Ndrangheta

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7 Foto di Paolo Ciaberta NUMERO 12 6 NUMERO 12 Federica Tourn Quelle donne coraggiose che sfidano la ‘ndrangheta Sempre più numerosi in Calabria i casi di ribellione di mogli o figlie di esponenti dei clan. Elisabetta Tripodi, minacciata dal boss del paese, è il primo sindaco donna di Rosarno. Gli esempi di Liliana Carbone e Deborah Cartisano, che si richiamano ad Antigone A ROSARNO, nel palazzo comuna- le colpito da una sventagliata di mitra durante il governo dello storico sindaco comunista Giuseppe Lavorato, è entrata una donna. Elisabetta Tripodi ha vinto a sorpresa, la gente è dalla sua parte, alle elezioni le bambine incitavano le madri a votare per lei. Pochi mesi dopo, sulla sua scrivania arriva una raccomandata con ricevuta di ritorno spedita dal carcere di Opera: il mittente è Rocco Pesce, il boss condannato all’ergastolo, che si lamenta di certi provvedimenti presi contro la sua famiglia. Par- ticolare non da poco: la lettera è scritta su carta intestata del Comune. Da quel giorno Elisabetta Tripodi ha una scorta. La porta blindata del suo ufficio, tuttavia, è sempre aperta, chi vuole par- larle non ha bisogno di appuntamento. “Vengono tante donne – racconta – cominciano a lamentar- si dell’acqua che manca e finiscono per sfogarsi con me per i figli o per il marito in carcere. Io per loro sono lo Stato, che finora conoscevano soltanto come esattore fiscale o soggetto di repressione”. Rosarno ha quindicimila abitanti, un paeso- ne avvitato su una collina che domina la piana di Gioia Tauro: polvere e cemento, qualche vecchio edificio fascista a cui nessuno ha più messo mano da quei tempi, un ospedale costruito nel ‘66 e mai utilizzato, sinistro monumento alla sanità pubbli- ca, dove ora, sotto un sole che spacca, pascolano le pecore. Tutto intorno si vedono le piantagioni di alberi da frutta e più giù, vicino al mare, il polo industriale e il porto. “Questa è una zona fertile e potenzialmente ricchissima ma è sempre stata depredata – mi dice la proprietaria del bed & bre- akfast di San Ferdinando, a cinque chilometri da Rosarno – le fabbriche sono ferme, i depuratori non funzionano e i trasporti sono discontinui, se non del tutto inesistenti. Ora hanno cominciato a tagliare anche le linee ferroviarie”. Per passare dalla costa tirrenica a quella jonica – 50 chilome- tri – con il treno ci vogliono tre ore e un cambio a Reggio. Ma le autolinee locali non sono migliori: i ragazzi dei comuni vicini che vanno a scuola a Ro- sarno non hanno nemmeno un pulmino a disposi- zione. L’economia illegale dei favori e degli appalti pilotati ha da tempo corroso il tessuto sociale e il resto l’ha fatto la crisi, erodendo quasi ogni forma di imprenditoria sana. Le chiedo se perlomeno c’è turismo: “No, perlopiù solo commessi viaggiatori di passaggio”. Duecentocinquanta affiliati Chi ci torna, puntualmente, sono gli africa- ni: quest’anno sono scesi in 1.500 per lavorare a 25 euro al giorno. In nero, ovviamente. Sono tra- scorsi già due anni dalla rivolta degli immigrati di Rosarno contro lo sfruttamento e il razzismo della malavita organizzata. Il procuratore di Reg- gio Calabria, ora a Roma, Giuseppe Pignatone, ha dichiarato che a Rosarno gli affiliati formali alle varie cosche locali nel 2010 erano 250: “Se a tale numero aggiungiamo amici, parenti e cono- scenti, risulta una cifra che si aggira tra i 1.500 e i 2.000 adulti: ciò significa il condizionamento della vita della città dal punto di vista sociale, econo- mico, criminale ed anche politico”, scrive nella relazione alla Commissione nazionale antimafia sull’operazione “Crimine”. Non è un caso che il Comune sia stato sciolto per mafia due volte negli ultimi vent’anni, nel 1992 e nel 2008. Nelle motivazioni della sentenza del processo “Crimine”, concluso con 93 condanne per un to- tale di 568 anni di carcere, si dice per la prima volta che la ‘ndrangheta è una struttura unitaria e verticistica. Non un assembramento di cosche Deborah Cartisano

