia); c) costruire insieme rappresentazioni e progetti comuni, a partire dalle differenze, per individuare gli elementi condivisi di un luogo di accoglienza per tutti i bambini (la negoziazione). Soprattutto evita o riduce il rischio di interpretazioni rigide e letture culturaliste. Nel box che segue riportiamo una possibile traccia che consente a ciascun docente di ricostruire l’incidente interculturale a cui hanno partecipato in prima persona. Si consiglia di ricostruirlo attraverso la scrittura che favorisce una maggiore riflessione e sistematizzazione dell’evento nelle sue fasi. I diversi racconti dei docenti vengono poi condivisi nel gruppo.

Griglia di rilevazione degli incidenti interculturali Raccontare in forma narrativa l’“evento critico” di cui si è stati attori. Può fare riferimento a un evento avvenuto all’interno delle scuola oppure nel condominio o in altro luogo urbano. Si può seguire questa traccia: Ricostruzione dettagliata della situazione in cui si è verificato il malinteso comunicativo I soggetti/attori protagonisti e i loro diversi ruoli Le soluzioni prospettate Gli esiti Condivisione nel gruppo dei docenti

Anche se non rivolto ai docenti, mi sembra utile e interessante proporre una traccia di intervista con insegnanti e genitori per approfondire meglio le rappresentazioni reciproche. Con questa precisa finalità, possiamo realizzare alcuni incontri focus con insegnanti (delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado) e con gruppi di genitori stranieri (sia distinti per provenienza, sia “misti”). La discussione, con le insegnanti e con i genitori stranieri, può seguire alcuni punti di attenzione, come evidenziato nei seguenti box.

Traccia per intervista ai docenti - le modalità di relazione instaurate con le diverse famiglie immigrate (come si svolgono i primi contatti con i genitori/il genitore; quali sono i dispositivi, le risorse, le strategie che la scuola attiva quando arrivano i genitori per richiedere l’iscrizione del figlio; come viene accolta la famiglia in queste prime fasi di approccio con l’istituzione scolastica…); - la partecipazione delle famiglie immigrate alla vita scolastica (qual è la percezione degli insegnanti sul grado di partecipazione dei genitori stranieri alle attività scolastiche; se partecipano – quanto, come… – a riunioni, feste, gite, colloqui, momenti di aggregazione…). - gli incidenti di comunicazione con le famiglie immigrate (quali sono le difficoltà di comunicazione con i genitori stranieri; quali gli incidenti di percorso e quali strategie sono state attivate in questi casi; quali strumenti sono presenti nello zaino dell’insegnante…). - l’immagine della scuola (o dei servizi educativi) che, secondo le insegnanti, hanno le famiglie immigrate. In questo caso si chiede ai docenti intervistati di provare a restituire l’immagine che le famiglie immigrate, secondo la loro personale percezione, hanno della scuola italiana o meglio della scuola frequentata dai loro figli in Italia. È l’immagine filtrata dall’insegnante: cosa ritiene che pensino i genitori immigrati? Al termine degli incontri si può chiedere alle docenti, come ulteriore domanda da scrivere per punti, sulla base di quanto è stato osservato e della loro esperienza, cosa farebbero per migliorare la relazione con le famiglie straniere (Proposte e suggerimenti per migliorare la relazione con le famiglia immigrate).

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Traccia per intervista alle famiglie straniere - l’idea che i genitori stranieri hanno della scuola italiana; non la scuola italiana in astratto, ma quella che loro conoscono in base all’esperienza concreta di genitori (rappresentazioni e aspettative nei confronti della scuola e del futuro scolastico dei figli: cosa ne pensano, quale giudizio ne danno, come la vedono, come considerano il “modello educativo” proposto dalla scuola italiana…). - l’invito a svolgere un confronto con la scuola del Paese di origine. L’argomento stimola il ricordo e la comparazione con l’esperienza scolastica realizzata nel Paese di provenienza nella duplice veste di allievo e genitore. Consente di far emergere le specificità… - le difficoltà che nella loro esperienza di genitori incontrano nel rapporto con la scuola (quali sono i nodi critici del rapporto con gli insegnanti.; partecipano e vanno alle riunioni, ai colloqui?; come si trovano con gli altri genitori?). - le proposte che si sentirebbero di fare all’insegnante, cioè le considerazioni e i suggerimenti per una scuola più attenta ai bisogni, agli aspetti linguistici e culturali di cui sono portatrici le famiglie. L’incontro, anche in questo caso, si può concludere con una domanda di tipo proiettivo (con possibilità di rispondere nella lingua materna) in cui si chiede di immaginare una situazione di questo tipo: «Un tuo connazionale verrà in Italia nei prossimi mesi insieme ai suoi figli. Ti chiede informazioni e consigli sulla scuola italiana. Aiutalo a orientarsi sulla base della tua esperienza. Fai un elenco con le informazioni e i suggerimenti sulla scuola italiana che tu ritieni più importanti».

Le relazioni in classe e nell’extrascuola

Sui temi importanti relativi alla “qualità” e l’intensità delle relazioni a scuola e fuori della scuola dei nostri allievi, siano essi italiani o stranieri, sappiamo ben poco. Eppure sono temi centrali e delicati sui quali dovremmo essere più competenti. La dimensione delle relazioni sociali nella scuola e nell’extrascuola può essere indagata principalmente mediante la proposta di strumenti e sollecitatori che richiedono la partecipazione attiva degli alunni, ma anche indirizzando l’attenzione osservativa degli insegnanti. Proporre a tutti gli alunni gli strumenti diretti aiuta a considerare l’alunno straniero nel contesto della classe, a non separarlo dai suoi compagni, ma consente anche di evidenziare realtà e relazioni che sfuggono alla consapevolezza immediata. Agli insegnanti si può suggerire di osservare le dinamiche relazionali in classe e nell’extrascuola attraverso l’uso di un questionario, dal quale partire per costruire un “sociogramma” relazionale. La consegna può essere la seguente: «l’insegnante sottoponga a tutti gli alunni della classe questo breve questionario (in fotocopia) per avere informazioni sulla situazione relazionale in classe e nel tempo extrascolastico, anche attraverso dati quantitativi». Prima dell’uso del questionario, può essere interessante confrontare le diverse rappresentazioni (degli insegnanti della classe e degli operatori) a proposito delle relazioni fra pari, sul significato della parola “amicizia”… Per la scuola primaria, ma anche per la secondaria di primo grado, può essere data l’indicazione di integrare il questionario o di sostituirlo con due sollecitatori costituiti rispettivamente dal “Fiore dell’amicizia” (o le mani dell’amicizia o “manicizie” e i palloncini colorati), propedeutici al sociogramma delle relazioni fra pari in classe, e dalla “Mappa” dei luoghi frequentati in città (vedi paragrafo successivo). Questi strumenti, richiedendo l’intervento dell’alunno e la sua partecipazione attiva, pongono agli insegnanti il tema della predisposizione di un setting educativo-didattico significativo e condiviso al cui interno utilizzarli. Non si tratta di una questione di poco conto. Proporre infatti la compilazione di un questionario comporta comunque una spiegazione delle ragioni.

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Questionario sulle relazioni in classe e in città 1. Classe……………………………… M F 2. Mi puoi dire quanti amici hai nella tua classe? - 3-4 amici - un amico, forse due - non ho nessun amico nella mia classe - ho più di 4 amici 3. Ti vedi (cioè stai insieme per giocare, studiare….) con i tuoi compagni di classe anche fuori della scuola? (con uno o più di uno dei tuoi compagni di classe): - sì, mi vedo con una certa frequenza - raramente, in alcuni casi - no, non mi vedo mai 4. …e se ti vedi con i tuoi compagni fuori dalla scuola, puoi dirmi che cosa fate insieme (puoi dare anche più risposte?) - giochiamo - studiamo - guardiamo la TV - altro (specificare)………………………………………………………… 5. Mi sai dire quanti amici hai fuori dalla scuola (diversi dai compagni di classe)? - molti pochi nessun amico 6. Puoi dirmi se frequenti (puoi dare anche più risposte): - amici italiani - amici di vari Paesi - amici del tuo Paese di origine 7. Puoi indicare, tra quelli segnati nell’elenco, i luoghi che frequenti (puoi dare anche più risposte): - la palestra - la parrocchia - un centro di aggregazione - i giardini - squadre e gruppi sportivi - gruppi scout - la piscina - sede associazione della comunità di origine - chiesa, moschea, altri luoghi di culto (specificare)……………………… - altro (specificare)……………………………………… 8. Ultime domande: - che cosa fai, di solito, dopo la scuola? …………………………………………………………………………………………………… - …e che cosa fai il sabato e la domenica? ……………………………………………………………………………………………………

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Altre proposte

Riporto, in estrema sintesi, altre proposte finalizzate a osservare le dinamiche relazionali a scuola e fuori della scuola. Con le attività “Le mani dell’amicizia” o “Le manicizie” si lavora attraverso giochi motori, racconti e attività grafiche che permettono agli alunni di ripassare la sagoma delle proprie mani e di scrivere nelle dita i nomi dei compagni che ritengono “amici”. La consegna dovrebbe permettere di rilevare le relazioni fra i bambini che si realizzano, per lo più, nello scegliersi per i giochi e chiamano “amici” i compagni con cui giocano più volentieri o con cui giocano abitualmente con soddisfazione. Dalle “manicizie” è possibile costruire il sociogramma della

Relazioni in classe: i fiori dell’amicizia Sono stati distribuiti in classe dei fogli con l’immagine di due fiori con le seguenti indicazioni:

- nei petali scrivi i nomi dei compagni o delle compagne di scuola con cui ti piace giocare. Se vuoi aggiungi altri petali;

- nei petali scrivi i nomi dei bambini o delle bambine con cui ti piace giocare fuori della scuola. Se vuoi aggiungi altri petali.

Indicazioni per gli insegnanti La proposta dei “fiori dell’amicizia” (per primaria e classe prima e seconda di primo grado) è finalizzata a:

- realizzare un sociogramma delle relazioni in classe da cui emergeranno i bambini non indicati da nessuno (appartati o esclusi), scelti da pochi compagni (poco popolari), scelti da molti compagni (bambini popolari), quelli che si scelgono reciprocamente, i gruppi o le coppie chiuse;

- attuare un confronto fra le relazioni amicali a scuola e fuori della scuola: coincidono in tutto / in parte o sono completamente diverse?

Il sollecitatore può essere proposto alle classi nell’ambito di un lavoro sulle conoscenze e sulle amicizie durante il quale i bambini saranno invitati a mettere a fuoco le loro idee di amicizia: chi sono gli amici? I bambini saranno invitati a scrivere nei petali (disegnati a tratteggio) i nomi di coloro che essi considerano amici. Ogni fiore ha tre petali, ma naturalmente gli amici possono essere di meno o di più, in questo caso i bambini possono aggiungerne. Può essere richiesto di specificare chi sono le persone indicate nel fiore “fuori della scuola” quando non coincidono con compagni di classe (parenti, altri bambini del caseggiato, del centro sportivo ecc.) Successivamente al lavoro in classe gli insegnanti realizzeranno il sociogramma delle relazioni amicali in classe: una mappa in cui sono riportati tutti i nominativi degli alunni collegati da frecce sulla base dei fiori dei bambini. Le frecce a due punte collegano bambini che si scelgono reciprocamente. Esempio di mappa:

Dalla mappa emergono dati interessanti che possono essere anche riportati in elenchi separati:

- i bambini “a parte”, non scelti da nessuno; - i bambini poco popolari; - i bambini molto popolari; - i bambini che si scelgono reciprocamente; - i gruppi o le coppie chiuse.

A questo punto gli insegnanti hanno a disposizione una rilevazione da confrontare con le osservazioni effettuate direttamente nella classe in momenti diversi.

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classe. L’unione delle diverse mani avviene con la raccolta di esse in un libro. Un’attività che coinvolge e diverte molto gli alunni, anche a costruire il libro con le “manicizie” e soprattutto può favorire una discussione in generale dell’amicizia (per primaria). La proposta “I palloncini colorati” prevede che gli alunni scrivano il proprio nome nel foglio, mentre nei palloncini si scrive: in rosso, i compagni che si conoscono meglio; in azzurro, i compagni che si conoscono di meno; in verde, coloro che vorremmo conoscere meglio. Con l’attività “La mappa dei luoghi frequentati in città / nel quartiere” viene proposta un’attività collettiva che si inserisce in un lavoro di classe che focalizza la vita extrascolastica degli alunni. A partire da una discussione/conversazione relativa a quello che gli alunni fanno fuori dell’orario scolastico, si individuano i luoghi della città e del quartiere che sono frequentati, siano essi organizzati o informali: palestre, campi sportivi, piazze, parrocchia, piscina, bar, giardino/parco ecc. (senza dimenticare i luoghi “etnici”). Si costruisce così una mappa dei luoghi di incontro. Su un grande foglio possono essere posti dei post-it sui quali sono disegnati i simboli dei diversi luoghi. Successivamente, ogni bambino disegnerà delle sagome che lo rappresentino (oppure, per i più piccoli, l’insegnante predispone delle sagome da ritagliare e personalizzare) che collocherà accanto ai luoghi più frequentati, oppure indicherà il suo nome. L’attività consente di rilevare i luoghi di maggior frequenza, quelli con frequenza “multietnica”, i luoghi “separati” ecc. ma può anche emergere il dato relativo al convergere o meno degli alunni di una classe in determinati luoghi. L’obiettivo dell’attività didattica “l’Albero dei talenti” (o “Albero delle scoperte” come è stata denominata da una docente del progetto Coros) è aiutare i bambini e i ragazzi a diventare consapevoli dei propri talenti attraverso la scoperta dei talenti degli altri. L’attività dedicata alla scoperta reciproca dei talenti viene proposta per un periodo né troppo breve né troppo lungo (ad esempio, un mese). Ogni ragazzo disegna la sagoma di un albero su un cartellone, e poi ognuno raffigura e ritaglia le sagome di vari frutti (es. mele, pere, arance, banane) e le pone alla base del proprio albero dentro un recipiente (una cartella, una busta, ad esempio). La consegna è la seguente (Polito, 2011):

[…] ogni volta che scoprite qualche aspetto positivo di un vostro compagno, ad esempio, una frase, una battuta, un comportamento, un’idea, un suggerimento, un’azione, qualcosa che rappresenta una caratteristica positiva della sua personalità, prendetene nota. Andate alla base del suo albero, scegliete la sagoma di un frutto e scrivete su di essa quello che avete notato e incollatela sul ramo del suo albero. Ad esempio, “Oggi ho notato il pregio della tua simpatia. Hai reso la nostra giornata più bella e allegra. Grazie”. Non è necessario mettere la firma. Ognuno di voi guardi le caratteristiche migliori degli altri e ne prenda nota. In cambio riceverete un grande vantaggio, perché gli altri ventiquattro vostri compagni stanno osservando e notando le vostre caratteristiche positive, i vostri talenti.

