NATA IL 19 LUGLIO

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Lo sguardo dolce dell'antimafia. Due occhi azzurri. Dolci e magnetici. Che diventano negli anni il simbolo di un'altra Sicilia. Che demoliscono con semplicità disarmante lo stereotipo di un'antimafia intollerante e vendicativa. La storia di una donna straordinariamente normale. Che fino al 19 luglio 1992 pensava di volere, potere e dovere essere solo una moglie, una madre, una farmacista. La storia di un'intransigente gentile che si racconta con commovente sincerità, dimostrando come dai sentimenti feriti possa nascere un'idea alta e originale di politica. Una storia che sboccia per contrappasso sul fondale degli anni bui e rimbombanti di stragi della fine del Novecento italiano. E che in nome dei giusti, da anni, ci consegna ogni giorno la stessa parola: speranza

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Sono Rita Borsellino, sorella di Paolo. Sono nata il 2 giu-gno 1945 e sono rinata il 19 luglio 1992. Voglio dirlo subito:anche se mi impegno in politica con il mio nome e non conquello di mio fratello, la storia che ho vissuto negli ultimi 14anni e che adesso metto a disposizione esiste proprio perchéPaolo non c’è più. Forse sarei ancora chiusa tra le mura dicasa a vedere che cosa capita fuori se non fosse successo quelche è successo.

Lo so, ad alcuni dà fastidio. E c’è chi dice cose ovvie: «Ilmondo è pieno di persone geniali o eroiche che hanno figli ofratelli cretini: il cognome non dà diritti a priori, tutt’altro». Ec’è chi scrive cose tremende: «Usare il cadavere di un fratel-lo ammazzato per accreditare una propria capacità politica èfuori da ogni canone democratico, e forse anche morale».Preferisco rispondere a chi ha criticato la mia scelta afferman-do una cosa molto giusta: «Paolo Borsellino è un patrimoniodi tutti». Appunto, ma se è un patrimonio di tutti bisogna assu-

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1.Via D’Amelio. La fine e l’inizio

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merlo con coerenza, bisogna metterlo in pratica e non sban-dierarlo a parole e tradirlo nei fatti.

Io credo di averlo assunto con coerenza.

Loro non sanno che cosa succede quando sei nella tua casaal mare, a Trabia, trenta chilometri da Palermo, e alla televi-sione senti che tuo fratello è stato ucciso da un’autobomba earrivi lì e ti sembra di essere dentro a un film, le auto che bru-ciano, quattro palazzi divelti, 174 appartamenti inagibili, e latua casa non c’è più, e tuo fratello non c’è più. O quando,come capitò a Saveria Antiochia il 6 agosto 1985, sei a Roma,stai stirando, e alla radio senti il nome del commissario NinniCassarà ucciso con un agente di scorta e capisci d’istinto chequel poliziotto senza nome è tuo figlio Roberto, e non haibisogno che ti raccontino che è morto subito cercando col suocorpo di proteggere il capo, lo sai già.

Io so che cosa avviene, ne ho parlato tante volte conSaveria, che non si è lasciata annientare da questo dolore masi è messa a chiedere giustizia con una forza e una serenitàeccezionali: ti senti “obbligato”, non nei confronti degli altrima per un debito che contrai con la persona a cui hai volutobene.

Dopo questi fatti non possiamo più tirarci indietro.Subentra un meccanismo strano, un meccanismo che ti dà unaforza straordinaria. Il dolore c’è, è forte, è violento, ma si tra-sforma in una forza che ancora una volta è la forza dell’amo-re: non ho esitazioni a usare questo termine, perché di questosi tratta. Perché quello che ci spinge, che spinge tanti familia-ri delle vittime della violenza a mettersi in gioco, a mettersi incammino, a partire subito dopo (anche se prima non si è fatto

