Nel nome della Regina: i Longobardi · 2019-07-23 · una punizione divina, come scrisse in una...

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Pag.17- Brianza – I Longobardi - FP Nel nome della Regina: i Longobardi Il lungo dominio longobardo in Italia fu un periodo di grande importanza per le vicende di Lombardia e di Monza, in particolar modo beneficiata dalla regina Teodolinda. Prima della sovrana longobarda, infatti, emergono scarse notizie sulla città lombarda, anche se è noto che già il re ostrogoto Teodorico vi aveva edificato un palazzo, attribuendo quindi al luogo una certa importanza, anche se forse solo legata alla "salubrità dell'aria" e al "clima fresco durante l'estate", come sostiene Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi vissuto nell'VIII secolo. I Longobardi provenivano dalle rive del Mare del Nord. Erano un popolo numeroso raggruppato in gruppi tribali guidati da capi che, con chiara derivazione dal latino dux; si chiamarono "duchi" - i quali eleggevano al loro interno un re. Re secondo le consuetudini barbariche, non legato al dominio territoriale, ma rappresentava la continuità della nazione, formata dagli arimanni, cioè dagli uomini liberi. Le tribù erano composte anche da servi, aldi, e schiavi. Come tutti i popoli germanici non avevano legge scritta, ma il peso della tradizione era fortissimo. Il popolo venuto dal Nord Nel maggio 569 (o 568), dunque, i Longobardi guidati da Alboino passarono le Alpi Giulie e occuparono Cividale. Le valutazioni sono controverse, ma sembra che i guerrieri non fossero più di 15.000; con le donne, i vecchi, i bambini, i servi, gli aldi “lavoratori della terra” e gli schiavi; il gruppo saliva a circa 60.000 persone. Sul confine delle Alpi Giulie Alboino travolse le forze bizantine e lasciò Gisulfo a custodire la frontiera orientale, nominandolo duca del Friuli. Proseguì poi nelle terre del Veneto e di tappa in tappa, nel 569, giunse a Pavia; il 3 settembre dello stesso anno i Longobardi entrarono in Milano. Il vescovo della città Onorato, si rifugiò a Genova, che rimase sede episcopale milanese per oltre settant'anni.

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Nel nome della Regina: i Longobardi Il lungo dominio longobardo in Italia fu un periodo di grande importanza

per le vicende di Lombardia e di Monza, in particolar modo beneficiata

dalla regina Teodolinda. Prima della sovrana longobarda, infatti,

emergono scarse notizie sulla città lombarda, anche se è noto che già il re

ostrogoto Teodorico vi aveva edificato un palazzo, attribuendo quindi al

luogo una certa importanza, anche se forse solo legata alla "salubrità

dell'aria" e al "clima fresco durante l'estate", come sostiene Paolo

Diacono, lo storico dei Longobardi vissuto nell'VIII secolo.

I Longobardi provenivano dalle rive del Mare del Nord. Erano un popolo

numeroso raggruppato in gruppi tribali guidati da capi che, con chiara

derivazione dal latino dux; si chiamarono "duchi" - i quali eleggevano al

loro interno un re.

Re secondo le consuetudini barbariche, non legato al dominio territoriale,

ma rappresentava la continuità della nazione, formata dagli arimanni, cioè

dagli uomini liberi. Le tribù erano composte anche da servi, aldi, e schiavi.

Come tutti i popoli germanici non avevano legge scritta, ma il peso della

tradizione era fortissimo.

Il popolo venuto dal Nord Nel maggio 569 (o 568), dunque, i Longobardi

guidati da Alboino passarono le Alpi Giulie e

occuparono Cividale. Le valutazioni sono

controverse, ma sembra che i guerrieri non

fossero più di 15.000; con le donne, i vecchi, i

bambini, i servi, gli aldi “lavoratori della terra”

e gli schiavi; il gruppo saliva a circa 60.000

persone.

Sul confine delle Alpi Giulie Alboino travolse

le forze bizantine e lasciò Gisulfo a custodire la

frontiera orientale, nominandolo duca del Friuli.

Proseguì poi nelle terre del Veneto e di tappa in tappa, nel 569, giunse a

Pavia; il 3 settembre dello stesso anno i Longobardi entrarono in Milano.

Il vescovo della città Onorato, si rifugiò a Genova, che rimase sede

episcopale milanese per oltre settant'anni.

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Digiuni di marineria, i Longobardi non toccarono le città di mare liguri,

tirreniche e adriatiche, che poterono salvarsi e restare fedeli

all'imperatore di Costantinopoli.