Alla fine del mese, ogni studente si concentra a leggere tutti i commenti che ha ricevuto e dà una restituzione al gruppo classe. Verbalizzando e condividendo i propri talenti e quelli degli altri, gli alunni scoprono che tutti hanno dei talenti, chi più chi meno, ma tutti ne hanno. Concretamente l’attività è stata proposta prevalentemente nella scuola primaria, all’interno di attività didattiche relative a: osservazione degli alberi primaverili e del risveglio della natura; una lezione di arte e immagine sull’uso delle tecniche pittoriche; realizzazione della “carta d’identità” all’interno di un percorso interdisciplinare di Cittadinanza e Costituzione. Le insegnanti che hanno sperimentato questa attività l’hanno giudicato molto importante «perché ha rivelato (e rafforzato) la coesione della classe, i rapporti positivi che i bambini, nonostante piccoli litigi, hanno tra di loro». L’attività proposta deve essere comunque preceduta da una esemplificazione di ciò che è un talento. Come ricorda ancora Mario Polito (2011): «un bambino aveva immediatamente domandato chiarimenti su cosa fossero i talenti. La domanda era stata riorientata dalla docente alla sua classe perché i ragazzi esprimessero la loro opinione. Una bambina aveva risposto che per lei un talento era qualcosa di bello che uno sapeva fare bene». Se

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succede che un bambino non riceve “frutti”, l’insegnante “regista” sa come operare, con oculatezza e senza intrusioni, per far emergere e poi riconoscere dalla classe le abilità del bambino dall’albero spoglio. Alcune insegnanti hanno esemplificato l’attività proponendo (e lavorando su) un racconto della scrittrice Rossana Guarnieri (“L’albero dei cuori”, vedi sotto), altri docenti l’hanno proposto a tutta la classe con un’attività di confronto e scoperta preliminare del significato della parola “talento/i”, fino ad arrivare alla scrittura di un “diario dei talenti di classe”, nel quale i bambini spontaneamente hanno raccontato le loro scoperte sui loro compagni. Una docente di una classe quarta che ha utilizzato la proposta dell’albero dei talenti osserva:

[…] con grande entusiasmo ogni bambino ha scritto il talento di un proprio compagno su una mela e ben presto le chiome degli alberi si sono riempite (chi più chi meno) di frutti vermigli. Z (l’alunno cinese osservato), dapprima riluttante, appena ha visto i compagni apporre diverse mele sul suo albero, ha cominciato con entusiasmo a scrivere i pregi dei suoi compagni, chiedendomi consigli sulla forma ortografica da usare nelle frasi da scrivere. Con mia grande meraviglia qualcuno aveva pensato di osservare anche me, scrivendo su alcune mele anche i miei talenti e me le ha donate: così anch’io ho realizzato il mio albero dei talenti! È stata un’attività utilissima a tutti, in classe, per osservare gli altri con l’attenzione rivolta ai pregi e non ai difetti altrui, cosa che, purtroppo, facevano spesso prima, con malumori che, evidentemente, ne scaturivano (denigrare gli altri funge spesso da scudo per nascondere agli altri le proprie debolezze). Ha messo in rilievo il valore delle qualità peculiari di ognuno di noi, che arricchiscono anche gli altri componenti del gruppo che le sanno apprezzare. Dopo questa esperienza il clima in classe sembra essere migliorato: i rapporti tra gli alunni sono più distesi, cordiali e collaborativi, anche da parte degli elementi usualmente più strafottenti e spacconi; anche loro sono stati piacevolmente sorpresi dai “talenti” ricevuti, così hanno iniziato, un po’ titubanti, a scriverne anche loro alcuni sui propri compagni.

L’“Albero dei talenti” si è rivelato un valido strumento per far riflettere i bambini, produrre “riconoscimento” reciproco e creare un clima positivo nella classe. Anche in questo caso, la “regia” sapiente e oculata dell’insegnante consente all’attività proposta di avere un buon esito.

L’albero dei cuori «Hai un cuore duro» disse la nonna a Sandro, che, in autobus, non si era alzato per cedere il posto a una vecchia signora. Ma Sandro non aveva tutti i torti: gli avevano dato un calcio mentre giocava a pallone e gli doleva forte la gamba. «Hai un cuore troppo tenero», lo canzonò Giorgio, il suo compagno di banco, che stava infilzando una farfalla su un cartone, con uno spillo, vedendolo rabbrividire. «Hai un cuore egoista» lo rimproverò sua sorella perché aveva dato solo una moneta al mendicante seduto all’angolo della strada. «Hai un cuore pieno di altruismo» si complimentò la zia Carlotta con lui, perché le aveva offerto un po’ del suo gelato. Quando una mattina, Sandro si lamentò perché il caffelatte era freddo e scipito e il nonno cominciò: «Tu hai un cuore…», lui scappò via arrabbiatissimo. Insomma, che razza di cuore aveva? Tutti volevano dire la loro. Sandro era così immerso nei suoi pensieri che, appena fuori di casa, prese a casaccio una strada qualsiasi. A un certo punto vide davanti a sé un cartello che indicava la presenza di un “Albero dei cuori” poco più avanti. Un albero di cuori, cuori di ricambio, forse? In questo caso andava proprio bene per lui, che del suo cominciava a stufarsi. L’albero c’era davvero: al posto dei fiori e foglie attaccati ai rami c’erano tanti cuori di ogni colore sui quali stava scritto qualcosa. Sandro si alzò sulla punta dei piedi per vedere meglio. Davanti al suo naso penzolava un cuore verdastro, cuore invidioso, lo staccò e se lo appoggiò sul petto. Subito gli venne da pensare a un suo amico che per Natale aveva avuto in regalo una bella bicicletta da corsa tutta cromata e che non gli aveva permesso neanche di salirci sopra. Fino a quel momento non aveva provato rancore per lui ed ecco che ora, improvvisamente, sentiva di volergli male. Ma poi si sentì scontento; non c’è gusto a invidiare gli altri e non è con l’invidia che si può avere una bicicletta. Gettò a terra il cuore verdastro e ne staccò un altro, rosso cupo; cuore rabbioso. Non appena lo ebbe posato il petto si sentì invadere da una gran rabbia al pensiero che la nonna, la sorella, Giorgio, zia Carlotta e persino il nonno trovavano sempre da ridire su come si comportava. Però, anche arrabbiandosi, rimediava qualcosa? No.

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Così lanciò lontano il cuore rabbioso e cominciò a leggere le scritte degli altri: cuore triste, cuore timido, cuore neonato, cuore duro, cuore egoista, cuore altruista, cuore tenero. Quelli, inutile staccarli e provarli. Secondo la nonna, la sorella, secondo Giorgio e zia Carlotta, lui quei tipi di cuore li aveva già. Ormai Sandro era stanco e stava per andarsene quando vide un cuore giallo splendente simile a un piccolo sole: cuore allegro, c’era scritto a lettere dorate. Lo appoggiò sul petto: una meraviglia!! Rise del verme che strisciava sul filo d’erba e di continuo ricadeva a terra, rise guardando gli uccelli in volo e il sole che stava per tramontare: aveva trovato il cuore giusto!! Fece per rimettersi in cammino. In quel momento il vento fece cadere a terra, ai suoi piedi, un cuore di tanti colori. Lo raccolse. Era un cuore fatto a spicchi di tanti colori. I contorni sfumavano l’uno nell’altro. Sopra c’era una scritta più lunga delle altre: «Questo è il cuore di Sandro; un po’ allegro, un po’ triste, un po’ rabbioso, un po’ indifferente, un po’ tenero e un po’ egoista; un cuore come quelli della maggior parte della gente del mondo, un cuore niente male, insomma. Perché cambiarlo?» Un altro soffio di vento e il cuore di tanti colori volò via, scomparve. Sandro rimase a mani vuote, ma si sentiva felice.

(R. Guarnieri, Storie per i giorni di pioggia, Giunti-Marzocco, Firenze, 1983)

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Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti

“PAROLE BELLE PER TE…” NON PETALI, MA BIGLIETTI…: DA UN LAVORO IN CLASSE (CHIARA MERIGGI)

A proposito di valorizzare ogni bambino e il suo essere in relazione, quando il 28 di novembre il prof. Luatti ci ha presentato l’attività dell’albero dei talenti, in classe, come accennai allora, stavo svolgendo un’attività che in un certo modo le si avvicina: l’attività “Parole belle per te”. Per ogni bambino è stata preparata una grande busta dorata, con scritto sopra il proprio nome. Tutte le buste sono state appese a un bel cartoncino rosso. Durante il periodo che ci separava dalla vacanze natalizie, i bambini sono stati invitati a osservare con maggior attenzione tutti i loro compagni e a notare in ciascuno una qualità da sottolineare. Individuata la qualità, l’hanno scritto su un foglio colorato e l’hanno inserita nella busta del destinatario. Tutti abbiamo delle qualità, c’è chi riesce a metterle in mostra meglio, chi meno: crescere insieme vuol dire anche aiutarsi a cogliere il bello e il bene nelle persone e nel mondo che ci circonda. L’obiettivo dell’attività, sfruttando il naturale clima di attesa della sorpresa del periodo prenatalizio, era duplice: promuovendo l’attenzione, rafforzare atteggiamenti e comportamenti improntati alla reciprocità, promuovere atteggiamenti e comportamenti di attenzione e cura. Il sociogramma delle relazioni e le sue variazioni nel tempo mi sono infatti note grazie a un progetto di formazione sulla continuità che comprende le interviste individuali ai bambini con le nomine dell’amicizia. A esso io ho aggiunto un’attività di osservazione costante, soprattutto nel gioco libero e la tecnica del “disegno della classe” che offre numerosi spunti. Il gruppo classe con il quale lavoro è molto eterogeneo: ci sono 3 bambini con DSA, uno con deficit attentivo e iperattività, 2 bambini stranieri, 3 con uno dei due genitori non italiano, uno con seri problemi di comportamento… la diversità è davvero una dimensione pervasiva della nostra quotidianità. Tutta questa diversità al momento del loro ingresso alla scuola primaria è stata un problema per molti dei miei alunni e per il clima generale. Per vissuti personali (scolastici e familiari) alcuni di loro, in ogni situazione di confronto, in modo immediato, e quasi spontaneo e naturale, stigmatizzavano, additavano, ogni diversità come negativa. Il risultato era, chiaramente, un livello di autostima molto basso in un bel gruppo di alunni. Il curriculum implicito e anche quello esplicito si sono strutturati da subito per promuovere attività che valorizzassero ciascun componente del gruppo classe. Adesso siamo in terza e posso dire che quest’attività, della quale avevo accuratamente informato i genitori in modo che il feedback venisse favorito, è stata molto costruttiva. Ovviamente è stata necessaria una costante regia da parte mia per verificare la presenza di biglietti in ogni busta, ma molto inferiore a quello che pensavo. Mi limitavo, in loro assenza, a controllare le buste, e il giorno seguente sollecitavo il gruppo in generale a portare avanti l’attività. Nessuno ha tentato di usare la busta d’oro per scrivere cattiverie… apparentemente quest’idea non li ha nemmeno sfiorati… C’è stata invece una cura costante e un’attenzione premurosa a cercare di trovare le parole, il modo per dire quel che di importante sentivano di donare. Le preziose buste sono state consegnate l’ultimo giorno di scuola durante una festa-merenda con i genitori. Questi ultimi hanno così percepito direttamente l’importanza di queste buste dorate ed hanno accolto con maggior consapevolezza l’invito a leggere il contenuto della busta con i propri figli cercando e “creando” un momento adatto. Al rientro dalle vacanze e già durante le stesse diversi genitori mi hanno comunicato l’interesse e l’emozione che questa esperienza aveva suscitato anche in loro, portandoli a “guardare” ad alcuni bambini, solitamente etichettati in negativo, con occhi del tutto diversi. Altrettanto vale per i genitori dei bambini “difficili”, che

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hanno ricevuto un’immagine positiva dei loro figli e in qualche modo anche di sé, con un conseguente alleviamento dei sensi di colpa.

LA RAGNATELA DELL’AMICIZIA (CATIA REDDITI)

Quest’anno lavoro per la prima volta nella scuola primaria, in una classe prima. Il primo obiettivo che ci siamo poste, io e la mia collega, è stato quello di creare un gruppo coeso e un clima sereno improntato sul rispetto e l’ascolto reciproco. Già dal primo giorno di scuola abbiamo proposto molti giochi incentrati sulla conoscenza dei nomi (visto che i bambini e le bambine provengono da due diverse scuole dell’infanzia) e delle caratteristiche personali, privilegiando tutti i linguaggi, verbali e non. Verso la fine del mese di novembre, abbiamo introdotto un lavoro sul tema della legalità: diritti e doveri dei bambini a scuola. Abbiamo privilegiato le conversazioni, guidando inizialmente gli interventi, fino a trovare una regola condivisa che consenta di prendere e dare la parola a vicenda. Le regole sono state trascritte su fogli di carta. Nello stesso periodo, osservando i bambini e le bambine durante il gioco libero abbiamo verificato che alcuni non riuscivano a interagire con successo in alcuni gruppetti e, a seguito di una lunga conversazione durante la quale ognuno ha fatto diverse proposte, abbiamo costruito “La ragnatela dell’amicizia”. Abbiamo preso un cartoncino e, tutt’intorno, sulla linea immaginaria di un cerchio abbiamo scritto i nomi degli alunni e delle alunne. Ogni giorno chiediamo a tre bambini/e di scegliere un compagno o una compagna con cui giocare nei momenti di gioco libero. Con un filo di lana uniamo i nomi dei due compagni e verifichiamo chi viene scelto e da chi. Una sorta di sociogramma abbastanza significativo. Adesso stiamo costruendo anche “L’albero delle scoperte”: abbiamo preso 19 strisce di carta e, su ognuna di esse è stato scritto con varie tecniche il nome di ciascun bambino/a. La striscia è stata impreziosita dalla descrizione personale che ciascun bambino/a ha dato di sé, sia attraverso la scrittura spontanea che con disegni e ritagli da riviste. Giocando in coppia è possibile scoprire cosa sa fare l’altro e, quindi, è possibile arricchire la striscia con osservazioni e contributi altrui. Infine, nell’angolo della lettura libera, abbiamo collocato il pannello de “La posta del cuore” con 21 taschine (19 alunni più due insegnanti) e i bambini e le bambine, possono “inviare” messaggi per rinsaldare le amicizie. Già ai primi di ottobre, un passo dopo l’altro, dopo e durante i giochi con i nomi, i giochi di socializzazione e di scoperta del gruppo, l’organizzazione degli spazi (prevedendo spazi per attività individuali, di coppia, di gruppo, spazi per la conversazione e per il gioco di movimento, di attività manipolative), abbiamo adottato il metodo osservativo. Nel nostro Circolo, ormai da alcuni anni, viene attivato un progetto con finalità di osservazione dei comportamenti attraverso l’uso di una scheda. Al progetto hanno, da sempre, aderito soprattutto le insegnanti della scuola dell’infanzia e io. Io che fino allo scorso giugno ho lavorato nell’infanzia, ho acquisito questa modalità di lavoro che ho riportato, con le dovute modificazioni, nella scuola primaria. Cosa osservo: un bambino nel contesto di riferimento, scrivo con chi gioca e a che cosa gioca, quali materiali utilizza, quali sono le relazioni che instaura con gli altri (è leader, gregario, collaborativo, ecc.), quanto dura il gioco, perché c’è l’allontanamento dal gioco e da parte di chi (sua o di altri). In alcuni periodi osservo di più… dipende da diversi fattori. Le osservazioni, soprattutto durante i momenti di gioco libero e di attività cooperativa, ci hanno permesso di conoscere alcune dinamiche relazionali che, in certi casi, tendevano a ripetersi in maniera coatta provocando disagio sempre negli stessi bambini. A nulla valgono (e lo sappiamo per esperienza) i richiami o le imposizioni o, peggio, l’allontanamento dal gioco da parte dell’adulto… Queste osservazioni sono state raccolte e sistematizzate. Nei momenti di programmazione, abbiamo riflettuto per capire se certi comportamenti si ripetevano anche durante i momenti di apprendimento disciplinare, durante la mensa… e a questo lavoro sono seguite tre attività.