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Foto di Paolo Ciaberta

numero 126 numero 12

Federica Tourn

Quelle donne coraggioseche sfidano la ‘ndrangheta

Sempre più numerosi in Calabria i casi di ribellione di mogli o figlie di esponenti dei clan. elisabetta Tripodi, minacciata dal boss del paese, è il primo sindaco donna di rosarno. Gli esempi di Liliana Carbone e Deborah Cartisano, che si richiamano ad Antigone

A RosaRno, nel palazzo comuna-le colpito da una sventagliata di mitra durante il governo dello

storico sindaco comunista Giuseppe Lavorato, è entrata una donna. Elisabetta Tripodi ha vinto a sorpresa, la gente è dalla sua parte, alle elezioni le bambine incitavano le madri a votare per lei. Pochi mesi dopo, sulla sua scrivania arriva una raccomandata con ricevuta di ritorno spedita dal carcere di Opera: il mittente è Rocco Pesce, il boss condannato all’ergastolo, che si lamenta di certi provvedimenti presi contro la sua famiglia. Par-ticolare non da poco: la lettera è scritta su carta intestata del Comune. Da quel giorno Elisabetta Tripodi ha una scorta. La porta blindata del suo ufficio, tuttavia, è sempre aperta, chi vuole par-larle non ha bisogno di appuntamento. “Vengono tante donne – racconta – cominciano a lamentar-si dell’acqua che manca e finiscono per sfogarsi con me per i figli o per il marito in carcere. Io per loro sono lo Stato, che finora conoscevano soltanto come esattore fiscale o soggetto di repressione”.

Rosarno ha quindicimila abitanti, un paeso-ne avvitato su una collina che domina la piana di Gioia Tauro: polvere e cemento, qualche vecchio edificio fascista a cui nessuno ha più messo mano da quei tempi, un ospedale costruito nel ‘66 e mai utilizzato, sinistro monumento alla sanità pubbli-ca, dove ora, sotto un sole che spacca, pascolano le pecore. Tutto intorno si vedono le piantagioni di alberi da frutta e più giù, vicino al mare, il polo industriale e il porto. “Questa è una zona fertile e potenzialmente ricchissima ma è sempre stata depredata – mi dice la proprietaria del bed & bre-akfast di San Ferdinando, a cinque chilometri da Rosarno – le fabbriche sono ferme, i depuratori

non funzionano e i trasporti sono discontinui, se non del tutto inesistenti. Ora hanno cominciato a tagliare anche le linee ferroviarie”. Per passare dalla costa tirrenica a quella jonica – 50 chilome-tri – con il treno ci vogliono tre ore e un cambio a Reggio. Ma le autolinee locali non sono migliori: i ragazzi dei comuni vicini che vanno a scuola a Ro-sarno non hanno nemmeno un pulmino a disposi-zione. L’economia illegale dei favori e degli appalti pilotati ha da tempo corroso il tessuto sociale e il resto l’ha fatto la crisi, erodendo quasi ogni forma di imprenditoria sana. Le chiedo se perlomeno c’è turismo: “No, perlopiù solo commessi viaggiatori di passaggio”.

Duecentocinquanta affiliatiChi ci torna, puntualmente, sono gli africa-

ni: quest’anno sono scesi in 1.500 per lavorare a 25 euro al giorno. In nero, ovviamente. Sono tra-scorsi già due anni dalla rivolta degli immigrati di Rosarno contro lo sfruttamento e il razzismo della malavita organizzata. Il procuratore di Reg-gio Calabria, ora a Roma, Giuseppe Pignatone, ha dichiarato che a Rosarno gli affiliati formali alle varie cosche locali nel 2010 erano 250: “Se a tale numero aggiungiamo amici, parenti e cono-scenti, risulta una cifra che si aggira tra i 1.500 e i 2.000 adulti: ciò significa il condizionamento della vita della città dal punto di vista sociale, econo-mico, criminale ed anche politico”, scrive nella relazione alla Commissione nazionale antimafia sull’operazione “Crimine”. Non è un caso che il Comune sia stato sciolto per mafia due volte negli ultimi vent’anni, nel 1992 e nel 2008.

Nelle motivazioni della sentenza del processo “Crimine”, concluso con 93 condanne per un to-tale di 568 anni di carcere, si dice per la prima volta che la ‘ndrangheta è una struttura unitaria e verticistica. Non un assembramento di cosche

Deborah Cartisano

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senza una visione strategica comune, dunque, ma l’organizzazione criminale oggi più forte e pericolosa del Paese, paragonabile addirittura ad Al Qaeda, una mafia globalizzata, leader europea del traffico di stupefacenti, diffusa in tutto il mon-do, cresciuta in presenza dello Stato e non contro di esso, come si è sempre voluto credere. La sola a trattare direttamente con i narcos, tanto per dare un’idea, e la più ricca: una stima dell’Eurispes quantifica il giro d’affari della ‘ndrangheta in 43 miliardi di euro l’anno.

