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NUMERO 13: DOPO LA PROSA. POESIA E PROSA NELLE SCRITTURE CONTEMPORANEE Editoriale di Italo Testa 3 IL DIBATTITO FUOCHI TEORICI Andrea Cortellessa 8 Paolo Giovannetti 13 Simone Giusti 18 Ron Silliman 21 Paolo Zublena 43 PERCORSI ITALIANI Giorgio Manganelli di Filippo Milani 50 Goffredo Parise di Giulia Rusconi 60 Giampiero Neri di Victoria Surliuga 66 Elio Pagliarani di Luigi Ballerini 68 Antonio Porta di Tommaso Di Dio 73 Giovanni Raboni di Concetta Di Franza 81 Eugenio De Signoribus di Rodolfo Zucco 89 Valerio Magrelli di Federico Francucci 103 Aldo Nove e Tommaso Ottonieri di Gian Luca Picconi 123 Roberto Piumini di Milva Maria Cappellini 136 Un excursus sul Novecento di Plinio Perilli 142 IN DIALOGO Alfonso Berardinelli 158 Gherardo Bortolotti 160 Franco Buffoni 162 Anna Maria Carpi 165 Maurizio Cucchi 167 Umberto Fiori 172 Marco Giovenale 174 Andrea Inglese 180 Angelo Lumelli 183 Guido Mazzoni 190 Laura Pugno 195 Fabio Pusterla 198 Andrea Raos 201 Flavio Santi 203 Giuliano Scabia 207 IDEE DELLA PROSA Giorgio Agamben 211 Alfonso Berardinelli 213 Umberto Eco 218 SCENARI EUROPEI Gianfranco Contini 230 Ermanno Krumm 240 Giovanni Nadiani 247 AL DI LÀ DEI GENERI Jérôme Game 264 Jean-Marie Gleize 267 Christophe Hanna 271 GAMMM 274 GLI AUTORI LETTURE Franco Arminio 278 Nanni Balestrini 280 Mario Benedetti 283 Paolo Colagrande 284 Luigi Di Ruscio 286 Gabriele Frasca 289 Giuliano Guatta 290 Giancarlo Majorino 293 Francesco Osti 298 Luisa Pianzola 300 Rosa Pierno 302 Stefano Raimondi 304 Andrea Sartori 306 Giovanni Tuzet 310 I TRADOTTI Jorge Esquinca tradotto da Damiano Abeni 316 Durs Grünbein tradotto da Daniele Vecchiato 323 Barbara Köhler tradotta da Daniele Vecchiato 327 Sophie Loizeau tradotta da Paola Cantù 334 Ramón García Mateos tradotto da Matteo Lefèvre 339 Plauto tradotto da Roberto Piumini 347 Francis Ponge tradotto da Italo Testa 349 Gustave Roud tradotto da Pierre Lepori 350 Mark Strand tradotto da Damiano Abeni e Moira Egan 356

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NUMERO 13: DOPO LA PROSA. POESIA E PROSA NELLE SCRITTURE CONTEMPORANEE

Editoriale di Italo Testa 3

IL DIBATTITO

FUOCHI TEORICI

Andrea Cortellessa 8 Paolo Giovannetti 13

Simone Giusti 18

Ron Silliman 21 Paolo Zublena 43

PERCORSI ITALIANI

Giorgio Manganelli

di Filippo Milani 50

Goffredo Parise

di Giulia Rusconi 60

Giampiero Neri

di Victoria Surliuga 66

Elio Pagliarani

di Luigi Ballerini 68

Antonio Porta

di Tommaso Di Dio 73

Giovanni Raboni

di Concetta Di Franza 81

Eugenio De Signoribus

di Rodolfo Zucco 89

Valerio Magrelli

di Federico Francucci 103

Aldo Nove e Tommaso Ottonieri

di Gian Luca Picconi 123

Roberto Piumini

di Milva Maria Cappellini 136

Un excursus sul Novecento

di Plinio Perilli 142

IN DIALOGO

Alfonso Berardinelli 158

Gherardo Bortolotti 160 Franco Buffoni 162

Anna Maria Carpi 165

Maurizio Cucchi 167

Umberto Fiori 172

Marco Giovenale 174

Andrea Inglese 180

Angelo Lumelli 183 Guido Mazzoni 190

Laura Pugno 195

Fabio Pusterla 198

Andrea Raos 201

Flavio Santi 203

Giuliano Scabia 207

IDEE DELLA PROSA

Giorgio Agamben 211 Alfonso Berardinelli 213

Umberto Eco 218

SCENARI EUROPEI

Gianfranco Contini 230 Ermanno Krumm 240 Giovanni Nadiani 247

AL DI LÀ DEI GENERI

Jérôme Game 264 Jean-Marie Gleize 267 Christophe Hanna 271 GAMMM 274

GLI AUTORI

LETTURE

Franco Arminio 278 Nanni Balestrini 280

Mario Benedetti 283

Paolo Colagrande 284 Luigi Di Ruscio 286

Gabriele Frasca 289

Giuliano Guatta 290 Giancarlo Majorino 293

Francesco Osti 298

Luisa Pianzola 300

Rosa Pierno 302

Stefano Raimondi 304 Andrea Sartori 306 Giovanni Tuzet 310

I TRADOTTI

Jorge Esquinca

tradotto da Damiano Abeni 316

Durs Grünbein

tradotto da Daniele Vecchiato 323

Barbara Köhler

tradotta da Daniele Vecchiato 327

Sophie Loizeau

tradotta da Paola Cantù 334

Ramón García Mateos

tradotto da Matteo Lefèvre 339

Plauto

tradotto da Roberto Piumini 347

Francis Ponge

tradotto da Italo Testa 349

Gustave Roud

tradotto da Pierre Lepori 350

Mark Strand

tradotto da Damiano Abeni e Moira Egan 356

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EDITORIALE

DOPO LA PROSA. POESIA E PROSA NELLE SCRITTURE CONTEMPORANEE

Quale idea della prosa si fa avanti nella letteratura contemporanea attraverso forme di scrittura che

sfuggono alle classificazioni tradizionali? E che cosa è, o cosa sarà una poesia che venga dopo la

prosa?

Se il fenomeno che ha portato la poesia verso la prosa – l‘avvicinamento asintotico del

verso alla prosa – è stato variamente indagato nella tradizione novecentesca italiana, resta tuttavia

da esplorare un più ampio orizzonte in cui prosa e poesia interagiscono, si rimescolano, subiscono

contraccolpi reciproci, andando in direzioni del tutto differenti dalla mera torsione prosastica della

poesia attraverso l‘immissione controllata di elementi dialogici, colloquiali, radenti.

Sono necessari allora nuovi viaggi di scoperta, volti a mappare sia le forme già codificate in cui la

poesia si presenta dopo la prosa (prosimetro; poema in prosa; poema narrativo, frammento lirico),

sia gli esiti che danno luogo a forme non classificabili secondo i generi tradizionali, e non

interpretabili secondo una idea meramente prosastica della prosa o meramente lirica della poesia. Si

apre qui un vasto fronte di esperimenti ibridi che includono forme di prosa non prosaiche, prose

sperimentali, prose in prosa… Un campionario di oggetti non identificati, a cavallo tra i generi,

coinvolti in un processo di ridefinizione della lingua e delle sue forme che sembra reinterrogare

radicalmente, e insieme, sia la nostra idea della poesia sia la nostra idea della prosa.

Non è a un partito preso della prosa – quasi si trattasse di stabilire un‘ulteriore storia

progressiva e lineare di oltrepassamenti – cui aderiamo promuovendo questa indagine. Il numero 13

de L‟Ulisse prosegue piuttosto le esplorazioni sulle metamorfosi delle forme poetiche

contemporanee dedicate nei numeri scorsi al teatro di poesia e alla lirica. Non è nemmeno scontato

che l‘esito del rimescolamento in atto non siano proprio forme di scrittura che dalla prosa si

allontanano, fuoriuscendo dal regime e dalla ritmica dell‘ordinario. È invece un compito descrittivo,

anzitutto, che sembra porsi con forza. Molto ancora ignoriamo di come prosa e poesia, nelle

pratiche di scrittura del novecento e della contemporaneità, si connettano e si dinamizzino

reciprocamente.

E questo problema descrittivo diventa tanto più acuto quanto più emerge la consapevolezza

che ad esso si lega un deficit teorico. Non è un mistero che diverse delle categorie che sono state

utilizzate per descrivere alcuni fenomeni di interpolazione tra poesia e prosa – ad esempio ‗poesia

in prosa‘, ‗prosa poetica‘ – abbiamo uno statuto incerto, sia per quanto riguarda il loro assestamento

lessicale e la loro diffusione all‘interno e all‘intersezione delle diverse tradizioni letterarie e critiche,

sia per quanto riguarda la loro consistenza interna, che è spesso apparsa governata dall‘ossimoro, e

quindi paradossale, se non contraddittoria. E pure i tentativi contemporanei di reagire

all‘obsolescenza delle vecchie categorie con strategie di risoluzione tautologica, o di myse en abyme

del problema , segnalano già verbalmente la permanenza di un problema concettuale irrisolto. Non è

peraltro chiaro se questa situazione sia dovuta alla fluidità intrinseca della pratiche che si

dovrebbero descrivere o ad una inadeguatezza della teoria, o ad entrambi i casi. Tanto più che la

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questione poesia/prosa sembra immediatamente legarsi al problema, avvertito da molti come vitale,

e che prevede diverse vie di fuga, del rapporto dinamico, o della transizione, o della ibridazione, o

del superamento dei generi. Certo la poesia è comunemente intesa come genere, o supergenere,

mentre non altrettanto sembra potersi dire della prosa, e tanto meno della prosa poetica, che almeno

storicamente appare piuttosto quale sottogenere poetico. Ma il carattere extragenerico della nozione

di ‗prosa‘ di per sé presa è anche il riflesso del fatto che laddove la poesia emerge nella prosa, o la

prosa nella poesia, è sempre in opera uno spostamento – ed uno straniamento anzitutto del ritmo – il

cui esito non può essere regimentato in anticipo.

Alla ridefinizione del rapporto tra poesia e prosa, all‘analisi teorica della categoria di ‗poesia

in prosa‘ – e della frase nuova come sua unità di base – e quindi alla diagnosi storica della sua

ascesa, della sua differenziazione, e della sua possibile obsolescenza entro i regimi di letterarietà

che si sono succeduti dopo Baudelaire, sono così dedicate la sezione Fuochi teorici, che raccoglie

contributi di Andrea Cortellessa, Paolo Giovannetti, Simone Giusti, Ron Silliman, Paolo Zublena, e

quindi la sezione Idee della prosa, che raccoglie alcuni saggi storicamente significativi di Giorgio

Agamben, Alfonso Berardinelli e Umberto Eco sulla prosimetricità del linguaggio, sulle ragioni

ultime della distinzione tra poesia e prosa (enjambement, rottura tra ritmo sonoro e semantico) e sul

fenomeno della poesia verso la prosa quale momento di ridefinizione dell‘assetto lirico moderno.

Nei Percorsi italiani le trame teoriche fanno da sfondo a tentativi di riattraversamento mirato della

letteratura italiana, dal secondo novecento agli anni zero. I saggi di Luigi Ballerini, Milva Maria

Cappellini, Tommaso Di Dio, Federico Francucci, Concetta Di Franza, Filippo Milani, Plinio

Perilli, Gianluca Picconi, Giulia Rusconi, Victoria Surliuga e Rodolfo Zucco ci accompagnano così

in una vasta e plurale indagine dove vengono prese in considerazione la produzione poetica di

prosatori o la produzione romanzesca di poeti, le diverse forme della presenza della prosa in opere

poetiche, poemi in prosa, nonversi e quasi prose, ma anche della lirica nel corpo della prosa, con

particolare attenzione per l‘opera di Giorgio Manganelli, Goffredo Parise, Giampiero Neri, Elio

Pagliarani, Giovanni Raboni, Eugenio De Signoribus, Valerio Magrelli, Aldo Nove, Tommaso

Ottonieri, Roberto Piumini.

La sezione In dialogo cerca quindi di entrare all‘interno del laboratorio di un campione

significativo di scritture in corso, chiamando un ampio e diversificato gruppo di scrittori italiani –

Alfonso Berardinelli, Gherardo Bortolotti, Franco Buffoni, Anna Maria Carpi, Maurizio Cucchi,

Umberto Fiori, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Angelo Lumelli, Guido Mazzoni, Laura Pugno,

Fabio Pusterla, Andrea Raos, Flavio Santi, Giuliano Scabia – a rispondere ad una serie di domande

sul rapporto tra poesia e prosa nella loro produzione e quindi ad offrire dei campioni testuali che

possano esemplificare tale lavoro.

Ad un allargamento del fuoco d‘indagine all‘ambito delle principali lingue europee sono

dedicati gli Scenari europei, con i saggi di Gianfranco Contini, Ermanno Krumm, Giovanni

Nadiani, sul poème en prose francese, sulla poesia narrativa inglese e sulla Kurzprosa tedesca, e

quindi la sezione Al di là dei generi, dove i saggi di Jerome Game, Jean-Marie Gleize e Robert

Hanna sulle poetiche dell‘evento e della nudità integrale, che puntano al di là di poesia e prosa

anche con l‘ausilio di nuove tecniche rappresentative, sono accompagnate da una campionatura, da

parte di Alessandro Broggi, dell‘esperienza del laboratorio/rivista di scrittura di ricerca GAMMM.

Infine la parte dedicata agli Autori raccoglie nelle Letture scritture in prosa di Franco

Arminio, Nanni Balestrini, Paolo Colagrande, Luigi Di Ruscio, Gabriele Frasca, Giuliano Guatta,

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Giancarlo Majorino, Francesco Osti, Luisa Pianzola, Rosa Pierno, Stefano Raimondi, Andrea

Sartori, Giovanni Tuzet, e nei Tradotti testi di Jorge Esquinca (tradotto da D. Abeni), Durs

Grünbein e Barbara Köhler (tradotti da D. Vecchiato), Sophie Loizeau (tradotta da P. Cantù),

Ramón Garcia Mates (tradotto da M. Lefèvre), Plauto (tradotto da R. Piumini), Francis Ponge

(tradotto da I. Testa), Gustav Roud (tradotto da P. Lepori), Mark Strand (tradotto da D. Abeni e M.

Egan).

Italo Testa

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IL DIBATTITO

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FUOCHI TEORICI

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ANDREA CORTELLESSA

LA PROSA COME FORMA DEL LIMITE

[…] Interrogare dalla porta novella età addentrantesi; onde con

un attimo, pur il contiguo, prendibile; propiziarla rimorsi per

tenuissime colpe, l‟illusione complementare, picasse pennellate

aspre vivide ristorative, con dispregio di quanto offertoci, lodi al

vendere, superstizioni augurali. Meglio sicché ogni ultimo del

penultimo, non aversi regimi oltre industre presagio. Tu

riconsigliarmi dalla statura, o bocca bocca bella con i baffini

furieri, imo sguardo quanto la Fossa, fulmineo l‟inestimabile

sorriso. Hélas. Lo sfincterallasvega. Ingravallo. Ed empiti di

tematiche wagneriane.

Dall‟ombra: Ultime I

Si ricava una pasta di vetro molle e densa che per il variate della

luce prende diverso colore, blu e oro. Formata da molti frammenti

di terre e conchiglie, oggetti fuori uso, che si mescolano insieme

come sabbia. Alla fine rivela una luce propria, che attraversa una

vasta ombra.

Procedimenti: Liceo

Non si può negare che La poesia verso la prosa di Alfonso Berardinelli(1) sia stato l‘intervento

―militante‖ più deciso e influente dell‘ultimo quindicennio. ―Militanti‖, perentorie e retoricamente

attrezzatissime (perentorie perché attrezzatissime), le tesi di Berardinelli sono esposte soprattutto

nel capitolo che polemizza con un classico come La struttura della lirica moderna di Hugo

Friedrich(2). Se il Novecento italiano – inteso come costellazione di stili e di poetiche, o nel suo

complesso come ―ideologia della poesia‖ – è l‘età della lirica moderna (o nuova, come nel titolo di

un‘antologia che fece epoca ma che di quell‘epoca fu anche, stando a questa ricostruzione, il canto

del cigno – Lirici nuovi, appunto: a cura di Luciano Anceschi, 1943), quella descritta da Friedrich

come fondamentalmente derivante dai grandi modelli del simbolismo francese (Rimbaud e

soprattutto Mallarmé), il Secondo Novecento o Contro-Novecento o Post-Novecento è l‘età di una

poesia ulteriore (postmoderna, in un paio di casi si spinge a definirla Berardinelli) che a

quell‘―ideologia della poesia‖ si contrappone rovesciandola come un guanto.

Non limitandosi più alla lirica, appunto, ma riscoprendo – anzitutto – gli altri generi: dalla

narrativa al teatro, dalla satira alla saggistica; e in generale ridando corso a tutte quelle istituzioni

che il Novecento aveva dismesso, preterito o semplicemente aggirato. È il tempo per esempio, lo si

accennava, di una rinascita della narratività (dimensione alla poesia preclusa dalla tendenza

all‘astrazione e all‘analogia, nonché al raddensamento e alla rastremazione, della lirica moderna):

che conosce realizzazioni stilisticamente antitetiche come La ragazza Carla di Pagliarani e La

camera da letto di Bertolucci. È il tempo, insomma, in cui l‘Italia non guarda più alla Francia,

rivolgendosi semmai alla poesia anglosassone: non solo a quella otto-novecentesca ma anche a

quella del passato ―metafisico‖ rimodernato – nel ―parallelo‖ Novecento anglosassone, appunto –

da Eliot (con la decisiva mediazione di Montale).

Berardinelli, con la brillantezza che lo contraddistingue, riassume tutto questo con la

formula che dà il titolo al suo libro: la poesia verso la prosa, appunto. Cioè l‘estensione – anche in

senso quantitativo – della narratività in luogo del raddensamento della lirica; l‘adesione a una

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dimensione più comunicativa e lineare, in definitiva razionalizzante, contro la precedente tendenza

all‘astrazione analogica; la scelta di una lingua meno irta e artificiosa, e al contempo meno eletta e

selezionata. Ma anche la presenza sempre più frequente, all‘interno dei libri di poesia, di veri e

propri inserti in prosa(3).

Se il Novecento ―francesizzante‖ in effetti non aveva fatto altro che ridare vita a uno spettro

ricorrente in realtà da annoverare fra i più resistenti caratteri genetici della cultura italiana di

sempre, Il fantasma di Petrarca (questo il titolo di un intervento recente dello stesso

Berardinelli)(4), il Contro-Novecento ―anglicizzante‖ insegue un contromodello a sua volta di

lunghissima durata, e cioè – volendo parafrasare – il ―fantasma di Dante‖. Ma già riconducendo a

Dante – punto di massima temperatura della mischung plurilinguistica, nonché sede delle più

acrobatiche astrazioni concettuali che la poesia occidentale abbia mai conosciuto (per non dire del

―manierismo‖, direbbe Ernst R. Curtius, delle composizioni enigmistiche e alfanumeriche) –

l‘antimodello del Novecento, è facile capire quanto sia discutibile una simile ricostruzione. Diciamo

che le si presta la definizione che Berardinelli, esordendo, dà del libro di Friedrich: «ha il fascino

indubbio della semplificazione e della sintesi». Eppure per gli anni Cinquanta e Sessanta – quelli di

formazione di Berardinelli, infatti – il modello, complessivamente, tiene. La ―svolta‖ di Montale

(già nell‘ultima parte della Bufera, e poi clamorosamente da Satura in giù) e quella del suo più

credibile continuatore, il Sereni degli Strumenti umani, lo sperimentalismo – principalmente rivolto

ai generi – di Pasolini, Bertolucci e Caproni, l‘esplosione della neoavanguardia di Sanguineti e

Pagliarani, l‘ironia teatralizzata di Giudici: è tutto un movimento, in effetti, verso la prosa (anche se

per Berardinelli il verso della formula è più sincronico che diacronico; e non si stanca di insistere su

quegli autori – da Saba a Penna – che anche nella prima metà del Novecento non si lasciano

ricondurre alla vulgata di Friedrich). Ancora più eloquentemente, sottolinea sempre Berardinelli,

mentre ancora nel ‘54 Pasolini poteva porre il più ―francese‖ dei nostri poeti (al punto di scrivere in

francese parte non disprezzabile della propria opera), Giuseppe Ungaretti, «al centro della storia

della poesia del Novecento»(5), già una decina di anni dopo quel posto gli era con tutta evidenza

stato rubato, nella percezione comune, dal suo grande rivale Montale.

Ma a partire dagli anni Settanta che il quadro appare complicato, in misura tale da non

lasciarsi più ricondurre a questo disegno. È in questo periodo, per esempio, che alcuni poeti di

notevole spessore – penso a Giampiero Neri, Cesare Greppi e Cosimo Ortesta – esordiscono

rinnovando la lezione della linea Rimbaud-Mallarmé, magari attraverso l‘esperienza irripetibile di

un grande ―maledetto‖ di primo Novecento, Dino Campana. Al quale si deve una forma di prosa

lirica altamente formalizzata: quella che ritroveremo, mutatis mutandis, nelle prime prove di Neri e

Ortesta (rispettivamente L‟aspetto occidentale del vestito, 1976, e La passione della biografia,

1977). Se in precedenza prosa poteva essere, insomma, metafora equivalente a quella

dell‘orizzontalità, ora si capisce meglio come sia lecito interpretarla, in corpore vili, anche in senso

diametralmente opposto: ossia, di nuovo, audacemente verticalizzante. Anche un‘autrice cara a

Berardinelli, Amelia Rosselli, in Diario ottuso (testo pubblicato nel ‘90 ma risalente agli anni ‘54-

68) usa la prosa non certo nella direzione di un‘orizzontalità lineare e razionale del senso:

precisamente all‘opposto.

Ma basti pensare alla parabola del più esemplare poeta italiano di secondo Novecento,

Sereni. Anche la sua poesia è stata letta (per esempio da Renato Nisticò)(6) come

complessivamente indirizzata verso la prosa; e certo un‘opera di svolta come Gli strumenti umani si

colloca – in una data sintomatica come il 1965 – al centro di questo collettivo cantiere italiano.

Eppure negli anni Settanta la ―linea‖ della poesia sereniana si fa molto più complessa e frastagliata.

Si fa sempre più inequivocabile, in particolare, il modello di un altro phare d‘oltralpe, ma stavolta

di secondo Novecento: René Char (che a più riprese Sereni traduce, e al quale nel suo meraviglioso

ultimo libro, Stella variabile, dedica otto straordinari, ―verticali‖ componimenti). Cioè,

precisamente, un grande maestro della prosa. Come grande artefice di prose è Francis Ponge: il cui

esempio è essenziale per Valerio Magrelli(7), ma sul quale anche Sereni riflette in uno dei suoi

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ultimi interventi saggistici, la bellissima conferenza dell‘80-81 Il lavoro del poeta, nella quale

sintomaticamente torna anche un riferimento a Ungaretti(8).

Che dire, poi, di Beckett? Il suo esempio ci fa capire come continuare a ipostatizzare il

valore Prosa – in una direzione o nell‘altra – sia una semplificazione che, per capire la poesia

italiana degli ultimi decenni, potrà essere utile a fini didattici ma, infine, fuorviante. L‘«arcigenere

risonante» costituito dall‘insieme della sua opera – in versi, in prosa, nella lingua verbo-gestuale del

teatro; in inglese, in francese, nello spazio fra le due lingue – ha lasciato tracce decisive in molti

degli autori più interessanti delle ultime generazioni: senz‘altro in Ortesta, soprattutto in Gabriele

Frasca ma anche, per fare un nome dell‘ultimissima vague, nella giovane Elisa Biagini.

In un suo acuto saggio Paolo Giovannetti, già prezioso storico del verso libero, ha ripercorso

le fortune italiane del genere poème en prose. Non è per caso che la traduzione più naturale di

questa dizione in italiano, ―poesia in prosa‖ (che invece Giovannetti giustamente propone), sia

sintagma sentito addirittura come impronunciabile, e comunque non abbia mai goduto di troppa

fortuna – mentre «l‘etichetta con cui si cerca più spesso di ottenere la massima approssimazione

concettuale al denotato baudelairiano, vale a dire ―(piccolo) poema in prosa‖, sconta una

deplorevole asimmetria semantica rispetto alla lingua d‘origine»(9). Il fatto è che ―poesia in prosa‖

è dizione sentita come ossimorica, ancipite e anfibia: e infatti «questa condizione di ―mediatezza‖,

questa ambiguità esibita, questo rinvio a codici complessi, polivoci, è il carattere in qualche modo

fondante della poesia in prosa in quanto genere»(10). Se si torna alla celebre nota prefatoria di

Baudelaire a Arsène Houssaye («le miracle d‘un prose poétique, musicale sans rythme et sans

rime»), si pensa che Baudelaire volesse indicare una ritmica negativa, «un ritmo-zero, ma non per

questo meno efficace e vincolante»: qualcosa che insomma, nei confronti del «sistema versificatorio

esistente», esprimesse «un profondo rifiuto»(11).

Nella tradizione novecentesca italiana, l‘indirizzo baudelairiano è stato per lo più

clamorosamente disatteso: a circolare è stata «un‘idea stilistica, formale della poesia in prosa, in

quanto pagina non versificata ove il non verso viene assiduamente compensato da altro, da ritmi

accessori di natura elocutiva, e da una dispositio artificiosa». È la tradizione del ―capitolo‖, della

―prosa d‘arte‖ dell‘entre-deux-guerres, proseguita però sino all‘attuale panorama orfico e

neoromantico – che ha relegato in subordine la poesia in prosa, «sentita quale residuato

avanguardistico»(12) (era stato infatti nell‘àmbito della cosiddetta ―narrativa futurista‖, infatti –

sebbene Giovannetti salti questo passaggio –, cioè presso il ―secondo‖ futurismo fiorentino di autori

come Ginna, Carli e Corra, che la forma autenticamente sans rythme et sans rime, quella cioè della

tradizione baudelairiana-rimboldina, aveva avuto il suo fuggevole momento di gloria nel nostro

paese)(13). Quest‘ultimo versante, anziché adire la via di un «progetto lirico positivo», fa prevalere

«comportamenti che procedono per sottrazione», che si fondano «sull‘assenza, la béance, lo scarto

rispetto all‘orizzonte d‘attesa»(14). Il saggio di Giovannetti si conclude indicando la poesia in

prosa, genere «marcato dal segno storico della contraddizione», come potenzialmente in grado di

«leggere e denunciare i limiti della lirica moderna, forzandone all‘estremo le potenzialità

conoscitive»(15).

Non è un caso che appunto – al cospetto dell‘irrigidirsi istituzionale del codice lirico, fra la

fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – la poesia in prosa abbia conosciuto in Italia un

nuovo fervore di ricerca. S‘è detto di Ortesta e accennato a Giampiero Neri(16): straordinario (e per

questo riguardo quanto mai precoce) ―maestro in ombra‖, unanimemente ammesso a canone ma

sempre sforzandosi di annettere una presenza enigmatica ed esorbitante come la sua (sia pure, come

ha acutamente sottolineato Giorgio Luzzi, per via di sottrazione, anziché d‘iperbole e accumulo)

alla scolorita insegna dell‘«Etica del quotidiano»(17); mentre a ogni lettore dovrebbe apparire

evidente come nel suo caso «la questione centrale […] sia nel definire il rapporto tra le scelte

denotative, paratattiche, monosemantiche dello stile – in una sua disarmante forma di purezza

antimetaforica e antilirica per eccellenza – e la quantità delle direzioni investigative che il contenuto

del testo pone»(18).

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Un grande autore di prose ferme che però, a dispetto dell‘opinione degli avversatori, era

anche in grado di narrare era Antonio Pizzuto. Com‘è noto, lo scrittore siciliano distingueva la

narrazione dal racconto sulla base della prospettiva temporale. Se «il fatto è un‘astrazione», nei

termini gnoseologici dell‘allievo di Cosmo Guastella, «raccontare è proporsi di rappresentare

un‘azione, cioè uno svolgimento di fatti ma, anziché rappresentarli, il racconto in ultima analisi li

registra. Personaggi, eventi, dati psicologici, tutto si va pietrificando via via che lo si racconta».

Antidoto alla pietrificazione è allora una prospettiva presente, quella appunto della narrazione: «La

narrazione vince l‘assurdo di tradurre l‘azione in rappresentazioni perché riconosce che il fatto è

un‘astrazione»: «la rappresentazione non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al

lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un

tomista in contuizione». La narrazione nei termini di Pizzuto non è più, dunque, «il ritratto»

dell‘azione «bensì una risonanza»(19).

Prose risonanti e al tempo stesso ferme (secondo quella tipica esperienza della

contemporaneità che Gabriele Frasca è solito definire, sulla scorta di Beckett, fremito fermo)(20)

sono spesso quelle di un cultore di Pizzuto quale è lo stesso Frasca(21) (i magnifici Orologi,

parziamente raccolti nella silloge Viceverso(22), e la sezione sette nella restaurata edizione 1999 di

Rame)(23), nonché di alcuni dei poeti del gruppo di «Anterem» (rivista e casa editrice veronese

attiva dal 1976 sino a oggi), fra i quali piace ricordare Rosa Pierno. Dal «dramma percettivo» di

quest‘ultima, evidente sin dall‘esordio Corpi (Anterem 1992), nel cui mosaico ―narrativo‖

«ciascuna tessera […] contiene di già il tutto da narrare»(24), sino alle più recenti prove di Musicale

(Via Herákleia 1999) e Arte da camera (Edizioni d‘If 2004) è una prosa, questa, che si presenta

come un corpo lacerato, e malgrado tutto ancora agitato da irredimibili fremiti fermi. Queste

―inquadrature‖ isolate fotografano con nettezza crudele le posture di un agone in corso. Rispetto

alla figurazione sconvolta di Bacon, pare mutuato il principio della camera ottica, impassibilmente

trasparente, che ostende il dramma corporeo in atto. A essere narrate sono dunque sensazioni, nel

senso deleuziano (mutuato da Valéry) di «ciò che si trasmette direttamente, evitando l‘espediente o

il tedio di una storia da narrare»(25).

In autori come questi si verifica, in ogni caso, una considerazione che Frasca ha svolto a

proposito di Beckett – ma che ha valore generalissimo: per la quale in situazioni di testualità

avanzata non può che prodursi una «prolifica indistinzione dei generi (il permanere dei quali, nei

nostri anni, è una sorta di rigidità cadaverica)»(26). Fare esperienza del limite significa anche

accorgersi che certi steccati tradizionali non hanno più motivo di sussistere.

Andrea Cortellessa

[Da Andrea Cortellessa, La fisica del senso, Fazi, 2006, pp. 39-43.]

Note. (1) Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino, Bollati

Boringhieri, 1994.

(2) Cfr. Id., Le molti voci della poesia moderna [1983], ivi, pp. 23-43. Il capitolo apparve originariamente

come postfazione a contraggenio alla riedizione di Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna. Dalla

metà del XIX alla metà del XX secolo [1956], tr. it. di Piero Bernardini Marzolla, Milano, Garzanti, 1983.

(3) Fenomeno dalle ricchissime implicazioni strutturali e linguistiche al quale ha dedicato un numero

monografico, dal titolo La prosa nel corpo della poesia, la bella rivista «Istmi» diretta da Eugenio De

Signoribus, nel numero 11-12 del 2002.

(4) Cfr. Alfonso Berardinelli, Il fantasma di Petrarca, in Un‟altra storia. Petrarca nel Novecento italiano,

Atti del convegno di Roma, 4-6 ottobre 2001, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 37-42.

(5) Pier Paolo Pasolini, Un poeta e Dio [1954], in Id., Passione e ideologia [1960]; ora in Id., Saggi sulla

letteratura e sull‟arte, cit., pp. 1092-1114: 1112; cit. in Alfonso Berardinelli, Quando nascono i poeti

moderni in Italia, in Id., La poesia verso la prosa, cit., pp. 88-110: 93.

(6) Cfr. Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Lecce, Piero Manni, 1998.

(7) Sino alle ultime, ottime prove – di nuovo in prosa – di Nel condominio di carne, Torino, Einaudi, 2003.

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(8) Inizialmente pubblicata sulla rivista «Incognita» nel marzo del 1982, si legge ora nel numero

monografico su Sereni di «Poetiche» (1999, 3, pp. 331-351) e, nella cura di Bruna Bianchi, nel bel volume

Poeti francesi letti da Vittorio Sereni, èdito dal Comune di Luino nel 2002, pp. 23-37.

(9) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, in «Allegoria», 1998, 28,

p. 22.

(10) Ivi, p. 25.

(11) Ivi, p. 29.

(12) Ivi, p. 38.

(13) È anche il caso di rammentare come Marinetti, da sempre seguace di Mallarmé, al momento di tradurlo

abbia sentito la necessità di appiattire uniformemente la dizione italiana di Versi e prose (Milano, Istituto

Editoriale Italiano, 1916) in blocchetti prosastici aritmici. Del libretto esiste una riedizione einaudiana del

1987, con una Nota di Franco Fortini. Rinvio, per una più ampia discussione su questo punto, al mio La

poesia delle avanguardie, in Storia generale della letteratura italiana, cit., vol. X, La nascita del moderno,

pp. 252-285: 273-276.

(14) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, cit., p. 30.

(15) Ivi, p. 40.

(16) «Sono d‘accordo con chi ha parlato di una sorta di diffidenza da parte mia nei confronti del verso. È

vero, in certe circostanze, il verso mi è parso, come strumento, meno duttile per dire certe cose che mi

premeva dire e per le quali la forma del poemetto in prosa mi sembrava più adeguata, più flessibile»

(Intervista a Giampiero Neri, a cura di Valeria Poggi, in «Poesia», 1989, 10, p. 25).

(17) Cfr. Giampiero Neri, in Poeti italiani del secondo Novecento, ed. cit., pp. 506-516 (e la nota di Maurizio

Cucchi, ivi, pp. 504-505). Come ha scritto Luzzi, «Forse da lui hanno preso le mosse (ma per lo più senza

accorgersi che il modello era inavvicinabile) talune esperienze di minimalizzazione formale che sono

intervenute nelle generazioni successive» (rec. a Giampiero Neri, Teatro naturale, Milano, Mondadori, 1998,

in «Poesia», 1998, 115, p. 21).

(18) Ibidem. «Il disegno che c‘è dietro l‘esistenza dell‘uomo, il disegno che c‘è dietro la natura, nonostante

la scienza, è ancora misterioso. È affascinante, ti incute soggezione» (Intervista a Giampiero Neri, cit., p.

25).

(19) Antonio Pizzuto, Vedutine circa la narrativa, in Id., Paginette [1964], Milano, il Saggiatore, 1972, pp.

188-189.

(20) Cfr. Gabriele Frasca, Per speculum in ænigmate, in Id., La scimmia di Dio. L‟emozione della guerra

mediale, Genova, Costa & Nolan, 1996, pp. 161 sgg. (specie a p. 206).

(21) Numerosissimi gli interventi di Frasca su Pizzuto. Si veda la riassuntiva (e polemica) Postfazione ad

Antonio Pizzuto, Narrare. Tutti i racconti, a cura di Antonio Pane, Napoli, Cronopio, 1999, pp. 105-124.

(22) Viceverso. Antologia di prosa poetica, curata dall‘animatore della coraggiosa casa editrice milanese

Corpo 10, Michelangelo Coviello (al quale si dovette – nel periodo in assoluto più buio per ogni forma di

sperimentazione – l‘uscita di Coniugativo di Tommaso Ottonieri e Rame di Frasca nel 1984, e del primo

romanzo di Frasca, Il fermo volere, nel 1987), uscì nel 1989: cogliendo proprio la novità della

sperimentazione in prosa di quegli anni. Nove orologi (fra i quali il sesto, settimo e ottavo aggiunti per

l‘occasione) confluiscono in Gabriele Frasca, Rive, Torino, Einaudi, 2001, pp. 13-37.

(23) Nella seconda edizione di Rame (Lavagna, Zona, 1999), la sezione sette (un set per 7 video) figura alle

pp. 53-68. Un‘ulteriore riscrittura è uscita in un volumetto a se stante: Gabriele Frasca, Sette (un set per 7

video), Napoli, D‘If, 2003.

(24) Gabriele Frasca, Accordi a piene mani, introduzione a Rosa Pierno, in Verso l‟inizio. Percorsi della

ricerca poetica oltre il Novecento, cit., pp. 88-91.

(25) Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione [1981], tr. it. di Stefano Verdicchio, Macerata,

Quodlibet, 1995, p. 86. Non è un caso, dunque, che la scrittura di Pierno si confronti sempre – a partire da

esperienze reali nel campo del restauro – con i processi, mentali e fisici, inerenti alla figurazione: dai

Taccuini e Diari di lavoro presenti in Buio e blu (Anterem 1993) alle Didascalie su Baruchello (Edizioni

Gridi 1994), da Interni d‟autore (Edizioni Joyce & Co. 1995) sino al citato Musicale (che si confronta, oltre

che con la musica, terza convocata nel campo intersemiotico, con le partiture grafiche d‘invenzione firmate

da Francesco Pennisi).

(26) Gabriele Frasca, La tegola dal cielo, in «Il piccolo Hans», 64, 1989-90, pp. 206-220: 218.

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PAOLO GIOVANNETTI

LA POESIA SENZA VERSO

0. Può apparire curioso che un capitolo – seppur breve, seppur collocato in appendice – di un

manuale di metrica sia dedicato a una forma che per definizione è senza verso. Si sta parlando della

poesia in prosa. La sua storia, in effetti molto complessa, dapprima legata quasi solo alla letteratura

francese (cfr. almeno Bernard 1959 e Jechova et al. 1993; ma vedi, per un panorama complessivo,

Utrera Torremocha 1999), è soprattutto la storia di un‘assenza e di una vera e propria scommessa:

come sia possibile fare poesia senza ricorrere a strutture versificate.

Uno sguardo d‘assieme al fenomeno dovrebbe consentire di cogliere per lo meno due grandi

momenti: Il primo, arcaico, che va dal Settecento alla metà dell‘Ottocento, valorizza la prosa

soprattutto in quanto traduzione di un originale (vero o fittizio, poca importa) in effetti versificato,

di cui si restituisce la poeticità antecedente al ritmo. Implicita in questa posizione è una cultura, una

poetica, di tipo sensista, secondo la quale (come per esempio dichiara in Italia Leopardi nello

Zibaldone, in data 14 settembre 1821) il verso è solo uno dei segnali del poetico: la sua assenza non

scandalizza perché è controbilanciata da altri fattori, come la potenza delle immagini, l‘entusiasmo

soggettivo, l‘ispirazione ecc.

Il secondo momento, che può essere considerato in senso forte moderno, comincia con

Baudelaire (siamo intorno al 1860) e con i suoi «petits poèmes en prose», poi intitolati Spleen de

Paris. Questo fase ha una carica polemica e persino nichilistica del tutto ignota agli antecedenti

sette-ottocenteschi, perché Baudelaire svolge un‘opera in effetti distruttiva.

Da un lato, c‘è un attacco nei confronti del romanzo, di cui il nuovo genere vuol costituire la

frantumazione, lo smembramento in unità minori. Tra l‘altro è molto probabile che nel sintagma

«petit poème en prose», petit modifichi l‘intera espressione «poème en prose», significando un

―componimento poetico [lungo] scritto in prosa, reso [però] breve, accorciato‖; e che non accada

l‘opposto, cioè che petit si leghi a poème e che «en prose» modifichi la loro unione, come se

Baudelaire avesse fatto riferimento a ―brevi poesie, scritte in prosa‖. In generale Spleen de Paris è

lo spezzettamento, la miniaturizzazione di un‟unità più grande, di quel lungo poema che ormai è il

romanzo. La prima poesia in prosa è in effetti anti-romanzesca e quindi anti-narrativa.

Dall‘altro lato, c‘è una polemica contro la metrica tradizionale, perché Baudelaire vuole che

l‘assenza del ritmo (i suoi testi sono appunto «senza ritmo») sia ben presente al lettore, sia una

questione sempre aperta nella lettura dei testi.

Ecco, proprio quest‘ultimo punto è quello che rende la poesia in prosa interessantissima per il

metricista. Il rifiuto polemico della metrica e la sua possibile metamorfosi in qualcosa di differente

– al limite, in veri e propri versi dentro la prosa, come vedremo – implica un costante contrappunto

fra ciò che appare e ciò che potenzialmente è, tra la forma non marcata metricamente e una metrica

nascosta che preme dall‘esterno del testo. Il non-metro che la rivoluzione simbolista impone alla

letteratura mondiale ha uno statuto altamente ambiguo, ma certo nella sua forma più consapevole

non si accontenta di essere una bella prosa, di lunghezza limitata, perché vuole che il problema del

verso sia costantemente ridiscusso.

1. In Italia (come è stato esposto in Giusti 1999), le prime forme di poesia in prosa sono formazioni

di compromesso vicine al bozzetto, cioè a una narrazione molto statica: il caso forse più curioso è

quello delle Goccie d‟inchiostro (1879) di Carlo Dossi che, buon conoscitore ed estimatore di

Baudelaire, ne imita soprattutto la concisione. Del resto, una tradizione di succinte prose d‘arte,

―squisite‖ nella forma, è presente nei giornali letterari, e non solo, fra Otto e Novecento anche per

influenza dei romanzi-poemi di D‘Annunzio (si pensi alle Vergini delle rocce, 1895). E sarà forse

con le cosiddette Faville del maglio, appunto dannunziane, che dopo il 1910 un certo tipo di prosa

d‘arte levigata ed elegante finirà quasi per istituzionalizzarsi.

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Questo sfondo spiega – probabilmente – perché alcune delle più importanti poesie in prosa

delle origini italiane (quelle di Boine, Jahier, Rebora e Onofri, soprattutto) si presentino ricche di

figure ritmiche sin troppo evidenti, di rime cioè e di versi. E si è parlato a loro proposito di un

genere in qualche modo codificato: del cosiddetto frammento (cfr. Valli 1980 e 2001). Il frammento

sarebbe cioè una reazione alla relativa prevedibilità di una forma che in Italia si è precocemente

prestata alla facile commerciabilità ―giornalistica‖. Clamoroso, ad esempio, è questo inizio di uno

dei testi di guerra di Rebora, intitolato Senza fanfara (e pubblicato nel 1917):

Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d‘ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati

ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma non

sa, non sapeva, e marcia e si posa e s‘apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non

si sa - per contro un nemico ch‘è fuori, il nemico che è noi.

Il ritmo è, di fatto, uniformemente dattilico, ternario: a partire dalla sequenza di quindici

sillabe iniziali, che anzi produce perfetti anfibrachi («Si và per la stràda profònda spastàta,

ingoiàta»: -+--+--+--+--+-), seguita da un endecasillabo con ictus di 4a e 7a e un decasillabo

anapestico («Confusion d‘òrdine; fìle perdùte: | barcollìi di volùmi spossàti»). Il passo procede

quindi monotono, con pochissime interruzioni all‘onda dattilica (notevole solo il settenario «ma non

sa, non sapeva») e con una fittissima rete di rime e di altre figure del suono, come ad esempio la

paronomasia («si posa e s‘apposta»). Bandini (1966: 34) ha parlato, a proposito di testi così

costruiti, di «ipocrisia formale»: si tratterebbe cioè di versi mascherati da prosa.

Nondimeno, il loro referente dialettico, l‘àmbito di appartenenza, deve essere colto, più che

nel campo della poesia versificata, nel dominio a cui appartiene la seguente chiusa di una notissima

poesia priva di metro. L‘autore è Montale, il testo è Visita a Fadin (contenuto nella Bufera, 1956,

ma la sua composizione risale al 1943; corsivi nel testo):

Essere sempre tra i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha

avuto da te quest‘alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile delle virtù) può attendere senza fretta il libro

delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quelle che si scrivono.

Certo, il primo colon («Essere sempre tra i primi e sapere») è un endecasillabo perfettamente

dattilico, ed è ripreso entro la parentesi («la più difficile delle virtù», ma senza ictus di 1a), mentre

la conclusione è marcata da un settenario sdrucciolo («di quelle che si scrivono»): però non si può

dire che l‘interesse metrico qui sia dominante, che anzi i corsivi sembrano enfatizzare la struttura

saggistica, o narrativo-saggistica, del testo. Quella di Montale è prosa-prosa, anche se elegantissima

e nobilitata da discontinue clausole ritmiche.

I due opposti esiti – quello reboriano e quello montaliano – sono interni al medesimo campo,

insomma. Dal punto di vista del genere letterario, entrambi appartengono al genere della poesia – se

non altro perché oggi si leggono in libri ritenuti di poesia –, anche se la loro forma esteriore è quella

della prosa. Entrambi, poi, chiedono al lettore una risposta in termini di riconoscimento metrico,

positivo o negativo: quasi un gioco a rimpiattino a caccia di versi e rime ora sin troppo presenti ora

sin troppo assenti.

2. Il fatto è che, nel Novecento italiano, questo tipo particolare di forma, altamente problematica ma in fondo ben caratterizzata, è stata confusa con i prodotti di una tradizione in senso lato

giornalistica. Cominciata almeno con il D‘Annunzio delle Faville del maglio, tra anni Dieci e anni

Quaranta del secolo scorso tale tradizione prosastica ha dato vita a un genere particolare. Le

etichette specifiche sono state moltissime: elzeviro (dal nome del carattere usato per certi articoli in

terza pagina), pesce rosso (dal titolo di un‘opera di Emilio Cecchi, Pesci rossi, 1920), capitolo (la

definizione è di Enrico Falqui: cfr. Falqui 1938) sono le più note. In generale, si potrebbe parlare –

come spesso si fa in Francia con il sintagma corrispondente: «prose poétique» – di «prosa poetica»,

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vale a dire di una prosa che per certe sue caratteristiche di stile presenta generici elementi di

poeticità.

Si tratta di un dominio quanto mai vario e, certo, persino incoerente (in fondo, dove una prosa

si presenti stilisticamente elaborata, là c‘è prosa poetica). Un esempio molto rappresentativo può

essere fornito dall‘attacco di un bellissimo pezzo di Carlo Emilio Gadda, Una mattinata ai macelli,

contenuto nelle Meraviglie d‟Italia del 1939:

I segni si rincorrono lungo la pista dello Zodiaco: già lo Scorpione abbranca il piatto della fuggitiva Bilancia. La

città, vorace acquirente, alletta al suo mercato indefettibile commissionari e negozianti di porci, mediatori,

macellari ed augusti bovari. È la più popolosa del nord, una delle più ricche, attivissima. Chi non mangia, non

lavora. Qualcosa, in pentola, deve bollire ad ogni costo: perché il martello abbia a cader pieno sul ferro o

adempiersi a un cenno lo smistamento dei veicoli indemoniati senza urti, senza risucchi.

La città si sveglia. Contro il sole già alto le case si levano bianche, ognuna per suo conto, quasi ammodernate

torri, dal verde vivido della pianura, che appare sottilmente ovattata dalle prime sue nebbie: i treni rallentano la

lunga corsa sopra i canali e le rogge, lungo gli stendimenti di infaticabili lavandai.

Una volta detto che, qualche paragrafo dopo, nel testo fa capolino in maniera esplicita l‘io

dell‘enunciatore («Vedo la la strapazzata masnada attendere [...]. Vedo che non tutti i cornuti [...]»

ecc.), proponiamo il confronto con una prosa di Vittorio Sereni, contenuta in una raccolta di poesia,

Diario d‟Algeria. Il titolo è Appunti da un sogno, e il testo risale al 1964:

I due cunicoli, con feritoie, ne farebbero in pratica uno solo se in mezzo non ci fosse uno slargo, una piazzuola

circolare.

Nello slargo, al centro dell‘unico labirinto che i due cunicoli formerebbero, ci sono io.

Vivo simultaneamente la vita che si svolge nei due cunicoli. A ogni feritoia, di profilo, mica guarda dalla feritoia,

c‘è un uomo, soldato o graduato. Ognuno veste la divisa cachi, più chiara quasi bianca quelli di là, inglesi o

americani, insomma nemici, indiscutibilmente nemici.

Dalla parte di quest‘altro cunicolo si apre una botola, no: una porta, una botola messa verticalmente.

Certo, il quarto di secolo trascorso fra i due testi incide molto, e una differenza notevole è data

dalle diverse lunghezze (più di dieci pagine Gadda, poco più di una pagina Sereni): ma è indubbio

che in entrambi i casi siamo di fronte a un racconto al tempo presente in cui l‘elemento descrittivo

svolge un ruolo centrale. Non mancano fattori ritmici in Sereni (l‘attacco è scandito da due

endecasillabi un po‘ faticosi: «I due cunicoli, con feritoie, / ne farebbero in pratica uno solo»), ma è

in Gadda che la metricità assume valori forti, quasi strutturanti, se per esempio pensiamo al

settenario sdrucciolo iniziale seguito da un doppio quinario parimenti sdrucciolo («I segni si

rincorrono | lungo la pista dello Zodiaco»), alla quasi-rima abbranca: Bilancia, o addirittura

all‘esametro presente nel secondo periodo del secondo paragrafo («Contro il sole già alto | le case si

levano bianche»).

Evidentemente, se escludiamo il riferimento alla lunghezza, i fenomeni decisivi che

permettono il riconoscimento di genere sono altri, di natura non formale: il contenuto onirico della

pagina sereniana, il fatto che Gadda stia parlando da osservatore di un luogo viceversa reale con

un‘intenzione di documentazione giornalistica. Dirimente, comunque, è il contesto in cui le due

opere si inseriscono: il componimento gaddiano esce su un quotidiano e poi confluisce in una

raccolta di sole prose, tutte di origine giornalistica; Sereni pubblica i suoi Appunti in un libro che

contiene quasi solo versi, e che tutti considerano ―di poesia‖. Tutto ciò dovrebbe permettere una piena riconoscibilità delle diverse intenzioni, della natura

storica dei due testi: da un lato un tipo di prosa poetica (un elzeviro) e dall‘altro una poesia in

prosa.

In realtà, ciò non è avvenuto o è avvenuto solo parzialmente, e la cultura italiana, fino a non

molti anni fa (cfr. per esempio Menichetti 1990), ha faticato a distinguere con chiarezza le opposte

intenzioni in gioco. Uno dei nodi non ancora sciolti (ma vedi comunque il classico Beccaria 1964) è

poi la ritmicità ―naturale‖ della prosa letteraria, che non conosciamo ancora bene; ciò ci impedisce

di giudicare la funzione e l‘esatto valore espressivo dei versi che scopriamo in certe prose e che

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potrebbero essere statisticamente comuni a qualsiasi testo scritto in prosa letteraria. Manca poi una

descrizione convincente, anche teorica, di quel tipo di prosa, ricchissimo di versi regolari e

continuati, che viene praticato da certi narratori ―puri‖, come ad esempio Silvio D‘Arzo (cfr.

Frasnedi 2003) o Vincenzo Consolo (nel suo Sorriso dell‟ignoto marinaio, del 1976, intere

sequenze narrative sono in endecasillabi: cfr. Finzi-Finzi 1978; Consolo 1996).

3. Forse non è per un caso se a partire dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento, la poesia in prosa

italiana ha ripreso, ma radicalizzandoli, aspetti della dialettica verso-non verso che l‘aveva

caratterizzata sin dalla sua origine. Il principale poeta in prosa italiano a cavallo tra i due millenni è

Giampiero Neri, il cui componimento forse più noto è il seguente (Pesce d‟acqua dolce, contenuto

in Liceo, 1986):

Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve

pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell‘acqua

scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.

Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.

che provocatoriamente si presenta come dimesso, privo di stile e sostanzialmente anche di ritmi

convenzionali (ma si badi allo scandito dodecasillabo per anfibrachi: «un pèsce che vìve sul fòndo

del làgo»). Ad esso, va contrapposta un‘opera sperimentale ma antica nei ritmi come Orologio ad

aria di Gabriele Frasca, contenuto in Rive del 2001. Si tenga presente che i punti fermi non hanno

valore solo logico-sintattico, ma servono a scandire anche pause della recitazione:

e adesso cosa. cos‘è che si chiude. vediamo. forse un pugno di minuti. una mezza dozzina fra le nude sequenze

incalcolabili. diciamo qualche attimo dicibile. fra muti lunghi intervalli. adagiato sull‘amo del tempo. a fremere

come la vita ancora fermentasse. in quella spoglia morta appena essiccata fra le dita. in questa gelatina dove

torno. a sommozzarmi ancora nella voglia di trarti via di qua. sperderti torno torno [...]

Si tratta di un testo che, in realtà, è composto di endecasillabi. Non solo: le rime che lo

punteggiano in maniera sistematica producono una struttura metricamente regolare, nella forma di

terzine legate a due a due dalla rima centrale, secondo lo schema ―pascoliano‖ ABA, CBC, DED,

FEF ecc. Per maggior chiarezza, ecco come può essere riscritto il passo citato:

e adesso cosa. cos‘è che si chiude.

vediamo. forse un pugno di minuti.

una mezza dozzina fra le nude

sequenze incalcolabili. diciamo

qualche attimo dicibile. fra muti

lunghi intervalli. adagiato sull‘amo

del tempo. a fremere come la vita

ancora fermentasse. in quella spoglia

morta appena essiccata fra le dita.

in questa gelatina dove torno.

a sommozzarmi ancora nella voglia

di trarti via di qua. sperderti torno [/torno]

Ovviamente, Frasca non è Rebora, e la poesia in prosa di Neri non molto ha a che fare con

quella montaliana. La dialettica di superficie è però la stessa, a confermare che il tema forse

primario della poesia in prosa è il nesso tra apparenza e sostanza, tra ciò che effettivamente

leggiamo e il rinvio a qualcosa che non c‘è, al verso possibile.

Semmai, andrà notato che le due opposte scelte forzano la poesia in prosa in direzioni forse

irriducibili: quella di Frasca è una prosa che deve essere letta ad alta voce, scandendola; quella di

Neri appare all‘opposto silenziosa, di natura quasi soltanto tipografica.

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Su quest‘ultima strada, e anche grazie alla diffusione di forme «post-poetiche» di origine francese e

nordamericana (cfr. Prosa in prosa 2009), oggi si comincia addirittura a parlare di «prosa in prosa».

Con questo sintagma s‘intende segnalare l‘esistenza di opere non versificate, inserite in contesti in

qualche modo ancora ―poetici‖, che però rifiutano ogni richiamo al lirismo e, soprattutto, alla

metrica anche come fenomeno virtuale. La loro natura di opere nate dal montaggio di testi di varia

natura, molto spesso non letterari, produce un effetto desublimante che giustifica il passaggio dal

mondo alto e istituzionale della poesia in prosa a quello privo di legittimazioni nostalgiche appunto

della prosa in prosa. Ne esce in qualche modo rafforzata la silenziosità degli enunciati, la loro

intenzione di costituirsi come «installazioni» mute in attesa di uno sguardo (e non di un orecchio).

Si cita un pezzo, di Alessandro Broggi, Nuova situazione, da Nuovo paesaggio italiano (2008):

I.

Anna è una donna con un uomo, con degli amici che parlano di lei. Che la invitano a cena, che la stimano.

II.

Vivo una relazione felice, ricca e sana: proprio per questo, dopo aver avuto rapporti molto deludenti, posso

affermare che ci sono anche uomini che ci fanno del bene. Certo, la fatica è tanta, ma esperienze come

questa ti aprono gli occhi.

Paolo Giovannetti

[Dal volume: Gianfranca Lavezzi – Paolo Giovannetti, Introduzione allo studio della metrica

italiana contemporanea, in corso di stampa presso l‘editore Carocci.]

Opere critiche citate:

Beccaria, G. L. (1964), Ritmo e melodia nella prosa italiana. Studi e ricerche sulla prosa d‟arte, Olschki,

Firenze.

Bandini, F. (1966), Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in Ricerche (1966: 3-35).

Bernard, S. (1959), Le poème en prose de Baudelaire jusqu‟à nos jours, Nizet, Paris.

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SIMONE GIUSTI

PERDITA D’AUREOLA:

LA LETTERATURA COME NEGOZIAZIONE E INTERAZIONE

Nel 1857, oltre centocinquanta anni fa, Charles Baudelaire pubblicava il suo libro più importante,

Les Fleurs du mal, quello che Walter Benjamin considera l‘ultimo libro di poesie che ha potuto

conoscere un successo di massa, «l‘ultimo testo di poesia lirica che abbia avuto una risonanza

europea» (Benjamin, 1955, p. 128). Negli anni successivi, mentre continua a scrivere poesie e

traduce i racconti di Edgar Allan Poe, scrive e pubblica su rivista delle brevi poesie in prosa – petits

poèmes en prose – che avrebbero dovuto comporre un volume mai concluso e mai pubblicato in

vita. Questi testi – che in italiano vengono tradotti generalmente con l‘espressione poemetti in prosa

– vengono pubblicati in volume nel 1869. Si tratta di cinquanta frammenti, racconti brevi o

microsceneggiature che insieme compongono un affresco della città di Parigi.

Il testo numero XLVI racconta una storiella, messa in scena in forma di dialogo:

―Ehi! Cosa vedo? Voi qui, mio caro? Voi, in posto così malfamato! Voi, il bevitore d‘ogni quintessenza!

Voi, il mangiatore d‘ambrosia! Davvero, c‘è di che sorprendersi‖.

―Caro mio, voi sapete il mio terrore dei cavalli e delle vetture. Poco fa, mentre attraversavo il boulevard, di

gran carriera, certo, saltellando qui e là nel fango, in mezzo a quel mobile caos dove la morte arriva al galoppo

da ogni parte e simultaneamente, ecco che la mia aureola per un brusco movimento m‘è scivolata dalla testa nel

fango della carreggiata. E non ho avuto il coraggio di riprenderla, ma ho giudicato meno disdicevole perdere le

mie insegne piuttosto che farmi rompere l‘osso del collo. E poi, mi son detto, non tutto il male viene per nuocere.

Adesso posso andarmene a zonzo in incognito, compiere basse azioni, darmi alla crapula come un qualunque

mortale. Ed eccomi qui, proprio simile a voi, come mi vedete!‖

―Ma almeno dovreste far mettere un avviso per questa aureola, o andare alla polizia o reclamarla agli

oggetti smarriti‖.

―Dio mio, no davvero! Mi trovo così bene qui. Soltanto voi mi avete riconosciuto. D‘altra parte la dignità

m‘annoia. E poi penso con gioia che qualche poeta d‘accatto la raccoglierà e se ne incoronerà impunemente. Far

felice qualcuno, che bello! Felice, e soprattutto capace di farmi ridere! Pensate a X., o a Z.! Sarebbe il colmo,

no?‖(1).

Si tratta di una storia aperta a molteplici interpretazioni, che dice poco e lascia molto spazio al

lettore. Siamo in città – siamo autorizzati a immaginare un boulevard parigino di metà Ottocento, e

siamo autorizzati a pensare ad un poeta spaventato e tuttavia affascinato dalla folla, – e assistiamo

all‘incontro tra due persone. Sono due conoscenti: uno sappiamo con certezza essere un poeta,

l‘altro potrebbe essere un lettore, o comunque un amico, uno che è in grado di riconoscere il poeta

anche senza la sua aureola. I due si incontrano in un luogo malfamato, che evidentemente non viene

frequentato solitamente dai poeti ―aureolati‖. Il poeta, sorpreso a frequentare quell‘ambiente,

racconta una storia che sembra avere la funzione di giustificare la sua presenza in quel posto. Egli

racconta di come, durante l‘attraversamento di una strada fangosa e trafficata, abbia perduto

l‘aureola, segno visibile della sua condizione sociale di poeta. Il fatto non sembra turbare il

protagonista, il quale, evidentemente sollevato di un peso, si diverte a pensare al momento in cui

qualche suo collega meno riconosciuto troverebbe le insegne infangate per fregiarsene di fronte ai

concittadini ammirati.

I critici letterari hanno letto la storia prestando attenzione ai suoi risvolti sociali e politici. La

―perdita d‘aureola‖ è divenuta per alcuni l‘emblema delle avanguardie artistiche ed è stata

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ricondotta al marxismo: la poesia sarebbe una merce, un prodotto da vendere, mentre il poeta,

privato del ruolo di vate, sarebbe un lavoratore, un venditore di forza-lavoro, che assume il ruolo di

antagonista all‘interno di un sistema regolato da leggi economiche (Curi, 1977, p. 11).

Se proviamo a leggere il testo all‘interno del libro e, ancor più in generale, nel sistema

letterario della seconda metà dell‘Ottocento, colpiscono altri elementi. Innanzitutto il titolo, Petits

poèmes en prose – Poemetti in prosa o Poesie in prosa – che mette in rilievo la particolarità del

genere prescelto. Baudelaire, autore di poesie, quando pubblica questi testi sulle riviste tende a

mettere in evidenza la diversità e allo stesso tempo l‘affinità delle sue prose con le poesie.

Innanzitutto i petits poèmes en prose trattano gli stessi temi delle poesie, mettono in scena gli stessi

personaggi e gli stessi ambienti. Come le poesie delle Fleurs du mal, queste prose sono brevi,

concise. E come nelle sue poesie, in questi testi Baudelaire ci parla in modo esplicito del poeta e

della poesia. Si pensi alla famosa poesia L‟albatros, dove il poeta è paragonato all‘albatro, deriso

dai marinai per la sua goffaggine quando si appoggia a terra e invece ammirato dagli stessi quando

vola alto in mezzo alle nuvole. E si pensi a Perdita d‟aureola, con un altro poeta alle prese con un

contrasto, una dualità evidente: da una parte il caos della città, pericoloso ma affascinante coi suoi

luoghi malfamati, dove ci si può mescolare con la folla anonima; dall‘altra l‘ordine di un mondo

regolato da convenzioni, dove un‘aureola è sufficiente a fare un poeta, ad elevare una persona al di

sopra della folla anonima.

Tuttavia, nonostante le affinità, le poesie o poemetti in prosa sono tra di loro radicalmente

differenti almeno per un aspetto: le prime sono in versi, le seconde in prosa. È come se il poeta della

nostra storia avesse scelto di rifugiarsi nell‘anonimato della prosa. Non è forse il verso, l‘a capo, la

versura, il segno distintivo della poesia? Non potrebbe alludere proprio al verso, l‘aureola del

poeta? La vera scommessa del poeta, in questo caso, consiste nel riuscire a fare della poesia senza il

verso; fare della poesia, appunto, in prosa (Giusti, 2005).

La perdita dell‘aureola coinciderebbe con la perdita del verso: una liberazione del poeta sia

dalle rigide strutture compositive della poesia, sia, soprattutto, dagli automatismi comunicativi che

esse rappresentano. Il poeta vero rifiuta cioè di essere un versificatore che soddisfa le aspettative dei

lettori. Egli vuole invece scoprire nuove modalità di relazione col lettore, che deve stupirsi di

trovare la poeticità altrove, in luoghi inconsueti e incredibili, come, ad esempio, nei bassifondi della

prosa.

Una volta accettato che può esistere la poesia fuori dal verso si tratta di lavorare su quegli

elementi che conferiscono gli effetti della poeticità. Essere poeti senza mostrarsi poeti. Ottenere un

effetto sul lettore senza affidarsi a scorciatoie, senza confidare nell‘esistenza di una poesia e di una

poeticità al di fuori della mente del lettore. È il lettore che deve trovare la poeticità e la letterarietà

nell‘esperienza della lettura.

In questo testo – e nell‘intera opera di Baudelaire – possiamo leggere questa transizione da un

mondo in cui esistono la Poesia e la Letteratura ad un mondo in cui esistono dei testi che i lettori,

attraverso la lettura, considerano poesia e letteratura.

Si potrebbe anche dire – usando la terminologia della teoria letteraria (Genette, 1991) – che

con Baudelaire si passa da un regime costitutivo della letterarietà, tipico delle poetiche essenzialiste

– le poetiche classiche, ad esempio, che sostengono una letterarietà per natura o per definizione,

immutabile – ad un regime condizionale della letterarietà, dove la poeticità può essere stabilita solo

da un giudizio di ordine estetico e quindi ‗concordata‘ di volta in volta dall‘autore e dal lettore

(Genette G., 1991). Accettare questo, esserne consapevoli, significa innanzitutto prendere in

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considerazione la presenza attiva del lettore sulla pagina, accogliendone allo stesso tempo le

capacità percettive e ricettive.

Privato dell‘aureola, l‘autore deve affidare al testo il compito di aprire una trattativa con il

lettore concreto. Il lettore – l‘Hypocrite lecteur – è necessario perché la letteratura esista, per la sua

co-costruzione, per la definizione del quadro di valori e del sistema di significati che fanno sì che

un‘esperienza venga percepita come letteraria. «È la poesia (il testo) che agisce sul lettore: è il

lettore che fa la poesia (il testo). L‘autore ha il compito di mettere in moto il processo di reciproco

riconoscimento della poesia nel lettore, del lettore nella poesia» (Giusti, 2005, p. 20). La letteratura

diventa il luogo della trattativa e della negoziazione dei significati. E il poemetto in prosa intitolato

Perdita d‟aureola può essere il testo in cui diventa visibile e condivisibile questa condizione

instabile e precaria del significato stesso. Perché se non ci si può fidare dell‘aureola, se non

possiamo dire con certezza che quello con l‘aureola è un poeta o un buffone mascherato da poeta,

allora non ci possiamo fidare di nessun altra parola, di nessun altro significato. Siamo chiamati a

decidere ad ogni nuova lettura, ad ogni nuova esperienza.