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1) Abbiamo proposto un gioco con “Mister face”. Alla domanda «Come ti sei sentito quando hai tirato la spinta?»; «Come ti sei sentito quando ti ha dato la spinta?». Il bambino poteva parlare, raccontare il suo stato d’animo. Il bambino, poi, prende i pezzi (occhi, naso, bocca, sopracciglia) corrispondente all’emozione provata per attaccarli con il velcro sulla faccia del pupazzo. Abbiamo anche disegnato una serie di faccine: triste, preoccupato, sorpreso, arrabbiato, felice… A ogni faccia corrisponde un colore e un’emozione (colori e associazioni sono state individuate dal gruppo nel corso di una conversazione). Ogni bambino ha una striscia con il nome e, alla fine della ricreazione di metà mattina, sceglie la faccina che meglio rappresenta lo stato d’animo vissuto durante il gioco libero. Ognuno può esternare ciò che ha provato e perché, può discutere del suo essere e sentirsi… e soprattutto può comunicarsi al gruppo. 2) Successivamente è stata realizzata la “Ragnatela dell’amicizia” e la “Posta del cuore” che, in quest’ultimo periodo di tempo ha cambiato nome in “Posta dell’amicizia”. Il cambiamento è stato determinato dal fatto che, essendo il pannello posto nell’angolo delle iniziative legate all’amicizia, i bambini hanno ritenuto più “bellino” cambiare il nome. E qui abbiamo passato due momenti di accesa discussione per trovare un accordo, perché le femmine volevano mantenere “Posta del cuore”, ecc. Anche la posta ci serve da “cartina tornasole” per l’amicizia: una volta ogni 10 giorni circa viene chiesto ai bambini di scrivere una lettera a un amico, oppure un biglietto di reclamo per un dispetto ricevuto; un invito a casa propria… 3) Il mercoledì mattina abbiamo un piccolo momento di compresenza e in questo spazio abbiamo avviato un lavoro sulla legalità, partendo dalla lettura del testo “Arrivano le moschine”. «Cosa è per te un dispetto?»; «Cos’è per te uno scherzo?»

I SOLLECITATORI RELAZIONALI CON I BAMBINI ADOTTATI E AFFIDATI (EMILIANO PROIETTO)

Come educatore professionale del Centro affidi e adozioni del Comune di Firenze seguo gruppi di bambini presso lo spazio gioco, abbiamo provato con una collega la funzionalità dei sollecitatori relazionali suggeritici dai docenti del corso. Seguiamo vari bambini che provengono da ogni parte del pianeta, con età diversa, scolarizzati, non tutti conoscono l’italiano, non tutti si conoscono tra loro, qualcuno si sta conoscendo ora, qualcuno di loro si conosceva di vista poiché viveva nello stesso istituto d’accoglienza, qualcuno ha delle disabilità, sono accomunati dall’affido e dall’adozione, e dall’aver vissuto una o più esperienze di abbandono; come ama dire Jean Vanier «ogni uomo è una storia sacra!» Per noi educatori inizialmente è stato utile lavorare con la “Ragnatela dell’amicizia” e i “Fiori dell’amicizia”, soprattutto come sociogramma nel tempo come suggeriva Luatti. Grazie a questi sollecitatori abbiamo amalgamato il gruppo e sono emerse varie cose sui “legami” interessanti, tutti sono stati attratti dall’attività proposta anche i più piccoli. Ci siamo disposti in cerchio seduti attorno a un tavolo con gruppi di bambini e ragazzi di età diverse: 0-7 anni (post adozione), 3-8 anni (post adozione), 8-11 anni (post adozione), 7-12 anni (affido), con tutto il materiale seguendo i vari step dell’attività favorendo la loro interlocuzione con noi e tra loro anche facendoli scegliere colori, grandezza dei cerchi, la grandezza dei petali, l’uso del lapis, l’uso dei pennarelli e delle penne, colla e abbiamo aggiunto sfondi per abbellire il lavoro d’insieme. “Hanno mantenuto l’attenzione” persone con potenziali disturbi. I più piccolini sono stati aiutati in tutto da un educatore. Abbiamo avuto delle difficoltà con quelli più grandi in particolare 8-11 (post-adozione) poiché c’è nel gruppo una grande difficoltà personale con il rispetto in generale: tra loro, dell’adulto, e delle regole.

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La mediazione del conflitto interculturale nella scuola multiculturale*

1. Il ruolo del conflitto e della mediazione nella società

Il ruolo del conflitto in ambito sociale è stato ampiamente discusso e affrontato in ogni campo delle scienze sociali. Il conflitto fa parte della nostra vita sociale e quotidiana, fa parte delle relazioni che intessiamo ogni giorno e del contesto allargato in cui viviamo come comunità locale ma anche come comunità globale, è parte naturale dello sviluppo dell’essere umano, in quanto essere sociale. Il conflitto non è qualcosa da cui allontanarci, qualcosa da risolvere il più celermente possibile (spesso anche a discapito delle soluzioni), qualcosa che viene per nuocere alle nostre vite o alle nostre relazioni o alla costruzione del nostro io. Il conflitto è indice prima di tutto di relazione e di scambio, fa parte del nostro processo di crescita e di riconoscimento sociale, è indice della necessità di modificare l’equilibrio esistente, rappresenta l’emersione di forze nuove o di equilibri in rottura, e se ben gestito può essere fonte di approfondimento delle dinamiche che regolano le nostre relazioni, per far sì che rappresentino una crescita e un miglioramento degli equilibri che non rispondono più alle nostre aspettative. Obiettivo della formazione che si occupa di mediazione è gettare le premesse per rovesciare lo sguardo sul conflitto: allenarsi a vedere il conflitto come un evento denso di aspetti positivi e di occasioni di crescita, allenarsi a stare dentro il conflitto, per capirlo, conoscerlo, affrontarlo in maniera creativa. Proprio perché il conflitto investe molteplici ambiti del vivere in relazione, anche la teoria e la pratica della mediazione attingono alle conoscenze provenienti da svariate discipline tra cui la sociologia, l’antropologia, le scienze della comunicazione, le scienze della formazione, il diritto e la psicologia. Anche attraverso le diverse definizioni di mediazione, che ritroviamo in applicazione nei diversi settori dello studio sociale, psicologico e giuridico, possiamo cominciare a orientarci sulla posizione della mediazione rispetto al conflitto. Secondo la definizione di Folberg e Taylor (1984): «La mediazione è prevalentemente, un processo che trascende il contenuto del conflitto che con essa si vorrebbe risolvere.», è «il processo mediante il quale i partecipanti, con l’assistenza di una o più persone neutrali, isolano sistematicamente i problemi della disputa, dall’obiettivo di trovare soluzioni, considerare alternative e raggiungere un accordo adeguato alle loro reciproche necessità»; mentre secondo Grover, Grosch e Olczak (1996):

Mediazione è l’intervento, in un conflitto, di una terza parte imparziale che aiuta le parti contrapposte a gestire o risolvere la loro disputa. La terza parte imparziale è il mediatore, che utilizza tecniche volte ad aiutare i contendenti a raggiungere un accordo consensuale con lo scopo di risolvere il loro conflitto. […] Il verbo “aiutare” è importante in questo contesto. Si presuppone che i mediatori non forzino né impongano la soluzione. I mediatori preparano i contendenti affinché possano raggiungere i loro propri accordi, favorendo la discussione aperta e sviluppando soluzioni alternative.

In sostanza la mediazione è una modalità di approccio alla gestione positiva dei conflitti. Il suo obiettivo è quello di condurre le parti in disaccordo a individuare una soluzione mutuamente accettabile e soddisfacente per entrambe attraverso l’ausilio di un terzo neutro: il mediatore. Mettendo al centro gli stessi attori del conflitto e conducendoli all’individuazione di un percorso che offra soluzioni positive per entrambe le parti, senza vincitori né vinti, la mediazione affronta il tema del conflitto come una dimensione naturale dello sviluppo relazionale umano. La mediazione è dunque fortemente differente dalle modalità “classiche” di approccio al conflitto: la mediazione non vuole arrivare all’accertamento della verità, né vuole stabilire torti e ragioni, colpevoli e innocenti, tanto meno si basa sulla “legge del più forte” che ha a suo modo

* Valentina Ferrucci, ricercatrice.

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regolato i conflitti in diversi ambiti, la mediazione vuole innescare un processo che porti entrambi gli attori dell’evento conflittuale all’individuazione di soluzioni condivise e soddisfacenti. Negli ultimi anni la pratica della mediazione si è ampliata, capillarizzata, diffusa a macchia d’olio in molte sfere del vivere sociale. Si parla di mediazione in ambito familiare, in ambito giudiziario penale e civile, e poi ancora in ambito scolastico, ospedaliero, fino all’ambito del conflitto internazionale, e sempre più spesso si parla di mediazione in chiave interculturale. Di per sé lo sviluppo dell’arte della mediazione è un buon segnale: è indice se non altro della necessità di risolvere i conflitti aperti attraverso modalità alternative, anziché affidarne la soluzione al conflitto stesso che dichiari vincitori e perdenti. D’altro canto è importante non ridurre la mediazione a soluzioni superficiali, rendendola una soluzione rapida e indolore per i protagonisti del conflitto.

2. La mediazione del conflitto interculturale

I riferimenti teorici

Quando si parla di mediazione del conflitto ci si riferisce in realtà a un complesso mondo di teorie e tecniche sviluppatesi dall’inizio del XX secolo, che attingono ai saperi delle diverse scienze sociali. Attualmente i principali modelli di mediazione provengono dagli studi giuridici e sociologici, e sono: il modello negoziativo1, il modello trasformativo2 e il modello circolare narrativo3. A livello generale possiamo distinguere due approcci alla mediazione: quello valutativo e quello facilitativo. Nei modelli valutativi, i mediatori hanno un ruolo più attivo in relazione agli aspetti sostanziali della disputa: valutano la forza della posizione di ciascuna parte e formulano proposte di accordi. L’obiettivo fondamentale è quello di raggiungere un accordo e la funzione del mediatore consiste nel valutare i diritti e le pretese delle parti, formulando anche una proposta di accordo. Questa procedura si basa fondamentalmente sull’analisi dei fatti e dei diritti delle parti, il cui protagonismo nella co-costruzione della soluzione è, però, notevolmente ridotto. Viceversa, i modelli facilitativi incoraggiano il ruolo delle parti come protagoniste dirette nella generazione di opzioni e nella scelta degli argomenti che formeranno parte dell’accordo finale. Elementi sostanziali della mediazione facilitativa sono il protagonismo delle parti, che arrivano a stabilire un accordo frutto del loro confronto e non della proposta del mediatore, e la valutazione degli aspetti soggettivi del conflitto; in questo processo il mediatore accompagna le parti a generare esse stesse la soluzione. Ogni proposta di approccio alla mediazione porta con sé specifici strumenti, obiettivi, modalità di intervento. Qui vogliamo però proporre un approccio alla risoluzione del conflitto che recepisce diversi modi di fare mediazione, perché la nostra vuole essere la proposta di uno stile comunicativo e relazionale differente. Assumere la mediazione come paradigma significa svincolare la tecnica della mediazione, qualsiasi sia la declinazione pratica dell’atto mediatorio, dallo spazio degli strumenti per assumerne il pensiero soggiacente: ovunque ci sia conflitto, esiste sempre una soluzione che non va a danneggiare l’uno o l’altro, che non sia un compromesso tra le due parti, ma una soluzione che renda più consapevoli e più vicini i contendenti. In questo senso la mediazione del conflitto non vuole essere un insieme di tecniche, di luoghi e attori della mediazione, ma vuole rappresentare un altro modo di comunicare in situazioni di conflitto. 1 La Scuola di Harvard trae le proprie origini dallo sviluppo di un modello di negoziazione realizzato dal gruppo di ricerca Harvard Negotiation Project (HNP), fondato nel 1980 da Roger Fisher. 2 Il modello trasformativo di Bush e Folger si pone l’obiettivo di fare maturare nelle parti la consapevolezza delle proprie capacità di cambiamento. Nella visione trasformativa, i conflitti vengono vissuti come un’occasione per trasformare le relazioni, promuovendo la “valorizzazione” e il “riconoscimento” tra i loro protagonisti. 3 Il modello creato da Sara Cobb parte dal concetto per cui l’esperienza e la realtà sociale si organizzano mediante la narrativa (story telling), e afferma che i conflitti sono il prodotto della coerenza fra le storie che li riportano, proponendo una soluzione del conflitto attraverso la costruzione di una storia comune.

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La mediazione del conflitto dunque in questo ambito si propone di suggerire un approccio alla difficoltà relazionale per sé e per gli altri.

Cos’è la mediazione del conflitto interculturale

Come si accennava, negli ultimi anni la dimensione della mediazione si è allargata attraverso la moltiplicazione degli ambiti di applicazione e delle dottrine sottese, rischiando però sia di “confondere le idee” ai non addetti ai lavori, sia di sovrapporsi negli ambiti di sviluppo. È bene dunque fare chiarezza sul tipo di mediazione che proponiamo agli insegnanti. L’oggetto della formazione per gli insegnanti prende il nome di mediazione del conflitto interculturale. La mediazione del conflitto interculturale è un ambito della mediazione in sviluppo, che è legato sia all’aspetto sovranazionale del conflitto sia alle relazioni nella società multiculturale, e in alcun modo si sovrappone alla mediazione culturale “classica”. La mediazione culturale o interculturale infatti, comunemente intesa, non rappresenta una forma di soluzione del conflitto, ma anzi cerca di intervenire quando la relazione è all’inizio ed è necessario un mediatore che avvicini le due parti nella comprensione reciproca. Comprensione culturale che significa non solo e non tanto lo sviluppo di una lingua condivisa o una buona traduzione dall’una all’altra, ma significa decodificare messaggi e strumenti tra una persona autoctona e una persona che provenendo da un contesto culturale altro, e non possedendo gli “attrezzi sociali e comunicativi” propri della cultura di arrivo, si affida, per comprendere ed essere compreso, al mediatore. Nella definizione dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e educazione): «Dal un punto di vista dell’intervento sociale quella del mediatore culturale è una figura professionale che ha il compito di facilitare l’inserimento dei cittadini stranieri nel contesto sociale del Paese di accoglienza, esercitando la funzione di tramite tra i bisogni dei migranti e le risposte offerte dai servizi pubblici». Tutt’altro è la mediazione del conflitto interculturale, che si muove sostanzialmente nell’ambito della mediazione del conflitto, assumendone i presupposti e le soluzioni, ma sviluppa un suo campo specifico, attraverso l’analisi dei rapporti interculturali delle società complesse. La mediazione del conflitto interculturale si propone di intervenire nei conflitti al cui interno vi sia un elemento culturale, elemento che può essere decisivo per il conclamarsi del conflitto o per la soluzione dello stesso. All’interno delle società complesse infatti, la composizione multiculturale è ormai un tratto distintivo comune, e questa complessità necessita di elementi di analisi e di intervento quali il confronto tra persone con bagagli culturali differenti non sempre è fluido, può dare origine a conflitti latenti, a cattiva comunicazione, a fraintendimenti dovuti in parte a un modo diverso di leggere la realtà. Al tempo stesso il conflitto interculturale viene percepito e trasmesso come concausa di malessere sociale, anche laddove il conflitto non esiste ed è creato ad arte, vedi le campagne xenofobe o l’esacerbarsi di difficoltà relazionali tra persone provenienti da culture diverse, la creazione o l’alimentarsi di pregiudizi culturali. Il discorso che sta alla base della teoria della mediazione del conflitto interculturale è che il conflitto che si cela dietro termini culturali porta con sé altri tipi e altri livelli di conflittualità, molto più profondi e radicati nell’essere umano in quanto tale. La mediazione che proponiamo dunque è una soluzione creativa a un conflitto relazionale, che molto spesso va oltre le differenti culture ma anzi attiene a radici comuni del sentire umano. La mediazione del conflitto interculturale vuole lavorare cioè a portare le parti su un terreno che superi le diffidenze culturali, riconosca le differenti visioni del mondo, per approdare su un piano di pari dignità e di riconoscimento reciproco della propria radice comune e delle vere ragioni che animano il conflitto. Per questo la formazione che porta alla mediazione del conflitto interculturale passa necessariamente per l’analisi dei contesti interculturali, per l’analisi del concetto di identità e di cultura (cfr. paragrafi precedenti), per la messa in discussione della natura delle relazioni e delle relazioni in contesti multiculturali.