Con una peculiarità: al contrario di quanto si può pensare, le donne hanno grandissimo potere, da sempre sono loro che alimentano la vendetta, istigando i figli a continuare le faide. E quelle che non sono d’accordo sono costrette a subire. La ninna-nanna du malandrineddu, canzone tradi-zionale di queste terre, lo racconta in modo terri-bile e struggente: la mamma culla il bimbo, dicen-dogli che crescerà solo per vendicare la morte del padre. Quelle che hanno il coraggio di ribellarsi,

di parlare, rovesciano il mondo, cambiano l’ordine delle cose, come dimostra la storia recente. Sono ragazze che hanno sempre vissuto dentro l’angu-sto perimetro della famiglia, spose adolescenti senza istruzione e prospettive, ma che con le loro denunce sono riuscite a incrinare la struttura fi-nora impenetrabile della ‘ndrangheta. Lo hanno fatto perché i figli avessero una vita diversa, non segnata dal peso del potere violento e da quella stortura del legame famigliare che viene contrab-bandato per “onore”.

Maria Concetta Cacciola, figlia e moglie di mafiosi legati al clan Bellocco di Rosarno, definito “il comune a più alta densità criminale d’Italia”, parla ed entra nel programma di protezione, ma è costretta a vivere separata dai figli, che riman-gono con la nonna. Lei si consuma di nostalgia, li sente piangere al telefono, le raccontano che vengono maltrattati. Incapace di sopportare que-sto dolore, Concetta fa ritorno a casa, ma è come firmare la propria condanna a morte. Da casa

A sinistra Elisabetta Tripodi, a destra Anna Laura Ortese

A sinistra Liliana Carbone, a destra Anna Carabetta

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non uscirà più: la “suicidano”, facendole bere dell’acido muriatico, le sue grida, raccontano, si sentivano in tutto il paese. Per Giuseppina Pesce, 31 anni, nipote del boss Antonino detto “Testu-ni”, capobastone di uno dei più potenti clan della ‘ndrangheta, stesso copione: la decisione di col-laborare con la giustizia, l’allontanamento dalla famiglia (ma stavolta con i bambini), le pressioni. Lei oscilla, la famiglia la blandisce e la ripudia: Giuseppina cede, poi di nuovo scappa. Non sono riusciti a fermarla. Al processo All Inside contro la ‘ndrina dei Pesce è lei stessa la principale ac-cusatrice: racconta tutto quello che si ricorda, ri-ferisce ogni nome orecchiato tra le mura di casa in tanti anni.

Da queste testimonianze emerge un me-dioevo taciuto ma pervasivo, nel quale i figli sono le leve del ricatto per soggiogare le madri e il divorzio è impossibile senza la protezione dell’autorità giudiziaria: le donne sono il prezzo della “rispettabilità” degli uomini, trofei da esi-

bire all’occorrenza e da distruggere quando non servono più o si ribellano. Come Lea Garofalo, figlia e sorella di malavitosi di Petilia Polica-stro, vicino a Crotone. Lea è bella e intelligen-te, una che fa di testa sua. Appena adolescente scappa con un ragazzo, anche lui nel giro della ‘ndrangheta. Nasce una figlia, ma quando Lea capisce di aver sbagliato è ormai tardi. Se ne va via con la bambina, ma il suo ex la perseguita, finché lei, esasperata, lo denuncia. Comincia la vita da testimone di giustizia, nel 2002, poi anni di inutili peregrinazioni per l’Italia senza la possibilità di lavorare o di crearsi nuovi le-gami. Con il passare del tempo, anche la pro-tezione si fa più debole: a volte la scorta non si presenta, gli assegni di sostegno arrivano in ritardo, nel 2006 il programma di protezione le viene revocata. “Mia sorella è stata abbandona-ta – denuncia oggi la sorella Marisa – lo Stato usa i testimoni, li spreme finché servono e poi li lascia al loro destino: dovevamo addirittura

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mandarle dei soldi da casa per permetterle di sopravvivere”.