I duchi longobardi facevano una guerra di conquista personale; così

alcuni di essi, con le loro fare (es. Fara d’Adda un nome che è rimasto in

alcune località lombarde), cioè i clan familiari da loro dipendenti si

spinsero fin nella Toscana e nell'Umbria, dove stabilirono una base

importantissima a Spoleto; altri arrivarono nel Sannio, occupando

Benevento. Spoleto e Benevento furono i maggiori possedimenti

longobardi fuori dall'Italia settentrionale, dove era rimasto il grosso del

gruppo. I due ducati controllavano le comunicazioni fra Ravenna e Roma e

fra Roma, Napoli e Otranto, impedendo così possibili invasioni bizantine

dal mare.

L’occupazione longobarda fu feroce; molti proprietari di terre furono

uccisi; ville, chiese e monasteri distrutti. Resistettero alcuni presidi

bizantini a Oderzo, Monselice, Padova, Mantova e Ravenna, e per

vent'anni anche l'isola Comacina. Ma la maggior parte della Pianura

Padana divenne "longobarda".

Alboino fu ucciso da una congiura di

famiglia nel 572; gli succedette Clefi

ucciso a sua volta nel 574. Seguirono

dieci anni di anarchia durante i quali i

duchi longobardi si rifiutarono di

eleggere un re, per non doversi

sottomettere a un proprio pari.

Nel 582, approfittando di questo stato

di cose, papa Pelagio invitò il governo

bizantino a riprendere la lotta contro i

barbari e a rinforzare i presidi italiani. I

Bizantini non soltanto aderirono alla

richiesta del papa, ma pensarono anche di

servirsi dei Franchi per contenere i Longobardi e i Franchi calarono per

due volte in Italia, impegnando i Longobardi in dure battaglie.

Il pericolo di un'alleanza tra Franchi e Bizantini convinse i duchi a darsi

una struttura di comando e nel 584 elessero Autari come re.

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Autari respinse l'anno seguente una spedizione Franca e avviò trattative

con l'esarca di Ravenna Smaragdo. Questo significò il riconoscimento

del regno longobardo da parte di Costantinopoli e quindi il pericolo franco

bizantino venne neutralizzato.

La grande regina di Monza "La sorgente principale del lustro e della grandezza a cui Monza pervenne

deesi fuor di dubbio al tempio sacro al Precursore di Cristo dalla regia

magnificenza di Flavia Teodolinda, regina dè Longobardi, qui eretto e

splendidamente dotato e costituito, per così dire l'oracolo di sua nazione,

non solo, ma di tutta quanta l’Italia…" Così scrive lo storico Marimonti a

proposito di San Giovanni in Monza e della sovrana longobarda.

Il canonico Frisi, un altro importante storico monzese, la chiama

“Teodelinda", nome composto da due parole germaniche, theuda (in gotico

thiuda). che significa "gente", e lind che sta per "tiglio" o "scudo di legno

di tiglio". "Teodelinda" significherebbe dunque "difesa, scudo della

gente", nome ben adatto a una regina.

Teodolinda era una principessa barbara, figlia di

Garibaldo re dei Bavari, chiesta in moglie da

Autari per rendere più solida l'alleanza contro i

Franchi che minacciavano di continuo i territori

longobardi in Italia. I Bavari erano cristiani, i

Longobardi in gran parte pagani, tranne pochi che

si erano convertiti al cristianesimo, ma nella

forma ereticale del prete Ario; la cosa non

doveva però sembrare così grave, tanto che le

trattative andarono avanti e il matrimonio venne

combinato.

Un anno dopo le nozze i Franchi tentarono una

nuova spedizione in Italia; un gruppo scese dal

passo di Lucomagno e giunse al lago di Lugano, un altro dall’Alto Adige

arrivò a Verona. Autari, costretto a rifugiarsi a Pavia organizzò la

controffensiva che in tre mesi respinse il nemico oltralpe.

Da una lettera di papa Gregorio Magno apprendiamo che in quello

stesso anno Autari aveva emanato un decreto che proibiva ai Longobardi

di far battezzare i figli nella fede cattolica.

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Perché questo irrigidimento da parte del sovrano? Forse l’influenza della

regina cattolica aveva irritato e insospettito il re? Non potremo mai

saperlo; sta di fatto che Autari mori giovanissimo, forse per

avvelenamento, il 5 settembre 590 e papa Gregorio vide in quella morte

una punizione divina, come scrisse in una lettera ai vescovi italiani.

Teodolinda dunque rimase vedova, sollecitata dai duchi perché scegliesse

un nuovo marito, nel novembre di quello stesso anno convolò a nuove nozze

con Agilulfo, parente di Autari. Nel maggio seguente Agilulfo fu

proclamato re dall'assemblea dei Longobardi.