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La mediazione del conflitto: strumenti e metodologia

A grandi linee possiamo affermare che la mediazione proposta rappresenta una soluzione trasformativa del conflitto, in cui le due parti “contendenti” si confrontano con l’ausilio di un “terzo neutrale”: il mediatore. Per comprendere almeno sommariamente il processo di mediazione del conflitto dobbiamo analizzare tre aspetti della mediazione: il ruolo del mediatore, gli strumenti e le metodologie utilizzate nel processo di mediazione, le fasi della mediazione. Il ruolo del mediatore può differenziarsi molto da scuola a scuola, come abbiamo visto. Il mediatore infatti può interpretare il ruolo del facilitatore, del “regista”, dell’“interprete” della comunicazione, o il “suggeritore”, e via dicendo. La differenza sta cioè nel grado di coinvolgimento diretto del mediatore. Nel nostro caso preferiamo pensare a un mediatore “facilitatore”, che sia cioè essenziale nel processo di comunicazione tra le parti, ma che non interferisca in alcun modo nel processo comunicativo, se non nell’accompagnare le parti nel processo di “discesa e risalita” nell’ “iceberg del conflitto”. Il mediatore non ha cioè il compito di forzare verso una soluzione, suggerire un’uscita dal conflitto, esprimere opinioni nel merito. Il mediatore ha invece il difficile compito di chiarire, rilanciare, aiutare le parti a esprimere al meglio le proprie posizioni, e tutto ciò che – come vedremo – vi è sotteso. La neutralità e imparzialità è per il mediatore una caratteristica tanto essenziale quanto difficile da realizzarsi: la natura umana ci fa propendere sempre per una parte, ed è compito del mediatore esercitarsi a osservarsi e tenere a distanza le proprie forme di giudizio e di propensione per l’uno o per l’altro. La neutralità diventa più sostenibile se l’obiettivo della mediazione è chiaro: attivare un processo di trasformazione del conflitto che possa portare i due contendenti a una nuova visione del conflitto stesso, innescando un processo di soluzioni condivise. In questo modo il mediatore non ha bisogno di propendere per l’uno o per l’altro, perché il processo di cui è facilitatore dovrebbe portare a soluzioni migliorative per entrambi. Nel caso del conflitto interculturale questo è ancora più importante, perché il mediatore deve tendere all’assenza di giudizio, ancor più di pregiudizio culturale. Un tema interessante è legato alle conoscenze pregresse del mediatore: il mediatore deve conoscere i pregressi culturali delle parti? Come vedremo, per il tipo di mediazione che proponiamo, questo non è necessario, poiché gli elementi in campo sono altri e ciò che conta è la rappresentazione del conflitto che i “contendenti” hanno, prima di tutto perché non si tratta di stabilire la “verità giudiziaria”, ma di attivare un processo comunicativo, inoltre l’analisi del conflitto che è alla base della mediazione proposta ha come epicentro la dimensione relazionale e personale, la visione di sé in relazione agli altri. Per capire il processo della mediazione ci riferiamo al cosiddetto Iceberg del conflitto, mutuato da Felstiner, Aber e Sarat, in cui il conflitto è rappresentato come un iceberg, la cui punta emergente, visibile, è rappresentata dalle posizioni contrapposte, posizioni che nascondono interessi, emozioni, bisogni, valori, fino ad arrivare in fondo, all’immagine di sé, all’idea cioè che ognuno vuole rappresentarsi di sé stesso. Sostanzialmente si sostiene che la parte che emerge, quella visibile, quella attinente al “conflitto conclamato”, esteriorizzato e comunicato, rappresenta soltanto una piccola parte delle ragioni che portano al conflitto, e che nasconda diverse dimensioni del conflitto che vanno a toccare fino in fondo l’essere umano coinvolto.

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L’ICEBERG DEL CONFLITTO

Posizioni

Interessi

Emozioni

Bisogni

Valori

identità/immagine di sé

Ascolto attivo

Messaggio-io: in prima persona

Ricerca creativa

di soluzioni

Comprendendo a fondo l’iceberg del conflitto, si agisce sulla comunicazione tra le parti per far sì che emergano le parti non visibili, fino ad arrivare in fondo, per poi risalire, entrambi, verso interessi e posizioni che trasformate siano in grado di convergere in obiettivi comuni. Il mediatore dovrebbe cioè condurre le due parti a chiarire, esplicitare e comunicare le emozioni, i bisogni, i valori che hanno portato entrambi a trincerarsi dietro posizioni contrastanti, fino a mettere in luce la propria immagine di sé, ciò che sta alla base della relazione con l’altro e che in qualche modo e in qualche momento si è incrinato fino a creare l’evento conflittuale. Questo processo può essere molto doloroso per entrambi, poiché spesso le parti nascoste dell’iceberg sono nascoste anche a noi stessi, e nel momento del conflitto non appaiono chiare e fanno fatica a esplicitarsi. Ma il processo non termina qui, poiché sarebbe inutile e deleterio da parte del mediatore abbandonare le due parti in uno stato emotivo che li lascia vicendevolmente scoperti senza aiutarli a individuare una soluzione condivisa. Per questo il mediatore deve aiutare le due parti a condurre un percorso di risalita dalle emozioni profonde alla ricerca di soluzioni condivise, basate sul soddisfacimento dei bisogni nascosti, emersi durante il processo di mediazione, attraverso l’individuazione di nuove posizioni reciproche e della ricerca di una soluzione che trasformi il conflitto nelle sue radici. Questo è il ruolo del mediatore: accompagnare e aiutare le persone in conflitto a far emergere il proprio sentire nascosto, per evidenziare poi interessi comuni fino a individuare, essi stessi, soluzioni del conflitto plausibili e migliorative della relazione. Questo è da intendersi dunque ben diversamente dall’individuazione di una soluzione di compromesso, sia essa auto o eterodiretta. Il mediatore in questa fase si avvale di strumenti quali tra gli altri l’ascolto attivo, il messaggio-io, la capacità di restituzione dei concetti chiave (feedback). In sede di sperimentazione ci siamo soffermati in particolare sull’utilizzo del messaggio-io e sull’ascolto attivo nei processi di comunicazione e di mediazione. Gordon (2001) colloca le due tecniche nell’ambito di una comunicazione efficace tra genitori e figli o tra ragazzi e insegnanti, ma in generale la tecnica dell’ascolto attivo e del messaggio-io può essere utilizzata in qualsiasi situazione comunicativa. Gordon infatti individua 12 “errori” della comunicazione, tra cui l’atteggiamento giudicante, derisorio, persuasorio, consolatorio o diagnostico, mentre sostiene che una comunicazione efficace è la comunicazione che utilizza l’empatia con l’altro, che ci costringe a porci le domande «come mi sentirei se fossi nella sua situazione? E come mi sentirei se l’altro reagisse come sto reagendo io?».

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In breve, il messaggio-io consiste nell’utilizzo – durante il confronto con l’altro – di frasi in prima persona, in cui non vi sia il giudizio verso l’altro o il suo comportamento, ma che mettano in evidenza le emozioni e i sentimenti propri in relazione all’altro in una data situazione, ponendo all’attenzione del discorso le conseguenze pratiche dell’agire dell’altro e i sentimenti che provoca con il proprio comportamento. Un esempio della trasformazione dal messaggio-tu al messaggio-io può essere per esempio trasformare il messaggio-tu «smetti di fare rumore, fai sempre confusione!» nel messaggio-io «quando sento troppo rumore mi sento frastornato e non riesco a fare niente, per questo mi sento a disagio». In questo modo si disinnesca la miccia del giudizio, si sposta l’attenzione dalle caratteristiche dell’altro per parlare di sé e allacciare così una relazione autentica ed empatica, in cui l’altro non si senta attaccato, nel comportamento o addirittura nella propria personalità (sei rumoroso), e abbassi le difese per aprirsi a un dialogo emotivo. Gli elementi del messaggio-io dunque sono l’assenza di giudizio sulla persona, la descrizione degli effetti su di sé dell’azione dell’altro, e delle proprie reazioni emotive in relazione all’altro in quella situazione. Utilizzare il messaggio-io è un esercizio che aiuta nelle relazioni in generale, e soprattutto nelle relazioni “squilibrate” in cui una parte è più “forte” dell’altra (genitori/figli, adulti/ragazzi…). Il messaggio-io è uno strumento che aiuta nella mediazione se proposto alle due parti come consegna, come modalità comunicativa durante le sedute di mediazione. L’ascolto attivo è una tecnica comunicativa più complessa, che si compone di diversi momenti e modalità: nel prestare attenzione e permettere all’altro di esprimersi senza cadere nei “12 errori” della comunicazione, essere accogliente attraverso messaggi verbali e non verbali (la prossemica ha importanza decisiva in questo tipo di ascolto), incoraggiare le parti a esprimersi e ad approfondire quanto stanno dicendo, a chiarificare i concetti espressi dalle parti, attraverso la riformulazione degli stessi, anche allo scopo di dare la possibilità alle parti di spiegare, specificare, approfondire i concetti espressi (feedback). L’ascolto attivo permette al mediatore di far sentire le parti pienamente accolte nella propria necessità di esprimersi, rassicurarle attraverso l’assenza di giudizio, aiutarle ad approfondire per gradi il livello reciproco di comunicazione, seguendo l’iceberg del conflitto citato. L’ascolto attivo inoltre aiuta le parti a cercare soluzioni autonome al conflitto e ai problemi sottesi, accompagnando le parti attraverso un approfondimento progressivo della percezione del problema stesso. Un accenno merita infine l’iter del processo di mediazione: il processo di mediazione si realizza attraverso step precisi.

– Richiesta di una delle due parti dell’intervento del mediatore: la mediazione non può essere imposta da altri o dal mediatore stesso, tanto meno dall’insegnante, primo elemento infatti per una mediazione efficace è la motivazione di almeno una delle due parti a voler affrontare e risolvere il conflitto attraverso la mediazione.

– Contatto del mediatore con le parti, per verificare la disponibilità a incontrarsi attraverso la mediazione: il mediatore deve assicurarsi che anche l’altra parte voglia affrontare un processo di mediazione.

– Incontro preliminare con ciascuna delle parti, in separata sede, per conoscere le ragioni del conflitto, la natura, il punto di vista del singolo e per condividere obiettivi e regole della mediazione. È necessario per il mediatore conoscere il punto di vista di ognuna delle due parti, in un contesto neutro o comunque favorevole alla persona, in un clima di fiducia che aiuti a sciogliere le riserve eventuali del contendente verso la mediazione e il mediatore stesso, in cui si esplicitino tutti i passaggi del processo di mediazione, si conoscano gli obiettivi e le regole di fondo, gli step e le aspettative.

– Incontri con le parti, al fine di iniziare e portare avanti il processo di mediazione, fino al raggiungimento di una soluzione condivisa. Gli incontri possono essere uno solo o molti e diluiti nel tempo. Gli incontri sono da realizzare in un luogo neutro per le due parti, al riparo da altri che potrebbero intervenire nella mediazione. Durante il primo incontro è utile prima di tutto chiarire il processo di mediazione, fissarne le regole, e raccontare ciascuno il proprio punto di vista sul conflitto in corso. Durante gli incontri di mediazione

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il mediatore dovrà aiutare le parti a dialogare, attraverso gli strumenti già citati, per approfondire i vissuti e i sentiti legati al conflitto attraverso la “discesa” nell’iceberg del conflitto. Una volta che entrambe le parti avranno esplicitato i propri bisogni emotivi e la propria immagine di sé anche in relazione all’altro, il mediatore avrà cura di accompagnare le due parti, attraverso la “risalita” dall’iceberg del conflitto, a rivedere i propri sentiti, i propri bisogni, emozioni, per riformulare le proprie aspettative rispetto al conflitto e a cercare e trovare soluzioni, che non siano compromesso tra i due ma che siano in grado di soddisfare realmente le parti.

La fase del confronto è particolarmente delicata: in questa fase può bastare una frase o un silenzio di troppo del mediatore o di una delle parti, uno sguardo diverso, un gesto impercettibile per far richiudere entrambi, costringendo il mediatore a recuperare il clima di fiducia che si è spezzato. Può accadere in una mediazione che la “discesa e risalita” nell’iceberg si interrompa bruscamente più volte, può accadere di dover tornare più volte sulla stessa fase di esplicitazione di bisogni, interessi, emozioni, può accadere al mediatore di concentrarsi troppo sulla discesa fin nel profondo delle emozioni delle parti e aver fretta di risalire per trovare una soluzione, mandando in fumo tutto il processo. Raggiungimento di un accordo. L’accordo così raggiunto deve essere condiviso da entrambi, sottoscritto alla presenza del mediatore, e verificato e verificabile nel tempo. L’accordo deve inoltre cercare di rimuovere alla base gli ostacoli comunicativi e di interessi che hanno creato il conflitto. Un accordo superficiale, astratto o poco chiaro è peggiore soluzione di un mancato accordo, poiché porta sfiducia tra le parti e porterà in futuro al ripresentarsi del conflitto acuito dalla frustrazione di non aver trovato la soluzione giusta.

3. La sperimentazione nelle scuole

Il mandato della scuola e la mediazione: quali prospettive e quali proposte

L’idea che la mediazione del conflitto possa avere una portata più ampia, possa assurgere a “filosofia di fondo” dell’agire relazionale, ha molto a che vedere con la scuola. La scuola di per sé rappresenta un sistema sociale complesso, composto da diversi attori e in cui l’ambito relazionale emerge come caratterizzante. Una scuola che rinuncia a lavorare sulla relazione è una scuola che ha rinunciato al suo principale mandato: quello educativo. Non soltanto perché la dimensione relazionale e affettiva è ormai dimostrato essere la dimensione imprescindibile per l’apprendimento, a qualsiasi livello. Ma anche e soprattutto perché il mandato della scuola è legato fortemente all’apprendimento e allo scambio di modalità di socializzazione, che rendano ogni allievo un essere sociale capace di interagire con gli altri in una realtà data. Ambienti basati sulla competitività, sulla selezione e sulla solitudine anche cognitiva rappresentano la “palestra sociale” per i giovani che sono e saranno cittadini insieme agli altri. In questo senso ogni impostazione metodologica che si fa carico della relazione educativa all’interno del sistema scuola si pone come “laboratorio” sociale, impostando le basi per le relazioni sociali future di una data società. Rispetto a questo le esperienze realizzate all’interno della scuola negli ultimi anni sono incoraggianti: è la scuola che chiede nuovi punti di vista, nuovi modi di affrontare il conflitto e non semplicemente un iter segnalato di passi da seguire per ottenere un dato risultato. La scuola nel tempo ha chiesto alla formazione stimoli di riflessione, strumenti in senso lato che venissero incontro a quanti all’interno del sistema scolastico cominciano a trovare strette le soluzioni finora adottate davanti al conflitto e più in generale davanti alle situazioni di disagio relazionale. La scuola ci ha chiesto di imparare a costruire relazioni soddisfacenti attraverso le proprie forze e i propri strumenti, e questo non può che essere interpretato come un segnale di forte maturità della scuola, che va assecondato e sostenuto a tutti i livelli.