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niente) è voler incontrare gli altri per cercare di comunicarequalcosa, per cercare di costruire qualcosa, per dare un sensoal sacrificio dei propri cari. È amore, è voglia di far continua-re quello che loro stavano facendo. Paolo, Roberto lavorava-no per la giustizia, per la legalità, e tu ti dici: «Ma è mai pos-sibile che soltanto perché qualcuno ha pensato di poterli fer-mare pigiando sui tasti di un telecomando, schiacciando ilgrilletto di un kalashnikov, questo possa cancellare la lorocarica vitale, la loro carica di amore, di emozioni, di valori,tutto quello per cui hanno voluto sacrificare la loro vita?».Perché Paolo, Roberto e tutti gli altri sapevano di andareincontro a questo. Paolo non diceva: «Se un giorno miammazzeranno», Paolo diceva: «Quando un giorno miammazzeranno», con la consapevolezza che ciò che faceva,così come lo faceva, lo avrebbe portato a trovare una morteviolenta. Ma lo aveva accettato. Lo aveva accettato perchénon aveva scelta, non poteva venire meno a quelli che erano isuoi ideali, il suo credo, il suo amore per gli altri, il suo amoreper la giustizia, non poteva scendere a compromessi, non soloper gli altri ma per se stesso, per la sua coscienza.

Scatta questo meccanismo per cui tu pensi proprio questo:«Ma devo dargliela vinta? Ma è possibile che dobbiamo dar-gli ragione? Li hanno ammazzati e non c’è più nulla, non restapiù nulla di Paolo Borsellino, di Roberto Antiochia, di tuttiquelli che sono morti così? È mai possibile che non debbarestare più nulla?». Allora ci si mette in cammino, ci si mettein gioco, per cercare di trasmettere quello che noi abbiamovissuto intensamente e dolorosamente negli anni in cui tuttoquesto si è preparato e nel momento in cui poi questa morte siè materializzata.

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E si comincia ad andare, si comincia a incontrare persone,si comincia a sentire, come diceva Paolo, «la bellezza del fre-sco profumo di libertà». È proprio vero, è il silenzio chepuzza, la complicità, anche soltanto la contiguità, anche sol-tanto il girare la testa dall’altra parte, è quello che puzza dimorte. La libertà, la voglia di giustizia hanno un profumo bel-lissimo che ti contagia, di cui non puoi più fare a meno. Seincontri gente e senti che chi ti incontra condivide, che chi tiincontra è con te, che è solidale, che si sensibilizza probabil-mente per una parola che tu non sai neanche che effetto possaottenere, per un sorriso, per una stretta di mano, se tu sai chequesto accade e può accadere e può accadere ancora, sai cheregali momenti di vita alla persona che non c’è più, la tieni invita, la fai palpitare ancora, fai in modo che l’ideale per cui èmorta rimanga vivo e si moltiplichi e si sviluppi in ogni nuovapersona che incontri.

Questo ti dà un senso quasi di liberazione, ti libera dallavoglia di cedere al dolore, alla disperazione, ti aiuta a sentiremeno la mancanza fisica della persona a cui hai voluto bene,perché chiunque ti abbracci o ti stringa la mano o ti dica unaparola di solidarietà è come se ti restituisse un po’ dell’affet-to della persona che hai perso.

Per te diventa una necessità, diventa un impegno di vita ese devi dire di no a qualcuno che ti chiede di parlare ti senti incolpa e dici: «Ma che diritto ho io di restarmene chiusa nellamia stanchezza, nel mio dolore, nei momenti di scoraggia-mento, che diritto ho io se c’è qualcuno che vuole ascoltare,che vuole condividere, che vuole capire e che mi chiede difarlo insieme? Io non posso dire di no. I nostri cari non si sono

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mai tirati indietro, mai, neanche davanti alla morte, che dirit-to abbiamo allora noi di tirarci indietro?».