Al di là dei suoi due matrimoni regali, Teodolinda fu un personaggio di

grande rilevanza storica soprattutto per Monza. A lei si devono infatti, i

due elementi reali e simbolici che tolsero la città dall'anonimato nel quale

era vissuta fino a quel momento, e cioè la basilica e il Tesoro. A

Teodolinda infine, si deve se la Chiesa di Roma acquisì prestigio e potere

in Monza e nel suo territorio, creando un'isola cattolica nel mare della

Longobardia pagana ed eretica.

Questo aspetto della vicenda di

Teodolinda viene riferito da

Paolo Diacono sulla base di una

perduta Historiola dei

Longobardi redatta dal

consigliere spirituale della

regina, l'abate Secondo da

Trento, il quale fu anche il

ministro del battesimo di suo

figlio Adaloaldo, mentre Agilulfo

mantenne finché visse la sua fede ariana.

Ed è forse proprio in questo contrasto di fede che trova spiegazione la

scelta di Monza come residenza della regina. Agilulfo infatti, si stabilì a

Milano, mentre la sua sposa preferì andare a vivere nella città dove già

Teodorico si era fatto costruire un palazzo, Monza appunto.

La regina però non scelse il palazzo di Teodorico come residenza, ma se

ne fece costruire uno nuovo. Dice Paolo Diacono che sulle pareti della

dimora la sovrana fece dipingere le imprese più rilevanti dei Longobardi;

lo storico osserva che su quei muri si poteva vedere quel popolo com'era

agli inizi del regno, composto da barbari, con i capelli rasati fino alla nuca

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e ricadenti davanti fino alla bocca, vestiti con abiti larghi ornati di grandi

strisce di colori diversi.

Ed è sempre Paolo Diacono che ci informa sull'atto costitutivo della

basilica. Scrive infatti, che vicino al suo palazzo la regina fece edificare

"una basilica in onore di san Giovanni Battista alla quale essa diede in

dotazione sufficienti terre e molti ornamenti d'oro e d'argento".

Potrebbe essere stata una cappella di preghiera domestica, ma allora non

si capirebbe quella "dotazione di sufficienti terre". Quindi, si tratta quasi

certamente della prima fondazione di quello che sarà poi il grandioso

Duomo di Monza, mentre i "molti ornamenti" rappresentano il primo

nucleo del Tesoro.

Che l'iniziativa della regina fosse atto di grande rilievo, lo dimostra

l'invio di "moltissime sacre reliquie", come scrive il Marimonti, da parte

del papa Gregorio Magno, che non si sarebbe altrimenti scomodato per

una semplice cappella gentilizia.

Il solito Paolo Diacono da parte sua pone un'enfasi particolare nel

sottolineare il gesto di Teodolinda e nell'esaltare la sua azione di

avvicinamento alla Chiesa.

Così infatti scrive: "Per opera di questa regina

la Chiesa di Dio ottenne molti benefici. I

Longobardi infatti, quando vivevano ancora

nell'errore del paganesimo, avevano confiscato

quasi tutti i beni delle chiese. Ma il re Agilulfo,

mosso dalle suppliche di lei, accolse la fede

cattolica, donò molti possessi alla Chiesa di

Cristo e restituì all'onore della loro dignità i

vescovi che erano in cattività e in dispregio...".

In realtà, come abbiamo visto, Agilulfo non si

convertì mai alla confessione cattolica.

Quando Agilulfo morì, nel 615-616, l'assemblea

dei duchi longobardi proclamò re il figlio

tredicenne Adaloaldo, sotto la reggenza di Teodolinda.

Probabilmente in questi anni la regina poté esprimere concretamente, con

la costante protezione e generose donazioni, la sua predilezione per la

Chiesa cattolica. Assecondando l'opera di evangelizzazione perseguita

tenacemente dai papi. Come scrive il canonico Frisi, “infatti i papi a tutto

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lor potere cercavano di convertirli li barbari alla vera fede. Ma la ragione

dè barbari era troppo bambina; rifuggivano i barbari ad ogni pensiero

d'intellettuale fatica; i loro raziocini erano nell'armi, i loro costumi rozzi

e quasi feroci...".

A parte il giudizio antropologico e psicologico dello storico monzese,

probabilmente il favore della regina per la chiesa dovette irritare e

insospettire i duchi; così, quando Teodolinda morì, nell'anno 626-628, il

debole Adaloaldo venne deposto e sostituito con Arioaldo, di confessione

ariana nonché marito della figlia di Teodolinda e Agilulfo, Gundeberga.

Si chiudeva così la vicenda terrena della regina dei Longobardi, e con lei

finiva il "momento magico" di Monza. Il nuovo re infatti, riportò la corte a

Pavia e la città briantea rientrò nella sua mediocre quotidianità.

Da Rotari a Liutprando Ad Arioaldo nel 636 succedette Rotari, anch'egli

di fede ariana, che, dopo un decennio di tregua,

riprese la guerra contro l'impero bizantino. Con la

campagna del 643 liquidò i presidi bizantini di

Modena, Oderzo e di tutta la Liguria marittima.