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Una scuola che assume la consapevolezza del ruolo che riveste, che è pronta a riflettere sul suo bagaglio relazionale e sulle proprie prospettive come sistema complesso, che non si arrocca dietro la sicurezza di applicare programmi confezionati, di demandare la soluzione del conflitto a esperti esterni, è una scuola che sente la necessità di crescere e di sperimentare, ma soprattutto è una scuola che assume su di sé il mandato educativo nella sua accezione più profonda, che passa dunque inevitabilmente per la riflessione su quali relazioni è in grado di costruire al proprio interno e in quale relazione sta con la società intera. Per questo abbiamo smesso di proporre percorsi specifici di costruzione di figure (che fossero esterne o interne alla scuola) capaci di mediare il conflitto all’interno della scuola ma, insieme e grazie alle riflessioni che provenivano dal mondo scolastico, abbiamo cercato di capire quali fossero gli elementi che della mediazione del conflitto potessero approfondire la richiesta del mondo scuola su come affrontare il disagio relazionale e il conflitto, latente o conclamato che fosse.

Fare mediazione a scuola: spunti di riflessione

Proporre la mediazione del conflitto a scuola porta a riflettere su quali possono essere le difficoltà e le risorse della scuola stessa. Prima di tutto va operata una riflessione sui ruoli all’interno della scuola e sui possibili conflitti latenti o conclamati che si possono venire a creare; insegnanti, dirigenti, personale non docente, allievi, famiglie: tutti sono protagonisti a scuola, e tutti contribuiscono a creare un clima relazionale all’interno del sistema scuola, ma non ricoprono ruoli paritari. Vi sono infatti una serie di ruoli “contrapposti”: per età (adulti/bambini), per collocazione dentro/fuori la scuola (famiglie/insegnanti), per posizione gerarchica (dirigente/insegnanti/personale non docente); vi possono poi essere contrapposizioni/conflitti tra pari all’interno delle stesse categorie individuate: tra ragazzi, tra insegnanti, tra famiglie e tra personale non docente. Nel primo caso è importante focalizzare l’attenzione su quali conseguenze può avere un conflitto che si sviluppa tra attori con ruoli diversi, il ruolo diverso, infatti, è indicatore anche di un “peso specifico sociale” differente, per cui il conflitto tra un insegnante e il suo dirigente, o tra un insegnante e un allievo, o tra un genitore e un insegnante, ha origini, modalità di sviluppo e conseguenze profondamente differenti. La sproporzione di ruolo va attentamente soppesata quando si valuta e si interviene in un conflitto, in particolare il mediatore dovrebbe cercare di riequilibrare la relazione, almeno all’interno del processo di mediazione, perché la sproporzione tra i due non possa incidere in modo irreversibile nella mediazione stessa. Pensiamo per esempio a un conflitto tra studente e insegnante: come potrà sentirsi lo studente che senta di aver subito un’ingiustizia, con la paura che le sue rimostranze possano incidere sulla valutazione del rendimento scolastico? Egualmente è sproporzionata la relazione tra un insegnante o un segretario e il suo dirigente. Nel conflitto tra pari invece, il peso del ruolo è almeno apparentemente neutralizzato, mentre va focalizzato il peso sociale di ciascuna parte: tra gli studenti non tutti sono uguali, nel sistema di relazioni che si viene a creare, vi sono studenti che godono di maggiore consenso tra i pari e/o tra gli adulti, studenti che invece portano su di sé il marchio stigmatizzante del bullo, del “cattivo ragazzo”, del “secchione”, e questo può influire in un modo o in un altro sul processo di mediazione se non riusciamo a intervenire delicatamente sul riposizionamento delle parti in senso paritario. Un altro aspetto legato ai ruoli all’interno del sistema scuola ci proviene dall’esperienza diretta con il personale scolastico: nell’attenzione rivolta ai ragazzi, gli adulti a volte dimenticano di essere coprotagonisti di un sistema relazionale che dipende anche da loro, se vi si aprono delle crepe gli adulti per primi hanno il dovere di rimettere in discussione il proprio atteggiamento, mentre in alcuni casi gli adulti si stabiliscono su posizioni difficili da “smontare” e lasciano ai ragazzi il compito di ricomporre il conflitto, chiedendo loro implicitamente o meno di spostare la propria posizione in favore degli insegnanti. In altri casi le relazioni tra adulti e ragazzi risentono anche dei conflitti latenti o conclamati tra adulti, che per ruolo sentono di non poter modificare gli equilibri raggiunti, seppure si tratta di equilibri che

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celano il conflitto, succede quindi che il conflitto si sposta sul terreno scivoloso del non detto, di piccole o grandi ritorsioni, che in alcuni casi coinvolgono in maniera inconsapevole il territorio relazionale tra adulti e ragazzi. Per questo una domanda da porsi è quale figura deve ricoprire il ruolo di mediatore all’interno del sistema scuola. Il ruolo del mediatore deve essere assegnato a un esperto esterno? L’insegnante può essere mediatore e in quali tipi di conflitti? Vi sono contraddizioni tra mediatore e insegnante? Le possibilità che si aprono sono molteplici: il ruolo del mediatore può essere ricoperto da un esperto esterno, da un team di insegnanti e di studenti appositamente formati, dall’insegnante della classe, dai ragazzi del gruppo classe. Un altro tema centrale per la realizzazione delle attività di mediazione è come realizzare la mediazione a scuola: quali spazi, quali tempi, quali modalità. La mediazione infatti può essere realizzata in luoghi appositamente creati e riconoscibili all’interno del plesso scolastico, quali lo “sportello della mediazione”, oppure ogni classe può ricavare una modalità “mobile” o fissa per la mediazione, o ancora fluttuanti, lasciati al momento in cui se ne verifichi la necessità. La riflessione sui tempi della mediazione a scuola porta con sé una riflessione ben più ampia su quali tempi dedichi la scuola ad attività di tipo extracurriculare, e su come l’attività di mediazione del conflitto possa incrociarsi con i tempi scolastici in senso stretto. Quando è utile fare mediazione? Al momento del conclamarsi del conflitto? In momenti predeterminati all’interno del tempo scolastico? In momenti informali quali l’intervallo? Infine la riflessione riguarda le modalità della mediazione: lasciare uno spazio, un tempo, attori specialisti predefiniti per l’attività di mediazione, o assumere la mediazione a modalità comunicativa, assumendone gli assunti di fondo, gli strumenti e le modalità, ma lasciando che diventi una modalità di costruire relazioni in classe collaborative e aperte?

La sperimentazione in classe e gli esiti

La riflessione in classe ha cercato di approfondire questi temi, spingendo le insegnanti presenti a interrogarsi su obiettivi, modi, tempi, attori e spazi della mediazione nel contesto scolastico. Le attività proposte per la sperimentazione sono state attività propedeutiche all’ascolto attivo: attività di role-playing sul “mettersi nei panni degli altri”, utilizzo del messaggio-io e dell’ascolto attivo attraverso la narrazione a coppie di un evento conflittuale prima vissuto dalla parte del protagonista, poi dal punto di vista dell’altra parte (vedi esercizi da proporre in classe, più avanti nel testo). Nella seconda parte della sperimentazione è stato realizzato un role-playing di una seduta di mediazione del conflitto. La fase di raccolta delle impressioni sugli esiti delle sperimentazioni ha raccolto due tipi di riflessioni: da una parte gli esiti dell’utilizzo dell’ascolto attivo e del messaggio io nella relazione con gli adulti, dall’altra gli esiti dell’utilizzo del messaggio-io e del “mettersi nei panni degli altri” con i bambini/ragazzi. Rispetto alla sperimentazione con i pari, con colleghi o genitori, si è registrato l’emergere di un mondo conflittuale adulto, verso cui si apre la possibilità di muoversi diversamente:

L’ascolto attivo e la comunicazione sono due punti molto importanti, a mio avviso, per la mediazione del conflitto, qualunque esso sia. Ritengo sia efficace con i bambini, con i quali per me è più facile avere degli esiti positivi, ma è importante anche iniziare una pratica di ascolto attivo anche con la collega e con i genitori (durante i colloqui, nei momenti di compresenza).

Con gli adulti (genitori, colleghe) ho fatto un passo indietro, rendendomi conto che spesso i miei giudizi sono stati affrettati e dettati dalle consuetudini del quotidiano. Cerco di non dare per scontato ciò che appare.

L’ascolto attivo e la mediazione sono più utili con genitori e colleghi, anche se le difficoltà della comunicazione sono maggiori, ognuno di noi arriva nella comunicazione con il suo bagaglio di ruoli, pensieri, pregiudizi, aspettative e spesso, tempi dedicati al dialogo e alla comunicazione troppo strutturati e limitati nel tempo.

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La mediazione è utile come modalità di relazione fra gli adulti/colleghi per una maggiore disponibilità ad ascoltare immedesimandosi nell’altro e utilizzando il punto di vista altrui come risorsa e non come scontro-conflitto.

Le testimonianze ci rivelano come la necessità di impostare un nuovo modo di relazionarsi parte anche e prima di tutto tra gli adulti, tra cui esiste un modello consolidato di consuetudini, ruoli, assunti non detti che meritano di essere scardinati per scoprire nuove modalità comunicative. Quando invece si parla degli strumenti proposti nel contesto relazionale dei bambini, le riflessioni si muovono prima di tutto dalla realtà del contesto scolastico: a scuola oggi manca il tempo, gli strumenti, gli spazi. Ma non si tratta solo di questo: la domanda a monte è «a cosa può servire l’attività sperimentata di ascolto attivo e mediazione nel contesto scolastico oggi?» Riprendendo dunque le riflessioni sull’interrogarsi della scuola sul proprio mandato, ne risulta che l’attenzione per la mediazione è legata alle possibilità che essa offre come modello relazionale nel sistema scuola.

L’ascolto attivo è stato l’aspetto che più mi ha interessato perché ha rimesso al centro sempre del mio lavoro il bambino e il suo atteggiamento con gli altri con la narrazione di eventi non risolvibili facilmente. Mi sono accorta che spesso il solo ascolto da parte mia porta il bambino a pensare, esprimere sentimenti, provare empatia. Essendo bambini molto piccoli (3-6 anni) la mediazione è spesso necessaria, ma questo corso mi ha fatto capire le potenzialità che i bambini hanno di venirsi incontro, spesso la mia mediazione ha solo aperto molte possibilità di risolvere un problema.

Non è uno sportello per la soluzione delle controversie, né la formazione di un team di professionisti interni o esterni alla scuola che serve, alla scuola serve un nuovo modo di vivere le relazioni, di costruire un ambiente collaborativo in cui personale scolastico, famiglie e studenti sappiano parlare, ascoltarsi, confrontarsi e comprendersi nel pieno rispetto delle diversità. In questo senso lo spazio, il tempo e i protagonisti per un’attività di ascolto e di mediazione si sciolgono nel tempo e spazio della classe e della scuola. In questo senso il tempo – che manca sempre – diventa alleato: impiegare del tempo per spiegare i principi dell’ascolto attivo e della mediazione, per la costruzione di un percorso che renda il clima relazionale collaborativo e solidale diventa tempo investito per il benessere della classe, diventa un tempo per imparare a impostare relazioni sane e rispettose con gli altri. In questo ambito si apre la riflessione delle insegnanti anche rispetto al proprio ruolo, che si concretizza specialmente nell’agire comunicativo:

Credo che i tratti e caratteristici fondanti della mediazione: messaggio-io, ascolto attivo e mediazione intesa come riportare il piano di comunicazione sulle azioni agite, concrete e quotidiane, siano da tenere sempre presenti nella nostra professione di insegnanti. Ancora pochi sono i docenti che la conoscono! Averli presenti e conoscerli ci rende vigili e ci induce a frequenti meta-riflessioni sul nostro agire comunicativo.

Ho iniziato a usarlo soprattutto con i bambini con comportamenti più complessi, è stato particolarmente utile con il bambino con ADHD (deficit attentivo da iperattività). In questo caso particolare il messaggio-io riduce e contiene la mia tensione-frustrazione, guida l’energia verso un intervento educativo che promuove, costruisce e riconosce una diversità e difficoltà senza renderle un limite invalicabile. Il messaggio-io, comunque aggiunge qualcosa alla relazione.

In questo senso l’ascolto attivo e le attività di mediazione del conflitto, usate come “palestra relazionale”, ambiscono a rappresentare un tassello per realizzare il mandato educativo della scuola: contribuire alla formazione di cittadini in crescita.

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“C’era una volta… l’accoglienza” La fiaba come strumento didattico di sensibilizzazione all’adozione*

1. Premesse

Il bambino adottato internazionalmente

L’adozione internazionale è un istituto che implica un contatto interculturale tra popoli, etnie, valori, costumi, modelli comportamentali altamente differenti. Lo scenario relazionale determinato dall’incontro adottivo impone un confronto tra mondi emotivi e culturali tra i quali può innescarsi una considerevole distanza comunicativa. Infatti, il bambino adottato internazionalmente proviene da contesti culturali spesso anche molto distanti rispetto a quelli appartenenti ai suoi nuovi genitori e al grembo sociale di accoglienza. Il confronto innescato da tale incontro si sostanzia della distanza culturale che intercorre tra:

– diversi stili di accudimento: culture a contatto corporeo prossimale o distale, modalità e qualità di espressione o inibizione dell’affettività, educazione al controllo sfinterico, allattamento, ecc.;

– diversi pattern di attaccamento: a esempio, una madre ambivalente e discontinua nella responsività alle richieste di protezione del figlio, ingenererà in lui un senso di insicurezza e di diffidenza circa ciò che può attendersi dagli altri: ciò può risultare perfettamente adattivo in contesti di pericolo estremo-stati di guerra, ma assolutamente inadeguato, se non addirittura deleterio e patogeno, in altri mondi culturali e di relazione;

– differenti modelli educativi: ogni visione pedagogica persegue il medesimo obiettivo in tutte le culture del mondo: formare un adulto capace di “funzionare” in mezzo ai propri simili, cioè agli altri adulti, che sono membri di quella stessa cultura.

D’altronde, la distanza interculturale che domina l’incontro adottivo, non fa altro che amplificare e potenziare ulteriormente i vissuti di sradicamento e di lacerazione psichica, già pesantemente evocati dalle precoci esperienze di abbandono e di perdita che costellano e piagano la biografia preadottiva del bambino. La sinergia di tali componenti esita spesso in criticità di ordine culturale, emotivo, affettivo, relazionale e comportamentale che sovente si dimostrano alquanto ardue da affrontare, gestire ed elaborare, innanzitutto da parte del bambino stesso, ma anche da parte di tutti coloro che con lui si relazionano in maniera significativa.