Simone Giusti

Note.

(1) Traduzione di Gianni D‘Elia (Baudelaire, 1869).

Bibliografia citata:

Walter Benjamin, Schriften. Hrsg. von Theodor W. Adorno und Gretel Adorno unter Mitwirkung von Friedrich

Podszus. 2 Bände. Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1955

Fausto Curi,Perdita d'aureola, Einaudi, Torino, 1977.

Gérard Genette,Fiction et diction, 1991 (Finzione e dizione, tr. Sergio Atzeni, Pratiche, Parma,1994)

Simone Giusti, La congiura stabilita. Dialoghi e comparazioni tra Ottocento e Novecento,Angeli, Milano, 2005.

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RON SILLIMAN

LA FRASE NUOVA

To please a young man there should be sentences. What are sentences. Like

what are sentences. In the part of sentences it for him is happily all. They will

name sentences for him. Sentences are called sentences.(1)

Gertrude Stein

Il solo ed unico precedente che riesco a trovare per quel che riguarda la frase nuova è Kora

all‟inferno ma anche quello piuttosto forzato.

Avanzerò un‘ipotesi e, cioè, che c‘è qualche cosa come la frase nuova e che, ad oggi, si presenta più

o meno esclusivamente nella prosa della Bay Area. Di conseguenza, questa discussione tende ad

affrontare la questione della poesia in prosa. Ho detto che tende perché, al fine di comprendere

come mai si capisce così poco delle frasi e delle poesie in prosa, è necessaria una certa quantità di

materiale pregresso.

L‘ipotesi di una frase nuova suggerisce una comprensione generale della frase in sé, sullo sfondo

della quale si possa disegnare un‘evoluzione o uno spostamento.

Questo pone un primo problema. Non c‘è un consenso adeguato, nel campo della linguistica, della

filosofia e della critica letteraria, per quel che riguarda la definizione di frase. Per quanto strano

possa sembrare, c‘è una ragione per tutto ciò.

Milka Ivić, in Trends in linguistics, segnalava che i linguisti, a partire dagli anni ‗30, avevano

proposto e via via usato più di 160 definizioni di ―frase‖.

La parola frase è, di per sé, relativamente recente quanto alle proprie origini, stando all‘OED(2),

dato che deriva dal francese del XII secolo. Come sostantivo, l‘OED ne propone 9 definizioni. Tra

le altre:

5) Una porzione indefinita di un discorso o di uno scritto.

6) Una serie coerente di parole in un discorso o in uno scritto, formante l‘espressione grammaticalmente

completa di un singolo pensiero; nell‘uso popolare spesso in quanto porzione di una composizione o di una

dichiarazione che si estenda da un punto fermo all‟altro.

Questa definizione è datata 1447.

Contenuta nella sesta definizione c‘è la notazione che, grammaticalmente, una frase può essere sia

una proposizione che una domanda, un comando o una richiesta, e che contiene soggetto e

predicato, benché uno di questi possa essere assente per ellissi; allo stesso modo l‘OED riconosce

tre classi di frasi: semplici, composte e complesse, e nota che una parola da sola può avere il valore

di frase.

Nel numero di Scientific American del novembre 1978, Breyne Arlene Moskowitz offre una

presentazione sommaria degli sviluppi recenti nella teoria dell‘acquisizione del linguaggio nei

bambini:

Il primo stadio del linguaggio infantile è quello in cui la lunghezza massima delle frasi è di una parola; è seguito

da uno stadio in cui la lunghezza massima è di due parole [...] Nel momento in cui il bambino formula frasi di

due parole con una certa regolarità, il suo lessico può includere alcune centinaia di parole [...] un criterio

importante è l‘informatività, cioè il bambino seleziona una parola riflettendo ciò che è nuovo in una particolare

situazione.(3)

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Ecco una conversazione abbreviata tra un bambino, allo stadio della parola unica, e un adulto, che indica la funzione frasale delle singole parole:

B: Car. Car.

A: What?

B: Go. Go.

A. What?

B: Bus. Bus. Bus

A: Bicycle?

B. No!(4)

Ma anche prima dello stadio della parola unica, il bambino si mette a giocare con la prosodia balbettante di forme di frasi che sono nettamente più lunghe, fino a che gradualmente non vengono

acquisiti i contorni dell‘intonazione di un discorso normale. Questo suggerisce che il bambino sente

le frasi prima ancora che sia in grado di scomporle in unità più piccole – cioè che la frase, in un

certo senso, è un‘unità primaria del linguaggio.

Vale la pena notare anche l‘assenza di uno stadio a tre parole. Dallo stadio a due parole, un infante

entra direttamente nel regno delle frasi a lunghezza variabile.

Infine, si dovrebbe notare con attenzione che Moskowitz sta parlando del discorso, non della

scrittura, una distinzione che sarà sempre più importante.

Ecco un altro esempio di discorso, una conversazione telefonica:

E: Hello?

L: Hi Ed.

E: Hi Lisa.

L: I‘m running around here trying to get my machines done [+] and I‘d like to get it all done before I leave, [+]

so I won‘t have to come back. [-] So that might push us up till near two. How is that?

E: That‘s fine. My only thing is I have to leave here like around 3:15 or so.

L: 3:15. [-] Ok. Let me see how I‘m doing here, [+] then I‘ll give you a call right before I‘m going to leave.

E. Ok. [-] Fine.

L. Okey doke. Bye bye.

E. Bye.(5)

Ed Friedman ha scritto questa conversazione come se avesse fino a 16 frasi distinte. Ci sono almeno 6 punti, in questa piccola sceneggiatura, che avrebbero potuto essere trascritti diversamente (indicati

dai segni + o – inseriti nel testo), ricostruendo così la conversazione come con un minimo di 13 ed

un massimo di 19 frasi. Ci sono, in effetti, 64 modi distinti di trascrivere questa conversazione

senza alterare radicalmente l‘accettabilità di nessuna delle sue frasi.

La qual cosa ci porta alla questione non tanto della frase nel discorso ma, piuttosto, nella linguistica

moderna, come disciplina e tradizione, che normalmente si fa iniziare con il Corso di linguistica

generale di Saussure. In quell‘opera, Saussure fa menzione della frase in sole tre occasioni. Tutte e

tre hanno luogo nella seconda parte del corso, che si occupa della linguistica sincronica.

Il primo riferimento è nel punto in cui viene trattata la localizzazione di unità di delimitazione

pratica del linguaggio. Secondo la citazione, Saussure dice:

Una teoria, condivisa piuttosto ampiamente, individua le frasi come le unità concrete del linguaggio: parliamo

essenzialmente per frasi e, in un secondo momento, isoliamo le singole parole. Ma in che misura la frase

appartiene alla lingua [langue]? Se appartiene al parlato [parole], la frase non può passare per unità linguistica.

Ma supponiamo pure che questa difficoltà sia risolta. Se ci immaginiamo, nella loro totalità, le frasi che possono

essere emesse, la caratteristica che colpisce di più è che in nessuno modo l‘una assomiglia all‘altra [...] la

diversità è dominante, e quando cerchiamo l‘anello che fa da ponte alla loro diversità, di nuovo troviamo, senza

averla cercata, la parola [...](6)

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La distinzione tra lingua e parlato (langue e parole) è decisiva. Saussure sta analizzando solo uno degli elementi, la langue, e ponendo la frase nell‘ambito dell‘altro, la rimuove dall‘area di maggiore

interesse per la sua ricerca. Più di ogni altra ragione, c‘è questo all‘origine del fallimento delle

scienze umane moderne nella costruzione di un consenso determinato attorno alla definizione di un

termine così decisivo.

Il secondo riferimento di Saussure mette la frase da parte, un volta per tutte, nel regno della parole.

È nella sezione delle relazioni sintagmatiche, nel capitolo che storicamente divide per la prima volta

il paradigma dal sintagma. L‘asse sintagmatico è quello della connessione tra le parole, come nella

sintassi:

[...] la nozione di sintagma si applica non solo alle parole ma ai gruppi di parole, alle unità complesse di tutte le

lunghezze e di tutti i tipi (composte, derivate, locuzione, frasi intere).

Non è sufficiente prendere in considerazione la relazione che lega insieme le diverse parti dei sintagmi, bisogna

anche tenere a mente la relazione che collega l‘intero con le sue parti.

A questo punto, si deve sollevare un‘obiezione. La frase è il tipo ideale di sintagma. Ma appartiene al parlato,

non alla lingua.(7)

La frase è stata ricacciata nell‘ambito della non-analisi, il regno della parole, ma senza una chiara e

decisa argomentazione. Queste due citazioni congiurano, senza alcuna prova, per il rigetto della

frase come oggetto di analisi critica.

L‘unico altro punto in cui Saussure fa almeno riferimento alla frase è nel problema delle frasi da

una parola e nella questione se posseggano o meno una dimensione sintagmatica. Il linguaggio

usato dimostra qual è il problema a cui dà luogo l‘esclusione dalla linguistica di una teoria della

frase:

Per certo, il linguaggio ha unità indipendenti che non hanno relazioni sintagmatiche né con le proprie parti né

con altre unità. Equivalenti di frasi come sì, no, grazie, etc. sono dei buoni esempi. Ma questo fatto eccezionale

non compromette il principio generale.(8)

Data questa negazione di importanza all‘origine della linguistica moderna, non è sorprendente che la frase non sia né definita né tanto meno indicizzata ne I fondamenti della teoria del linguaggio,

del 1943(9), di Louis Hjelmslev.

In America, nello stesso periodo, il linguista attivo più influente era Leonard Bloomfield, che, ne Il

linguaggio (1933(10)), definiva la frase come:

Una forma linguistica indipendente, non inclusa in alcuna altra forma più ampia per virtù di una qualche

costruzione grammaticale.

Questa definizione è vuota di ogni criterio interno. La frase è meramente un limite, il punto oltre il

quale l‘analisi grammaticale non può più estendersi. In un certo senso, questa definizione ritorna

alla definizione di frase dell‘OED, come ciò che si trova tra due punti fermi, senza riguardo per ciò

che potrebbe essere.

Ci si potrebbe aspettare un trattamento più congruo in Aspects of the theory of syntax di Chomsky

(1965), almeno nella misura in cui si tratta di sintassi e che quella sintagmatica è l‘unica area in cui

Saussure permette, se non altro, che la frase come questione venga in superficie, e anche perché

Chomsky sta lavorando con concetti come accettabilità, frasi devianti e frasi semplici. Tuttavia la questione viene sollevata solo nel capitolo prefatorio delle ―metodologie preliminari‖. ―Farò uso del

termine ‗frase‘ per riferirmi alle stringhe di elementi formativi piuttosto che alle stringhe di foni‖.

Un elemento formativo è definito nel primo paragrafo del libro come una ―unità minima

sintatticamente funzionante‖. Il problema delle frasi da una parola o di altre frasi brevi è glissato

allo stesso modo. Ecco che cosa dice rispetto alle frasi semplici:

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Queste sono frasi di tipo particolarmente semplice che implicano un apparato trasformazionale minimo nella loro

generazione. La nozione di ―frase semplice‖ ha, credo, un importante significato intuitivo ma, poiché le frasi

semplici non giocano nessun ruolo distintivo nella generazione o nell‘interpretazione delle frasi, qui non dirò

niente a riguardo. (11)

Chomsky non ci dà alcuna idea su quale possa essere l‘importante significato intuitivo delle frasi semplici.

L‘immagine di Milka Ivić delle 160 definizioni di frase nasce dal lavoro di John Ries, che pubblicò

per la prima volta Was Ist Ein Satz? nel 1894, più di un decennio prima di Saussure, per aggiornarlo

poi, a Praga, nel 1931. Nella sua ultima edizione, Ries analizza 140 definizioni, e le ulteriori 20 che

Ivić individua erano critiche all‘analisi di Ries. Simeon Potter segue questo dibattito in Modern

linguistics, che ha un intero capitolo dedicato alla struttura della frase.

La frase è l‘unità principale del discorso. Potrebbe essere semplicemente definita come una minima enunciazione

completa. [...] Quando affermiamo che la frase è una minima enunciazione completa, un segmento del flusso di

discorso tra una pausa e l‘altra, o una struttura ereditata in cui le forme-parole sono sistemate, non stiamo

dicendo tutto quello che si potrebbe dire a riguardo. Ciononostante, queste definizioni sono probabilmente più

praticabili dello sforzo finale di John Ries: ‗Una frase è una unità di discorso grammaticalmente costruita che

esprime il suo contenuto in riferimento alla relazione di quel contenuto con la realtà‘. Potremmo, in effetti, avere

le stesse difficoltà nel definire una frase che nell‘infilzare con il nostro spillo un fonema e, tuttavia, dopo una

certa pratica, tutti riconosciamo i fonemi e le frasi quando li vediamo.(12)

In breve, la storia e la struttura della linguistica come professione inibisce, se addirittura non la

impedisce completamente, l‘elaborazione di una teoria della frase che possa poi essere applicata in

letteratura.

Già alla fine degli anni ‗20, il linguista russo Valentin Vološinov propose la seguente critica in

Marxismo e filosofia del linguaggio:

I principi e i metodi tradizionali della linguistica non forniscono una base solida per un approccio produttivo al

problema della sintassi. Questo è particolarmente vero per l‘oggettivismo astratto [l‘espressione che usa per la

scuola saussuriana], in cui i metodi e i principi tradizionali hanno trovato la loro espressione più distinta e

coerente. Tutte le categorie fondamentali del moderno pensiero linguistico [...] sono profondamente fonetiche e

morfologiche. [...] Di conseguenza, lo studio della sintassi è in un pessimo stato. [...]

Stando ai fatti, tuttavia, di tutte le forme del linguaggio, le forme sintattiche sono quelle più vicine alla forma

concreta dell‘enunciazione [...] uno studio produttivo delle forme sintattiche è possibile solo sulle basi di una

teoria dell‘enunciazione pienamente sviluppata. [...]

Il pensiero linguistico ha perso senza speranza ogni senso dell‟insieme verbale.(13)

Vološinov scavalca la frase più o meno in blocco, scrivendo che ―la categoria di frase è meramente una definizione della frase come elemento-unità all‟interno dell‘enunciazione e in nessun modo

come entità completa‖.

La funzione della frase come unità interna a una struttura più ampia, in effetti, diventerà

importante quando ci rivolgeremo al ruolo della frase nuova. Ma ciò che è essenziale, qui, è il

fallimento, anche all‘interno di questa analisi critica, di una possibile teoria della frase.

A questo punto, si possono constatare alcune cose riguardo alla frase e alla linguistica:

1) La frase è un termine derivato dalla scrittura, che in linguistica è spesso messa in secondo piano dallo studio

del discorso. Specificatamente, la frase è un‘unità della scrittura.

2) Esiste nel discorso una forma aperta, simile ma non identica alla frase nella scrittura. Seguendo Vološinov, mi

riferirò ad essa come all‘enunciazione.

La differenza essenziale tra l‘enunciazione e la frase è che l‘enunciazione è indeterminata, una catena che può

essere allungata più o meno indefinitamente. Non c‘è nessuna frase invece che non sia determinata e, come tale,

è fissata dal punto fermo.

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3) La focalizzazione della linguistica sullo sviluppo di una descrizione della langue piuttosto che della parole, il

non affrontare la questione della scrittura, ha reso invisibile la questione della frase.

Se la linguistica non riesce a gestire la frase perché non riesce a separare la scrittura dal discorso, la

filosofia non ha a che fare con il linguaggio in quanto discorso come neppure in quanto scrittura. Il

linguaggio è sia:

1) Il pensiero stesso

a) a volte inteso come vincolato e formale, come nella logica o in un calcolo, per es. l‘―austero schema

canonico‖ di Quine con cui, se solo si fosse conosciuto l‘insieme completo delle eterne frasi corrette, si sarebbe

potuto costruire logicamente la totalità della conoscenza corretta possibile;

b) a volte inteso come non vincolato, come quando il linguaggio viene considerato identico alla somma dei

pensieri possibili, una posizione tenuta da Chomsky nei suoi interventi nel dibattito filosofico.

2) Una manifestazione o una trasformazione del pensiero, anche distinguendosi in modelli vincolati o non

vincolati, essendo Wittgenstein un esempio di entrambi, per i modelli vincolati all‘inizio, nel Tractatus, e poi

non vincolati nelle Ricerche filosofiche, dato che entrambi i testi sostengono che il linguaggio è un travestimento

del pensiero.

Il modello di Wittgenstein, sia nei suoi primi scritti che negli ultimi, è strettamente parallelo a

quello di Saussure. Lo spostamento radicale tra i due periodi è uno spostamento di oggetto e di

scopo – dal dispiegamento di un discorso idealizzato nel Tractatus a un‘esplorazione dei problemi

del significato nell‘uso effettivo del linguaggio nelle Ricerche filosofiche. L‘interruzione arriva

negli anni ‗30 ed è documentata nella Grammatica filosofica e nelle sue appendici. Le sezioni delle

Ricerche qui di seguito mostrano come il suo lavoro più tardo si avvicinasse al tipo di discussione

che fa da contesto per la nuova frase:

498. Quando dico che i comandi ―Prendi lo zucchero‖ e ―Prendi il latte‖ hanno senso, ma non la combinazione

―Latte lo zucchero‖, non significa che la dichiarazione di questa combinazione non abbia alcun effetto. E se

l‘effetto è che l‘altra persona mi guarda con gli occhi sgranati e rimane a bocca aperta, non la considero, sulla

base di questo, un comando a guardare ad occhi sgranati e rimanere a bocca aperta, anche se questo fosse

precisamente l‘effetto che volevo produrre.

499. Dire ―Questa combinazione di parole non ha senso‖ la esclude dalla sfera del linguaggio e quindi mette un

limite all‘ambito del linguaggio. Ma quando si traccia un confine potrebbe essere per ragioni di diverso tipo. Se

si circonda un‘area con un recinto o una linea o quel che sia, lo scopo potrebbe essere quello di impedire che

qualcuno ci entri o ne esca; ma potrebbe anche fare parte di un gioco e per i giocatori sarebbe previsto, per dire,

saltare oltre il confine; o potrebbe mostrare dove la proprietà di un uomo finisce e quella di un altro comincia.

Così se disegno una linea di confine non è ancora possibile dire a che cosa serva. (14)

Una delle cose che rende Wittgenstein (e, più recentemente, Derrida) così utile, suggestivo e citabile dai poeti è l‘alto tasso di metafore nel suo lavoro. Non tutti i discorsi filosofici sono così –

anzi, la più parte ne rifugge.

A. J. Ayer ha scritto in quest‘altro stile. In Linguaggio, verità e logica, ha cercato di distinguere le

frasi dalle proposizioni e dalle affermazioni, un tentativo classico di compartimentazione della

connotazione:

In questo senso, propongo che ogni struttura di parole che sia grammaticalmente significativa si debba

considerare che costituisca una frase, e che ogni frase indicativa, che sia letteralmente dotata di significato

oppure no, dovrà essere ritenuta come esprimente un‘affermazione. Inoltre, di ogni due frasi che siano

reciprocamente traducibili si dirà che esprimono la stessa affermazione. La parola ―proposizione‖, d‘altra parte,

sarà riservata per le frasi che sono letteralmente dotate di significato. (14)

Questa formula per la frase non è definita meglio di tutte quelle offerte dalla linguistica. Non

propone nemmeno la possibilità di una distinzione tra frase semplice, frase composta o frammento,

poiché non affronta la questione dell‘interruzione completa o di un livello massimo di integrazione

grammaticale del significato. Traccia, però, una linea netta tra le categorie proposte o, almeno,

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cerca di farlo. Tuttavia, anche l‘accoglimento di questa formulazione succinta ha trovato delle

resistenze:

Ayers dice (a) che il suo uso di ―proposizione‖ designa una classe di frasi che hanno tutte lo stesso significato e

(b) che ―di conseguenza‖ parla di proposizioni, non di frasi, che sono vere o false. Ma, ovviamente, quello che

significa una frase non ci mette in grado di dire che essa è vera o falsa.. [...](16)

I problemi posti dal rendere le frasi sinonimiche, anche solo approssimativamente, alle proposizioni

li si può vedere in una forma estrema in Parola e oggetto di Willard Van Orman Quine:

Una frase non è un evento di dichiarazione, ma un universale [...] In genere, per specificare una proposizione

senza dipendenze dalle circostanze della dichiarazione, noi poniamo [...] una frase eterna: una frase il cui valore

di verità rimane fissato attraverso il tempo e da parlante a parlante. (17)

La critica letteraria dovrebbe servire come correttivo. Diversamente dalla filosofia, è un discorso

con un oggetto materiale chiaramente compreso. Come la filosofia, è una disciplina vecchia di

secoli. Per di più, fortunatamente gode di una buona posizione presso le società occidentali dove,

nelle scuole, la letteratura viene trattata come un‘estensione dell‘apprendimento del linguaggio.

Come ci mette in guardia Jonathan Culler in Structuralist Poetics, la critica letteraria è però lo

studio della lettura, non della scrittura. Se una teoria della frase la dobbiamo trovare nella poetica,

non sarà necessariamente di grande utilità per gli scrittori. Comunque, potrebbe funzionare come

base sulla quale creare una tale teoria.

Per prima cosa voglio prendere in considerazione i New Critics. In parte, perché sono stati talmente

egemoni che, fino a poco tempo fa, tutte le altre tendenze critiche erano definite dai termini secondo

cui vi si opponevano. I New Critics erano fortemente influenzati dalla tradizione filosofica inglese,

con I. A. Richards, per esempio, che giocava un ruolo importante in entrambe le comunità. Inoltre,

René Wellek era un prodotto della scuola linguistica di Praga e, come tale, aveva una completa

dimestichezza con il lavoro di Saussure, da una parte, e di Šklovskij, dall‘altra, entrambi citati con

approvazione nella Teoria della letteratura di Wellek, scritta con Austin Warren.

Queste influenze già suggeriscono che la Teoria della letteratura non conterrà una teoria coerente

della frase. Il modello linguistico saussurriano è implicito nella massima:

Ogni opera d‘arte è, prima di tutto, una serie di suoni dai quali nasce il significato. (18)

Questo non li conduce, come avrebbe potuto fare, verso un esame della sintassi – lasciando stare le

frasi. Ma li mette, in effetti, nella posizione per nulla invidiabile di dover difendere un punto di vista

da cui le loro stesse asserzioni avrebbero potuto essere attaccate facilmente.

Wellek e Warren sono ben consci di questa riduzione, e si difendono con un piccolo gioco di

prestigio, sostenendo che:

Un [...] assunto comune, che il suono dovrebbe essere analizzato in completa separazione dal significato, è

anch‘esso falso. (19)

La Teoria della letteratura non è una teoria della scrittura. In parte, questo è dovuto alla corretta

percezione che non tutta la letteratura è scritta. Ciononostante, Wellek e Warren non riescono ad

affrontare i cambiamenti specifici che occorrono una volta che la letteratura viene sottoposta al

processo della scrittura. Giustificano questo aspetto sostenendo che il testo scritto non è mai l‘opera

―reale‖. Questo dà loro modo, inoltre, di mettere da parte ogni considerazione circa l‘impatto della

stampa sulla letteratura, al di là del riconoscimento piuttosto spiccio della sua esistenza. Viktor

Šklovskij nota l‘importanza di questa esclusione in un‘intervista nel numero dell‘inverno 1978-

1979 di The Soviet Review:

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Un tempo solo la poesia aveva un suo riconoscimento e la prosa era considerata come qualcosa di seconda

classe, perché sembrava una specie di contraffazione; per molto tempo non venne accettata nell‘arte vera e

propria. Fu lasciata entrare solo quando si iniziarono a stampare i libri. (20)

Se si sostiene – e io lo sto sostenendo – che la frase, in quanto distinta dall‘enunciazione all‘interno

del discorso, è un‘unità di prosa e se la prosa come letteratura e la nascita della stampa sono

inestricabilmente interconnesse, allora si deve affrontare l‘impatto della stampa sulla letteratura,

non solo sulla presentazione della letteratura ma su come la scrittura stessa viene scritta. Questa

sarebbe la componente storica di qualunque teoria della frase.

Wellek e Warren evitano qualunque discussione di questo tipo. Al contrario, dividono la letteratura

in uno schema binario, un lato dedicato alla costruzione della trama e dei personaggi, l‘altro

dedicato al gioco di parola. Parlando in termini generali, questi diventano gli assi della narrativa e

della poesia. Questo schema è parallelo alla divisione saussuriana del linguaggio negli assi

paradigmatico e sintagmatico. Ed è parallelo anche alle strategie dello strutturalismo.

Il gioco di parole, l‘asse paradigmatico della poesia, potrebbe condurre a sua volta verso

un‘indagine sulla frase, ma non lo fa. Gli ambiti verso cui Wellek e Warren lo conducono sono

l‘immagine, la metafora, il simbolo e il mito: gruppi di referenzialità via via più ampi.

Come il New Criticism, lo strutturalismo – e qui intendo la poetica strutturalista – è fondato sul

modello di linguistica costruito all‘inizio da Saussure e poi codificato da Louis Hjelmslev e da

Roman Jakobson. Tuttavia, ha parecchi vantaggi pratici rispetto al New Criticism: non è

pesantemente influenzato dalla scuola filosofica inglese; non si è identificato con un movimento

conservatore in letteratura ed è almeno conscio della critica posta da Derrida alla linguistica

saussuriana.

Lo strutturalismo è arrivato più vicino di ogni tendenza fin qui esaminata al riconoscimento del

bisogno di una teoria della frase. Ma questo non vuol dire che ne sia stata poi sviluppata una.

Seguendo una divisione del discorso, fatta da Wellek e Warren, in tre ampie categorie – quotidiano,

scientifico e letterario – Pierre Macherey, in Per una teoria della produzione letteraria, propone che

il discorso quotidiano sia ideologico, che il discorso scientifico empirico e che il discorso letterario

si sposti avanti e indietro tra questi due poli. Questo modello riecheggia quello fatto da Louis

Zukofsky per la sua opera, che ha come limite inferiore il discorso e come limite superiore la

musica. La revisione di Macherey crea una vera distinzione e la muove abbastanza bene verso

qualcosa che potrebbe essere messo in una teoria contestualizzata dell‘enunciazione, come quella

proposta da Vološinov. Ma le divisioni di Macherey non sono accurate.

Il discorso quotidiano è puramente ideologico ma allo stesso modo lo sono tutti i discorsi

specializzati. Le restrizioni poste su tutte i modi del gergo professionale e del linguaggio tecnico,

sia scientifico che legale, medico o quant‘altro, comunicano la classe in aggiunta ad ogni altro

oggetto del loro discorso. Non esiste qualcosa come un discorso non ideologico o senza un valore

aggiunto.

La Poetica della prosa di Tzvetan Todorov, in effetti, affronta la funzione della frase per circa due

paragrafi. Todorov definisce il significato secondo la formula di Émile Benveniste: ―È la capacità di

un‘unità linguistica di integrare un‘unità di livello più alto‖. In una lezione del 1966 alla John

Hopkins, Todorov dimostra la sua comprensione dell‘importanza della questione dell‘integrazione:

Mentre nel discorso l‘integrazione delle unità non va al di là della frase, in letteratura le frasi sono integrate di

nuovo come parte di articolazioni più ampie e queste ultime, a loro volta, in unità di dimensioni maggiori, e così

via finché non si ottiene l‘opera intera [...] Dall‘altra parte, le interpretazioni di ogni unità sono innumerevoli,

perché la loro comprensione dipende dal sistema in cui sarà inclusa. (21)

Consideriamo, per esempio, come il significato viene alterato quando le stesse parole sono integrate

in stringhe via via più lunghe:

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Someone called Douglas.

Someone called Douglas over.

He was killed by someone called Douglas over in Oakland. (22)

Dei critici strutturalisti, l‘ultimo Roland Barthes fu il più esplicito nel chiedere una teoria della

frase. Nello stesso simposio con Todorov, arrivò al punto di dire:

La struttura della frase, l‘oggetto della linguistica, viene ritrovata, per omologia, nella struttura delle opere. Il

discorso non è semplicemente aggiungere frasi le une alle altre; è di per sé un‘unica grande frase. (23)

Questa affermazione ha l‘evidente difetto che la frase non è stata affatto l‘oggetto della linguistica e

Barthes era deliberatamente sfacciato nella sua affermazione. Ma c‘è un‘intuizione importante,

ovvero che le modalità di integrazione che riportano le parole alle locuzioni e le locuzioni alle frasi

non sono fondamentalmente diverse da quelle con cui una frasi individuale integra se stessa in

un‘opera più ampia. Questo non solo ci dà una buona ragione per esigere una teoria delle frasi ma

suggerisce, inoltre, che una tale teoria ci porterebbe verso una nuova modalità di analisi dei prodotti

letterari stessi.

In S/Z, Barthes dimostra come dovrebbe procedere un‘interpretazione strutturalista di una storia

specifica. Prende ―Sarrasine‖ di Balzac e lo analizza rispetto a diversi codici. In un certo senso, fa

passare il testo parola per parola ma non spezza la sua analisi in frasi. Al contrario, usa quelle che

chiama lessie, lunghe indifferentemente da una singola parola a parecchie frasi. Lo stesso Barthes

descrive la selezione come ―arbitraria all‘estremo‖, nonostante le tratti come ―unità di lettura‖.

Il suo primo lavoro, Il grado zero della scrittura, in effetti affronta la questione della frase ma in

uno stile fortemente metaforico e con una certa approssimazione, davvero solo un riflesso delle altre

opere fatte in quest‘area negli ultimi 25 anni. Si faccia il paragone con la teoria dell‘integrazione di

Benveniste:

L‘economia del linguaggio classico [...] è relazionale, il che significa che in esso le parole sono il più astratte

possibile nell‘interesse delle relazioni. In esso, nessuna parola ha densità di per sé, è difficilmente il segno di una

cosa, ma piuttosto lo strumento per portare a una connessione. Anziché sprofondare in una realtà interna

consustanziale alla sua configurazione esterna, si estende, appena viene enunciata, verso le altre parole. [...]

La poesia moderna, poiché la si deve distinguere dalla poesia classica e da ogni tipo di prosa, distrugge la natura

spontaneamente funzionale del linguaggio e lascia in piedi solo le sue basi lessicali. Trattiene solo la forma

esteriore delle relazioni, la loro musica, ma non la loro realtà. La Parola risplende lungo una linea di relazioni

svuotate del loro contenuto, la grammatica è privata del suo scopo, diventa prosodia e non è più nient‘altro che

una inflessione che dura solo per rendere presente la Parola. (24)

Qui Barthes sta riportando al piano temporale della storia una proposizione originalmente formulata

da Roman Jakobson per tutta la poesia, che ―la funzione poetica proietta il principio di equivalenza

dall‘asse della selezione all‘asse della combinazione‖. La massima di Jakobson suggerisce che la

supremazia del paradigmatico si estende al punto da imporsi sulle combinazioni, che si suppongono

neutre, del sintagmatico.

Barthes suggerisce che la proiezione del paradigma di Jakobson non sia una costante ma che la

storia abbia visto uno spostamento dal focus sintagmatico a quello paradigmatico e che ci sia stata

una frattura, ad un certo punto, quando qualche massa critica – non identificata specificatamente da

Barthes – ha reso impossibile alle unità di continuare ad integrarsi oltre i livelli grammaticali, per

esempio la frase. È proprio questa breccia – il momento in cui il significante, liberato di colpo dalla

servitù ad una gerarchia integrante di relazioni sintattiche, si ritrova svuotato di ogni significato –

che Frederic Jameson identifica come tratto caratterizzante del postmoderno:

La crisi nella storicità ora costringe ad un ritorno [...] alla questione dell‘organizzazione temporale in genere nel

campo di forze del postmoderno e, in effetti, al problema della forma che il tempo, la temporalità e il

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sintagmatico saranno in grado di prendere in una cultura sempre più dominata dallo spazio e dalla logica

spaziale. Se, in effetti, il soggetto ha perso le sue capacità di estendere attivamente le proprie pro-tensioni e re-

tensioni attraverso la molteplicità temporale, e di organizzare il proprio passato ed il proprio futuro in

un‘esperienza coerente, diventa abbastanza difficile vedere come le produzioni culturali di un tale soggetto

possano risultare in cose che non siano solo ‗mucchi di frammenti‘ o una pratica del casualmente eterogeneo e

frammentario e dell‘aleatorietà. In ogni caso, sono stati precisamente questi alcuni dei termini privilegiati

secondo cui la produzione culturale postmoderna è stata analizzata (e anche difesa, dai suoi apologisti). (25)

Come fanno le frasi ad integrarsi in unità di significato più alte? L‘ovvio primo passo è verso il

paragrafo:

[...] da un punto di vista decisivo, i paragrafi sono analoghi agli scambi nei dialoghi. Il paragrafo è una specie di

dialogo indebolito, inserito nel corpo di un‘enunciazione monologica. Al di là del dispositivo della ripartizione

del discorso in unità, ovvero i paragrafi conclusi nella loro forma scritta, si trova l‘atteggiamento verso gli

ascoltatori o i lettori ed il calcolo sulle possibili reazioni di questi ultimi. (26)

La definizione di Vološinov non è diversa in modo radicale dalle strategie di ripartizione di alcune

opere contemporanee, come le poesie-saggi di David Bromige. David Antin, nella sua conferenza

all‘80 Langton Street, descriveva il proprio lavoro proprio nei termini di Vološinov, come un

dialogo indebolito.

Ferruccio Rossi-Landi, il semiologo italiano, si focalizza su questo problema più da vicino, quando

propone che il sillogismo sia il paradigma classico dell‘integrazione sovrafrasale. Per esempio, le

frasi ―Tutte le donne una volta erano ragazze‖ e ―Alcune donne sono avvocati‖ porta logicamente

alla terza frase o conclusione, ad un più alto livello di significato, ―Alcuni avvocati una volta erano

ragazze‖. La letteratura, la maggior parte delle volte, procede per soppressione di questo terzo

termine, formando invece catene dell‘ordine delle prime due. Ecco un paragrafo di Barrett Watten:

He thought they were a family unit. There were seven men and four women, and thirteen children in the house.

Which voice was he going to record? (27)

La prima frase fornisce un soggetto, ―He‖, più un oggetto complesso, ―they‖, che potrebbe o non

potrebbe essere ―a family unit‖. La seconda rappresenta una pluralità (―they‖), che potrebbe o non

potrebbe essere ―a family unit‖. La terza di nuovo presenta un soggetto identificato come ―he‖ nel

contesto di una domanda (―Which voice‖) che implica una pluralità. E, tuttavia, ogni integrazione di

queste frasi in una piccola e ordinata narrazione è, in effetti, una presunzione da parte del lettore. Né

l‘una né l‘altra delle ultime due frasi ha un termine chiaramente anaforico che punti indietro, in

modo inequivocabile, verso la frase precedente. Nel paragrafo successivo, Watten esplora il

riconoscimento da parte del lettore di questa presunzione, di questa volontà di ―completare il

sillogismo‖:

That‘s why we talk language. Back in Sofala I‘m writing this down wallowing in a soft leather armchair. A dead

dog lies in the gutter, his feet in the air. (28)

Qui la prima frase si propone, in virtù della propria grammatica, come una conclusione, benché non

sia per nulla evidente di per sé perché sia ―why we talk language‖. La seconda inizia con una

locuzione, ―Back in Sofala‖, che indica uno spostamento da parte del soggetto sia nel tempo che

nello spazio. Ma ora il soggetto è ―I‖. La terza frase, che condivide con le due precedenti solo l‘uso

del tempo presente, è una specie di elzeviro umoristico sul processo stesso: la referenzialità non è

semplicemente morta ma fa la figura di un cadavere attonito. Eppure, appena due paragrafi sopra, la

distanza logica tra le frasi era così grande da spegnere qualunque pretesa, se non la più ambiziosa,

di integrazione lettoriale:

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The burden of classes is the twentieth-century career. He can be incredibly cruel. Events are advancing at a

terrifying rate. (29)

Rossi-Landi ci offre un altro approccio alla frase. Linguistics and Economics sostiene che l‘uso del

linguaggio nasce dal bisogno di suddividere il lavoro nella comunità e che l‘elaborazione di sistemi

linguistici e quella di una produzione lavorativa, fino ad includere ogni produzione sociale, seguono

dei percorsi paralleli. Da questo punto di vista, l‘attrezzo completato è una frase.

Un martello, per esempio, consiste di una bocca, di un manico e di una penna. Senza la presenza di

tutti e tre, il martello non funzionerebbe. La frasi sono in relazione con le loro sotto-unità in questo

stesso modo. Solo chi produce i martelli avrebbe una qualche utilità dai manici smontati; in questo

senso, senza l‘intero non ci può essere valore di scambio. Allo stesso modo, è a livello della frase

che il valore d‘uso ed il valore di scambio di ogni affermazione si mostrano alla vista. La frase da

una parola del bambino è comunicativa precisamente perché (e nel grado in cui) rappresenta una

totalità. Qualunque suddivisione ulteriore ci lascerebbe con un frammento inutilizzabile e

incomprensibile.

Tuttavia, le stesse frasi più lunghe sono a loro volta composte da parole, molte delle quali, se non

tutte, in altri contesti potrebbero formare delle frasi da una parola adeguate. In questo senso, è la

frase l‘unità cardine di ogni prodotto letterario.

Le produzioni più ampie, come le poesie, sono come delle macchine complete. Ogni frase

individuale potrebbe essere un pistone. Di per sé non ti mette in strada ma senza non si potrebbe far

muovere la macchina.

La frase è un‘unità di scrittura. Tuttavia, l‘enunciazione esiste come unità di discorso

precedentemente all‘acquisizione della scrittura, sia per gli individui che per le società. Le

enunciazioni del Gilgamesh o delle epiche omeriche sembrerebbero essere state tradotte nella forma

di frasi scritte, senza grandi difficoltà, molto prima dell‘avvento della prosa creativa o estetica.

Ciononostante, è la logica ipotattica della frase di prosa, del paragrafo di prosa e del saggio

espositivo a costituire, nel modo più completo, il modello secondo cui la frase viene comunicata,

nelle società occidentali, per mezzo del processo organizzato di educazione. La ―buona

grammatica‖, che non è mai esistita nella vita quotidiana parlata, se non come modello generale,

allo stesso modo è diffusa sul modello di un discorso ―alto‖. (Come notava Šklovskij, la prosa entra

nell‘arena letteraria con l‘ascesa della stampa solo poco più di 500 anni fa; il suo ruolo culturale è

diventato progressivamente più importante con la diffusione dell‘alfabetizzazione nelle classi più

basse). Il linguaggio ―educato‖ imita la scrittura: più l‘individuo è ―raffinato‖, più si può supporre

che le sue enunciazioni avranno le caratteristiche di una prosa espositiva. La frase, ipotattica e

completa, è stata ed è ancora un indice di classe nella società. Di conseguenza, la funzione di questa

unità all‘interno della prosa creativa si dimostra essenziale per la nostra comprensione di come una

frase possa diventare ―nuova‖.

La prosa della narrativa deriva in misura notevole dalla poesia epica narrativa ma si sposta verso un

senso molto differente della forma e dell‘organizzazione. I dispositivi formali esteriori, quali la rima

o la spezzatura del verso, si riducono e le unità strutturali diventano la frase e il paragrafo. Al posto

dei dispositivi esterni, che entrano in funzione per mantenere l‘esperienza del lettore o

dell‘ascoltatore almeno parzialmente nel tempo presente, mentre fruiscono il testo, la narrativa per

lo più mette in primo piano il salto sillogistico, o l‘integrazione al di sopra del livello della frase, per

creare un racconto pienamente referenziale.

Questo non significa che il paragrafo di narrativa sia privo di una forma significativa, anche nelle

narrazioni più avvincenti. Prendiamo in considerazione questo paragrafo da L‟agente segreto di

Conrad:

In front of the great doorway a dismal row of newspaper sellers standing clear of the pavement dealt out their

wares from the gutter. It was a raw, gloomy day of the early spring; and the grimy sky, the mud of the streets, the

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rags of the dirty men harmonized excellently with the eruption of the damp, rubbishy sheets of paper soiled with

printer‘s ink. The posters, maculated with filth, garnished like tapestry he sweep of the curbstone. The trade in

afternoon papers was brisk, yet, in comparision with the swift, constant march of foot traffic, the effect was of

indifference, of disregarded distribution. Ossipon looked hurriedly both ways before stepping out into the cross-

currents, but the Professor was already out of sight. (30)

Solo l‘ultima, di queste cinque frasi, porta effettivamente avanti la narrazione. Il resto serve per

collocare la scena, ma per farlo nella maniera più formale che si possa immaginare. Ogni frase è

costruita attorno a qualche tipo di opposizione. La prima ci porta dal ―great doorway‖ ad una

―dismal row‖ nel ―gutter‖. La seconda fa contrastare la ―spring‖ con ―raw and gloomy‖ per avere

poi il ―grimy sky‖, ―the mud‖, ―the rags of the dirty men‖ che ―harmonize excellently‖ con i ―damp

rubbishy sheets soiled with ink‖. E così via, addirittura fino alla presenza di Ossipon e l‘assenza del

Professor.

In una poesia, questo tipo di struttura potrebbe essere messa in primo piano efficacemente,

sistemando dei termini chiave in posizione critica lungo il verso, collocando certe opposizioni in

rima quasi identica e magari scrivendo tutto al tempo presente. La narrativa, in genere, ha una

tendenza molto più forte verso il tempo passato. Ma la cosa ancora più importante è che la

mancanza di questi dispositivi di messa in primo piano permette alla capacità sillogistica del

linguaggio di diventare dominante.

È questa condizione della prosa che troviamo anche nell‘opera di Russell Edson, il più noto scrittore

di poesia in prosa in lingua inglese. Questo è da ―The sardine can dormitory‖:

A man opens a sardine can and finds a row of tiny cots full of tiny dead people; it is a dormitory flooded with oil.

He lifts out the tiny bodies with a fork and lays them on a slice of bread; puts a leaf of lettuce over them, and

closes the sandwich with another slice of bread.

He wonders what he should do with the tiny cots; wondering if they are not eatable, too?

He looks into the can and sees a tiny cat floating in the oil. The bottom of the can, under the oil, is full of little

shoes and stockings. (31)

Oltre alla tipologia allucinata della storia, derivata dal surrealismo e dai racconti brevi di Kafka, qui

non c‘è niente di molto diverso dalle condizioni della prosa per come la si può trovare in narrativa.

Se non altro, usa meno dispositivi formali del passaggio di Conrad qui sopra.

In buona parte, ciò che rende Edson un autore di poesia in prosa è dove pubblica. Le poesie in

Edson‟s mentality furono pubblicate per la prima volta in Poetry Now, Oink! e The Iowa Review.

Pubblicando insieme ai poeti, Edson ha assunto il ruolo pubblico di poeta, ma un poeta la cui opera

partecipa interamente delle tattiche e delle unità della narrativa.

Edson è un buon esempio del perché si è arrivati a pensare alla poesia in prosa – anche il nome è

goffo – come ad una forma impura.

Ancora oggi, in America, la poesia in prosa non ha quasi nessuna legittimità. Non c‘è alcuna poesia

in prosa nell‘antologia di Hayden Carruth, The voice that is great within us.

Neppure in The new American poetry di Donald Allen.

Neppure nell‘antologia di Robert Kelly e Paris Leary, A controversy of poets.

La poesia in prosa viene alla luce in Francia. Dal 1699, le regole di versificazione stabilite

dall‘Accademia francese si dimostrarono così rigide che alcuni scrittori decisero semplicemente di

scansarle componendo, piuttosto, in uno stile di prosa ―poetico‖, scrivendo nel XVIII secolo epiche

e pastorali secondo quella maniera. Allo stesso tempo, si andava traducendo, in prosa francese,

poesia di altri paesi. Fu Aloysius Bertrand che, nel 1827, iniziò per primo a comporre poesie in

prosa. Pubblicò quei lavori in un libro intitolato Gaspard de la Nuit. Alla fine del XIX secolo, il

genere era stato incorporato a pieno titolo nella letteratura francese, da Baudelaire, Mallarmé e

Rimbaud.

I francesi trovarono che la poesia in prosa fosse un dispositivo ideale per la dematerializzazione

della scrittura. Erano spariti, una volta per tutte, i dispositivi di forma esterni che tenevano in modo

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assillante il lettore nel presente, conscio della presenza fisica del testo in quanto tale. Le frasi

potevano essere allungate, stiracchiate anche oltre la già estesa elocuzione che caratterizzava il

verso di Mallarmé, senza mettere il lettore in confusione o distaccarlo dalla poesia. E frasi più

lunghe, inoltre, sospendevano per periodi di tempo più ampi la spinta a concludere, che entra nella

prosa come marchio del ritmo. Tutto ciò era perfetto per contenuti allucinati, fantastici, onirici, per

pezzi con molteplici collocazioni spaziali e temporali costrette in poche parole. Ecco una poesia di

sei frasi di Mallarmé, tradotto da Keith Bosley con il titolo ―The pipe‖:

Yesterday I found my pipe as I was dreaming about a long evening‘s work, fine winter work. Throwing away

cigarettes with all the childish joys of summer into the past lit by sun-blue leaves, the muslin dresses and taking

up again my earnest pipe as a serious man who wants a long undisturbed smoke, in order to work better: but I

was not expecting the surprise this abandoned creature was preparing, hardly had I taken the first puff when I

forgot my great book to be done, amazed, affected, I breathed last winter coming back. I had not touched the

faithful friend since my return to France, and all London, London as I lived the whole of it by myself, a year ago

appeared; first the dear fogs which snugly wrap our brains and have there, a smell of their own, when they get in

under casement. My tobacco smelt of a dark room with leather furniture season by coaldust on which the lean

black cat luxuriated; the big fires! and the maid with red arms tipping out the coals, and the noise of these coals

falling from the steel scuttle into the iron grate in the morning – the time of the postman‘s solemn double knock,

which brought me to life! I saw again through the windows those sick trees in the deserted square – I saw the

open sea, so often crossed that winter, shivering on the bridge of the streamer wet with drizzle and blackened by

smoke – with my poor wandering loved one, in travelling clothes with a long dull dress the color of road dust, a

cloak sticking damp to her cold shoulders, one of those straw hats without a feather and almost without ribbons,

which rich ladies throw away on arrival, so tattered are they by the sea air and which poor loved ones restrim for

a few good season more. Round her neck was wound the terrible handkerchief we wave when we say goodbye

forever. (32)

Qui abbiamo quasi una prefigurazione della frase nuova: l‘assenza di dispositivi poetici esterni ma

non la loro interiorizzazione nella frase, come in Conrad. Mallarmé ha esteso la loro assenza

riducendo il testo al numero minimo di frasi. L‘assenza di enfasi sulla materialità del testo, in questa

maniera, è un esempio di prosa che informa la struttura poetica ed inizia ad alterare la struttura della

frase. Ma si noti che qui non c‘è alcun tentativo di impedire l‘integrazione delle unità linguistiche a

livelli superiori. Queste frasi non ci conducono verso il riconoscimento del linguaggio, ma lontano

da esso.

In Inghilterra e in America, la poesia in prosa non ha messo radici alla svelta. Ciononostante, Oscar

Wilde e Amy Lowell fecero dei tentativi in quella direzione e la presenza di poesie in altre lingue

tradotte in prosa inglese, come la riscrittura dei canti indiani di Tagore, Gitanjali, ebbe una grande

visibilità.

L‘antologia di Alfred Kreymbourg del 1930, Lyric America, ha quattro poesie in prosa. Una è una

cosa lunga e tediosa di Arturo Giovanni, intitolata ―The walker‖. Le altre tre sono del poeta nero

Fenton Johnson. Johnson usa un dispositivo che punta nella direzione della nuova frase. Ogni frase

è un paragrafo completo; le frasi che si susseguono sono trattate ognuna come un paragrafo; due

paragrafi però iniziano con delle congiunzioni. Strutturata in questo modo, quella di Johnson è la

prima poesia in prosa americana con una chiara, anche se semplice, relazione frase-paragrafo.

THE MINISTER

I mastered pastoral theology, the Greek of the Apostles, and all the difficult subjects in a minister‘s curriculum.

I was learned as any in this country when the Bishop ordained me.

And i went to preside over Mount Moriah, largest flock in the Conference.

I preached the Word as I felt, I visited the sick and dying and comforted the afflicted in spirit.

I loved my work because I loved God.

But lost my charge to Sam Jenkins, who has not been too school four years in his life.

I lost my charge because I could not make my congregation shout.

And my dollar money was small, very small.

Sam Jenkins can tear a Bible to tatters and his congregation destroys the pwes with their shouting and stamping.

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33

Sam Jenkins leads in the gift of raising dollar money.

Such is religion. (33)

Johnson è chiaramente influenzato da Edgar Lee Masters ma il suo dispositivo frase-paragrafo, in

questa poesia, riporta di continuo l‘attenzione del lettore alla voce del narratore. In inglese, è la

prima istanza di una poesia in prosa che richiama l‘attenzione su un effetto discorsivo o poetico.

Anche se il contenuto referenziale è sempre evidente, l‘uso del paragrafo qui limita l‘abilità del

lettore di distaccarsi dal linguaggio in quanto tale.

E, tuttavia, Fenton Johnson potrebbe anche non essere il primo poeta in prosa americano di una

certa importanza. Ecco, da Kora all‟inferno, il terzo elemento del ventesimo raggruppamento,

accompagnato dal suo commento:

One need not to be hopelessly cast down because he cannot cut onyx into a ring to fit a lady‘s finger. You hang

your head. There is neither onyx nor porphyry on these roads – only brown dirt. For all that, one may see his face

in a flower along it – even in this light. Eyes only and for a flash only. Oh, keep the neck bent, plod with the

back to the split dark! Walk in the curled mudcrusts to one side, hand hanging. Ah well... Thoughts are trees! Ha,

ha, ha! Leaves load the branches and upon them white night sits kicking her heels against the shore.

A poem can be made of anything. This is a portrait of a disreputable farm hand made out of the stuff of his

environment(34)

Qui, senza dubbio, abbiamo delle strategie che riecheggiano la poesia in prosa francese, come per

esempio lo spostamento continuo del punto di vista. Ma ancora più importante: le frasi permettono

solo un minimo spostamento sillogistico verso il livello della referenza ed alcune, come la risata,

non permettono spostamenti di nessun tipo.

Si noti, però, la parola ―portrait‖ nel commento di Williams. Il suo modello qui non è tanto la poesia

in prosa francese quanto la cosiddetta prosa cubista di Gertrude Stein, che già nel 1911 scriveva

Teneri bottoni:

CUSTARD

Custard is this. It has aches, aches when. Not to be. Not to be narrowly. This makes a whole little hill.

It is better than a little thing that has mellow real mellow. It is better than lakes whole lakes, it is better than

seeding.

ROAST POTATOES

Roast potatoes for. (35)

In ―Poetry and grammar‖, Stein dice che non voleva fare poesia con Teneri bottoni ma le è soltanto

capitato. È sufficientemente diverso da ciò che, più tardi, lei chiamerà poesia per suggerirci che è

qualcos‘altro. I ritratti sono ritratti. Il movimento sillogistico al di sopra del livello della frase, verso

un riferimento esterno, è possibile ma il carattere del libro inverte la direzione di questo moto.

Piuttosto che produrre lo spostamento in modalità automatica, e secondo una specie di gestalt, il

lettore è costretto a dedurlo dalle viste parziali e dalle associazioni postulate in ogni frase. Il ritratto

della crema pasticcera è meravigliosamente accurato.

Le frasi meritano qualche analisi in più. Sono frammentarie in un modo che non ha precedenti in

inglese. Chi, se non Stein, nel 1911 avrebbe scritto una frase che finisce nel bel mezzo di una

locuzione preposizionale? Il suo uso delle frasi ellittiche – ―Not to be. Not to be narrowly.‖ – lascia

deliberatamente il soggetto fuori portata. La crema pasticcera non vuol proprio essere un fatto di

sostanza. Ed il pronome anaforico di ―this makes a whole little hill‖ non si riferisce alla crema

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pasticcera ma alle locuzioni verbali negative delle due frasi precedenti. Similmente, in ―Roast

potatoes‖, Stein usa la preposizione ―for‖ per convertire ―roast‖ da aggettivo a verbo.

Stein ha scritto in abbondanza sulle frasi e i paragrafi. I suoi saggi a riguardo sono essi stessi delle

opere vere e proprie e, al loro interno, lei ci mostra come abbia pensato molto più seriamente di

qualunque altro poeta in lingua inglese circa le differenze ivi affrontate.

Dato il metodo deliberatamente non-espositivo delle sue argomentazioni, mi limiterò qui a citare in

ordine alcuni passaggi che fanno luce sulla questione, nei termini secondo cui l‘abbiamo affrontata

finora. Da ―Sentences and Paragraph‖, una sezione di How to Write (1931):

1) Within itself. A part of a sentence may be sentence without their meaning.

2) Every sentence has a beginning. Will he begin.

Every sentence which has a beginning makes it be left more to them.

3) A sentence should be arbitrary it should not please be better.

4) The difference between a short story and a paragraph. There is none.

5) There are three kind of sentences are there. Do sentences follow the three. There are three kinds of sentences.

Are there three kinds of sentences that follow the three. (36)

Questa ovviamente si riferisce alla divisione della grammatica tradizionale in frasi semplici,

composte e complesse.

Dal saggio ―Sentences‖ nello stesso libro:

6) A sentence is an interval in which there is finally forward and back. A sentence is an interval during which if

there is a difficulty they will do away with it. A sentence is a part of the way when they wish to be secure. A

sentence is their politeness in asking for a cessation. And when it happens they look up.

7) There are two kinds of sentences. When they go. They are given to me. There are these two kinds of

sentences. Whenever they go they are given to me. There are there these two kinds of sentences there. One kind

is when they like and the other kind is as often as they please. The two kinds of sentences relate when they

manage to be for less with once whenever they are retaken. Two kinds of sentences make it do neither of them

dividing in a noun. (37)

Qui Stein sta equiparando le proposizioni, che divide come indicato in subordinate e principali, con

le frasi. Qualunque cosa, alla stesso livello di una proposizione nella catena del linguaggio, è già

parzialmente una specie di frase. Di per sé, si può spostare sillogisticamente come una frase verso

un ordine di significato più alto. Questa è un‘intuizione importante e originale.

8) Remember a sentence should not have a name. A name is familiar. A sentence should not be familiar. All

names are familiar there for there should not be a name in a sentence. If there is a name in a sentence a name

which is familiar makes a data and therefor there is no equilibrium. (38)

Questo spiega, in modo del tutto adeguato, il fastidio di Stein per i nomi. La preoccupazione per

l‘equilibrio è un esempio della grammatica come metro, che ci mette chiaramente in direzione della

frase nuova.

Nella sua conferenza americana del 1934, ―Poetry and Grammar‖, Stein fa alcuni commenti

aggiuntivi che fanno luce sulla relazione delle frasi con la prosa e, quindi, con le poesia in prosa. Il

primo è, credo, la miglior singola affermazione sul problema, almeno per come si presenta ad uno

scrittore:

9) What had periods to do with it. Inevitably no matter how completly I had to have writing go on, physically

one had to again and again stop sometime and if one had to again and again stop sometime then periods had to

exist. Besides I had always liked the look of periods and I like what they did. Stopping sometime did not really

keep one from going on, it was nothing that interfered, it was only something that happened, and as it happened

as a perfectly natural happening, I did believe in periods and I used them. I never really stopped using them.

10) Sentences and paragraphs. Sentences are not emotional but paragraphs are. I can say that as often as I like

and it always remains as it is, something that is.

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I said I found this out in listening to Basket my dog drinking. And anybody listening to any dog‘s drinking

will see what I mean.(39)

Più avanti Stein fa qualche esempio di frasi che lei ha scritto, anche da How To Write, che

sussistono in quanto paragrafi da una frase e raggiungono il bilanciamento tra la frase non emotiva

ed il paragrafo emotivo. La mia favorita è: ―A dog which you have never had before sighed‖.(40)

11) We do know a little now what prose is. Prose is the balance the emotional balance that makes the reality of

paragraphs and the unemotional balance that makes the reality of sentences and having realized completely

realized that sentences are not emotional while paragraphs are, prose can be the essential balance that is made

inside something that combines the sentence and the paragraph [...](41)

Ciò che Stein intende, circa il fatto che i paragrafi sono emotivi ma non così le frasi, è precisamente

il punto che sottolinea Émile Benveniste: le unità linguistiche si integrano solo verso il livello della

frase ma ordini più alti di significato – come l‘emozione – si integrano a livelli più alti della frase e

si danno in presenza o di molte frasi o, almeno l‘esempio di Stein lo suggerisce, a fronte di certe

frasi complesse in cui le proposizioni dipendenti si integrano con quelle indipendenti. La frase è

l‘orizzonte, il confine tra questi due tipi fondamentalmente distinti di integrazione.

E dunque che cos‘è la frase nuova? Ha a che fare con la poesia in prosa ma non necessariamente

con le poesie in prosa, almeno non nel senso ristretto e circoscritto della categoria. Non ha a che

fare con le poesie in prosa dei surrealisti, che manipolano il significato solo ai livelli ―superiori‖ o

―esterni‖, molto al di là dell‘orizzonte della frase. Neppure con le poesie in prosa non-surrealiste

della varietà americana media, come i monologhi drammatici di James Wright o David Ignatow,

che fanno la stessa cosa.

Sentences di Bob Grenier anticipa direttamente la frase nuova. Con la rimozione del contesto,

Grenier impedisce quasi tutti i salti oltre il livello dell‘integrazione grammaticale. È un caso

estremo di frase nuova. Tuttavia, la maggior parte delle ―frasi‖ di Grenier sono più propriamente

delle enunciazioni e, in questo senso, seguono Olson, Pound e una parte significativa del lavoro di

Creeley. Di tanto in tanto, qualche frase o paragrafo di A Day Book e Presences di Creeley porta i

segni della qualità compressa della frase nuova, nel fatto che le circonvoluzioni della sintassi spesso

suggeriscono la presenza, al loro interno, di forme poetiche un tempo esteriorizzate, benché lì siano

identificate con i tratti del discorso per lo più.

Un altro autore i cui lavori anticipano questa maniera è Hannah Weiner, particolarmente nei suoi

pezzi di prosa diaristica in cui il flusso delle frasi (il loro compimento sintattico, per non parlare

dell‘integrazione in unità più ampie) è radicalmente sconvolto da discorsi ―alieni‖ che l‘autrice

ascrive alla ―chiaroveggenza‖. Sebbene, in generale, la frase nuova non sia stata così visibile nella

East Coast come all‘ovest, qualcosa di molto simile o che vi si avvicina può essere trovato nella

scrittura di parecchi poeti, inclusi Peter Seaton, Bruce Andrews, Diane Ward, Bernadette Mayer

(specialmente nei suoi primi libri), James Sherry, Lynne Dreyer, Alan Davies, Charles Bernstein e

Clark Coolidge.

Un paragrafo dalla sezione XVIII di ―Weathers‖ di Coolidge:

At most a book the porch. Flames that are at all rails of snow. Flower down winter to vanish. Mite hand stroking

flint to a card. Names that it blue. Wheel locked to pyramid through stocking the metal realms. Hit leaves.

Participle.(42)

In altri contesti, ognuna di queste frasi potrebbe diventare una frase nuova, almeno nel senso in cui

potrebbe esserlo ogni frase propriamente disposta e collocata. Ognuna di esse focalizza l‘attenzione

al livello del linguaggio che il lettore ha di fronte. Ma raramente a livello della frase. Per lo più a

livello della locuzione o della proposizione. ―Flower down winter to vanish‖ può essere una frase

grammaticale nel senso tradizionale, se flower è inteso come verbo e la frase come un comando. Ma

―Names that it blue‖ resiste anche ad un tale sforzo di integrazione. Coolidge rifiuta di ricavare

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degli ambiti connotativi dalle parole. Esse sono ancora, in ampio grado, dei readymade

decontestualizzati – salvo che per gli elementi fisico-acustici.

Questo non è un esempio di frase nuova perché opera principalmente al di sotto del livello della

frase. Tuttavia, c‘è un altro elemento importante qui, come risultato: la lunghezza delle frasi e l‘uso

del punto fermo adesso sono del tutto ritmici. La grammatica è diventata, per riprendere le parole di

Barthes, prosodia. Come vedremo, questo è un elemento caratteristico ogni qual volta la frase nuova

è presente.

Ecco, da a.k.a di Bob Perelman, due paragrafi di frasi nuove:

An inspected geography leans in with the landscape‘s repetitions. He lived here, under the assumptions. The hill

suddenly vanished, proving him right. I was left holding the bag. I peered into it.

The ground was approaching fast. It was a side of himself he rarely showed. The car‘s tracks disappeared in the

middle of the road. The dialog with objects is becoming more strained. Both sides gather their forces. Clouds

enlarge. The wind picks up. He held onto the side of the barn by his fingertips.(43)

Qui si notano queste qualità: (1) Il paragrafo organizza le frasi fondamentalmente nello stesso modo

in cui una stanza fa con le righe dei versi. C‘è più o meno lo stesso numero di frasi in ogni

paragrafo ed il numero è abbastanza basso da poter stabilire una chiara proporzione paragrafo-frase.

Perché non si tratta semplicemente del modo in cui, normalmente, le frasi sono organizzate in

paragrafi? Perché non c‘è uno specifico focus referenziale. Il paragrafo qui è un‘unità di misura –

come era anche in ―Weathers‖. (2) Le frasi sono tutte delle frasi: la sintassi di ognuna si risolve sul

livello della frase. Non che queste frasi ―facciano senso‖ nel modo ordinario. Per esempio, ―He

lived here, under the assumptions‖, che avrebbe potuto essere riscritta, o essere derivata, da una

frase come ―He lived here, under the elm trees‖ o ―He lived here, under the assumptions that etc.‖.

(3) Questa continua torsione delle frasi è una qualità tradizionale della poesia ma in poesia è

ottenuta, la maggior parte delle volte, con l‘interruzione della riga o da dispositivi come la rima.

Qui la forma poetica si è mossa negli spazi interni della prosa.

Si prenda in considerazione, come esempio opposto, la prima stanza di ―Carapace‖ di Alan

Bernheimer:

The face of a stranger

is a privilege to see

each breath a signature

and the same sunset fifty years later

though familiarity is an education(44)

Ci sono anche qui spostamenti e torsioni ma, in questo caso, si presentano articolati secondo la

forma poetica esterna: l‘interruzione di riga. In ―Carapace‖, la riga singola è fatta di linguaggio

cosiddetto comune e non ha una torsione o una compressione della sintassi. La torsione, la

proiezione del principio di equivalenza dall‘asse della selezione a quello della combinazione,

produce, in questa istanza, delle incommensurabilità sapienti e levigate con cura e, in ―Carapace‖, si

presenta attraverso l‘aggiunta delle righe, una all‘altra.

a.k.a. , in ogni caso, ha ricollocato l‘interruzione di riga su due livelli. Come si è notato, la

lunghezza della frase ora è questione di quantità, di misura. Ma la torsione, che normalmente è

innescata dalle interruzioni di riga, la cui funzione è quella di potenziare l‘ambiguità e la polisemia,

si è spostata direttamente dentro la grammatica della frase. Ad un livello solo, la frase completata

(sarebbe a dire: non il pensiero completato ma il livello massimo di integrazione linguistico-

grammaticale) è diventata l‘equivalente della riga, una condizione che prima alle frasi non era

imposta.

Si immagini come potrebbero apparire le poesie più importanti della storia della letteratura, se ogni

frase coincidesse con una riga.

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Ecco perché una frase normale, come ―I peered into it‖, può diventare una frase nuova, cioè una

frase con una struttura poetica interna, in aggiunta alla normale struttura grammaticale interna. Ecco

anche perché, e come, le righe citate dal quotidiano di Sonoma in ―One Sping‖ di David Bromige

possono diventare delle frasi nuove.

In effetti, un‘aumentata sensibilità verso il movimento sillogistico fornisce alle opere della frase

nuova una capacità molto maggiore di incorporare normali frasi del mondo concreto, dato che qui la

forma scende dall‘intero verso il basso e la separatezza di una frase citata da un quotidiano ne pone

il contenuto referenziale (a) in gioco con la propria formulazione, come nella frase ―Danny always

loved Ireland‖(45), (b) in gioco con le frasi precedenti e successive, secondo quantità, sintassi e

misura, e (c) in gioco con il paragrafo come un tutto, inteso ora non come unità logica o di

argomentazione, ma come quantità, come una stanza.