Secondo Paolo Diacono, nella battaglia sul fiume

Scultenna attuale Panaro perirono ben ottomila

soldati imperiali.

Il successo sui Bizantini ebbe conseguenze anche

per la Lombardia e per la regione monzese.

Infatti, poiché Genova era ormai terra longobarda

non c'era più motivo che l'arcivescovo di Milano

restasse in quella città; in effetti dai "Cataloghi

dei vescovi" risulta che l'arcivescovo Giovanni il

Buono, eletto a Genova riportò la sede episcopale a Milano, dove morì e fu

sepolto intorno alla metà del VII secolo.

Giovanni il Buono compare anche in un documento del XIII secolo nel

quale si afferma che l’arcivescovo costituì a Desio una chiesa matrice,

cioè una pieve, con giurisdizione sulla campagna circostante, con sacerdoti

residenti che andavano in giro ad amministrare i sacramenti.

Il ritorno del metropolita milanese contribuì senza dubbio alla

progressiva conversione dei Longobardi anche perché sposa di Rotari era

allora un'altra regina cattolica, quella Gundeberga figlia di Teodolinda e

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Agilulfo che in prime nozze aveva sposato Arioaldo. Tuttavia Rotari

rimase ariano, come attesta anche Paolo Diacono.

La devota Gundeberga aveva fondato a Pavia una chiesa in onore di san

Giovanni Battista, ma Rotari, morto nel 652, venne sepolto in un'altra

chiesa, sempre dedicata al Battista, sui muri della quale vennero

affrescate le sue imprese guerresche.

Il nome di Rotari è legato soprattutto al celebre Editto emanato il 22

novembre 643 dal palazzo di Pavia; in esso erano raccolti in forma

legislativa e in 388 capitoli in lingua latina gli usi e le consuetudini dei

Longobardi. Dopo settantacinque anni di permanenza in Italia, era il primo

documento scritto da quel popolo, nonché la prima testimonianza del

progressivo influsso del diritto romano e del Cristianesimo.

Leggendo i diversi capitoli, possiamo conoscere qualcosa sugli usi e sulle

convinzioni dei Longobardi. Per esempio, apprendiamo che la vendetta

privata “la faida” è ammessa, ma si suggerisce di mitigarla con la

riparazione dell'offesa in denaro “il guidrigildo” e non in sangue; che è

proibito accusare una donna di stregoneria e perseguitarla, poiché "non

sembra possibile che una donna sia capace di trangugiare un uomo vivo";

che è altresì proibito ai duellanti di portare sul proprio corpo amuleti o

erbe magiche.

Dall'Editto appare evidente che i

Longobardi si sentono un popolo a

parte, non desideroso di mischiarsi ai

vinti, i quali anzi, tranne rarissime

eccezioni, sono tenuti in uno stato

servile. Erano insomma degli aldi

lavoratori legati alla terra e come la

terra proprietà del signore.

A Rotari succedette il figlio Rodoaldo

assassinato dopo sei mesi; venne poi

eletto un nipote di Teodolinda, Ariperto, che regnò per nove anni; dal 652

al 661. Ariperto era bavarese e cattolico e favorì ulteriormente la

conversione dei Longobardi. Alla morte di Ariperto il regno venne diviso

tra i suoi due figli; Pertarito, a Pavia e Godeperto, a Milano.

Naturalmente sorsero immediati contrasti fra i due e ne approfittò il

duca di Benevento, Grimoaldo il quale uccise Godeperto, mise in fuga

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Pertarito e si proclamò unico sovrano. Ben presto però dovette tornare

verso sud, poiché l'imperatore di Costantinopoli Costante II stava

assediando il suo ducato.

Quando Grimoaldo, non si sa in quali circostanze, morì, tornò a Pavia

Pertarito, che nel 680 riuscì a concludere un trattato di pace con i

Bizantini.

Seguì un periodo di tranquillità e di favore per la Chiesa, che ne

approfittò per ristabilire le gerarchie cattoliche in Lombardia.

Nel 678 il regno era dilaniato dalla rivolta del duca di Trento Alachi,

causata probabilmente dal rifiuto della religione cattolica, ormai

considerata religione ufficiale. Contro il ribelle si mosse Cuniperto, figlio

di Pertarito e associato al regno dal padre.

Presso Cornate d’Adda vi fu la battaglia che vide la sconfitta e la morte

di Alachi. In memoria dell'avvenimento Cuniperto eresse in quei luoghi un

monastero dedicato a San Giorgio.

Dopo Cuniperto ci fu Ariperto II, contro il quale si ribellò Ansprando;

Ariperto II tentò la fuga ma mori affogato nel Ticino, e con lui

scomparve anche l'oro

con il quale ero fuggito.