Bambini adottivi in classe

L’importanza della scuola per la crescita psicologica e cognitiva del bambino adottato fa sì che l’inserimento scolastico rappresenti un tema cruciale della riflessione degli operatori del sistema dell’adozione. La scuola è il primo luogo dove egli sperimenta l’incontro con la nuova società in cui si trova a vivere, finendo così per determinare la qualità dell’intero processo di integrazione. Pertanto un eventuale fallimento nell’inserimento scolastico può compromettere l’integrazione sociale e comunitaria del minore e della sua famiglia adottiva. Nell’impatto con l’istituzione scolastica, può emergere nel bambino una profonda ambivalenza (popolata dal desiderio e dal timore) rispetto ai nuovi legami che egli potrà potenzialmente instaurare con gli adulti e il gruppo dei pari. Con particolare riferimento alla polarità negativa di tale ambivalenza, talvolta la scuola è vissuta dal bambino come una sinistra riedizione del già tristemente noto “istituto” di accoglienza di cui egli conserva distinta memoria.

* Tommaso Eredi, psicologo.

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Questa ambivalenza è in grado di attivare in lui, più o meno temporaneamente, più o meno marcatamente, regressioni difensive che si traducono, sul piano comportamentale, in manifestazioni di tipo iperattivo, oppositivo, provocatorio, grazie alle quali rendersi emotivamente latitante, inaccessibile, schermato, di fronte alla minacciosità di questa nuova esperienza. Da ciò si può arguire quanto il bambino adottato internazionalmente sia portatore di fragilità e bisogni specifici, che rendono cogente la predisposizione di un ambiente in grado di favorirne un positivo inserimento e una reale integrazione. Perché ciò possa aver luogo, sono imprescindibili interventi sostenuti da notevoli quote di sensibilità relazionale e raffinatezza operativa da parte di un corpo docente che detenga le competenze consone e necessarie per favorire il suo radicamento scolastico. D’altronde, benché l’Italia si collochi al secondo posto nel panorama internazionale per volume complessivo di adozioni internazionali e, conseguentemente a ciò, un quantitativo crescente di bambini adottati vengano inseriti nelle scuole della Penisola, una cultura dell’adozione e, in senso lato, dell’accoglienza, fatica ad allignare nella scuola italiana.

2. La fiaba

La struttura narrativa della fiaba

Possiamo considerare la fiaba come un’unità dinamica, costituita da molteplici elementi che si aggregano e si scindono, si contrappongono e si sostengono, creando mutevoli equilibri. Tre sono gli elementi strutturali che la costituiscono:

– l’inizio: il sipario si dischiude presentando un certo numero di personaggi e un determinato equilibrio che, solitamente, già è contrassegnato da una tangibile precarietà;

– la crisi: costituisce la fase centrale della vicenda, in cui la problematica che ne incarna l’epicentro narrativo si presenta in tutta la propria chiarezza;

– la conclusione: la narrazione si termina con: «e tutti vissero felici e contenti…» delineando un nuovo equilibrio, più stabile e soddisfacente rispetto a quello di apertura.

L’articolazione di questi snodi dinamici, che conducono da un equilibrio, divenuto irrimediabilmente incerto e inadeguato, a concomitanza del subitaneo sopraggiungere di uno stato di crisi, a un nuovo assetto “temporaneamente” più saldo e armonico, contribuiscono a far sì che le fiabe si possano intendere come percorsi di passaggio.

Le potenzialità evocative della fiaba

La fiaba costituisce un potente strumento simbolico di comunicazione emotiva e, per la peculiare struttura narrativa, si situa a livelli plurimi di interpretazione. Sollecitando un processo identificatorio con il protagonista della vicenda, essa trasmette la speranza nella risolvibilità dei problemi, conseguita attraverso un mutamento creativo che pone le premesse per un salvifico svincolo dal passato. In tal senso, se da un lato essa trasmette una visione esistenziale fondata sull’inevitabilità degli ostacoli e delle difficoltà, dall’altro ne evidenzia la sormontabilità, attraverso soluzioni adattive, reperibili e fruibili. In tal senso, la fiaba esercita una funzione rassicurante sull’ignoto: il viaggio intrapreso dal protagonista prevede generalmente un’andata e un ritorno, dal familiare all’ignoto e viceversa. Propp sostiene che il tragitto dell’eroe detiene il significato simbolico del percorso individuativo: le sue azioni alludono al passaggio da una determinata condizione esistenziale a un’altra, più congrua e soddisfacente, all’interno del ciclo di vita (Propp, 1966, cit. in Sordano, s.d.). La fiaba esorta a non fermarsi mai all’apparenza, bensì a ricercare la verità nascosta nelle cose. L’esteriorità, la dimensione formale, non è sempre sovrapponibile a quella sostanziale: sotto una ripugnante pelle d’asino c’è una bellissima principessa e dentro al ranocchio c’è un principe vittima di un incantesimo.

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Infine, essa esorta il lettore a maturare fiducia nelle proprie risorse, piuttosto che dubitarne o sottovalutarle. In relazione a ciò, la fiaba si candida, se non propriamente come tutore, come catalizzatore di resilienza.

La fiaba come strumento psicoeducativo

Il bambino vive in un mondo intimamente avvertito come sconcertante e ansiogeno, un mondo che egli non comprende appieno e a cui fatica ad adattarsi. Un mondo che egli ha bisogno di “addomesticare”, di esorcizzare: per fa ciò, egli necessita di «dare ordine alla sua casa interiore» (Bettelheim, 1977). La dimensione fantastica evocata nella fiaba simbolizza dimensioni emotive infantili, quali ansie profonde, sentimenti di solitudine o isolamento, paure (del buio, di qualche animale, ecc.), in quanto i processi interiori sono esteriorizzati dai personaggi e dalle dinamiche che fondano la narrazione. Nella drammatizzazione in forma narrativa di conflitti interiori altrimenti incomprensibili, la fiaba consente vissuti altrimenti negati (Marcoli, 2003) e ne legittima la pensabilità, acquisendo, in tal modo, valenze indirettamente terapeutiche. Ecco che l’azione dinamica narrata nella struttura testuale della fiaba implica un processo che porta all’integrazione di parti nuove, inespresse, che integrano il Sé, ampliandolo di possibilità autorealizzative: ciò autorizza a reputarla un’allegoria iniziatica ad alto potenziale trasformativo (Jung, cit. in Sordano, s.d.).

La fiaba e il gruppo-classe

Nell’economia del processo di individuazione che attiene alla parabola evolutiva del bambino, il sostegno e l’apporto proveniente dal gruppo dei pari è da considerarsi un alimento prezioso e insostituibile. Nella dimensione sociale, infatti, il bambino apprende a reperire le più efficaci strategie relazionali (stringere alleanze, litigare, fare la pace, chiedere aiuto, offrirne, ecc.) che sostanzieranno la sua identità adulta. L’esperienza unificante di percepirsi appartenenti di un gruppo, coesi, seppur nella diversità, e accomunati dalla medesima condizione di fruitori-partecipi di una narrazione, nonché degli inevitabili processi identificatori che essa induce, costituisce un’atmosfera di positività emozionale, in grado di evocare nei bambini una complicità di intendimenti e una libera espressione di sé. Il gruppo diviene un “luogo di autoriconoscimento che, attraverso il rispecchiamento circolare tra i partecipanti e di reciprocità dei vissuti, amplia e sviluppa la possibilità di avviare quel dialogo tra mondo interno ed esterno necessario” all’evoluzione della funzione riflessiva e di mentalizzazione (Sordano, s.d.). All’interno del setting relazionale costituito dal gruppo-classe, la creazione di una cornice spazio-temporale espressamente dedicata alla narrazione della fiaba, supportata dalla relazione continuativa e di sostegno con l’insegnante, permette ai bambini di reperire e coltivare una sorta di “area transizionale”, tra la dimensione scolastica, pubblica relazionale, e la loro realtà intimamente affettiva.

3. Un laboratorio psicodidattico sull’adozione

La narrazione in ambito scolastico di fiabe tematicamente incentrate sull’accoglienza dell’alterità, del diverso da sé, in senso lato, può rappresentare un efficace dispositivo psicodidattico, nel perseguimento di obiettivi formativi quali:

– educare i bambini a diventare membri della comunità; favorire lo sviluppo di personalità armoniche, equilibrate, capaci di vivere in diversi contesti; promuovere e potenziare l’abilità nello stringere legami e costruire relazioni capaci di attivare benessere (Farri, Pironti, Fabrocini, 2006).

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Più da vicino, lo strumento proposto, che deve essere scrupolosamente applicato in un clima integrato di concertazione tra scuola e famiglia, mira a coadiuvare gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della secondaria di primo grado, in modo tale che il loro intervento possa ragionevolmente conseguire finalità quali:

– favorire la presa di coscienza che per ogni bambino è importante vivere in una famiglia che lo accolga, lo protegga e favorisca la sua crescita piena;

– riflettere sulla necessità di aiuto a bambini che vivono una condizione familiare di particolare disagio;

– proporre e sperimentare stili accoglienti e disponibili nei rapporti interpersonali e di gruppo.

Il focus dell’intervento è polarizzato sulle dimensioni affettive ed emotive, poiché si ritiene prioritario lavorare sulla costruzione di un buon clima empatico di apertura (Farri, Pironti, Fabrocini, 2006) che agevoli, nel gruppo-classe, la formazione di quelle competenze relazionali e sociali che sono un prerequisito imprescindibile per la comprensione dell’evento adottivo e per l’accoglienza dell’alunno adottato, con particolare riferimento alla dimensione interculturale dell’incontro. Da quanto sopra emerso sinora si può arguire, in definitiva, come lo strumento presentato possa costituire:

– un momento significativo di relazione interpersonale e di collaborazione costruttiva tra pari e tra pari e insegnante;

– un itinerario di condivisione che non separa il registro emotivo e razionale; – uno spazio di generatività e creatività che alimenta l’autostima mentre accresce

l’ampiezza e lo spessore della competenza relazionale e della consapevolezza emotiva e affettiva di ciascuno;

– una possibile camera positiva di compensazione di squilibri e disarmonie educative (Bertagna).

In base a ciò, si può a ragion veduta reputare tale strumento, un intervento psicodidattico di tipo laboratoriale.

Lo strumento

Prima fase: l’insegnante introduce la lettura (animata o compartecipata) di una fiaba incentrata sul tema dell’accoglienza della diversità. La scelta della fiaba da somministrare è discrezionale e soggettiva: in questa sede, a titolo esemplificativo, si propongono Guizzino di Leo Lionni (1977) e Il paese dei quadrati + Il paese dei cerchi di Francesco Tonucci (2006).

Guizzino In un angolo lontano del mare viveva una grande famiglia di pesciolini tutti rossi. Solo uno era nero come un pezzetto di carbone. Aveva un occhio solo, ma nuotava più veloce di tutti gli altri. Un giorno un grosso tonno, feroce e affamato, apparve fra le onde e in un solo boccone ingoiò tutti i pesciolini rossi. Solo quello nero riuscì a fuggire. Era spaventato e si sentì solo e molto triste. Ma a poco a poco nuotando fra le meraviglie del mare, egli si tranquillizzò. Con il suo unico occhio, vide una medusa piena dei colori dell’arcobaleno e anemoni di mare che ondeggiavano come palme al vento. Ed ecco che, all’ombra degli scogli e delle alghe, scoprì una famiglia di pesciolini rossi proprio come quelli del suo branco. «Venite con me a vedere il mondo!» gli propose felice di aver trovato una nuova famiglia. «Non si può - risposero i pesciolini - i grandi tonni ci mangerebbero». «Ma non si può vivere così nella paura, – disse lui – bisogna fare qualcosa! ». Allora tutti pensarono a lungo e improvvisamente uno disse: «Ho trovato: nuoteremo compatti a dar forma al più grande pesce del mare». E spiegò come dovevano nuotare tutti insieme vicini, ognuno al suo posto. Quando ebbero imparato a stare uniti, però, notarono che al grande pesce mancava solo l’occhio. Allora, un altro pesciolino rosso si rivolse a quello nero: «Tu sarai il nostro occhio!». Così, tutti insieme, poterono sfidare i grandi pesci feroci ed esplorarono il grande mondo intorno a loro, riconquistando la libertà.

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Il paese dei quadrati + Il paese dei cerchi Il paese dei quadrati e quello dei triangoli. Sono divisi da un grande fiume. I quadrati abitano in case comode, con mobili ed elettrodomestici, con quadri alle pareti, specialmente cubisti. Mangiano quasi sempre quadrucci in brodo. I quadrati sono tutti uguali, seri, retti, insomma gente quadrata. I giochi preferiti sono la dama e i dadi. La loro città è fatta di grossi palazzi squadrati. I triangoli abitano nelle tende, e costruiscono piramidi grandi e piccole. Sono allegri e diversi tra loro, alcuni più acuti altri più ottusi. Coltivano abeti, suonano il triangolo e la balalaica. I quadrati al di là del fiume deridono i triangoli per le loro costruzioni buffe. Un giorno viene un grande terremoto che colpisce i due paesi. Il paese dei quadrati è messo a soqquadro. I palazzi, le finestre, i quadri, i cartelloni, le fontane: tutto si deforma, si storce. Nulla rimane quadrato, solo la testa della gente. Il paese dei triangoli invece subisce solo lievi danni. I quadrati mandano un ambasciatore al di là del fiume. I vertici dei triangoli, con un esempio, Gli svelano le ragioni della loro forza: una cornice di legno quadrata, fissata con un chiodo agli angoli… si piega e si deforma sempre, se si spinge forte; una cornice triangolare invece non si deforma mai, può rompersi ma mai cambiare forma. L’ambasciatore prende appunti su un taccuino a quadretti. Informati dall’ambasciatore, i quadrati chiedono di allearsi con i triangoli, che accettano di buon grado. Insieme costruiscono un ponte e i due paesi diventano uno solo, con una sola, nuova bandiera. Sorgono costruzioni nuove, più belle e più sicure. I bambini triangoli insegnano ai quadrati a fare i castelli con le carte. Giocando a nascondino un quadrato mezzo nascosto viene scambiato per un triangolo e due triangoli per un quadrato. I grandi si scambiano doni. Finalmente il capo dei triangoli può avere un quadro con il suo ritratto… e il capo dei quadrati una corona… anche se non è re. Qualche tempo dopo, un quadrato e una triangola si sposano. È una grande festa. Nascono tre bambini. Le nonne quadrate dicono che sono il ritratto del papà. I nonni triangoli che hanno preso tutto dalla mamma. Loro sono bellissimi. Dopo l’incontro con i triangoli, i quadrati sono meno rigidi. Si piegano volentieri per diventare buste. Spediscono così lettere in tutto il mondo. Per conoscere nuovi paesi. Per fare nuove amicizie. (Il paese dei quadrati) Triangoli e quadrati, rettangoli e rombi, trapezi e pentagoni. Tutti han voglia di fare nuove amicizie meno spigolose. E mandano lettere in giro per il mondo. Otto giorni dopo arriva una risposta, legata in modo strano. Cari Amici, siamo i cerchi. Abitiamo sul colle, negli igloo e voliamo sulle mongolfiere. Adoriamo le polpette coi piselli e coltiviamo pesche, arance, cocomeri…. Ci piace il circo e giochiamo molto. I nostri giochi sono il cerchio, le bocce, il pallone e il tiro con l’arco (ma non funziona bene…). La domenica alcuni di noi fanno qualche lavoretto per arrotondare lo stipendio. Il nostro eroe nazionale si chiama Giotto. Vi aspettiamo presto, I Cerchi Il tempo di una breve riunione e subito partono due messaggeri. Provano e riprovano a risalire il colle, ma non ce la fanno. Avvisati, in quattro e quattr’otto i cerchi si precipitano come fulmini giù dal colle. Se i triangoli non li avessero fermati forse starebbero ancora rotolando…Tutti però sono stupiti di come i cerchi sanno rotolare. Fieri, i cerchi fanno salire a bordo i loro nuovi amici e li portano in giro. Presto a quadrati e triangoli comincia a girare la testa e poi i cerchi non riescono a fermarsi. Un triangolo, un po’ più grande, ha un’idea. Alza un braccio, blocca un cerchio e lo chiude dentro di sé. Altri lo imitano e finalmente ci si può riposare. Il mattino dopo, i cerchi vengono accompagnati a visitare la città e i suoi monumenti. Belli, però quanti angoli, quanti spigoli, e nemmeno un arco! E cos’è un arco? Chiedono tutti in coro ai cerchi. Uno di loro lo spiega e insegna anche come si fa a farlo. Da quel giorno si incontrano spesso. Insieme inventano la bicicletta, Così per tutti è più facile salire sul colle dei cerchi. Con gli archi costruiscono un grande acquedotto. Poi fanno la punta triangolare alle frecce, così finalmente anche il tiro a segno funziona bene! E insieme costruiscono volte e cupole. Le città, prima piatte e uniformi, diventano più belle. Un triangolo pittore vede che alcune volte formano delle vele triangolari. «Su queste vele posso dipingere!» esclama. Per festeggiare la nuova amicizia si fa una grande festa. Ognuno dà il suo contributo. E mentre fra giostre, girandole e coni gelato, si gioca un’appassionata partita di pallone… Alla fine della festa si scrive un’altra lettera, questa volta ciclostilata, che con le mongolfiere arriverà dappertutto. Chi risponderà? (Il paese dei cerchi)