A mafia non perduna, odiu e vendetta cova/su tuttu vo cumandàra, ‘a vita de’ genti vo sof-fucàra” canta Francesca Prestia, cantastorie po-polare, nella “Ballata di Lea”. L’ex compagno di Lea, Carlo Cosco, ha aspettato sette anni prima di farla rapire e uccidere, nel novembre del 2009, a Milano, dopo averle teso una trappola; accanto a lei, sul furgone che la trasporta, i bidoni di aci-do che serviranno a sciogliere il suo corpo. Cerca anche di circuire la figlia Denise, che compie 18 anni pochi giorni dopo l’assassinio della madre, regalandole una macchina: ma la ragazza è tosta e, insieme alla zia e alla nonna, si costituisce par-te civile contro il padre nel processo che, lo scorso marzo, lo ha condannato all’ergastolo insieme ai complici. “L’importante è che la sentenza venga confermata anche in Corte d’Appello e in Cassa-zione – sottolinea Marisa Garofalo – te lo imma-gini se escono di galera e tornano in paese?”. E in-tanto Denise è sotto protezione da qualche parte, nessuno sa dove. Il calvario continua.

San Luca, Platì, AfricoLa statale che da Rosarno porta a Locri taglia

una montagna aspra. A un certo punto s’imbocca un lungo viadotto da cui si intravede, in basso, il greto di un torrente asciutto, qualche terrazza di terra coltivata a ulivi, pochissimi casolari. Qui inizia l’Aspromonte, ma è ancora basso, poco im-pervio; un timido simulacro di quel luogo inacces-sibile che diventa più a sud, verso San Luca, Pla-tì, Africo. Fra queste rocce, per sentieri invisibili ma ben presidiati, negli anni ’70 e ’80 sono stati nascosti centinaia di sequestrati. “Appena arri-vavi, capivi subito perché un intero esercito non riusciva a trovarli”, racconta un ex appartenente alle forze dell’ordine. “Un pentito ci segnalò un nascondiglio sulla montagna: spostò una pietra coperta dalla vegetazione e si inoltrò in un buco buio e profondo; non si vedeva nulla, gli andai die-tro strisciando: soltanto dopo diversi metri si arri-vava a una piccola caverna con un anello piantato nel cemento. Non arrivava la luce, c’era appena un filo d’aria; e loro ci tenevano una persona chiu-sa dentro alla catena per mesi”. Come è successo a Lollò Cartisano, nativo di Bovalino, calciatore, poi fotografo, che denunciò coloro che gli aveva-no richiesto una mazetta: una sera, di ritorno dal mare, lo rapiscono insieme alla moglie. Lei viene stordita e lasciata per strada, lui – nonostante il

pagamento di un riscatto – non tornerà più. Il suo corpo verrà trovato soltanto vent’anni dopo, gra-zie a una lettera anonima.

È una terra che non somiglia a nessun’altra e si specchia in un mare splendido e immobile, sponda di Ulisse, approdo di contrabbandieri e prigione di dissidenti politici, qui sbattuti al con-fino ai tempi del fascismo. Finì in esilio a Bran-caleone, per una donna che forse non lo merita-va, anche Pavese, che odiava il mare, “alla riva, tutto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia”. Terra di silenzi e mèta di un pellegrinaggio che si ripete uguale ogni anno, alla Madonna di Polsi, “che non ha nulla di dol-ce, bensì d’imperioso (…) con due occhi bianchi e neri, fissi, che guardano da tutte le parti”, come la descrive Corrado Alvaro. Ma il santuario di Polsi è celebre più che altro per le riunioni dei ‘ndran-ghetisti, che organizzano i loro affari di sangue e di potere (anche la strage di Duisburg pare sia

Qui sopra Marisa Garofalo, nella pagina a fianco Raffaella Rinaldis

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stata decretata qui). Perché si va nel mondo per il businnes ma le radici non si scordano mai. “La Calabria è la mamma, qui si decide tutto”, ha dichiarato il boss Antonino Belnome al processo “Crimine”.

Resta l’offensiva delle donne. Anna Carabet-ta, attrice impegnata sul tema della legalità, ha portato il movimento di “Se non ora quando” a Gerace, dove lo scorso giugno si è tenuto un gran-de raduno nazionale per dare voce a sindache e imprenditrici anti-‘ndrangheta. C’erano, tra le altre, Anna Laura Ortese, presidente di “Io resto in Calabria”, che testimonia di una realtà in cui “il lavoro è una grazia” ma ci si può fare forza fa-cendo rete e rifiutando il pizzo; Raffaella Rinal-dis, che ha appena fondato “Fimmina tv” per dare alle donne calabresi la possibilità di esprimersi; Anna Maria Cardamone, sindaca di Decollatura, che ha dimezzato la spesa per i rifiuti e dice cose come “il coraggio è anche non accettare un caffè al bar”.