Ad Ansprando, che

regnò solo pochi mesi

succedette Liutprando,

re dal 712 al 744: un

regno lungo e ricco di

novità positive per il suo

popolo.

Liutprando fu il vero

legislatore dell'età

longobarda in Italia. Dal 709 al 724, dopo quindici assemblee generali,

emanò i 153 capitoli della legge che ampliava e migliorava l’Editto di

Rotari rendendo la legislazione del regno più umana e articolata

Liutprando, che si dichiara principe cristiano e cattolico, vieta infatti

l'omicidio, limita il duello giudiziario, aggiunge al guidrigildo la confisca

dei beni del colpevole, vieta i matrimoni fra consanguinei e rende più

severe le leggi contro l'adulterio, la bigamia, le superstizioni e i culti

pagani.

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Ma Liutprando è celebre anche per un altro fatto legato alla storia della

Chiesa la cosiddetta "Donazione di Sutri" nella quale molti storici vedono

il primo nucleo del potere temporale dei pontefici romani.

Nel 728, dunque, durante una campagna contro il riottoso duca di

Spoleto, Liutprando occupò il castello di Sutri, a cinquanta chilometri da

Roma; lo tenne però soltanto quaranta giorni, perché papa Gregorio II,

con somme di denaro e infuocate esortazioni, lo convinse a farne dono agli

apostoli Pietro e Paolo. Cioè al papa stesso, erede di Pietro, anche se il

territorio romano era ancora sottoposto all'autorità di Costantinopoli.

Presto però, i rapporti fra il papa e il re si guastarono; il pontefice

sentiva il peso della presenza delle truppe di Liutprando; Liutprando a sua

volta accusava il papa di sostenere i duchi ribelli di Spoleto e Benevento,

tanto che a un certo punto si alleò persino coi Bizantini di Ravenna per

tenere a bada sia questi sia il papa. Si giunse al punto che il nuovo

pontefice, Gregario III non sperando aiuto né da Costantinopoli, né dai

duchi ribelli, si rivolse al re dei Franchi Carlo Martello, per sostenere una

campagna contro i Longobardi. Ma il signore franco non ritenne opportuno

immischiarsi negli affari italiani.

La diatriba andò avanti fino al 742, quando era pontefice Zaccaria,

Liutprando s’impegnò solennemente a restituire i castelli romani occupati

e ad osservare vent'anni di pace con Roma.

Nel 743 Liutprando ricominciò la guerra contro Ravenna, e stavolta fu

papa Zaccaria a fare da paciere. Si recò prima a Ravenna. quindi a Pavia

dove stabili un'intesa con Liutprando.

Erano appena partiti gli ambasciatori per Costantinopoli, quando il re

longobardo, nel 744, morì e le trattative furono così sospese.

Con la morte di Liutprando si chiude anche la Historia Langobardorum di

Paolo Diacono, che conclude la sua opera con una lode al re. Lode

giustificata, poiché con la sua politica di consolidamento dello Stato, e

con la sua opera legislativa. Liutprando contribuì certamente a preparare

la strada alla nascita di una visione unitaria del regno d'Italia.

Longobardi, Franchi e papi: una partita a tre Dopo Ildeprando, che regnò solo otto mesi, venne eletto re dei

Longobardi il duca del Friuli Rachis. Intanto era ripresa la guerra con i

Bizantini e nel 749 Rachis si fece convincere da papa Zaccaria a una

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nuova pace. Ma i duchi non accettarono la tregua, obbligando Rachis a

dimettersi ed eleggendo in suo luogo il fratello Astolfo.

Astolfo, non smentendo le aspettative, attaccò l'Esarcato occupando

tutti i territori bizantini da Comacchio a Ravenna e nel 751 poté

celebrare il secondo anniversario del suo regno a Ravenna con la fine dei

possedimenti bizantini in Italia.

Ma proprio da questa fine

nasceva un problema che

sarebbe stato fatale ai

Longobardi infatti, se

Costantinopoli non aveva più

giurisdizione in Italia che fine

avrebbero fatto Roma e i suoi

territori, dipendenti

dall'Impero?

Secondo Astolfo erano ormai di fatto sottoposti al governo longobardo,

tanto che pretese da tutti i cittadini romani un soldo d'oro come tributo

personale.

Il papa regnante, Stefano II maturò invece la decisione di rivolgersi

nuovamente ai franchi, con i quali le relazioni erano buone e di lunga data.

Era stato proprio papa Zaccaria, nel 751, a legittimare l'usurpazione di

Pipino il Breve, "maggiordomo di palazzo" del re merovingio Childerico

III, e a sanzionare con la sacra unzione, somministrata da San Bonifacio

a Soissons la sua incoronazione.