Seconda fase: successivamente l’insegnante procede a introdurre un momento elaborativo che coinvolga plenariamente il gruppo-classe, attraverso una discussione condivisa sulle tematiche

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evocate dalla lettura della fiaba. La discussione può essere sollecitata dall’insegnante mediante l’introduzione di una serie di domande-stimolo, snodandosi lungo un percorso di tre interventi a cadenza orientativamente settimanale (Alloero et al., 1997). • Primo intervento. Di cosa ha bisogno un bambino per crescere bene? (ognuno scrive un bigliettino) L’insegnante legge i bigliettini e li commenta, attaccandoli su un cartellone dove sia stata previamente raffigurata una figura evocativa (es., un albero – “L’albero dei bisogni” – o altro).Nella discussione riepilogativa, l’insegnante piloterà il commento dei bigliettini su un bisogno primario dei bambini: la famiglia. Disegno di una famiglia • Secondo intervento. Visione di brani di cartoni sulla famiglia (es. Shrek 3, Coraline, Il Re Leone, La carica dei 101) Che cos’è secondo voi la famiglia? Disegnare o raccontare un bel momento trascorso in famiglia Cosa vuol dire vivere in famiglia? A che serve? Cosa ricevo e cosa do nella mia famiglia? Esistono solo i legami di sangue oppure anche quelli basati sul volersi bene?• Terzo intervento (In riferimento alle immagini individuate nel primo incontro) Tutti i bambini hanno ciò che gli serve per soddisfare tutti i loro bisogni? Visione di cartoni su bambini in condizioni di disagio (ad esempio, Nemo con la pinna atrofica, ecc.) Come si può fare, secondo voi, per aiutare i bambini che non hanno queste cose? Tutti i bambini hanno una famiglia? Come si può fare, secondo voi, per aiutare i bambini che non hanno una famiglia? Breve discussione sul tema dell’adozione Visione di brani di cartoni sull’adozione (es. La gabbianella e il gatto, Tarzan, Il libro della giungla, Lilo e Stitch, Up, Dinosauri, Cattivissimo me).

Precisazioni metodologiche

Si ritiene che la modalità di somministrazione dello strumento debba diversificarsi e modularsi in relazione a:

– l’età dei minori su cui si intende intervenire; – le specifiche discrezionalità di intervento proposte dagli insegnanti.

Nel caso dei bambini della scuola materna, è necessario privilegiare il ricorso a un linguaggio fortemente simbolico ed evocativo, attraverso la lettura di una delle fiabe proposte. Nel caso degli alunni del primo ciclo della scuola elementare (prime e seconde), è opportuno introdurre, a latere, maggiori stimoli di riflessione sulle dinamiche relazionali implicate dai rapporti affettivi e di parentela. Alla lettura delle suddette fiabe, in tal senso, si affiancheranno interventi dell’insegnante volti a sollecitare negli alunni una riflessione interpretativa delle allegorie da queste suggerite. Nel secondo ciclo della scuola elementare, è pensabile incentrare la discussione e la riflessione in termini maggiormente astratti, affidandosi alla più sofisticata competenza cognitiva dei partecipanti, nella manipolazione di elementi concettuali. In questo caso, l’insegnante può soprassedere, se lo ritiene opportuno, sulla lettura della fiaba e procedere direttamente a sottoporre alla classe le domande-stimolo.

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4. Il resoconto di esperienze sul campo

Svolgimento dell’intervento

L’attuazione dell’intervento proposto, da parte degli insegnanti che hanno partecipato alla prima edizione del progetto formativo Coros, ha consentito di raccogliere preziose osservazioni sulle implicazioni da esso innescate all’interno dei gruppi-classe che ne hanno beneficiato. In estrema sintesi, si è trasversalmente confermato lo spontaneo comporsi di “un’atmosfera magica”, raccolta, fondata su un’attenzione densa, su un impegno assorto, su uno stupore totalizzante. Degna di menzione, una partecipazione attiva da parte di tutto il gruppo-classe, un coinvolgimento plenario che si è instaurato senza marcare le differenze. I bambini, immedesimandosi con i protagonisti e con le loro storie, si sono avventurati in un territorio popolato da riflessioni profonde e da interrogativi mai banali, un territorio ove tutto è lecito e, prima di tutto il resto, l’espressione di sentimenti e stati d’animo altrimenti forse sottoposti a censura. Il condensarsi di tale clima ha sorprendentemente contribuito a generare spunti e risposte che sovente hanno lasciato attoniti gli stessi insegnanti. Alcuni alunni hanno portato alla luce molti aspetti del loro carattere, emozioni, desideri che, sino ad allora, avevano sempre per lo più celato, occultato. È in tal modo che si è venuta innescando una sorta di contagio emotivo, che ha autorizzato il diffondersi di quello stupore magico che rappresenta e incarna, da sempre, la quintessenza della fabulazione.

Esiti

Gli insegnanti segnalano come entrambe le fiabe siano risultate molto educative, consentendo il crearsi di uno sfondo comune di riferimento che ha legittimato la partecipazione creativa e personale di ogni singolo bambino. Determinante, in termini dei processi di identificazione, il carisma di Guizzino, personaggio positivo che, nonostante la propria diversità esteriore, riesce a “trainare” il gruppo imponendosi su di esso. Grazie a ciò, sul piano dell’acquisizione di competenze, si è registrato un incremento generalizzato dell’autostima e della propensione alla condivisione e al conseguimento di un obiettivo comune.

5. Riflessioni conclusive

In definitiva, gli insegnanti confermano il valore positivo e l’efficacia psicodidattica dell’impiego della fiaba, nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria. Si ritiene la fiaba uno strumento privilegiato per affrontare in classe tematiche psicoemotive e sociali particolarmente delicate, sia per il linguaggio fortemente evocativo, che per il valore simbolico che essa riveste, in funzione di una pedagogia inclusiva, mirata all’accoglienza e relazionalmente sensibile (minori adottati, diversamente abili, difficili, svantaggiati, ecc.). Si ribadisce, infine, come l’applicazione di questo strumento (attuabile attraverso vari approcci metodologici quali il racconto, la drammatizzazione, le nuove tecnologie, il role-playing, ecc.) debba rappresentare l’espressione tangibile di un clima di compartecipazione degli obiettivi educativi tra scuola e famiglia, di fiducia reciproca, di legittimazione circolare. In riferimento a ciò, non è comunque superfluo ripuntualizzare come lo strumento debba essere previamente presentato ai genitori in modo puntuale e scrupoloso, per far capire loro quanto l’utilizzo non sia rivolto a marcare le differenze in modo negativo, in nome di uno sguardo omologante, ma a evidenziare la diversità come valore aggiunto, come presupposto di arricchimento relazionale reciproco.

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Le riflessioni e gli spunti didattici degli insegnanti

UN LAVORO IN CLASSE: LETTURA D’IMMAGINI. INVENTIAMO UNA STORIA GUARDANDO LE ILLUSTRAZIONI DI GUIZZINO (CHIARA MERIGGI)

Dal lavoro in classe con la classe 1a C Scuola primaria Lucio Lombardo Radice Secondo circolo didattico di Sesto Fiorentino

Le cose d’ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare e raccontare. Le favole dove stanno? Ce n’è una in ogni cosa: nel legno del tavolino, nel bicchiere, nella rosa. La favola sta lì dentro da tanto tempo e non parla. È una bella addormentata e bisogna svegliarla.

G. Rodari Questo è quanto abbiamo cercato di fare attraverso la lettura, l’ascolto, la conversazione durante questo anno scolastico. L’ascolto di letture, la lettura d’immagini, l’invenzione di nuove storie sono stati il filo rosso con cui abbiamo tessuto insieme tutte le nostre attività relative all’apprendimento della letto-scrittura e non solo; siamo convinti infatti che leggere insieme e insieme immaginare, sognare e parlare, valorizzando il contributo di ognuno, ci aiuti a crescere e a collaborare.

Guizzino reinventato

Guizzino è la storia di un pesciolino nero, unico in mezzo a un branco di pesci rossi. Un giorno un grosso pesce famelico divorò il branco, solo Guizzino riuscì a scappare. E cominciò a vagare per i mari scoprendo la bellezza dei fondali marini e dei suoi abitanti. S’imbatté così in un altro branco di pesci rossi, che viveva nascosto tra gli scogli per paura dei grossi pesci. Guizzino, con un trucco, ricompattò il gruppo e tutti insieme sfidarono l’ira e il terrore dei pesci prepotenti, riconquistando la libertà. Questa storia in realtà noi non l’abbiamo letta, o meglio l’abbiamo letta dopo un po’ di tempo… questa storia noi l’abbiamo immaginata guardando le belle illustrazioni del libro e così ce la siamo “raccontata”. Quella che segue è la nostra storia, secondo noi più bella dell’originale.

La storia di Gioacchino In fondo al mare tra scogli e alghe vivevano tanti pesci rossi, solo uno era nero. Il pesciolino nero si chiamava Gioacchino. Gioacchino era diverso dagli altri, era nero. Lui non era nato dalla stessa mamma dei pesci rossi, in realtà lui era figlio di un pescione grosso e nero, ma i pesci grossi e neri lo avevano cacciato perché lui non cresceva, rimaneva piccolo e perché non aveva i denti aguzzi come loro; il suo babbo un giorno gli aveva detto: «vattene via non ti vogliamo più vedere!» così Gioacchino era andato dai pesci rossi e stava con loro. Un brutto giorno però un pescione grosso e nero si avvicinò ai pesci rossi per mangiarseli, scappavano tutti e Gioacchino per non farsi vedere scappò in un’altra direzione. Era solo e cercava aiuto e compagnia. Incontrò una medusa e le chiese se voleva essere sua amica e se lo aiutava a tornare dagli altri, ma la medusa era troppo impegnata aveva tante commissioni da fare. Incontrò un’aragosta, ma il signor aragosta sebbene gentile, gli disse che era troppo impegnato a pulire il vomito del suo bambino, ma forse lo potevano aiutare i pesci rosa. Gioacchino incontrò i pesci rosa, molto carini, ma anche loro avevano da fare, gli indicarono la strada, ma lui rimase solo. Attraversò un bosco di alghe e poi incontrò una murena alla quale chiese aiuto e compagnia, ma la murena doveva andare a una riunione e non poteva aiutarlo. Andando più avanti Gioacchino incontrò gli anemoni di mare; lui credeva che fossero piante quindi non chiese loro nulla, ma loro lo chiamarono: «ehi pesciolino!» « Oh – rispose Gioacchino – mi sono perso, ho

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viaggiato tanto, sono tanto stanco, sapete qual è la strada per tornare alla grotta nera dove stavano i miei amici pesci rossi? Mi potete aiutare?» «Vai avanti, tutto a dritto», gli risposero. Gioacchino aveva tanta fame, era molto che era in cammino; aveva così fame che scambio una stella marina per una buccia di banana. Andando avanti finalmente ritrovò i suoi amici pesci rossi: «Sono felice di avervi ritrovato! mi siete mancati tanto!!» I suoi amici organizzarono una festa da quanto erano felici, anche perché quel giorno era proprio il compleanno di Gioacchino. «Adesso possiamo proseguire insieme per tornare alla nostra grotta!» disse Gioacchino. «no» risposero i suoi amici, «abbiamo paura, ma forse tu conosci un’altra strada, abbiamo paura dei pescioni neri.» Gioacchino allora si mise davanti per guidare il gruppo, era disposto a parlare con i pescioni e a sviarli scappando, ma questo non bastava. Decisero così di unirsi tutti insieme formando un grande, enorme pesce rosso e Gioacchino si mise in posizione dell’occhio. In questo modo stavano tutti al calduccio, non per il freddo, ma perché si sentivano vicini e uniti e non avevano paura. Se avessero incontrato i pescioni neri li avrebbero spaventati e fatti fuggire. Gioacchino era felice perché prima era diverso, ma ora si sentiva utile. Incontrarono i pesci grossi e neri e riuscirono a scacciarli, perché avevano collaborato, e tutti avevano portato la loro fantasia, la mente e il cuore.

Questa “nostra” storia, come altre sulle quali abbiamo lavorato è stata raccolta in un librone e mostrata e regalata a ogni famiglia durante la festa dell’ultimo giorno di scuola.

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Parte terza COROS: LA DOCUMENTAZIONE PROGETTUALE

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Il progetto: obiettivi, composizione dei gruppi classe, parole chiave, metodologia*

1. Perché e da quali esigenze nasce il progetto

Il progetto Coros, presentato dall’Istituto degli Innocenti, è stato realizzato grazie al finanziamento della Provincia di Firenze con i fondi del Por Toscana, Fondo sociale europeo Obiettivo 2 Competitività regionale e occupazione 2007-2013. Ha previsto la partecipazione di insegnanti della scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado, ed educatori operanti nei centri infanzia adolescenza e giovani nella Provincia di Firenze. La finalità generale del progetto approvato era quella di innescare – attraverso due percorsi formativi e di pratica ciascuno di 39 ore – in prima istanza, una riflessione corale sul significato di società multiculturale e di agire interculturale, per poi passare successivamente attraverso la sperimentazione e validazione degli insegnanti alla definizione di una sorta di “cassetta degli attrezzi”, costituita dai saperi specifici, ma anche e soprattutto dell'acquisizione di competenze trasversali, in grado di formare le “lenti interculturali” di osservazione del contesto in cui si sviluppava la loro l'azione educativa. Nel calibrare la progettazione formativa di dettaglio dei due percorsi abbiamo tenuto in considerazione i seguenti obiettivi specifici:

– illustrare e far comprendere i fenomeni migratori in atto e i diversi percorsi dei bambini e dei ragazzi di origine straniera, anche con attenzione alla specificità di alcuni percorsi, come l’adozione internazionale, e ai bisogni di soggetti in situazione di svantaggio sociale, culturale o penale fornire a educatori, insegnanti e altre figure operanti in contesti educativi, chiavi interpretative dei comportamenti con riferimento alla specificità sociale, culturale, linguistica, giuridica dei bambini e ragazzi di origine straniera, nonché informazioni sui sistemi educativi e formativi dei principali paesi di provenienza

– raccogliere e presentare esperienze di accoglienza e inserimento in contesti educativi offrendo strumenti per facilitare i processi di apprendimento e l’inserimento nel gruppo dei pari per un superamento delle potenziali criticità e valorizzazione della presenza di stranieri come risorsa e opportunità

– far acquisire consapevolezza sulle risorse e alle opportunità sul territorio per implementare le capacità di orientamento, in particolare per i ragazzi più grandi.