Di fronte alle tante cose che sono successe in questi anni,alle disillusioni, ai passi indietro, ai tanti “ma chi te lo fa fare”,qualche tentazione mi è venuta. Ma darei ragione a loro, sareb-be offendere Paolo e far morire il suo progetto, un progetto cheera più grande di lui, un progetto al cui servizio si era messo,un progetto straordinario di vita, di amore, di comunione congli altri, un progetto di giustizia, di uguaglianza, di legalità.

Fortunatamente quando un poliziotto muore, quando unmagistrato muore c’è sempre qualcuno che prende in mano eporta avanti i suoi ideali, la sua tensione morale. La famosafrase di Giovanni Falcone «Le nostre idee camminerannosulle gambe di altri» è forse solo uno slogan? Sbagliava forseRoberto Antiochia a mettere la benzina con i suoi soldi nel-l’auto di servizio per fare un pedinamento? Sbagliava Paolo amoltiplicare il suo impegno anche e soprattutto dopo la mortedi Falcone, che considerava il suo scudo?

Se ti senti parte di questo progetto devi fare qualche cosa.Io sono stata presa in questo ingranaggio della società civileche si era risvegliata. E per me, chiusa, timida, riservata quasia livelli patologici, è stato particolarmente difficile. La rabbiaè una molla che è scattata anche per me, ma al rallentatore.

In via D’Amelio, lo confesso, io avevo voltato le spalle.Quando una cosa è troppo difficile da accettare, una forma diautodifesa è rifiutarla. Lo so, è una reazione infantile.Rifiutare come modo per non affrontare la realtà.

Ho avuto la fortuna di avere accanto la mia famiglia. I mieiragazzi sono stati più razionali, hanno avuto più forza. Marta,

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la mia figlia più piccola, ha voluto guardare suo zio lì perterra. Claudio, il maggiore, sentendomi dire «Non ci vogliopiù tornare qui» mi ha preso per le spalle, mi ha scosso e hadetto: «No, dobbiamo restare qui perché questo ormai è unluogo sacro».

Che contrasto fra la mia reazione infantile e la loro reazio-ne matura! Quello fu il momento decisivo, mi vergognai e poipian piano mi guardai attorno e questo mi permise di vederequello che c’era di positivo e di trovare la forza di tornare avivere proprio lì, di tornarci il prima possibile. E, da allora, dipassare ogni giorno davanti al portone dove c’era il cratere, inquello che è un luogo della memoria.

Solo 57 giorni prima c’era stata la strage di Capaci, con lamorte di Giovanni, di sua moglie Francesca Morvillo e degliagenti Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. Lagente era ancora scossa ma chi aveva un po’ più di esperien-za percepiva che si stava già fermando tutto, anche se c’eranostati quei funerali così intensi, con Rosaria Schifani, giovanis-sima vedova con un bambino di 5 mesi, che aveva chiesto giu-stizia sussurrando: «Io vi perdono ma vi dovete mettere inginocchio». Una sorta di rassegnazione stava riprendendo ilsopravvento e si diceva «non cambierà mai niente». Poi ci ful’attentato a Paolo, che chiaramente era la vittima designata.Lo sapeva lui e lo sapevano tutti. E in una manifestazione allaBiblioteca comunale, il 25 giugno, ne aveva parlato lui stessoe i presenti erano rimasti colpiti, allarmati, gli si erano visibil-mente stretti intorno per mostrargli di essere vicini. Ecco, aquella gente sembrava che questa persona fosse stata mandataa morire.

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Chiedersi come fosse stato possibile organizzare un atten-tato con tanta facilità, perché non c’era alcun deterrente nel-l’unico luogo dove Paolo andava regolarmente per trovarenostra madre, fece montare ancora di più la rabbia. Capisco lasensazione che ha portato i ragazzi di Locri a scrivere su unostriscione: «E adesso ammazzateci tutti». Era quella la sensa-zione che si provava. Tutti si sentivano abbandonati se persi-no il più esposto, quello che si sapeva essere nel mirino, nonera stato difeso neppure con il semplice accorgimento di met-tere una zona rimozione in via D’Amelio.