Stefano II quindi mandò un'ambasceria segreta a Pipino, chiedendo un

incontro urgente. Intanto da Costantinopoli giungeva un diplomatico con la

delega imperiale che autorizzava il papa a trattare con Astolfo per la

restituzione dell’Esarcato.

Fu come legato imperiale, che Stefano II si recò a Pavia per discutere

con Astolfo, ma, vista l'inutilità del negoziato, chiese e ottenne di poter

proseguire per la Francia. Nel novembre 753 il corteo papale prese la

strada delle Alpi giunse al Gran San Bernardo, proseguì per l'abbazia di

San Maurizio nel Vallese e a Langres venne accolto da uno dei figli di

Pipino, il giovane Carlo. Nel gennaio 754 il papa e il suo seguito giunsero al

palazzo reale di Ponthion.

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In quell'anno venne steso un documento fondamentale per la storia della

chiesa la cosiddetta “Promissio Carisiaca” (da Carisium, ovvero Quierzy),

nella quale il sovrano franco e i suoi maggiorenti si impegnavano a esigere

da Astolfo la restituzione alla "repubblica dei Romani" di tutte le terre di

sua legittima appartenenza compreso il territorio dell'Esarcato, già

bizantino.

Ma il testo della Promissio era

ambiguo: il papa agiva in nome

dell'imperatore bizantino o a nome

del popolo romano, come suo

sovrano?

Vedremo in seguito come, dopo la

conquista di Carlomagno, fosse la

seconda tesi ad affermarsi

gettando le basi di una nuova

entità politica, lo Stato della

Chiesa. Astolfo rifiutò comunque la

restituzione e Pipino gli mosse guerra; nel 755 l'esercito longobardo

venne sconfitto alle clusae Francorum cioè all’Alpe di Susa; ne seguì la

ripresa delle trattative e la promessa di Astolfo di restituire le terre

occupate, a cominciare da Ravenna Soddisfatto, Pipino riprese la via delle

Alpi e tornò nel suo regno. Subito Astolfo interruppe le restituzioni e le

sue truppe ricominciarono a devastare il Lazio. Nel 756 pose addirittura

l'assedio a Roma, che durò ben otto mesi.

Disperato, il papa scrisse a Pipino chiedendo aiuto; di nuovo i Franchi

varcarono le Alpi di nuovo sconfissero i Longobardi a Susa. Di nuovo

Astolfo dovette capitolare. E stavolta le condizioni furono più dure: oltre

a pagare pesanti risarcimenti i Longobardi dovettero riconoscere la

sovranità dei Franchi sul loro regno, consegnare al sovrano franco

Ravenna e Comacchio, le terre da Forlì fino a Jesi e a Senigallia, Gubbio e

il territorio romano.

Il rappresentante di Pipino, l'abate Fulrado, si recò a Roma, dove

consegnò al papa le chiavi della città e l'atto di donazione di Pipino al

Patrimonio di San Pietro di tutte le terre conquistate.

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Astolfo morì nel dicembre 756 e, dopo una travagliata lotta di

successione fra i duchi, salì al trono longobardo Desiderio, che tentò di

ricucire i rapporti con la Chiesa e con i Franchi.

Il regno longobardo poté così godere di circa quindici anni di relativa

pace, durante i quali Desiderio manifestò particolare benevolenza nei

confronti del monachesimo benedettino.

L’abbazia di Civate, secondo la tradizione, è attribuita a Desiderio. Era

costituita di due chiese, una dedicata a

San Pietro, l'altra a San Benedetto;

nulla però resta di quelle primitive

fondazioni anche se gli scavi effettuati

nel 1879-1881 in San Pietro al Monte

rivelarono le fondamenta di un sacello

forse risalente all'VIII sec. Da un

documento del XII sec. apprendiamo

che al monastero di Civate

appartenevano ben trentasei località

della Brianza.

I primi documenti di Monza risalgono al regno di Desiderio; si tratta

delle pergamene più antiche conservate nell’archivio Capitolare del

Duomo. Esse si riferiscono a donazioni in terre per i poveri e in edifici

religiosi fatte nel 768 e nel 769 da due ecclesiastici residenti in Monza

Theodald e Grato, date in

amministrazione alla basilica di San

Giovanni.

Nel 768 Pipino morì e la vedova

Bertrada, per consolidare la

tregua con Desiderio, combinò il

duplice matrimonio tra sua figlia

Gisla e il figlio di Desiderio,

Adelchi; e tra suo figlio Carlo e la

figlia di Desiderio, la fanciulla che

nell'Adelchi Alessandro Manzoni chiama Ermengarda, ma che forse si

chiamava Desiderata.