Vediamo il gioco di questo movimento sillogistico:

I was left holding the bag. I peered into it.

The ground was approaching fast. It was a side of himself he rarely showed.(46)

Questa non è la distorsione sistematica del livello massimo o più alto di significato, come nel

surrealismo. Piuttosto, ogni frase gioca con la frase precedente e quella seguente. La prima suona

come figurativa, a causa dell‘uso deliberato del cliché. La seconda, usando sia una ripetizione della

parola ―I‖ che dell‘anafora ―it‖, la distorce, facendola suonare (a) come letterale e (b) come

narrativa, grazie al fatto che le due frasi si riferiscono in apparenza ad un contenuto identico. Ma la

terza frase, che inizia con il paragrafo successivo, lavora invece a partire dalla direzione che si

potrebbe prendere nel guardare dentro a una borsa, richiamando da lì, per associazione, il senso di

gravità che si avverte guardando in giù, come se si stesse cadendo. La quarta frase sposta all‘esterno

la voce narrante ―I‖ e presenta la sequenza delle frasi precedenti come se conducesse a questa

conclusione umoristica. Questa relazione doppia del movimento sillogistico, che nonostante tutto

non si realizza fino a distogliere il lettore dal livello del linguaggio in quanto tale, è tipica in

massimo grado nella frase nuova.

Inoltre, la struttura interna delle frasi rappresenta, qui, anche il modo in cui problemi come quello

del bilanciamento, normalmente problemi dell‘organizzazione del verso, si proiettano all‘interno

delle frasi. Una frase come ―Clouds enlarge‖ non è meno interessata dal bilanciamento in questione

di quelle di Sentences di Grenier: la parola ―enlarge‖ è una parola normale dilatata(47).

Elenchiamo le caratteristiche della frase nuova e, quindi, leggiamo una poesia controllando la loro

presenza.

1) Il paragrafo organizza le frasi;

2) Il paragrafo è un‘unità di quantità, non logica o di argomentazione;

3) La lunghezza della frase è un‘unità di misura;

4) La struttura della frase è alterata per torsione o per accresciuta polisemia/ambiguità;

5) Il movimento sillogistico è: (a) limitato; (b) controllato;

6) Il movimento sillogistico principale è tra le frasi precedenti e seguenti;

7) Il movimento sillogistico secondario è verso il paragrafo come totalità o verso l‘opera intera;

8) La limitazione del movimento sillogistico mantiene l‘attenzione del lettore a livello del linguaggio o molto

vicino cioè, il più delle volte, a livello della frase se non più basso.

Il mio esempio è la poesia ―For She‖, di Carla Harryman. È un unico paragrafo:

The back of the hand resting on the pillow was so wasted. We couldn‘t hear each other speak. The puddle in the

bathroom, the sassy one. There were many years between us. I stared the stranger into facing up to Maxine, who

had come out of the forest wet from bad nights. I came from an odd bed, a vermillion riot attracted to loud dogs.

Nonetheless I could pay my rent and provide for him. On this occasion she apologized. An arrangement that did

not provoke inspection. Outside on the stagnant water was a motto. He was more than I perhaps though younger.

I sweat at amphibians, managed to get home. The sunlight from the window played up his golden curls and a fist

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screwed over one eye. Right to left and left to right until the sides of her body were circuits. While dazed and

hidden in the room, he sang to himself, severe songs, from a history he knew nothing of. Or should I say

malicious? Some rustic gravure, soppy but delicate at pause. I wavered, held her up. I tremble, jack him up.

Matted wallowings, I couldn‘t organize the memory. Where does he find his friends? Maxine said to me ―but it

was just you again‖. In spite of the cars and the smoke and the many languages, the radio and the appliances, the

flat broad buzz of the tracks, the anxiety with which the eyes move to meet the phone and all the arbitrary colors.

I am just the same. Unplug the glass, face the docks. I might have been in a more simple schoolyard.(48)

Si paragoni questo con la seguente descrizione del testo culturale postmoderno di Frederic Jameson:

Il Significante isolato non è più uno stato enigmatico del mondo né un incomprensibile, per quando ipnotico,

frammento del linguaggio ma, piuttosto, qualcosa di simile ad una frase in completo e autonomo isolamento.(49)

E, tuttavia, ciò che fornisce al pezzo di Harryman precisamente l‘intensità e la potenza che lo rende

degno della nostra attenzione sono i tanti modi in cui le frasi individuali non sono ―in completo ed

autonomo isolamento‖. L‘uso sovraccarico dei pronomi, la ricorrenza del nome Maxine, l‘utilizzo

delle strutture parallele (―I wavered, held her up. I tremble, jack him up‖) o di termini che si

estendono dallo stesso deposito di immagini, in particolar modo dall‘acqua, sono tutti metodi per

favorire un movimento sillogistico secondario al fine di creare o convogliare un‘impressione

generale di unità, senza la quale il blocco sistematico dell‘integrazione delle frasi l‘una con l‘altra,

attraverso il movimento sillogistico primario (si noti come le frasi parallele operino su tempi

diversi, o come la seconda si accenda sul verbo ―jack‖, notevolmente ambiguo e potenzialmente

sessuale), sarebbe banale, senza tensione, un ―cumulo di frammenti‖. Ciononostante, ogni tentativo

di spiegare questa opera come una totalità riconducibile ad un ―più alto ordine‖ di significato, come

la narrazione o il personaggio, è destinato al sofisma, se non all‘esplicita incoerenza. La frase nuova

è un oggetto decisamente contestuale. I suoi effetti occorrono tanto tra le frasi che al loro interno. In

questo modo rivela come lo spazio, tra le parole o le frasi, è molto più della ventisettesima lettere

dell‘alfabeto. Sta iniziando ad esplorare ed articolare proprio ciò che potrebbero essere quelle

facoltà nascoste.

La frase nuova si è resa visibile per la prima volta, almeno ai miei occhi, nella poesia ―Chamber

Music‖ in Decay di Barrett Watten. Ci sono, ovviamente, come ho sottolineato, numerose

anticipazioni di questo dispositivo, come l‘uso del verso nella sua prima poesia, ―Factors

Influencing the Weather‖, o negli ultimi libri dell‘ultimo Jack Spicer. Ma dice molto di più, forse

anche come test della sua reputazione in quanto dispositivo, il suo sviluppo in poco meno di un

decennio attraverso un‘intera comunità poetica. Diversamente dai brevi versi spezzati di Robert

Creely, per esempio, che furono così ampiamente imitati alla fine degli anni ‗60, la frase nuova ha

resistito con successo ad ogni appropriazione di brevetto. In questo senso, è qualcosa di diverso da

uno stile, e di più grande. La frase nuova è la prima tecnica di prosa ad identificare il significante

(anche quello dello spazio vuoto) come luogo specifico del significato letterario. Come tale, inverte

le dinamiche che così a lungo sono state associate alla tirannia del significato ed è il primo metodo

in grado di incorporare tutti i livelli del linguaggio, al di sotto dell‘orizzonte della frase e al di

sopra:

Everywhere there are spontaneous literary discussions. Something structurally new is always being referred to.

These topics may be my very own dreams, which everyone takes a friendly interest in. The library extends for

miles, under the ground.(50)

Ron Silliman

[Da: Ron Silliman, The New Sentence, Roof, New York, 1987; traduzione italiana di Gherardo Bortolotti.]

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Note.

(1) [NdT: Per piacere a un giovanotto dovrebbero esserci delle frasi. Ciò che sono le frasi. Come ciò che

sono le frasi. Nella parte delle frasi ciò per lui è felicemente tutto. Per lui daranno un nome alle frasi. Le frasi

sono chiamate frasi].

(2) [NdT: Oxford English Dictionary].

(3) P. 90.

(4) [NdT: B: Macchina. Macchina. / A: Cosa? / B: Va. Va. / A. Cosa? / B: Bus. Bus. Bus. / A: Bicicletta? / B.

No!]. Adattato da p. 91.

(5) [NdT: E: Pronto? / L: Ciao Ed. / E: Ciao Lisa. / L: Sto correndo di qua e di là per farmi preparare le

macchine [+] e vorrei che fosse tutto fatto prima di partire, [+] così non devo più tornare. [-] E così la cosa ci

potrebbe portare fino a verso le due. Che ne pensi? / E: Va bene. L‘unica cosa è che devo partire da qui

diciamo alle 3:15 più o meno. / L: 3:15. [-] Ok. Fammi vedere come va qui, [+] poi ti faccio una chiamata

appena prima di partire. / E: Ok. [-] Bene. / L: Okappa. Ciao ciao. / E: Ciao.]. Ed Friedman, The telephone

book (Power Mad Press, Telephone Books, 1979), p. 145.

(6) Ferdinand de Saussure, Course in general linguistics, curato da Charles Bally e Albert Sechehaye in

collaborazione con Albert Riedlinger, tradotto da Wade Baskin (McGraw-Hill, 1966), p. 106. I termini tra

parentesi quadre sono miei. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Laterza, 1983].

(7) Ibid., p. 124.

(8) Ibid., p. 128.

(9) [NdT: per l‘edizione italiana si veda Einaudi, 1987].

(10) [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il saggiatore, 1996].

(11) Noam Chomsky, Aspects of the theory of syntax (MIT Press, 1965), pp. 109-110.

(12) Simeon Potter, Modern linguistics (Norton, 1964), pp. 104-105.

(13) Tradotto da Ladislav Matejka e I. R. Titunik (Seminar Press, 1973), pp. 109-110. [NdT: per l‘edizione

italiana si veda Dedalo, 1976].

(14) Tradotto da G. E. M. Anscombe (McMillan Co., 1953), pp. 138e-139e. [NdT: per l‘edizione italiana si

veda Einaudi, 2009].

(15) (Dover, 1952), p. 8. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Feltrinelli, 1987].

(16) J. L. Austin, Sense and sensibilia, ricostruito dalle note manoscritte da G. J. Warnock (Oxford

University Press, 1964), p. 110n. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Senso e sensibilia. Marietti, 2001].

(17) (MIT Press, 1960), pp. 191-193. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il saggiatore, 2008].

(18) (Peregrine Books, 1963), p. 153, corsivo mio. [NdT: per l‘edizione italiana si veda Il mulino, 1999].

(19) Ibid.

(20) Vol. XIX, N. 4, p. 99.

(21) ―Language and literature‖ in The structuralist controversy, a cura di Richard Maksey e Eugenio Donata

(John Hopkins University Press, 1972), p. 130.

(22) [NdT: Qualcuno chiamato Douglas. / Qualcuno ha chiamato Douglas. / Fu ucciso da qualcuno chiamato

Douglas lì a Oakland.]

(23) ―To write: intransitive verb?‖ ibid., p. 136.

(24) Tradotto da Annette Leavers e Colin Smith (Hill & Wang, 1968), p. 44-47. [NdT: per l‘edizione italiana

si veda Einaudi, 2003].

(25) ―Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism‖, in New Left Review, N. 146, luglio/agosto,

1984, p. 171.

(26) Vološinov, op. cit., p. 111.

(27) [NdT: Pensò che fossero un‘unità familiare. C‘erano sette uomini e quattro donne, e tredici bambini in

casa. Quale voce avrebbe registrato?]. ―Plasma‖, in Plasma/Paralleles/―X‖ (Tuumba, 1979), senza

paginazione.

(28) [NdT: Ecco perché parliamo una lingua. Di nuovo a Sofala, sto scrivendo questa cosa spaparanzato in

una morbida poltrona di pelle. Un cane morto è steso nel canale di scolo, con i piedi per aria]. Ibid.

(29) [NdT: Il fardello delle classi è la carriera del ventesimo secolo. Lui può essere incredibilmente crudele.

Gli eventi stanno avanzando ad un ritmo terrificante]. Ibid.

(30) [NdT: Di fronte al grande vano del portone, una fila malinconica di venditori di giornali, che

distribuivano la loro mercanzia dal canale di scolo, tenendosi lontani dal marciapiede. Era un cupo e gelido

giorno di inizio primavera ed il cielo sudicio, il fango per le strade, gli stracci di quegli uomini sporchi erano

in perfetta armonia con l‘eruzione di fogli di carta umidi, inutili, lordati dall‘inchiosto dello stampatore. I

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poster, maculati dalla sporcizia, guarnivano come un addobbo la spianata del selciato. La vendita dei giornali

della sera, tuttavia, era veloce, in rapporto alla marcia costante e spedita del traffico dei pedoni; l‘effetto era

di indifferenza, di distribuzione trascurata. Ossipon guardò alla svelta in entrambe le direzioni, prima di

uscire nelle correnti che si incrociavano, ma il Professore era già sparito]. (Doubleday Anchor, 1953), pp. 75-

76. [Per l‘edizione italiana si veda Giunti, 2004].

(31) [NdT: Un uomo apre una scatole di sardine e trova una fila di minuscole cuccette piene di minuscole

persone morte; è un dormitorio annegato nell‘olio. / Tira fuori i minuscoli corpi con una forchetta e li stende

su una fetta di pane; sopra di loro mette una foglia di lattuga e chiude il sandwich con un‘altra fetta di pane. /

Si domanda cosa dovrebbe farsene delle minuscole cuccette, chiedendosi se magari le può mangiare oppure

no. / Guarda nella lattina e vede un gatto minuscolo che galleggia nell‘olio. Il fondo della lattina, sotto l‘olio,

è pieno di piccole scarpe e di calze]. Edson‟s mentality (Oink! Press, 1977), p. 21.

(32) [NdT: Ieri ho trovato la mia pipa e stavo sognando una lunga serata di lavoro, un bel lavoro invernale.

Buttare via le sigarette con tutti i fanciulleschi giochi dell‘estate, nel passato acceso dalle foglie blu-sole, i

vestiti da musulmano e riprendere in mano la mia pipa onesta come un uomo serio che vuole una lunga

fumata senza essere disturbato, per lavorare meglio: ma non mi aspettavo la sorpresa che questa creatura

abbandonata mi stava preparando, a malapena avevo fatto il primo tiro quando mi sono dimenticato il grande

libro da fare, affascinato, commosso, respiravo l‘inverno passato che ritornava. Non avevo toccato la mia

fedele amica dal mio ritorno in Francia, e tutta Londra, Londra nella sua interezza per come me la sono

vissuta, un anno fa, apparve; prima le care nebbie che ci avvolgono strettamente il cervello e hanno lì un

odore tutto loro, quando entrano da sotto il telaio delle finestra. Il mio tabacco sapeva di una stanza buia con

mobili in pelle stagionati dalla polvere di carbone su cui se la godeva il gatto nero e snello; i grandi

caminetti! e la cameriera con le braccia rosse che rovesciava il carbone, e il rumore dello stesso carbone che

cadeva dal secchio d‘acciaio attraverso la grata di ferro al mattino – il momento del solenne doppio colpo del

postino, che mi riportava alla vita! Vedevo di nuovo attraverso le finestre quegli alberi malati nella piazzetta

deserta – vedevo il mare aperto, attraversato così spesso quell‘inverno, rabbrividendo sul ponte del vapore

umido per la pioggerella e annerito da fumo – con la mia piccola amata vagabonda, in abiti da viaggio con un

lungo vestito anonimo colore della polvere di strada, un mantello fradicio che le si attacca alle fredde spalle,

uno di quei cappelli di paglia senza piuma e quasi senza nemmeno un fiocco, che le signore ricche buttano al

loro arrivo, tanto sono stracciati dall‘aria di mare e che le povere amate rimettono in sesto per qualche bella

stagione ancora. Attorno al suo collo era avvolto il fazzoletto terribile che agitavamo quando ci dicemmo

addio per sempre]. The poems (Penguin Books, 1977), p. 217. [Per l‘edizione italiana si veda Mondadori,

2003].

(33) [NdT: IL MINISTRO // Ho imparato perfettamente la teologia pastorale, il greco degli Apostoli e tutti

quei argomenti difficili negli studi di un ministro. / Mi è stato insegnato come ad ogni altro in questo paese

quando il Vescovo mi ha ordinato. / E andai come parroco a Mount Moriah, la parrocchia più grande nella

Conferenza. / Predicai la parola così come la sentivo, visitai l‘ammalato ed il moribondo e confortai chi era

afflitto nello spirito. / Amavo il mio lavoro perché amavo Dio. / Ma persi la mia carica in favore di Sam

Jenkins, che non è stato a scuola quattro anni in tutta la sua vita. / Persi la mia carica perché non riuscivo a

fare gridare la mia congregazione. / E la mia moneta era scarsa, molto scarsa. / Sam Jenkins può fare a pezzi

una Bibbia e la sua congregazione distrugge i banchi a forza di gridare e battere i piedi. / Sam Jenkins è

avanti nel dono di raccogliere moneta. / Questa è la religione].

(34) [NdT: Non c‘è bisogno di essere abbattuti se non sai intagliare l‘onice in un anello che stia al dito di una

signora. Butti via la testa. Non c‘è né onice né porfido su queste strade – solo terra marrone. Con tutto ciò,

dovresti vedere la tua faccia in un fiore insieme – anche con questa luce. Solo occhi e solo per un lampo. Oh,

piega il collo, arranca con la schiena verso il buio spaccato! Cammina tra le croste di fango arricciate da una

parte, con la mano che pende. Ah, ecco... I pensieri sono alberi! Ah, ah, ah, ah! Le foglie pesano sui rami e

sopra la notte bianca sta seduta scalciando con i tacchi contro la riva. // Una poesia può essere fatta con

qualunque cosa. Questo è il ritratto di un bracciante equivoco fatto con le cose del suo ambiente]. Incluso in

Imaginations, a cura di Webster Schott (New Directions, 1970), p. 70. [Per l‘edizione italiana si veda

Guanda, 1971].

(35) [NdT: CREMA PASTICCERA / La crema pasticcera è questo. Ha dei dolori, duole quando. Non essere.

Non essere strettamente. Questo fa tutta una collinetta. / È meglio di una cosina che ha del denso reale denso.

È meglio dei laghi interi laghi, è meglio che seminare. // PATATE ARROSTO / Arrosto patate per].

Writings and lectures: 1909-1945, a cura di Patricia Meyerowitz (Penguin Books, 1971), p. 189. [Per

l‘edizione italiana si veda Liberilibri, 2006].

(36) [NdT: 1) Al proprio interno. Una porzione di frase può essere frase senza il loro significato. / 2) Ogni

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frase ha un inizio. Se lui inizierà. / Ogni frase che ha un inizio fa che sia lasciato di più a loro. / 3) Una frase

dovrebbe essere arbitraria non dovrebbe piacere essere meglio. / 4) La differenza tra una storia breve ed un

paragrafo. Non ce n‘è. / 5) Ci sono tre tipi di frasi ci sono. Se seguono le frasi le tre. Ci sono tre tipi di frasi.

Ci sono tre tipi di frasi che seguono le tre]. (Something Else Press, 1973), pp. 26-32.

(37) [NdT: 6) Una frase è un intervallo in cui c‘è finalmente avanti e indietro. Una frase è un intervallo

durante il quale se c‘è una difficoltà se ne sbarazzano. Una frase è una parte del modo quando vorrebbero

essere al sicuro. Una frase è la loro educazione nel chiedere una pausa. E quando capita vanno a vedere. / 7)

Ci sono due tipi di frasi. Quando vanno. Mi vengono dati. Ci sono questi due tipi di frasi. Ogni volta che

vanno mi vengono dati. Ci sono qui questi due tipi di frasi qui. Un tipo è quando a loro piace e l‘altro tipo è

tanto spesso quanto a loro fa piacere. I due tipi di frasi sono in relazione quando riescono ad essere per meno

con una volta quando sia che sono ripresi. Due tipi di frasi fanno sì che nessuno dei due si divida in un

nome]. Ibid., p. 132 e 149.

(38) [NdT: 8) Ricorda che una frase non dovrebbe avere un nome. Un nome è familiare. Una frase non

dovrebbe essere familiare. Tutti i nomi sono familiari qui dipoiché qui non ci dovrebbe essere un nome in

una frase. Se c‘è un nome in una frase un nome che è familiare vale come dato e quindi qui non c‘è

equilibrio]. Ibid., pp. 166-167.

(39) [NdT: 9) Che cosa avevano a che fare con ciò i punti. Inevitabilmente non importa quanto

compiutamente dovessi tirare avanti la scrittura, fisicamente ci si doveva fermare ancora ed ancora a volte e

se ci si doveva fermare ancora ed ancora a volte allora i punti dovevano esistere. D‘altra parte mi era sempre

piaciuto l‘aspetto dei punti e mi piaceva quello che facevano. Fermarsi ogni tanto non impediva affatto di

procedere, non era niente che interferisse, era solo qualcosa che avveniva, e come se avvenisse come qualche

avvenimento del tutto naturale, credevo nei punti e li usavo. Non ho mai smesso veramente di usarli. / 10)

Frasi e paragrafi. Le frasi non sono emotive ma i paragrafi lo sono. Posso dirlo tanto spesso quanto mi piace

e rimane sempre così com‘è, qualcosa che è. / Dissi che lo avevo trovato ascoltando Basket il mio cane che

beveva. E chiunque ascoltasse un qualunque cane che beve capirà quello che intendo]. Writings and lectures,

op. cit., pp. 130 e 133-134.

(40) [NdT: ―Un cane che non hai mai avuto prima ha sospirato‖].

(41) [NdT: 11) Adesso un po‘ sappiamo che cosa sia la prosa. La prosa è il bilanciamento il bilanciamento

emotivo che dà realtà ai paragrafi e il bilanciamento non emotivo che dà realtà alle frasi e avendo realizzato

completamente realizzato che le frasi non sono emotive mentre i paragrafi lo sono, la prosa può essere il

bilanciamento essenziale che viene fatto dentro a qualcosa che combina la frase con il paragrafo]. Ibid., p.

137.

(42) [NdT: Al massimo un libro la veranda. Fiamme che sono sbarre di neve affatto. Fiore giù l‘inverno per

svanire. Un po‘ mano che accarezza selce a una carta. Nomi che blu. Ruota bloccata a una piramide

attraverso calza i regni del metallo. Colpite le foglie. Participio]. In United Artists Five, dicembre, 1978,

senza paginazione.

(43) [NdT: Una geografia controllata pende in avanti con la ripetizione dei paesaggi. Viveva qui, dai

presupposti. La collina scomparve all‘improvviso, dimostrandogli che aveva ragione. Mi lasciarono con la

borsa in mano. Ci guardai dentro. / Il suolo si avvicinava rapidamente. Era un lato di sé che mostrava di rado.

Le tracce dell‘auto sparivano nel mezzo della strada. Il dialogo con gli oggetti diventa sempre più slogato.

Entrambe le fazioni raccolgono le loro forze. Le nuvole si dilatano. Il vento ti solleva. Si teneva al lato del

granaio con i polpastrelli]. (The Figures, 1984), p. 1.

(44) [NdT: La faccia di uno straniero / è un privilegio a vedersi / ogni respiro una firma / e lo stesso tramonto

cinquant‘anni dopo / anche se la familiarità è un educazione]. Dalla serie ―Celestial mechanics‖ in Cafe

isotope (The Figures, 1980), p. 1.

(45) [NdT: Danny amò sempre l‘Irlanda].

(46) [NdT: v. nota 43].

(47) [NdT: nel testo originale: enlarged].

(48) [NdT: Il dorso della mano che riposava sul cuscino era così sprecato. Non riuscivamo a sentirci parlare.

La pozzanghera in bagno, quella sfacciata. C‘erano molti anni tra noi. Guardai in faccia lo straniero

nell‘affrontare Maxine, che era uscita dalla foresta umida di brutte notti. Venivo da uno strano letto, una

rivolta di vermiglio attratta da cani a gran voce. Ciononostante potevo pagarmi l‘affitto e provvedere a lui. In

questa occasione si scusò. Un accordo che non desse luogo all‘ispezione. All‘esterno sull‘acqua stagnante

c‘era un motto. Lui era più di me forse benché giovane. Sudai agli anfibi, riuscii a rincasare. La luce del sole

dalla finestra metteva in evidenza i suoi riccioli dorati ed un pugno si inchiodava in un solo occhio. Da destra

a sinistra da sinistra a destra fino a che i lati del suo corpo divennero dei circuiti. Stordito e nascosto nella

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stanza, cantava da solo, canzoni severe, da una storia di cui non sapeva niente. O dovrei dire malizioso?

Qualche incisione rustica, svenevole ma delicata in pausa. Esitai, la presi. Tremo, lo tiro su. Intricati

compiacimenti, non riuscivo a organizzarne il ricordo. Dove trova gli amici? Maxine mi disse ―ma eri solo tu

di nuovo‖. Malgrado le macchine e il fumo e le tante lingue, la radio e gli elettrodomestici, il ronzio piatto,

esteso dei binari, l‘ansia con cui gli occhi si spostano per finire sul telefono e tutti i colori arbitrari. Sono

proprio la stessa. Stacca il vetro, fronteggia il porto. Avrei potuto essere in un cortile scolastico più

semplice]. Under the bridge (This Press, 1980), pp. 57-58.

(49) ―Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism‖, op. cit., p. 73.

(50) [NdT: Ovunque ci sono delle discussioni letterarie spontanee. Viene sempre riportato qualcosa di

strutturalmente nuovo. Questi argomenti potrebbero essere i miei propri sogni, verso cui tutti mostrano un

interesse amichevole. La biblioteca si estende per miglia, nel sottosuolo]. ―Plasma‖, op. cit.

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PAOLO ZUBLENA

ESISTE (ANCORA) LA POESIA IN PROSA?

Come al solito, quando si maneggiano categorie ambigue come poesia e prosa, il problema è

innanzitutto di definizione. Siccome non è pacifico né che cosa sia la poesia, né che cosa sia la

prosa, tanto meno sarà facile definire la ―poesia in prosa‖, operazione con ogni evidenza preventiva

all‘atto di predicarne l‘eventuale (mancata, o non più attuale) esistenza.

Semplificando al massimo, e limitando altresì al minimo i rimandi alle innumerevoli possibili

autorità, nel concetto di poesia coesistono una definizione sostanziale e una definizione formale:

poesia insomma come scrittura letteraria che si differenzia dal resto per una sua quiddità, oppure

poesia come scrittura in versi. In entrambi i casi il concetto di poesia si oppone a quello di prosa. E

in entrambi i casi la prosa parrebbe definirsi per un deficit rispetto alla poesia: per una minore

―altezza‖, oppure per l‘assenza della versificazione (in primo luogo, dell‘a capo). In un caso e

nell‘altro questa differenzialità della poesia come ci viene presentata dalla tradizione ―teorica‖

riposa su un‘inversione ideologica del rapporto genetico presunto dal senso comune. La distinzione

stessa è, evidentemente, dovuta a una volontà di sottrarre uno scopo (rituale, estetico, ecc.) alla

comunicazione quotidiana.

D‘altra parte lo stesso concetto di prosa può essere definito formalmente e sostanzialmente: ma il

significato formale (l‘oratio proversa, poi prorsa, cioè ‗continua‘: insomma un discorso che va

dritto, diversamente dal versus, che appunto torna continuamente indietro) è largamente prevalente,

mentre quello sostanziale è in primo luogo metaforico (si pensi all‘uso dell‘agg. prosaico). È

appena il caso di notare come questo uso metaforico trovi il suo apice in un celebre luogo

dell‘Estetica di Hegel: «Questa è la prosa del mondo quale appare alla propria e all‘altrui coscienza,

un mondo fatto di finitezza e di mutamenti, inviluppato nel relativo, oppresso dalla necessità, alla

quale il singolo non è in grado di sottrarsi. Infatti ogni vivente isolato rimane nella contraddizione

di essere a sé per se stesso come questo conchiuso uno, ma di dipendere al contempo da ciò che è

altro, mentre la lotta per la soluzione della contraddizione non va oltre il tentativo di questa guerra

permanente»(1). Almeno di lì in poi anche la nozione di prosa ha conosciuto un uso parzialmente

ambiguo, tanto che la formula critica da qualche tempo in voga di una poesia che va verso la prosa

soffre in modo irredimibile della oscillazione semantica dei due concetti: e di fatto viene usata in

modo quasi indifferente per giustificare fenomeni tematici e fenomeni formali.

Se dunque i concetti di poesia e di prosa sono così ambigui, tanto più ambiguo, e anzi senz‘altro

contraddittorio – ma di una contraddizione che non può essere limitata all‘indecidibilità tra due

opzioni – sarà quello di poesia in prosa. Non per niente il pionieristico – e tutt‘ora decisivo – saggio

di Giovannetti sulla questione riprendeva da Riffaterre la constatazione della natura ossimorica del

―genere‖ fin dal titolo(2). È ovvio che la contraddizione, addirittura insanabile, è massima se diamo

un significato puramente formale a ―poesia in prosa‖: forzando al massimo un‘implicatura non poi

così implicita potremmo arrivare a una definizione del tipo ‗discorso in prosa che funziona come un

discorso in versi‘. Ma resterebbe una definizione assai poco soddisfacente. Se d‘altro canto

consideriamo poesia e prosa non solo come contenitori formali, ma come (super)generi, allora il

significato non può che convergere verso la segnalazione dell‘ibridismo della poesia in prosa. Ma

anche in questo caso si hanno complicazioni: se la poesia può essere definita un genere letterario, o

almeno un ipergenere (con i suoi ipogeneri: la poesia lirica, la poesia epica, ecc.), è ben difficile

trovare un‘accezione del genere per prosa, che – lo si è detto – oscilla tra un significato formale e

uno metaforico, e tuttavia solo con molte difficoltà potrebbe essere considerata un iper-ipergenere.

Ecco quindi che dovremmo intendere il lessema complesso poesia in prosa come costituito da due

concetti che vengono impiegati in accezioni diverse: poesia con un valore di genere letterario, prosa

con un valore formale. Si tratterebbe quindi della declinazione in una forma insolita di un genere

letterario che – pur nella sua varietà – ha per tradizione la gabbia formale del verso (la ―poesia in

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poesia‖). Anche questa definizione pone però dei problemi, e uno su tutti: ci si può ancora servire di

poesia come categoria corrispondente a un genere letterario?

Non è questo ovviamente il luogo per riprendere un dibattito mai sopito sui generi letterari. In

un‘epoca di ritorno postmodernista a generi anche stereotipicamente canonici, oggi sembra

lontanissima non solo l‘impurità, l‘―appartenenza senza appartenenza‖ della loi du genre derridiana,

ma in primo luogo il superamento dei generi del secondo modernismo, manifestatosi al massimo

grado nella testualità del Beckett maturo e tardo. Ma si provi a riprendere l‘oggi vituperatissima

condanna dei generi che – lo si può tranquillamente ammettere: con il suo tono un po‘ sacerdotale –

pronunciava Blanchot nel suo Livre a venir: «Seul importe le livre, tel qu‘il est, loin de genres, en

dehors des rubriques, prose, poésie, roman, témoignage, sous lequelles il refuse de se ranger et

auxquelles il dénie le pouvoir de lui fixer sa place et de déterminer sa forme. Un livre n‘appartient

plus à un genre, toute livre relève de la seule littérature, come si celle-ci détenait par avance, dans

leur généralité, les secrets et les formules qui permettent seuls de donner à ce qui s‘écrit réalité de

livre. Tout se passerait donc comme si, les genres s‘étant dissipés, la littérature s‘affirmait seule,

brillait seule dans la clarté mysterieuse qu‘elle propage et que chaque création littéraire lui renvoie

en la multipliant, – comme s‘il y avait donc une ―essence‖ de la littérature. / Mais, précisément,

l‘essence de la littérature, c‘est d‘échapper a toute détermination essentielle, à toute affirmation qui

la stabilise ou même la réalise: elle n‘est jamais déjà là, elle est toujours à retrouver ou à reinventer.

[…] C‘est pourquoi, finalment, c‘est la non-littérature que chaque livre poursuit comme l‘essence

de ce qu‘il aime et voudrait passionnément découvrir»(3). Sostituendo, se si vuole, la nozione, del

resto pure cara a Blanchot (e a Barthes) di scrittura a quella di libro – per evitare una

monumentalizzazione del libro che sostituisca quella tradizionale dell‘opera, lasciando insomma al

concetto, attraverso il nome che lo designa, una plasticità capace di attingere nuove forme quali ci

sono consegnate dai tempi – non dovrebbe sfuggire che questo sciamano dell‘art pour l‟art,

dell‘autoreferenzialità e dell‘autotelismo assoluti, ci indica il non-letterario come essenza dello

spirito di scoperta della letteratura, della sua costitutiva instabilità a cui i generi della tradizione

avevano dato un temporaneo contenimento secondo il principio classicista dell‘ordine. La scrittura

letteraria quindi si esprime come insoddisfazione per ogni determinazione. Di qui la rottura con i

generi che si avverte nella scrittura beckettiana e in quella raccoltasi attorno a «Tel quel».

Questo non vuol dire ovviamente che i generi letterari dagli anni ‘60 in poi si siano dissolti. Anzi.

Sarebbe però ingenuo allo stato attuale considerarli qualcosa di più di dispositivi pragmatici che

inquadrano un patto di lettura tra autore e lettore, o ancor meglio tra autore e lettore implicito

nell‘orizzonte di attesa contemporaneo. Ma questi dispositivi pragmatici sono in primo luogo

sopravvivenze di istituti teorici (e normativi) del passato la cui portata si è spostata dal campo

letterario (e quindi, se proprio volessimo seguire Bourdieu, da ragioni di conflitto circa il capitale

culturale) a quello economico dell‘industria culturale: oggi i generi si definiscono in funzione degli

interessi del mercato editoriale.

In questo senso, se la nozione di poesia in prosa poteva avere un tempo – e certamente ha avuto –

una funzione liberante di ibridismo rispetto a generi ancora fortemente canonizzati, oggi che i

generi sono soprattutto etichette in libreria, e la poesia in primo luogo un concetto la cui

ipostatizzazione ideologica inverte – appunto ideologicamente – la marginalizzazione che la

letteratura che non si vende subisce dal mercato editoriale elevandola nel migliore dei casi a luogo

anodino di resistenza etico-politica, nel peggiore a squisito rifugio irresponsabile da anime belle: se

insomma la poesia non ha più bisogno di libertà perché il mercato le lascia tutta l‘indifferente

libertà che vuole, allora questa nozione (la poesia in prosa) è oggi probabilmente inutile.

E, da questo punto di vista, mi sembrano decisamente meritevoli di essere seguite le tesi di Michel

Sandras, che ha saputo mettere in luce la storicità del ―genere‖ poesia in prosa e la sua funzionalità

al particolare orizzonte di attesa di un dato momento storico. Ripercorriamo il ragionamento di

Sandras(4). La definizione poème en prose si afferma – anche se non nasce – con Baudelaire, e si

adatta, nell‘uso paratestuale degli autori stessi – non della critica – a un novero molto vario di

oggetti letterari. Specialmente per quanto riguarda l‘Italia, si può aggiungere, la sua attualità viene

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meno con il prevalere della prosa d‘arte rondista (legittimata dalla ben più antica tradizione della

Kunstprose, oggetto che – lungi dall‘attentare a essa – raffina la più delibata letterarietà). Il termine

entra nel lessico critico, in Francia, in virtù di due importanti lavori accademici, un‘antologia e una

thèse: Anthologie du poème en prose, introduction, choix et notes de Maurice Chapelan , Paris,

Juilliard, 1946; Paris, Grasset, 1959 (II edizione); Suzanne Bernard, Le Poème en prose de

Baudelaire jusqu‟à nos jours, Paris, Nizet, 1959. Secondo Sandras, questi due lavori ―inventano‖ il

genere poème en prose, sussumendo testi molto diversi tra di loro sotto una sola categoria allo

scopo di creare un genere unitario con la sua relativa genealogia(5): un genere nel quale sia

possibile integrare testi in prosa che, negli anni ‘50-‘60, si presentano – a partire dall‘intentio

auctoris – come poesie (bastino i nomi – e i casi ben diversi tra loro – di Michaux, Char, Ponge e

Frénaud). La fondazione del genere poesia in prosa non viene revocata in dubbio, ma anzi

corroborata, dallo strutturalismo, che non ha difficoltà a vedere forme diverse dalla poesia in senso

stretto come sedi possibili, quantunque non privilegiate, della funzione poetica del linguaggio.

Sandras certo ammette che «Au XIXe siècle comme au XX

e, des écrivains, et parmi les plus grands,

comme Mallarmé, ont bien pensé écrire en prose des poèmes, et des lecteurs ont reçu ces textes

comme tels. Il y a eu pour les uns et pour les autres un désir d‘existence du poème en prose»(6): e

questo soprattutto in virtù di una esigenza di liberarsi dalle forme canoniche (e, tra l‘altro, in

parallelo alla nascita della metrica libera). Ma, in fin dei conti, la fondazione accademica di questo

genere è poi servita soprattutto a rendere legittime soluzioni formali di ricerca dalla specola di un

giudizio estetico tradizionale: va bene la prosa che si fa passare come poesia, purché abbia in sé

qualcosa (ritmo, lessico, blanks e raffinatezze tipografiche: tutti tratti compensatori) della poesia-

poesia! Di qui l‘interferenza e poi spesso l‘indistinzione tra poesia in prosa e prosa d‘arte, fenomeno

italiano (con la prosa d‘arte largamente ri-prevalente come ovvio nel clima di restaurazione

rondesco, quindi fino al secondo dopoguerra), ma anche francese.

Oggi questa descrizione non è più economica. Non è necessario parlare di poesia in prosa per

legittimare testi che non sono né poetici né narrativi in senso tradizionale, non dopo Beckett e «Tel

quel». Ancora Sandras: «En fait cette répresentation veut ignorer que les poèmes en prose les plus

intéressants, pour nous aujourd‘hui, sont justement ceux qui ont voulu se débarasser du liant

poétique ou qui ont une portée métapoétique»(7). Potremmo quasi azzardare: la poesia in prosa non

esiste più, se non come revival (se non per rifare Baudelaire o Campana). La prosa non ha bisogno

di farsi chiamare poesia per avere una patente di legittimità estetica al di fuori del dominio dei

generi canonici e diremmo, persino, degli ibridi canonici. Esaurita la forza del poème en prose come

possibile «metagenere» onnicomprensivo, si capisce quindi l‘esigenza – talvolta con un alto livello

di consapevolezza teorica, talvolta con un gesto istintivo(8) – di rinominare il proprio lavoro: in

questo senso si colloca l‘operazione sfociata nel volume Prosa in prosa(9), che ricalca la formula

«prose en prose» dovuta a Jean-Marie Gleize. La filiazione francese e anglosassone è in scorcio

ottimamente ripercorsa da Giovannetti nel suo saggio introduttivo(10). La littéralité di Gleize

(trasparenza anallegorica da un lato, e alfabeticità, tipograficità dall‘altro) conduce a una testualità

che si offre come chiara ed enigmatica a un tempo(11). Apparentabile anche alla language poetry

statunitense (Bernstein, Silliman ad esempio), a forme di scrittura concettuale, ai risultati di varie

tecniche di cut up o di montaggio, al googlism (Mohammad), la somma di esperienze contenute in

Prosa in prosa, almeno nel suo asse portante, presenta una scrittura che si nega alla differenzialità

tipica delle poetiche novecentesche, che si serve quindi della lingua d‘uso recependo anche le

varietà più legate ai nuovi media, che si costruisce come sintomale rispetto alla sfera ideologica,

percettiva e patica di un soggetto che a sua volta si sottrae alla monadicità lirica, ma anche alla

venuta dell‘altro tipica di un soggetto dialogico, per restituire semmai una sovrapposizione non

universale tra sociale e individuale. D‘altronde se riconosciamo che – hegelianamente – il compito

della filosofia è apprendere il proprio tempo in concetti, e – per estensione – il compito della

letteratura (della scrittura) è quello di rappresentare il proprio tempo in figure, non potremo non

notare che queste forme ci restituiscono le microesperienze di percezione del tempo e dello spazio

caratteristiche dell‘epoca odierna. Per esemplificare, ha ragione quindi Antonio Loreto a sostenere

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che «La ricerca dell‘―impressione logica‖ che danno graficamente le forme letterarie sulla pagina

può portare a leggere nella prosa lo spettro visivo della modalità percettiva e del supporto tipici

della nostra epoca: lo schermo»(12). Considerazioni analoghe si potrebbero fare sull‘esperienza

della memoria in rapporto ai supplementi di archivio sempre più capienti cui ricorriamo con

crescente frequenza. I nuovi oggetti e le nuove modalità di percezione e di archiviazione si

rappresentano più facilmente attraverso forme linguistico-stilistiche non differenziali: attraverso la

prosa, attraverso ―tecniche di basso livello”(13). E non serve notare come solo un‘estetica che non

pratichi una distinzione netta tra l‘oggetto artistico e l‘oggetto della percezione ordinaria sia in

grado di interpretare a dovere queste forme artistiche.

Non una virtù profetica, ma una lucida intelligenza del suo tempo e degli sviluppi in esso contenuti,

avevano permesso a Theodor Adorno di fare nel 1944 la seguente considerazione, che mi pare

adattarsi ai tempi di oggi e alle loro forme telematiche di pubblicazione, low level quanto e più del

ciclostile: «Oggi, nella cultura di massa, progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che

solo un‘ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire

il non-barbarico. Non un‘opera d‘arte, non un pensiero ha la possibilità di sopravvivere, in cui non

sia implicito il rifiuto della falsa ricchezza e della produzione di prima classe, del technicolor e della

televisione, delle riviste in carta patinata e di Toscanini. I mezzi più antichi, non rivolti alla

produzione di massa, acquistano nuova attualità: l‘attualità di ciò che non è incorporato,

dell‘improvvisazione. Essi soli potrebbero sottrarsi al fronte unico di tecnica e monopoli. In un

mondo in cui, da tempo, i libri non hanno più l‘aspetto di libri, lo sono soltanto quelli che non lo

sono più. Se l‘invenzione della stampa ha segnato l‘inizio dell‘età borghese, potrebbe essere presto

matura la sua revoca e la sua sostituzione ad opera del ciclostile, il solo adeguato e modesto

strumento di diffusione»(14). Certo, sarebbe un‘ingenuità dire che quel ciclostile oggi è internet, ma

sarebbe altrettanto sbagliato non rilevare che – a dispetto della sua appartenenza al dominio

tecnocratico, e anzi in forza di un suo possibile dialettico contrapporsi alla propria stessa origine –

internet contiene in sé anche quel potenziale ciclostile.

Paolo Zublena

Note. (1)

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, p. 171.

(2) Paolo Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, «Allegoria», X, 28, 1998, pp. 19-

40, poi in Dalla poesia in prosa al rap. Tradizione e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea,

Novara, Interlinea, 2008, pp. 19-45.

(3) Maurice Blanchot, Le livre a venir, Paris, Gallimard, 1959, pp. 272-273.

(4) Michel Sandras, Le poème en prose: une fiction critique?, in Crise de prose, sous la direction de Jean-

Nicolas Illouz et Jacques Neefs, Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 2002, pp. 89-101. Si veda,

sempre di Sandras, anche il precedente Lire le poème en prose, Paris, Dunod, 1995.

(5) Un genere per di più fondato sul precedente illustre dello Spleen de Paris.

(6) Sandras, Le poème en prose: une fiction critique?, cit., p. 97.

(7) Ivi, p. 99.

(8) Tra i poeti apparentemente legati a una autorappresentazione tradizionale di genere, non posso non

pensare alle notevolissime prose e ai «non versi» di Eugenio De Signoribus. E, al di là della autodefinizione

di genere, si dovrà ricordare almeno la scrittura in prosa di Magrelli, Ottonieri, Lo Russo, Bonito, Dal Bianco

e ancor prima quella di Giampiero Neri.

(9) Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, Andrea

Raos, Prosa in prosa, Introduzione di Paolo Giovannetti, Note di lettura di Antonio Loreto, Firenze, Le

Lettere, 2009.

(10) Da cui ho ripreso poco sopra anche la nozione di poème en prose come metagenere (p. 7).

(11) «La prose en prose serait littéralement littérale elle voudrait dire ce qu‘elle dit en le disant en l‘ayant dit

et la prose en prose comme poésie après la poésie si elle existait n‘aurait littéralement, proprement, aucun

sens que le sens idiot de dire ce qui est» (Jean-Marie Gleize, A noir. Poésie et littéralité, Paris, Seuil, 1992,

p. 228.

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(12) Antonio Loreto, Note di lettura, in Prosa in prosa, cit., pp. 201-213, alla p. 206.

(13) Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello, Caserta, Lavieri, 2009.

(14) Theodor W. Adorno, Minima moralia [1951], Torino, Einaudi, 1994, p. 49.

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PERCORSI ITALIANI

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FILIPPO MILANI

MANGANELLI PROSATORE-POETA

Un nuovo tassello di collocazione ardua si è da poco aggiunto alla già intricata composizione del

puzzle-Manganelli: la scoperta di una cospicua produzione poetica che risale agli anni '50-'60 ma

rimasta finora inedita e pubblicata solo nel 2006 da Crocetti. Occorrerà analizzare questi nuovi

materiali e capire in che modo si possa riconsiderare in essi il rapporto tra prosa e poesia, ma

soprattutto l'eventuale influenza di quest'ultima sulle successive tensioni linguistiche

manganelliane. Bisogna innanzitutto evitare di stravolgere la formazione di Manganelli, ritenendo

che sia nato come poeta e solo successivamente si sia trasformato in abile manipolatore della prosa;

ora è certo però che un primo impulso alla scrittura si è manifestato attraverso la forma poetica da

un lato e quella diaristico-critica dall'altro. Infatti, negli anni che vanno dalla fine della seconda

guerra mondiale al 1962 circa si intrecciano alcuni materiali che per gli studiosi di ―archeologia

manganelliana‖ acquistano notevole interesse: le prove poetiche, appunto, databili tra il '48 (le

poesie giovanili inviate al prof. Beonio Brocchieri) e il '62 (stando alla data del testo

cronologicamente più recente); i quaderni di appunti critici che risalgono al periodo '48-'56, e sono

pubblicati parzialmente nel numero monografico della rivista ―Riga‖ (n. 25, 2006).

Materiali di notevole interesse, è vero, ma di difficile collocazione. Da subito la critica si è

posta il problema di utilizzare questi materiali laboratoriali in rapporto all'opera edita di Manganelli.

Già nella postfazione al volume di poesie, Federico Francucci si interroga infatti su ―come usare

queste poesie, come intenderle, cosa farne insomma, e [...] in che maniera modifichino o

arricchiscano l'immagine che ci eravamo fatti sinora‖ 1. del loro autore, giungendo alla conclusione

che fosse necessario adottare una certa cautela sia di fronte ai materiali poetici sia ai racconti e ai

taccuini rimasti finora inediti. La medesima perplessità viene ribadita e confermata da Andrea

Cortellessa quando afferma che ―si tratta, non c'è dubbio, di materiale di estremo interesse per gli

studiosi: i quali lo possono usare, appunto, per capire meglio i testi maturi del loro autore. Ma che,

stavolta, non aggiunge nulla alla sua gloria postuma‖ 2. La cautela è dunque d'obbligo, ma non può

frenare la necessaria curiosità della critica nei confronti del rapporto tra questi esperimenti di

laboratorio e la folgorante maturità dell'esordio hilarotragico, ovvero il modo in cui Manganelli ha

utilizzato gli spunti di queste pagine lungo tutta la sua eterogenea produzione in prosa, recuperando

e rielaborando temi ossessivi e persistenti, oltre che soluzioni stilistiche a lui particolarmente care.

L'abbandono della poesia a favore della prosa rispecchia proprio la necessità di superare i limiti

dell'incipitario incontro con la scrittura, in cui si assiste, secondo Daniele Piccini, a ―una collisione

tra possibilità della forma e del già amatissimo gesto stilisticamente gratuito tra il regesto verbale da

una parte e l'incandescente materia della solitudine e dell'irresolutezza dall'altra, che polarizza e

orienta le possibili scoperte‖ 3. Di conseguenza, annota ancora Piccini, ―i testi ruotano attorno alla

sanguinosa verità dell‘esperienza individuale, a un perno esistenziale, a un‘angoscia propriamente

sentita che l‘autore non elude affatto o mette tra parentesi, esibendola anzi, a partire dal pronome di

prima persona‖4.

All'altezza temporale delle prove di scrittura poetica, Manganelli non ha dunque posto

ancora un discrimine tra l'Io, ―l'incandescente materia‖ autobiografica (―Non sono molto

interessanti / questi scarabocchi del tuo sangue‖5), e la scrittura, il ―gesto stilisticamente gratuito‖

(―l'esigua dolcezza della carta‖, p25). Quella rivoluzione copernicana che spodesterà il soggetto dal

1 F. Francucci, postfazione a G. Manganelli, Poesie, Crocetti, Milano 2006, p. 343.

2 A. Cortellessa, Giorgio Manganelli: archeologia di un collezionista, in Id., Libri segreti, Le Lettere, Firenze 2008, p.

227. 3 D. Piccini, introduzione a G. Manganelli, Poesie, cit., p. 10.

4 Ibid.

5 Ivi, p. 98. D'ora in poi per le citazioni dal volume di Poesie verrà indicata solo la pagina.

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centro dell'universo psichico e letterario, disseminandolo invece nell'infinito ―catalogo freddo dei

possibili‖ (p98), ―lo sbocciare e il morire simultaneo / dei possibili‖ (p51), non è ancora avvenuta.

Una definizione acuta del rapporto tra la parola e l'io appartiene a Giorgio Agamben, nella

prefazione alla tesi di laurea di Manganelli 6: ―l‘ingresso nel linguaggio (nella scrittura) non è [...]

un gesto neutrale, ma introduce nel soggetto un principio di divisione infinita‖7.

A quell'altezza, Manganelli sta per compiere una sofferta metamorfosi da scrittore in

potenza a scrittore in atto, e di tale metamorfosi ha una consapevolezza lucida; lo conferma infatti

una riflessione che si trova nei Quaderni d‟appunti 1954-56: ―La penna ‗resiste‘ di più alla mano

che scrive: la mano è già materia, è fuori di noi‖ 8. Un processo nel quale l'autore si pone a

confronto con la sofferenza psichica e con l‘ossessione per la scrittura è costituito poi dal finale di

un testo di Altre poesie:

Usa il tuo inferno totale:

scalda i moncherini del tuo nulla;

gela i tuoi ardori genitali;

con l‘unghia scrivi il tuo nulla:

a capo.

Qualche anno prima, in una lettera (datata 20/7/1945) alla futura moglie Fausta Chiaruttini,

Manganelli aveva confessato: ―Tutta la mia vita è stata lo sforzo di trovare quel senso, di

ricomporre la pagina agitata in una sintassi o poetica o metafisica o umana‖ 9. La ricerca del senso

della vita attraverso la scrittura diventa ora un imperativo esistenziale, che conduce l'unghia a

incidere il proprio nulla sulla pagina, nel tentativo di ricomporre quello ―sgomento asintattico‖ (così

lo definisce l'autore nella medesima lettera) non lo abbandonava. Le strutture sintattiche, le regole

retoriche, la precisione compositiva si impongono come l'unica via da percorrere per liberarsi delle

proprie angosce e agonie, per ristabilire un ordine, almeno grafico, al caos psichico.

I testi riuniti nel volume di Poesie mostrano una notevole compattezza tematica. Si può

affermare, anzi, che ognuno di essi costituisca una variazione sopra un unico tema: la Morte ―in

tutte le sue forme‖ (p28); un impulso tanatocentrico che senza dubbio anticipa e alimenta quello del

libercolo hilarotragico. Un'ossessiva ―volontà di morte‖ pervade l‘intera raccolta e si delinea come

tema portante dell'opera di Manganelli. Si tratta di un centro tematico totalizzante sul quale si

innestano infinite possibilità di costruzioni verbali, in modo che ogni componimento si configuri

come ipotetica trascrizione tanatologica, ovvero come primo tentativo per sondare quanto la parola

sia effettivamente in grado di scrivere la Morte, di farsi essa stessa lingua morta, annullando le

proprie qualità comunicative. Manganelli si applica a un programmatico sprofondamento nella

propria psiche, accettando per la prima volta il confronto diretto sulla pagina. Lo scrittore esplora

un mezzo espressivo attraverso il quale esternare il proprio malessere, contro l‘onnivora presenza di

un contenuto angosciastico difficilmente domabile: la monomania di Manganelli per la Morte

ingloba la scrittura poetica.

Nel componimento che apre la raccolta, secondo l‘indice d‘autore rinvenuto da Piccini 10

, si

trova il nucleo tematico su cui si fonda la ricerca poetica di Manganelli: la pace ―sta tutta nella

bianca / costola del libro, / la pagina rettangolare / virgole, maiuscole‖ (p25), poiché questa è in

grado di placare ―gli argomenti dell‘inferno‖, sebbene la consapevolezza dell‘inevitabile ―morte amara‖ (figura retorica di memoria montaliana) vanifichi ogni tentativo di addolcire il Destino. Si

tratta di una sorta di testo programmatico-esistenziale, nel quale Manganelli espone un progetto di

6 G. Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del „600 italiano, a cura di P. Napoli,

introduzione di G. Agamben, Quodlibet, Macerata 1999. 7 G. Agamben, introduzione a op. cit., p. 17. 8 G. Manganelli, Appunti critici, a cura di A. Cortellessa, in ―Riga‖ n. 25 (2006), p. 87. 9 G, Manganelli, Circolazione a più cuori. Lettere familiari, Aragno, Torino 2008, p. 23.

10 Vedi nello specifico la ―Nota al testo‖ di D. Piccini in G. Manganelli, Poesie, pp. 247 e segg.

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scrittura e di vita, anticipando per certi versi il suo testo teorico sulla letteratura del 1967: l‘inferno

del corpo e della mente si scontrano con la pace della finzione letteraria; la letteratura funge da cura

alla disperazione e alla solitudine, ma è anche sintomo dell‘inquietudine; nella letteratura ―tutto è

esatto, e tutto è mentito‖ 11

. Solo l‘‖amichevole inchiostro‖ aiuta ad arginare ―gli argomenti del

delirio‖, contrastando ―una antica voglia di dormire‖, una oblomoviana12

rinuncia a vivere. L‘atto

della scrittura diviene atto di resistenza all‘inferno della mente, tentativo di non abbandonarsi alla

dissoluzione di sé nella malattia:

La mia pace meccanica, asciutta,

tutta in possesso della mano,

la mia pace terrestre

senz‘ira, ignota agli angeli,

sta tutta nella bianca

costola del libro,

la pagina rettangolare

virgole, maiuscole;

elude l‘arguzia della mente

in calme prospettive

gli argomenti dell‘inferno. 13

Tuttavia Manganelli non intende fuggire dall‘inferno; lo vuole affrontare. Accetta la Morte

come prerogativa degli uomini, i mortali appunto (―adediretti‖, per la sua nota definizione), e quindi

paradossalmente come senso ultimo della Vita e della Letteratura: ―dal principio dei tempi, le parole

hanno avuto a che fare con la Fine del Mondo‖:

La vita che non ci appartenne,

un‘ora qualunque, casualmente,

la possiederemo nella morte. 14

****

Questo tema avrà notevole sviluppo nell‘opera di Manganelli: basti pensare al Discorso

sopra la difficoltà di comunicare coi morti contenuto in Agli dei ulteriori e ai dialoghi tra il

protagonista morto-non morto e imprecisate voci in Dall‟inferno (in entrambi i casi è evidente il

riferimento al leopardiano Federico Ruysch). La Morte in Manganelli non solo viene reintegrata

nella Vita, ma diviene oltretutto insopprimibile fondamento di Vita: di un vivere che è per la morte,

come causa e fine; ―la paura della morte‖ tiene in vita: una ―paura ininterrotta‖ come unica ―prova

della mia esistenza‖, ―della mia continuità‖. Per Manganelli è ―la nostra vocazione orizzontale‖

(p63) a renderci vivi: senza di essa non potremmo considerarci uomini mortali, perché privi del

senso primo della nostra Vita, del principio regolatore della nostra carne. L‘uomo in atto non può

considerarsi tale, se non contiene in sé il germe del cadavere in potenza, ―mentre la pubertà della

morte / gli matura addosso, tenera peluria‖ (p30), inestricabile vincolo che sta alla base di qualsiasi

pretesa di vita e di scrittura:

Noi conosciamo la voglia di morire

non c‘è donna più costante

non c‘è carne più docile all‘abbraccio

le unghie prefigurano la morte

le ossa nel centro della carne

conservano altissima costante

11

G. Manganelli, Letteratura come menzogna, Feltrinelli, Milano 1967; qui si cita da Adelphi, Milano 1985, p. 223. 12

Si ricordi la prefazione dell‘autore a I. Goncharov, Oblomov, introduzione e traduzione di E. Lo Gatto, Einaudi,

Torino 2006. 13

G. Manganelli, Poesie, cit., p. 25. 14

Ivi, p. 52.

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consacrano la voglia della morte. 15

In Hilarotragoedia questa idea di vocazione dell'uomo viene come riconfigurata: non più

―orizzontale‖ bensì ―discenditiva‖, in stretto rapporto con la forma del nostro corpo ―fusiforme

verso i piedi, come si addice a ordigni di scavo, quali sono le talpe dei talloni, con che a noi

medesimi scaviamo la tomba in amica argilla‖ 16

. Il destino dell'uomo, perciò, non è giacere in una

tomba-letto in cui consacrare ―la voglia di morire‖, ma sprofondare incessantemente negli abissi del

proprio perituro insieme di ossa e muscoli alla ricerca di quell'irraggiungibile Nulla centrale che lo

sorregge. L‘andamento ossimorico dei versi tiene unite le opposte tensioni alla Vita e alla Morte che

al medesimo tempo lacerano l‘uomo e ne permettono l‘esistenza. Manganelli trova nella figura

retorica dell‘ossimoro, in quanto ―paradosso intellettuale‖ 17

, la forma più adatta a sintetizzare la

dialettica delle contrapposizioni irrisolte: ―l‘ossimoro – sottolinea Domenico Scarpa – è un caso di

geometria non euclidea della parola‖ 18

, una concordia oppositorum che permea la sintassi

manganelliana e costruisce altrettanti luoghi non euclidei, non-luoghi. In Dall'inferno il

metamorfico personaggio può affermare: ―non ho il sentimento che dovrebbe essere connaturato

all‘inferno, di una definitiva sconfitta; sconfitta che, per essere totale, consentirebbe una sorta di

maligna pace‖19

. Anche qui ritornano accostati ―inferno‖ e ―pace‖, opposti che non concordano e

non si eliminano, ma convivono sulla pagina grazie alla duttilità-ambiguità espressiva

dell‘ossimoro: ―maligna pace‖. L‘inferno e il paradiso sono opposti imperfetti perché entrambi si

contengono, scambiandosi addirittura l‘un l‘altro i rispettivi aggettivi che solitamente li

accompagnano: ―solo l‘inferno è onesto‖ proprio perché ―la pace meccanica, asciutta‖ è ―ignota agli

angeli‖; le ―invivibili‖ vite umane sono regolate dalla ―Grazia Casuale‖ che tra tutti i possibili

sceglie ―una morte da morire: / una morte casuale, innecessaria, / distratta, senza te‖. L'ossimoro

permette di scrivere l‘imperfezione, la discordia degli opposti, lasciando aperta una possibile

reversibilità (ad infinitum) tra i due termini dell‘opposizione; in ottemperanza alla sua ostilità

dichiarata contro tutto ciò che è definitivo: le facili interpretazioni, gli enigmi risolvibili, il punto

fermo, la parola ―fine‖.

In tutta l'opera manganelliana ossimori ed enumerazioni caotiche si configurano come

costanti stilistiche attraverso le quali ipotesi e possibilità apparentemente inconciliabili riescono ad

amalgamarsi in una lingua fluida e ―proliferante‖ (secondo Guido Guglielmi), in cui le

contraddizioni convivono senza bisogno di annullarsi a vicenda. I materiali poetici si configurano

come il fondamento delle irrisolte ―contraddizioni del [...] sangue‖ (p. 73), il laboratorio del

cosiddetto ―proto-Manganelli‖ (Andrea Cortellessa), nel quale l'autore ha messo alla prova le

diverse possibilità della lingua, torcendola, disarticolandola, inseguendo una parola-―ombra‖ al di

sotto delle consuetudini linguistiche.

Nelle prime prove poetiche l'incontro-scontro con la parola, con le sue possibilità e i suoi

limiti, si delinea come ―lotta violentissima‖ (così la definiva l'autore in un appunto del 14/6/1955)

per riuscire a districare letteratura e biografia:

la lotta violentissima [...] che si svolge nel mio cervello, nella mia ―anima‖, per sopravvivere, vivere da uomo

per capire attivamente la realtà, vale a dimostrare il carattere marginale dell'io, il polimorfismo della personalità,

costituita da nuclei non distinti, ma che si muovono secondo ritmi ben distinti, seguendo intime vocazioni che non

comprendiamo [...] 20

Tra il '48 e il '62 (a ridosso della stesura di Hilarotragoedia) la scrittura per Manganelli non

poteva che ruotare attorno alla propria angosciosa esistenza, ai demoni e ai fantasmi che affollavano

15

Ivi, p. 63. 16

G. Manganelli, Hilarotragoedia, cit., p. 10. 17

H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 212. 18

D. Scarpa, Oscuro/Chiaro, in ―Riga‖, n. 25 (2006), p. 433. 19

G. Manganelli, Dall‟inferno, cit., p. 8. 20

G. Manganelli, da Appunti critici, in ―Riga‖ n. 25, p. 92-93.

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la sua psiche. L'uomo Manganelli aveva molto ―da dire‖, e voleva esternarlo completamente.

Pullulava di dolorose ―larve‖, che solo attraverso la parola trovavano una forma di pacificazione. Il

mestiere di vivere, come nel caso ―fallimentare‖ di Pavese, non era scindibile dal mestiere di

scrivere: la sua poesia, di conseguenza, risente della necessità di dare voce al fulcro ―angosciastico‖

dell'esistenza: ―dove non c'erano parole, / dove non ci sono parole, / nel centro del centro del

centro‖ (p32). Attraverso la parola poetica Manganelli inizia la discesa negli abissi della psiche, nel

tentativo di estirpare alla radice quel male che lo tormenta, nella catarsi linguistica della propria

personale cognizione del dolore, per ―riportare all'ordine / l'insana avventura dell'esistere‖ (p33).

In questo senso, l'impulso che muove la sua scrittura appare affine al ―mormorio" pavesiano;

in una lettera del 16/9/1945 alla moglie Fausta, Manganelli rivela: ―mi pare, mentre scrivo, di

sentire la mia voce monotona e dolce: una sorta di pronuncia meditabonda e lontana‖ 21

. Anche

Pavese ricordava, nel Mestiere di poeta, che i suoi testi poetici si sviluppavano spesso da una sorta

di ―tiritera di parole‖, che lo perseguitava fino alla pagina, in un particolare ritmo accentuativo

anapestico: ―mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico dei Mari

del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo

segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano‖ 22. Analogamente, nei testi poetici di

Manganelli è possibile percepire un insistente brusio, un ritmo ossessivo che pervade la scrittura; il

medesimo ritmo poi esteso alla successiva produzione in prosa, secondo uno sviluppo stilistico di

assoluta coerenza e maturità. Quel ―brusio della lingua‖ di cui Roland Barthes scrive:

nel suo brusio, affidata al significante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali, la lingua non

perderebbe tuttavia di vista un orizzonte di senso: il senso, indiviso, impenetrabile, innominabile, sarebbe comunque

posto in lontananza come un miraggio, farebbe dell'esercizio vocale un duplice paesaggio, dotato di uno ―sfondo‖; ma,

per evitare che la musica dei fonemi sia lo ―sfondo‖ dei nostri messaggi (come avviene nella nostra Poesia), il senso

sarebbe qui il punto di fuga del godimento. 23

In prima istanza, perciò, la poesia appare come un ritmo fonico pre-significante, a partire dal

quale si organizzano il linguaggio poetico e i suoi multipli significati. Secondo Barthes ―il brusio

della lingua forma un'utopia‖, un non-luogo nel quale è possibile sentire ―la musica del senso‖

prima ancora che quest'ultimo si sia realizzato pienamente e sia logicamente intellegibile. Nel caso

di Manganelli la poesia si configura come la prima utopia, nella quale lasciare piena libertà

all'insistente brusio interiore, e libero sfogo al proprio mugolare ritmico, svincolato da angosce di

senso e di stile.