Io quei giorni semplicemente non li ho vissuti, non hovisto la tivù né letto i giornali. Solo dopo ho saputo dei corteispontanei che andavano in prefettura a cercare delle risposte edi quella fortissima presenza davanti al Palazzo di Giustiziadurata due giorni e due notti. La gente si stringeva intorno aquei morti, perché i morti erano l’unico punto di riferimento.Facevano la fila per ore, e poi c’era chi si rimetteva in fila, conla stessa presenza cosciente e appassionata che poi ho rivissu-to con la camera ardente dei soldati di Nassiriya.

In mille discussioni, si cercava il perché e ci si chiedeva:«E adesso che facciamo?». Ci fu una vera rivolta popolare,per i funerali c’era la cattedrale presidiata da poliziotti venutida fuori Palermo che dovevano impedire ai palermitani di par-tecipare ma poi non riuscivano a non fraternizzare: mi hannoraccontato scene strazianti, del capo della Polizia quasi pic-chiato, dei fischi agli uomini delle istituzioni che si eranodimostrati inefficaci e inefficienti.

Ho davanti agli occhi delle immagini che, un po’ come fos-sero tessere di un mosaico, compongono la mia svolta, una

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presa di coscienza che si trasformava gradatamente in impe-gno. Pian piano, trovandomi davvero nuda di fronte a questasituazione, perché non avevo neppure la mia casa-guscio aproteggermi e quindi ero costretta a guardare fuori, mi sonoconfrontata con una città che era ben diversa da quella che ioero abituata a vedere e a giudicare negativamente. Ricordavouna città estranea a quello che accadeva, rassegnata se nonaddirittura complice dell’illegalità e invece, trovandomi inmezzo alla gente, senza possibilità di proteggermi in nessunmodo, mi resi conto che la città mostrava ben altro, reagiva inmaniera forte, violenta, decisa, chiara.

La prima immagine è quella di un manifesto delle “Donnedel digiuno”: su me, che ero sempre stata molto distante daifatti della realtà siciliana, osservatrice attenta ma distaccata,ebbe un impatto notevolissimo.

Nei primi giorni dopo l’attentato mi ero sistemata a casadei miei suoceri anche perché da un momento all’altro avreb-bero dovuto permetterci una rapida visita nel nostro apparta-mento devastato e ancora pericolante, solo per recuperare lecose essenziali. Per me quell’attesa si sarebbe rivelata inutile:la prima volta che entrai in casa rimasi immobile a guardarequella che non era più la mia casa. I vigili del fuoco mi solle-citavano a fare in fretta perché c’era pericolo di crolli. Inmezzo ai calcinacci mi guardavo attorno sbalordita, vedevoviolentata la mia vita privata, riuscii solo a prendere da terraun soprammobile e a sistemarlo sulla scrivania posta sotto lafinestra che guarda il Monte Pellegrino. In qualche modo,volevo mettere a posto. Mio marito mi portò via.

Dunque, un giorno, uscendo dal portone della casa dei suo-ceri, vidi questo manifesto delle donne del digiuno e non so

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perché mi soffermai a lungo. Lo lessi e rilessi. Mi impres-sionò tantissimo, mi emozionò. Forse perché erano donne,forse per la forma di protesta che portavano avanti:«Digiuniamo perché abbiamo fame di giustizia» dicevano.

Questa cosa mi incuriosì e mi coinvolse positivamente per-ché di solito e fino ad allora le proteste erano state più chealtro generiche lamentele. E invece loro dicevano con chia-rezza cosa c’era di sbagliato ma soprattutto che cosa voleva-no: devono andare via quelli che riteniamo responsabili alme-no di omissione nella protezione di quest’uomo, via il capodella polizia, via il Procuratore della Repubblica, via il prefet-to, il questore… Così prestai attenzione a questo movimentoche si andava delineando.