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Il papa Stefano II tentò di impedire entrambi i matrimoni ma riuscì a

mandarne a monte solo uno, quello fra Gisla e Adelchi, mentre le nozze

fra Carlo e la giovane longobarda si celebrarono alla fine dell'anno 770.

La fine dei Longobardi Nel 771 morì Carlomanno, fratello maggiore di Carlo, il quale si fece

riconoscere e consacrare re di tutto il regno, calpestando probabilmente i

diritti della cognata e dei nipoti, tanto che la vedova di Carlomanno,

Gerberga, con i figli e alcuni suoi fedeli fuggì in Italia chiedendo la

protezione di Desiderio.

Desiderio concesse questo aiuto,

guadagnandosi immediatamente

l'ira di Carlo, che ripudiò e rispedì

a Pavia la sua povera sposa

longobarda, che morì forse di

parto poco dopo.

L'anno successivo, il 772.

Desiderio andò oltre e rioccupò le

terre ex bizantine e ormai

pontificie; Carlo prima minacciò,

poi si mosse. Nel 773, scese in

Italia per la solita via, ancora una

volta a Susa travolse le truppe

longobarde e pose l'assedio a Pavia, dove si era rifugiato Desiderio.

Intanto Adelchi. sconfitto a Verona dopo una disperata resistenza, riuscì

a fuggire a Costantinopoli, mentre il duca di Spoleto fece atto di

sottomissione al papa, Adriano I.

Pavia era ancora assediata quando Carlo, circondato dalla corte e dalla

famiglia, entrò solennemente in Roma il 2 aprile 774, Sabato Santo,

accolto dalle bandiere del papa e del messo imperiale bizantino.

Il 6 aprile iniziarono le trattative col papa, in base all'accordo di Quierzy

di dieci anni prima, che Carlo onorò munificamente.

Sistemati gli affari romani, il re franco tornò all'assedio di Pavia e il 7

giugno 774 la città si arrese. Desiderio venne condotto prigioniero in

Francia, dove morì di lì a poco nel monastero di Corbie, mentre il figlio

Adelchi perse la vita nel 788 nell'esilio di Costantinopoli.

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Dal 774 in poi i documenti ufficiali nomineranno Carlo come Rex

Francorum et Langobardorum.

Finiva così il regno dei Longobardi in Italia, con un bilancio tutto

sommato negativo. In due secoli infatti, essi non erano riusciti a creare

strutture statali omogenee e stabili, né si erano conquistati l'appoggio

della popolazione sottomessa, anzi, come scrive lo storico Riva, "…sia i

Galli che i Longobardi riuscirono difficilmente a integrarsi con le nostre

popolazioni che, sfruttate e oppresse da costoro, rifiutarono qualsiasi

sporadico tentativo di fraternizzazione. La lingua stessa degli oppressori

fu odiata dagli oppressi e, se dei Galli poco si sa circa l'idioma usato, dei

Longobardi possiamo invece costatare l'adozione della scrittura latina.

Fummo noi ad essere civilizzati da quelle popolazioni? La risposta è

evidente: se mai ci fu qualcuno che migliorò nella graduatoria della civiltà,

fu l'oppressore e non il vinto...".

I nuovi signori d'Italia I Franchi si sostituirono dunque ai Longobardi nel dominio in Italia, con a

capo un personaggio di eccezionale statura come re Carlo, poi noto con il

nome di Carlomagno. I Franchi, il cui nome significa "uomini liberi", erano

una nazione germanica divisa in diverse tribù. Spostatisi dapprima ai

confini della Gallia, nel 481, sotto la guida di Clodoveo, si costituirono in

un unico regno con capitale Lutetia - oggi Parigi, ponendo le fondamenta

di quella che sarà la nazione francese.

Carlo, colui che sconfisse i Longobardi, era nato nel 742, figlio minore di

Pipino il Breve, che avendo usurpato il trono a Childerico III divenne il

fondatore della dinastia carolingia che sostituì i Merovingi alla guida dei

Franchi. Re guerriero e campione della fede, dopo la vittoria sui

Longobardi condusse feroci campagne contro i Sassoni, cristianizzati a

forza nell'804 circa, contro i Bavari e contro gli Avari. Sono entrate nella

leggenda e nella poesia, con il ciclo cavalleresco dei paladini di Francia le

sue imprese contro i Mori di Spagna.

Divenne signore di quasi tutta l'Europa occidentale, anche per il sostegno

ricevuto dalla Chiesa, tanto che nel giorno di Natale dell'anno 800 venne

incoronato imperatore a Roma da papa Leone III, con una fastosa e

solenne cerimonia che rendeva visibile al mondo il suo sogno di

restaurazione dell'idea imperiale in Occidente e la nascita del Sacro

Romano Impero.