2. Metodologia: dalla “Cassetta degli attrezzi” alla “Scatola degli occhiali”

La definizione delle attività di dettaglio del progetto Coros è il frutto di una serie di incontri allargati tra i formatori e l’intero team di progetto, nel corso dei quali sono state individuate alcune macro-aree tematiche specifiche, sulle quali concentrare gli incontri formativi. Una volta stabilite le aree d’interesse sono state incrociate con i risultati emersi dall’analisi dei bisogni formativi dei partecipanti, e di conseguenza sono stati definiti e condivisi dall’intero team gli approcci, gli strumenti da sperimentare nel corso dei workshop e le attività, che sono state di volta in volta calibrate sul gruppo target di riferimento. È stato, di fatto, attivato un processo di “co-progettazione” che ha coinvolto in particolare i docenti partecipanti, in quanto destinatari diretti dell’intervento, ma attraverso loro le esigenze reali delle classi di riferimento, per poi “contagiare” a cascata le famiglie e le scuole, ovvero i destinatari indiretti del nostro progetto. La formazione teorica è stata realizzata con l’ausilio di dispense, bibliografie e percorsi filmografici sulle tematiche prese in esame curati dalla Biblioteca Innocenti Library. Il percorso di aula si è avvalso anche delle metodologie di formazione partecipativa: problem solving, simulazioni, attività di gruppo, studi di caso e proposte di attività didattiche da realizzare con i bambini/ragazzi attraverso laboratori, simulazioni, drammatizzazioni, ecc. * M. Pia Misiti, progettista.

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A supporto delle attività di progetto è stata attivata anche una piattaforma di formazione a distanza, che ha permesso non solo di scaricare il materiale di studio, ma anche e soprattutto di realizzare una sorta di dialogo a distanza tra i protagonisti della formazione, docenti e allievi. La web-community si è dimostrata uno strumento molto utile perché ha permesso lo scambio e aggiornamento continuo sulle attività svolte nelle classi, tuttavia, il blog è stato poco animato per la scarsa competenza nell’uso degli strumenti informatici da parte di buona parte dei partecipanti, ma ha permesso d’altro canto una riflessione “a distanza” da parte di alcuni insegnanti, creando un proficuo scambio di riflessioni con i docenti.

3. I gruppi classe: composizione e analisi dei bisogni formativi

3.1 L’analisi dei fabbisogni formativi nel Progetto Coros: finalità, metodologia e strumenti

Nell’ambito del progetto il percorso formativo/esperienziale aveva quindi la finalità generale di rafforzare, in figure educative operanti in ambiti diversificati, le capacità di coinvolgimento di ragazzi di origine straniera al fine di costruire contesti e pratiche di effettiva integrazione nei processi educativi e formativi, con l’obiettivo ulteriore di coinvolgere a cascata le famiglie e le scuole di riferimento dei partecipanti al progetto. È per questo motivo che i bisogni formativi non potevano essere individuati raccogliendo esclusivamente informazioni circa i gap di competenze, ma era fondamentale individuare insieme ai due gruppi classe le esigenze specifiche di approfondimento. Nella scelta dello strumento di rilevazione delle competenze in ingresso e dei bisogni formativi, il team di coordinamento e formazione ha privilegiato la flessibilità dello strumento oltre che la chiarezza delle varie aree previste per la raccolta dei dati quali-quantitativi, proprio per questo motivo è stata strutturata una scheda da somministrare in colloqui individuali, gestiti come interviste semi-strutturate. Questa scelta, sebbene abbia implicato un lavoro più approfondito rispetto alla sola gestione di dati quantitativi, si è rivelata vincente in quanto ha consentito di creare, sin da subito, un coinvolgimento personale dei singoli partecipanti nella ridefinizione dei contenuti e della progettazione del percorso e di conseguenza degli strumenti che alla fine avrebbero composto la “scatola degli occhiali”. Non solo ha fatto emergere le competenze dei partecipanti, ma ha anche consentito di definire le aree d’interesse e le competenze da potenziare rispetto ai contesti lavorativi di provenienza.

3.2 I gruppi classe: composizione

Il progetto finanziato dalla Provincia di Firenze prevedeva l’attivazione di due percorsi formativi per un totale di 32 insegnanti, di cui 16 della scuola dell’infanzia e primaria e 16 della scuola secondaria di I e II grado, e per entrambi i percorsi eventuali operatori. L’azione formativa è stata strutturata in 3 diverse Unità formative, per un totale di 39 ore di formazione e workshop formativi/esperienziali. La disomogeneità dei gruppi di destinatari ha rappresentato una criticità nella fase di riprogettazione dell’intervento, tuttavia gli elementi di discontinuità formativa emersi nella formazione frontale, si sono totalmente annullati nel corso dei workshop esperienziali, in cui le diverse esperienze lavorative e i diversi contesti hanno rappresentato degli utilissimi arricchimenti e approfondimenti. Al primo percorso hanno partecipato in 21 per la maggior parte donne, che lavorano nella scuola primaria, ma c’è stata anche la partecipazione di operatori delle case famiglia o dei centri diurni. Il gruppo era molto motivato, infatti negli ultimi 5 anni, circa il 30% dei destinatari aveva già partecipato a eventi formativi su tematiche attinenti quelle del corso e era interessato soprattutto alla dimensione operativa del progetto. Al secondo percorso hanno partecipato in 18 per la maggior parte da donne, equamente distribuiti tra secondaria di primo e secondo grado ai quali si aggiungono 2 operatori che lavorano con minori e situazioni di disagio. Anche in questo caso il gruppo era molto motivato,

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proveniente da esperienze formative recenti sul tema, ed ha individuato tra i bisogni formativi che hanno spinto all’iscrizione al corso, le difficoltà nella gestione didattica della classe (sempre più numerosa), e la necessità di aggiornamento continuo per gli strumenti pratici di intervento in classe.

3.3 Analisi dei bisogni formativi: la dimensione multiculturale

Nella riprogettazione formativa del percorso, alla luce dell’analisi dei bisogni, il criterio che è stato adottato parte dal valorizzare le competenze già acquisite, cercando di ridurre il peso di eventuali misconceptions relativi ai problemi affrontati, e promuovendo con approccio collaborativo percorsi condivisi per l’individuazione di strumenti/strategie per la loro migliore soluzione. A tale proposito sono state inserite alcune domande per approfondire le tematiche inerenti la dimensione multiculturale, chiedendo possibilmente di riportare anche esperienze dirette che poi sono state utilizzate successivamente nei workshop come casi studio. In entrambi i gruppi alcune docenti hanno segnalato di casi in cui la componente cultuale è stata determinante nelle situazioni di conflittualità vissute nei contesti scolastici. Alla domanda su quali fossero le principali criticità nella gestione dei casi di integrazione di minorenni di origine straniera in ambito scolastico, i partecipanti ai due corsi hanno dato priorità a elementi diversi. Per gli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, nella scala delle criticità al primo posto c’è l’accoglienza e la relativa mancanza di strumenti oltre che competenze adeguate a gestire questa fase, seguono la scarsa collaborazione e condivisione con il team dei docenti ai quali si aggiungono le difficoltà di comunicazione e interazione scuola-famiglia. Solo dopo emerge anche una criticità legata all’insegnamento dell’italiano come L2 e la scarsa conoscenza da parte degli operatori scolastici di aspetti culturali, linguistici e religiosi dei bambini o delle famiglie di origine non italiana. Per i docenti delle scuole superiori di primo e secondo grado tra le criticità ai primi posti c’è la comunicazione, emergono quindi le difficoltà legate all’uso «della lingua come mezzo di comunicazione sia per questioni elementari quotidiane che come veicolo di informazioni più strutturate all’interno di una lezione». A questo si associano tra le altre criticità rilevate, la scarsa preparazione linguistica e crossculturale del corpo docente per poter fronteggiare il fenomeno, la scarsa sensibilizzazione all’interno della scuola sui bisogni del bambino straniero, con obiettivi centrati eccessivamente sul rendimento scolastico, gli scarsi fondi in possesso delle scuole per organizzare attività dedicate (ad es. corsi L2). Entrambi i gruppi hanno evidenziato come criticità il poco tempo a disposizione (a causa di classi numerose, contrazione orario scolastico, ecc.) del singolo docente per un lavoro centrato sulla gestione delle emozioni e delle situazioni di conflitto e dei possibili casi di razzismo da parte dei compagni.

4. Dalle parole chiave agli strumenti

Abbiamo voluto qui sintetizzare i temi che ci hanno guidato nella delineazione e realizzazione del progetto attraverso l’uso di parole chiave, agganciando a ciascuna parola chiave gli interventi di approfondimento delle prime due sezioni. Relazione

L’approccio interculturale in contesti scolastici è basato su una concezione dinamica della cultura, espressa soprattutto nell’ambito delle relazioni tra l’insegnante e gli alunni e tra gli alunni stessi. La relazione interculturale opera il riconoscimento dell’alunno con la sua storia e la sua identità. La classe, il gruppo, in questo senso, non sono altro che la zona di mediazione tra le culture, il contesto comune in cui si rende possibile il dialogo. La scuola svolge per tutti gli alunni, e in particolare per quelli stranieri, un ruolo di mediazione e di socializzazione. La classe interculturale si presenta, come un luogo di scambio con l’esterno, uno spazio di costruzione identitaria di tutti gli alunni, e in particolare di quelli immigrati, dove il compito dell’insegnante

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sarà quello di favorire l’ascolto, il dialogo, la comprensione nel senso più profondo del termine. Si tratta di fare della classe un luogo di comunicazione e cooperazione. L’interculturalità come cambiamento nelle relazioni, inoltre riguarda soprattutto l’insegnante: l’“effetto specchio” spesso induce il docente a confrontarsi e a criticarsi, svelando rigidità e stereotipi del proprio modo di pensare, aprendo nuove possibilità di comprensione. Approfondimenti: Relazione-Mediazione Parte prima: Luatti, Ferrucci Parte seconda: Luatti, Ferrucci, Pisani, Eredi

Intercultura

La scuola italiana ha scelto di adottare la prospettiva interculturale – ovvero la promozione del dialogo e del confronto tra le culture – per tutti gli alunni e a tutti i livelli: insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe. Scegliere l’ottica interculturale significa non limitarsi a strategie di integrazione degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta, invece, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo, come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica). Le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi e impermeabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo e anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza e affrontare i conflitti che ne derivano. Approfondimenti: Intercultura-Identità Parte prima: Ferrucci, Luatti Parte seconda: Eredi

Accoglienza

Una scuola che accoglie dovrebbe poter contare sulla capacità di instaurare un dialogo tra le istituzioni scolastiche e le famiglie per comprendere meglio la situazione e le difficoltà degli alunni di origine straniera e per mediare tra l’educazione trasmessa a scuola e in famiglia. Dovrebbe inoltre poter contare sulla possibilità di attivare risorse interne per costituire un gruppo di lavoro sull’accoglienza in grado di definire procedure di accoglienza condivise e realizzare materiali informativi e modulistica plurilingui. Approfondimenti: Accoglienza-Osservazione attiva Parte seconda: Luatti, Pisani

Diversità

L’educazione interculturale come “educazione alla diversità” deve tendere a svilupparsi su due dimensioni complementari, con l’obiettivo di mostrare la varietà di punti di vista da cui osservare una situazione, organizzandone lo scambio. La complessità del problema nella società attuale richiede negli educatori, negli insegnanti e nei genitori uno sforzo di acquisizione di competenze, di capacità di osservazione e soprattutto di responsabilità che, a partire dalla conoscenza personale, si concretizzi nella capacità di creare uno spazio fluido in cui il confronto tra i diversi “attori” nasca dalla sinergia delle singole persone a partire proprio dai loro attaccamenti. Approfondimenti: Diversità-Appartenenze Parte prima: Luatti, Ferrucci, Pisani Parte seconda: Luatti

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Fare Rete e Inter-azione

Le attività svolte nel corso dei workshop formativi e i bisogni emersi, hanno evidenziato la necessità di portare a sistema e diffondere la conoscenza delle situazioni positive e consolidate, in termini di collaborazione interistituzionale e buone pratiche realizzate; integrazione delle risorse economiche e di competenze acquisite (gruppi di lavoro tra scuole); elaborazione e diffusione di materiali e strumenti; coinvolgimento delle associazioni, delle comunità immigrate, delle famiglie straniere; coinvolgimento dei mediatori culturali, aggiornamento continuo degli operatori e dei docenti. Il lavoro avviato nelle scuole con il progetto Coros ha dato origine a un nuovo progetto formativo intitolato Inter-azione sui temi dell’Intercultura promosso dall’Istituto degli Innocenti e riconosciuto dal Miur Ufficio scolastico regionale per la Toscana Direzione generale con Decreto n. 57 del 25/06/2012. Inter-azione si prefigura come un percorso di accompagnamento degli insegnanti nella scelta, sperimentazione e validazione di alcuni strumenti utili nella gestione della classe multiculturale ma in un’ottica di sistema. Nella fase progettuale dell’intervento sono state, infatti, recepite le priorità individuate dal Progetto integrato di area 2012 della Regione Toscana su intercultura e inserimento di alunni stranieri in contesti scolastici, per consentire la partecipazione al percorso a gruppi d’insegnanti di scuole diverse promuovendo così la creazione di una rete per lo scambio delle esperienze e la diffusione delle pratiche sperimentate. In questi anni, infatti, l’autonomia scolastica ha evidenziato diversità delle politiche e degli investimenti locali in materia di integrazione scolastica degli alunni stranieri, oltre che una differenziazione dei percorsi/progetti di integrazione e una evidente discrezionalità delle iniziative legate ai singoli contesti territoriali. Approfondimenti: www.formarsi.istitutodeglinnocenti.it

Conclusioni

Le indicazioni e gli strumenti contenuti in questa pubblicazione vogliono costituire un quadro di orientamento entro il quale collocare e valorizzare il patrimonio di esperienze, di strumenti, di buone pratiche già costruite sul campo dagli insegnanti delle scuole che hanno partecipato all’iniziativa. Poiché la presenza di minori stranieri nella scuola si inserisce come fenomeno dinamico in una situazione in forte trasformazione a livello sociale, culturale, di organizzazione scolastica e territoriale, il Progetto Coros, vuole essere un punto di raccordo tra iniziative e progettualità già esistenti e nuove da mettere a sistema sul territorio fiorentino. Il Progetto Coros vuole rappresentare uno spunto di riflessione per quanti operano dentro e fuori la scuola, con i minori stranieri e italiani, per avviare e sostenere pratiche interculturali all’interno di una scuola in continuo movimento.

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