L'ingombrante Io, il soggetto, diviene perno ―discontinuo e periclitante‖ 24

, attorno al quale

vengono attirate tutte le parole, e che si arroga il diritto di decidere il senso e la direzione di ogni

scrittura, esondando dai confini e appropriandosi dello spazio vuoto a disposizione sulla pagina. Per

affrontare ―il polimorfismo della personalità‖, Manganelli affida alla scrittura una funzione di sfogo

per il ―troppo da dire‖ che ingombra l'Io, giocando con la possibile disintegrazione dell‘unità

strutturale del segno linguistico, a partire proprio dalla nozione di arbitrarietà: spezzata la catena (la

linea tratteggiata) che lega le due componenti, entrambe conquistano la possibilità di ampliarsi

all‘infinito senza dover sottostare ad una struttura unitaria e monolitica. La casella del ―significato‖

diventa contenuto di tutti i possibili significati, anche contraddittori; un vuoto che può riempirsi

ogni volta in modo diverso e anomalo; il ―significante‖ diventa invece un contenitore per ogni

possibile sonorità: ―la sensazione è quella di un universo linguistico cui, svuotato della sua referenzialità, non resta che esibire se stesso, le sue sfumature sinonimiche, i suoi impasti sonori, le

21

G. Manganelli, Circolazione a più cuori, cit., p. 37. 22

C. Pavese, Il mestiere di poeta [novembre 1934], in Id., Le poesie, a cura di M. Masoero, Einaudi, Torino 1998, p.

109. 23

R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 80. 24

G. Manganelli, HT, p. 52.

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sue immense potenzialità‖ 25

. In questo modo l‘elemento significante non si relaziona più con le

altre componenti della frase in base alle consuete affinità di senso, ma attraverso liberi legami di

suoni. Si ricordi a questo proposito il concetto di ―cratilismo‖, ovvero la perfetta coincidenza tra

suono e senso 26

, non più secondo una logica grammaticale volta alla comprensione e alla

trasmissione di un contenuto, ma secondo una logica delle analogie sonore che creano associazioni

musicali tra elementi fonici, pure sonorità e strutture armoniche svincolate dalla comunicazione di

informazioni e significati, cioè ―una lingua che rinunci ai significati per farsi più ricettiva e

percettiva‖ 27

. A questo proposito sono assai rilevanti le riflessioni di Manganelli su Beckett poeta:

Beckett aveva ―qualcosa da dire‖: per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel

―qualcosa da dire‖ in struttura, in linguaggio; prendere la propria ―verità‖ per i capelli e trascinarla in una regione in cui

il vero non ha alcun privilegio sul falso; trattarla come la convenzione propria di un genere, o uno schema metrico, o

una arguzia allitterativa. 28

Quel ―qualcosa da dire‖ tende dunque a svuotarsi di significato, a farsi costruzione verbale

al servizio della retorica: il significato stesso è figura retorica. A questo proposito Mattia Cavadini

cita una calzante analisi di Hans Robert Jauss sulla moderna ―poesia della poesia‖:

mentre lo sguardo dell‘allegorista medievale cercava e trovava dietro i fenomeni del mondo la patria di ciò che

non è fugace, il poeta moderno viene risarcito dalla perdita della patria trascendente dalla poesia stessa: nella figura

compositiva di una poesia che descrive il suo proprio divenire, l‘esito appare alla fine come ―poesia della poesia‖, che

trova la sua origine in se stessa e perciò è capace anche di sussistere a se stessa. 29

La scrittura poetica di Manganelli si concentra sul proprio divenire, sul proprio farsi poesia;

può essere definita, perciò, come ―poesia della poesia‖, poiché non comunica nient‘altro che se

stessa, ovvero la morte del significato e del messaggio. Giancarlo Alfano ha notato che Manganelli,

adattando alle proprie esigenze lo schema della comunicazione verbale codificato da Roman

Jakobson, preferisca porre la prassi fonatoria al vertice nella gerarchia delle funzioni comunicative:

su tutte le altre è centrale la funzione fatica, quella che lavora sul contatto tra emittente e destinatario, giacché

in questa scrittura si fa questione del rapporto IO-TU, della relazione tra i due poli della comunicazione, e del fatto che

tale rapporto si basa sul puro inter-loquire, ognuno ―loquendo‖ sempre per se stesso. 30

La funzione fatica in Manganelli si discosta dalla definizione classica (―un contatto, un

canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario che consenta loro di

stabilire e di mantenere la comunicazione‖ 31

), perché essa gioca con l‘assenza del destinatario, in

un tentativo dell‘Io di mettersi in contatto con un Tu di cui si può solo supporre l‘esistenza e

l‘ordine; scrive Manganelli in Nuovo commento:

il problema del destinatario è insolubile; infatti l‘ordine esiste prima che venga individuato sia il destinatario

che l‘oggetto; esso è un mero ordine. E dunque qualcuno deve definire se stesso come destinatario, ignorando se così

facendo ubbidisce, o prevarica. 32

25 M. Cavadini, Per una lettura allegorica delle allegorie manganelliane, in Le foglie messaggere. Scritti in onore di

Giorgio Manganelli, a cura di V. Papetti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 46. 26 Vedi per una analisi approfondita sul ―cratilismo‖ F. Dogana, Suono e senso. Fondamenti teorico ed empirici del

simbolismo fonetico, Franco Angeli Editore, Milano 1983. 27

M. Cavadini, Per una lettura allegorica delle allegorie manganelliane, in op. cit., p. 56. 28

G. Manganelli, Qualcosa da dire, in Letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985, p. 97. 29

H. R. Jauss, Estetica della ricezione, Guida, Napoli 1988, p. 134. 30

G. Alfano, Emblema, in ―Riga‖ n. 25 (2006), p. 340. 31

R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1978, p. 186. 32 G. Manganelli, Nuovo commento, cit., p. 101.

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A partire da queste premesse, che appaiono valersi dell'analisi di Émile Benveniste sul

rapporto Io-Tu, si genera un cortocircuito nella comunicazione: l‘emittente deve fingersi

destinatario, emettendo suoni che tornano inevitabilmente a lui stesso. A chi dice "io" resta

nient'altro che la sua stessa voce: egli può avere coscienza dei suoni delle parole che emette, ma non

del loro significato, poiché il significato si costruisce solo attraverso la comunicazione con un Tu

vero, un‘alterità che possa apportare contenuti diversi rispetto a un solipsismo comunicativo

autoprodotto.

Nel Discorso dell‟ombra e dello stemma Manganelli porta alle estreme conseguenze questa

posizione, affermando che la nascita del primo testo letterario avvenne quando, casualmente, un

giorno ―qualcuno trovò un segno sonoro, un parassita simile a lettera‖ 33

, e a partire da quel suono

ebbe inizio la letteratura scritta. Egli colloca dunque alla base della scrittura i ―segni sonori‖, in

qualità di simboli grafici dell‘oralità, agglomerati di pura voce, segni larvali e ―tautofoni‖.

Anche nella sua personale rilettura di d‘Annunzio, Manganelli sostiene che il poeta dell‘Alcyone

abbia il diritto di diventare un classico non tanto per merito del suo gusto per la bellezza, ―la

sensualità linguistica‖ e ―la fantasia paesistica‖, ma per la splendida manipolazione di un linguaggio

morto e artificialmente composto da ―splendide larve‖:

la lingua di D‘Annunzio è non solo morta; non è mai esistita; è totalmente artificiale, anzi risolutamente falsa:

una ―splendida larva‖. Non lo interessa la qualità comunicativa della pagina, ma unicamente la macchina verbale. 34

Per Manganelli l‘artificiosità della retorica dannunziana ha valore in quanto creatrice di

―oggetti fastosi, lavorati con difficile ambizione, privi di significato e assolutamente inutili‖ 35

, frutti

di una arte retorica che lima e tornisce la parola a tal punto da disgregare la componente semantica,

esaltando in sommo grado la componente fonica. La scrittura poetica di Manganelli non ripercorre

però le fastosità dannunziane: ne coglie gli aspetti più giocosi e musicali, attenuandone la solennità

attraverso una tagliente ironia. Ad esempio, il tema dannunziano dell‘incontro amoroso (si pensi

alla leggera e dolce lussuria delle metamorfiche ninfe alcionie, come Versilia o L‟acerba, ―Ti do

due labbra fresche per un pugno / di verdi fave, e il picciol cuore amico!‖ 36

), viene stravolto da

Manganelli in un atto di reciproca carnivora consunzione:

Si giace con la donna

per mangiarla.

E la donna consuma i nostri lombi

a farne violenza di guerrieri,

e altri inguini,

e ripete nel sasso del suo grembo

la ferocia paziente di ogni seme. 37

L‘atto sessuale diviene una ―violenza di guerrieri‖. L‘incontro tra il maschile e il femminile

un feroce e inconciliabile accoppiamento tra vegetale (―ferocia paziente di ogni seme‖) e minerale

(―nel sasso del suo grembo‖, in un paragone già pavesiano 38

). La violenza del testo si realizza più

che altro sul piano fonico: la prevalenza del suono /r/ anche raddoppiato (―Farne violenza di

guerrieri‖, ―grembo‖, ―ferocia‖), di /g/ gutturale (―guerrieri, grembo, inguini‖), della sorda /z/

(―violenza‖, ―paziente‖).

33 G. Manganelli, Discorso dell‟ombra e dello stemma, cit., p. 13. 34

G. Manganelli, Splendide larve in Letteratura come menzogna, cit., p. 74. 35

Ibidem 36

G. D‘Annunzio, Alcione, a cura di P. Gibellini, Einaudi, Torino 1995, pp. 242-243. 37

G. Manganelli, Poesie, cit., p. 37. 38

Vedi C. Pavese, Le poesie, a cura di M. Masoero, Einaudi, Torino 1998.

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In una pagina fondamentale di Letteratura come menzogna Manganelli fornisce la

definizione più chiara e completa della sua lingua, del suo interesse per la parola in quanto artificio

letterario e del concetto di retorica:

l‘opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione. L‘artificio racchiude,

ad infinitum, altri artifici; una proposizione metallicamente ingegnata nasconde una ronzante metafora; disseccandola,

metteremo in libertà dure parole esatte, incastri di lucidi fonemi. Nel corpo della preposizione, le parole si dispongono

con disordinato rigore, come astratti danzatori cerimoniali: tentano l‘ipallage che le colloca in reciproco afelio, il

chiasmo che le dispone in immobilità speculare; si allineano nella scandita processione dell‘anafora, osano la vertigine

dell‘ossimoro, la mite disubbidienza dell‘anacoluto; la tmesi mima l‘attacco schizofrenico, l‘homoteleuton è pura

ecolalia. Reciprocamente, ad una struttura demenziale corrisponde l‘articolazione di una retorica. 39

Questo catalogo di figure retoriche rivela l‘interesse di Manganelli per gli effetti fonetici

prodotti dalla disposizione delle parole sulla pagina e, di conseguenza, per la retorica come

congegno fondamentale nella creazione del ritmo. Manganelli ambisce dunque a costruire strutture

poetiche che possiedano un andamento ritmico e una tonalità autonomi rispetto al senso, rispetto ai

legami logico-comunicativi del significato. Ogni componimento si struttura così come una ―treccia

di nulla‖, costituita da parole organizzate con abilità retorica attorno a un vuoto di significato, e che

restano coese grazie ai nuovi rapporti instaurati tra significanti (―il baluardo d‘una treccia / nella

continuità del niente‖, p51). Nel suo studio sulle varianti e lo stile di Hilarotragoedia, Mariarosa

Bricchi afferma che la poetica manganelliana è centrata sull‘enfasi dell‘impasto inatteso dei termini;

non ha rilievo la parola isolata, bensì ―ciò che può produrre questa parola quando si muove in

mezzo a un contesto di altre parole‖ 40

. La studiosa individua tre diversi fattori interagenti nella

lussuosa retorica manganelliana applicata alla prosa:

la selezione di parole inconsuete (ivi incluse quelle desuete, arcaiche o letterarie e, assai più rare, quelle volgari

o dialettali); l‘invenzione di neologismi; la bizzarra fantasia negli accostamenti lessicali. 41

Ecco dunque gli elementi fondamentali della ―bella prosa barocca, ma freddina‖ 42

di

Manganelli, cioè di quell‘―universo proliferante‖ 43

che nasce dalla combinazione tra una rigorosa

tecnica retorica e una fantasia linguistica fuori dall‘ordinario: ―col suo sontuoso spettacolo – ha

scritto Calvino – fatto di sintassi elaborata, di nomi, di verbi e soprattutto aggettivi inaspettati,

l‘arte di far sorgere dal pretesto più insignificante una fontana di zampilli verbali, un vortice di

analogie, una cascata di invenzioni esilaranti‖ 44

. Nei componimenti poetici se ne trova un primo

esempio, anche se qui gli ―zampilli verbali‖ non sorgono ―dal pretesto più insignificante‖, bensì da

un dolore vissuto, reale. Ogni parola rappresenta un brandello corporeo, che l'autore sembra

strappare da sé, oggettivando il proprio dolore.

A partire da qui, e valendosi del catalogo di tropi proposto da Mariarosa Bricchi sul lessico e

la sintassi del libro d‘esordio, si può provare ad indagare l‘aspetto significante della parola nella

scrittura poetica di Manganelli. Gli espedienti retorici utilizzati con maggiore frequenza dall‘autore

si suddividono in: accumulazioni, antitesi, ossimori, similitudini, metafore (soprattutto dell‘area

semantica della grammatica). Le accumulazioni caotiche – elenchi di termini a-logici – permettono

di giustapporre elementi eterogenei o sinonimici:

(stanno tutte catalogate le bocche dei morti

39

G. Manganelli, Letteratura come menzogna, cit., p. 222. 40 M. Bricchi, Manganelli e la menzogna. Notizie su Hilarotragoedia, Interlinea, Novara 2002, p. 36. 41

M. Bricchi, op. cit., pp. 37-38. 42 M. Bricchi deduce questa definizione direttamente dalle parole di Manganelli in una lettera rivolta ad Anceschi:

―Scrivere, scrivere in quella bella prosa che io mi sogno, tutta ricchissime secondarie, barocca ma freddina, neoclassica

ma drammatica, solenne ma oscena…‖. 43 A. Guglielmi, Vero e Falso, Feltrinelli, Milano 1968, p. 161. 44

I. Calvino, introduzione all‘edizione francese di Centuria; ora in G. Manganelli, Centuria, a cura di P. Italia, Adelphi,

Milano 1989, p. 9-13.

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e le mani, scatole, casse, scaffali

mani, bocche, occhiali

arti artificiali

nasi finti, baffi, parole,

saluti buon giorno e buona sera,

ti amo, stanotte, nacque un bambino

ogni cosa catalogata, ogni cosa ha un senso nella merda centrale della terra)

45

―I cataloghi miti delle cose‖ raggiungono il massimo grado di profondità semantica negli

attributi che accompagnano la parola ―morte‖: ―una morte casuale, inneccessaria, / distratta, senza

te‖ (p34). Il grado zero della catalogazione, invece, si raggiunge quando Manganelli compone

accumulazioni tautologiche, ottenendo un effetto ecolalico ―occorre silenzio, silenzio, silenzio!‖

(p33); ―non verrà, l‘ora delle mani, / delle mani e nient‘altro che delle mani‖ (p41). Un‘altra

variante riguarda le accumulazioni di termini legati da paronomasia, che mette in evidenza

associazioni di tipo fonetico più che semantico: ―ma chiede odio, odio pretende, / per resistere,

rifiutare, esistere‖ (p72); ―certissimi, ugualmente, / la folata, il folletto, il mulinello‖ (p83).

L'enumerazione ha il compito di realizzare un ritmo che procede contemporaneamente verso l‘alto e

il basso (―catalevitante‖), in una sorta di disposizione museale degli oggetti, posti uno accanto

all‘altro lungo infiniti scaffali. Manganelli manifesta un tale espediente facendovi esplicito

riferimento: ―si enumerano‖, ―si redigono cataloghi‖, ―i cataloghi miti delle cose‖, ―lo scaffale

ordinato delle viscere‖, ―catalogo gli indizi / della decomposizione‖, ―sugli scaffali di Dio /

s‘impolverano i gesti possibili‖.

Le costruzioni antitetiche costituiscono un altro degli schemi retorici fondamentali.

Attraverso le figure di opposizione, dalla correctio per gradazione alla totale contrapposizione,

l‘autore mescola sulla pagina elementi incongruenti:

Non ti salverà l‘amico

dall‘ombra della morte amica,

né mano imprevedibile d‘amante:

meglio ti difenderebbe

la liscia indifferenza

dell‘oggetto causato

dall‘astratta intelligenza: 46

L‘argomentazione nel testo prende avvio dalla negazione di alcune possibilità di salvezza,

che riguardano l‘intervento attivo di esseri umani (legate dai tre termini in posizione forte in finale

di verso ―amico, amica, amante‖), e prosegue ipotizzando per assurdo la soluzione nella ―liscia

indifferenza dell‘oggetto‖. Gli elementi contrapposti non si eliminano a vicenda, ma sussistono

mantenendo entrambi una forza argomentativa, e producendo un effetto di straniamento logico.

Ma la figura retorica che più di ogni altra permette la contemporanea rappresentazione degli

opposti: l‘ossimoro. Il Manganelli poeta evidenzia l‘aspetto paradossale delle relazioni verbali che

afferiscono a campi semantici differenti e che, per contatto ravvicinato, contaminano a vicenda il

loro significato ordinario. Attraverso l‘uso insistito dell‘ossimoro Manganelli punta sulle possibili

ambiguità volta per volta realizzate: ―amichevole peccato‖, ―una vita da non vivere‖, ―dolcemente

disperato‖, ―maternità del niente‖, ―morte amica‖, ―permanenza provvisoria‖. Soprattutto nei confronti della morte e della malattia, l‘ossimoro rivela una duplice tendenza all'attrazione e alla

repulsione, che solo la costruzione antitetica permette di esprimere immediatamente. L‘espressione

―morte amica‖, già montaliana (basti confrontare il finale di Giglio rosso), ad esempio, può essere

interpretata sia come ―volontà di morte‖, ovvero come soluzione a tutti i mali, sia come

45 G. Manganelli, Poesie, cit., p. 206. 46

G. Manganelli, Poesie, cit., p. 50.

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esorcizzazione della ―paura ininterrotta‖ della morte, non più considerata come ―nemica‖ della vita

ma, appunto, come inalienabile ―amica‖.

In Manganelli la microstruttura del singolo ossimoro rimanda alla macrostruttura ossimorica

dell‘intera silloge, permeata da una contraddittoria tanatofilia: da un lato la tensione prodotta dal

desiderio della morte come unica ed estrema liberazione da tutte le angosce che perseguitano il

soggetto (―Accetterò la morte in tutte le sue forme‖); dall‘altro quella prodotta dalla paura della

morte come unica prova di esistenza, secondo il semplice assioma che lega il timore della morte alla

―insana avventura dell‘esistere‖ (―Io non ho prova della mia esistenza / […] / Fuori del sigillo /

della paura ininterrotta‖).

Rilevava Alfredo Giuliani che Manganelli possiede ―le chiavi della Retorica per aprire

Infiniti Mondi Cerimoniali‖ 47

, nei quali la cerimonia, il lancio dei dadi, risulta del tutto attinente e

pertinente al Caos. Sembra opportuno, quindi, considerare anche l‘aspetto ludico della

composizione poetica intesa come atto combinatorio, che prevede per sua stessa natura

l‘imprevedibile esattezza del Caso. Manganelli, infatti, gioca letteralmente con l‘elemento fonico

del linguaggio, accostando le parole in base ad affinità sonore piuttosto che semantiche, insistendo

particolarmente sulla ridondanza e sull‘uso ironico di tali effetti: allitterazioni, anafore e altre figure

verbali spingono all'effetto ecolalico i significanti fino a sgretolarne i significati relativi. Ad

esempio, nel distico incipitario ―A che livello è salita / la volontà di morte dell‘avventizio?‖ (p29) è

interessante rilevare come la predominanza del suono laterale alveolare /l/ contrasti con l‘unicum

del suono vibrante alveolare /r/ in corrispondenza di un termine fondamentale nel repertorio

manganelliano. In questo modo sorge un contrasto tra il pedale sonoro morbido della /l/ e il picco

ruvido dell‘unica /r/ (poi dominante nel resto del componimento), attraverso il quale l‘autore mette

in evidenza la sua tensione tanatocentrica, quel ―piacere perverso / della tiepida, lunga morte che si

insinua / come mano calda di puttana‖ (p29).

Manganelli predilige al continuum lirico un ritmo sincopato di lettura incentrato sulle

connessioni tra significanti, sulla successione di suoni duri, che rendono faticosa la lettura, quasi

ostacoli fonetici. La lettura del verso manganelliano non risulta mai scorrevole e ritmicamente

fluida ma frenata e disequilibrata, come se la voce fosse costretta a soffermarsi sulla pronuncia di

ogni singola parola; infatti i testi poetici sono gremiti di suoni consonantici alveolari /n/, /t/, /d/, /r/,

/l/, /k/, /ng/, palatali /gl/, /gn/ e delle loro possibili combinazioni, che impongono alla voce un

andamento secco e indurito:

Tu puoi fermare

i coltelli, ficcarli per terra,

farli germogli di alberi giovani,

erba nutrire sulla pietraia

senza storia, fitto

nido di lucertole

di uova tenere, rigonfie

di tremule violenze,

di becchi infantili di giovani belve 48

Un altro aspetto della ritmicità del verso riguarda la particolare selezione delle forme verbali

in alcuni componimenti; soprattutto in quelli nei quali la macrostruttura ritmica è sorretta da forme

coniugate in accordo di persona, modo e tempo, e che presentino la medesima desinenza. Ad esempio, nel primo movimento della poesia ―Dapprima tentammo con le fiamme‖, la struttura si

regge sull‘iterazione sovrabbondante di verbi coniugati alla prima persona plurale dell‘indicativo

passato remoto: Tentammo (due volte), rinnegammo, coltivammo, misurammo, giocammo,

riprovammo. Queste forme verbali svolgono nel testo una funzione di legame acustico, poiché

creano una concatenazione di allitterazioni (il suffisso -ammo) che è indice di coerenza testuale; ma

47

A. Giuliani, Manganelli teologo burlone, in, Le foglie messaggere, cit., p. 16. 48

G. Manganelli, Poesie, cit., p. 39.

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costituiscono anche un legame ritmico, poiché mantengono viva l'omogeneità ritmica di tutto il

componimento, fornendo coerenza alla struttura della catalogazione caotica.

Altri esempi di questo tipo possono essere i tre verbi all‘indicativo imperfetto (frugavo,

premevo, cercavo) che costituiscono l‘ossatura di ―Io frugavo il tuo grembo‖ (p47), cadenzandone

la tripartizione iniziale; o nuovamente l‘uso della prima persona plurale dell‘indicativo passato

remoto in ―Noi non riconoscemmo‖ (p51-52) (Riconoscemmo, bevemmo, tentammo, ricamammo,

cominciammo, ci incantammo, vendemmo); oppure in ―Rinuncia alla mano dell‘amica‖ (p26) i

paradossali dettami alla seconda persona singolare dell‘imperativo (rinuncia, ferma, distogli, nega,

segna, sdràiati, riconosci); paradossali perché spingono il Tu a seguire un ossimorico assioma:

―solo l‘inferno è onesto‖.

L‘attenzione stilistica di Manganelli si rivolge dunque alla sfera significante della parola,

all‘aspetto grafico e acustico del segno linguistico: l‘unico elemento di cui un autore possiede

coscienza. Manganelli, infatti, propone provocatoriamente di considerare ogni singola parola come

una nota musicale, poiché la musica non trasmette nient‘altro che il proprio stesso suono: ―Ecco, la

musica, che cosa meravigliosa. Nessuno chiede mai alla musica che cosa vuol dire. È pacifico che

la musica non voglia dire niente…‖ 49

. Il significato, infatti, diventa quanto mai labile e instabile

una volta spezzato il legame che unisce i ―concetti‖ alle ―immagini acustiche‖. L‘ambiguità del

segno grafico, in poesia come in prosa, permette sia la creazione di legami inaspettati tra

significanti sia la compresenza ossimorica di significati contrastanti all'interno di una stessa parola.

In Manganelli il parallelo con l‘ambiguità del corpo umano è immediato: infatti, in modo analogo a

quanto avviene nel linguaggio, anche nel corpo umano le relazioni tra le parti che lo costituiscono si

fanno inaspettate e metamorfiche. Come afferma Giancarlo Alfano, la scrittura di Manganelli unisce

indissolubilmente l‘elemento grafico e quello acustico alla corporeità del linguaggio: ―un dito

fonico e un orecchio grafico sono i comprimari dell‘esecuzione scrittoria‖ 50

. A maggior ragione,

dunque, nel Manganelli poeta. Ogni tentativo di interpretazione della parola manganelliana diviene

perciò un atto di analisi anatomica, auscultazione e palpazione della sonorità e corporeità, prima

ancora che un'attività analitica, volta a districare le antitesi irrisolte del testo.

Filippo Milani

49 G. Pulce, Lettura d‟autore. Conversazioni di critica e letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto

Arbasino, Bulzoni, Roma 1988, p. 115. 50 G. Alfano, Emblema, in ―Riga‖ n. 25, p. 340.

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GIULIA RUSCONI

LA SCLEROSI DI JAUFRÉ

GOFFREDO PARISE: UN POETA IN PROSA

Goffredo Parise entra negli anni Settanta con una pubblicazione a dir poco sorprendente: nel 1972,

in un‘Italia calda di violenze e prese di posizione politico-culturali, esce il Sillabario n.1(1). Libro

dimesso, quasi in punta di piedi, attorno al quale per apparente paradosso si scatenano dibattiti e

polemiche. Parise è accusato da alcuni intellettuali di non aver prestato fede a quell‘engagement a

cui si votavano altri, ricordiamo per tutte la voce di Pasolini. La difesa di Parise, lontana dal tono

chiassoso tanto quanto i testi del suo Sillabario, è una vera e propria dichiarazione di poetica. Ci

racconta di quando, tra il Sessantotto e il Settanta, in tempi «così politicizzati», si sentivano

nell‘aria parole ritenute ‗difficili‘, «per esempio Rivoluzionarizzare. Ecco, non esprime nulla». E

così:

Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un

bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l‘erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua

semplicità ma anche nella sua logica. C‘era la vita in quell‟erba è verde, l‘essenzialità della vita e anche della

poesia […] e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini pensai che essi avevano scordato che

l‟erba è verde, che i sentimenti dell‘uomo sono eterni e che le ideologie passano. Gli uomini d‘oggi secondo

me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. Ecco la ragione intima del sillabario.(2)

Parise innalza un ponte tra semplicità e poesia: sballottato nel caos delle polemiche e delle

nevrosi, di schieramenti e voci grosse, emerge un assoluto bisogno di parole semplici e di tornare a

guardare le cose, solamente le cose come sono nella loro evidenza, nella loro terrena verità: l‘erba è

verde è un concetto cristallino perché, dice Parise, semplice, spoglio, pulito e anche logico, non può

essere che così. La genesi dei Sillabari (del primo, ma anche del secondo che, ricordiamo, esce nel

1982(3)) va cercata proprio in questo bisogno di limpidezza e che sia sommessa e misurata, che sia

qualcosa che resti e non una moda esposta con violenza e subito perduta, che sia qualcosa che salti

subito all‘occhio per la sua evidenza poiché non potrebbe essere altro.

Perché questa sua necessità? E perché la espleta con una prosa così particolare e vaga che lui

stesso, nell‘Avvertenza al secondo Sillabario, chiama ‗poesia‘? «Sono poesie in prosa»(4), sentenzia

paratattico. Ma capire cosa intende per «poesia in prosa» ha incuriosito, e arrovella tuttora, non

pochi tra gli addetti al mestiere. Chiamando in causa la «poesia in prosa» Parise vuole forse rifarsi

alla tradizione francese del poème en prose? Il suo è un progetto che vuole collocarsi in o almeno

affiancarsi a una tradizione ben precisa e acquisirne i modi e le ‗regole di mestiere‘? Oppure con

‗poesia‘ intende qualcosa di personale e unico, una spinta, un afflato, un respiro lirico (generici,

diciamo un disegno senza bozzetto) che trasudano in modo impreciso, ineffabile, in-collocabile

dalle pagine delle sue piccole prose? Un suggerimento prezioso ce lo dà Andrea Zanzotto: la

produzione artistica di Parise appena precedente al Sillabario n.1, ovvero il romanzo Il padrone(5) e

la raccolta di racconti Il crematorio di Vienna(6), sono a suo parere due espressioni dell‘«esperienza

di annichilimento»(7) che l‘accorto e lucido Parise vede aprirsi nell‘Italia (e nell‘Europa) degli anni

Sessanta; entrambi percorrono a gran falcate il mondo contemporaneo costruito sulle fondamenta

del consumismo, delle regole d‘azienda, dei dettami capitalistici, di uomini robot che eseguono

ordini di capi-macchina, di uomini-nessuno che si annullano in oggetti e dinamiche sociali di massa.

Zanzotto si domanda cosa, dopo un tale ‗auto-ipnotizzarsi‘ su aspetti tanto feroci della vita e della

società, cosa ci sia ancora da dire o da fare per uno scrittore. E:

Si impone ora il vero grado zero della scrittura; cioè la necessità di fare piazza pulita e di smuovere lo sguardo

verso altre direzioni, verso altre ipotesi, anche se nessuna sembra più possibile. Si dovrà forse guardare

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indietro, allora. Ma ciò che sembra un guardare indietro, cioè, in apparenza, un ritorno al vecchio uomo col suo

mondo di sentimenti «massimi», non sarà comunque un guardare indietro, ma «altrove».(8)

Quello che rimane all‘uscita dal Crematorio sono «spore», «barlumi balbettanti di infanzie»,

«fili d‘erba» cresciuti sul crematorio stesso e da cui si deve ripartire. E queste spore bisogna

chiamarle in qualche modo, ri-nominarle, bisogna «creare parole per significati che sono

imprendibili-futuribili»(9). E intanto, dunque, ecco che si impara a sillabarle, proprio come i

bambini che scoprono la parola. Parise intende fare proprio questo: «vuol risillabare le parole-

chiave, e così giungere a un recupero dei sentimenti, quindi della ―poesia‖»(10); ci racconta di

Amore, di Bacio, di Famiglia, di Malinconia, di Solitudine e ce li racconta in obliquo, scartando il

solco profondo di una trama forte e preferendo zigzagare tra i ‗profumi‘ (più che tra i (f)atti)

d‘Amore, Bacio eccetera. Questi scarti fra i titoli e i contenuti (presenti in alcuni dei Sillabari) sono

sì respiri che aprono spazi di libertà evocativa e rappresentativa nel lettore, ma si rivelano anche

sintomo di labilità e arbitrarietà del rapporto fra significante, significato e referente, proprio in un

momento come questo in cui, come abbiamo visto, il bisogno primario è appunto quello di

rinominare le cose. E, ci dice Zanzotto, grazie a questa imprendibilità che scaturisce dai suoi scritti,

Parise ci regala la consapevolezza (emozionante davvero per chi coglie la magia della poesia, della

scrittura, della Letteratura) dell‘incanto che ogni parola si porta appresso: «Parise ci mette anche in

condizione di apprezzare il fenomeno dell‘aura che ogni parola, come tale, ogni significante, ha

intorno a sé; aura che svanisce con lo svanire della parola»(11). E il linguaggio che utilizza per far

emergere tale vaghezza/potenza è «bidimensionale», quello che abbiamo già definito essere il

‗grado zero‘ della lingua. Ma all‘interno di questa prosa dimessa, ecco che, suggerisce Zanzotto,

verrebbe voglia di segnare delle sbarrette per individuare «i versi latenti entro una ritmicità

serpentina e sfuggente», una tensione ritmica che quindi avvicina questa prosa alla «poesia vera e

propria, senza peraltro riesumare le stucchevolezze del ―poème en prose‖ o della ―bella

pagina‖».(12)

Tale immersione in questa che è una ‗idea di poesia‘ parrebbe quindi una Pandora che

scoperchia un vaso di indignati ferocemente stupiti da un linguaggio mesto e da tematiche smarcate

dai grandi dibattiti e dalle lotte politico-letterarie. Ma se guardiamo l‘intera Opera di Goffredo

Parise scopriamo che alcune vene più o meno nascoste hanno percorso tutto il suo corpus, dalle

origini con il primogenito Ragazzo morto e le comete(13), ma andando anche più indietro, dai

lontani Movimenti remoti(14), ripescato postumo e pubblicato solo di recente dalla casa editrice

Fandango. Il Ragazzo morto diviso in capitoli e sottocapitoli, in parti composte, incasellate le une

dentro le altre, come un puzzle, un rompicapo a cui è difficile assegnare un solo senso (impossibile

raccontarne la trama lineare, tanto che nelle traduzioni in altre lingue a volte si è preferito sistemare

i capitoli in un ordine differente da quello scelto dall‘autore, per facilitarne la comprensione)(15); la

prima prova, I movimenti remoti, formata anch‘essa da piccole o medie sezioni ‗oniriche‘ e prive di

una trama forte (e, da non dimenticare, i pezzi in versi, lunghi intermezzi e vere e proprie poesie-

brevi). Come già è stato rilevato da diversi critici e studiosi delle pagine parisiane,

sembra persistere, quasi, in tutta la produzione di Parise, una latente tensione per la forma breve, ovvero per

una struttura formale dilatata ma composta di sotto-strutture lineari e concise […]; tensione che, dal primo

romanzo del ‘51 fino ai ―Sillabari‖ e anche oltre, è assumibile a motivo conduttore e a tratto persistente di una

dimensione di scrittura altrimenti non catalogabile.(16)

E ancora si fa presente quanto, nelle ultime ma anche nelle prime prove di scrittura

dell‘autore vicentino, prevalga un approccio alle cose, un realismo, di tipo ‗sensoriale‘(17) in cui «il

dettaglio e il colore hanno sopravvento sulla registrazione oggettiva e ―veridica‖», un

«abbandonarsi lirico del proprio occhio»(18). E, nota bene Crotti, «questo aspetto, questo cogliere

le linee pure e nitide delle cose, si accosta, per Parise, alla poesia.»(19). Nei Sillabari questo

atteggiamento diventa evidente ed esplicito, come se questi, che da molti sono stati definiti il suo

capolavoro, fossero la stazione di arrivo in cui sono venute a convogliare tutte le tendenze più o

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meno latenti che Parise ha mantenuto sempre e in ogni forma scritta (ricordiamo che la sua opera

spazia ad ampio raggio: i racconti, i romanzi, i reportage, le poesie, il teatro e l‘esperienza

cinematografica, l‘elzeviro e la lettera privata)(20). Con i Sillabari Parise tira la corda, asseconda la

sua naturale propensione alla brevitas e la sua spontanea tensione sensoriale alle cose del mondo. Il

suo occhio allora diventa minimo, alla ricerca di dettagli sempre più piccoli, una vivisezione del

reale. E da qui, da questa «microscopia» e dalla ridotta dimensione dei suoi scritti (dimensione

dell‘elzeviro o appena più ampia), apre le porte al ‗tanto grande‘; anzi, più trivella in profondità più

apre terre da scavare, un frattale sempre in espansione, più piccolo e più vasto:

Il ―sillabare‖ […] diventa un‘operazione per eccellenza poetica, dal momento che coniuga l‘eccezionalmente

piccolo con l‘eccezionalmente grande e, mentre riduce, dilata ad oltranza la portata lirica delle cose.(21)

Di sicuro un aspetto principe dei Sillabari è appunto questo: la loro scrittura elementare e

senza voli pindarici né virate si mescola nella sua essenza profonda a un‘apertura vastissima: una

«sclerosi», come la chiama bene Perrella, un‘altalena balenante fra un infantilismo pietrificato e un

magma in continuo bollore. Non può non venire in mente la poesia, il verso in senso stretto, il quale

proprio dalla sua ossatura magra e stilizzata fa zampillare scintille rivolte altrove; come se, benché

senza nominare, la ‗cosa‘ rilucesse più chiara e più incisiva che mai e il non-dire diventasse cassa di

risonanza e rendesse l‘assente protagonista assoluto. Il vuoto acquista quindi nei Sillabari la sua

potenza massima, è un vuoto appunto poetico, necessario nella pagina per esaltare le presenze, è un

vuoto che diviene ‗più pieno dei pieni‘ e pesa più della parola scritta poiché apre all‘indefinito. Per

esempio, ecco come Zanzotto commenta il sillabario Simpatia(22), il terzultimo del volume

completo, che tira al massimo grado questa ‗indefinitezza che dice‘:

Parise, in quel suo racconto, lascia alla simpatia il massimo dell‘indefinibile, anzi, quasi tende a definirla

attraverso l‘indefinibile. Come si conviene al più originario, forse, di quelli che continuiamo a chiamare

sentimenti, Parise ne dà la più opportuna sillabazione, a-definizione.(23)

Questo evidente nostro ‗dire e non-dire‘ attorno ai Sillabari non è un fuggire della critica di

fronte a un testo-oggetto difficile da interpretare. Che lo scritto parisiano sia imprendibile è in parte

vero, ma tale vaghezza si rivela proprio il suo punto di forza. Procedendo lucifughi nei sotterranei di

un‘analisi stilistico-tematica di questi elzeviri così dibattuti, emergono le loro polimorfe bellezze e

non stupisce quindi se i più inusuali approcci siano forse i più indovinati: coincide con l‘uscita del

Sillabario n.1 una recensione speciale che Parise riceve da amico caro, Eugenio Montale. Questi

scrive per lui un ‗ritrattino‘ in versi e glielo dona («a Goffredo Parise»(24) si legge a mo‘ di

dedica). La poesia si intitola Jaufré, pseudonimo che il poeta ligure regala all‘amico Goffredo.

Jaufré passa le notti incapsulato

in una botte. Alla primalba s‘alza

un fischione e lo sbaglia. Poco dopo

c‘è troppa luce e lui si riaddormenta.

È l‘inutile impresa di chi tenta

di rinchiudere il tutto in qualche niente

che si rivela solo perché si sente.(25)

Questo omaggio all‘opera e alla persona di Parise è interessante innanzitutto perché ci

riporta a una passione che il nostro scrittore ha coltivato per anni: la caccia (a cui dedica anche una

voce del primo Sillabario, Caccia, appunto(26)). Soprattutto negli anni trascorsi a Salgareda, nella

sua famosa casetta rosa sul greto del fiume Piave (siamo negli anni Settanta e Ottanta, fino agli

impedimenti causati dalla malattia)(27), Goffredo si dedica a tutte quelle attività che non poteva,

prima, praticare in città: né a Venezia, città natale della sua Letteratura, né a Milano, per lui grigia e

insoddisfacente, né a Roma, per lui forse fin troppo mondana.(28) Cacciando, sciando,

passeggiando, cavalcando, osservando la natura e gli animali, Parise si avvicina al suo

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personalissimo sillabario, che traduce per noi in un libro (e poi, nell‘82, nel secondo volume).

Ovvero trasforma il suo nuovo stile di vita in uno stile di pensiero e attraverso questo modus

pensandi rivede il mondo, ri-nominandolo con un ABC fatto di attese nella botte, di nebbia d‘albe,

di discese solitarie in neve fresca, di upupe e lepri e fischioni. «I Sillabari, infatti, non maturano

così per caso, ma sono il risultato di un precisissimo sentimento della vita trasformato in esattissimo

stile di scrittura».(29) Dopo aver chiuso gli occhi sul crematorio della società contemporanea con

uno sguardo buio di vecchio, è così che torna alla vita: con questi nuovi ingredienti che partono da

occhi spalancati rasoterra, da oggetti minimi, da un mondo in miniatura (e solo abitando il ‗tanto

piccolo‘ trova il suo accessus, il suo ‗mood‘, come lo svelamento di un segreto: «Nella geopsiche di

Parise Salgarèda ha […] un posto d‘onore: è la sua polla misteriosa»(30)). La poesia di Montale

colpisce inoltre per l‘aspetto fanciullesco che fa emergere in Parise. Un omino piccolo

(«incapsulato») che sbaglia il primo tiro di fucile (distratto? inesperto? sfortunato?) e poi si

addormenta (stupidamente) rendendo l‘impresa, appunto, «inutile». Ed è curioso notare che in una

edizione precedente Montale non aveva scritto «l‘inutile impresa», bensì «la grata sorpresa». Qui, in

questa virata, è racchiusa forse la più bella recensione mai fatta ai Sillabari. Perché ci sia, appunto,

una sorpresa grata, l‘impresa deve essere inutile. E Perrella commenta così il prezioso ripensamento

montaliano:

Il fatto è che, provandosi a descrivere i Sillabari, si finisce prima o poi per corteggiare la figura retorica

dell‘ossimoro; li si trova, così, distrattamente precisi, nervosamente quieti, letterariamente antiletterari. Non

stupisce dunque se suscitino sentimenti contrastanti. […] Nella propensione all‘ossimoro dei Sillabari, come

ho detto, le due cose [le versioni di Montale] riescono ad andare d‘accordo.(31)

Anzi, aggiungerei, è proprio l‘ossimoro di Montale che rende vive le pagine dei Sillabari. È

proprio la loro ‗inutilità‘, la «sclerosi» già notata, che ce li fa cercare e fa sì che risuonino in noi

proprio come versi. Non solo nella loro ‗idea di vaghezza‘, ma anche e soprattutto nello stile. Per

esempio gli incipit: non si fa affatto fatica a trovarne di rassomiglianti a versi. Eccone qualcuno da

mandare subito a memoria: «Una domenica di giugno un cane di nome Bobi che aveva e non aveva

un padrone… […] Un giorno d‘estate una donna di cinquant‘anni con un bellissimo nome greco…

[…] Ogni giorno un vecchio di campagna usciva di casa con la falce e il carrettino… […] Un

giorno molto azzurro un uomo arrivò in una città di montagna nera di fumo… […] Un giorno, anni

fa, un uomo che non aveva mai nessuno che girava per casa conobbe una famiglia…».(32) Inizi così

rarefatti da apparire ingenui e infantili: c‘è tutta la vaghezza del ‗C‘era una volta‘, della fiaba

dunque, non ci sono (tranne in rari casi) determinazioni temporali o spaziali e, chi sa della vita di

Parise poco o nulla e non può così riconoscere nei Sillabari tanta autobiografia (perché egli dalla

sua vita attinge con avidità), si ritrova avvolto in una nuvola di sogno, in una scarica di lampi che,

dimessi come storielle per bimbi, raccontano situazioni e sentimenti generici e semplici, ma

risuonano nel lettore, magicamente!, come campanelli di memoria, memoria di infanzia, forse,

ancestrale, antichissima. Proprio come avviene in poesia quando una parola, gettata nella mente,

scatena onde sismiche a catena che coinvolgono ricordi, impressioni, significati, memoria, che

interessano la fantasia e il reale, che si trascinano dietro perimetri ampissimi. La poesia ha questo

potere esplosivo, comprensivo di così tanti effetti e l‘ossimoro parisiano lo assume vorace: la

leggerezza che fa di ogni pezzo una carezza per il nostro immaginario e il nostro sentimento è

solamente apparente, leggiamo i Sillabari sorvolandoli, ma all‘improvviso ci ritroviamo (magia

della parola!) schiantati nelle ‗cose‘. Anzi, proprio oltrepassando gli artifizi e le costruzioni di una

prosa forte, di una trama forte, si può finalmente farsi carico dell‘andare a fondo.

Si continua quindi a riflettere sui Sillabari ironicamente ‗balbettando‘ con loro,

raggiungendo definizioni che si sgretolano immediatamente, rovesciandosi nei contrari,

chiamandoli racconti sentendo il respiro poetico o poesie sedendosi nella bella pagina di prosa,

cadendo forse in contraddizione senza però smettere di scavare e di stupirsi. Berardinelli ci dice che

cercando di definire la poesia si cade ‗ontologicamente‘ in una tautologia: che cos‘è la poesia? «La

poesia è quello che è, la poesia è la poesia»(33). Poiché Parise poeta è stato (benché in prosa), ecco

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che anche i Sillabari assumono la magia tautologica berardinelliana da cui si fatica a uscire, come

da un sortilegio. Ed è proprio lui che, come ci ricorda un‘acuta pagina de «Il Gazzettino» uscita nel

chiasso giornalistico del 1972, ci lancia la suggestione più affilata, ammiccandoci da est:

«Infine è bella e basta» ha scritto Goffredo Parise in Cara Cina, di una frase sull‘amore da lui colta sul labbro

di una contadina ventiduenne del Kiangsu, e al lettore di Sillabario n.1 […] verrebbe voglia di imitarlo e di dar

per scontata e sottintesa ogni possibile discussione sul seducente libro con un perentorio e del resto

convintissimo «Infine è bello e basta».(34)

Giulia Rusconi

Note.

(1) G. Parise, Sillabario n.1, Torino, Einaudi, 1972.

(2) Parise intervistato in F. Sala, Sillabario dei sentimenti, «Il Gazzettino», 31 ottobre 1972.

(3) G. Parise, Sillabario n.2, Milano, Mondadori, 1982. Nello stesso anno il primo Sillabario è ristampato

con il secondo in un cofanetto della collana «Medusa» della Mondadori. Entrambi, con il titolo unitario

Sillabari, escono nel 1984 nella collana degli «Oscar» (Mondadori); da allora sono stati ristampati sempre

insieme, in un unico volume.

(4) Ivi, p. 8.

(5) Idem, Il padrone, Milano, Rizzoli, 1965.

(6) Idem, Il crematorio di Vienna, Torino, Feltrinelli, 1969.

(7) A. Zanzotto, Prefazione in G. Parise, Opere, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, vol. I, Milano,

Mondadori, 1987-89, p. XXIII.

(8) Ibid.

(9) Ivi, p. XXIV.

(10) I. Crotti, Tre voci sospette. Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, p. 161.

(11) A. Zanzotto, Prefazione, in G. Parise, Opere, vol. I, cit., p. XXV.

(12) Idem, in R. La Capria, S. Perrella (a cura di), I «Sillabari» di Goffredo Parise. Atti del convegno del 4-5

novembre 1992, Napoli, Guida editori, 1994, p. 91.

(13) Si tratta del primo romanzo di Parise, scritto a soli 19 anni, a Venezia. G. Parise, Il ragazzo morto e le

comete, Venezia, Neri Pozza, 1951.

(14) Idem, I movimenti remoti, Roma, Fandango, 2007. Questo giovanilissimo libro è stato da Parise infilato

in un cassetto e mai più ritrovato/ri-cercato. Si tratta di una sorta di ‗prosimetro‘: alcuni capitoli sono in

prosa, sono racconto, altri sono in versi e fanno da ‗intermezzi‘ alla narrazione.

(15) La scoperta da parte di Zanzotto del Ragazzo morto è così descritta da Crotti: «Ci troviamo dinanzi,

insomma, a un impatto intimamente connesso al ‗sentire‘»; I. Crotti, Epifanie dei paesaggi critici di

Zanzotto: il profilo di Goffredo Parise, in Andrea Zanzotto. Tra Soligo e la laguna di Venezia, Firenze,

Olschki 2008, p. 171. Sono gli atti delle giornate di studio dedicate ad Andrea Zanzotto; Pieve di Soligo -

Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 13,14 ottobre 2006.

(16) Idem, Tre voci sospette, cit., p. 153. Corsivo mio.

(17) Scrive bene Perrella: gli occhi di Parise «si trasformeranno, quando sarà necessario, in occhi olfattivi, in

occhi tattili, in occhi pronti e sempre affamati di conoscenza umana», S. Perrella, Fino a Salgareda. La

scrittura nomade di Goffredo Parise. Milano, Rizzoli, 2003, p. 75. Anche La Capria dice di Parise: «I suoi

sensi per scoprire erano la vista e l‘olfatto. Perrella parla di ‗uso critico dei sensi‘. Goffredo aveva un naso

molto sviluppato e una vista ‗prensile‘. Naso e occhio erano strumenti per captare diverse cose che agli altri

sfuggivano». La citazione è tratta dalla relazione tenuta al Convegno dal titolo Sono nato a Venezia, Venezia

- Ponte di Piave (TV), 12-15 ottobre 2006. Appunti miei. Non sono ancora stati redatti gli atti di tale

Convegno.

(18) I. Crotti, Tre voci sospette, cit., p. 156.

(19) Ivi, p. 161.

(20) «Il poeta- puer che, all‘altezza dei primi anni Cinquanta tendeva a leggere nelle cose una dimensione

autre, segnata da uno sguardo espressionisticamente interiore, ora ha trovato una misura di candore e stupore

che decanta quella stessa materia.». E ancora: «Il ―ritrattino‖, ad esempio, come schizzo tracciato per mezzo

di poche linee narrative, ma rimandante a una micro-storia, completa nel proprio significato, è un mezzo

compositivo che percorre assiduamente la produzione parisiana, per confluire poi in quella tensione al

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―sillabato‖ che si è rilevata[…]: anch‘esso, allora, rientrerebbe in una più generale propensione per il

dettaglio, per lo scorcio minuto che, allontanandosi da una descrittività di tipo naturalista, percepisce la

totalità tramite piccoli tocchi parziali ed aspira all‘allusività e al silenzio». Ivi, pp.162, 165.

(21) Ivi, pp. 163, 164.

(22) La voce Simpatia si trova alle pp. 257-264 del Sillabario n.2, cit.

(23) A. Zanzotto, Prefazione in G. PARISE, Opere, vol.I, cit., p. XXII. Corsivo mio.

(24) E. Montale, Diario del ‟71 e del ‟72, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984, p. 480.

(25) Ibid.

(26) La voce Caccia si trova alle pp. 93-98 dell‘edizione del Sillabario n.1, cit.

(27) Qualche notizia sulla casa: Parise la scopre, restaura (e arreda con «essenzialità monastica») nel 1970,

entrandovi in dicembre. Il 10 gennaio dell‘anno successivo (1971) esce sul «Corriere della Sera» la prima

voce del Sillabario n.1, Amore. Parise abbandona (a malincuore) la casa nell‘ottobre del 1981, dopo

l‘operazione che gli applica quattro by-pass coronarici e le complicazioni renali che incalzano sempre più; e

dopo l‘abbondante allagamento del Piave che sommerge l‘abitazione (in ottobre, appunto). Parise è dunque

costretto ad abbandonare il suo «rudere» e a trasferirsi in una zona più salubre e comoda, nella vicina Ponte

di Piave (Tv). Si può leggere la storia della casetta rosa in C. Rorato, La casa di Goffredo Parise a

Salgareda, Bologna, Minerva edizioni, 2006.

(28) «Si può ben dire che la vita e l‘opera di Parise, che lui volle intrecciare indissolubilmente, giungano fino

a Salgarèda, e che lì si compia la sua ultima nascita artistica, chiudendo così il cerchio aperto nella Venezia

della fine degli anni Quaranta», S. Perrella, Fino a Salgarèda, La scrittura nomade di Goffredo Parise,

Milano, Rizzoli, 2003, p. 128.

(29) Ivi, p. 129.

(30) Ibid.

(31) Idem, I «Sillabari» di Goffredo Parise, cit., pp. 7,8.

(32) Sono gli incipit delle voci Anima (p. 36), Bacio (p. 76), Bellezza (p. 76), Cuore (p. 115) e Famiglia (p.

163), voci tratte dal Sillabario n.1, cit.

(33) A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 12. E appena oltre:

«Questo vicolo cieco indica almeno una cosa interessante: che quando abbiamo a che fare con una poesia che

sia poesia, questo riconoscimento è una constatazione empirica che non può essere giustificata o argomentata

concettualmente», ibid.

(34) M. Abbate, Sillabario dei sentimenti, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 12 novembre 1972 [rist., con

titolo I sortilegi di Parise, «Il Gazzettino», 6 dicembre 1972].

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VICTORIA SURLIUGA

DEL RAPPORTO TRA POESIA E PROSA IN GIAMPIERO NERI

È quanto mai indispensabile parlare delle commistioni tra prosa e poesia in un momento della storia

letteraria in cui il progressivo allontanamento da metrica e lirica, che data ormai da più di un secolo,

ha portato la poesia sempre più vicina al territorio del dettato prosastico. La poesia contemporanea

canta gli oggetti e le cose del quotidiano con una sobrietà di linguaggio dove il ritmo è dato più

dalla parsimonia verbale che dalle cadenze della metrica. Qui mi vorrei riferire in modo particolare

a Giampiero Neri, autore di un memorabile e sorvegliatissimo canzoniere, confluito nel volume

Teatro naturale (1998), e particolarmente interessante proprio per l‘incrociarsi continuo di prosa e

poesia, testimoniato dalla sua scrittura. A questo riguardo, alcuni critici hanno riflettuto su quale

forma, se prosa o poesia, sia più prominente in lui. La questione dei generi letterari è accesa e si

cerca quasi sempre di farne prevalere uno sull'altro. Però, a mio parere, spesso si tratta di una

distinzione che serve solo a riassicurare i critici in cerca di categorie già prefissate alle quali

ancorare il loro pensiero.

Di Neri inquieta il fatto che non parli quasi mai di sé (l‘io lirico è assente dalla sua scrittura)

e che gli argomenti da lui affrontati non siano tipici di quello che si intende per scrittura poetica (descrizioni zoologico-naturalistiche rivestono un ruolo importante nella sua produzione), ma

sconcerta soprattutto la sua capacità di trasformare ogni aspetto della scrittura in poetico. Neri ha

una singolare abilità di rendere in poesia quello che comunemente si farebbe rientrare nei canoni

della prosa. Ad esempio, l'epigramma incluso in Sequenza, che è parte del volume Erbario con

figure (2000) è una citazione da Il giocatore invisibile del narratore Giuseppe Pontiggia: ―Prese i tre

libri e cautamente, attento a non incespicare lungo la scala ripida, scese a pianterreno‖(1). È stato

Sossio Giametta a notare come Neri utilizzi questa citazione in prosa in modo da farla diventare

poesia.(2) Ma qual è l‘alchimia che permetterebbe a Neri di trasformare una cosa nell‘altra?

Applicando il discorso della distinzione tra i generi ad altre forme d'arte, Neri risulta ancora più

pregnante nel riportare quanto diceva Victor Sklowskj, ovvero che si può fare poesia anche

attraverso la prosa.

A questo proposito si veda la poesia Procedimenti (dedicata a Fernando Picenni), in Liceo

(1986), la seconda raccolta di Neri poi confluita in Teatro naturale: ―Si ricava una pasta di vetro

molle e densa che per il variare della luce prende diverso colore, blu e oro. Formata da molti

frammenti di terra e conchiglie, oggetti fuori uso, che si mescolano insieme come sabbia. Alla fine

rivela una luce propria, che attraversa una vasta ombra”.(3) Al lettore che si chiede perché questa

sia una poesia, si può rispondere dicendo che lo è in quanto il testo risulta formalmente compiuto e

autosufficiente. È vero che per comprendere i particolari procedimenti compositivi su cui si basa la

poesia di Neri non è consigliabile isolarne dei testi. La complessità del disegno, in Neri, si coglie

solo sul lungo periodo. Ma nel frammento appena citato si coglie che il discorso si ―ferma‖ là dove

la prosa potrebbe proseguire. Nulla potrebbe essere aggiunto o tolto a quello che Neri ha deciso di

comunicare.

Risulta anche importante il giudizio su Neri espresso da Luciano Anceschi, che evidenzia

come Neri porti avanti ―il discorso delle forme dall'interno della stessa frantumazione organizzata in

cui esse si trovano, ora”.(4) Si possono anche citare le parole di Giovanni Raboni, che nello stile di

Neri ha osservato ―un lavoro minuzioso e testardo sulla frase trattata come unità metrica, come

nucleo espressivo la cui evidente specificità e autonomia supera sia la tradizionale funzione

assertiva dell'unità verso, sia la tradizionale funzione trasgressiva dell'enjambement e annulla,

assorbendolo, lo spessore irraggiante della parola singola”.(5) Sullo stesso tema si è soffermato

anche Giovanni Giudici: ―Poesie? Poemi in prosa? L'opera di Neri si sottrae a queste distinzioni del

tutto esterne”.(6) Infine, Daniela Marcheschi ha commentato che ―Neri ha vinto infatti l'antinomia

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di poesia e prosa, che a lungo ha alimentato una sterile contrapposizione nella critica e nella poesia

stessa; e la sua opera, limpida ed enigmatica insieme, risalta per la vigorosa sovrapposizione dei due

pretesi generi e per la continua apertura alla ricchezza delle tradizioni letterarie”.(7)

La scrittura di Neri ha tutti i respiri della poesia ma non è un sospiro in versi, cioè non è un

genere di poesia lirica che rielabora gli eventi e i lamenti del vissuto. La sua ricerca di oggettività

tende piuttosto a dissimulare l'io in personaggi di animali e piante. Nella poesia di Neri c'è uno

sviluppo di situazioni che creano sempre, anche se in forme eterodosse, una narrazione. Si può

parlare di microracconti e micropersonaggi che affollano le sue pagine, e dell‘alternarsi di momenti

più rientranti nei canoni della poesia e di altri più appartenenti alla narrativa. Eppure una narrazione

c‘è sempre, e si avvale di personaggi specifici. Neri alterna sequenze etologiche, dove si discute ad

esempio di animali come l‘asino o il gufo, insieme ad altre dedicate con la stessa puntigliosità a

varie piante, ad altre ancora dove emerge in primo piano la vicenda personale di un reduce (in

Finale, 2002), che torna al suo paese natale dopo la guerra.

Ogni testo di Neri è un discorso compiuto in sé ed è allo stesso tempo emblematico di uno

stile. E, proprio di questo stile, Remo Pagnanelli aveva parlato di ―risparmio energetico‖, di

―energia trattenuta‖, ―perimetrazione degli impulsi‖, ma anche di ―riposo del desiderio‖, il che

spiegherebbe anche la sua scarna produzione.(8) La lievità del linguaggio poetico di Neri ci porta al

di là delle tradizionali distinzioni tra i generi. Le sue poesie sono di una linearità esemplare, dove la

semplicità è il risultato di un attento studio, di un levigare continuo dell'eccessivo e di tutto ciò che

potrebbe rendere il verso meno leggero. Perché comunque è sempre di ―versi‖ che si parla. Neri ha

incorporato la prosa nella poesia senza che la poesia abbia dovuto cedere niente della sua specificità

alla prosa.

Victoria Surliuga

Note.

(1) Giampiero Neri, Erbario con figure, Como, Lietocollelibri, 2000, p. 9.

(2) Sossio Giametta, Neri e il temperamento del caos, ―Il Giornale‖, 11.11.2000.

(3) Giampiero Neri, Teatro naturale, Milano, Mondadori, 1998, p. 64.

(4) Luciano Anceschi, Intervento, ―Il verri‖, n. 32, 1970, p. 4.

(5) Giovanni Raboni, ―Almanacco dello specchio‖, n. 1, 1972, p. 273.

(6) Giovanni Giudici, Neri: poesia in forma di gufo, civetta, volpe, ―Corriere della sera‖, 25.05.98, p. 25.

(7) Daniela Marcheschi, La natura e la storia. Quattro scritti per Giampiero Neri, Firenze, Le Lettere, 2002,

quarta di copertina.

(8) Remo Pagnanelli, ―Le geometrie di Neri‖. In: Studi critici. A cura di Daniela Marcheschi. Milano,

Mursia, 1991, pp. 131-2.

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LUIGI BALLERINI

“PROSIMETRO” PER LA BALLATA DI RUDI DI ELIO PAGLIARANI: DAL VERSO “A

FISARMONICA SPALANCATA” ALLA “PROSA IN PROSA” CON SBERLEFFO.

Mettersi a dire qualcosa sulla Ballata di Rudi di Elio Pagliarani, senza tirare in ballo, almeno

inzialmente, la sua Ragazza Carla, è impresa forse non disperata, ma sicuramente sconsigliabile. E

questo per almeno due ragioni intimamente legate tra di loro: la prima è che le parti iniziali del

poemetto seriore, e parecchie anche di quelle centrali, assomigliano, per ritmo e misura, a certi

brani di quello anteriore; la seconda è che la sezione finale della Ballata di Rudi non assomiglia per

niente alla sezione conclusiva della Ragazza Carla.

La somiglianza, e non ancora, dunque, l‘affinità, si potrebbe cercare di spiegarla, mettendo

in risalto il brevissimo intervallo che separa la composizione di Carla (anni ‘50) dalle prime

coagulazioni di Rudi (inizio anni ‘60), e invocando così una volontà di persistenza stilistica, e forse

addirittura la presenza di una forza d‘inerzia; mentre invece all‘infinita distanza che separa le parti

conclusive dei due poemetti (ancora anni ‘50 per il primo, uscito per intero nel 1960, e tardi anni

‘70, ‘80 e anche primi ‗90, per il secondo, pubblicato nella sua definizione attuale solo nel 1995), si potrebbe ricorrere per spiegare tanto l‘esaurirsi della relativa sicurezza offerta da un abbrivio dotato

di un robusto spessore di riconoscibilità, quanto la necessità di rinvenire, da un lato, le coordinate di

una proposta inedita, cioè capace di scalfire, di agitare, di ―commuovere‖ vuoi nuovi lettori, vuoi ,

nuovamente, lettori antichi, e dall‘altro lato di collegarsi a fonti di energia espressiva idonee o

comunque sufficienti a convincere l‘autore, prima di tutti, della bontà della nuova operazione.

Ma quella della distanza temporale non è una vera spiegazione. È piuttosto, essa stessa, la

manifestazione di una circostanza sintomatica, del perdurare di un‘insoddisfazione: perché dunque

Rudi, in sostanza, ha dovuto attendere così a lungo per trovare la propria foce, la propria spinta a

confluire in altro? Cos‘ha potuto garantire che tale confluenza non comportasse, automaticamente,

la sua stessa dispersione, uno sconfinamento con cessione di connotati?

A tacere d‘altro si noterà che per ―distanziarsi‖ da Carla, Rudi ha dovuto attendere non solo

la Lezione di fisica, uscita nella sua interezza nel ‘68, quando la Ballata non era più matura di

quanto possa esserlo un progetto in fase di elaborazione, ma anche, ben diciassette anni dopo la

Lezione, gli Esercizi platonici, publicati con il corredo di una Nota in cui l‘autore confessa di non

aver ―fatto [altro] che trascrivere e scandire il linguaggio colloquiale di Platone (del Filebo

soprattutto, ma anche delle Lettere e nell‘apertura finale del Convito, come è trasparente), quale è

stato reso in lingua italiana nella ‗versione e interpretazione‘ di Enrico Turolla, quel patito di

classe‖.(1)

Ora questa Nota è di primaria importanza perché, oltre che a fornirci la fonte della

trascrizione – ma questo del trascrivere è un ―vizio‖ di antica data, in Pagliarani, che ne ha dato

esempi in ―Vicende dell‘oro‖(2) e perfino nel primissimo Cronache ed altre poesie dove ha trovato

accoglienza il testo di ―Trascrizione (da Luciano Amodio)‖(3) –, l‘autore segnala l‘avvento, nel suo

lavoro, di quel tipo di sussulto che Stephane Mallarmé avrebbe chiamato una ―Crise de vers‖, e cioè

di un malessere avvertito nei riguardi dello strumento stesso, creato, ―filosoficamente‖ per

compensarci del ―difetto delle lingue‖(4), e che già, per altro, nella Ragazza Carla, e soprattutto in

Lezione di Fisica, ma, per gran parte, anche della Ballata di Rudi, era stato strappato ai rigori dei

metri canonici, e modellato come strumento sui generis, figlio più di un respiro che di una

cesellante acquiescenza. Scrive dunque Pagliarani: ―Prigioniero, almeno in parte, come avevo

incominciato a sentirmi, del mio verso lungo, sempre più lungo della fisarmonica spalancata – ho

voluto cercare di riacquistare facoltà di articolazione più variegata (Mi riferisco, per esempio, al

pedale sommesso dell‘Inventario privato)‖.

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La situazione è allora la seguente: la forma del verso a tutta pagina e tale, anzi, da

sconfiggere qualunque giustezza tipografica (al punto da costringere gli editori a darne impressioni

orizzontali, cioè disposte secondo il lato lungo della pagina(5)), forma alla quale Pagliarani è stato a

lungo sposato, felicemente e fedelmente, e che già era il risultato di una scelta antagonista, una

risposta al letargo metricologico dei poeti della Linea lombarda e dell‘ermetismo pre- e post-bellico,

viene percepita come una specie di impedimento all‘―articolazione più variegata‖ che sarebbe stata

quella tipica delle sue prime prove poetiche, cui adesso il poeta pensa con una certa nostalgia, e

sogna di farvi ritorno o, quanto meno, di rivisitarne le istigazioni.

Si noti tra l‘altro che il verso a ―fisarmonica spalancata‖ di Pagliarani non ha nulla a che fare

con il verso sgangherato, nevrastenico, esagitato, spudoratamente sciatto di chi passa la vita in treno

(in un perenne andirivieni), come fu il caso di Antonio Delfini, ma è semmai vicino, e però con

maggiore forza accentuativa, a quello del primo Emilio Villa, l‘autore di Oramai, che è del 1947,

anche se ignoto, allora come oggi, alla stragrande maggioranza dei lettori di poesia.

Il verso sgorgante e mulinante di Pagliarani ha le sue molteplici radici nella nenia, nella

filastrocca, nella fabulazione popolare, nella recita ingenua (in famiglia, o dei guitti in teatri

improvvisati), nella lettura collettiva del giornale, nel comizio all‘angolo della strada, o della

discussione scalmanata a opera di sfaccendati riuniti in roccolo.