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Per governare e amministrare l'immenso territorio acquisito, Carlo mise a

punto una struttura politico-amministrativa basata sul rapporto di

fedeltà fra l'imperatore e i suoi rappresentanti, conti o marchesi, i quali

reggevano e governavano le terre loro affidate per conto e in nome del

sovrano, servendosi di altre figure via via meno importanti. Un potere

delegato e diffuso, che dal vertice si allargava a una base abbastanza

ampia. Era la "piramide feudale".

Nella costruzione carolingia si annidava però il pericolo della

disgregazione e del prevalere degli interessi dei singoli feudatari, laici o

ecclesiastici che fossero. Carlomagno operò, in effetti, una politica di

particolare favore nei confronti di vescovi e abati, donando loro terre e

possedimenti da amministrare e dai quali trarre cospicui frutti,

E questo accadde soprattutto in Italia. Arricchì di nuove terre i monaci

di Bobbio, vicino a Piacenza, assegnò al monastero di san Martino di Tours

la città di Sirmione e la Valcamonica, e a quello di Saint-Denis vaste terre

in Valtellina, assicurandosi in tal modo il controllo dei passi alpini.

Il territorio milanese e brianzolo nell'età carolingia La politica di Carlomagno nei confronti dei monasteri ebbe grandi

conseguenze anche per la Lombardia. Proprio nella fase di passaggio dai

Longobardi ai Franchi, infatti, acquisì grande importanza il monastero di

Civate, e a Carlomagno si deve la nascita del monastero milanese di

Sant'Ambrogio, fondato probabilmente nel 784 dall'arcivescovo Pietro

ed eretto ufficialmente nel 789.

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I possedimenti del monastero andarono via via ingrandendosi, tanto che

buona parte della campagna monzese divenne proprietà di Sant’Ambrogio,

come il territorio di Cologno, posseduto fino al 1750.

Per quanto riguarda la campagna milanese, fu divisa in cinque contadi.

Il maggiore era quello di Milano, che comprendeva anche i territori della

Martesana e della Bazzana. Gli altri erano i contadi di Seprio, Stazzona

(antico nome di Angera), Lecco e Burgaria.

La denominazione di Martesana

compare in un documento del

931 e probabilmente deriva da

qualche Marcius o Martericius

dal quale presero nome alcune

terre del piano d'Erba: fundi

Marteciam; rura Marteciana. in

seguito la denominazione si

diffuse a tutte le terre fra

Corno e Lecco, distinte in

Martesana di mezzo, delimitata

dal Seveso, e Martesana

abduana, sulle rive dell'Adda.

Fino alla metà del XII sec. circa, quindi, la Martesana non fu contado a

sé, ma territorio del contado di Milano. Ad essa appartenevano le pievi di

Asso, Incino, Cantù, Mariano, Oggiono, Agliate, Seveso, Desio, Bollate,

parte della pieve di Bruzzano e parte della pieve di Missaglia, Garlate,

Brivio, Vimercate, Trezzo, Gorgonzola, Comegliano, Settala, Segrate,

parte della pieve di Bruzzano e parte della pieve di Missaglia.

Alla Martesana, come si vede, corrisponde gran parte del territorio cui

dall'XI sec. in avanti si cominciò a dare il nome di Brianza.

La corte di Monza si trovava al suo confine meridionale e anch'essa

faceva parte del contado milanese ma con una certa autonomia, a

cominciare da quella religiosa.

La disgregazione dell'edificio carolingio Nell'806 Carlomagno affidò il governo dell'impero ai tre figli. Pipino,

Ludovico il Germanico e Ludovico il Pio, stabilendo che quest'ultimo, alla

sua morte, avrebbe dovuto assumere il titolo imperiale - che comprendeva

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anche; quello di re d'Italia - mentre gli altri due avrebbero governato la

Germania e la Francia.

E così avvenne. Carlomagno morì nell'814 e Ludovico il Pio divenne

imperatore del Sacro Romano Impero e re d'Italia.

Nell'820 divenne re d'Italia il figlio di Ludovico, Lotarlo, che succedette

al padre nella carica imperiale nell'840, alla

morte di Ludovico.

Ma l'elezione non venne accettata da Pipino e

Ludovico il Germanico, e dopo tre anni di aspre

contese, col Trattato di Verdun dell'843

l'impero si divise in regno di Francia, di

Germania e d'Italia.

Il governo carolingio durò ancora quarant'anni

circa e finì con la caduta dell'ultimo imperatore,

Carlo il Grosso, che tentò di riunificare le

corone di Francia, Germania e Italia ma

sopraffatto dall'attacco di un nuovo popolo

barbaro, i Normanni, e dalla rivolta dei

feudatari tedeschi e francesi, fu costretto ad abdicare.

Finiva così il sogno di Carlomagno e per l’Europa si preparava un'altra

stagione di disordini e guerre.