“Adesso ammazzateci tutti”A Locri, nella città in cui il vicepresidente re-

gionale Francesco Fortugno è stato ammazzato mentre andava al seggio a votare, dove i ragaz-zi sono scesi in strada dietro un cartello bianco e poi hanno urlato “e adesso ammazzateci tutti”, non è difficile incontrare una maestra in pensione che cammina con la foto del figlio Massimiliano appuntata sul vestito. “Prima mi chiamavano la gattara, poi quella che ci ammazzarono u’ figghio-lu, alla fine quella che ha rovinato una famiglia”. Eccola, Liliana Carbone, fisico minuto, un torren-te di parole ironiche, sarcastiche, di tenerezza e di rimpianto, amante della musica antica e della letteratura: dai classici greci a Wislawa Szymbor-ska, una casa piena di libri letti, pensati e sottoli-neati. La storia di suo figlio fa parte di quell’incre-dibile quotidianità che troppi qui vorrebbero far passare come normale. Una sera di settembre, i ragazzi sono fuori a giocare a calcio; a casa le fi-nestre sono aperte, c’è ancora l’aria dolce di fine estate. All’improvviso, il rumore inconfondibile di un colpo di lupara: “La macchina dei figlioli”, balbetta il padre. È un attimo: precipitarsi per le scale, vedere, capire. Massimiliano a terra, il fra-tello Davide illeso e sotto choc.

Liliana vive ancora nella stessa casa; cura il cane del figlio, nutre i gatti randagi; sulle pietre insanguinate ha messo fiori. Ma non vi ingannate, non c’è cedimento in lei, né resa al destino: “Non

Francesca Prestia

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sono una prefica d’Aspromonte”, dice. Massimilia-no era appena un ragazzo, innamorato della don-na sbagliata, già sposata e con figli; resta incinta, lui prova a convincerla a lasciare il marito, lei si tira indietro; lui non dimentica il bambino, vuole il riconoscimento della paternità e a quel punto lo fermano. “La morte è la curva della strada”, come direbbe Pessoa, uno degli scrittori amati da sua madre.

Liliana si è incatenata al Palazzo di Giusti-zia, per avere una risposta dallo Stato; nei giorni festivi, perché in quelli feriali andava a scuola, a lavorare. Dopo che l’omicidio di Massimiliano è stato (molto frettolosamente) archiviato, lei ha un solo pensiero: proteggere il nipote, dimostrare che è figlio di suo figlio. Di qui anni di udienze e pe-rizie, il corpo viene anche riesumato su richiesta degli indagati, ma alla fine la verità viene a gal-la: il bambino è figlio di Massimiliano. È questo il primo caso in Italia di riconoscimento ottenuto post mortem del genitore. “Cristo in confronto s’è fatto una passiata”, commenta oggi. Non le piace essere definita “madre coraggio”. “Non lo sopporto – si ribella Liliana – Ma lo hanno letto, Brecht?”. La sua lotta non è ancora finita. Sulla tomba del figlio c’è un verso di Ezra Pound: “Quello che ho amato è la mia vera eredità”. Ed è questo che aspetta di dire a suo nipote, quando finalmente potrà incontrarlo: che è stato voluto, e amato.

Sia Liliana che Deborah Cartisano, la figlia di Lollò, si richiamano ad Antigone: nel rivendi-care il diritto di seppellire i loro morti rifiutano il silenzio. “Almenu ppe mia figghja ncuna cosa ha da cangiàra / A iddha nci dugnu a vita cchi a mia non po’ tornara”, fa dire a Lea la cantasto-rie Francesca Prestia. Lo stesso sentimento lo ha provato Giuseppina Pesce: dicono che abbia scritto una ninna nanna per la sua bambina, del tutto diversa da quella del malandrineddu, una ninna nanna di libertà, che Francesca metterà in musica appena possibile. La figlia di otto anni di Deborah ha due enormi occhi blu e una gran fret-ta di andare al mare con la sua amichetta; quello che cercava Massimiliano era, dice sua madre Liliana, “una vita normale”. Marisa Garofalo ha allevato tre figli ormai grandi, di cui è orgoglio-sa perché hanno rifiutato la malavita. Vogliono tutte rimanere nella loro terra, queste donne. Ti chiedi perché, poi pensi a Deborah Cartisano, che da Londra è tornata a vivere a Bovalino con il marito inglese: “Lo diceva sempre, mio padre: se tutti vanno via, chi resterà in Calabria?”.