Il poeta ha fatto dunque tesoro della circostanza per cui, come aveva intuito Ungaretti,

l‘italiano, inteso come lingua, ha l‘endecasillabo nel sangue: te lo ritrovi, distribuito

involontariamente nel parlare di chiunque e, volontariamente, nelle prose di Guittone d‘Arezzo(6),

non meno che in quelle di Alessandro Manzoni. Ma ha soprattutto approfittato della possibilità: che

la prosa scandita, tagliata in un certo modo, secondo, appunto, un certo respiro, sappia produrre

effetti ritmici che stravolgono, con profitto, quelli già prodotti dall‘insofferenza che l‘unità metrica

da sempre manifesta nei riguardi delle unità semantiche preconfezionate, insofferenza che, lungo

tutto l‘arco della tradizione epica e lirica di casa nostra, ha esaltato il ricorso all‘enjambement

(celebre in questo senso il caso di uno dei più coatti tra gli endecasillabisti: Ugo Foscolo).

In buona sostanza, Elio Pagliarani ha trasformato la prosa in poesia servendosi di una

punteggiatura ritmica, anziché di una punteggiatura funzionale al chiarimento dei concetti. La sua

lettura tende al canto, non quello del Corano sotto la tenda dei beduini, cui pensava con disperato

languore il primo Ungaretti, ma a quello forte, a volte stridente e a volte cullante, auspicato da

Trotzckij quando, in Letteratura e rivoluzione invitava i poeti russi e i compagni di strada a

tralasciare il salotto e a scendere in piazza. È la scansione necessaria a versi scritti per essere letti a

voce alta, come pare che facessero quasi tutti fino a Sant‘Ambrogio(7), che dirige, in Pagliarani, il

senso del discorso.

Se non che, nel 1985, appunto, questa lunga corsa sembra volersi ―rompere‖, come si dice

dei cavalli che perdono il passo poco prima di un ennesimo traguardo, e spunta fuori quella

nostalgia, si è detto, che sembra intenzionata a mettere sullo stesso piano la nozione di ―pedale

sommesso‖ e di ―articolazione più variegata‖. Ma a guardar bene il testo degli Esercizi, il ―pedale

più sommesso‖ lo si riconosce immediatamente, e anche l‘articolazione, ma ci sarebbe da sudare

sette camicie per poter dimostrare che la gestione degli effetti di senso sia qui più articolata che

nella Lezione di Fisica o nella ―presente e futura‖ Ballata di Rudi.

Gli Esercizi, per carità, sono un‘esperienza poetica di primaria importanza, sia tecnica sia

concettuale, e andranno sicuramente goduti criticamente, ben al di là del pur encomiabile lavoro di

chi ne ha rintracciato i luoghi platonici da cui hanno felicemente preso le mosse. Restiamo dunque

al ―pedale sommesso‖ la cui novità avrà dopo Rudi, sviluppi sostanziali nel libro degli Epigrammi

(2001), e che ha, per intanto, il merito di aver ―persuaso‖ La ballata a darsi una conclusione che la

storna drammaticamente, in quanto testimonianza di verità storica, dagli esiti de La ragazza Carla.

Rudi, infatti, che è già quasi tutto pronto coi suoi lunghi, lunghissimi versi a fisarmonica,

non trova modo, per anni, di uscire tutto insieme allo scoperto e quando lo farà sarà tutto a

fisarmonica tranne che non lo sarà nel finale, perché il finale Pagliarani l‘ha deciso, o vi si è arreso,

dopo che gli Esercizi avevano provocato la loro bella e utile incrinatura. Ed è mettendo uno accanto

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all‘altro il finale di Carla e quello di Rudi che se ne vede l‘enorme distanza e il diverso messaggio

insito nella presa di coscienza delle loro strutture formali.

Carla si conclude, come in una foce a estuario, con lo straordinario ed enfatico congedo di

sapore cavalcantiano: ―Quanto di morte noi circonda e quanto‖, pronunziato da un coreuta del

ventesimo secolo, impegnato nel difficile e tuttavia irrinunciabile compito di godere della propria

pulsione di morte (nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus). Rudi, che perfino nel

titolo reca l‘indicazione di un genere (letterario e metrico: la ballata di) aperto all‘esuberanza e alla

salmodia, si spegne invece, dopo le ultime impennate (di cui una perfino in rimata baciata), in un

commiato attonito e frammentario, in uno smarrimento, in una deiezione. Parla in questo avamposto

finale, non un destino che si consuma, ma un destino consumato.

Mi riferisco alla sezione XXV, che in realtà è la terzultima e che è divisa in sottosezioni,

minimamente legate fra di loro, cioè legate solo perché, nell‘insieme ―fanno atmosfera‖. A botta

calda direi che forse anche la penultima, la XXVI, già pubblicata autonomamente con il titolo di

―Rap dell‘anoressia o bulimia che sia‖, avrebbe potuto scegliersi anch‘essa come lacerto conclusivo

della sezione precedente, la quale ultima denuncia, già per il modo in cui si chiama, un prestito

intertestuale. Si intitola infatti ―Dalla ‗Bella addormentata‘‖ e rimanda a La bella addormentata nel

bosco, un testo teatrale dello stesso Pagliarani, pubblicato a Milano, presso Corpo 10, nel 1987.

Ci sarebbe in realtà anche una sezione XXVIII, di poche righe, dopo la quale non ce n‘è

altre, per cui le spetta il titolo di ultima per davvero, ma io non so bene come prenderla, non tanto

perché si tratta di un dichiarato richiamo, e rimaneggiamento, dell‘ultimo verso della sezione IX

(―A tratta si tirano‖) dove si legge: ―E invece ha senso pensare che s‘appassisca il mare‖, (mentre

qui, adesso, si legge: ―Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che

s‘appassisca il mare‖), quanto perché non mi sembra attingere quel livello di laconica effusione, cui

(probabilmente) aspirava, e soprattutto perché interferisce con quella sublazione dal ritmo cui

Pagliarani era giunto dopo anni di ritmi impetuosi.

E allora: la foce di Rudi non è un estuario, è un delta. È una foce sparpagliata e poco importa

se ciascun braccio di scorrimento delle acque si ritiene, preso a sé, un estuario. La differenza è

sostanziale ed è comprovata dal cosiddetto regime delle acque, ricco e impetuoso nel caso dello

sbocco unico di Carla, tortuoso e rallentato nel caso dello sbocco molteplice di Rudi: instabile,

pronto tanto a insabbiarsi quanto a modificare la direzione del proprio defluire.

Ora se l‘estuario di Carla è tutto scandito in perfetti endecasillabi, quello di Rudi suona

invece come prosa, una prosa che non cerca di darsi un tono (un ritmo), ma che pensa solo a

presentarsi per quella che è, una quantità di suono con carica semantica azzerata dall‘uso, parente

stretta del linguaggio di cronisti e gazzettieri. Per farsi accogliere e ascoltare deve ricorrere

anch‘essa alla presunta ―enormità‖ dei referenti cui ammicca, e farci affidamento. Neppure la

prossimità caotica in cui circolano i contenuti delle sue lasse (di strofe non è nemmeno il caso di

parlare) veicolate da singhiozzanti paratassi può dirsi sua caratteristica qualificante. Qualunque

pagina di giornale (secondo quel che aveva preconizzato Marinetti) soddisfa questa condizione:

accanto una notizia sui massacri nel Darfur, troviamo l‘ultima bischerata sui litigi tra Bossi e

Berlusconi, o un pezzo sul trionfo della moda italiana a Bogotà. Si dirà mancano le paratie dei titoli.

E neppure questo è vero:

Quel buco nero del calcio. Moltiplicando quest‘odio per i grandi numeri e gli inconfessati

umori di massa facile vedere che la sua enorme potenza distruttiva

esiste a prescindere dallo sport: L‘unico punto di contatto è la fortuita

coincidenza di luogo: lo stadio che secondo molti sociologi serve proprio….

Ci si sforzi, in interiore viscerum, di provare un frisson ulteriore leggendo lo stesso enunciato

disposto in colonna:

QUEL BUCO NERO DEL CALCIO

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Moltiplicando quest‘odio per i grandi numeri e gli inconfessati umori di

massa facile vedere che la sua

enorme potenza distruttiva esiste a prescindere dallo

sport: L‘unico punto di contatto è la fortuita coinci-

denza di luogo: lo stadio che secondo molti sociologi

serve proprio…

Qui l‘unica differenza è la collocazione, il fatto cioè che una simile prosa si trovi non dove

ci aspetteremmo di trovarla, ma nella pagina conclusiva di una sequela di testi ritmati che neppure

con tutta la buona volontà di questo mondo ci saremmo sognati di dovere o poter collegare a questa

riflessione sociologica.

Lo stesso vale per gli altri brani della zona terminale: ―Tutta oro e pizzi barocchi la signora

dell‘alta moda‖, ―Un computer come giudice‖ e ―Nel 1953‖, affetti da sindrome giornalistica

(quando non addirittura ―titolistica‖), e introdotti, oltretutto, da un impagabile ―Frattanto‖, che fa di

Rudi, alla fine di una lunga galoppata in cerca di appartenenza, un addormentato nel bosco, un

personaggio escluso.

Mentre cercava di definirsi come io, irrisolto sì, ma separato dalla materia della sua

esperienza, il mondo gli è stato tolto da sotto i piedi: gli sono venuti meno perfino i più elementari

parametri della curiosità. Con Rudi siamo passati dal Che vuoi? di Mefistofele al Che c‟entra? degli

accidiosi. Ma l‘accidia non nasce dal caso, ma da condizioni precise, come la peste. Non è dunque il

coraggio che uno non si può dare, ma la voglia di rimettersi a circolare nel soggetto della propria

ricerca esistenziale. E questa assenza di voglia vuol dire essere già non più ―prossimi alla morte‖, e

cioè, come nel caso di Carla, attivamente coinvolti in quella provocazione a distanza ravvicinata che

permette di ―mutarla in vita‖ (fin tanto che la distanza materialmente finale non si sarà del tutto

bruciata). No, questa assenza è indice di un vedersi già dall‘altra parte, dove tutto sbianca indistinto

e ―non ci sono colori‖, e non, questa volta, a causa della luce che ―quando è intensa uguaglia / la

propria assenza‖, ma semplicemente perché mettersi a dire in un tempo trapassato risulta essere se

non l‘unico, certo un raro ed efficace modo di ―continuare a esserci‖ e, soprattutto perché solo in

questa ―sospensione generalizzata della referenza‖ che tale prospettiva comporta, può ancora godere

del privilegio di destabilizzare i codici e produrre titoli di appartenenza non coatta al mondo dell‘al

di qua.

In queste ultime frasi ho razzolato sin verguenza tra alcuni spunti raccolti da Paolo

Giovannetti nella sua introduzione a Prosa in Prosa, antologia di sei neoteroi(8) che su questo

strumento espressivo, hanno fatto un‘importante scommessa. Era solo giusto chiedersi quanto il

finale di Rudi potesse iscriversi, ante litteram, in questo nuovo rischio che l‘espressione poetica sta

lucidamente correndo, adesso, con ardore giovanile. Mi sembra una legittima tentazione, anzi una

questione che dirimerei assegnando al finale di Rudi una funzione che sorpassa di gran lunga quella

del mero avvertimento o della sprezzatura.

Se Rudi ―scantona‖, inaspettatamente, in un‘improvvisa e conturbante lentezza, in un calo di

pressione, ovverossia in una distensione sapientemente calcolata, in che cosa consiste il suo

acquisto di coscienza? Quale dialogo o archivio, quale farmaco e quale differenza può risultare dal

popoloso silenzio che nella sua ultima pagina subentra al martellante strepitio di una diegesi

incrinata? Si può dire che è un po‘ come chi s‘abitua a mangiare senza sale … che dopo un po‘ il

sale lo sente in un grano di riso, in un gambo di sedano, e s‘accorge che ogni salinità ha un gusto

diverso, a seconda di dove s‘annida?

Del resto non è dimenticabile, ancora, quel che scriveva Mallarmé a proposito dei nuovi

accorgimenti metrici subentrati, e dai e dai, all‘alessandino dominante, e cioè che ―la reminiscenza

del verso rigoroso fiancheggia queste tecniche e conferisce loro un profitto‖. Mi sembra che questo

fiancheggiamento della prosa al suo verso a fisarmonica (spalancata o dimessa) e del profitto che

gliene può derivare, Pagliarani non solo l‘abbia ben presente, ma lo pratichi addirittura. È possibile

praticare un fiancheggiamento? Io dico che si può, in un mondo di frontiere attraversate in cui per

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acquisire funzione di avvertimento e possibilità di significazione, nonché per togliersi dagli impicci

di dover opporre a opere aperte, opere socchiuse, le cose è meglio dirle due volte:

Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,

questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,

bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tem Ach so

Se il seme possa o no adire artificialmente la vagina,

questo come e quando lo decide il cardinal Ratzinger,

bisogna chiederlo a lui – e poi siamo fuori tem Ach so(9)

Luigi Ballerini

Note.

(1) Vedila ora in Tutte le poesie (d‘ora innanzi TP) Milano, Garzanti, 2006, p. 256.

(2) Apparsa in prima battuta nella ―Piccola antologia sperimentale‖ di P.P. Pasolini. Vedi Officina, nn. 9-10,

giugno 1957, pp. 347-58

(3) TP, p. 81.

(4) Vedine il testo in Opere di Stephane Mallarmé, poemi in prosa e opera critica, a cura di Francesco Piselli,

Milano, Lerici, 1963, pp. 247-258.

(5) La qualcosa comporta, tra l‘altro, che si sfogli il libro in un modo innaturale, o, anzi, naturalissimo, se

invece che un libro con la sua brava costa si trattasse di un volumen di una pergamena arrotolata.

(6) Mi piace ricordare in proposito quanto scrive Cesare Segre nel suo saggio La sintassi del periodo nei

primi prosatori italiani (Guittone, Brunetto, Dante): ―Alla passione per i mezzi retorici s‘aggiunge in

Guittone, come nuovo fattore di dispersione sintattica, l‘introduzione nella prosa, con scopi evidentemente,

tutt‘altro che logici, di forme linguistiche proprie della poesia e in particolare del ritmo. […] Le lettere

risentono di questo influsso del linguaggio poetico, ma soprattutto delle esigenze a cui questo influsso

risponde, nella loro struttura logica e sintattica‖. E ancora: ―Le Lettere riboccano di vocaboli, di espressioni e

di costruzioni caratteristiche della poesia, a tal punto che brani delle poesie inseriti nella Lettere (XIII,

XXVII etc.) non fanno alcuno spicco nel loro tessuto ritmico e sintattico. Non si tratta dunque soltanto della

forma metrica o ritmica di cui sono rivestite parti delle lettere, e anche lettere intere […] L‘origine del

fenomeno è certo da riportare alla sempre maggior confusione che gli scrittori medievali fecero tra prosa e

poesia: a forza di arricchire la prosa, oltre che di tutte le forme di ornato, del ritmo e della rima, ‗i limiti tra

poesia e prosa vennero progressivamente cancellati‘ (E.R. Curtius, Europaische Literatur und Lateinisches

Mittelalter, Bern, 1948, p. 155). E Guittone, tutto pieno (e certo fiero) della sua raffinata abilità d‘artefice, di

essa fece uguale sfoggio, in poesie in prosa‖. Vedi Lingua, stile, società, Milano, Feltrinelli, 1974,

rispettivamente alle pagine 105-06 e 134-35.

(7) Con il quale, secondo la testimonianza di Sant‘Agostino, sembrerebbe cominciare l‘era della lettura

moderna (da svolgersi in fretta, per il poco tempo che si ha da dedicarle): ―Nel leggere,i suoi [di Ambrogio]

occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. […]

Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attenta spiegare

qualche passaggio eventualmente oscuro dell‘autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo

complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi

desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva

costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale‖:‖Confessioni, 6, 3.3.

(8) Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Andrea Raos, Michele

Zaffarano, Firenze, Le lettere, 2009. (9) TP, p. 334.

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TOMMASO DI DIO

ANTONIO PORTA. FRA PROSA E POESIA “NEL MOMENTO DELLA FUORIUSCITA

TOTALE”

Parlare del rapporto fra prosa e poesia in Antonio Porta significa discutere di quella che potremmo

chiamare, per usare un termine di origine sereniana, ―una costante oscillazione‖. Chi decida infatti

di lasciarsi tentare dalla dicotomia di genere nell'analisi dell'esperienza artistica del nostro autore, si

troverebbe a dover innanzitutto decidere se si voglia, o no, considerare prosa e poesia due generi

distinti nell'opera di uno scrittore in cui la poesia sembra germinare dal cuore stesso della prosa e la

prosa sembra essere l'orizzonte di tensione sotto il quale il verso si piega.

Del resto, l'abolizione di ogni confine, così come di ogni norma di decodifica predefinita, è

proprio il baluardo sotto il quale l'esordio di Antonio Porta sembra immerso, aderendo, fin da

subito, alla spinta riformistica della Neo-avanguardia. Tralasciando il giovanile e limpidissimo

esordio (Calendario, 1956), la prima opera che pubblicherà con lo pseudonimo che lo renderà poeta

sarà La palpebra rovesciata, nel 1961, medesimo anno in cui compare nell'antologia de I Novissimi.

Cresciuto sotto l'egida anceschiana e nell'ambiente del «Verri», gli anni che precedono l'esordio editoriale sembrano già presagire la nascita di un autore che intende fare della distinzione di genere

una critica consapevole.

La palpebra rovesciata già presenta, infatti, caratteristiche di ispirazione che rimandano ad

―eventi spesso desunti dalla cronaca‖, rivelando una scrittura ―radicata nella concretezza del

mondo‖ che documenta ―eventi bloccati nello loro immediata fatticità e allontanati da possibili

rinvii metaforici e simbolici‖(1). É proprio l'abolizione del sistema metaforico e la superfetazione

verbale, a discapito dell'uso nominale o aggettivale(2), che mostrano come, fin dalle sue prime

prove, la ricerca di Porta si indirizzi verso un modello di scrittura fortemente innovativo, il quale

rasenta la scrittura in prosa, sia nei modi di applicazione, sia nei luoghi da cui sorge.

Prosa certo, ma di attitudine sperimentale. Una prosa assai lontana dalla ―semplice‖ intenzione di

narrare; una prosa tutta protesa alla sperimentazione di tecniche di racconto spaesanti, frantumate,

al limite disturbanti, sotto l'influenza della scritture di Beckett, Joyce. Non è dunque un caso se per

chiarire certi aspetti della poesia del primo Porta, si debba chiamare in causa una corrente d'oltralpe,

non a caso ancora un gruppo di scrittori che proprio nella prosa ha espresso la propria acuta

sensibilità.

L'ossessione e l'enfasi sulla percezione visiva, che risalta fin dal titolo dell'esordio, è stata

condivisa dalla coeva école du regard. Con essa Porta condivide, tra le tante differenze, il tentativo

di mostrare come gli eventi ‖si danno fisicamente allo sguardo‖(3), ma soprattutto ―l'opposizione

alle ostentazioni dell'io‖(4) che conduce ad una esplorazione ―in tutte le direzioni possibili,

mettendosi in agguato da molti punti di vista, rifiutando l'univocità‖(5). Sia l'école, sia Porta, l'una

in prosa l'altro in poesia, tentano di annichilire i resti di un Io predefinito, un Io in catacresi fin dagli

assunti della scrittura naturalistica, fin dalle movenze reticenti della lirica ermetica. Ma è curioso

che Porta, proprio per portare la scrittura ad un grado zero(6), una neutralità raggiunta in re, mai

ante-rem(7), ancora si rifaccia ad una strategia tipica della prosa:

Di qui la creazione di un personaggio, del protagonista che muovendosi tra le parole, si muove come noi

idealmente ci muoviamo nella sfera della realtà, come vediamo che tutti si muovono, consapevoli o

meno(8).

La scrittura portiana, almeno in queste prime intenzioni, non sembra certo lontana dall'influenza del

maggior poeta della Neo-avanguardia: Sanguineti. Egli, nell'opera Laborintus del 1956, aveva

creato un sistema di personaggi linguistici, di attori che ―hanno il compito di gestire il linguaggio,

ma non se possono servire‖(9). Ma in Porta i personaggi non sono solo il ―prodotto di

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quell'esercizio‖ della scrittura che ―mette fra parentesi il soggetto‖, non hanno soltanto una

―soggettività funzionale‖(10), non vogliono insomma ridurre la loro presenza attanziale ad una

presenza meramente linguistica. La realtà degli attori che entrano nella pagina delle poesie della

Palpebra rovesciata e poi de I rapporti ha qualcosa di molto più crudele e violento: radicale.

Qualcosa che si riallaccia al ―problema del vero e della verità, in simbiosi con la ricerca delle

immagini e il bisogno di penetrazione‖, che sia e rappresenti ―un impegno costante verso gli altri,

per un'arte eteronoma”(11). Dunque il convergere da una parte delle spinte rivoluzionarie della

Neo-avanguardia, dall'altra la suggestione derivata dall'école du regard, conducono Porta non ad

una chiusura nell'universo della pagina scritta o, tutt'al più, ad uno sprofondamento nello ―spazio

psichico‖(12), ma, fin dalle prime pagine teoriche del nostro, lo spingono nella direzione di

un'apertura. La realtà esterna c'è, è costante riferimento; ma appare rovesciata dallo sguardo a cui

è sottomessa: una palpebra che, per troppa apertura, accede ad una distorsione(13).

La scrittura di Porta dunque si affaccia ad un dialogo che vede come poli contrapposti in continua

tensione la scrittura e la realtà esterna degli altri, la presenza individuale creatrice e la realtà fattuale

del mondo esterno: la serie dei Rapporti umani e Rapporti n. 2 è lì a testimoniare che, ―nascosta

sotto le pagine‖, c'è la violenza concreta del vivente portata sotto lo sguardo del lettore in una storia

slabbrata, scorciata per tenerne ―soltanto la fine‖(14).

*

Prosa e poesia, come abbiamo brevemente mostrato, fin dalle prime prove teoriche e pratiche di

Porta, sono sottilmente intrecciate, l'una intesta nell'altra a creare un intreccio tanto trapunto che

pare difficile, in sede teorica, porre dei limiti di genere alla sua creatività(15). Sicché non stupisce

che pochi anni dopo, nel 1967, tre anni dopo il convegno del Gruppo 63, tenutosi Palermo, sul

romanzo sperimentale, Porta si dedichi alla scrittura del suo primo vero e proprio romanzo, edito da

Feltrinelli: Partita. Antonio Porta lungo tutta la sua poliedrica carriera di scrittore ha più volte

incontrato la forma romanzo. A scadenza sorprendentemente ciclica, Porta concretizza la sua

―costante oscillazione‖ in oggetti che propendono maggiormente verso il polo prosastico. Ma essi

non saranno mai scevri da un qualche influsso della scrittura poetica; anzi in essi proprio

l'esperienza del poeta pare funzionare come ―messa in crisi‖ o ―catastrofe‖ della prosa. Realizzando

insomma, ancora una volta, quella tentazione all'ibrido, all'anfibio, quella mai pacificata tensione

fra le forme e i generi che caratterizza la scrittura di Porta in toto.

Se nel 1967 darà alle stampe Partita, nel 1979 uscirà Il re del magazzino, culmine

dell'oscillazione, opera in cui maggiormente prosa e poesia sono posti come poli di una fertile

tensione. Dieci anni dopo, nel 1989, quando la morte lo coglierà, Antonio Porta stava scrivendo il

suo terzo romanzo, lasciato inconcluso, edito postumo a cura di G. Pontiggia nel 1996: Los(t)

Angeles. Un romanzo quasi ogni dieci anni, un romanzo come estremo approdo da cui fare i conti

con il decennio precedente, per partire verso una nuova forma di scrittura poetica, un nuovo

nomadismo o erranza della scrittura che solo la morte biologica ha potuto interrompere. I romanzi

di Porta appaiono così come dei conglomerati, sedimenti ad alto tasso di carbonio prosastico,

estraendo dal quale l'indice di radioattività (l'emanazione poetica) è possibile stabilire le

modificazioni, le varianti, le tempistiche evolutive di quel progetto infinito al di là dei generi in cui

Porta era sempre coinvolto.

Percorreremo, per scorciate suggestioni, questo suo cammino. Anche noi oscillando oltre

l'esordio fra le sue prose e le sue poesie, cercando di mostrare le trasformazioni che le une mostrano

delle altre.

*

Cominciamo dal romanzo Partita. In esso è ben leggibile l'intenzione di portare la scrittura in

prosa ad un livello di aggressività e rottura che lo riallaccia sicuramente al romanzo sperimentale e

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ad altre scritture crudeli, altrove sperimentate in quel giro d'anni. È un romanzo scritto ―respirando

con violenza‖(16) che spacca le convenzioni della narrazione soprattutto per l'uso di terminare i

paragrafi ex abrupto(17), per una sintassi che si snoda labirintica fra dialoghi in indiretto libero e

cambi di voce, legando gli avvenimenti narrati senza ―stabilire uno sviluppo logico e un razionale

coordinamento‖(18). Porta lascia il respiro del lettore davanti ad un vuoto, un abisso bianco, un

crepaccio da superare fra due paragrafi interrotti nello sbrego di una sintassi mutilata. Il lettore è

costretto ad inseguire a fatica la velocità di una scrittura che raramente incontra un punto fermo: il

lettore è costantemente nella minaccia di incontrare il vuoto, sentirne la consistenza, il rischio.

Partita è un romanzo che racconta la storia di sei personaggi intrappolati in un luogo

identificabile con ―il Veneto delle ville Favolose‖(19). Siamo in un futuro ipotetico che mostra

―come si può agire in una società post-rivoluzionaria‖(20), come si possa pensare un percorso

educativo che sottragga le ―calamite alienanti‖(21) presenti nella Storia contemporanea. Sei

personaggi fra cui spicca Màstica, protagonista femminile, ―che lecca, nuota, corre, insegue i

cani‖(22), vera e propria forza propulsiva della narrazione, centro attorno al quale gli altri cinque

personaggi ruotano, da lei fatalmente attratti. Màstica, fin dal nome, identifica la forza primigenia

della natura, la risposta immediata agli impulsi più terreni del corpo. Un coagulo selvaggio di

erotismo e natura che vive e insegna la sua medesima postura agli altri personaggi:

Eccone una, grida lei, mettendo una mano su una radice affiorante, dissotterrandola rapidamente, tagliandola con due

colpi secchi ai lati, stringendola tra le mani subito, cercando di spremerla al massimo, di farla gocciare dalle due

incisioni che vi ha praticato, la succhia forte, inginocchiata, col busto eretto, comincia a uscire il suo latte, liberandosene

un istante, dice, esce, che è un latte molto denso, poco abbondante, coagulandosi spesso, per il quale occorre una

infinita pazienza e applicazione perché le gocce aumentino, sia in volume che in ritmo di caduta, se continua a gocciare,

dopo l'inizio sempre faticoso, incerto, se non interrompe prima del tempo, se si ha quella pazienza che si deve,

quell'ostinazione, le forze necessarie, che si devono avere, una costante violenza, se si rinuncia a gridare per lo sforzo, si

deve rinunciare, continuando a mugolare, evitando di tagliarsi la lingua troppo presto, se non si butta via tutto

all'improvviso, correndo via, disperati per un'attesa che può sembrare interminabile […] ecco che può accadere, accade,

di vedere Màstica felice, come pare veramente tale a noi, che stiamo lì accucciati a guardarla, verde anche lei, di un

verde di quelli molto chiari, più bianca, di un tono anche più cupo, sanguigno, come pare a noi supini perfettamente

verde, rosso cupo, continuando a cambiare colore, rinunciando a cercare per guardarla, è il momento in cui si deve

rinunciare, muovere verso di lei per aiutarla, perché questo è anche il nostro momento, abbracciandole le gambe,

succhiandole le mani e i seni che ci lascia a disposizione tenendo le braccia in alto, tese, fino all'esaurimento delle forze,

delle possibilità di resistenza fisica, nel tendere tanto le braccia, di succhiare, con la bocca priva di saliva, gli occhi

chiusi, le mani strette agli organi genitali siamo costretti a sospendere, sorridendo, scoprendo i denti, masticando foglie

lucide,(23)

La ritmica percussiva, dominata dal tempo presente dell'apparizione (―ecco‖, ―accade‖) e dalla fuga

dei gerundi, crea quella ―costante violenza‖ che domina il lettore abbandonato dopo una virgola ad

un blank, prima di passare ad un altro lacerto narrativo. La medesima strategia di tensione verbale è

visibile nelle coeva produzione poetica. Siamo infatti all'altezza di Cara (1965-1968)(24), libro in

cui la poesia è maggiormente messa in crisi attraverso l'analisi decompositiva dei suoi procedimenti

creativi. In esso libro, possiamo leggere alcuni brani che paiono essere contratture dello stile del

romanzo:

non è l'acqua nuotavano

nell'acqua scioglievano le mani

risuonavano

[…]

Nuotano a brevi intervalli

respirano si rialzano dove

rifugiano.(25)

La situazione ellitticamente descritta, tra l'altro, sembra proprio rifarsi alle prime pagine del

romanzo dove vediamo i protagonisti in una barca che sta affondando. Ma altre poesie corroborano

la vicinanza, in questi anni, fra scrittura in prosa e scrittura in poesia. In Come è un avverbio di

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tempo, Come fosse un ritmo(26) l'enfasi è data sulla funzionalità ritmica della ripetizione

desinenziale dei verbi, così come alla forza del gerundio è dedicata la ritmica labirintica di Partita.

*

Poco più di dieci anni più tardi, Porta dà alle stampe Il re del magazzino(27). Il romanzo forse

più compiuto del Nostro, in cui la differenza fra prosa e poesia è ancora una volta posta in relazione.

Se in Partita i due generi appaiono in stretta continuità, quasi fusi ed intrisi l'uno nell'altro, nel

secondo romanzo di Porta essi sono estremizzati e nettamente divisi, separati. Eppure, attraverso

una strategia narrativa, essi appaiono in totale continuità organica e mai come in questa opera la

poesia nasce gemmando dal tronco del racconto.

Il re del magazzino è il diario redatto da un uomo nei 32 giorni che seguono una ―catastrofe‖

energetica che ha completamente distrutto il mondo e le abitudini dell'umanità. Il resoconto del

tentativo di sopravvivere e del suo fallimento, il diario di un annichilimento biologico di un

individuo che lascia in un fustino di detersivo le proprie ultime tracce scritte. Egli si risveglia in un

piccolo magazzino nei pressi del ―Lambro mitico‖(28), intorno alle cui acque si svolgono gli eventi

minimi il cui racconto è al centro della narrazione. Minuscoli eventi che si caricano di una forza

inedita grazie al fatto che sono ―estremi‖ tentativi di mantenersi in vita, come più volte sottolineato

dalle meditazioni del protagonista. Un ritorno forzato al primitivo, di cui la scrittura a mano è un

pendant essenziale e rigeneratore(29). Ma la struttura di questo romanzo è frutto di una architettura

complessa che prevede più livelli di interpretazione e di narrazione. Infatti il diario è interrotto

periodicamente da 30 lettere che il protagonista vuole che siano indirizzate ai proprio figli. Tali

lettere sono in realtà vere e proprie poesie di Antonio Porta, poesie che spesso si incentrano sui fatti

di storia contemporanea, soprattutto accaduti nel 1976, colti come ―segnali della fine‖(30). Inoltre,

come ci avverte l'Informazione iniziale(31), esso ci giunge grazie alla ―trascrizione integrale con

scrupolo da filologo‖ (32) del manoscritto autografo da parte di un altro uomo che ritroverà il tutto

accanto all'autore del diario ―seduto e ripiegato su sé stesso, morto in quella posizione di riposo

burattinesco‖ (33). A rendere più complessa la stratificazione narrativa del romanzo, inoltre,

intervengono molti stralci da altre scritture (giornali, riviste) che l'autore trova per caso e anch'egli

trascrive nel diario.

Il re del magazzino appare allora una sorta di prosimetro narrativo costruito per assemblage di

scritture allogene, giustapposte e incistate le une nelle altre a formare il racconto di un

sopravvissuto e della sua morte. Una costruzione narrativa a incastro, in cui il poeta cerca con forza

il dialogo aperto, orizzontale, conflittuale con tutti i generi letterari, che, così depositati nel

romanzo, formano una specie di enciclopedia della scrittura offerta in extremis ai posteri. Proprio

essi sono invitati a compiere, attraverso la lettura dell'opera, il rinnovamento già indicato da colui

che per primo compie la trascrizione, ipostasi di tutti i futuri uomini.

Quando Antonio Porta si accinge a scrivere il suo secondo romanzo, si trovava all'interno di una

profonda trasformazione della sua scrittura poetica. Essa può essere individuata già nella raccolta

Week-end, ma soprattutto nella successiva raccolta Passi passaggi(34). Lungo l'arco degli anni

settanta, dunque, Porta rinnova le fondamenta del suo progetto infinito nell'ambito di una ―più

diretta comunicazione‖ (35) che trova una sorta di culmine riassuntivo proprio nella scrittura del

romanzo. Week-end è una raccolta divisa in due parti, la prima di esse già presenta una scrittura che

riprende toni più colloquiali con il lettore, intrattenendo una cordialità distesa, soprattutto nelle

sezioni Autocoscienza di un servo, Utopia del nomade, Lettere. Proprio quest'ultima sezione

introduce per la prima volta la dicitura lettere che raccoglie alcune poesie; dicitura che sarà fertile di

notevoli sviluppi all'interno della produzione del nostro. La lettera, proprio per la sua struttura

semiotica e pragmatica, richiede un destinatario preciso, individuale, considerato come legato al

mittente da una avvenimento privato, richiede una data precisa di scrittura. ―Ecco quanto ho da

dirvi, carissimi‖ (36) è un verso che subito mostra quanto grande sia ormai lo scarto evolutivo

rispetto alla produzione che precede, basata su quell‘opposizione alle ostentazioni dell'io‖ (37) che

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già dicemmo. Evoluzione della scrittura poetica che troverà una forma compiuta in Passi Passaggi

in cui si riprendono alcune Brevi lettere '78 e in cui si fa esplicita richiesta di un maggior apporto

interpretativo da parte del lettore, a segnare ormai la volontà raggiunta e direttamente esibita di una

cooperazione a 360 gradi con colui che legge:

è il tuo segnale: aiutami

io non posso(38)

Della medesima rivoluzione è frutto il romanzo Il re del magazzino, che si pone fra l'intimità del

diario e l'apertura al destinatario delle lettere. Sarà proprio la forma del diario a farsi presente anche

nella scrittura poetica di Porta, allorché introduce in calce alle proprie poesie l'epigrafe della data.

Ciò avviene proprio in Passi Passaggi in concomitanza della scrittura delle lettere, le quali

presentano ognuna la data completa di scrittura. Questa pratica di datare con precisione ogni poesia

non verrà, d'ora in poi, mai meno nella scrittura di Porta, convinto adesso di dover allargare la

strumentazione paratestuale per rendere più preciso, più intimo, più ―vero‖, l'atto della scrittura;

legando così in un sol nodo il tempo della finzione letteraria, il tempo della vita dell'autore e il

tempo, avuto per differenza da esso, della vita del lettore.

Diario, al pari di lettere, sarà inoltre una dicitura che troveremo più avanti nella produzione poetica

del nostro. Basta pensare al volume Melusina(39) che recita come sottotitolo ―una ballata e un

diario”; ma già Invasioni(40), raccolta dove la svolta letteraria si fa completamente trasparente,

contiene la sezione Come può un poeta essere amato?, la quale reca il sottotitolo ―Diario

(12.8.1981 Ŕ 17.8.1982)‖. Ciò conferma l'ipotesi che Il re del magazzino si trova al centro di una

mutazione nella creatività di Porta, raccogliendo da un lato i frutti degli anni settanta, dall'altro

gettando i semi per il prossimo, e ultimo, decennio di scrittura.

Chi scrive un diario sente sulla pelle il passaggio del tempo. Guarda alla propria vita nello scandire

dei giorni che si tramutano in pagine. Sente come si riempie il libro della sua vita, come si intride

del tempo, dei fatti che accadono fuori nel mondo e li patisce in una fedele trascrizione sulla pagina

bianca che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, si annera. Nel secondo romanzo di Porta, prosa e

poesia trovano una fusione organica nel seno della scrittura narrativa. Esse si oppongono, si

fronteggiano, eppure si legano e si conseguono grazie all'intenzionalità forte del personaggio che

redige il diario. Se ―scrivere è anch'esso lavoro e dunque ha bisogno di progetti, programmi‖, esso

si dispiega ne ―i fogli delle poesie ― che lo ―avevano abbandonato lentamente, con precisi strappi

nei passaggi dell'età: infanzia, adolescenza, e infine adulti‖. Tempo, scrittura, vita, diario e lettera

vanno compiendo una costellazione di senso che si proietta al di là della finzione narrativa per

diventare simulacro della reale intenzione di Antonio Porta nel percorrere ―l'ultimo cammino‖:

...lettere che adesso riscriverò man a mano per capirle davvero, come ho fatto sempre, con fatica. Poi

potrò farne un pacchetto e avvolgerle nella plastica trasparente e appenderlo al ramo di un albero a

altezza uomo. Un passante potrà prenderle e comincerà per le lettere l'ultimo cammino. È la nuova

posta, casuale, colma di suspense: si può stare a spiare il primo destinatario e seguirlo e scoprire se ce

ne sarà un secondo, e così via. (41)

Sono gli ―strappi dell'età‖, il tempo nel suo lasciare un segno, le lettere che Antonio Porta invia

attraverso la ―nuova posta‖. Esse sono l'allegoria esatta della nuova modalità di scrittura che il Nostro ha in mente: una poesia che sia come ―un bacio fuori di me‖ (42), lasciato cogliere a chi lo

prenderà, portandolo ancora più lontano, ben oltre ―il primo destinatario‖, laddove l'autore, come il

protagonista di questo romanzo, non sarà più materia biologica del suo corpo, ma abiterà i passi

passaggi di chi lo tramanderà oltre la morte.

*

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La creatività di Porta, da questo punto in poi, ingaggia e tematizza sempre di più un confronto

spregiudicato con la Morte. La prossimità esistenziale che Porta stava cercando fra la scrittura e la

vita tocca i limiti concreti fra istante dell'intuizione e tempo della scrittura, durata. La frizione fra i

due momenti, necessariamente, dolorosamente distinti, inizia a provocare ancora una volta l'istinto

utopico che Porta ebbe sempre vivissimo(43). Inizia, nell'ultima parte della vita del poeta, la

meditazione sulla vittoria della vita sulla morte e delle sue modalità che, sebbene si possa

considerare un vero e proprio tema sotterraneo costante della sua poesia, si concretizza finalmente

nei poemetti La lotta e la vittoria del giardiniere contro il becchino e Airone(44).

Il sogno di ―vivere un intero mattino” e la coscienza che ―la lotta è finita, \ la vittoria decisa,\ il

becchino sta seppellendo se stesso‖ (45) conducono Porta nelle ultime prove in poesia. Quasi

contemporaneamente, però, egli stava lavorando anche al terzo suo romanzo, purtroppo lasciatoci

allo stato frammentario: Los(t) Angeles(46), iniziato il 27.1.89, alle ore 9.26.

L'ultimo romanzo di Porta ha come ―coagulo narrante il sogno‖ (47). I temi attorno a cui ruota

sono le ―barriere che cadono tra sogno e veglia, tra corpo e paesaggio, tra identità e controfigura, tra

ricordo e invenzione, tra storia «verticale» e storia «orizzontale»‖(48). Spingendo ancora più in là il

tentativo del suo secondo romanzo, Porta indaga il limite dell'essere con la ―e minuscola‖(49), le

sue possibilità di apertura oltre gli specchianti riflessi della propria percezione e la capacità di

reinventarsi, ricrearsi, rinascere annullando ―confini e frontiere‖(50). È un romanzo in cui

l'autobiografia viene reinventata e filtrata dalla voce narrativa, ―una voce ormai troppo insistente‖,

―un soffio nel cuore che dice...‖:

forse comincia con un soffio e poi diventa parola, frase, domanda, discorso, affermazione,

negazione, sviluppo e a poco a poco trama, trama di quello che ho vissuto e di quello che non

ho vissuto, e di quello che non ho vissuto e di quello che avrei voluto vivere, e trama di una

narrazione, di una narrazione che mi sostenga nel momento della fuoriuscita totale, globale,

infernale di tutto il mio essere. (51)

―La fuoriuscita totale‖ dalla gabbia biologica, liberando appieno l'―architettura‖ dell'immaginario, il

tentativo di essere ―agito come uno spazio dilatabile, modificabile all'infinito‖(52) sono i baluardi

estremi dell'arte di un autore che ha concentrato gran parte della sua vita di scrittore a sentire i

limiti, sondare, analizzare i confini del corpo fino allo scarto decisivo e la conseguente ―scelta della

voce‖. La lotta contro il mito della Morte, viene attuata sul piano di una scrittura ―in tempo reale‖,

―pensata come un grandioso naufragio nello spazio-tempo planetario dove tutto si equivale‖, perché

solo tentando questo ―naufragio totale‖ si può ancora ―ricominciare da capo‖(53).

Porta nel suo estremo tentativo di conciliare arte e vita, riattiva il vetusto tema romantico, già

implicito nella sua precedente opzione neo-avanguardistica. Eppure non mancano notevoli distanze

da essa, che piuttosto lo riallacciano ai presupposti delle avanguardie storiche del Novecento.

Infatti, come nota Mengaldo, quest'ultime ―rispondono ancora a una poetica dell'espressione‖,

mentre la neoavanguardia ―non si muove più, fondamentalmente‖, sul medesimo asse(54). Porta

tenta in tutti i modi di trasferire il tempo reale della vita all'interno della scrittura, di esprimere la

sua biografia entro i limiti della letteratura. Ma ciò avviene sempre attraverso la rivendicazione e la

pratica di una scrittura che non cancella, ma enfatizza la possibilità di ricreare, reinventare la vita

stessa, affinché (giusta la citazione d'autore che precede) ―una narrazione‖ lo ―sostenga‖ nel futuro

corpo letterario in cui avrà esistenza. Porta, dunque, si riallaccia alle proto avanguardie, ma compiendo un passo ulteriore. In linea con

esse, concepisce la lirica come una gabbia troppo stretta, in cui la vita, sebbene trattenuta negli

istanti, sfugge ed esonda nell'oltre dell'inesprimibile. Ma Porta non cede al medesimo silenzio che

già sottrasse Rimbaud alla letteratura, né si chiude nella rocca cristallina del puro gioco verbale; egli

tenta esplicitamente la costruzione (e ne fa avvertire tutta la fatica, la lacerazione(55)) di un corpo

futuro in cui la Lirica (con la L maiuscola, in senso forte, romantico(56), espressione e contenitore

dell'io empirico, biografico) sia inglobata dall'invenzione narrativa affinché essa ne diventi il

substrato di permanenza. In tal modo Porta tenta di trattenere l'istante dell'invasione poetica,

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l'istante dell'intuizione, all'interno del tempo-durata della narrazione. Il nostro poeta, giunto

all'estremo della sua arte, sceglie con consapevolezza la letteratura come scheletro e carne della sua

sopravvivenza(57), cancella ancora una volta i limiti essenziali fra poesia e prosa, infondendo

nell'una ciò che per secoli è stato compito e utopia della seconda. Mai come per questo nostro

autore si può affermare che ancora viva, ad ogni lettura, vivo tra noi.

Tommaso Di Dio

Note.

(1) John Picchione, Introduzione ad A. Porta, Laterza, Bari, 1995, p. 31.

(2) Queste riflessioni fanno riferimento agli interventi di Enrico Testa e di Alessandro Terreni al convegno su Antonio

Porta, dal titolo Mettersi a Bottega, tenutosi a Milano il 10\12\2009.

(3) John Picchione, cit., p. 39.

(4) Antonio Porta, Poesia e Poetica, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielminetti, Gruppo 63 Critica e Teoria,

Feltrinelli, Milano, 1976, p. 79. Ma già apparso nella ―Fiera Letteraria‖, 10-7-1960.

(5) Ivi, p. 81.

(6) Proprio Zero è, significativamente, il titolo di una sezione di Rapporti in Antonio Porta, Tutte le poesie, a cura di

Niva Lorenzini, Garzanti, Milano, 2009, pp. 105-119; in essa l'abolizione formale fra poesia e prosa è spinta all'estremo,

essendo composta da brevi sequenze di carattere poetico, ma private della più appariscente prerogativa della poesia,

cioè l'andare a capo del verso. Infatti ogni riga è ‖adattata a forza‖ in un formato isometrico tramite la vera e propria

cancellazione delle parti che non rientrano nella misura spaziale definita. Zero appare così una sequenza di ritagli

arbitrari da un romanzo mai scritto, lasciando trapelare ai margini parole tronche, frasi a metà: esso mima (ma di fatto

annulla) lo spazio tipico della pagina in prosa.

(7) Antonio Porta, Poesia e Poetica, cit., p. 80.

(8) Ivi, p. 81.

(9) Fausto Curi, La poesia italiana del '900, Laborintus, Laterza, Bari, 199, p. 264.

(10) Ibidem.

(11) Antonio Porta, Poesia e Poetica, cit., p.80 e 81.

(12) Fausto Curi, cit., p. 268.

(13) Ed è questa forse la più notevole differenza con l'ecole du regard: quest'ultima descrive minuziosamente e,

polverizzando la visione in un continuum, giunge ad una sorta di espressionismo; laddove Porta invece lo guadagna in

forza dell'intensità a cui sono sottoposti i frammenti di realtà.

(14) Rispettivamente a p. 126 e p. 138 in Antonio Porta, Tutte le poesie, cit.. Le citazioni sono tratte rispettivamente da

Rapporti n. 2, II, v. 2, p. 138; Rapporti umani, XII, v. 11, p. 132.

(15) È altresì nota la fertilità di Porta anche in altre aree di scrittura, fra le quali il teatro, la critica, la poesia visiva etc.

che solo per questioni di spazio non sono prese in considerazione in questa sede.

(16) Antonio Porta, Partita, Feltrinelli, Milano, 1967, p. 45.

(17) Ciò che in Zero era ottenuto per cancellazione ai quattro margini, qui è ottenuto solo per interruzione verticale.

(18) John Picchione, cit., p. 137.

(19) Antonio Porta, Partita, cit., risvolto di copertina.

(20) ibidem.

(21) ibidem.

(22) ibidem.

(23) Ivi, p. 59, 60.

(24) Edito da Feltrinelli, Milano, 1969.

(25) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 163. è la parte I della poesia Loro.

(26) Rispettivamente ivi, p. 172, p. 208.

(27) Edito la prima volta da Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1978.

(28) Antonio Porta, Il re del magazzino, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2003, p. 21.

(29) ―voglio annotare, e lo faccio, certo, come mi faccia bene scrivere di nuovo a mano, intendo senza il battere dei tasti

della macchina da scrivere‖, ivi, p. 23.

(30) John Picchione, cit., p. 143. Le lettere saranno poi raccolte in Antonio Porta, Aria della fine. Brevi lettere

1976,1978, 1980\1981, Edizioni Lunarionuovo, Catania, 1982.

(31) Antonio Porta, Il re del magazzino, cit., p. 19.

(32) Ibidem.

(33) Ibidem.

(34) La prima edita dalla Cooperativa degli Scrittori, Roma, 1974 e comprende poesie scritte fra il 1971 e il 1973;

l'altra, edita da Mondadori, Milano, 1980, raccoglie poesie scritte fra il 1976 e il 1979.

(35) John Picchione, cit., ibidem.

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(36) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 265. Il verso è tratto da Lettere, I, v. 5. Esso poi sarà ripreso come titolo

dell'autoantologia del 1977, edita da Feltrinelli.

(37) Vedi nota 4.

(38) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 325.

(39) Antonio Porta, Melusina. Una ballata e un diario, Crocetti, Milano, 1987.

(40) Antonio Porta, Invasioni, Mondadori, Milano, 1984.

(41) La citazione e quelle che precedono sono tratte da Antonio Porta, Il re del magazzino, cit., p. 33.

(42) Antonio Porta, Tutte le poesie, cit., p. 425. Il verso è tratto da una poesia di Invasioni, dalla sezione Come può un

poeta essere amato?.

(43) Confronta il verso ―non smettere di delirare, questo è il momento dell'utopia‖, in Antonio Porta, Tutte le poesie, cit.

p. 147; oppure la poesia Intervento dell'utopia nel racconto , ivi p. 166.

(44) Entrambi editi in Il giardiniere contro il becchino, Mondadori, Milano, 1988.

(45) Rispettivamente da Airone e da La lotta e la vittoria del giardiniere contro il becchino in Antonio Porta, Tutte le

poesie, cit., p. 562 e p. 499.

(46) Antonio Porta, Los(t) Angeles, Vallecchi Editore, Firenze, 1996.

(47) Dall'introduzione di Rosemary Liedl, Ivi, p.12.

(48) Dalla prefazione di G. Pontiggia, ivi, p.7.

(49) Ivi, p. 13; tratto da Antonio Porta, Arte come polisemia, «Parol, quaderni d'arte», n. 1, marzo 1985.

(50) Ivi, p. 16; tratto da Antonio Porta, Mal d'America, interviste a cura di Ugo Rubeo, Roma, Editori Riuniti, gennaio

1987.

(51) Ivi, p.19, Frammento 1.

(52) Ivi, p. 84, Frammento 13.

(53) Ivi, p. 76, Frammento 12. Non è forse un caso che il protagonista porta il nome di Leonardo; esso allude

chiaramente al nome di battesimo di Antonio Porta: Leo. Ecco che dunque il ―ricominciare da capo‖ di quest'ultima

opera è anche un riavvicinamento al proprio ―nome vero‖.

(54) P.V. Mengaldo, Un panorama della poesia italiana, in La tradizione del Novecento, Bollati e Boringhieri, 1996, p.

134.

(55) Ivi, p. 27, Frammento 5: ―come un poeta che assedia il linguaggio e infine lo blocca, lo afferra per il collo,

disperando, mugolando, implorando, di non restare muto, di spalancare la pagina, il vuoto della pagina, e proiettarsi là

dentro, là sopra, sullo schermo della mente e rendersi finalmente visibile, prefigurazione di qualcosa d'altro,

spostamento dei confini, verso dove, verso chissà, per farla a pezzi la morte, a forza di morsi, di lingua‖.

(56) Scrive G. Mazzoni in Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna, p. 180: ―Potremmo dire che la grande lirica

romantica nasce da una forma di sicurezza: la sicurezza con la quale l'io parla di sé, nella convinzione incrollabile che la

sua vita personale abbia un immediato valore universale o, se si preferisce, cosmico-storico, nel duplice senso di

―riconosciuto da tutti‖, ma anche di ―essenziale‖, decisivo per la nostra comprensione della realtà.‖ A p. 181 continua:

―questo soggetto sicuro di sé e misurato è anche straordinariamente integro‖.

(57) ―Il corpo vuole essere quello che la scrittura significa‖ da Antonio Porta, Los(t) Angeles, cit., frammento 13, p. 82.

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CONCETTA DI FRANZA

POESIA DELLA PROSA E PROSA DELLA POESIA IN GIOVANNI RABONI

Prose tra i versi

Una poesia a bassa concentrazione di liricità, qual è quella di Giovanni Raboni, con i suoi toni

smorzati, che mimano la colloquialità del parlato anche nella selezionata adozione di una

terminologia settoriale e specialistica, attrae irresistibilmente la prosa nella sua orbita, in un sottile

equilibrio tra analogia e contrasto. La scrittura prosastica appare infatti, nella sua autonomia da

vincoli metrici, affine a quel verso libero, che nell‘arco della produzione raboniana predomina

ampiamente, e al quale si mescola apportandovi il suo bagaglio di «temi tradizionalmente allotri» e

«di registri stilistici tradizionalmente propri di generi prosastici».(1) La commistione prosa-poesia

potrebbe peraltro indurre al sospetto che la prosa creativa, come esercizio autonomo, costituisca

nella scrittura di Raboni un‘attività collaterale, a cui dedicarsi nelle more dell‘ispirazione: l‘unica

raccolta di «racconti (o prose o frammenti di romanzo)»(2) pubblicata da Raboni, La fossa di

Cherubino (1980), si dice infatti «nata da una crisi di scrittura poetica (…) e dalla voglia di

applicarsi comunque alla scrittura».(3) La prosa narrativa e artistica ne risulterebbe allora ristretta

tra lo spazio ufficiale della poesia da un lato, quello della prosa di traduzione dall‘altro.

Tuttavia è nel corpo stesso dei libri in versi che si gioca forse nella scrittura raboniana un più

complesso rapporto tra prosa e poesia. Si pensi alla strumentale applicazione della prosa ai versi

quale mezzo di più incisiva espressività e insieme di calcolata negazione dello statuto poetico: di

fatto, l‘andamento prosastico della poesia raboniana subisce continue smentite, inferte con perizia e

tempestività da una sintassi spesso costretta a contorsioni o calibrate sgambature per poter arrivare

alla fine del periodo. La scelta del sonetto in Ogni terzo pensiero (1993) e Quare tristis (1998),

preparata nel 1990 dai Versi guerrieri e amorosi, non segna, sotto questo aspetto, una svolta: dalla

voluta ed esibita forzatura della sintassi all‘interno della gabbia metrica la poesia raboniana non ha

mai prescisso, fondandovi anzi il suo modo di intendere il verso libero, in un gioco di continua

allusione ed elusione della regola, da Le case della Vetra del 1966, all‘ultima raccolta, Barlumi di

storia, uscita nel 2002.

Il rapporto tra prosa e poesia in Raboni va dunque indagato proprio laddove queste due

forme di scrittura, pur distinte, coesistono e cooperano nello stesso organismo. È il caso delle prose

inserite dall‘autore, sporadicamente ma con una certa costanza, nei suoi libri di versi. Due

compaiono in Cadenza d‟inganno (1975): Economia della paura e Partendo da Boulevard

Berthier; una nei Versi guerrieri e amorosi (1990): Per una ragione improvvisa; una ancora in Ogni

terzo pensiero (1993): Piccola passeggiata trionfale; due nell‘ultima raccolta, Barlumi di storia

(2002): La mattina di ferragosto mio padre e Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento. La

composizione in parti di alcuni tra questi testi (Economia della paura, Per una ragione improvvisa,

Piccola passeggiata trionfale), rispondendo all‘organizzazione dei libri raboniani in «sequenze»,(4)

suggerisce la rispondenza tra sezioni in prosa e sezioni in poesia: indizio, forse, di un‘omogeneità o

integrazione tutta da indagare. A partire dalla reciproca posizione.

Cadenza d‟inganno

In Cadenza d‟inganno la collocazione delle due prose appare strategicamente finalizzata

alla delimitazione di tre sezioni, non altrimenti definite, ma evidenti a chi conosca la storia

editoriale dei testi.(5) Subito dopo la prima suite (le Parti di requiem dedicate al rapporto con la

madre morta), la prosa intitolata Economia della paura annuncia l‘inizio della seconda sezione, che

ripropone il contenuto della omonima plaquette uscita all‘«Insegna del pesce d‘oro» di Scheiwiller

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nel 1970; questa funzione segnaletica è attestata dal fatto che la prosa, ora collocata in posizione

incipitaria rispetto alle poesie provenienti dalla plaquette, originariamente la chiudeva. L‘altra

prosa, Partendo da Boulevard Berthier, apre la terza serie di testi di Cadenza d‟inganno, usciti in

rivista tra il ‘68 e il ‘72 e dedicati ad eventi di portata storica e forte ricaduta individuale, quali la

morte di Pinelli e l‘omicidio di Calabresi. Tre parti, che si possono all‘ingrosso classificare la

prima sotto l‘etichetta del privato, l‘ultima del pubblico, la mediana della pericolosa ed incontrollata

intromissione dell‘uno nell‘altro,(6) vengono dunque delimitate dall‘accorta collocazione delle due

prose, che rivelano inoltre una evidente continuità di stile e di contenuto con i versi.

Dedicata all‘invasione poliziesca del privato, la prima prosa (Economia della paura) registra

in tre parti una conversazione telefonica tra amanti, entrambi vittime di una subdola oppressione,

l‘uno perché il suo telefono (quello attraverso cui i due si parlano) è stato messo sotto controllo;

l‘altra perché l‘uso di un coadiuvante nell‘anestesia potrebbe, in occasione di un prossimo

intervento chirurgico, costringerla a rivelare involontariamente il nome di lui in presenza del marito.

L‘apparente quotidianità dello stile è smentita dal doppio passaggio, peraltro non detto, attraverso il

mezzo telefonico e l‘intercettazione, di cui forse il testo si immagina quale trascrizione: senza

distinzione di battute nella prima parte, con le sole battute dell‘uomo nella seconda, con quelle della

donna nella terza. Ossessivo il ricorso alla ripetizione, giocata su due livelli: sia tra una sezione e

l‘altra, sia all‘interno di ciascuna parte, dove i due interlocutori si rimandano reciprocamente le

battute, oppure ripetono nella mente parti del dialogo:

1 [dialogo Uomo – Donna]

Possono. Possono sempre. E senza notifica preventiva. E senza? Non vengono a dirtelo prima, è chiaro. Tu però l‘hai

capito. Sì, credo d‘averlo capito. Un clic. Sapevo che ci si accorge. Un nastro? Certo, un nastro, cosa credevi? Gnomi.

Caverne per sentire. Labirinti di sughero. Neanche per sogno. Il nastro. E poi? Novanta su cento, li buttano via. Non

fanno a tempo. Probabilmente non gli interessa. Non al mio livello. E allora? Un caso. Me l‘avevano spiegato.

2 [Uomo]

Non so da quanti giorni. Non vengono a dirtelo prima, è chiaro. Non ricordo quando ho sentito il clic. Non molti.

Sapevo che ci si accorge. Me l‘avevano spiegato. Il nastro comincia a girare. Novanta su cento li buttano via. Non fanno

a tempo, credo. Non possono sentirli tutti. Li tengono per un po‘ prima di buttarli via. A meno che non si interessino

veramente a qualcuno. Ma di me, figùrati. Tanto meno di noi due. Un caso. Una specie di tic.

3[Donna]

Non sapevo che si potesse. Credevo che non si potesse. Che ci volesse una carta. Come per le perquisizioni. Forse per

un po‘ è meglio che non ti telefoni. Mi dà fastidio pensare che c‘è qualcuno che sente. Me l‘immagino come una specie

di gnomo. In una caverna. Pareti di sughero piene di ventose. (Economia della paura, in Cadenza d‟inganno)

La seconda prosa della raccolta, Partendo da Boulevard Berthier, è il reportage in prima

persona dei funerali di uno studente parigino, morto annegato durante una manifestazione

studentesca a seguito di una carica della polizia. La forma è quella del monologo interiore, con una

sintassi ipertrofica, che tende al flusso di coscienza, senza però mai perdere né il controllo della

struttura sintattica, né il confine tra la percezione e la sua assunzione razionale, tra oggetto e

soggetto. A creare un clima di angoscia, in cui lo scorrere del tempo si cristallizza, intervengono

anche qui le ripetizioni, sia ravvicinate (anafora e/o epifora con parallelismo, nel primo esempio

riportato), sia a distanza (con risultato di ritornello e strofa, nel secondo esempio); indotte dalla

minuzia ossessiva con cui si registra tutto ciò che appartiene alla scena, creano una sorta di effetto

ipnotico:

Finirà per cadere, mi dico, e avanziamo verso la strozzatura dell‘imbuto constatando la scomparsa dei flics, l‘assenza

dei flics, sospettando che i flics non ci fossero neanche prima e non ci siano mai stati visto che con ogni evidenza sono

stati assunti in cielo dove volteggiano col ronzio di un elicottero. Sì, penso che non ci siano mai stati e

contemporaneamente penso che già da prima e chissà da quanto tempo c‘erano invece allo sbocco del sottopasso questi

ragazzi (…) E così già da prima, sicuramente già da prima e forse da molto tempo in mezzo a boulevard Berthier poco

più su dello sbocco del sottopasso c‘era questo gruppo di gente già da prima così silenzioso e compatto.

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Seguire l‘automobile con la bara quando la bara arriverà (…) Da questo momento finché dal portone non verrà fuori la

bara ripensandoci sarà chiarissimo (…) Finché dal portone non verrà fuori la bara ma prima ancòra anche se solo pochi

istanti prima (…) Finché dal portone non verrà fuori la bara che sarà una cosa che nessuno di noi riesce a vedere

(Partendo da Boulevard Berthier, in Cadenza d‟inganno)

Versi guerrieri e amorosi

Nei Versi guerrieri e amorosi, la collocazione iniziale del trittico in prosa (Per una ragione

improvvisa) ne rivela il ruolo di avvio, che riporta indietro il tempo allo scoppio della Seconda

Guerra Mondiale, contesto ed ambientazione della seguente sezione di poesie in quartine. È la luce

che si fa improvvisamente «bianca e fissa» a segnalare la trasfigurazione della realtà;(7) lo stacco

coincide con l‘avvio del film in bianco e nero del passato, che proietta sul presente le sue immagini

crepitanti, diafana evocazione di figure sbiadite e senza vita:(8)

Per una ragione improvvisa la luce si è fatta bianca e fissa: i passanti, smilzi e sbigottiti come se avessero in testa un

gibus o una magiostrina, hanno smesso di colpo di fare ombra (Per una ragione improvvisa, in Versi guerrieri e

amorosi).

Il testo è composto da tre prose di lunghezza calante (segnate da legami intertestuali e

ripetizioni, secondo la tecnica già esperita in Cadenza d‟inganno) e di crescente straniamento

temporale, dovuto all‘allineamento del tempo sull‘asse dello spazio, che è il percorso del tram sul

quale viaggia il padre; il suo viaggio si svolge nel passato, ma al tempo stesso proietta nel futuro

(fino al presente del soggetto lirico) le fermate previste dalla linea tranviaria: «Fra due fermate le

portiere del tram, aprendosi, sfioreranno le foglie dei platani della piazza»; «Fra quattro fermate, il

tram arriverà ai grattacieli». L‘anacronismo, sotto la cui insegna si colloca la seconda sezione della

raccolta,(9) trova qui la sua fondazione, concretizzata nell‘antitesi che, nel porre la distanza

temporale, immediatamente la nega: «Sono passati quarantaquattro anni, un mese e un giorno. Non

è passato neanche un minuto». Il trittico iniziale anticipa, esplicitandolo, il criterio alla base delle

successive poesie, dove passato e presente coesistono nella figura della donna amata, la cui

presenza viene posta e presagita nel passato dell‘io lirico, a «schermo» rispetto a ricordi ed

esperienze di guerra, da cui egli rischia di essere annientato. Con inversione del ruolo di

protagonista, in primo piano nella prosa si accampa non la figura della donna, verso la quale

ciascuno dei testi poetici della sezione successiva converge nel finale, ma quella del padre; pur non

espressamente nominato nei versi, è il vero eroe di quella guerra, come rivela il confronto fra le

allusioni dei Versi guerrieri e amorosi (Non stava a noi risolvere, dove è il padre che

avventurosamente procura il cibo; Non facevano fumo né rumore, da contestualizzare nell‘attesa

della corriera che quotidianamente riconduce il padre presso i familiari sfollati a Varese), e la

chiarezza de La guerra, lirica riportata nell‘autoantologia del 1988 A tanto caro sangue.

Nel passaggio da una prosa all‘altra si fanno più intensi i riferimenti alla guerra (gli invalidi che procurerà, i

bombardamenti che distruggeranno la maggior parte dei platani di Milano, la durata stessa del conflitto per l‘Italia), fino

all‘immagine conclusiva della radio, da cui sarà diffuso l‘annuncio della dichiarazione di guerra:

[I] Mio padre, elegante e asciutto come un ufficiale di legno traforato, è appena salito sull‘1 dalla porta anteriore

riservata agli abbonati e probabilmente agli invalidi.

[II] Mio padre sale dalla porta anteriore, vietata ai non abbonati e ai non ancora invalidi, su una vettura della linea

tranviaria numero 1 (…) Fra due fermate le portiere del tram, aprendosi sfioreranno le foglie dei platani della piazza.

Fra tre anni, un mese e ventisette giorni non ci saranno più platani.

[III] Mancano tre fermate. Mancano dodici minuti e diciannove secondi. Mancano quattro anni, dieci mesi e quindici

giorni, un metro e trentasei centimetri di neve, un numero imprecisabile di mitragliamenti a bassa quota. Mancano

ventisette gradini (…) In casa, nella penombra del cortile, qualcuno sta già toccando la manopola di bachelite della

radio.