Ho saputo dopo che in Piazza Politeama, nel cuore diPalermo, c’era una tenda dove non solo si faceva lo scioperodella fame ma si prendevano adesioni per allargare questodigiuno a staffetta. Era una presa di coscienza collettiva, ci siscambiavano le impressioni, le prospettive, si pianificavaquello che si doveva fare. Palermo doveva essere vuota perl’estate e invece ho avuto molte conferme che parecchie per-sone, anziché scappare via, erano tornate dalle vacanze, stava-no in piazza, sentivano il bisogno di presidiare questa città: lamafia è anche controllo del territorio e io credo che lì, per laprima volta, gli onesti volessero riprendere il controllo del ter-ritorio. Dopo la morte di Falcone ognuno era tornato alle pro-prie abitudini, invece in quell’estate la gente pensava didoversi occupare personalmente del proprio futuro.

La seconda immagine riguarda il funerale di Paolo, che pergiusta scelta di mia cognata e dei suoi figli, furono privati:

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non contro le istituzioni ma per rispetto di quel popolo a cuiormai Paolo apparteneva, che lo ha abbracciato nella cameraardente, che aveva provato a proteggerlo con l’affetto dimo-strato nelle uscite pubbliche precedenti l’attentato.

Ai funerali di Paolo mi sono accorta di quanto una follaenorme sentisse la nostra tragedia come un fatto proprio.Piangevano e lo chiamavano per nome e lì per lì io provai unaforma di gelosia, questo nome scandito da tutti mi turbò.Pensavo: «Ma perché lo chiamano Paolo?». Ho capito dopoche era il segno di ciò che questo magistrato era stato per loroe di quello che avrebbe potuto essere.

Lo ripeto: ero un’osservatrice critica, sono sempre statamolto netta nell’individuare e criticare le cose che non mi pia-cevano, ma non sono mai stata propositiva, pensavo di dove-re e potere occuparmi soltanto del mio lavoro e della miafamiglia.

Poi, certo, c’era Paolo con il suo lavoro e le sue scelte checondividevo, anche il fatto di esporsi: lui l’aveva fatto accet-tare a sua moglie Agnese e ai suoi figli, e anche a noi. Lo vive-vamo tutti come un grande peso, ma silenziosamente, consa-pevoli che l’unico modo per aiutarlo era fargli sentire il nostroaffetto. Ricordo mia madre che diceva: «Non facciamoglivedere che abbiamo paura perché altrimenti gli rendiamo lecose più difficili, dobbiamo fargli vedere che lo sosteniamo».E lo abbiamo sostenuto fino all’ultimo sapendo esattamente irischi che correva: per lui sarebbe stato più doloroso continua-re a farlo (perché l’avrebbe comunque fatto) sapendo che noidi questo soffrivamo.

Mi ricordo che qualche giorno dopo la morte di Giovanni,in famiglia ci siamo confidati il timore che potesse succedere

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anche a lui: a quel tempo, ne parlavano tutti. Mia madre ebbela tenerezza di prendermi da parte e di dire: «Parliamone solofra di noi».

Ecco, se devo trovare un momento che segnò il mio cam-biamento, ripenso al funerale: ricordo quando uscimmo dallachiesa, protetti dalle transenne sotto un sole terribile, una follaenorme ferma sui gradini della chiesa piangeva e lo chiamavaper nome.

Per tutta la vita io ero stata con gli occhi bassi, è semprestata la mia abitudine, non guardavo in faccia le persone: lì,invece, mentre passavamo, mi guardavo attorno, avevo biso-gno di capire, stavo vivendo una situazione troppo più grandedi me, un pezzo di Storia… E guardavo, guardavo da una partee dall’altra, guardavo le persone e a un certo punto al passaggiodella bara di Paolo molti facevano il gesto della vittoria.