Il ritmo è scandito da una serie incalzante di coordinate spazio-temporali, la cui esattezza è

condannata all‘implosione dall‘ossessiva esattezza e dall‘accumulo, che provocano effetti di irreale

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artificiosità; ritmato dall‘anafora, l‘aumento della tensione nega l‘apparente impassibilità

referenziale dello stile: «Fra due fermate»; «Fra tre anni, un mese e ventisette giorni»; «Fra quattro

fermate»; «Mancano tre fermate»; «Mancano dodici minuti e diciannove secondi»; «Mancano

quattro anni, dieci mesi e quindici giorni»; «Mancano ventisette gradini». La ripetizione traduce in

suono l‘angoscia della guerra imminente e insieme l‘ansiosa aspettativa, espressa nelle liriche della

parte centrale, della sua conclusione, dove l‘avvento della donna amata sarà un premio non scevro

dai sensi di colpa della sopravvivenza.(10) Una sorta di conto alla rovescia, il cui istante zero

coincide con il punto di partenza delle poesie della sezione centrale, scandisce non il tempo della

convenzione, ma quello di un cuore che batte all‘unisono con il cuore della città: il percorso del

tram può così diventare un viaggio nel tempo, che riporta indietro alla guerra e alle ferite che essa

ha inferto ad entrambi.

Ogni terzo pensiero

Anche l‘ubicazione della Piccola passeggiata trionfale in Ogni terzo pensiero non è casuale.

«Collocata al centro di OTP, la Piccola passeggiata trionfale richiama nelle due sezioni liminari il

paradigma tematico enunciato dall‘epigrafe shakespeariana (…) ponendosi come esito narrativo (...)

dei Sonetti di infermità e convalescenza e premessa all‘alternanza del tema della morte (e dei morti)

con quello ―civile‖ degli altri sonetti».(11) La prima sezione della raccolta, costituita dai Sonetti

d‟infermità e convalescenza, è circoscritta ad un‘esperienza autobiografica di malattia e degenza

all‘estero; l‘interposizione della prosa la separa dalla terza sezione degli Altri sonetti, in cui la

comunione dei vivi e dei morti, che per l‘autore che vi è nato e vissuto si celebra quotidianamente a

Milano, si affianca ed intreccia alle testimonianze del poeta civile, allo sdegno per una realtà

politica e sociale ferita dal condizionamento, dalla menzogna assurta a sistema, dal silenzio di «tutto

quello che solleva / l‘uomo da se stesso» (Che in tutto fra tutte suprema sia, in Ogni terzo

pensiero). Una demarcazione anche metrica (tra l‘iniziale sequenza di sonetti minori e il gruppo

finale dei regolarmente endecasillabi) fa dunque da cuscinetto tra la stretta contemporaneità e

privatezza della prima parte e quell‘impasto di passato e presente, pubblico e privato che domina la

terza sezione nel segno di Milano: assente per forza maggiore dai Sonetti d‟infermità e

convalescenza, la città in cui Raboni si è formato come uomo e scrittore torna con la Piccola

passeggiata trionfale ad imporre la sua presenza, humus e contesto della poesia raboniana fin dalle

Case della Vetra. Le brevi prose liriche che compongono la sezione centrale rinsaldano il legame

dell‘Io con la propria città, celebrando i luoghi dell‘infanzia, nel quartiere di Porta Venezia,

secondo una traiettoria spazio-temporale che si snoda lungo il Corso Buenos Aires. Frammento

dopo frammento, nove tappe descrittive delineano un cammino che muove dall‘attraversamento di

quel grande fiume che è nell‘immaginario raboniano il Corso: dedicata al lento ma inesorabile

tragitto che ha condotto l‘autore ormai maturo a prendere casa nella stessa zona dove viveva da

bambino, la prima prosa, Che lunga, lunghissima rincorsa, ci ho messo, ricongiunge passato e

presente nel ritorno quasi identico sulla ―riva‖ opposta del Corso Buenos Aires. Assumendo,

rispetto ai versi che seguono, un ruolo simile a quello di Per una ragione improvvisa, la prima prosa

di Ogni terzo pensiero rimette in moto il passato e lo fa scorrere parallelo al presente. Ai due tempi

sono infatti dedicati, secondo un‘alternanza discontinua, i piccoli poemi in prosa che seguono,

coagulati ciascuno intorno ad un grumo, un nucleo di riconoscibile paesaggio urbano. Il percorso è

delimitato e circolare, rassicurante e protettivo, materno e insieme infernale come l‘immagine del

cinema, caverna di Polifemo ora accecata, ma un tempo fulgida agli occhi dell‘adolescente che vi

entrava, più che per vedere un film, per rifugiarsi nelle sue tenebre (Profonda come la caverna di

Polifemo). Sono temi ad alta concentrazione memoriale e dunque a forte rischio elegia, quell‘elegia

che anche in questi brani Raboni riesce a tenere a distanza. Come? Proprio esasperando

ironicamente la pericolosa simbiosi tra pubblico e privato, attraverso il ricorso al paradosso, alla

figura straniante che vale a ridimensionare quanto, nel punto di vista, possa apparire troppo

soggettivo. Si pensi all‘iperbolica associazione del «moto dei corpi celesti» e del «funzionamento

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della (mia) valvola mitrale» come conseguenza del cambio di destinazione della «casa di fronte»

(Che nella casa di fronte ci fosse); o all‘assimilazione, di «una compravendita di tessuti» e dei

«bisogni imperterriti del rimorso» come spinta a passare per via San Gregorio, dove il poeta

abitava, poco distante dal luogo di un allora famoso omicidio, adesso dimenticato da tutti (Mattoni e

cemento durano infinitamente meno). Lo scontro tra soggetto e oggetto si traduce in confronto

passato-presente anche al cospetto di elementi dell‘aspetto urbano toccati da un degrado che viene

puntualmente registrato; non c‘è rischio alcuno di sentimentalismo, quando l‘approccio è quello del

poeta civile: segno di un perduto equilibrio tra uomo e ambiente, alberi stenti ed assediati rinviano

allo spicchio di cielo dove compariva la neve, ora non più visibile (Gli alberi agonizzanti); la

fontana malamente restaurata, soffocata dalla pavimentazione, vede i propri spruzzi, non più

naturalmente assorbiti dal terreno, ristagnare «in piccole pozze velenose» (Niente di personale, ci

mancherebbe altro!).

Colpisce la quasi solida compattezza dell‘insieme e dei singoli brani, calibrata sia

nell‘organizzazione complessiva, sia nella concentrazione sintattica di ogni prosa, articolata in uno

o massimo due periodi, fortemente orientati verso la chiusa. Nel suo equilibrio, nella propria

simmetria, ciascuna di queste prose liriche scolpisce un frammento di una personale Via Crucis, che

concilia la struttura circolare con la prospettiva futura dell‘ultima prosa; qui si delinea la certezza

del proprio funerale come estremo e inverso attraversamento del Corso, fino alla meta della chiesa

di San Carlino (ciò che resta del Lazzaretto di manzoniana e insieme raboniana memoria), con

«l‘humilitas che splende sul pavimento di pietra nella fragranza composta dell‘incenso e della cera»

(Nei protocolli dello spostamento figura anche).

Barlumi di storia

Ancora una vocazione organizzativa si riconosce alle due prose che compaiono nell‘ultima

raccolta raboniana, Barlumi di storia, dove si collocano nella quinta ed ultima sezione, i cui testi

sono ordinati secondo un criterio cronologico che, partendo dalla seconda guerra mondiale, arriva

fino ai giorni nostri. Estrema celebrazione del tempo, che è il filo conduttore dell‘intero libro, ove

viene declinato dalla negatività del presente alla serenità anodina di un futuro senza futuro, l‘ultima

sezione si snoda come una successione di fotogrammi o sequenze narrative. Alla rievocazione del

passato ancora una volta sottostà la metafora del film: implicita nella lirica che la introduce (È, in

un profluvio di rovine), dove il termine «profluvio», che indica lo scorrimento, si coniuga alle

«tante macchie color seppia o ruggine», proprie delle vecchie foto (fotogrammi?); esplicita in quella

finale, dove il film della vita, oramai giunto al termine, si riavvolge, ma con il privilegio di poter

riguardare la pellicola, «fermando ogni tanto l‘immagine, / tornando un po‘ indietro, ogni tanto» (Sì,

tutto in bianco e nero, se Dio vuole). Nell‘immagine della moviola, l‘idea della possibile

reversibilità del tempo, metafora di una modalità d‘oltrevita in cui la memoria del passato non si

smarrisce, ma perde la percentuale di dolore che in vita comporta, in una perpetua fruizione ad

libitum e «in bianco e nero», senza emozione. Quale il ruolo delle due prose in questa così intensa e

organizzata ripartizione? È una funzione in primo luogo strutturante, che scandisce il percorso dalla

guerra ad oggi in due segmenti, l‘uno dedicato alla guerra e al dopoguerra, l‘altro alla storia recente

e all‘attualità, in una climax di pessimismo civile e politico.(12) La prima prosa (La mattina di

ferragosto mio padre) inaugura la sezione dedicata alla Seconda Guerra Mondiale, inquadrandola

nell‘esperienza dell‘io lirico bambino, dal cui punto di vista vanno lette le successive memorie

belliche in versi. L‘altra prosa (Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento), posta a metà della

sezione, muove dal ricordo dell‘assassinio di Kennedy, dalla «immagine della limousine immobile

nella sua assurda, inarrestabile corsa»: fotogrammi che si proiettano, nella memoria dell‘autore,

sullo sfondo della rivista «Questo e altro»; un‘esperienza nella quale il ruolo civile della poesia

trovò un momento di grazia, in cui l‘energia del gruppo di lavoro potenziava le speranze che la

letteratura potesse anche occuparsi di «altro», impegnarsi nel reale, forse contribuire a migliorarlo.

La morte di Kennedy pose una lapide su queste aspettative, e la prosa ad essa dedicata vi lega non il

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declinare dell‘impegno, che in Raboni non verrà mai meno, ma il sopraggiungere di una sfiducia,

nel cui clima si colloca l‘intera produzione impegnata raboniana, di cui il resto della sezione offre

ancora un esempio. Alla collocazione strategica, dunque, i due brani annettono anche una funzione

esplicativa, che si vale della maggiore distensione e spazio concessi alla prosa per orientare la

lettura delle poesie alle quali sono premessi. In linea con tale ruolo, qui forse più esplicito che

altrove, tali testi sono caratterizzati da una prosa distesa, di registro prevalentemente memoriale il

primo, pubblicistico il secondo. Una limpidezza che, in linea con lo stile dell‘intero libro, non va

confusa con la naturalezza o la spontaneità; come infatti il metro di Barlumi di storia, solo

apparentemente libero, eredita dall‘esperienza della forma chiusa la sapiente ed esclusiva alternanza

di endecasillabi, settenari e novenari, così la prosa vi appare solcata da guizzi, svolte improvvise

che sorprendono il lettore e lo inducono a fermarsi, rileggere, riflettere. La superficie referenziale e

pubblicistica di Sembra impossibile, ma c‟è stato un momento, che pur mette da parte la memoria

privata del soggetto per portare in primo piano quella pubblica, non rinuncia all‘effetto di

un‘aggettivazione straniante, che blocca l‘attenzione sul «convoglio improvvisamente funebre»,

sull‘«orrore meccanico e umiliante delle crociate e delle scomuniche incrociate». Nella prima prosa,

La mattina di Ferragosto mio padre, il sapiente accostamento avverbio-aggettivo o aggettivo-

sostantivo («i gesti furiosamente immobili, le espressioni fulminate nella più vivida e minuziosa

aspettativa del vero») appare spesso funzionale al ribaltamento, che nel corso della stessa frase o

periodo cambia di segno all‘oggetto del discorso:

Di colpo, e per un tempo che sembrò, più che lungo, infinito, l‘acquazzone tipicamente lombardo-prealpino del

pomeriggio di Ferragosto smise di preannunciare la fine – non imminente, ma prossima e sicura – delle vacanze perché

le vacanze stesse avevano improvvisamente smesso d‘esistere.

Appena scesi in cantina, sopra le nostre teste si scatenò quello che fu impossibile non credere il finimondo mentre ne

era, molto più modestamente, l‘inizio.

Il nucleo concettuale del brano (la guerra è stata per l‘autore al tempo stesso il vuoto e la

formazione, la villeggiatura e insieme l‘esilio) si traduce in scelte stilistiche, che individuano il

fondo contraddittorio della maturazione personale e poetica: «come si va a distinguere l‘inizio del

finimondo dall‘inizio della grande vacanza, l‘angoscia dello sradicamento dall‘euforia di

un‘inaspettata, totale libertà? Confesso di non esserci mai riuscito, con la conseguenza che ancora

adesso mi capita di pensare a quegli anni di segregazione, di sfacelo e di orrore come agli anni più

belli della mia vita».

Una naturalezza straniata

Dei libri di Raboni, le prose costituiscono gli snodi che ne articolano l‘organismo; forti

dell‘innato carattere narrativo, che le innerva delle sue coordinate per eccellenza, spazio e tempo, le

parti in prosa non solo orientano la lettura di quei ―romanzi‖ che sono le raccolte raboniane, ma la

cadenzano al giusto ritmo come veri strumenti di un montaggio cinematografico. Non è casuale la

presenza costante della metafora filmica, che in questi brani spesso si accompagna, più o meno

esplicitamente, al modello del tragitto o della passeggiata: un percorso né solo spaziale, né solo

temporale, ma metafisico, che consente la fruizione sia diretta che inversa dei propri

fotogrammi.(13)

Se è vero che ogni libro di poesia di Raboni è un ―libro‖, frutto di un progetto e di

un‘ispirazione unitaria, le prose che vi si inseriscono non potranno che riflettere una comune

atmosfera, condividendone con le liriche i temi. Le prose di Cadenza d‟inganno mettono in scena il

clima di oppressione e di angoscia sottile che pervade tutto il libro;(14) quelle dei Versi guerrieri e

amorosi immergono il lettore nella rimemorazione della guerra da cui nasce la parte centrale della

raccolta; i piccoli poemi in prosa di Ogni terzo pensiero predispongono l‘ambientazione milanese e

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mortuaria dei versi che seguono. In Barlumi di storia, il cui leitmotiv è la storia, passata e recente,

le prose individuano nettamente i poli del libro nella memoria e nell‘impegno, due delle possibili

declinazioni della storia nel rapporto con l‘individuo. È innegabile la continuità tematica che

intercorre tra le prose e i versi dello stesso libro, per cui al fianco dell‘onnipresente tema privato,

troveremo un impegno effuso in maniera più esplicita e diretta nei testi prosastici di Cadenza

d‟inganno e Barlumi di storia, in linea con l‘andamento di queste due raccolte. Prevale invece il

registro memoriale nelle prose dei Versi guerrieri e amorosi e Ogni terzo pensiero, dove il motivo

pubblico (storico e civile) passa attraverso la più evidente soggettività dell‘amore e della morte. Le

medesime coppie di libri appaiono definite dall‘affinità stilistica, per cui laddove si adotta nelle

poesie il verso libero (Cadenza d‟inganno e Barlumi di storia), le prose godono di una forma

sintattica più ampia e distesa, che si fa invece più chiusa ed elaborata, vicina alla prosa lirica, nei

Versi guerrieri e amorosi e Ogni terzo pensiero, nei quali Raboni adotta il metro tradizionale.(15)

C‘è tuttavia un filo sottile che corre attraverso le prose sparse tra i versi raboniani. I loro

incipit, ad esempio, rompendo ex abrupto il silenzio dello spazio bianco, costantemente gettano il

lettore in un‘atmosfera straniata, che, sia il tema memoriale ovvero di denuncia, risulta sempre un

po‘ surreale: a creare uno stacco, che segnala il varco di uno spazio circoscritto, l‘avvio di una

comunicazione che si allontana dall‘uso quotidiano della lingua, cui pure Raboni continua ad

attingere. Sottotraccia persistente della prosa creativa raboniana è l‘elaborazione stilistica cui vi

viene sottoposto il linguaggio, forse più intensa proprio laddove più si ostenta la mimesi del parlato.

Parallelo all‘intenso lavorio cui Raboni sottopone il verso libero al fine di inventarsi una regola

propria, oppure il metro tradizionale per ritagliarsi uno spazio personale nell‘ambito della norma,

corre lo sforzo di produrre anche nella prosa uno scarto rispetto all‘uso quotidiano. Al di là del pur

innegabile discrimine tra prose più referenziali-oggettive e prose più tendenti al lirico-metaforico,

l‘adozione dei medesimi accorgimenti stilistici opera, al fine di ottenere lo straniamento di una

naturalezza di base, soprattutto al livello della disposizione delle parole. Il ricorso costante alle

figure della ripetizione mescola la reiterazione identica a quella moderata dal polittoto,

dall‘adnominatio, da minime deviazioni di posizione; il parallelismo evidenziato dall‘anafora,

dall‘epifora o dall‘omeoteleuto si alterna e varia nell‘iperbato o nello zeugma. Nel primo dialogo-

monologo di Cadenza d‟inganno il linguaggio viene filtrato attraverso la conversazione e

l‘intercettazione telefonica, la cui messa in scena giustifica l‘indistinzione e la ripetizione, che

divengono un fattore ipnotico e ossessivo, mezzo di denuncia dell‘oppressione cui l‘individuo è

sottoposto. Nella seconda prosa, fa da filtro il parlato mentale che registra la scena; complice la

sintassi ipertrofica e frenante che riproduce l‘indiretto libero, l‘ingrandimento si concentra non

sull‘oggetto principale, ma su dettagli fuori campo; questo taglio obliquo spiazza il lettore e lo

turba, con effetto certamente consapevole e voluto, che viene meglio esplicitato nelle coeve e affini

prose de La fossa di Cherubino: qui l‘approccio narrativo tangenziale si metaforizza nel modo

impreciso e frammentario di raccontare attribuito alla protagonista femminile. L‘esasperato

tecnicismo, l‘eccesso di precisione, la pseudo-scientificità delle indicazioni spazio-temporali

accomunano, nella loro funzione surreale, le prose ―colloquiali‖ di Cadenza d‟inganno a quelle

―liriche‖ dei Versi guerrieri e amorosi, dove le ripetizioni creano una sorta di ritornello, con l‘idea

del conto alla rovescia. Un‘idea che è data non tanto dal contenuto delle precisazioni cronologiche

(che oscillano tra passato e presente, oltre che tra spazio e tempo), quanto dal loro incalzare e

accumularsi progressivamente lungo le tre prose (segnate da un‘inversa e progressiva

sintetizzazione, come già in Economia della paura) fino a ―precipitare‖ nella finale dichiarazione di

guerra. Nella Piccola passeggiata trionfale di Ogni terzo pensiero la distanza dal registro

colloquiale, che pure vi è adoperato, è segnata dal ricorso ad una sintassi calibrata, che non rinuncia

a figure della ripetizione dall‘effetto soprattutto fonico e ritmico, fino ai veri e propri versi

dell‘ultimo frammento:(16) nel perseguimento di quella misura tra descrizione e memoria, tra

razionalità e rimpianto, che evita le secche del lirismo nostalgico. Quanto a Barlumi di storia, la

superficie oggettiva delle sue prose è percorsa dai fremiti evocativi di una costante ossimorica, cui

deve molto l‘icasticità simbolica dei fotogrammi bloccati davanti agli occhi del lettore: barlumi

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improvvisi di una memoria personale e storica, che aspirerebbe ormai a riavvolgersi finalmente su

se stessa.

Pur se in misura e modi diversificati da libro a libro, filtri alla verosimiglianza del parlato si

rivelano operanti in tutte le prose di Raboni, dove il registro informale viene al tempo stesso esibito

e negato. Una naturalezza straniata è il risultato di questa continua tensione tra colloquialità e

artificio, argomentazione discorsiva e lirica concentrazione: nei modi peculiari alla prosa, un

equilibrio viene di volta in volta riconquistato, organico alla parallela e incessante sperimentazione

metrica di un autore solo apparentemente facile, quale Giovanni Raboni.

Concetta Di Franza

Note.

(1) Rodolfo Zucco, La prosa nell‟opera in versi di Raboni, «Istmi», 11-12 (La prosa nel corpo della poesia),

2002, pp. 119-42, alle pp. 121-122.

(2) La fossa di Cherubino, Milano, Guanda, 1980, «Avvertenza» dell‘autore, dove si noterà l‘allusione

boccacciana («intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie», Decameron, Proemio), che

dietro l‘incertezza del genere letterario cela la certezza della vocazione narrativa. Le opere di Raboni si

citano da: Giovanni Raboni, L‟opera poetica, a cura di R. Zucco, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2006.

(3) Il lavoro del poeta: Giovanni Raboni risponde a Massimo Gallerani, «L‘indice dei libri del mese», a. III

1986, fasc. 3 (marzo) pp. 24-25, a p. 24, riportato in: Raboni, L‟opera poetica, cit., p. 1528.

(4) «La poesia di Raboni si dà e assai precocemente (…) come poesia in cui non il singolo testo, ma la

sequenza è da ritenersi l‘unità pertinente» (Zucco, Introduzione a Raboni, L‟Opera Poetica, cit., p. XXXIV).

(5) Per la quale si rinvia a Concetta Di Franza, «Cadenza d‟inganno» di Giovanni Raboni: saggio di edizione

critica e commentata, «Ermeneutica letteraria», a. I 2005, pp. 135-166.

(6) Gian Carlo Ferretti, Privato e pubblico in Raboni, «Rinascita», 3 ottobre 1975, n. 39, p. 29.

(7) «Già l‘incipit (…) proietta l‘episodio che vede protagonista il padre in una dimensione irreale e

raggelata» (Fabio Magro, Un luogo della verità umana. La poesia di Giovanni Raboni, Pasian di Prato,

Campanotto, 2008, p. 192).

(8) L‘immagine del film o della fotografia ricorre spesso in Raboni, quale metafora della memoria e mezzo

poetico di rappresentazione del passato (cfr. le foto di Inchiesta, in Cadenza d‟inganno), ma anche del

futuro escatologico come replica senza dolore della vita (cfr. la moviola di Dopo la vita cosa? ma altra vita,

in Quare tristis), ripresa in Si farà una gran fatica, qualcuno, in Barlumi di storia).

(9) «Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi»: la citazione da

Goethe è posta a specifica epigrafe della seconda sezione dei Versi guerrieri e amorosi.

(10) Cfr. dai Versi guerrieri e amorosi: «e in un orrore alterno / cucire con il filo dell‘inferno / i brandelli di

insulse primavere» (Lo chiamavano, credo, fronte interno); «fin nella pace / dove promessa fervi» (Nel

pollaio di stracci); «a chi spiò dalla grata / dell‘emergenza il futuro» (Successe o non che dal fondo).

(11) Zucco, La prosa nell‟opera in versi di Raboni, cit., p. 138.

(12) «Si noti dunque l‘ordine costruttivo per cui dopo il testo di esordio si susseguono due sequenze

composte ognuna da una prosa e quattro poesie, più un testo finale di congedo» (Zucco, L‟opera poetica, cit.,

p. 1769).

(13) Il modello del tragitto è presente in: Partendo da Boulevard Berthier, Per una ragione improvvisa,

Piccola passeggiata trionfale, e nella parte finale de La mattina di Ferragosto mio padre.

(14) Per il clima repressivo di Cadenza d‟inganno e i mezzi stilistici cui si ricorre per esprimerlo, vd. C. Di

Franza, La poesia di Giovanni Raboni tra «Economia della paura» e «Strategia della tensione»: impegno

civile e politico in «Cadenza d‟inganno», in «Filologia e critica» , a. XXIX 2004, fasc. III pp. 378-418.

(15) Di «esplorazione delle possibilità espressive del discorso in prosa operato nel momento in cui si tenta la

stessa operazione con il metro chiuso» giustamente parla Zucco (La prosa nell‟opera in versi, cit., p. 129). (16) Cfr. Zucco, Raboni, l‟opera poetica, cit., p 1685; Magro, Un luogo della verità umana, cit., p. 205.

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RODOLFO ZUCCO

L’ALEA E L’INTENZIONE: «VERSI, NONVERSI E QUASIPROSE» DI EUGENIO DE

SIGNORIBUS

... un campionario di oggetti non identificati, a cavallo tra i

generi, coinvolti in un processo di ridefinizione della lingua

e delle sue forme che sembra reinterrogare radicalmente, e insieme, sia la nostra idea della poesia sia la nostra idea

della prosa...

1. Finisce con le parole in epigrafe la traccia che Italo Testa mi propone invitandomi a

contribuire al numero presente de «L‘Ulisse». Io penso che a questo campionario qualche scheda

possa venire dall‘indagine di alcune forme della scrittura di De Signoribus: quei nonversi e quelle

quasiprose che l‘autore accosta ai versi nelle Note dei suoi due libri più recenti.(1) Il primo dei due

neologismi(2) compare nella nota relativa alla sezione finale di Principio del giorno, Giornale,(3)

che trascrivo:

Giornale: composto prevalentemente in tre fasi: autunno ‘98, marzo e autunno ‘99. Alcuni frammenti (13, 14 e

parte del 18), scritti in precedenza e apparsi in Prose inermi (Grafiche Fioroni, 1998), erano nati come primo

nucleo del racconto. La varietà formale (versi e nonversi) rispetta la verità, il suono e il respiro, delle

situazioni.(4)

Recensendo quel libro, avevo parlato di un «incatenarsi di ―recitativi‖ e ―arie‖»(5) per dar conto

della costruzione della sequenza secondo due tipi – ma con l‘eccezione che si vedrà – di

aggregazione versale. Sono ancora convinto che l‘evocazione di quello che Folena ha chiamato il

«modulo melodrammatico»(6) abbia una sua efficacia descrittiva (trova appoggio, fra l‘altro, nella

ricorrenza del titolo aria nell‘opera di De Signoribus); ma più pertinente, forse, risulterà una

considerazione dell‘insieme come alternanza dei tipi strofici individuati da Coletti in un suo saggio

novecentesco.(7) Abbiamo dunque da una parte (a) testi che, dentro il tipo dei «componimenti

stroficamente non partiti», appartengono al sottotipo che, «contraddistinto dall‘imprevedibilità delle

variazioni (sia per lunghezza che per ordine dei versi), allude chiaramente a una non conclusività

formale del testo, alla sua frantumazione interna e alla sua dispersività complessiva». Interessa il

seguito immediato, perché Coletti vi fa menzione della «prosa»: «Da questa struttura il discorso

poetico sembra debolmente difeso, più esposto all‘―offesa‖ della prosa; tanto è vero che, spesso, ad

essa si contrappongono, molto abilmente, provvedimenti di bloccaggio, di delimitazione ritmico-

sintattica, come la rima in Montale, la sintassi in Cardarelli o le ripetizioni in Sereni». Dall‘altra

parte invece troviamo (b) componimenti «distinti in blocchi strofici», riferibili al sottotipo, questi,

che prevede «più strofe di ugual numero di versi». Dei ventiquattro membri della sequenza,

appartengono al tipo a i nn. 1-3, 6, 9-11, 14-15, 17-18, 20, 22-23;(8) al tipo b i nn. 4-5, 7-8, 12, 16,

19, 21, 24 (del caso del n. 13 tratterò poi). Il tipo di aggregazione strofica dominante è senz‘altro il

distico, ai nn. (fra parentesi il numero degli elementi) 4 (3), 5 (3), 7 (7), 12 (4), 19 (3), 21 (4), 24

(4); il n. 8 è in tre strofe esastiche, e il 16 in tre tetrastici. Mai la rima risponde a un disegno

precostituito, per darsi invece come libera interrelazione dei versi. Come esempio scelgo i

frammenti 18-19 (che, trovandosi affiancati a libro aperto, danno effettivamente l‘impressione di

un‘aria con recitativo):

18

quando la notte dilatandosi straluna

in un discorrere tutto interno a te

e nessuno più condivide il tuo linguaggio

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e per qualche ora s‘annucca anche il più astuto

assassino..., ecco che il passo s‘infogna

e una minaccia invalicabile si mette di traverso...

allora, puntando sulla sorpresa, provi

a circoscrivere quel moto interiore...:

sospendi il respiro, affretti le più aderenti

parole, puntelli di sensi il suo vago perimetro...

ma il pensiero di potergli dare un nome

(– chi sei? chi c‘è dietro di te!?...–)

si sgretola all‘istante, come aggredito

da un vuoto doloroso...

e tutto rifluisce al di qua, in un indistinto

campo interminabile

19

ecco che nel sasso familiare

ci vorrebbe un‘oasi di sonno

più dei muri a sfoglia di cipolla

più del tramestìo d‘intorno e sopra

duole l‘assenza di un letto somigliante

un lenzuolo che sia come una colla. (9)

Versi gli uni e gli altri, non c‘è dubbio, ricordando per esempio una nota definizione di Agamben:

È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia perfettamente

soddisfacente, tranne quella che ne certifica l‘identità rispetto alla prosa attraverso la possibilità

dell‘enjambement. Né la quantità, né il ritmo, né il numero delle sillabe – tutti elementi che possono occorrere

anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un discrimine sufficiente: ma è senz‘altro poesia quel

discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un limite sintattico (ogni verso in cui l‘enjambement non

è, attualmente, presente, sarà, allora, un verso con enjambement zero), prosa quel discorso in cui ciò non è

possibile.(10)

Con l‘enjambement, in effetti, il lettore del Giornale si confronta fin dall‘esordio, dove

l‘asincronismo metrico-sintattico si dà – con intensità diversa – ai vv. 2-3 (complemento in contre-

rejet), 5-6 (scissione di verbo e complemento oggetto), 7-8 (scissione di verbo servile e infinito), 8-

9 (rejet del genitivo), 10-11 (scissione dell‘aggettivo dal suo complemento):

lo spazio non si confà alla sua biografia...

breve è il percorso della stanza: dopo un passo

sbatte contro il necessario, è già arrivato...

non può muoversi, né serve guardarsi intorno:

un pugno si gonfia all‘altezza del respiro e vive

una propria scorporata identità...

poco più in alto, si stacca un io che vuole

intendere la ragione di quel possesso, la direzione

di quella vita...

nei pressi, le multiformi nuvole sono indifferenti

al suo racconto... (11)

Perché, dunque, De Signoribus parla di nonversi per i testi del tipo a? La risposta, in prima analisi,

verrà dalla gestione complessiva degli istituti metrici: dunque – riprendendo in sostanza il Coletti

citato – dalla considerazione della presenza/assenza di isosillabismo, rima, stroficità. Già detto

sopra di quest‘ultima, ritornando ai frammenti 18 e 19 del Giornale si vedrà come nel primo

l‘escursione della misura versale vada dalle sei sillabe del verso finale alle diciassette del v. 6

(considerato l‘insieme, i limiti sono dati dai versi di tre e diciotto sillabe metriche), e che la rima

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compare nelle forme dell‘epifora (a distanza di dieci versi: a te 2 : di te 12), della rima interna

(ancora a distanza di dieci versi: invalicabile 6 int. : interminabile 16) e della rima imperfetta

(aggredito 13 : indistinto 15). (Lo scrutinio degli altri esemplari non darà risultanze sostanzialmente

dissimili.) I versi del frammento 19 hanno dieci sillabe i primi quattro (leggibili tutti, col loro

accento di 5a, come endecasillabi acefali), dodici il quinto (di 4

a7

a), undici l‘ultimo (endecasillabo

di 3a6

a7

a). Nessuno dei sei versi risulta sciolto da una relazione rimica. La rima cipolla 3 : colla 6

suggella il testo, accompagnata dall‘assonanza con sfoglia, all‘interno dello stesso v. 3, e con sopra,

in chiusa del verso successivo. I versi iniziali del primo e del terzo distico si richiamano anche per

l‘assonanza (di due quadrisillabi, e fonicamente ricca) familiare : somigliante; sonno, al v. 2,

irrelato in punta di verso, innesca però la serie interna di assonanze continuata da intorno 4 e

lenzuolo 6. Chi trovasse poco convincente l‘esempio per l‘incidenza dei surrogati della rima perfetta

potrebbe vedere il frammento 21:

come un venuto da fuori che non sa

e a ogni passo crea la sua strada

ed insieme il suo sguardo si dilata

e tra i vuoti conosce il suo arrivare

l‘escavatore così nella sordina

ogni notte riprende ad affondare

le terre nere smuovono la china

e ogni smossa sentiero si fa. (12)

Qui tutti i versi sono in rima perfetta (1-8, a cornice; 4-6, in parallelo nei due distici centrali; 5-7, in

parallelo nei due distici finali) tranne i vv. 2-3, stretti dalla rima imperfetta (per il solo tratto della

sonorità/sordità della consonante) strada : dilata.(13) Senza negare l‘importanza dell‘isosillabismo

– e segnatamente, nei testi in distici, dell‘endecasillabo –, mi pare sia alla rima che occorra

attribuire una funzione discriminante. Riprenderò una proposta di Roberto Antonelli, secondo il

quale non da rythmus – come vuole l‘etimologia tradizionale – deriverebbe rima, ma

dal latino rima, ―fenditura‖, appunto, ―fessura‖ (con cui rimari, ―fendere, rompere‖, ―scavare, ricercare,

investigare‖, rimator ―ricercatore, indagatore‖ e rimula ―piccola fessura‖, sovrapponibile talvolta a rythmulus,

―versetto‖), sopravvissuta in numerosi derivati romanzi e soprattutto, per quel che qui ci riguarda, in opposizione

corrispondente e analogica a prosa (oratio): ovvero ―(discorso) dritto, che va avanti, che va in linea diretta‖.

Il discorso segnato dalla rima, dalla ―fessura‖ che interrompe la prosa oratio, sarebbe invece un discorso che

―torna indietro‖ (come del resto versus in Isidoro, Et. I, 39, 2-3 «quod revertitur») in quanto la rima obbliga,

marcando la fine, a re-iniziare.(14)

In due sensi, seguendo Antonelli, il discorso di De Signoribus in quelli che egli chiama versi appare

segnato dalla rima. Nel primo, esso è un discorso rimato secondo l‘accezione corrente: per la

frequenza della relazione dei versi sulla base della loro convergenza fonica a partire dall‘ultima

sillaba accentata. La rima fa sì che si svolga, qui, «organicamente un discorso altro», che si

manifesti «un potere di intensificazione linguistica, una pluralità di senso che può agire, per il

produttore e per l‘utente, sia a livello conscio che inconscio o subliminale (così come le ripetizioni e

i giochi fonici interni al verso, ma certamente ad un livello maggiore di formalizzazione e comunicazione)».(15) Altra la situazione dei nonversi, dove «la rima, sparita come ripetizione di

suoni, permane però in quanto fenditura, spezzatura, segnata dallo spazio bianco tipografico o

investita e ricondotta quasi alle origini etimologiche».(16) Nel secondo, a esaltare il discorso dei

versi come «discorso ―che torna indietro‖», interviene la strutturazione strofica, anch‘essa – e con

quale suggestione iconica! – produttrice di fenditure o fessure che inducono, a ogni interruzione, un

nuovo inizio. È come se si alternassero, nel De Signoribus del Giornale, due poeti

dall‘atteggiamento fondamentalmente opposto. Il primo è un poeta ancora in qualche modo

partecipe di quella situazione prenovecentesca per cui la scrittura in versi si dà come hýsteron-

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próteron, svolgendosi secondo «un tempo lento che dal punto di vista dell‘autore deve tornare dalla

rima su se stesso, a differenza della prosa, per poter poi essere recepito come lineare e continuo da

parte del lettore».(17) L‘altro poeta è invece un versoliberista moderno, la cui scrittura «non

comincia dalla fine» e nei cui testi «il ritmo […] non è scandito […] per strutture iterative

riconoscibili, salvo significative e assai interessanti eccezioni (dove la rima, come già in Leopardi, è

occultata o travestita)».(18) E dunque: l‘assetto strofico-versale «esposto all‘―offesa‖ della prosa»

(Coletti) e la natura profonda di discorso prosastico in quanto discorso «dritto, che va avanti»

(Antonelli) dei testi del gruppo a può ben giustificare, anche in presenza di una segmentazione che

induca a classificare queste linee tipografiche come versi (Agamben-Menichetti), una definizione

contrastiva come quella di nonversi.

2. E tuttavia, la questione va ridiscussa a partire dal peculiare assetto del frammento 13, al

centro del Giornale: assetto diverso sia da quello dei versi che da quello dei nonversi. È infatti in

prosa: come denunciano, se non bastasse l‘allineamento delle linee tipografiche sia a destra che a

sinistra, le parole spezzate tra una linea e l‘altra (differente nelle due stampe in volume). La

divisione interna è in tre capoversi (il secondo inizia con «le più impegnative...», il terzo con

«Anche i nomi...»), segnalati dall‘accapo ma senza rientro a destra:

le lettere si presentano insieme affollando la testa...: a chi la prima?... e le altre, in quale ordine?...

le più impegnative perdono posizioni durante il dilemma... ogni nome infatti porta con sé un carico di sensazioni

che, sbilanciate da supposizioni e incertezze, finiscono col rimandarsi e poi col nascondersi...

anche i nomi delle lettere leggere, quelle che possono essere contentate da un giusto motto, si inerpicano per

viottoli e cugni, e da lassù osservano varie piste di veri e sensibili detti che corrono verso il bosco... e anche lui,

il potenziale epistolatore, disputando con se stesso, agitandosi per un verso e per l‘altro immobilizzandosi,

guarda il balbettio delle foglie nel folto fondo oscuro... (19)

Non interessa discutere qui dell‘appartenenza di questo testo al genere della «poesia in prosa» (nella

denominazione di Giovannetti),(20) ma accertare la natura prosastica di queste linee tipografiche in

ragione della non-pertinenza, alla lettura, del principio dell‘enjambement. E in effetti, come l‘autore

ricordava nella nota trascritta in apertura, questo è uno dei frammenti del Giornale provenienti da

una sequenza già data alle stampe come Prose inermi.(21) Qui la nostra prosa compare con titolo

(lettere), ultimo elemento (di cinque) della serie spostamenti e dell‘intera sequenza, senza altre

varianti che nella divisione in capoversi. (22) Ma come vanno le cose nel caso degli altri due testi

che il Giornale acquisisce dalle Prose inermi? Il frammento 14, secondo degli spostamenti, aveva

titolo (chissà) e presentava una divisione del continuum prosastico in due capoversi:

chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva a un punto di snodo in cui la vista può scorgere un luogo di chiara

sosta…

oppure, abbandonando la finestra, puntare sotto la propria porta, e scavare imbucarsi scurricolare fino a una

grotta… nei cui graffiti è sconosciuto il muro del pianto…(23)

Nel Giornale abbiamo sette versi, determinati – senza altre varianti –dall‘imposizione di sei accapo,

uno dei quali discende dall‘originaria divisione in capoversi:

chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva

a un punto di snodo in cui la vista

può scorgere un luogo di chiara sosta…

oppure, abbandonando la finestra, puntare sotto

la propria porta, e scavare imbucarsi scurricolare

fino a una grotta… nei cui graffiti è sconosciuto

il muro del pianto…(24)

Sottoposte a un tradizionale computo metrico, le sette linee risultano, nell‘ordine, un verso lungo di

quattordici sillabe, un decasillabo di 2a5

a, un endecasillabo di 2

a5

a8

a (dunque non canonico), due

versi di sedici sillabe (entrambi espansioni di endecasillabi, rispettivamente di 2a6

a e di 4

a7

a), un

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verso di quattordici sillabe, un senario. Le linee sono allineate solo sul lato sinistro, ma il

protendersi – pur smarginato – di quattro di esse verso il lato destro della pagina suggerisce un

velocissimo test. Le righe di prosa del frammento 13 del Giornale («le lettere si presentano

insieme...»), misurate nella stampa della prima edizione in volume, sono di 89 mm. Traccio dunque

a matita una riga verticale a questa stessa distanza dall‘inizio del margine della stampa a sinistra e

verifico che le linee dalla quarta alla sesta arrivano a lambire la riga. Se copro con una cartolina le

prime tre linee, questa parte del testo non ha un aspetto troppo diverso dal corrispondente capoverso

in prosa. Non così nella prima parte, dove la seconda linea si ferma a 27 mm dalla mia riga. Il caso

della prima linea è più problematico, perché i 5 mm residui potrebbero contenere, dopo «arriva», la

preposizione «a», ma non «a un» né, evidentemente, «a un punto». Quanto alla terza, essa lascia un

bianco residuo di 18 mm, ma la sua fine coincide – come ho detto – con la fine dell‘originario

primo capoverso. E dunque: è possibile che la segmentazione delle linee 4-6, e forse anche della

prima, sia stata indotta, o suggerita – con qualche concessione all‘alea che ha fissato i margini dello

specchio di stampa – dalla disponibilità materiale di spazio? In che misura, in altre parole, è

pertinente, qui, il concetto di enjambement? Una risposta può venire dal confronto di questa

redazione con quella nelle Poesie. Ebbene, qui la stampa può estendersi per 90 mm; il che significa

che, mutato il corpo del carattere (ora più piccolo), la distribuzione del materiale tipografico nelle

diverse linee sarebbe potuta essere anche sensibilmente diversa. È, invece, esattamente la stessa; il

che però, se non lascia dubbio sull‘intenzionalità di questa segmentazione, non ci fa escludere che

l‘intenzione possa essere intervenuta come approvazione o sanzione di un evento esterno che si è

dato, inizialmente, come aleatorio. Può essere questo (anche questo) il significato di nonversi?

Saremmo allora di fronte all‘individuazione di un‘unità intermedia tra il verso (determinato

intenzionalmente) e la riga di prosa (determinata aleatoriamente); cosicché verrebbe meno

un‘opposizione binaria di verso e prosa, e lo stesso concetto di enjambement dovrebbe essere

radicalmente discusso. Comporterebbe, questa soluzione, che le denominazioni versi e nonversi non

sarebbero sovrapponibili ai tipi di organizzazione testuali chiamati sopra, rispettivamente, b e a, ma

individuerebbero possibilità di segmentazioni di diverso valore anche all‘interno dello stesso tipo a.

Nel frammento 14, per esempio, sarebbero nonversi le linee 1 e 4-6, versi le linee 2-3, e rimarrebbe

incerto lo status della linea finale. Certo è che la segmentazione del testo in esame, pur ribadita da

una ristampa che la ripropone identica, si lascia scoprire come non-definitiva quando il lettore di De

Signoribus incontra in Ronda dei conversi, prima del Congedo, la poesia intitolata Ultima (che

trascrivo mutando in tondo il corsivo originale):

chissà se, dopo un tortuoso arrancare, si arriva

a un punto di snodo da cui la vista può scorgere

un luogo di chiara sosta…

oppure, abbandonata la finestra, puntare sotto

la propria porta, e scavare scansare imbucarsi

scurricolare fino a una grotta… nei cui graffiti

è sconosciuto il muro del pianto…(25)

Con poche varianti – «in cui la vista» > «da cui la v.», «abbandonando la finestra» > «abbandonata

la f.», «scavare imbucarsi» > «scavare scansare imbucarsi» – Ultima è una nuova trascrizione

dell‘originaria prosa (chissà).(26) Rispetto al testo del Giornale risulta confermata la composizione

delle linee 1 e 4 (ma, ancora, mancherebbe lo spazio per anticipare alle linee precedenti «a un pianto» e «la propria porta»). A sorpresa, è diversa la segmentazione delle linee 2-3, che nella prima

redazione non appariva suggerita da ragioni esterne, materiali; ed è un assetto che occulta la

sensibilissima consonanza vista : sosta. Si conferma l‘accapo che deriva dall‘originaria divisione in

capoversi, mentre nella segmentazione delle linee 5-7 pare avere un ruolo decisivo l‘inserzione di

un nuovo infinito. Vedo infatti che lo spazio non è sufficiente per la collocazione di «scurricolare»

in chiusura della linea 5, e che lo stesso vale per il predicato «è sconosciuto» in chiusura della linea

6. Anche questo assetto è confermato nelle Poesie, che si trovano così a ospitare le due redazioni.

Da tutto ciò mi pare si possa ricavare l‘idea di un testo che ha un solo punto indiscutibilmente

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fermo: la bipartizione, con inizio della seconda parte sulla parola «Oppure»; un testo, cioè, che

conferma nella diversa possibilità di distribuzione del materiale lessicale nelle linee tipografiche la

segmentazione della prosa che l‘ha originato.

3. Qualche altra suggestione potrà venire dal frammento 23 del Giornale:

nella landa sull‘alba, un lampo di mezzosogno:

sono sopra una rupe, su un alto sanatorio...

assente ogni vita, immane il silenzio...

se mi affaccio rabbrividisco...: in basso

le cicatrici delle valli, tutt‘intorno – ma distanti –

le svettanti creste a corona...,

esposto sulla finestrella, fatico a respirare,

desidero un polmone di piuma...

non conosco l‘oltre di quelle punte smeriglie,

temo la vista dell‘aquila, m‘infagotto e attendo...

finché qualcuno mi sorprende alle spalle,

mi stacca e sospende nel vuoto...

il vuoto è un frammezzo dove non posso nulla,

mi abbandono... e fido nella sua resistenza

e bontà.

Qui i versi tendono alla situazione dell‘«enjambement zero» (Agamben): i soli punti di

asincronismo metrico-sintattico sono ai vv. 4-5 (anticipazione – scarsamente marcata – del

complemento di luogo) e ai vv. 14-15 (rottura della dittologia nominale sindetica). Per il resto, non

solo è assente l‘enjambement, ma tutti i versi si concludono con una pausa interpuntiva. La natura di

verso sintattico(27) ci allontana anch‘essa – sia pure diversamente dalla determinazione para-

aleatoria, forse, di alcune linee esaminate in precedenza – dalla natura versale esibita

dall‘enjambement. Ora, l‘origine prosastica – sia o non sia documentabile – di un determinato luogo

poetico può certo inerzialmente o aleatoriamente indurre una certa scelta di segmentazione, ma non

annulla, è evidente, la libertà dell‘artefice. Prendiamo come esempio due versi del frammento 18,

che a partire dal v. 7 (da «puntando sulla sorpresa...») trascrive con qualche variante il quarto degli

spostamenti, (la prova).(28) Dall‘incipit della prosa, «puntando sulla sorpresa, prova a circoscrivere

il moto interiore...», De Signoribus ha ricavato

allora, puntando sulla sorpresa, provi

a circoscrivere quel moto interiore...

La larghezza dello specchio non avrebbe reso possibile, è vero,

*allora, puntando sulla sorpresa, provi a circoscrivere

quel moto interiore...;

ma era pur sempre praticabile l‘appoggio delle unità metriche sulle pause sintattiche:

*allora, puntando sulla sorpresa,

provi a circoscrivere quel moto interiore...

Ciò conferma la natura di enjambement di questo taglio, e di conseguenza ci fa giudicare come

pienamente versale lo status formale di questo luogo. Pare insomma che nei testi del tipo a, non

intervenendo in alcun modo come fattore produttivo di accapo la lunghezza sillabica delle linee, ad

agire siano tre fattori diversi, e cioè: la quantità di spazio disponibile nel senso orizzontale della

pagina; la volontà di marcare il discorso come poesia con la libera determinazione di accapo che si

configurino come enjambements; la coincidenza delle linee con segmenti del discorso

sintatticamente definiti. L‘artefice si troverebbe, allora, nella condizione di poter accettare l‘alea

dell‘accapo determinato dallo spazio disponibile, ma anche di respingerla, decidendo allora per una

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diversa – intenzionale – forma dell‘asincronismo metrico-sintattico, oppure affidando alle partizioni

della sintassi la segmentazione delle linee.

4. La prevalenza di uno o di un altro di questi fattori o valori determinativi varierà nei diversi

luoghi del testo; può variare però – come si è già visto – anche in diacronia. In particolare, la

pressione di un verso ―sintattico‖ si può seguire bene in un‘altra trafila variantistica. Siamo ora nella

prima sezione di Ronda dei conversi, Nel passaggio del millennio. Sono sette testi anticipati sulla

rivista «Po&sie», dove l‘originale italiano accompagna, seguendola in corpo minore, la traduzione

francese di Martin Rueff.(29) Il quinto elemento della serie si compone qui di due capoversi in

prosa:

eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco del respiro, uno sbocco di pianto. Riavvolgersi nel nastro per

cercare una sosta, si rischia di non fermarsi più... Esita pure il fotogramma vitale. Tutto è la luce del dopo.

Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho bussato alla tua porta... ma tu, mi hai chiamato davvero,

davvero m‘avresti aperto?

Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho incontrato chi ho potuto!... Ma quanta fraternità dispersa

per un nulla, quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi, spogli e lontani!...

Come gli altri testi della sequenza, «eppure è un batticuore...» è accolto in Ronda dei conversi come

serie di linee tipografiche tendenzialmente lunghe, allineate sul margine sinistro e sfrangiate invece

sul destro; e nella stessa redazione si legge nelle Poesie:

eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco

del respiro, uno sbocco di pianto... A riavvolgersi nel

nastro per cercare un‘identità, si rischia di non

fermarsi più... Esita pure il fotogramma vitale... Tutto è

alla luce del dopo.

Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho

bussato alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato

davvero?... davvero m‘avresti aperto?...

Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho

incontrato chi ho potuto!...

Ma quanta fraternità dispersa per un passo o un nulla,

quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi,

spogli e lontani!... (30)

Non c‘è dubbio sulla volontà di segnare tre soste del discorso (tre rime) con gli accapo delle linee 6,

9 (a ripresa dell‘accapo prosastico) e 11. Qualche incertezza, invece, sorge sulla natura di tutte le

altre segmentazioni. E in effetti, quando il testo torna a essere pubblicato in Francia, nella

traduzione integrale di Ronda dei conversi, esso conserva quei tre accapo («Dunque non ho

risposto...», «Chiunque può dire...», «Ma quanta fraternità...»), mentre gli altri – con una sola

eccezione – sezionano l‘insieme in maniera diversa, tanto che le linee non sono più tredici ma

undici:

eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco del

respiro, uno sbocco di pianto... A riavvolgersi nel nastro per

cercare un‘identità, si rischia di non fermarsi più... Esita

pure il fotogramma vitale... Tutto è alla luce del dopo.

Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho bussato

alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato davvero?...

davvero m‘avresti aperto?...

Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella ho

incontrato chi ho potuto!...

Ma quanta fraternità dispersa per un nulla, quanto nulla ci

ha invaso lasciandoci sugli alberi, spogli e lontani!... (31)

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Siamo confermati così nel sospetto della natura aleatoria di tutti gli accapo estranei alla

quadripartizione del testo. L‘allineamento a sinistra delle righe tipografiche non intende dunque

segnalare una natura versale, ma piuttosto marcare, in negativo, la non-identificazione con un

assetto prosastico. Ma non finisce qui. De Signoribus mi anticipa (è il dicembre del 2009) che in

una futura edizione delle Poesie «eppure è un batticuore...» si leggerà in una quarta redazione,

questa:

eppure è un batticuore continuare nel 2, un blocco

del respiro, uno sbocco di pianto...

A riavvolgersi nel nastro per cercare un‘identità,

si rischia di non fermarsi più...

Esita pure il fotogramma vitale...

Tutto è alla luce del dopo.

Dunque non ho risposto alla tua chiamata, non ho

bussato alla tua porta?... ma tu, mi hai chiamato

davvero?... davvero m‘avresti aperto?...

Chiunque può dire: non avevo altra strada e in quella

ho incontrato chi ho potuto!...

Ma quanta fraternità dispersa per un passo o un nulla,

quanto nulla ci ha invaso lasciandoci sugli alberi,

spogli e lontani!...

È chiaro che questa nuova scansione, di quattordici linee, tende a far coincidere gli accapo con le

pause della sintassi. Il risultato è che le residue rotture del sincronismo metrico-sintattico,

emergendo nella loro totale intenzionalità (notevolissima per funzione iconica, in particolare, la

scissione di nome e genitivo in apertura), assumono senza incertezze il valore di enjambements, e

segnano l‘appartenenza del testo al campo della poesia.

5. Ma Ronda dei conversi, come anticipato in apertura di queste pagine, è un percorso «di

versi, nonversi e quasiprose».(32) Quale significato dare al termine quasiprosa? Le risposte

possibili mi sembrano due:

I) Quasiprosa può essere inteso come riferimento a qualcosa di diverso dai testi per i quali si

parla di nonversi, e cioè alle poesie in prosa: testi che l‘impaginazione fa catalogare come prosastici

per l‘allineamento sia a sinistra che a destra delle linee di stampa. Rientrerebbero in questo tipo il

frammento 13 del Giornale («le lettere si presentano insieme...») e, in Istmi e chiuse, (trapasso di

stagione):(33) una breve prosa (undici righe nella prima stampa in volume, nove nelle Poesie) che,

come il frammento 13, De Signoribus ricava da un testo precedente, di natura saggistico-

rievocativa.(34) Ronda dei conversi aggiunge due esemplari: il quarto elemento di Nel passaggio

del millennio («chi potrò ringraziare...») e La voce remota. Il primo si compone di due capoversi,

che nelle pagine della Ronda e delle Poesie (con identica distribuzione del materiale lessicale)

prendono rispettivamente una e quattro righe (le segno con le sbarrette oblique):

chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?...

c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un / marchio indistinto e illeggibile... la sua forma dolorosa /

dal profondo dice: mi sentirai anche nell‘ovatta e nel gelo, nel / clamore e nella polvere... andrai avanti per

questo.(35)

Va tenuto presente però che diversa è l‘impaginazione nell‘edizione francese:

chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?... L‘ho

voluto...

c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza, un

marchio indistinto e illeggibile..., la sua forma dolorosa dal

profondo dice: mi sentirai nell‘ovatta e nel gelo, nel

clamore e nella polvere... andrai avanti per questo;(36)

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e che la redazione futura – nelle intenzioni attuali del poeta – avrà una scansione senz‘altro

sintattica (e nella direzione del verso biblico-whitmaniano, con parallelismus membrorum) delle

linee:

chi potrò ringraziare d‘essere giunto alla fine dell‘1?...

c‘è un elemento di fuoco prima di ogni coscienza,

un marchio indistinto e illeggibile...

la sua forma dolorosa dal profondo dice:

mi sentirai nell‘ovatta e nel gelo,

nel clamore e nella polvere...

andrai avanti per questo.

La voce remota aggrega tre capoversi prosastici, cui segue però – evidenziato dal marcato rientro a

sinistra – un segmento conclusivo «di ragione epodica»(37) e natura francamente – per contrasto –

poetica:

strappo dopo strappo... ma, infine, per un impercettibile / stacco, si sgrana l‘interna vena e agita tutta la pianta

del / corpo, l‘aggruma, la secca...

s‘incassano i rami nel pettorale e lì s‘incrocia e si strazia il / rimanente sacrificio...

al suo strabocco, fa scudo la rinascente, remota, voce tra / la sponda del letto e il muro bianco

– salvami, o tu, ti prego –.(38)

In un caso e nell‘altro – il particolare forse non è indifferente – l‘allineamento a sinistra delle righe

tipografiche non prevede la spezzatura dell‘unità lessicale tra una riga e l‘altra.

II) Giusta questa ipotesi, andrebbe classificato come quasiprosa uno dei testi della sequenza

Quadri della penitenza, che De Signoribus ha pubblicato in rivista nel 2002 (la data è intermedia tra

le uscite di Principio del giorno e Ronda dei conversi).(39) Invece, nella nota introduttiva, il poeta

esordisce ricordando che «i versi e i non versi [sic] della sequenza sono stati scritti in tempi

recenti»; e non è dubbio che sia «vista da un‟estrema finestra...» il referente degli annunciati non

versi. Sono tre capoversi prosastici (anche con spezzatura delle unità lessicali) che nella prima

stampa prendono sette righe i due liminari, una sola riga quello centrale:

vista da un‘estrema finestra, la piazza si angola e aguzza... e il palazzo, a cui fa da corona, sembra, a sua volta,

ripiegarsi all‘indietro, come se, all‘avanzare dei passi, volesse retrocedere...: essa, l‘anticabella, è stata rigenerata

e quindi resa deserta..., separata dal corpo del mondo prima da larghe fioriere poi da blocchi di marmo e dietro

da alte cancellate e a ridosso da scure figure armate e mascherate...

vedi in quella nobile piazza qualcosa di tuo...?

da un‘aria irreale di un tramonto rappreso di sangue vi arrivano uomini curvi e felini come i profili dei predatori:

tre alle ali, due alla testa e due alla coda..., in mezzo, uno da loro non diverso, all‘apparenza un po‘ più articolato,

con il collo semovente e lo sguardo più obliquo...: egli, il protetto, è il provvidente, colui che pensa per la sua

brava gente, il sacro bove o il sacro boia che ogni luogo sfa...

Nonversi e quasiprose sarebbero dunque sinonimi? O a questa data De Signoribus non ha ancora

trovato il termine quasiprosa, e unifica sotto nonversi, indistintamente, ciò che non rientra nei

versi? Si potrebbe pensare, allora, che con la disponibilità del nuovo termine, e cioè a partire da

Ronda dei conversi, la distinzione non sia qualitativa ma quantitativa, e derivi – dal punto di vista

dell‘artefice – dalla variabile incidenza di alea e intenzione nel determinare la composizione delle linee tipografiche. Ciò lascia – anche dal punto di vista del lettore – margini di incertezza piuttosto

ampi. E tuttavia, è chiaro che due poesie che si leggono in Ronda dei conversi l‘una a fronte

dell‘altra, Delirio-Idillio e Andare, pur formalmente assimilabili per la comune opposizione ai versi

di quel libro, appaiono nel contempo – già all‘impressione visiva – diverse:

Delirio-Idillio

in chi imbattersi può mai un martire domestico?...

Su e giù per le scale è il viale, il buio sottoscala è il

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burrone, sul tetto si attanaglia il piccione azzoppato...

Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con mosse e finte, con

spinte e pianti...

Potessi tu entrare, altrocuore, nel portone, per sbaglio

o per riparo... potessi stare lì, un istante!...

egli farebbe quattro rampe di scale in quattro salti...

e lì atterrerebbe, davanti alla tua vesticciola di mela...

Poi non saprebbe dirti perché è al mondo;(40)

Andare

scese dalla corriera con una pesante valigia scura...

nello slargo non c‘era altro che un‘alta neve, che

occultando, infiniva...:

verso dove il luogo della formazione?

alle spalle, le mura della città in difesa; davanti,

l‘aperto...

una stretta strada di fango, il passo inospitale tra il bianco

che anneriva...

annottava...

l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso della

volontà.(41)

In Delirio-Idillio la partizione fondamentale è data dalle unità sintattiche che occupano le linee 1

(A), 2-3 (B), 4-5 (C), 6-7 (D), 8-9 (E), 10 (F), in un disegno simmetrico che colloca le due frasi più

brevi – A, F – all‘inizio e alla fine.(42) La distribuzione del materiale lessicale delle frasi estese su

due linee sembra accettare l‘alea del margine destro in B e in C (con sospensione in fine linea

dell‘articolo e della preposizione);(43) si modella sulla bipartizione in due coordinate in E; sceglie

l‘asincronismo metrico-sintattico – ma evitando l‘esposizione della congiunzione «o»,

materialmente sostenibile – in D. Anche in Andare, che ho trascritto dalle Poesie, la partizione è in

prima istanza sintattica: 1 (A), 2-3 (B), 4 (C), 5-6 (D), 7-8 (E), 9 (F), 10-11 (G). Tuttavia, un ruolo

più incisivo pare avere qui l‘intenzionalità, in almeno tre luoghi. In D, che nella prima edizione in

volume si distendeva su un‘unica linea, l‘emarginazione de «l‘aperto» a nuova linea risponde forse

alla volontà di una suggestione iconica. In E l‘isolamento della relativa nella seconda linea rafforza

il parallelismo dell‘imperfetto «anneriva» con il successivo «annottava» e con il precedente

«infiniva» (si tenga presente che, secondo una dichiarazione dell‘autore, è la mancanza di spazio

tipografico a determinare una scansione che sarebbe dovuta essere, al meglio, «nello slargo non

c‘era altro che un‘alta neve, che, occultando, / infiniva»; insieme, si consideri che con «bianco» la

linea arriva a coprire interamente i 90 mm disponibili, il che rende impossibile, per ipotesi, *«[...]

tra il bianco che / anneriva»). In G, la scelta di separare il nome dalla preposizione articolata (contro

*«l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso / della volontà») porta all‘incolonnamento di tre

quadrisillabi («che anneriva» : «annottava» : «volontà»), al termine di una serie che comprende, a

ritroso, il trisillabo «l‘aperto» e un primo quadrisillabo, «infiniva», parte di un settenario ma ben

definito dalle pause della sintassi.(44)

Difficile andar oltre, e non troppo produttivo tentare una rubricazione stretta tra nonversi e

quasiprose di tutti i testi di Ronda dei conversi che non rientrano tra i versi (sono, con quelli della

sequenza Nel passaggio del millennio e gli altri già nominati, È vero, Paesaggio, Altro paesaggio,

Dialogo, Il terzo occhio, Teatro spento, Oltre). Andrà registrato invece, con la Ronda, un fatto

nuovo. Ecco Quesito del decano:

se rmanéme tutti ècche

a vardacce tèste a tèste

e la lengue ncé se sècche

pò la face facce fèste?...

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se restiamo tutti qui

a guardarci testa a testa

se la lingua non ci si secca

può la falce farci festa?...

(a quella domanda, tutti guardano il decano con

afflizione... solo uno in lui riconosce il vecchio che

sedeva, con la stessa ossessione, tra i vecchi di via

Sabotino, cinquanta anni prima).(45)

Non si tratta dell‘accostamento strofico di testo dialettale e traduzione italiana (l‘edizione francese

le compone l‘una a fronte dell‘altra, e le neutralizza nella traduzione),(46) ma della possibilità che i

versi e l‘altro dai versi convivano sotto lo stesso titolo. Poco importa se le ultime quattro righe

siano dei nonversi o una quasiprosa (come mi pare andrebbero classificate),(47) perché il fatto

fondamentale è il rapporto dialettico che si stabilisce con la quartina di ottonari a due rime alternate.

Il percorso di De Signoribus ha portato così, nel punto più avanzato di questa ricerca formale, alla

reviviscenza di una forma antica e gloriosa, quella della cantata.

Poscritto

L‘interlocuzione con Eugenio De Signoribus durante la stesura di queste pagine mi ha permesso –

lo si è visto – di dare notizia delle diverse redazioni che alcuni testi di Ronda dei conversi avranno

in un‘eventuale nuova edizione dell‘«Elefante» garzantiano con le Poesie (1976-2007). A lavori

ultimati, invio una stampa del saggio a De Signoribus, che mi risponde il 28 dicembre con la lettera

che trascrivo (il cui explicit – è opportuno segnalarlo – riprende un verso di Prima dell‟alfabeto, in

Ronda dei conversi).(48)

Caro Rodolfo,

forse è necessario che provi a spiegare le mie intenzioni in merito alle secche quanto

impulsive note da me apposte in Principio del giorno (2000) e Ronda dei conversi (2005). Nel

primo caso, avevo riferito di «versi e nonversi» pensando esclusivamente alla sequenza titolata

Giornale, dove in effetti, nell‘avvicendarsi degli uni e degli altri, solo un testo rimaneva ―fuori‖

(frammento 13), da sé o a vista qualificandosi come prosa. Era però la conseguenza d‘una mia

incertezza, protrattasi fino al momento della consegna all‘Editore della stesura finale. In realtà,

avevo in mente di sistemare le parole in modo che non andassero a spezzarsi sulla linea destra, di

rimandarle a quella successiva laddove una pausa, magari lo spazio d‘una virgola, l‘avesse

concesso. Così facendo, non avrei però cambiato lo stato del testo: si sarebbe appena scostato da

una ―prosa poetica‖ (espressione che, di fatto, può contenere ogni scritto che non sia in versi – e

quindi anche i «nonversi» e il poco che resta prima del più compatto corpo della prosa).

La sensazione di una terza possibilità si è conclamata alla rilettura di Ronda dei conversi, quando

ho avvertito l‘esigenza (o forse un eccesso di scrupolo se non un‘allucinazione sonora) di chiamarla

«quasiprosa», senza ragionare sulla base di istituti metrici o teorie che non possono appartenermi.

Avrei forse fatto meglio a far finta di niente... ma non ho potuto, perché tutto il discorso-percorso,

passo su passo, poggiava su punti di verità, percettiva, psichica. La ―natura‖ di una poesia (il suo

suono, l‘ampiezza del suo respiro) è già nella sua nascita.

Provo a spiegarmi: un marcato sentire produce un quadro emotivo complesso, da cui scatta

un‘immagine, o un pensiero che, nella sua prima piega, trova un appunto, l‘inizio di qualcosa che va

a prendere forma... In quest‘inizio è già il suo suono. Si avverte cioè un ritmo e il suo protrarsi, per

poche o più parole; si avverte la necessità d‘una pausa (a volte appena percepibile se non confusa)

che vuole l‘accapo, da sé il da dire si situa sulla linea dove il senso, quel senso, si dipana in sillabe.