Io mi vergognavo ma avvertii profondamente questa esi-genza: e quasi di nascosto, con la mano giù e solo per me,spontaneamente feci il gesto di vittoria. Forse non stavamovincendo noi, ma loro non avevano vinto: li avevano ammaz-zati ma non era quello il momento in cui si potesse dire «lamafia ha vinto». Chi stava vincendo, in quel momento, eranoquelle migliaia di persone, erano i palermitani che stavanoreagendo.

La mia prima, piccola vittoria è stata tornare appena possi-bile a vivere in via D’Amelio. Ci sono riuscita anche grazie aun piccolo imprenditore, un mastro che aveva fatto dei lavoria mio fratello sia a casa sia nella villa al mare. Un giorno mitelefonò in farmacia e, superando la mia diffidenza, mi invitòa chiedere referenze a mia cognata intimando: «A casa sua i

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lavori devo farli io». Questo atteggiamento quasi mi diedefastidio, dissi che mio marito li aveva già assegnati ad altri…«Io non sapevo neanche che il dottore Borsellino avesse unasorella, ma l’ho sognato e mi ha detto: devi rifare la casa a miasorella. Ho questo debito nei confronti del dottore PaoloBorsellino che mi ha sempre trattato come un figlio. Si facciadire la cifra e io farò comunque di meno. E qualunque cosa sidebba fare, ci metterò meno di un mese». Lavorarono giornoe notte e consegnarono la casa con tanto di carta da paratientro un mese.

Vivere in un luogo ormai simbolico significava vedereogni giorno nuovi fiori e nuovi messaggi. Nei primi tempi leragazze portavano i loro bouquet da sposa a Emanuela Loi.Cagliaritana di Sestu, è venuta qui a morire a 24 anni, lei chenon ci voleva neanche entrare in polizia. Aveva il diploma dimaestra, la sorella la convinse a fare il concorso insieme, unanon passò e l’altra sì. Proteggeva la moglie di Libero Grassi,ucciso perché non pagava il pizzo, e cinque giorni prima del19 luglio la assegnarono a Paolo. «Sono io che devo proteg-gere te dalle attenzioni dei tuoi colleghi» disse lui con unarisata. E invece… la sua mano, con la pistola, è stata trovataal quinto piano.

Ma questo luogo divenne ancora di più simbolico perchéqui tornò a vivere nostra madre. Appena la ritrovai dopo lastrage mi chiese di andare a cercare i famigliari degli uominidella scorta: ha vissuto gli anni che le sono rimasti con unforte senso di colpa, perché Paolo stava venendo qui per lei.E proprio lei ha voluto, per il primo anniversario, che quifosse piantato un ulivo proveniente da Betlemme, un albero

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che considerava una creatura viva: aveva sempre paura che glifacessero del male, la mattina si affacciava, guardava l’ulivoe si faceva il segno della croce.

Allora, le tante persone che facevano cose belle, che cerca-vano fortemente una possibilità di incidere, che si erano orga-nizzate, presero a considerare un gesto normale venire a salu-tare mia madre. E il cerchio si allargava sempre di più davan-ti a lei, seduta nella poltrona d’angolo. C’era il meglio dellasocietà civile palermitana, persone davvero forti, persone cheio ho intorno ancora oggi: il Comitato dei lenzuoli, le Donnedel digiuno, quelli dell’Antimafia, l’Arci, il Centro PeppinoImpastato…

Venivano a portare a mia madre il messaggio forte di unaPalermo impegnata, raccontavano gli incontri avuti conPaolo, ricordavano la serata alla Biblioteca comunale, quellatorrida, drammatica sera di giugno che fu il momento piùforte, fino ad allora, dell’antimafia palermitana.

In quei giorni, per evitare a Paolo di uscire, io e mio mari-to portavamo la mamma a casa sua. Quella sera Paolo si ritiròstanco, dopo una giornata intensissima, si mise in pantalonci-ni e ciabatte. Era teso, triste. Arrivò una telefonata dell’avvo-cato Alfredo Galasso che gli diceva: «Ti stiamo aspettando».Si era completamente dimenticato l’appuntamento! Paolochiuse il telefono dicendo di essere troppo stanco, si mise atavola ma non mangiava; poi disse a nostra madre: «Ti dispia-ce se ci vado?». Mi ricordo che io lo incoraggiai: vai, tanto tiaspettiamo qui. Quando uscì ci venne in mente di vedere seper caso qualche televisione locale trasmetteva la diretta. Conme c’era Agnese e il suo discorso visto in tivù ci colpì:«Questi elementi che io porto dentro di me debbo per prima

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cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria: l’unica ingrado di valutare quanto queste cose che io so possono essereutili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vitadi Giovanni». Fu troppo particolare ciò che disse e il tono equel cercare le parole: a quel punto ci siamo guardate congrande angoscia. Sono convinta che quella frase abbia quan-tomeno accelerato la decisione di un attentato.

Tutte quelle persone, comunque, venivano a raccontare lecose che organizzavano e che avevano in mente di organizza-re. Io mi sentii parte di quel percorso, anzi pian piano mi misianche a organizzare, insieme a questi amici, il percorso.

E pensare che in tutta la mia vita, la prima manifestazionepubblica alla quale avevo partecipato, turbata e a malincuore,e solo per non dire di no a Paolo, era stata la fiaccolata e laveglia nella chiesa di San Domenico. Era il trigesimo diFalcone. Davanti a migliaia di scout, mio fratello fece unasorta di omelia che trasmetteva la sua voglia impetuosa diverità e giustizia: «Nessuno… ha perso il diritto, anzi il dove-re sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nellacarne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, lenostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi».Quando concluse dicendo che dovevamo dimostrare «a noistessi e al mondo che Falcone è vivo», una ragazza, in piedisu un banco dietro di me, in fondo alla chiesa, mentre battevale mani disse: «Ma chi è quest’uomo?». Io, istintivamente,feci una cosa che forse le poté sembrare sciocca ma per me eraimportante. Mi girai e dissi: «È mio fratello».

Sì, ma dopo la sua morte che cosa potevo fare io? Io cheero così timida da non riuscire nemmeno a parlare, se non con

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i clienti della farmacia che chiedevano qualche consiglio?Accadde che nel settembre ’92, alla riapertura delle scuo-

le, mi telefonò una maestra che in passato aveva avuto in clas-se una delle mie figlie. Raccontò di aver trovato bambini trau-matizzati, alcuni avevano avuto la casa distrutta, tanti aveva-no paura; disse che doveva in qualche modo fargliela elabora-re questa paura.

Forse mi ha scosso il fatto che fossero bambini così picco-li… ho detto sì, vengo io a parlare con loro. Ma poi dicevo: eadesso che cosa dico? Quando arrivai lì mi guardavano congli occhi spalancati: sarà stata una tentazione di proteggerli,sarà stato istinto materno, ma mi venne spontaneo (e ringra-zio Dio di questa spontaneità a cui mi abbandonai in quelmomento) cominciare a raccontare gli episodi di quando era-vamo bambini, delle monellerie che Paolo faceva, del fatto chefosse molto vivace, di quando mia madre lo voleva punire e luiandava ad abbracciarla e le dava i morsetti sulle guance...

I bambini cominciavano a conoscerlo, si capiva che desi-deravano conoscerlo come persona e non come giudice e lofacevano con le domande della loro età: qual era il suo giocat-tolo preferito, se aveva un cane… Piano piano li portai al suoimpegno, a quello che voleva fare. Spiegai che i prepotentinon volevano lasciarglielo fare e avevano fatto questa cosaterribile portando danno a tante persone.

Alla fine uno mi disse: «Possiamo chiamarlo zio Paolo?».

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