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Dove forse una rima viene naturale, sulla scia della prima uscita… o forse no. Ma lo schema che

resta sulla pagina dice sommariamente già di sé, o di quello che forse potrà essere.

Solo a quel punto avviene l‘autochiarimento, la verifica di quanto, quell‘annotazione,

corrisponda a ―quel sentire‖. Poi la cerca delle soluzioni possibili per l‘avvicinamento, l‘attesa, a

volte il rimando, la ripresa o l‘abbandono. È la fase dell‘officina, che, pur nell‘applicazione ad

accomodare un verso o una poesia, mai tradirà il punto di verità della sua nascita. Piuttosto niente, o

scarti di luce da conservare.

La poesia, che così va a formarsi, dovrebbe contenere l‘emozione che l‘ha generata, il suo

dibattersi di verso in verso: non conclamare la sua necessità ma puntellarne il senso, il suo

procedere («a ogni passo crea la sua strada», come si dice nel frammento 21 di Principio del

giorno), seppure incerto, senza fine. Dovrebbe contenere un‘eco della battaglia o della traversata

dentro l‘interno sé... e, a fronte del buio, del non ancora possibile detto, dovrebbe passare nello

spazio dell‘ascoltatore, muovere una condivisione, un aiuto...

Quando il primo sentire (un grande dolore, un‘insopportabile ingiustizia o uno sguardo sul vasto

mondo o natura) necessita subito del ―racconto‖, della descrizione del quadro o di un dettaglio,

dell‘articolazione d‘un pensiero, la parola che inizia porta con sé tutto il resto. Il grumo verbale che,

forse, si scioglie, non considera più l‘ordine sillabico o sonoro come autorevole per il punto di

svolta: l‘accapo è qualcosa che si può fare seguendo al meglio il respiro e che si può aggiustare in

un secondo momento.

La lingua però mantiene l‘insita tensione e, come sempre, cerca di corrisponderle alla lettera,

senza deroghe o supplenze… Il testo che così va a disporsi, con righe scomponibili che possono

lambire il margine o stringersi in una battuta, è quello che dovrebbe giustificare l‘espressione

«nonversi».

Ma non si distanzia di molto la giustificazione di «quasiprose». Forse è una sfumatura, forse due.

C‘è quella di non frangere la parola contro la gabbia della pagina, non per un gusto solo estetico ma

per seguire anche qui la scelta di un accapo. Quando, all‘apparenza, non s‘avverte la necessità della

scomposizione e il più ampio flusso verbale pare non contempli una benché minima sosta, né il

bianco prima del margine: questo c‘è, per il fatto stesso che il testo è nato per rispondere a uno

stigma poetico; perché può intervenire lo scatto sonoro d‘un frammezzo o quello di una chiusa. C‘è,

basta riavvolgere il nastro e riascoltare la propria voce interiore… Al di qua delle proprie

dissonanze e incertezze, al di qua della volontà, prima della verità

Eugenio

Rodolfo Zucco

Note.

(1) E. De Signoribus, Principio del giorno, Milano, Garzanti (nella collana ―verde‖ «poesia»), 2000 (che

citerò anche nella sigla PG); Id., Ronda dei conversi (1999-2004), Milano, Garzanti («poesia»), 2005 (RC).

Entrambi i libri si leggono anche in Id., Poesie (1976-2007), Milano, Garzanti («gli elefanti poesia»), 2008

(P).

(2) Non conosco altre attestazioni della parola nonversi con scrizione continua; ma trovo non-versi – con

diverso significato – in P. Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, in Id., Dalla

poesia in prosa al rap. Tradizioni e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea, Novara, Interlinea,

2008, pp. 19-45, a p. 21 (dove si dice della «comprensione quasi spontanea dei non-versi, poniamo, di

Sbarbaro e di Campana» da parte di Montale).

(3) PG, pp. 123-148; P, pp. 451-476.

(4) PG, p. 151; P, pp. 478-479.

(5) «Diario della settimana», V, 26, 30 giugno - 6 luglio 2000, p. 62 (con titolo Aspettando la grazia).

(6) G. Folena, La cantata e Vivaldi, in Id., L‟italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento,

Torino, Einaudi, 1983, pp. 262-281, a p. 266.

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(7) V. Coletti, Metro e perimetro della poesia nel Novecento, in Id., Italiano d‟autore. Saggi di lingua e

letteratura del Novecento, Genova, Marietti, 1989, pp. 99-106; i passi citati di seguito sono alle pp. 103-104.

(8) Si noti che il frammento 9, stroficamente partito in due lasse nella redazione delle Poesie (p. 461), era un

blocco indiviso di versi nella prima edizione di Principio del giorno (p. 133).

(9) PG, pp. 142-143; P, pp. 470-471.

(10) G. Agamben, Idea della prosa, in Id., Idea della prosa, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 21-23, a p. 21. In

termini analoghi si era espresso A. Menichetti, Problemi della metrica, in Letteratura italiana, vol. III: Le

forme del testo, t. I: Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 349-390, a p. 352: «A livello minimale il

dato che più invariabilmente configura come non-prosa parte della produzione letteraria latina e italiana è

dunque la segmentazione: ciò vuol dire che, a differenza dei prosastici, i testi in versi sono stati costruiti e si

presentano suddivisi in segmenti oggettivamente riconoscibili (per lo più contrassegnati dall‘a capo), la cui

coincidenza con le pausazioni logico-sintattiche ed emotive del discorso non è né obbligatoria né, là ove si

verifichi, pertinente ai fini della specificità metrica».

(11) PG, p. 125; P, p. 453.

(12) PG, p. 145; P, p. 473.

(13) Devo rinviare, per una trattazione generale, al mio Per uno studio della rima in De Signoribus:

„Principio del giorno‟, «Studi novecenteschi», XXIX, 63-64, giugno-dicembre 2002, pp. 339-361.

(14) R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico. Costruzione del testo e critica nella poesia rimata,

«Critica del testo», I/1, 1998 (Il testo e il tempo), pp. 177-201, a p. 196. Cfr. V. Magrelli, Su „Ora serrata

retinae‟ e altra poesia, in Preparar parole. Conversazioni sulla poesia, Firenze, Risma, 1992, pp. 9-23, a p.

18: «Quando l‘editore mi ha chiesto un titolo per il primo libro, mi sono messo a cercare in un testo

universitario, un trattato sull‘occhio – io che non so niente di medicina – a caccia di suoni, di parole, finché

ho trovato questi tre titoli: Rima palpebralis – che è la fessura dell‘occhio, ―rima‖ vuol dire fessura, mi

piaceva questo gioco di parole tra la rima e la fessura –; Aequator lentis [...], e poi il titolo vero e proprio, che

sembra una preghiera: Ora serrata retinae». Cfr. anche, per una discussione sul valore dei latini rima e rimor

nell‘esercizio della lettura silenziosa – a partire dall‘agostiniano (Conf. VI, 3, 3), riferito ad Ambrogio, «cum

legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur» –, M. Tasinato, L‟occhio del silenzio

(Encomio della lettura), Venezia, Arsenale, 1986. In relazione alla proposta di Antonelli, segnalo l‘accezione

di rima che l‘autrice riporta dal Forcellini (s.v. rima), a p. 18: «―rimam aliquam reperire dicitur de

tergiversatoribus‖ ossia di coloro che trovan modo d‘uscir d‘impaccio volgendo le terga (―tergiversor

proprie est tergum obvertere et subterfugere‖)».

(15) R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico, cit., p. 193.

(16) Ivi, p. 198. Il passo continua specificando: «se l‘ipotesi appena formulata è vera».

(17) Ivi, pp. 189-190.

(18) Ivi, p. 198.

(19) PG, p. 137; P, p. 465.

(20) Cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell‟ossimoro. Note sulla poesia in prosa, cit.

(21) E. De Signoribus, Prose inermi, incisioni di: R. Guerra, N. Ricci, C. Bruzzesi… [et al.], Casette d‘Ete

(AP), Grafiche Fioroni, 1998; poi (senza mutamenti nella composizione tipografica) in Segni verso uno.

Eugenio De Signoribus, „Ariette occidentali‟ Ŕ „Prose inermi‟, accompagnate da 29 incisioni, Casette d‘Ete

(AP), Grafiche Fioroni, 1998, pp. 75-135, da cui si citerà.

(22) Segni verso uno, cit., p. 134. Il secondo comincia con «anche i nomi...», il terzo con «e anche lui...»

(segnalo però la perfetta coincidenza della prima riga tipografica con «... la testa:», per cui è ipotizzabile

anche una divisione non in tre ma in quattro capoversi).

(23) Segni verso uno, cit., p. 122.

(24) PG, p. 138; P, p. 466.

(25) RC, p. 124; P, p. 582.

(26) Cfr. R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rimico, cit., p. 198: «Non per nulla proprio lo spazio bianco

diverrà oggetto esso stesso di attività variantistica (a cominciare dall‘archetipo Pascoli), o subirà, presso

l‘autore, le mutazioni imposte dalla traduzione linguistica e da una nuova scansione versale e ritmica (si veda

Ungaretti e l‘autotraduzione di Militari / Soldati)».

(27) Cfr. P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi,

Roma, Carocci, 2005, ad indicem, s.v. Verso lungo sintattico, biblico o whitmaniano (e in particolare pp.

127-130).

(28) Segni verso uno, cit., p. 130.

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(29) E. De Signoribus, Passage du millénaire, traduit et présenté par M. Rueff, «Po&sie», 109, 2004 (30 ans

de poésie italienne), pp. 296-297 (entro la sezione Eugenio De Signoribus, pp. 295-298).

(30) RC, p. 22; P, p. 494.

(31) E. De Signoribus, Ronde des convers 1999-2004, traduction de l‘italien, postface et commentaires de M.

Rueff, préface d‘Y. Bonnefoy, Paris, Verdier, 2007, p. 22. Si noti, alla penultima linea, che la lezione è «per

un nulla», anziché «per un passo o un nulla»: lezione, questa, che avrebbe costretto a una diversa

segmentazione delle due linee.

(32) RC, p. 131; P, p. 587.

(33) E. De Signoribus, Istmi e chiuse (1989-1995), Venezia, Marsilio, 1996, p. 47; P, p. 249.

(34) E. De Signoribus, Due stagioni, «Hortus», 11, I semestre 1992, pp. 5-6.

(35) RC, p. 20; P, p. 492.

(36) E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 20. Si noti la variante: «anche nell‘ovatta».

(37) Così Contini sull‘«elemento più breve» che conclude tutte le lasse della Récitation à l‟éloge d‟une reine

di Saint-John Perse: cfr. G. Contini, «Sans rythme», in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino,

Einaudi, 1988, pp. 23-40, alle pp. 35-36, e Saint-John Perse, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1972, pp.

55-61. Sullo spunto continiano, «di ragione epodica» potranno apparire anche le linee brevi in chiusa di

alcuni testi del Giornale (cfr. P, pp. 453, 454, 458, 466, 467, 470) e di Ronda dei conversi (cfr. P, pp. 490,

491, 493, 494, 495, 508, 529, 533-534 – lasse prima, terza e quinta –, 541, 543, 544-545).

(38) P, p. 507. In RC, p. 37, la segmentazione era leggermente diversa: «[...] si strazia / il rimanente

sacrificio...». L‘impaginazione in E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 34, differisce da quella di P

soltanto nel terzo capoverso, dove si legge: «[...] tra la / sponda del letto [...]».

(39) E. De Signoribus, Quadri della penitenza, «il gallo silvestre», 15, 2002, pp. 137-144. Il testo che vado a

citare è a p. 139.

(40) RC, p. 78 (con maiuscola in incipit); P, p. 542.

(41) RC, p. 79; P, p. 543.

(42) La scansione è confermata dalla composizione del testo italiano in E. De Signoribus, Ronde des convers,

cit., p. 74: «In chi imbattersi può mai un martire domestico?... / Su e giù per le scale è il viale, il buio

sottoscala è il burrone, / sul tetto si attanaglia il piccione azzoppato... / Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con

mosse e finte, con / spinte e pianti... / Potessi tu entrare, altrocuore, nel portone, per sbaglio o per / riparo...

potessi stare lì, un istante!... / egli farebbe quattro rampe di scale in quattro salti... / e lì atterrerebbe, davanti

alla tua vesticciola di mela... / Poi non saprebbe dirti perché è al mondo...».

(43) Ma per un‘eventuale nuova edizione delle Poesie De Signoribus ha in mente una diversa segmentazione

delle linee 4-5 (nella direzione già vista): «Giù, la pipinara bersaglia, scalcia con mosse e finte, / con spinte e

pianti...».

(44) Occorre avvertire però che in E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., p. 76, la frase G si distende su

una sola linea (per il resto viene ripresa la composizione del primo volume garzantiano): «scese dalla

corriera con una pesante valigia scura... / nello slargo non c‘era altro che un‘alta neve, che / occultando,

infiniva...: / verso dove il luogo della formazione? / alle spalle, le mura della città in difesa; davanti,

l‘aperto... / una stretta strada di fango, il passo inospitale tra il bianco / che anneriva... / annottava... /

l‘altrove penetrava in lui nel respiro affannoso della volontà». D‘altra parte, la conclusione su una parola

isolata, in posizione metrica di contre-rejet, è anche di tre frammenti del Giornale: 1 («con chi non è morto

ancora, e lì è / indistinguibile»), 15 («ti prego, conducimi fuori da questo assordante / silenzio»), 23 (in

forma attenuata dalla congiunzione: «mi abbandono... e fido nella sua resistenza / e bontà»). Cfr. P,

rispettivamente alle pp. 454, 467, 475.

(45) RC, p. 39; P, p. 509.

(46) E. De Signoribus, Ronde des convers, cit., pp. 36-37.

(47) La distribuzione del materiale lessicale è la stessa nelle due edizioni italiane, diversa nella francese

appena citata: «(a quella domanda, tutti guardano il decano con / afflizione... solo uno in lui riconosce il

vecchio che sedeva, / con la stessa ossessione, tra i vecchi di via Sabotino, / cinquanta anni prima)».

(48) P, p. 538: «prima dell‘alfabeto / scoprii l‘intera lettera... / la segreta, il mistero / del messaggio amoroso,

/ l‘inconosciuto corpo / della scritta parola // per il tempo indifeso / assediai la fortezza / della pagina, il là, /

il telaio sospeso... // prima della verità / riconobbi la lettera // poi diventò alfabeto / e l‘alfabeto tempo».

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FEDERICO FRANCUCCI

QUESTO (NON) È IL MIO CORPUS. AUTOINTERVENTI DI VALERIO MAGRELLI

Traccia

Ci sono diversi motivi per cui uno scrittore può trovarsi a citare sé stesso, e diverse modalità

in cui può farlo. Per rintracciare o rimarcare lo svolgimento di un percorso, segnato da più o meno

profonde discontinuità, da cambi di direzione discreti o clamorosi; per contemplare, ritessendolo, il

filo di uno sviluppo; per confrontare l‘oggi con lo ieri, e verificare la tenuta di una somiglianza o il

tasso di una trasformazione. Riscrivere sempre ―lo stesso‖ libro, non aver scritto che un unico libro

fatto di tutti gli altri riuniti: sono numerosi gli autori anche grandi che hanno creduto di poter

descrivere il proprio operato in questo modo, magari sfruttando, nelle dichiarazioni, le risorse

metaforiche del formato cartaceo e del volume per disciplinare le differenze e le eccentricità sul filo

che separa recto e verso del foglio. D‘altro canto l‘autore – una funzione o un dispositivo, e non una

persona, quindi tanto varrebbe parlare solamente di autorialità – serve proprio a recintare, unificare

nel segno di un‘intenzione progettante una serie di testi scritti sì dallo stesso individuo ma per altri

versi profondamente eterogenei (senza voler qui considerare i casi di apocrifia e pseudonimia).

Uno scrittore può citarsi alla lettera (ampiamente o per brandelli, dichiarandolo o no), può

parafrasarsi, può commentarsi, può variamente mescolare queste tre opzioni, e altre ancora. Nella

maggior parte dei casi i processi più o meno rigorosi e letterali di ripetizione di sé conducono (o

vorrebbero) a suggellare un‘identità, e poco importa da questo punto di vista (il punto di vista della

nuova identità raggiunta), che l‘identità sia quella di un individuo (segnato da una storia personale e

da caratteri psicologici stabili) o quella di un principio o ideale o potenza che supera tutti gli

individui e ne fonda e legittima l‘appartenenza comune: è lo stesso, qui, ad essere ripetuto per

venire meglio affermato; ad essere ritrasmesso, rimesso in circolazione affinché – pur attraverso un

certo numero di modificazioni locali e regolate – non cambi nella sostanza e possa, in vista di una

fine impellente o anche solo lontanamente presagita di qualche suo supporto, attestarsi ne varietur.

Nelle pagine che seguono vorrei provare a mostrare come questa logica lavori in alcune opere di

Valerio Magrelli, e come dalla peculiare composizione di queste opere essa sia a sua volta lavorata.

Anche se la mia ipotesi è che la versione identitaria – in vari sensi che si tratta di precisare – della

trasmissione di sé tramite ripetizione sia gravemente messa in crisi nelle opere in questione, non

intendo affatto dire che tale logica venga lì semplicemente negata, rifiutata o oltrepassata. In primo

luogo perché un movimento di negazione e distacco del/dal ―vecchio‖ sé è d‘obbligo in qualsiasi

processo dialettico o ermeneutico che si metta in movimento, e questi processi mirano, pressoché

invariabilmente, ad una reintegrazione finale (dunque non basta certo negare l‘identità e la sua

permanenza per uscire dal suo cerchio). In secondo luogo perché l‘atteggiamento (la posizione, la

presa) di Magrelli nei confronti del plesso o nebulosa di temi che decide di convocare, e i

trattamenti, le scosse, le torsioni che imprime a questi temi, sono caratterizzati da frequenti

contraddizioni, ripensamenti, incertezze, cambi di strada, che rendono l‘analisi estremamente

complessa e impediscono di assumere un‘ipotesi così netta. Prenderò in considerazione nella mia

analisi, in gradi diversi di dettaglio a seconda dei casi, i due volumetti di prose Nel condominio di

carne e La vicevita (usciti rispettivamente nel 2003 e nel 2009, e qui d‘ora in avanti contrassegnati

con CC e V), le ultime due raccolte poetiche Didascalie per la lettura di un giornale e Disturbi del

sistema binario (1999 e 2006, d‘ora in poi DID e DSB),(1) facendo riferimento quando necessario

alle precedenti sillogi magrelliane di versi. Se non faccio oggetto di attenzione separata i diversi generi letterari, e metto a confronto scrittura ―letteraria‖ e scrittura ―critica‖ non è perché intendo

dare un‘immagine a tutto tondo, o qualcosa del genere, dell‘opera di Magrelli, utilizzando una

tipologia scrittoria a sostegno o contrasto delle altre per ricavare una specie di media panoramica o,

al contrario, di fusione alchemica; e nemmeno o non soltanto per rispettare l‘opinione assai corrente

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– poco monta se tra gli osanna o i crucifige – secondo la quale gli steccati tra i modi espressivi delle

diverse forme di conoscenza sarebbero diventati permeabili e molte scritture un tempo per statuto

indipendenti dalla letteratura sarebbero diventate «paraletterarie» (come sostenuto da R. Krauss già

al tornante tra anni Settanta e Ottanta).(2) Lo faccio invece soprattutto per tentare di isolare,

attivamente e correndo il rischio della sovrinterpretazione, la singolarità, intimamente differente e

mai in pacifico accordo con sé stessa, della traiettoria che Magrelli ha tracciato nel corso degli anni

per aprirsi una strada all‘interno del de-genere in comune su cui molte scritture di diverse

provenienze si affacciano, e che Gabriele Frasca (a Magrelli distantemente affine ben oltre la

condivisione dell‘anno di nascita, 1957) chiama senz‘altro «arte del discorso».(3) Mi sembra che

uno dei tratti salienti dell‘opera di Magrelli stia proprio in una pratica di autocitazione che ha

qualcosa del collage e qualcosa dell‘impianto e del trapianto. Cominciando a censire quanti e quali

spezzoni Magrelli prelevi dal volume dell‘opera pregressa, in che maniera le reinnesti e le reinvesta

nell‘aggregato testuale più recente, e come l‘autocitazione, apparentemente circoscritta, si colleghi a

una pratica citatoria/citazionista dal peso e dagli effetti invece molto diffusi, si potrà nello stesso

tempo accertare l‘interferenza reciproca tra questo piano (inter)testuale e il filone o corrente

―tematico‖, che si incanala in queste scritture, della trasmissione, dell‘eredità, del contagio, della

propagazione, della riproduzione, della ripetizione e della memoria. Verificando inoltre quali

espedienti e tecniche stilistico-retoriche (in particolar modo la tessitura sottile e strettissima di una

certa trama metaforica) siano chiamati di volta in volta ad amplificare o contenere il suddetto

intreccio in espansione, si cercherà di arrivare al difficile, instabile, vissuto con sentimenti

quantomeno ambivalenti processo di soggettivazione di cui nell‘opera restano molteplici tracce.

Malattia

Tra le particolarità dei due libri di prose, solo molto a fatica catalogabili come narrative, di

CC e V, sta senza dubbio il rapporto che il telaio dei libri (piano costruttivo e livello portante della

scrittura) stabilisce con un numero piuttosto alto di altri testi, in versi e in prosa, chiamati a

partecipare attivamente ai percorsi di ricerca intrapresi dai libri stessi, e però anche da questi tenuti

distinti tramite accorgimenti tipografici e strutturali codificati. Si tratta, come già detto, delle

citazioni. Il processo citatorio magrelliano seleziona e raccogli porzioni provenienti da testi altrui,

ma anche da altre opere dell‘autore stesso; e potrebbe sembrare un azzardo non tenere

rigorosamente distinte le due tipologie, se non fossero proprio i libri, in un certo senso, a

scoraggiare un simile rigore, ―lavorando‖ i frammenti citati in maniera non troppo dissimile. In Ora

serrata retinae (d‘ora in poi OSR), il libro d‘esordio, non ci sono citazioni esplicite marcate dagli

usuali accorgimenti; l‘unica e parziale eccezione è la traduzione-riscrittura (transgenerica) di un

passo del Treatise di Berkeley, che costituisce a tutti gli effetti un testo della raccolta e porta,

evidenziato ma anche confinato nel titolo, il riferimento bibliografico all‘opera di provenienza. In

Nature e venature il numero di citazioni sale di parecchio e si attesta a otto, tutte in epigrafe, a

sormontare testi per lo più privi di titolo, e provviste ciascuna del timbro di riconoscimento

costituito dal nome dell‘autore. Negli esercizi di tiptologia le citazioni sono raddoppiate –

addirittura sette se ne addensano a coronare la prosa d‘apertura, Alle lagrime, rovi – e, pur

conservando nella stragrande maggioranza la posizione in esergo a singoli testi, fanno registrare

un‘eccezione, parziale anche in questo caso, ma a guardarla alla luce degli esiti successivi, molto

importante. In un‘altra prosa del libro, infatti – intitolata Terranera – Magrelli inserisce, stavolta

non in esergo ma nel corpo del testo, alcuni versi, distanziandoli con due a capo dal blocco della

prosa (p. 256). I versi sono legati tematicamente all‘argomento che la narrazione sta svolgendo (i

lampi), e non vengono fornite su di essi ulteriori notizie. Si tratta di una poesia del poeta arabo Ibn

Brishî, tradotta da Magrelli, e l‘autore darà conto della ―vera‖ paternità della poesia solo diciassette

anni più tardi, in V, quando importerà questo brano nel tessuto di un‘altra prosa (non potremo

purtroppo controllarne i movimenti). Per ora basterà annotare che un frammento di altro autore

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viene interpolato, cucito in un brano in base a criteri di affinità con le linee di sviluppo di

quest‘ultimo: un meccanismo analogo è tra i più potenti propulsori di CC. Qui, le citazioni vengono

regolarmente integrate nei testi, segnalate dalle virgolette e, nel caso di versi o spezzoni più lunghi,

dagli a capo e dai rientri. I siti degli inserimenti non offrono informazioni sui brani accolti, e nella

nota in coda al libro si trova soltanto un elenco degli autori citati, ciascuno con il numero della

pagina in cui il testo di pertinenza è collocato. Esattamente nello stesso modo si comporta Magrelli

nei sette casi in cui l‘origine del prelievo è un testo di sua composizione; nessun ausilio informativo

viene porto all‘interno del brano in cui l‘autore cita sé stesso, e in chiusura, a seguire quello delle

altre fonti citate, separato solo da una spaziatura, sta un elenco, sempre scarno e organizzato per

numeri di pagina, dei loci magrelliani che hanno prestato testo. Per concludere la prima sommaria

descrizione bisogna aggiungere ai due tipi già illustrati di citazione letterarie, maneggiati in modo

analogo, un terzo tipo che sta a metà tra citazione e allusione: nel discorso si trovano spesso titoli di

libri – riferiti correttamente oppure in qualche modo alterati (per fare solo due esempi, Die

Zauberberg e La rovina di Cascia) – e di film molto noti, insieme a personaggi e situazioni

letterarie (Phlebas il fenicio, etc.) e altri rimandi a prodotti così diffusi da risultare quasi proverbiali

della sfera culturale dell‘Occidente. Le modalità compositive di CC sembrano testimoniare dunque

un lavoro di selezione, conservazione e trasmissione della memoria letteraria e culturale, di cui ci si

sente o ci si nomina eredi; e di tale memoria sembrerebbe far parte anche il corpus magrelliano,

fatto oggetto, così come, mettiamo, quello di Nabokov o di Valéry, di prelievo, ripresa,

rifunzionalizzazione. L‘ipotesi trova una conferma, e insieme denuncia la necessità di una

correzione, quando la si proietta sul piano tematico. Infatti l‘asse portante del libro, o il suo

colonnato, è tematicamente proprio la memoria, intesa come memoria personale e genetica dell‘io

che in queste pagine compare come soggetto parlante, e sembra non allargare il cerchio del suo

discorrere molto al di là del proprio corpo. CC si offre quindi come un vasto «referto» (p. 3), come

una lunga e accurata ―autoanamnesi‖ dell‘io (del ―Valerio Magrelli‖ che in ET aveva intitolato due

prose con anagrammi del suo nome). Il lessico e l‘immaginario clinici, già molto tipici di Magrelli

almeno da ET, qui si estendono e si ramificano fino a formare una specie di ragnatela cognitiva che

intercetta e allinea i fenomeni, o un preparato di contrasto che permette allo sguardo dell‘io

rammemorante-indagatore di individuare le continuità e di comporre le figure.

O almeno questo sembra essere l‘auspicio dell‘autore; perché la disposizione del quadro si

rivelerà paradossale o addirittura impossibile. «Il mio passato è una malattia contratta nell‘infanzia.

Perciò ho deciso di capire come». Così prende inizio il libro, e in questo inizio una cornice

interpretativa si profila e nello stesso tempo va in frantumi. Leggiamo (p. 3):

Il mio passato è una malattia contratta nell‘infanzia. Perciò ho deciso di capire come. Questo referto, dunque, non vuole

essere un teatro anatomico, piuttosto un susseguirsi di fotogrammi, dove quello che conta è il flusso dell‘immagine, il

corpo sgusciante che vibra sotto di me, la sua forma mutante tra le forme: vasi sanguigni, conchiglie di molluschi,

cellette d‘api, snodi autostradali, pelvi di uccelli, cristalli e filettature aerodinamiche. Non c‘è trama, ma trauma: un

esercizio di patopatia. Non c‘è teoria, ma racconto di piccole catastrofi, giocate dentro gli spazi interstellari della carne.

È sempre a partire da qui/adesso che l‘io ha un passato, un presente-passato ritenuto dalla

coscienza. Il passato è stato tradizionalmente pensato come un‘affezione della coscienza presente a

sé stessa. Ma se il passato è una malattia, questa affezione prende una sfumatura patologica, e

rischia sempre di alterare l‘equilibrio della coscienza, che deve per di più temere l‘agguato della recidiva, che la faccia cadere fuori di sé, offuscando la sua facoltà ordinatrice, tessitrice del tempo.

Cosa può fare allora l‘io, se non cercare di «capire come» la malattia, cioè il proprio passato, è stata

contratta, ovvero si è a un certo punto innestata (ma da dove?) nel proprio, nel mio? Il che equivale

a chiedere: quando ho acquisito, o mi si è impiantata, la facoltà di avere un passato, che nello stesso

tempo è la condizione per esserne espropriato? E l‘innesto è avvenuto nell‘infanzia, nell‘età senza

linguaggio; si può pensare che il linguaggio stesso sia la malattia, e che il referto riguarderà le

modalità di trasmissione e gli sviluppi della malattia linguistica, come infezione che si diffonde in

un corpo e lo trasforma. Per stare dietro alla metamorfosi del corpo, «forma mutante tra le forme»,

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Magrelli istituisce una sorta di moto continuo, un‘oscillazione inarrestabile tra i campi semantici

che via via mette in gioco, oscillazione segnata, dal punto di vista stilistico, dall‘attivazione di una

forte e persistente metaforicità. I fenomeni squadernati vengono tutti ordinati sul filo dell‘analogia.

«Vasi sanguigni, conchiglie di molluschi, cellette d‘api»: qui il lampo della somiglianza è fatto

scattare dall‘immagine della cavità, che fa da ponte tra i diversi domini a cui le tre immagini

appartengono; le «cellette d‘api», cave sì ma anche numerose e rigorosamente organizzate, legano il

terzetto di metafore a ciò che lo segue – snodi, pelvi, cristalli, filettature – grazie alla fibra della

complessità. L‘avvio della ricerca coincide con la partenza per un grand tour – o linea di fuga – tra i

regni, organico e inorganico, naturale e tecnico, umano e animale. «Come reagisce il nostro sistema

mentale alle trasformazioni del suo supporto?», si chiede Magrelli; e in questa domanda c‘è ancora,

forse, una traccia dell‘io fenomenologico, della coscienza pura come risultato della riduzione

trascendentale, sovranamente installata in OSR e poi con fatica e dolore aperta e ―situata‖ sempre di

più nelle opere successive. Qui forse tale coscienza agisce sotto il travestimento del «sistema

mentale» rapportato ma anche separato dal suo supporto corporeo: è come se la mente potesse

guardare le trasformazioni da un punto di vista staccato e privilegiato. Assieme all‘asse della

contiguità e del passaggio orizzontale, dunque, funziona in questo pezzo ancora l‘asse topologico

sopra/sotto: è vero, si precisa che non si vuole ottenere un theatrum, lo spazio della visione totale e

circolare, il «cielo del cervello», con l‘immagine di Emily Dickinson che Magrelli aveva usato in

OSR; ed è vero che lo spettacolo è formato da immagini discontinue e artificiali («fotogrammi»),

però il corpo continua a sgusciare e a vibrare sotto di me (pp. 3-4):

cavalco un‘onda che si disfa sotto di me, e disfacendosi mi sospinge. Cavalco l‘avanzare di una cresta che si srotola

sempre un po‘ più in là. Cavalco la spinta che è carne. Si creano rughe e pieghe. Faccio surf cellulare. Io non elencherò

tutti i miei mali, peraltro trascurabili, ma solo quelli in cui si distingue meglio la natura metamorfica dell‘organismo. Si

vede bene la spuma dell‘onda, e, per un attimo almeno, il raggio che batte sul dorso teso dell‘acqua sembra coincidere

con il suo vettore. Sono tableaux vivants e insieme grafici. Perché l‘ho fatto? «Per scoprire se per caso sono un mostro

molto più complicato di Tisifone.

Lo sguardo (il «raggio») e il movimento (il «vettore») si sovrappongono e per un istante

coincidono: sembra che la scrittura messa in atto da Magrelli voglia assumersi l‘onere (immenso, a

dire il vero) di tenere insieme l‘incessante trasformazione materico-biologica, tramite gli

incatenamenti metaforici, e la luce (che nella tradizione occidentale è difficile pensare separata da

una screziatura in vari sensi spirituale) dello sguardo. Il richiamo ai tableaux vivants condensa in

una formula o in un emblema l‘intenzione descritta: fare un quadro (con la regia e la chirurgia

necessarie: il quadro è anche un «grafico» e un ritaglio) in cui la vita non sia costretta, ma continui a

proliferare liberamente. Qui interviene, discretamente, un‘altra mossa difficilmente descrivibile in

modo univoco. Alla domanda cruciale, e personale quanto altre mai, sul motivo per cui l‘io ha

messo in moto questa complicata operazione, Magrelli risponde con una citazione, con le parole di

un altro; e la frase di Platone sulla mostruosità, qualcosa di ammirevole e terribile perché fuori dalla

norma – qui uno dei fuori-norma per eccellenza come il Mito, richiamato dal nome di Tisifone –

costituisce il primo dei molti innesti o impianti testuali con cui l‘autore cercherà di regolare la

mostruosità ma non potrà impedirsi di alimentarla contemporaneamente. Anche in V il primo

innesto citazionale sta nel brano d‘apertura (stavolta è una formula di David Grossman), che

insieme a notevoli differenze contestuali e anche stilistiche mostra forti affinità e analogie con

l‘avvio di CC:

Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos‘altro. Il suo scopo,

cioè, risiede altrove: l‘unico a fare eccezione, è il personale viaggiante. La nostra vita pullula di queste attività

strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di

altro. Possono essere atroci come la burocrazia e la malattia (intesa come «burocrazia del corpo»), oppure neutre, come

appunto il viaggio. Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita. (p. 3)

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Molti elementi tornano: la malattia come processo che ci spossessa (così come il passato-

malattia ci invade, ci altera e non è nostro), la semantica del movimento, del vettore e del veicolo, il

distacco tra me e me. E come il treno porta via o porta lontano, così il corpo, quest‘altro veicolo, è

tutto un andarsene, un separarsi da sé. Non c‘è traccia, tuttavia, dell‘esuberante tecnica metaforica

di CC, e il tono sembra decisamente più scorato e disilluso.

Per comprendere cosa sia accaduto tra un‘opera e l‘altra dobbiamo continuare la lettura di

CC. Dopo aver enunciato la tesi e operato il primo impianto testuale, il libro arriva a ―descrivere‖ le

vicissitudini medico-sanitarie del piccolo ―io‖, e lo fa riepilogando la posa di «innumerevoli

protesi», altro nome per l‘impianto. La prima protesi, la protesi originaria sono gli occhiali,

dispositivo tecnico di correzione che permetterà un giusta messa a fuoco del campo visivo. Nel

secondo capitolo, intitolato con inversione e bisticcio linguistico Exfanzia; contrapponendo il

prefisso ex- all‘in- su cui il libro si era aperto (per dire che si è fuori dall‘infanzia quando il primo

innesto è effettuato, ma anche che il dentro e il fuori sono inestricabili e non si può tracciare un

confine rigido a separarli), gli occhiali vengono descritti come «ricetrasmittente d‘infezione», come

macchinario e canale a doppio senso tramite il quale ci si sintonizza con il mondo e si è pronti ad

interagire con esso, ovvero a contrarre e diffondere malattie: «perché fu il guasto la mia vera guida,

lo psicopompo, la voce fuori campo» (p. 5). E gli occhiali da prova che l‘oculista lascia sul viso del

bambino conferiscono a costui l‘aspetto di un ibrido mostruoso che lega perfettamente con la

citazione platonica del primo capitolo. Il procedimento analogico si occupa di attenuare i confini tra

la materia inerte e manipolata degli occhiali («cerchi tarati e pesanti») e il dominio dell‘organico,

sfruttando l‘anfibologia del termine ―antenne‖ (qui in uso catacretico) per fare del congegno una

«creaturina ciliata» munita di «flagelli». Gli occhiali vengono così incorporati e sentiti

inseparabilmente come un oggetto e come un organo, come una cura e come un fattore di deformità;

il «senso di nauseante enucleazione» provato in quel giorno lontano resterà sempre come marchio

più proprio dell‘identità dell‘io. A questo punto, una volta rovesciato l‘io-corpo fuori di sé senza

però produrre lacerazione, trasformatolo in una membrana organico-macchinica, «i programmi

potevano avere inizio» (p. 6).

Tutti i disturbi e le malattie elencati nei capitoli che seguono hanno come filo conduttore

disarticolazioni, svuotamenti, tumefazioni del corpo, crescita di entità estranee sui suoi limiti e nel

suo interno, difficili equilibri, nuove affezioni prodotte dagli espedienti per curare le vecchie. Le

prose si combinano su criteri di ripresa, contiguità e somiglianza, secondo una specie di montaggio

delle attrazioni; e anche nei limiti del pezzo singolo l‘organizzazione è affidata, più che alla sintassi

– prevalentemente paratattica – o a uno sviluppo strutturato – abbondano anzi nessi logico-causali

usati in maniera incongrua, vedi ad es. il «perché» dell‘incipit del secondo paragrafo – allo scorrere

e combinarsi delle immagini. Un breve regesto di questi temi-organi: gli occhi, le orecchie, la pelle,

i piedi, le reni; cerume, eritemi, calcoli, verruche. Nel corso di questa proiezione alcuni termini

dalla semantica polivalente sono sfruttati per collegare il corpo a ciò che sta fuori di esso, su varie

scale dimensionali: abbiamo già incontrato «gli spazi interstellari della carne», e aggiungo almeno

l‘immagine della circolazione, nei cerchi di risonanza della quale trovano posto il traffico

automobilistico e il percorso del sangue, i viaggi e i circuiti elettrici. Va osservato che in questa

maniera l‘io viene sì esautorato ed esonerato di parti sempre più consistenti del suo corpo, fino a

non sapere più dove si trova la sua residenza, se non nel movimento di entrata/uscita da ―sé‖, e che

il corpo non più proprio appare assemblato con elementi indifferentemente vegetali, minerali,

tecnici, in una sorta di laboratorio del dottor Frankenstein, ma che d‘altro lato lo stesso

procedimento concorre a reintegrare i ―pezzi‖, i frantumi eterogenei che ha prodotto in un unico

corpo cosmico tenuto assieme dai campi magnetici delle analogie. L‘unità e l‘identità, smarrite a

livello personale, resterebbero comunque garantite su un piano superiore, e difficilmente

percepibile. E allora sarebbe giusto la lingua a restituirlo ai nostri sensi, questo piano, contribuendo

col suo incanto e con le sue legature magiche a mantenerci in contatto con esso. Le «parole-

trattino» che Magrelli usa massicciamente a cominciare da ET sono un esempio splendido del

pendolarismo inarrestabile, della perplessità profonda di cui si parla. E dato che la poesia di ET in

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cui questo genere di formazioni lessicali è tematizzata viene citata – unico caso – sia in CC che in

V, sarà il caso di insistere un po‘ sulla questione, e dire di più delle modalità con cui Magrelli cita

sé stesso. Leggiamo Treno-cometa (il titolo è precisamente una parola-trattino), includendo le righe

messe in esergo (p. 286):

Assumeva l‘attore, a fondamento della domanda, che a seguito del passaggio di un treno merci si era sprigionato un

incendio, il quale, dalla sede ferroviaria, si era diffuso alla confinante proprietà di esso attore, distruggendo le culture ivi

esistenti. Aggiungeva che l‘incendio era stato determinato da un vagone del treno dai cui freni, rimasti bloccati

malgrado il movimento del convoglio, si erano sprigionati fasci di scintille. Dalla allegata relazione di officina si

desume che, a causa dell‘inceppamento del freno per ostruzione delle condutture dovuta a impurità dell‘olio, i ceppi e i

cerchioni del carrello erano fortemente arrossati per il surriscaldamento, ed il sottocassa, bruciato.

(sentenza n. 6286/87 del Tribunale Civile di Roma)

Treno-cometa

fiammifero stregato, ferro

sfregato contro le rotaie,

freno tirato e attrito,

treno-freno che strazia

e stride nella notte.

Venivo avanti con le ruote bloccate

le vertebre contratte

le parole-trattino

e dal mio sforzo veniva

un calore e un colore

e un odore di carne strinata:

scintille, una pioggia di lingue

focaie nella notte.

Ah vagoni frenati, ah parole-trattino

io fricativo, ritratto dell‘attrito.

Si tratta di una delle poesie più importanti della silloge, in cui l‘«io fricativo» sale sulla

ribalta e prende il posto lasciato vacante dall‘olimpico soggetto contemplatore (una versione di

poco diminuita del cosmotheoròs) via via sfaldatosi a partire da OSR. L‘io è qui prodotto dallo

sfregamento delle sue vertebre contratte, subito avvicinate alle ruote bloccate del treno di cui si dà

conto nello stralcio di sentenza civile sulla soglia del testo.(4) Il cigolio e lo sferragliamento dei

nessi consonantici di cui la poesia è sostanziata raggiunge il culmine nel processo

paranagrammatico che lega «attrito» e «trattino» intorno al «ritratto», l‘io che può costruirsi solo

come immagine di questo avanzare bloccato del treno-spina dorsale che provoca incendi sul

territorio-corpo. Il capitolo trentaquattresimo di CC riprende i versi 7-9 del testo all‘interno di un

paragrafo multistrato che bisogna citare (pp. 71-72 ):

Guardiamo allora alla discopatia. Breton su Picasso: tutto in lui è fisiologico, anche il modo di mettere in pila i pacchetti

di sigarette per dare loro la forma di una colonna vertebrale. Sono questi pacchetti a farmi male, due specialmente. Il

dolore, però, non proviene da un difetto interno, bensì dalla loro errata collocazione. È un male della distanza, per così

dire, anzi, dell‘eccessiva prossimità. L‘attrito tra due giunti che si toccano, e il treno che si inceppa:

Venivo avanti con le ruote bloccate

le vertebre contratte

le parole-trattino

Se penso alla ferrovia, è perché più tardi, come fossi un convoglio, fui spedito nel tunnel della Tac […].

Sembra del tutto evidente che l‘autore, parlando del suo mal di schiena, riproponga come

suggello del paragrafo alcuni suoi versi composti a partire dalla stessa occasione; sembra non

esserci altro, qui, che la pacifica riconferma di un‘intentio auctoris. Ma più di un motivo deve

indurci a fare attenzione. È senz‘altro vero che l‘autocitazione obbedisce a un criterio di

contestualizzazione, ossia che riduce la vaghezza, l‘indeterminatezza del dettato originale di Treno-

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cometa disambiguando alcuni punti che lì restavano oscuri, e anche per questo suggestivi, e

riportando la base, l‘origine di quella poesia ad un evento preciso e ben fissato dell‘esistenza

dell‘autore. Ho mal di schiena, da qui parto per farne una poesia. Ma due o tre fattori contrastano

subito questa istanza memoriale e per così dire ―autobiografico-realista‖. L‘argomento della

«discopatia» è avvicinato e insieme procrastinato dal transito per un riferimento culturale (una

citazione senza virgolette) che contiene una comparazione fra i pacchetti di sigarette di Picasso e le

vertebre di una colonna; al momento di dichiarare il dolore è in «questi pacchetti» picassian-

bretoniani che esso viene localizzato. Si è cioè già spostato nella zona di indiscernibilità fra dentro e

fuori, corporeo ed extracorporeo, e si è installato in un regime misto di parola propria e parola

altrui, denunciata come altrui ma scritta come propria. La spina estratta in modo non cruento dalla

schiena è reinserita nel circuito metaforico, e per questo può diventare un treno, con le vertebre a

fare da vagoni; ma poche righe più in basso la composizione della figura si è ancora trasformata, ed

è il corpo intero a entrare, come un treno appunto, nella galleria della Tac. Insomma se questo

autoimpianto deve servire a reinserire in un contesto, per dare cenni interpretativi, un frammento di

scrittura più vecchia, nel caso di CC è proprio il contesto, il quadro di inserimento che vede

offuscarsi e sfaldarsi i suoi confini. Dunque riportare il prescritto al proprio corpo, come fa Magrelli

in CC, significa non reimpossessarsene e poterlo utilizzare, mettere a frutto in qualche modo, ma al

contrario esporlo a quel movimento di continuo esproprio che definitivamente lo sottrarrà a chi lo

ha scritto. Il fenomeno è molto palese per due versi di OSR riportati nel cinquantesimo capitolo di

CC (p. 105):

(Forse per questo continuo a guardare affascinato il modo di accosciarsi dei bambini, come se invece delle rotule

avessero un giunto basculante, o una vite infinita. La potenzialità del loro destino sembra infinita, al pari delle

angolature consentite ai menischi):

…e cieco e fermo

nella gamba riposa il ginocchio.

Riposa, per modo di dire. Il mio balla e traballa, e cigola la carrucola nel pozzo della carne.

In questo caso il rovesciamento è netto; il dettato della raccolta d‘esordio viene apertamente

contraddetto, e alla stasi sostituito il movimento (si noti inoltre la nuova ricorrenza della citazione

non virgolettata, qui perché notissima: ma quel che conta è che, esattamente come nel brano citato

in precedenza, il corporeo subisce un passaggio attraverso la memoria culturale e la parola di un

altro).

Il testo ospite non potrà operare alcuna ortopedia sul frammento ―in ingresso‖, né potrà

usarlo come rattoppo o pezza d‘appoggio; al contrario, entrambi si apriranno lungo linee che si

possono ben dire di fuga o di deterritorializzazione. Ma, ripeto, l‘impressione è che queste linee

fermino a un certo punto la loro corsa e si avvolgano in grandi ritornelli territoriali. Torniamo alla

parola-trattino: indice di distanza ma anche di legamento e articolazione, il trattino in cui

metonimicamente la parola o meglio le parole si condensano ha la funzione di vincolare senza

fondere campioni provenienti da aree semantiche diverse, trovando il modo di metterle in risonanza,

di far balenare tra di loro una specie di somiglianza nascosta. Un significativo specimine è al

capitolo trentaduesimo (p. 67):

[…] Basta guardare l‘ombelico. All‘inizio, un cavetto per il feto orbitante nello spazio celeste-materno, etereo-utereo.

Alla fine, un nodino frettoloso, per ricordarci che siamo palloncini soffiati via, di quelli sagomabili, da fiera.

I trattini sono gli assi su cui ruotano i cardini di una doppia porta che deve segnalare la

comunicazione tra entità distanti, e i due composti lessicali fanno da sostegno, da piano d‘appoggio

ai volteggi analogici del brano, che mescolano immaginario astrospaziale a fantasie di

avvolgimento intrauterino. Il modello concettuale sotteso a queste ―simpatie‖, suggerite in un caso

da una somiglianza fonica che sfiora la paronomasia è, credo, quello della concordia discors, che

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identifica al limite (al limite del sistema dei sistemi di analogie) i contrari, e permette di pensare che

le profondità della Madre siano anche la volta celeste, che il Fuori assoluto sia anche un altrettanto

assoluto raccoglimento, che le acque materne siano anche l‘etere, la materia impalpabile che si

pensava riempisse lo spazio. La brusca riduzione della sfera «etereo-uterea» nel «palloncino»

sagomabile dell‘io non è incompatibile con una strategia di camuffamento e miniaturizzazione di

materiali mitologici; basti pensare alla teoria del corpo umano come involucro in cui viene soffiata

una piccola porzione d‘anima, di spirito, in esilio nella carne e nel mondo fino che non confluirà di

nuovo nel Grande Soffio. Il problema, allora, è capire il motivo di una simile riattivazione di

materiali mitologici, e più ancora individuare le linee di percorrenza dell‘attraversamento

magrelliano. Se ci sono pochi dubbi che si abbia a che fare con un reincantamento (la parola

letteraria effettua un sortilegio sui fenomeni tessendoli in una ghirlanda), è necessario comprendere

a cosa conduce tale ritorno al carmen, se si attesti definitivamente sul piano, tutto sommato poco

più che decorativo, di un alessandrinismo sciamanico o se non riveli altre potenzialità.

Lo si può fare analizzando, prima di abbandonare CC, due testi molto diversi e però a mio

avviso uniti da un richiamo, e arrivando così a uno dei profili più importanti del libro, che mettendo

al centro l‘agglomerato tematico della trasmissione e della memoria non poteva non arrivare a

trattare la figura insieme reale e simbolica della paternità. Il capitolo quarantacinquesimo è

dedicato, tra tutti gli scompensi e le fratture che toccano il corpo, ai fastidi di un‘unghia del piede

destro che va incontro a trasformazioni dolorose e bizzarre. Tutta questa vicenda, scrive Magrelli, e

la sua dichiarazione si salda a una catena che ho già messo in luce parlando delle vertebre-

pacchetto,

in qualche modo, devo ammetterlo, fui io stesso a provocarla. Infatti, anni prima, avevo accettato di tradurre una lirica

francese che recitava:

Unghia piena di tutte le virtù

unghia vestita solo

di un minuscolo guanto delicato.

Unghia, non unghia, no,

ma cristallo sottile che l‘amante

stima più del diamante.

Unghia lucente e invisibile, aggiungeva il poeta, specchio in cui rimirarsi, unghia limata, unghia deliziosa, continuava,

unghia capolavoro di natura. Con i suoi versi ossequiosi e prevedibili, L‟ongle andava bene per i titoli di testa del

racconto, ma il seguito fu molto differente. Altro che dolce gioia dell‘amata, fonte di gloria, onice di grazia. Il fatto è

che la mia iniziò a cambiare aspetto irreversibilmente, unghia mannara che si deforma e stacca ma non cade, solo

scolora, si stria, si torce, gira. Adesso, per un beffardo contrappasso, al posto di quella porzione cristallina porto una

torcia marmorizzata, un lapislazzulo foggiato da qualche ignoto maestro cosmatesco. (Fra i casi precedenti, ritengo

necessario segnalare non tanto le dita chiuse nelle portiere di innumerevoli automobili, bensì la sera estiva in cui,

correndo verso il mare, inciampai in una pietra, e quella stessa unghia si spaccò di netto. Passai una notte insonne,

provando a leggere ma senza mai riuscirci, perché l‘intera forza del pensiero veniva risucchiata da quell‘unico punto

fluorescente di dolore. Intorno al suo nero pulsar si organizzavano il mio sangue e le mie cartilagini, la mia attenzione,

le mie bestemmie, tutto. Al centro dell‘universo stavo io, al mio centro, il mio dito, e al suo centro, un puro gorgo di

antimateria che lanciava segnali indecifrabili con l‘alfabeto di una lingua morta). (pp. 95-96)

A seguire la logica sconcertante di questo racconto, appena camuffata da striature di

colorante logico-argomentativo (l‘«infatti» della seconda frase), si deve dire che la patologia dell‘unghia è stata causata dalla traduzione di un testo all‘unghia dedicato (vedi come questo testo

venga impiantato qui in duplice modalità: citazione letterale dei versi e parafrasi in prosa; da notare

inoltre che si tratta di una traslazione al quadrato, visto che il testo annesso deriva già dal trasporto

in una lingua diversa da quella in cui fu scritto l‘originale), per l‘effetto di una specie di magia

cattiva: si passa dall‘incantamento alla stregoneria. L‘unico elemento del testo trapiantato che gode

della citazione in lingua originale è il titolo, L‟ongle, e bisognerà ricordarsene. La scena successiva,

la notte insonne passata ad ascoltare la lingua morta e incomprensibile del dolore provocato dalla

rottura dell‘«unghia mannara», dell‘unghia mutante, presenta la dinamica a cui ormai siamo

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abituati: un movimento in apparenza centripeto e autoreferenziale che conduce però ad un centro,

ad un nucleo, che al sé è completamente estraneo (ovvio richiamare l‘extimité lacaniana). Prima di

riaprire il quadro così tratteggiato (che potrebbe essere facilmente e non ingiustamente, tutto

sommato, tacciato di ossessivo iperindividualismo e di totale mancanza di senso del mondo, se

appunto lo si potesse pacificamente limitare) collegando un altro brano a questo, vediamo come il

capitolo prosegue, concentrandosi sui dottori e sulle diagnosi formulate a proposito dell‘unghia:

Quanto ai responsi, risultarono alquanto inattendibili. Un primo gruppo di terapeuti puntò su cause meccaniche. E fu la

volta di analisi radiologiche, ricerca di matrici sotto stress, questione di posture e traumi. La grande maggioranza,

tuttavia, si concentrò su funghi e infezioni. Necessità di controlli a largo spettro, creme per mesi e mesi, con

contagocce, pennelli, carte vetrate. Facevo bricolage di me stesso, ma senza risultati. Giunge una nuova proposta: dopo

aver dato la vernice notturna, il dito andava incartato con il domopack. Feci anche questo, e prima di addormentarmi

pregavo di non morire durante il sonno. Pensavo infatti che, nella disgraziata eventualità del rinvenimento, una pratica

simile avrebbe suggerito la presenza di oscuri riti iniziatici (un morto con l‘alluce sinistro allusivamente fasciato,

magari in direzione dell‘Oriente, come il seguace di un ungulato Anubi). Un caso a sé fu l‘incontro con un medico

umanista, esperto di argot, studioso di esoterismo. Sagaci giochi di parole, e l‘unghia sempre a pezzi. Poi uno calvo, più

schietto, e con una vera vocazione bibliografica. Almeno parla chiaro. Prende dagli scaffali un‘enciclopedia intitolata

L‟unghia, siede vicino a me e comincia a sfogliare. In una specie di confronto all‘americana, mi invita a riconoscere il

colpevole tra cento altri sospetti. E pagina dopo pagina, volume dopo volume, scorrevano le unghie più rovinate del

pianeta, una sterminata galleria di cheratine capaci di ogni forma immaginabile. Pietre preziose, a modo loro, in un

lapidario che spaziava su colori di ogni genere. Distrofia idiopatica, concluse, o meglio, onicosi inesplicata. Trovo

inoltre, su vecchi appunti, l‘espressione «sindrome di half and half». Sarà un mio delirio o un termine tecnico? A ogni

buon conto, scelgo qui di trascriverla. (pp. 96-97)

Il libro-referto comincia a parlare dei referti sul corpo che gli ha dato origine, e si mette en

abyme: il breve catalogo dei dottori vale come rubrica degli atteggiamenti di Magrelli dottore di sé

stesso che nel libro passa in rassegna ogni possibile patologia comportante trasformazione. Se la

«vera vocazione bibliografica» del compulsatore d‘enciclopedie rimanda al complesso tessuto

culturale su cui Magrelli sempre costruisce le sue opere, l‘umanista esoterico esperto di argot può

essere la controfigura umoristica del côté magico attivo, come si è visto, nella scrittura di CC: i

«sagaci giochi di parole» e lo sfruttamento del linguaggio fino alle sue più profonde riserve

semantiche ricordano da vicino le liaisons lessicali (fra cui anche le parole-trattino) intese a

generare i campi magnetici di senso di cui si è parlato. «E l‘unghia sempre a pezzi»: lo sciamano

moderno è privo di poteri. L‘unica diagnosi, espressa nell‘astrusa terminologia clinica, accerta che

la malattia non ha cause accertabili, che è assolutamente peculiare del soggetto portatore. Né

l‘enciclopedia né la simpatia universale o signatura rerum hanno da dire alcunché di utile in

proposito, se non appunto una formula (più o meno magica) che a malapena copre il loro fallimento.

E la refrattarietà della patologia all‘analisi viene affiancata dall‘enigmaticità di un frammento di

scrittura ―propria‖ in cui non ci si può riconoscere affatto, che, in tutta la sua opacità, non viene

nemmeno più citato, ma soltanto, e «ad ogni buon conto», trascritto.

Capo

Allora si dovrà rinunciare a una spiegazione, il linguaggio della malattia resterà del tutto

estraneo, impossibile da decifrare o almeno da attribuire a un complesso di cause? La risposta si

trova nel capitolo conclusivo di CC, forse il più difficile, intricato e bello del libro (qui l‘agudeza

magrelliana raggiunge il suo culmine e con ciò anche l‘inizio del suo tramonto, o trasformazione),

dove finalmente nella costellazione linguistico-corporea assume esplicitamente tutta la sua

importanza, come anticipato, il tema della paternità (e della storia). Infanzia di un padre – questo il

titolo – allinea ad un inizio analogo a quelli che si sono già illustrati uno sviluppo inaspettato. Si

comincia sempre con una malattia infantile, subito messa in risonanza con l‘area semantica della

germinazione e della fruttificazione, con le già viste dinamiche di causazione paradossale: il «vento

d‘aprile» fa spuntare sul viso del bambino «lievi semescenze esantematiche», come se diffondesse

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semi nel corpo-orto. Al paragrafo incipitario segue un pezzo in corsivo (in questo caso anche fra

parentesi), secondo un‘alternanza che si riscontra solo qui (Infanzia di un padre è composta da due

tondi e due corsivi incrociati) in cui la metaforica della frutta, variamente declinata, si associa a

quella dell‘onda, riportando così la memoria alla prosa con cui il libro aveva avuto inizio. Leggiamo

per renderci conto dell‘ammirevole costruzione della fibra del brano:

(Frutta in conserva, vertebre che si incollano come prugne nel vaso della dispensa, zuccheri animali, cartilagini lente e

pesche sciroppate nel loro sugo. Mi frollo, mi spezio, mi trasformo. Con un lunghissimo brivido, miliardi di cellule si

vanno succedendo, onda su onda, mutando il materiale di cui sono composto. Ma tutto così gradualmente, ma tutto così

dolcemente, da conservare pressoché immutata l‟ansa che via via colmano di sé. Io stesso, dunque, costituisco il

medesimo testo di tanti anni fa, ma nutrito di lettere nuove, di sillabe alterate. Sono un esercito nel vivo della battaglia,

dove i rincalzi subentrano a chi cade, o un abito rattoppato con la sua stessa stoffa, un rammendo visibile, un telaio di

carne, «molecole su e giù come una spola») (p. 117)

Il flusso immaginale in cui la parola sembra disciogliere il corpo, con una specie di attività

alchemica, qui è costruito su un criterio di molteplice intreccio che seguo brevemente. Il corpo è

dapprima frutta in conserva, ascritto dunque al campo vegetale e alimentare (nella conserva è

presupposto anche un intervento tecnico umano), poi diventa vertebre che si incollano (figura che

torna spesso in Magrelli, come si è visto e si vedrà ancora, tanto da fare da modello alle parole-

trattino), mantenute agganciate alla frutta dal ―come‖ e dalla comparazione; i due poli coinvolti

(vegetale-animale) sono poi mescolati nella figura di sintesi «zuccheri animali», e infine

nuovamente separati e tenuti agganciati nella doppia immagine suturata dalla comparazione. Dopo

questo tour de force, dove l‘evidenza della costruzione, sottolineata dalla simmetria delle partizioni,

sta a testimoniare l‘artificio, il carattere tecnico e non ―naturale‖ del composto, il discorso si sposta

bruscamente, tornando al carattere tondo («Ma basta») e utilizzando un‘altra malattia per narrare un

soggiorno terapeutico al Gran Sasso d‘Italia, che diventerà il proscenio di un vero dramma psichico

e non solo. L‘io racconta di aver alloggiato, giunto in quel «rustico Zauberberg […] fuori mano e

sconsolato e brullo», nello stesso albergo «da cui venne rapito un Mussolini imbelle, patetico

fantoccio» (p. 118). Il richiamo a Thomas Mann è subito doppiato dal riferimento a Goya, e queste

due citazioni incastonano l‘immagine del volto del duce, «il volto emaciato, la debolezza fintamente

altera di quel tiranno ridotto a prestanome». E l‘«ombra del Duce» si ritrova subito dopo, «almeno

nel nome», quando l‘autore racconta delle lunghe partite a «calcio balilla» che faceva al ritorno

dalle «escursioni familiari nel vuoto». Ma non basta:

Rimbomba la pallina, ticchetta per i corridoi deserti che videro il raid tedesco, cade, finisce sotto armadi polverosi. Ma

io, starò guarendo? Poi, molto tempo dopo, la lettura di una notizia che mi turbò: nel cuore di quella medesima

montagna, l‘installazione di un laboratorio nucleare. E tre. Come legare, adesso, la scoperta del gioco, Mussolini, e

l‘auscultazione dei quark? C‘è forse un biliardino di particelle elementari nascosto sottoterra? Oppure i calciatori di

plastica pesante, rossa e blu, equamente infilzati nelle lance d‘acciaio, si disputano la testa del Puzzone – all‘uso azteco,

dico? Riti sacrificali, iniziazioni, la morte e la rinascita del cosmo. Oppure: La rovina di Cascia. Un Theatrum mundi

casareccio, appenninico. E ancora, il Kurt di Apocalypse Now che sbuca nella Maiella come un re-sacerdote destinato al

macello (e lui stesso, del resto, non commerciava avorio, e dunque, lui calvo, palle da biliardo?) Eccolo, è un Marlon

Brando molisano che mima il Ramo d‟oro […]. (p. 118-119)

Dopo aver mostrato la tecnica nel prodotto finito, Magrelli apre l‘officina e ammette il

lettore nel processo generativo del suo testo: gli attrezzi e gli ingranaggi. Qui infatti il resoconto

verte sulla ricerca e sulla confezione delle analogie, sull‘opera di sartoria o orchestrazione che

porterà alla melodia avvolgente o al tessuto fine di metafore sulla pagina. Si formula la domanda

centrale: «come legare?», la si proietta su scala insieme cosmica, microscopica e storica, la si

riporta ad un‘esigenza di comprensione e di orientamento, e la si immerge in una sorta di brodo o

pastiche di citazioni di libri o film di argomento o temperatura mitico-sacrale (in un altro capitolo

era stato menzionato anche Il mulino di Amleto), tutti però rapidamente abbassati

dall‘ambientazione della provincia centro-meridionale. Il sollevamento del velo sulla fabbrica

rompe l‘incanto (o vorrebbe) delle onde analogiche e le fa intendere come messa in scena, artificio

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non cerimoniale ma euristico, tentativo di comprensione tramite uno strumento ―radiofonico‖

particolarmente ricettivo: un cannocchiale aristotelico, se vogliamo tornare al ―primo impianto‖ di

cui si parla nel capitolo secondo, che insegni attraverso la meraviglia.

Tralascio molti altri spunti di questo brano, che andrebbe minuziosamente commentato per

intero, per insistere su un particolare. Perché deformare il titolo del best-seller mitostorico di

Calasso (La rovina di Kash; ancora un libro su regicidio e ordine cosmico) in La rovina di Cascia?

Lo si scopre pochi righi più in basso, nel corso della seconda tranche in corsivo del racconto-

meditazione su Mussolini:

Altro che Sansone: la sua forza giaceva in quel cranio polare (potenza e prepotenza volumetrica), quadridimensionale

(altezza, lunghezza, larghezza, dolcezza), magnetico Ŕ un bucranio capace di rassicurare le famiglie, mentre dietro,

pizzetti e manganelli. Le belve dei torturatori in camion. (A Cascia, piazza Magrelli, lontano zio torturato. Oncle e

Ongle strappata dalle dita. Infinita pietà del bambino che ne ascolta la morte). (p. 121)

La tortura del lontano parente ad opera delle «belve» fasciste è in grado di inserire una

piccola deformazione nell‘ordito citazionistico, pur se a sua volta ne viene ripresa e coinvolta: il

gioco tra «Ongle» e «Oncle» non può non richiamare la sestina di Arnaut Lo ferm voler, e in più

stabilisce un collegamento intratestuale con il capitolo quarantacinquesimo, dedicato all‘unghia

martoriata dell‘io accostata tramite la poesia L‟ongle, il cui titolo francese è citato esplicitamente.

Dato che l‘analogia, anche fonica, e anche molto sottile e lambiccata, costituisce senz‘altro uno dei

principi strutturanti di CC non sarà troppo azzardato restituire qui la serie unghia-ongle-oncle-zio, e

dire che quel «puro gorgo d‘antimateria», il fortissimo dolore che in XLV il soggetto si ritrova al

centro dell‘alluce destro altro non è che il dolore provato da suo zio sotto tortura. Ci tornerò tra

poco; intanto riprendo l‘immagine della testa del Duce-palla da biliardo per mostrare, ancora una

volta saltando molti passaggi, come Magrelli arrivi a dolersi che l‘Italia, quella testa, non sia stata

capace di farla rotolare, consumando così pienamente l‘assassinio rituale del Padre che nel racconto

freudiano è il crimine rimosso che sta alla base della civiltà ( e nella fattispecie di CC si intende la

civiltà moderna, le origini della democrazia liberale):

La scure inglese su Carlo primo, la ghigliottina su Luigi sedici, e in ultimo noi. Ma pavidi, senza il coraggio di arrivare

fino in fondo alla diminutio capitis. Un‟esecuzione clandestina, tremebonda, pudica. Tortuosi e nevrastenici, incapaci

di iniziare dal capo, abbiamo concluso con la testa sull‟asfalto. Senza toccarla, però, senza sporcarci le mani; solo le

scarpe. Comunque, possiamo finalmente dirci europei, con buona pace dell‟Italia fratricida di Umberto Saba. Dopo

Romolo e Remo, il Contra Tyrannos, e il nostro ingresso nella Cee, il Mercato Unico del Padre Assassinato.

La pallina del calcio balilla, di spostamento in spostamento, è diventata la testa del Duce, «il

capo del capo». E forse in chiusura di libro si è arrivati a dare una concausa storica e insieme

psichica a tutti i malanni e le alterazioni di cui si è fatto certosino censimento, e a reinserirli in

modo credibile su uno scenario geopolitico, per giunta. Si può ora arrivare all‘explicit di CC, a una

lettura distratta segnato da feroce privatismo, e in realtà molto più complesso:

Non mi interessa la storia, ma i miei mali, le sue cristallizzazioni, i nostri calcoli: la renella del sogno. Io ho trascorso

l‘infanzia insieme a un‘ombra. Io sono nato dopo un regicidio. (p. 122)

Occorre prestare grande attenzione a come il terzetto di aggettivi possessivi attenui di molto

la perentorietà della dichiarazione iniziale, probabilmente scelta da Magrelli, nella sua sempre

ammirevole tecnica compositiva, per introdurre il termine ―storia‖ nel primo membro di una frase

avversativa. Non la storia dunque ma i miei mali, (che sono) le sue (della storia) cristallizzazioni.

Nel capitolo introduttivo si trovava scritto che «mentre con il termine ―somatizzazione‖ si intende la

maniera in cui il corpo risponde a una pressione interna, qui vorrei provare a parlare di

―psichizzazione‖, al modo in cui si magnetizza un oggetto» (p. 3): riunendo il capo e la coda del

libro (che per tutta la sua estensione è rimasto indeciso, sospeso tra l‘ipotesi di averli e quella di non

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averli, capo e coda, cioè limiti e ordine) si può dire ora che i mali forse sono storia (sempre un

incubo, dunque) cristallizzata attraverso il filtro della psiche. Ai ―miei‖ mali e alle ―sue‖

cristallizzazioni si aggiungono infine, come sintesi, i ―nostri‖ calcoli, dove il termine bivalente sta

sia per i granuli calcarei che si formano nei reni (di cui Magrelli parla lungamente), per quanto

attiene al polo del corpo-io, sia per le macchinazioni, i progetti criminali del livello storico (che

vengono nominati apertamente molto meno). La «renella del sogno» è dunque il depositato

dell‘interminabile incubo della storia nei meandri della mente-corpo. La malattia contratta

nell‘infanzia (cioè il linguaggio e la capacità di avere un passato), questo parassita e questo

invasore, fa sì che nello spazio più intimo si installi, come un corpo estraneo, la fitta lancinante

degli accadimenti storici, degli eventi e dei meccanismi socio-politici. Mi fa male mio zio torturato,

mi fa male Mussolini ucciso quasi nascondendosi, mi fa male l‘Italia. Psico(fisio)storia.

Mostro

In DID Magrelli aveva tentato un rapporto relativamente più diretto con la sfera sociale e

con l‘ambito collettivo, utilizzando la griglia tipografica del quotidiano come sonda e insieme come

protezione nei confronti dell‘attualità, avvicinandosi ad essa ma anche dividendola e versandola

nelle rubriche e nelle pagine del giornale, da cui ciascun pezzo della silloge prende il titolo. Si ha

così un effetto di familiare serialità (affidato ai titoli) sempre confinante con l‘ottundimento, che

certo i versi si occupano di turbare e smentire, ma senza cessare di servirsene come basilare mezzo

di ordinamento della materia. Il libro, che si apre sotto l‘egida luttuosa di una data truccata, perché

spaccia per ―oggi‖ ciò che è accaduto ―ieri‖, il morto per il vivo, creando un tempo misto e

paradossale che Magrelli chiama «trapassato presente», sfrutta a pieno regime le tecniche retorico-

architettoniche già perlustrate in precedenza, facendo salire al massimo i giri del motore

metaforizzante, e appuntando con frequenza i cardini delle parole-trattino. Ma il piano generale su

cui l‘analogia dovrebbe impiantarsi per metterne in risalto, tramite le sue colorazioni, pieghe,

costole e fasce muscolari è in questo caso un piano assolutamente astratto e che si sottrae dall‘inizio

a tutti gli sforzi dell‘immaginazione di renderne figura, o grappolo figurale, se non adeguato per lo

meno cognitivamente utilizzabile. Infatti ciò a cui DID cerca di dare qualche tipo di concretezza, sia

pur solo verbale, è il mondo (o l‘immondo, il non-mondo) dei flussi di capitali e di informazioni

sempre più smaterializzati che confidano nella velocità della corrente elettrica per la loro

circolazione, il mondo in misura sempre maggiore tradotto nella forma della merce, che come si sa

è piena di capricci metafisici, nient‘affatto ridimensionati, anzi il contrario, dal carattere vieppiù

elettronico e informatico assunto dalla merce stessa, e dall‘assorbimento ogni giorno più meticoloso

dell‘attività mentale nei grandi flussi deterritorializzati del vendibile. Valga come esempio il

seguente (p. 7):

Codice a barre

Onoriamo l‘altissimo vessillo

che sventola sul regno della cosa

l‘anima crittografica del prezzo

rosa del nome e nome della rosa

mazzo di steli, fascio

di tendini e di vene

–polso

per auscultare

il battito del soldo

Il mannello di versi regolari (endecasillabi i primi quattro, settenari i vv. 5, 6 e 8,

rispettivamente bisillabo e quinario i rimanenti due, che però se uniti formano un altro settenario)

svolge l‘ormai noto dispiegamento o tappeto di somiglianze: il codice a barre è una bandiera per la

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forma di un rettangolo poggiato su uno dei lati maggiori, e può sventolare sul regno che

simboleggia; è anima crittografica perché i suoi numeri e le sue barre, indecifrabili all‘occhio

umano, vengono però penetrati dalle macchine (per esempio i lettori ottici di cui tutte le casse sono

munite) per ricodificare le informazioni ottenute in un prezzo. Il verso successivo, perfettamente

simmetrico e dai toni allegorico-religiosi, ad indicare la natura intangibile e misteriosa di ciò che

riveste questo vero e proprio nome in codice, apre la via per il regno vegetale in cui entriamo subito

dopo con il «mazzo di steli» (le barre verticali ravvicinate): l‘immagine di corpi filiformi e verticali

ravvicinati si specifica nell‘altra sua concretizzazione «mazzi», che sono i ponti per varcare i

confini del dominio animale («mazzi di tendini e vene»), e arrivare finalmente al termine più

importante, quel «polso» isolato a costituire un verso e introdotto dal trattino, che dovrebbe servire

a chiudere la gettata o colata metaforizzante in un tracciato circolare, e così «auscultare / il battito

del soldo». Ma il denaro è per eccellenza ciò che non batte, che non fa rumore; è l‘equivalente

universale e perciò l‘entità più astratta che si possa incontrare tra la terra e il cielo. Il battito, allora,

rimane soltanto un auspicio di battito. L‘incanto malefico del denaro è troppo forte perché la parola

possa romperlo con la sua fatagione. «Adesso Sherazade non può più nulla», come scriverà

Magrelli a sconsolato suggello del testo intitolato non a caso Economia (p. 69). E se, come si è

visto, l‘attitudine clinica è assai presente anche qui, i toni sui quali viene orchestrata, specie in un

piccolo sottoraggruppamento di poesie intitolate proprio Medicina e dedicate alle manipolazioni

genetiche, sono senza dubbio di riprovazione e disgusto. Nella poesia Innestati nelle fragole alcuni

frammenti di DNA delle lucciole (p. 36) si legge che «sarà il barbaglio fra le siepi notturne / la

nostra risposta biogenetica / al roveto ardente. / Non più specie o famiglie, / solo la solitudine di chi,

ibrido, / scivola via da un corpo all‘altro, / fiamma senza contorno / che già divora il bosco delle

forme». Non si perita di scomodare il racconto biblico e la teologia, Magrelli, esprimendo

inequivocabilmente il suo orrore per l‘applicazione alla vita stessa del Dispositivo tecnico globale

(così recentemente Pietro Montani ha proposto di tradurre l‘heideggeriano Ge-stell): il dio ineffabile

ma presente nella fiamma dell‘Antico Testamento è rimpiazzato da un ―fuoco‖ immateriale,

illocalizzabile (qui si percepisce bene quanto la metafora debba rassegnarsi alla sua intrinseca

inadeguatezza), che spazza via l‘ordinato bosco delle forme abolendo ogni distinzione (è un‘idea di

Natura che si affaccia qui, in un poeta che tanto aveva messo in questione tale concetto) e creando

un deserto di luce tecnologica e sperdimento totale. La foresta – immagine archetipica di luogo

sacro e numinoso, nonché emblema della complicazione organizzata e decifrabile della scrittura

letteraria – è polverizzata da una magia nera più forte di lei, resa inabitabile. Al poeta non resta,

sembra dire Magrelli, che prendere atto di questo suo progressivo accecamento, della vanità dei

mezzi a sua disposizione, continuando giocoforza ad usarli per cercare ormai non più di opporsi alla

desertificazione, ma di organizzare microresistenze locali di valore simbolico. All‘interno di questa

strategia anche le parole-trattino subiscono un implemento che le tende fino al limite di rottura,

come si vede in questi versi di Manchette pubblicitaria (p. 80):

Vivi pure la vita,

a patto di ricordare

che siamo al mondo per acquistare, ossia

per far girare lo squalo del denaro,

creatura primitiva che,

in quanto priva di

apparato respiratorio autosufficiente,

per esistere deve circolare

senza fermarsi mai,

pesce-moneta-cane.

Incuneando ―moneta‖ alla giuntura dei termini della parola di partenza, già composta,

―pescecane‖ Magrelli prova forse a dare un equivalente verbale (quasi sprovvisto di versante

immaginativo) mostruoso del mostro di cui sta parlando, in continuo e necessario movimento per

stabilizzare il piano del Valore, per l‘uomo del tutto invivibile. La parola con due trattini, la parola-

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monstrum, è una specie di agglomerato inteso a striare il piano completamente liscio del Valore,

così come il piano di una delle sue alleate, la lingua sempre più uniforme, scriteriata,

insensatamente bisbigliante della pagina giornalistica. Un grumo che dovrebbe per un attimo

mettersi di mezzo ai flussi di denaro-lingua, lanciando un bagliore prima di essere riassorbito.

E ancora il mettersi di traverso, l‘innestarsi come un corpo estraneo, senza relazioni visibili

con l‘ambiente ospite, segna l‘ultima sezione di Disturbi del sistema binario, finora ultimo libro

magrelliano di versi, sezione intitolata L‟individuo anatra-lepre (una parola-trattino, dunque) e su

cui vorrei brevemente insistere. In questo caso il corpo estraneo è la sezione stessa, come si spiega

nel Dialoghetto sull‟opportunità di un‟appendice dedicata all‟individuo anatra-lepre posto a

introdurla (e a tenerla a distanza, giustificandola e in qualche modo riducendone l‘impatto

disgregante sull‘organicità dell‘opera) come spazio vestibolare dal décor didascalico. Organizzato

in domande e risposte, come una sorta di (auto)intervista, il Dialoghetto afferma che la «sezione

messa di traverso» dovrebbe agire «―come una diga sbarra un fiume‖» (di nuovo una dinamica di

flusso e argine, dunque) e, «fuor di metafora», «segnalare non tanto la scoperta del Male, quanto

quella della sua localizzazione, rivelatasi molto più vicina del previsto» (p. 51). Si è pervenuti a

questa scoperta, importantissima nell‘economia dello spazio logico e poetico di Magrelli, come

dovrebbe ormai risultare evidente, grazie all‘ennesimo frutto di contaminazione e spostamento,

praticato nel tentativo di spiegare «eventi analoghi e apparentemente inspiegabili»: l‘applicazione

«alla sfera dell‘etica di un modello ispirato alla psicologia della percezione. Il risultato è un‘opera di

fantascienza, o ―scienza fantastica‖, nel senso letterale del termine» (p. 51). Annotato come ancora

e nonostante tutto Magrelli si affidi all‘operato della ―fantasia‖, la facoltà di manipolare le

immagini (o di crearle), come sostegno per la conoscenza, anzi come elemento da combinare e

impiantare sulla facoltà intellettiva, passiamo a considerare il paragone complesso di cui lo scrittore

si serve per spiegare l‘ultimo quadro del suo libro:

È stato come accorgersi che il Nemico ha un avamposto in casa; di più, che la sua azione si colloca a livello

neurologico. Nella stessa maniera, l‘immagine dell‘individuo anatra-lepre si è insediata nel libro senza che il firmatario

potesse farci nulla, se non provare ad esporre, tramite questo dialogo, le ragioni della sua resa. (p. 51)

La sezione si è insediata nel libro, a dispetto del suo firmatario, così come l‘immagine

dell‘anatra-lepre è penetrata nel cervello del firmatario stesso; entrambe stanno dentro i rispettivi

contenitori o ambienti, ma come nemici, come avamposto del nemico o come sua figura

segnaletica. E, aggiungo, agiscono a dissestare e smontare via via, in modo quasi impercettibile ma

continuo, le strutture e le cadenze di quel dentro. L‘anatra-lepre è ovviamente il test percettivo su

cui in modo quasi maniacale si arrovella Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: una figura che può

essere vista come anatra e come lepre (ma mai nello stesso tempo come anatra e lepre, e che

naturalmente non è né un‘anatra né una lepre). Sarebbe interessante, ma non si può fare qui,

verificare come Magrelli legge Wittgenstein (in maniera assai poco wittgensteiniana, direi); meglio

allora indagare il senso che la figura e la formula verbale dell‘anatra-lepre assume nella sezione. La

cifra che la contrassegna è quella di una duplicità aconflittuale, complanare – come scrive lo stesso

autore – e foriera di impoverimento e vertiginosa diminuzione del senso della complessità del

mondo. L‘invasione dell‘anatra-lepre non è una fra le altre, è l‘invasione che sembra mettere fine

alla poetica dell‘ibrido e del mostruoso, al modo di dare forma nel linguaggio ad una situazione

percettiva e fors‘anche ontologica, come mezzo di conoscenza per contatto portata avanti tra difficoltà e ripensamenti per tanti anni da Magrelli. L‘Anatra-lepre è l‘invasione stabilizzata, nella

sua versione imperialistica, cristallizzata in dominio. La molteplicità non irreggimentabile in cui

sembrava implicato il processo di soggettivazione – una molteplicità preindividuale di cui

l‘individuo non era che la temporanea e sempre diveniente saturazione, in termini simondoniani se

si vuole – qui viene denunciata come puramente immaginaria, un luminescente sfarfallio che copre

una realtà ben più semplice e più dura. Duplice e non molteplice, questo scomparto, lo è già a

partire dall‘impaginazione (e quindi dall‘impatto visivo indipendente dalla lettura): fatto salvo il

Dialoghetto d‘ingresso e un Post-scriptum (bipartito) di cui si dirà fra poco, consta di venti brevi

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poesie disposte una per pagina, in corsivo sulla pagina di sinistra e in tondo su quella di destra. La

duplicità malefica modifica anche il valore della parola-trattino: ―anatra-lepre‖ non può riferirsi ad

alcun fenomeno di fluidificazione e poi di irretimento metaforico, ma sancisce al contrario la

disfatta di questa tecnica, esautorata della sua firma dal Nemico. «Esseri doppi popolano il mondo. /

Sembra che lo raddoppino, / in realtà lo dimezzano» (p. 56); perché «nessuno può vedere anatra e

lepre / insieme. O l‘una o l‘altra, / e l‘una dopo l‘altra» (p. 57). Nell‘arbitrio con cui Magrelli si

impossessa del test psicologico e del suo transito wittgensteiniano rientra l‘attribuzione di caratteri

morali alle due silhouettes animali (è un fattore del trasferimento alla sfera etica), caratteri anch‘essi

fortemente polarizzati: la lepre è perfida e sanguinaria, l‘anatra è non certo ―buona‖ ma illusa di

esserlo (quindi sostanzialmente sciocca, cieca, e per una ragione ben precisa). E da quest‘arbitrio

―idiomatico‖ discende anche la «terza regola», ossia che, fra le due figure, la prima ad essere

percepita è sempre quella illusoriamente buona, e l‘altra «arriva sempre per seconda» (p. 57).

Questa creatura inoltre non ha coscienza della sua duplicità, poiché «grazie a un apposito

commutatore neurologico, / non c‘è passaggio tra le due metà» e, rincara Magrelli in modo

addirittura paradigmatico, se si è seguito fino ad ora il percorso di questo saggio, «Jekyll e Iago

esistono soltanto nelle fiabe» (vaporizzate, lo si è visto in DID, dai «numeri» dell‘economia). Ed è

difficile resistere al pensiero che la micidiale macchinetta anatra-lepre sia crudelmente proiettata da

Magrelli su temi e tòpoi della sua scrittura, per smantellarne il vecchio significato e sostituirlo col

nuovo e orrendo; non può essere un caso che nella poesia che si è cominciato a citare l‘anatra-lepre

venga messa davanti allo specchio, e integrata così ( a meno che non sia vero il contrario) in quella

serie di riflessi speculari semplici o doppi che occupano un posto concettualmente così importante

nel lavoro letterario e critico dell‘autore romano.(5) L‘anatra allo specchio non «vedrà spuntare il

suo secondo profilo»: «questa specie di mostri disconosce / la sua parte mostruosa, / senza che

possa esistere agnizione. / La crudeltà dell‘anatra appartiene alla lepre, / che infatti, non a caso,

guarda dall‘altra parte» (p. 59). E quando l‘io prova «a mettere un‘anatra di fronte / alle azioni

compiute dalla lepre», tenendola ferma a forza, non ottiene ugualmente nessun riconoscimento, anzi

la macchina si disattiva come per sovraccarico o corto circuito: «c‘è un relais, in quei disegni, / che

non consente loro alcun passaggio / da un lato all‘altro della prospettiva. / Per questo certe lepri

sono in grado / di fare paralumi in pelle umana, / mentre l‘inconsapevole anatra/ volge il viso» (p.

65). È fin troppo evidente, dunque, che a mancare in questa nuova versione della parola-trattino è

quell‘«attrito» che la parola aveva in origine la funzione di ritrarre: l‘«io fricativo» di Treno-cometa

ha lasciato il posto a un‘agenzia di autoesonero che solleva il soggetto dalla consapevolezza delle

crudeltà di cui pure è, indirettamente quanto si vuole, responsabile. Niente attrito, niente dolore, e

niente contatto con il presente e la storia (era questo, abbiamo visto, l‘intreccio sempre sciolto e

riallacciato di CC): tutto fila liscio come l‘olio. Anche la scrittura poetica è dunque costretta a

rivedere il proprio statuto, e ad assumerne uno più modesto e integrato: «ninnoli fatti con calcoli

renali? /Se con i propri, passi. Poesie. / Smaltimento rifiuti» (p. 64). Dalla «renella del sogno»

come fondo in cui leggere i traumi nascosti della storia si è passati ad una dignitosissima e forse

perfettamente vana autoecologia: i calcoli non sono più ―in comproprietà‖ con la storia, ma soltanto

e desolatamente propri, buoni per il riciclaggio e la decorazione. Braccialetti per l‘anatra e niente

più. La regressione dal terreno ideale su cui i precedenti lavori di Magrelli avevano condotto il loro

sperimentare, senza che a tale abbandono corrisponda l‘attivazione di un diverso campo di forze,

porta la poesia al suo punto di massima e apparentemente irrimediabile paralisi nella coppia di testi

del Post scriptum, dove la resa completa è sancita da quella che si deve chiamare una visione,

ambientata durante un sei di gennaio, «Nera Epifania» con tanto di maiuscole allegorizzanti,

squarcio del velo. L‘ultimo fondo su cui si era nonostante tutto sperato di poter organizzare una

resistenza, di orchestrare un piccolo cerimoniale da opporre, anche solo simbolicamente, a quello

strapotente del Capitale immateriale e informatizzato, per tenere in vita almeno qualche piccolo

cenacolo di cospiratori, si rivela già parassitato, invaso dal consueto Nemico:

[…] la lepre mi balzò agli occhi

e mi rispose mentre mi rivolgevo all‘anatra.

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Fino ad allora avevo ciecamente

creduto nella sacra liturgia del colloquio.

Comunicare, per me, significava comunicarsi nella comunione di una parola comune.

Quel giorno compresi lo scopo del Giano animale:

vanificare, ossia «gianificare», ogni scambio verbale.

Adesso è un mondo invaso da ultracorpi, dove chiunque potrebbe rivelare un profilo nascosto,

parallelo,

ignoto anche a se stesso.

Tutte le venature pneumatologiche che si potevano scorgere nella tessitura della pagina

magrelliana qui vengono esposte in maniera diretta come mai prima, nella figura etimologica

complessa che concatena o meglio identifica comunicazione, comunità e comunanza nel soffio della

parola e nell‘arte dell‘ascolto partecipe, solo per cedere alla ―gianificazione‖ che ne contaminerà il

potere vivificante rendendolo non più affidabile. Non sarà ormai più possibile pensare una

molteplicità che ha una lingua in comune, cioè che viene insieme articolata e tenuta insieme dalla

lingua che ciascuna singolarità lavora sul limite del proprio corpo (corpo proprio sempre esposto

estaticamente ad un‘apertura originaria sul mondo, in quello che Merleau-Ponty definiva

«chiasmo»), ma l‘unico modello disponibile per la nuova situazione sarà quello dell‘ultracorpo, del

parassita alieno impiantato nell‘organismo ospite fino a farne parte integrante. Comunità di anatre-

lepri, di virus, di Aliens. Vedere l‘amica anatra, con la quale è amabile colloquiare, trasformarsi

improvvisamente in un essere mostruoso e crudele instilla un intollerabile dubbio retroattivo sui

precedenti colloqui: ci saremo parlati davvero? con chi parlavo? È così diventato illusorio confidare

nella presenza di una «lingua comune» (p. 75) o nella capacità di costruirla; il «pesce-moneta-cane»

privo di apparato respiratorio autonomo ha scompigliato con un colpo di coda la piccola sfera del

respiro messo in comune.

Creature biforcate e logo-immuni

mi sorsero davanti,

invulnerabili alla verità.

Ero entrato nell‘era dell‘anatra-lepre,

in un‘età del ferro, del silenzio. (p. 75)

Commento

Si potrebbe dire che V sia la continuazione di DID e di DSB con i mezzi di CC: confermato

l‘assetto complessivo del precedente libro di prose, V offre pezzi brevi (mediamente più brevi che

in CC), disposti in una serie dettata da un tema o occasione unico – qui i «treni e viaggi in treno»,

come da sottotitolo, là il corpo e i sui metamorfici malanni – tema svolto in entrambi i casi

tuffandosi nel materiale biografico e biologico; si ripresentano i complicati intrichi di citazioni dai

libri degli altri e dai propri, e l‘accostamento di prosa e poesia, e analogo è l‘intento di autoanalisi e

riconsiderazione della propria traiettoria esistenziale. Ma la temperatura emotiva, l‘attitudine e direi

quasi il timbro con cui si attuano questi procedimenti è simile piuttosto al (quasi) disperato

sconforto dei due volumetti poetici, e gli elementi di novità di V sono, si direbbe, sviluppi degli

esiti in quelli raggiunti. La fisionomia di V è quella di CC sottoposta ad un intervento che la modifica sensibilmente, anche se non è subito facile comprendere in che modo. In linea di massima,

e con le precisazioni che seguiranno, dico che qui Magrelli riprende e ribatte, come al solito,

porzioni del suo repertorio e si serve ancora della tecnica del richiamo, dell‘ibridazione e

dell‘innesto, ma per cercare la maniera di contenere, di arginare e separare da sé la mostruosità con

cui si era per un certo periodo rivestito, secondo la direttiva ―farmacologica‖ che si è vista. Questo

nuovo cambio di strada deriva dalle conclusioni che all‘autore è sembrato di poter trarre da una

parte sulla qualità solo immaginaria e illusoria della sua precedente teratologia come sonda di

indagine e contatto (o forse più direttamente, sulla natura illusoria di ogni immaginario), e vira

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verso la ricerca (o la nostalgia, o il rimpianto postumo) di una «giusta distanza», tra sé e sé e con le

cose, di un punto d‘osservazione affidabile. Per cominciare, Magrelli ripropone una sua tematica

antica come quella del sonno, che a partire da OSR è già stata l‘oggetto di più d‘una manipolazione

e rovesciamento, e la declina secondo la ―postura spirituale‖ di DSB. Già raccoglimento essenziale

in cui il soggetto si ritira in sé stesso e accede all‘ambito protetto dell‘elaborazione del pensiero e

dello sguardo (in OSR), già riposo turbato e interrotto dalle voci che il muro della casa, emblema e

dispositivo identitario, non riescono a tamponare sufficientemente (in ET), qui al sonno viene

attribuito un carattere comatoso e «agonico» (p. 7), in cui l‘io smarrisce («Smarrimento.

Smarrimento») sia ogni lucidità ―eidetica‖ sia ogni ascolto del brusio interno/esterno del mondo.

Questa radicale perdita dei sensi è inoltre ambientata, nel primo dei molti pezzi dedicati alla

questione nel libro, su un treno notturno in corsa, e accompagnata da una fortissima perdita di

luogo, dal soggiorno in uno spazio interstiziale, unione e separazione (ancora Giano); e questo

spazio si estende, e assimila a sé tutti gli altri:

Viaggiavamo di notte, su convogli stipati, senza cuccetta, senza nemmeno il posto. A volte si dormiva nei corridoi,

finché una volta ci dovemmo arrendere, e ci accomodammo sul passaggio pensile. […] Acque abissali, dieci, quindici

ore di un sonno agonico. Smarrimento, smarrimento. E dunque cosa cambia, dormire dentro un letto o sopra una lastra

d‘acciaio, a picco sui binari, in un rombo, uno scasso a centoventi all‘ora? Io dormivo così: ero il sogno del treno. (p. 7)

Lo stile di V presenta rispetto a quello di CC una proliferazione metaforica molto minore, è

mediamente più secco, scarno. La mouvance e gli effetti di risonanza semantica sono assai

diminuiti, anche se le prose continuano a succedersi non secondo un disegno o programma

prestabilito ma per affinità e contiguità interne. La discontinuità, la forte cesura rispetto al passato si

vede particolarmente bene in alcuni casi di autocitazione. Ad esempio:

Fino a pochi anni fa, appena dietro le Mura Vaticane, una strada senza uscita conduceva alla Stazione San Pietro,

piazzetta per lezioni di scuola guida, quadretto paesano stremato e dolcissimo. Da lì partiva il treno per Viterbo. Il

Lazio, il proto-Lazio!, col suo parlare sgraziato e povero, mozziconi e parole, l‟aria rustica e Oriolo, Settevene,

Spizzichino.

Ora è cambiato tutto. Inevitabile, certo, ma dico solamente che è cambiato. La piazzetta è diventata una rotatoria, la

stazioncina, un fabbricato moderno. E adesso che ci penso, ricordo che c‘era addirittura la vasca dei pesci rossi…

Inutile rimpiangere – e rimpiangere cosa, alla fin fine? Giusto le lezioni di scuola guida. Meglio dimenticare.

Obliteriamolo, questo passato, obliteriamolo come un biglietto, anzi, per dirla tutta, come un ―titolo di viaggio‖. E così

sia. (p. 16)

Il primo paragrafo viene da Terranera, una delle prose ―memoriali‖ di ET, ma è da notare

come rispetto all‘inclusione tendenzialmente integrante (secondo il paradosso ricordato dell‘intimo

come il più estraneo) di CC, dove le tracce dell‘avvenuto innesto non erano così evidenti, qui il

testo si presenti nettamente bipartito, e le componenti siano differenziate anche dall‘uso del corsivo

e del tondo (la cui alternanza si trovava già in CC, ma mai a discernere narrato da commentato o ora

da allora). Il passo citato non è più l‘intimamente estraneo motore del testo, il processo autocitatorio

non si conta più nel novero delle oscillazioni che tracciano e cancellano il confine tra dentro e fuori,

tra corpo e mondo, tra memoria come conservazione e oblio come libero riutilizzo; qui i rapporti

temporali e concettuali tra le parti nettamente distinte si allineano su una ben precisa gerarchia. La

citazione in corsivo è il passato, ed è lo stile e l‘attitudine magico-evocativa che trova un angolo

arcaico nel cuore della metropoli moderna o postmoderna; l‘altra sezione è il presente della

riflessione – quasi un piccolo soliloquio a mezza bocca, con espressioni e sintassi semicolloquiali –

che marca la distanza da quel passato, lo commenta congedandolo e guardando fisso a quello che

c‘è ora. Il passato va dimenticato o meglio obliterato; e il termine si attesta subito nell‘orrendo uso

che se ne fa recentemente, come sostituto asettico e tecnico-burocratico di ―timbrato‖, con riguardo

ai biglietti dei mezzi di trasporto (altri dice ―vidimato‖). La correctio seguente, che cancella

(oblitera?) ―biglietto‖ a favore di «―titolo di viaggio‖», è la seconda spia della resa della lingua alle

derive nell‘insignificante e nell‘inutilizzabile: e si pensi al Post scriptum di DSB e alla perdita, lì

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denunciata, di una lingua comune (la perdita di un sogno, come detto esplicitamente, il sogno di

ricondurre la ―comunicazione‖, feticcio fra i massimi degli ultimi cent‘anni di società spettacolare,

al calore di una comunione, di un mettersi in comune nella lingua), disperatamente rimarcata qui

dalla formula iussiva-ottativa di chiusura («e così sia»). Magrelli non ―viralizza‖ più il suo corpus

scrittorio depositato, facendosene a sua volta viralizzare nell‘opera in corso di fattura, in un

movimento di duplice disorientamento costruttivo; al contrario, l‘autore ristabilisce delle distanze

accertabili, disciplina il corpus e la storia personale e culturale, e si avvicina molto, fino ad aderirvi

pienamente, al codificatissimo genere del commento.

Si tratta di una mossa di grande peso interpretativo. Un dispositivo di aggregazione testuale

partito come indice e produttore di disidentificazione – quello dell‘auto-etero citazione – fa segnare

per ora la sua ultima tappa approdando alla spiegazione di come l‘autore ha scritto certe sue poesie.

In CC questo sarebbe stato non meno che impossibile; invece V sceglie di chiudere (positio

princeps, quindi: la coda) proprio con un‘autoesegesi, e per di più indirizzata all‘importantissima

Treno-cometa, il testo della parola-trattino come «ritratto dell‘attrito». L‘ordine della pagina e le

movenze della prosa sono rivelatrici: il testo poetico è posto in alto, riportato integralmente (incluso

il lungo brano in esergo), seguito, dopo una spaziatura (una distinzione), dalla prosa che si avvia

con una tipica formula metalinguistica: «questa poesia, la sola che ho dedicato per intero al treno,

ha una storia piuttosto complicata». Le cinque pagine successive saranno occupate dagli sforzi di

dispiegarla, di districare la complicazione; e Magrelli si muove secondo le più riconoscibili e

istituzionali regole di un commento ben fatto. Distingue innanzitutto gli elementi che il testo ha

annodato e sovrapposto, chiamandoli «visioni» ed enumerandone quattro (clinica, aneddotica,

storica, mitologica) forse con non so quanto volontario richiamo ai canonici quattro sensi di una

scrittura prescritti dagli esegeti tardoantichi e medievali; passa quindi alla spiegazione separata di

ciascuna delle quattro, inserendo persino due lunghi passi di Tito Livio e di Baltrušaitis (e, in

aggiunta, citando un «intero volume» «scaricato da internet»: il commentatore aggiorna i suoi

strumenti di ricerca) che gli sono serviti come spunto (non c‘è commento che possa sollevarsi da

un‘adeguata ricerca delle fonti), e conclude compendiando il senso ultimo del testo,

l‘interpretazione da dare all‘io fricativo: «La sofferenza è la pietra molare su cui affilare la nostra

identità» (p. 103). Un poscritto a pie‘ di pagina, entro parentesi tonda, chiosa: «(Queste prose,

perciò, sono gli ultimi focolai delle scintille sparse dal treno in corsa)». Nel dubbio se questi focolai

(termine anche medico) si stiano spegnendo, oppure se siano ancora capaci di riattizzarsi e far

divampare di nuovo l‘incendio; e nell‘incertezza se l‘identità affilata sulla mola del dolore sia

ancora in qualche modo condivisa e storica, oppure solo narcisisticamente individuale, tutta intenta

a medicarsi, si può finire qui inscrivendo V sotto un‘egida, un vero e proprio emblema che il libro

racchiude facendosene racchiudere. Si trova in un pezzo, uno dei numerosi, incentrato sul mal di

schiena e sulle misure adottate dall‘io narrante-ragionante per alleviarlo, in questo caso l‘iniezione

di antidolorifico che deve somministrarsi durante il viaggio in treno, nella toilette. Abbiamo così

l‘estremo autoritratto allo specchio che l‘autore ci consegna; non di fronte ma di spalle, in

disagevole torsione, con le brache calate, cercando di individuare grazie al suo riflesso il punto in

cui far penetrare l‘ago. La proiezione mitologica, una delle molte che troviamo nell‘opera di

Magrelli, e che andrebbero studiate attentamente, è anche in questo caso ambigua, e se da una parte

la solenne drammaticità del mito è bruscamente ridotta dall‘ambientazione in cui è costretta, non è

inverosimile pensare che la direzione del movimento potrebbe anche invertirsi:

Cercavo di individuare il bersaglio mobile, fra sussulti improvvisi dei binari, contorcendomi spalle allo specchio. Io,

piccolo Perseo medico, volgevo gli occhi verso quello scudo magico per sconfiggere il male, la tremenda Gorgone

dorsale che altrimenti mi avrebbe pietrificato. Più o meno a quel punto bussavano, i Banali, per distrarmi, per spingermi

a fallire; ma intanto il più era fatto, il colpo già vibrato, il paletto di frassino calato, per inchiodare il Vampiro del dolore

alla bara del Buscopan.

Quest‘autoritratto con specchio e siringa (o scudo e spada, o vampiro e paletto di frassino),

che sarebbe di stupendo manierismo, non fosse per il grammo di bonarietà che colora l‘ironia,

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espone le cifre del soggetto che agisce in V, dolorante, in equilibrio incerto, che interviene sul suo

corpo con uno strumento tecnico non per verificare affascinato la porosità dei suoi confini e

l‘indecidibilità tra proprio e altro, ma per sedare le fitte, mettere fine ai morsi del vampiro (altro che

le vertebre-pacchetti di CC): se non proprio per diminuire l‘attrito, almeno per ridurne

farmacologicamente gli effetti percepibili.

Coda

O supplemento da ponderare e situare non so bene come. Nel gennaio 2010 Magrelli ha

pubblicato Nero sonetto solubile, un bellissimo saggio critico su dieci diverse trasmissioni, e quindi

riprese, quasi esclusivamente in area francofona, del sonetto baudelairiano Recueillement. Nei

capitoli più teorici, il primo e l‘ultimo (il capo e la coda), l‘autore discute lungamente del problema

che in fondo si ritrova, variamente svolto e sfumato, in molta parte della sua opera letteraria, ossia

quello dell‘eredità, del destino di una tradizione, non solo letteraria, attraverso il tempo, del

rapporto tra libertà e costrizione nel contatto con i Padri, di una fedeltà che sia anche incessante

trasformazione. E lo fa con un massiccio ricorso – sostanziato qui apertamente da una ricca

bibliografia filosofica, soprattutto francese – sia all‘area lessical-concettuale della malattia e della

patogenesi, sia alla figura o non-figura del mostruoso. La tradizione non è pensata come

Patrimonio, sempre da proteggere contro i pericoli di alienazione, di sperpero, ma proprio come

focolaio d‘infezione, come virus, come parassita che infetta i testi di epoche successive: li infetta

vivificandoli, mettendoli in mutamento e mutando essa stessa nel contatto-contagio. I frutti vivi

della tradizione, mostruosi perché singolari, sono non quelli che vi attingono come ad una riserva

(un parco storico o geografico), bensì quelli capaci di esserne affetti, di inocularsela, e di produrre

così tanti testi-malattia ognuno diverso dall‘altro. Magrelli indica un‘alternativa, sul terreno

dell‘intertestualità, tra un modello di riferimento edipico-genitoriale e uno virologico-parassitario,

«il primo basato sulla figura autoritaria e isolata del genitore, l‘altro su quella plurima e pervasiva

dell‘inquilino. […] Potremmo da un lato immaginare la citazione come un uovo, una cisti, che

giunge ad annidarsi nella nicchia dei testi altrui; dall‘altro vedere l‘autore come un agente di

trasmissione, intento a covare e incubare la tradizione sotto forma di dono e contagio» (p. 210).

Come contrappeso al favore qui espresso nei confronti della citazione-contagio, può forse giocare il

fatto che Magrelli l‘abbia espresso così chiaramente nell‘ambito tendenzialmente oggettivizzante

(immunizzato?) della scrittura critica. Ma potremmo altresì pensare che questo sia un modo per

―spingere la scrittura critica‖ verso l‘opera, in una fruttuosa indeterminazione: è quello che da

qualche anno fa Gabriele Frasca; e forse è anche quello che sta tentando, certo con cautele molto

maggiori, anche Magrelli.

Mentre chiudo queste pagine, mi giunge notizia di un altro libro magrelliano, appena

pubblicato nella collana «fuoriformato» dell‘editore Le Lettere, diretta da Andrea Cortellessa (alla

gentilezza del quale devo le informazioni che seguono). È un libro di pezzi per musica e sulla

musica (assieme al libro ci sono tre cd su cui si possono ascoltare gli arrangiamenti, le

orchestrazioni di testi compresi nel volume), e ha come titolo Il violino di Frankenstein. Musica e

mostruoso, dunque, e per di più accostati in un‘autocitazione (innalzata addirittura a epigrafe). Così

l‘explicit di Lezione di metrica, in ET: «Il violino di Frankenstein mi chiama. / E io sono il mostro

musicale / condannato alla ruota musicale / della sua musicale nostalgia» (p. 284).

L‘ultima reviviscenza analogica di V, a dispetto della disillusione e del dolore, compara il treno agli

spermatozoi, «creature caudate che corrono verso la fecondazione, per sparpagliare i loro semi nel

mondo» (p. 104), con doppia sovrapposizione, che rimane da immaginare al lettore, tra coda di

vagoni, coda dello spermatozoo e coda del libro: colpo di coda, zigzag per riaprire e reinventare da

un‘altra parte.

Federico Francucci

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Note.

(1) Le opere poetiche di Magrelli sono Ora serrata retinae, Milano, Feltrinelli, 1980; Nature e venature,

Milano, Mondadori, 1987; Esercizi di tiptologia, Milano, Mondadori, 1992 (queste tre raccolte sono

confluite, con l‘aggiunta di un gruppo di versi inediti in volume, in Poesie (1980-1992) e altre poesie,

Torino, Einaudi, 1996, da cui qui si cita), Didascalie per la lettura di un giornale, Torino, Einaudi, 1999,

Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006. Del lavoro in prosa qui si citerà da Nel condominio di

carne, Torino, Einaudi, 2003, e da La vicevita. Treni e viaggi in treno, Roma-Bari, Laterza, 2009. Le due

uscite recentissime alle quali si fa cenno nell‘ultima parte del saggio sono Nero sonetto solubile. Dieci autori

riscrivono una poesia di Baudelaire, Roma-Bari, Laterza, 2010, e Il violino di Frankenstein. Scritti per e

sulla musica, Firenze, Le Lettere coll. «fuoriformato», 2010.

(2) R. Krauss, Post-strutturalismo e paraletterarietà [1979], in L‟originalità dell‟avanguardia e altri miti

modernisti, Roma, Fazi, 2007.

(3) G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo dei media, Roma, Meltemi, 2005.

(4) Il lungo passaggio in esergo, di misura superiore a quella del testo stesso e per di più appartenente ad una

―letteratura‖ così distante dalla poesia come quella giudiziaria, produce ovviamente un urto e uno squilibrio

(un altro attrito, si potrebbe dire). Anche in questo caso però si possono trovare dei fluidi per oliare la

macchina ibrida. In Sopralluoghi (il dvd è uscito da Fazi nel 2007), il filmato in cui Magrelli legge e

commenta alcune sue poesie in ―cornici‖ da lui individuate nella città di Roma, l‘autore afferma di essere

stato colpito dal «tono commosso» e dalla potenza immaginifica della prosa legale ( i ―fasci‖ di scintille che

si ―sprigionano‖, la forza laconica del ―bruciato‖ di chiusura) e la legge alternando la cadenza acciaccata e

strascicata a impennate di solennità.

(5) Oltre ad attraversare, tra scomparse e riemersioni, l‘opera poetica, la figura dell‘uomo allo specchio è

investigata a lungo da Magrelli in Vedersi vedersi. Modelli e circuiti cognitivi nell‟opera di Paul Valéry,

Torino, Einaudi, 2002.

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GIAN LUCA PICCONI

“GROTTESCO PER DISPERAZIONE FORMALE”: LIRISMO E ROMANZO IN ALDO

NOVE E TOMMASO OTTONIERI

1. Mi chiedo cosa accadrebbe se un ipotetico lettore avvertito della fine degli anni ‘50 fosse

improvvisamente catapultato nel 2010: come leggerebbe i libri di Aldo Nove e Tommaso Ottonieri?

Supponiamo che questo lettore, superato un primo momento di possibile rifiuto, decida di prendere

sul serio sperimentazioni così difformi da quelle possibili, appunto negli anni ‘50: quali categorie,

quali strumenti critici avrebbe da impiegare, per entrare nella materia di queste scritture, di due

libri-romanzo come Puerto Plata Market e Le strade che portano al Fùcino? Sono quasi sicuro che

il grimaldello che il nostro ipotetico lettore adotterebbe per una entrata in materia sarebbe, per lo

meno inizialmente, quello del lirismo. Cercherò di fornire alcuni esempi di lirismo nel romanzo: che

non vogliono assurgere a prospettiva totalizzante, ma solo consentire di inquadrare minimamente il

fenomeno. Immaginiamo che questo testo sia stato scritto a quattro mani, da quel lettore avvertito di

sessant‘anni fa e da me.

In una lettera indirizzata a Pasolini all‘indomani della pubblicazione di L‟usignolo della

Chiesa Cattolica, Calvino scriveva: ―La lettura del tuo nuovo libro di vecchi versi propone una

redistribuzione dei generi letterari: alla poesia in versi spetta oggi quello che prima era materia dei

romanzi autobio-bildung-psico-ideologici, mentre alla prosa narrativa tocca quella traduzione in

immagini oggettive, ritmo musicale e cifre linguistiche proprie del mondo soggettivo, che una volta

era tema della poesia in versi. Il che è giustissimo‖ (1). È forse una rozza semplificazione, ma non

manca di cogliere un nucleo di verità. L‘ossessione di Calvino, evitare l‘autobiografismo, era in

molti e diversi modi il rischio di una certa parte del romanzo a lui contemporaneo: il romanzo

dell‘―uomo ermetico‖, avrebbe detto altrove(2). Era anche effetto di una congerie di esperienze

radicate nella biografia calviniana: il romanzo dell‘uomo ermetico era quello che Vittorini aveva

coscientemente, anzi, dal suo punto di vista coscienziosamente abbandonato; ma era soprattutto

quello che, con il suo decadentismo, si era trovato a preludere al suicidio di Pavese. Un conto mai

chiuso, in fondo, per Calvino: che quando sentiva puzza di romanzo lirico, si ritraeva con sospetto.

Non a caso, di fronte a Ragazzi di vita, Calvino si esprimeva in termini che contemporaneamente

dimostravano apprezzamento e una evidente svalutazione; Ragazzi di vita era ―pur bellissimo come

poema lirico‖(3), ma certo inferiore a Una vita violenta.

Romanzo e soggetto, romanzo e voce. Anna Banti e Pasolini. Il problema della distribuzione

dei generi in Pasolini era sentito anche da altri personaggi cimentatisi con la sua opera. A.[nna]

B.[anti] scriveva su ―Paragone‖: ―Pasolini racconta col linguaggio medesimo dei suoi protagonisti,

confondendosi con loro, sforzandosi di entrare nei loro panni, forse per non tradirne le loro ragioni.

[…] in altre parole, per cancellare il proprio io di narratore colto e civile – e dunque per eccesso di

generosità obiettiva – il Pasolini finisce per negare talvolta ai suoi eroi la sua partecipazione

personale‖(4).

Discorsi simili a quelli di Anna Banti sulla sua prosa, Pasolini li aveva fatti sulla poesia: ―c‘è

nel poeta dialettale medio il terrore di essere linguisticamente diverso. Di non obbedire rigidamente

a quel codice d‘onore linguistico che è nell‘anonimo anche più scanzonato. E la sua più grande

ambizione è quella di annullarsi nell‘anonimia, farsi inconscio demiurgo di un genio popolare della

sua città o del suo paese, portavoce di una «assoluta» allegria locale‖(5). Insomma, la catabasi

lungo i gradi della soggettività fino a un suo grado zero, all‘inizio della sua carriera, Pasolini la

predicava riguardo alla poesia dialettale (ma si direbbe che il dialetto non sia che un corollario di

questo lirismo desoggettivante); nella fase mediana erano gli altri che la avrebbero attribuita alla sua

narrativa(6).

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Ancora Calvino, e un salto di anni. Nella quarta di copertina al primo libro di Francesco

Biamonti, L‟angelo di Avrigue, Calvino scriveva: ―è una voce grave e pausata, con una naturale

propensione per i toni lirici e sospesi‖. Lirici è qui una parola chiave di capitale importanza, poiché

serve a classificare il romanzo di Biamonti come un prodotto postremo di quel filone del romanzo

dell‘―Uomo ermetico‖ su cui Calvino all‘inizio degli anni sessanta tanto aveva detto. Recensendo

Memoriale di Volponi, aveva scritto: ―Il fare la prosa con i modi della lirica, risolvendo il racconto

nell‘espressione atmosferica e paesistica degli stati d‘animo, era un pericolo che la narrativa italiana

ha evitato di stretta misura al momento di uscire dall‘ermetismo, e non è giusto che ci torni‖(7).

Vent‘anni di tempo avevano insomma capovolto le cose; ma non più di tanto: anche a Volponi era

consentito di impiegare una forte ―tensione lirico-trasfigurativa‖, poiché questa era ―la più adatta a

esprimere la contraddittoria realtà attuale: tra tecniche industriali avanzate e situazione social-

antropologica arretrata‖(8). Al lirismo viene concessa una patente di cittadinanza nel romanzo,

purché svolga un ruolo pienamente funzionale e non unicamente esornativo.

Non c‘è forse scrittore più fedele di Calvino ai modi della prosa, più pronto ad abbracciare la

forma-prosa come un‘ideologia (tutta carica del pathos della distanza, ma anche di quello della

chiarezza, della lucidità, della coerenza); eppure ciclicamente è costretto a fare i conti con gli aspetti

soprattutto italiani di un romanzo il cui codice espressivo mutua dalla lirica stilemi e tonalità

emotive e patemiche. Che questo raffronto sia particolarmente problematico per Calvino si può

capire se si pensa che in fondo la scrittura con cui si confronta Calvino quando si riporta a questo

tipo di esperienze narrative è quello di Pavese. Con uno sforzo chissà quanto doloroso di lucida

severità, Calvino si era spinto a scrivere: ―Avete visto che ho lasciato fuori l‘ultimo romanzo breve

scritto da Pavese, La luna e i falò, perché oggi ho qualche dubbio che la condensazione di lirismo,

verità oggettiva e groppo di significati culturali si sia attuata appieno‖(9). C‘è dietro questo giudizio

l‘evidente impressione che il lirismo possa costituire una sorta di scorciatoia verso il decadentismo,

malattia ideologica del novecento; e questa arrière-pensée agirà sempre dietro alla coscienza

letteraria di Calvino.

Pavese, Pasolini, Volponi, Biamonti: che cos‘hanno in comune i loro romanzi? Si direbbe,

per tutti, anzitutto, assieme all‘importanza del lirismo, la centralità della stasi descrittiva: deputata

ad accogliere appunto tutto ciò che contribuisce a creare quella sorta di impalpabile e non

positivamente definibile atmosfera lirica. Non si dimentichi che, a parte l‘ultimo, si tratta di autori

che hanno tutti praticato una diglossia di romanzo e poesia. Tra romanzo e poesia si possono vedere

perfettamente due elementi: l‘esigenza di un inapparente ma pure effettivo ibridismo tra le forme;

l‘idea di una testualità dalla dimensione precipuamente testimoniale (ma l‘urgenza testimoniale è

l‘urgenza di testimoniare – cioè far emergere -, in modi differenti, il Sé)(10). La descrizione

accoglie una prima problematizzazione dell‘idea di punto di vista: perché riporta a un imperfetto e a

una scalarità cronologica una visione che ha invece le modalità presentative (ordine, precisione

allucinatoria, lentezza) della presa diretta.

In una conversazione con Paolo Volponi dal titolo di Il leone e la volpe, Leonetti affermava

la necessità di entrambi gli autori di dinamizzare i generi letterari attraverso il loro dialogo, la

contiguità di verso e prosa, l‘assenza di gerarchia tra le due modalità di scrittura: ―LEONETTI A

partire dal ‘50, quando cioè l'officina dei versi si allarga e si complica con l'irruzione dei lavori

narrativi, la presenza contigua di prosa e poesia è una costante, presso di te, e anche presso di me.

Ed è un punto forte, e non studiato ancora, della ricerca nel Novecento‖. A radice di una simile

disposizione di scrittura c‘è probabilmente l‘attitudine, da Leonetti perentoriamente attestata, di

scrittori ―neovociani‖(11).

Da Tozzi (più perspicuo rispetto ai pur vicini Vociani), approdando a Pavese, passando per i

Ragazzi di vita di Pasolini, attraversando scrittori sperimentali come Volponi per pervenire infine a

un ultimo episodio, certamente fuori tempo: quello di Biamonti. L‘ossessione di Calvino per il

romanzo lirico: un romanzo che testimonia la vocazione italiana a fare sì che i modi del poetico

entrino a far parte delle modalità espressive del romanzo ―come un plasma vitale e nascosto‖.

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Calvino sembra quasi ossessionato dal lirismo, lo vede dappertutto, anzi, ci ha insegnato a vederlo

dappertutto.

2. Poiché Biamonti è appunto l‘ultimo e intempestivo capitolo di questo percorso di scrittura

per specimina che si è sdisegnato, ripartiamo da lui per inquadrare ulteriormente il problema. In una

intervista a Bernard Simeone, Biamonti diceva: ―peut-être mes livres sont-ils marqués par un certain

excès lyrique, mais le lyrisme n‘est-il pas la forme la plus ancienne et la plus noble de l‘étrangeté

des choses? Chklovski, le grand formaliste russe, soutenait qu‘on peut créer cette étrangeté en

combinant les choses, les détails, ou bien en imposant un fort accent lyrique. Ce lyrisme doit rester

attaché aux choses, mais se développer en spirale sur lui-même. Et par ce développement, j‘estime

qu‘il peut faire progresser la narration. Il faut jeter son cœur parmi les choses sans l‘éloigner, le

regarder comme s‘il était lié à un rocher, à la terre ou à la mer, objectiver tout en restant lyrique. Le

risque du lyrisme, c‘est un excès d‘autobiographie‖(12).

Difficile non sentire stridere l‘accostamento di due idee differenti quali quella di lirismo

come straniamento e lirismo come eccesso autobiografico: da un lato una percezione in cui la

solidarietà tra autore empirico e autore implicito pare dissolversi per sciogliersi nelle cose; e

dall‘altro la percezione di momenti di una meccanica e diretta identificazione tra postazione

enunciativa e Voce autoriale: dialettica tra sentire non soggettivo e sentire soggettivo della scrittura.

Figura dell‘astanza dell‘autore empirico e della sua immanenza al testo, in questo secondo caso;

mentre nel primo traccia che testimonia il divenire altro della voce nella scrittura, le due posizioni

di Biamonti riportano, in fondo, a quel dissidio che Calvino aveva ritrovato nella ripartizione tra i

generi rivolgendosi a Pasolini: un Pasolini deprivato della voce e un Pasolini invece tutto rovesciato

su se stesso nell‘atto dell‘espressione radicale della propria soggettività. Come se Biamonti

presentasse al contempo nel corpo della sua scritture queste due opposte istanze; ciò che in fondo è

inscritto nel suo stesso progetto di scrittura: ―Il faut jeter son cœur parmi les choses sans l‘éloigner,

le regarder comme s‘il était lié à un rocher, à la terre ou à la mer, objectiver tout en restant lyrique‖.

Resta che, in ogni caso, quando si parla di lirismo ci si pone di fronte al problema della soggettività

nel testo, e alla sua duplice configurazione. Ora, il romanzo lirico è sempre un po‘ nella situazione

di Biamonti, quella di non risolversi né in un senso né in un altro, ma di far coesistere due soluzioni

di per sé contraddittorie.

Il problema della soggettività del testo è ovviamente un problema di natura – potremmo dire

- simulacrale: riguarda un qualche elemento di discordanza tra il simulacro di autore che ci siamo

costruiti e la rottura del correlativo orizzonte di attesa che scaturisce dai tanti elementi di

costruzione del simulacro; ma al contempo non cessa di farci interrogare sulla questione

dell‘autorialità. In che modo la soggettività di un testo rimanda al nome d‘autore? A voler

schematizzare fortemente, potremmo dire che esistono due tipi di rimando fondamentale: uno per

designazione metaforica, l‘altro per contiguità metonimica. Esistono insomma a grandi linee due

ideologie del rapporto tra opera e autore: quella secondo cui l‘opera allude, rappresenta il suo autore

(sta per), e quella per cui l‘opera è una continuazione dell‘autore. L‘opera sostituisce oppure integra

l‘autore, lo completa; è supplenza o protesi.

Non è facile ora ricondurre queste modalità di prensione identitaria a generi fissi. Se ci

domandiamo chi parla nelle poesie di Montale, sarebbe difficile non rispondere che sussiste una sia

pur problematica, o, per meglio dire, aporetica, solidarietà tra io del discorso e io dell‘autore. In

certo modo, la poesia lirica, almeno fino a Montale, dà vita a una continuazione della voce d‘autore;

la voce dell‘autore vi è immanente; l‘autore è quindi designato dal testo metonimicamente, nella

schematizzazione che qui si adotta. In Il fu Mattia Pascal, invece, il testo parla dell‘autore, ci dice

cose sul suo autore, cioè Luigi Pirandello, parlando d‘altro. Nell‘ottica della finzione, l‘autore è

trascendente al testo, il rimando a Pirandello è di tipo paradigmatico e non sintagmatico.

Il romanzo lirico, il romanzo dell‘uomo ermetico, con le sue propaggini anche

tardonovecentesche, in effetti, pone già problemi differenti. Come vedeva Pasolini quello stesso

romanzo in cui Calvino aveva visto un esempio felice di lirismo? Nel recensire Memoriale, di Paolo

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Volponi, Pasolini si rendeva conto, con le categorie ermeneutiche tipiche di quella stagione, del

duplice tipo di rimando presente all‘interno di questo romanzo. Per spiegare lo statuto della voce

d‘autore e il tipo della sua imbricazione al testo, Pasolini è costretto a ricorrere a un exemplum: si

immagini un pittore che dipinga su due vetri due forme differenti, e poi li sovrapponga, ottenendo

un quadro solo; lato sensu, proprio questa è l‘operazione compiuta da Volponi. Ovviamente ai due

vetri corrispondono due diverse articolazioni della voce: in un vetro vedremo disporsi la mimesi

della voce dell‘operaio protagonista, nell‘altro la voce di ―un poeta raffinato che potrebbe essere lo

stesso Volponi‖(13). Queste due voci sono sempre ovviamente compresenti e quasi sempre

inestricabili: ―Non c‘è un momento in tutto il Memoriale in cui questi due strati non siano presenti

al lettore, trasparendo uno sull‘altro in maniera da dare le gioie tecniche della distinzione e della

fusione‖(14).

È già, a questo punto, un problema di ricezione: l‘opera attua nel lettore meccanismi tali per

cui vi è come un differimento tra due modalità diverse di fruizione. Nelle parole di Pasolini: ―Nel

momento stesso in cui, eccitato per questa stupenda meccanica linguistica, esclamo, con il piacere

viscerale del lettore delibante: «Bello, questo rifacimento di linguaggio patologico, particolaristico,

clinico» son costretto a esclamare insieme: «Bello questo passo elegiaco, post-pascoliano,

neosperimentale!»‖(15). Pasolini stesso, del resto, è costretto a riportare a Volponi come autore una

parte del linguaggio visto; e abbiamo già qui una duplice modalità di recepire il linguaggio

volponiano: il libro rimanda a Volponi come autore, ci dice qualcosa del suo autore per

designazione paradigmatica, e contemporaneamente, come Pasolini si accorge, per contiguità

sintagmatica.

La natura non fa salti, come si suol dire, e nemmeno la letteratura; eppure noi li vediamo: e

nella metafora ermeneutica del doppio strato di Pasolini si può appunto ravvisare un salto di questi.

Tanto che l‘apologo del pittore e l‘immagine del doppio strato, divenuti metafora ossessiva,

ricompariranno, testo dopo testo, persino in una tra le più belle scene di Teorema: una doppia lastra

di vetro su cui si sovrapponevano due dripping differenti. Non è certo un caso che l‘autore elabori

questo tipo di metafora proprio occupandosi di un libro come Memoriale: il romanzo, e in

particolare il romanzo lirico, è stato lungo buona parte del Novecento il laboratorio privilegiato di

dinamizzazione del rapporto tra prosa narrativa e poesia lirica(16).

3. Cosa è cambiato oggi (se ha senso impiegare questa ultra-soggettiva categoria di oggi,

come farò, per testi che hanno ormai anche più di dieci anni di vita)? Come si configura il problema

del lirismo, oggi? È ancora un problema attuale nei vari tipi e spazi di testualità che l‘istituzione

letteraria, tra astuzie varie della storia, sta producendo? Risponderei con la lunga citazione di un

passo in cui, a mio avviso, si può identificare una modalità del lirismo contemporaneo. Tra i tanti

passi che si sarebbero potuti scegliere, apparentemente o immediatamente più perspicui, ho scelto

un passo in prosa, il passo di un romanzo, che sembra tutto fuorché lirico (e che fornisce peraltro, a

priori, una sorta di eziologia di certe dinamiche della politica contemporanea):

Io, nel 1989 sono andato con un trans perché ero sul balcone di casa a bere una Fanta e ho incominciato a sudare

pensando a come era a prendere in bocca il cazzo di una gran figa.

Ho preso la macchina e sono andato verso Milano.

Nel 1989, mi ricordo che avevo letto sul «Venerdì di Repubblica» che c'erano tantissime fotomodelle che

arrivavano dalla Russia, e nel servizio erano ritratte a decine, erano a Mosca e si preparavano per una sfilata, e

non ce n'era una sola che non fosse bellissima.

In prevalenza, erano bionde.

A Mosca, c'era anche Iman, che mi sembra è la moglie di David Bowie. Stava in mezzo a queste sfilate, vestita

da pantera.

Il servizio diceva che molte fotomodelle russe sarebbero venute anche da noi, donne e anche qualche trans.

Certe volte, passando in macchina per la provinciale, vedevo queste gnocche con le tette spaventose, e le gambe

lunghe due chilometri.

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Poi ti avvicinavi e ti facevano vedere il cazzo.

Non essendo omosessuale, era forse per questo motivo che ero incredibilmente attratto dal cazzo, e così ho

pensato che la novità è per me qualcosa di importante da succhiare.

Nella vita, bisogna provare le esperienze.

Un'altra cosa che mi ricordo di quell'anno, è che c‘era sempre Craxi sui giornali, e che Cicciolina aveva un

partito in cui faceva vedere le tette. Era il partito radicale, che adesso non esiste più.

Il partito radicale era Marco Pannella, lui era sempre in televisione a dire che non era mai in televisione, e

fumava una sigaretta dietro l'altra.

Io ho accostato la macchina e ho visto meglio questo travestito che sembrava di una bellezza pazzesca. Mi ha

tirato fuori la lingua e ha detto che mi avrebbe tirato fuori il cervello dal cazzo, a furia di ciucciarmelo.

Mi ha fatto vedere il culo e il cazzo.

Aveva la voce di una bambina malata di tiroide che parla dentro un megafono.

All'inizio, il cazzo non si vedeva, il travestito era una biondona con le calze a rete, la giacca in pelle e gli slip.

Poi, all'improvviso, dagli slip gli è uscito un siluro e il travestito ha detto, ti piacerebbe ciucciarmelo tutto, maiale

?

Io sono rimasto zitto, e ho spento il motore.

Io gli ho detto che era un gran pezzo di figa, e quanto costava un po' di pompino e poi incularmela.

Lui mi ha detto quindicimila servizio completo, e di sbrigarmi, cocco, perché dietro c'erano già altre quattro

macchine parcheggiate.

Io gli ho detto di salire sulla macchina, le ho dato 15.000 lire e siamo andati in un posto che mi ha indicato lui più

avanti, una piazza dove c'erano altre macchine con la luce accesa, era un troiaio di persone che scopavano con i

trans.

Abbiamo parcheggiato.

Io gli ho detto di togliersi gli slip e di farmi vedere il cazzo.

Nella luce della macchina il cazzo sembrava ancora più grande e si ingrandiva mentre glielo toccavo e lei mi

metteva le tette in faccia.

Aveva un profumo fortissimo, da vera troia completamente profumata. Io sudavo sempre di più a guardare questa

confusione da sballo da 15.000 lire, deglutivo e volevo prendere il cazzone in bocca.

Lei ha detto prima il preservativo.

Io le ho detto, scusa, cazzo te ne frega, sono io che ti faccio il pompino a te, non tu a me, come faccio a attaccarti

l'Aids se ti succhio il cazzo, al limite me lo attacchi tu se mi sborri in bocca, io ho le gengive a posto.

Nel 1989, essendo caduto il muro di Berlino, andavano tutti a prenderne un pezzo da regalare agli amici o

tenerselo. Mio cugino me ne ha portato un pezzo grande come un mattone medio, e lo tengo in camera, come

ricordo della Storia e del concerto dei Pink Floyd.

In quel periodo, vendevano anche i pezzi del muro di Berlino taroccati al mercato in strada, erano dei pezzi di

cemento normalissimi, presi da chissà dove.

C'erano dei gruppi di sballati che li vendevano a 3000 lire l'uno.

Insomma il trans non ne voleva sapere di farmi succhiare senza mettersi il goldone.

Io gli ho chiesto solo di assaggiargli un attimino la cappella, per sentire il sapore del cazzo di una donna, e quella

si è messa a ridere e ha detto che ero veramente inesperto e maiale(17).

Tronco qui la citazione da Puerto Plata Market, che tuttavia potrebbe continuare ancora. Si

provi anzitutto a rispondere alla domanda ―chi parla qui?‖. Cominciamo con il dire che questo io

narrante parla o scrive in modo del tutto analogo a quella teoria di figuranti che compare in Woobinda. Di Woobinda manca, semmai, un espediente formale di notevole importanza, e cioè la

scrittura che va in loop, o si interrompe improvvisamente a metà, richiamo alla macchinicità del

supporto, alla sua dimensione inorganica, e anche, come si è detto, alle nuove forme di medialità:

un richiamo, tuttavia, di natura mimetica, e quindi tutt‘altro che fuori dalla tradizione. Ma, quanto a

stile e organizzazione retorica, si può registrare una pressoché totale coincidenza tra Woobinda e

Puerto Plata Market. È questo appunto un aspetto interessante di tutte le scritture di Aldo Nove: la

destrutturazione logico-formale non giunge mai oltre un certo limite; con le parole di Francucci:

―l‘io pressoché vuoto e pressoché esclusivamente grammaticale del libro conserva ancora,

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ostinatamente, una larva della funzione di unificare, rendere coeso un pensiero, e […] l‘intelaiatura

del suo discorso è, nonostante tutto, ancora logica, pur se di una logica demente e senza

spessore‖(18).

Quali sono le caratteristiche formali salienti in questa scrittura? Brevemente, direi oratio

soluta, paratatticità, una punteggiatura sotto certi punti di vista analitica, che contrassegna tutte le

pause ma che talora non rispetta le condizioni di coerenza e coesione del testo (virgola dove sarebbe

necessario un punto, per esempio). Le poche subordinate sembrano sopravvivenze di modelli

formali inculcati nella scuola dell‘obbligo, con il loro andamento burocratico. In questa scrittura la

metaforica non è che un epifenomeno del punto di vista straniato e desolante del personaggio

locutore (vedi la similitudine della bambina malata di tiroide); le condizioni di coerenza talora

saltano completamente (vedi l‘inserzione di parti dedicate al crollo del muro di Berlino): partono

divagazioni che interrompono il flusso informativo coerente adducendo al testo frammenti

parzialmente irrelati. Nove, infatti, sta raccontando i tre motivi per cui si ricorda del 1989; ma

invece di raccontare gli eventi uno di seguito all‘altro, li mescola continuamente. La ripetizione del

pronome soggetto, l‘assenza di segnali paragrafematici a introduzione dei discorsi diretti, sono altri

degli elementi che caratterizzano, dal punto di vista formale, questa scrittura. Si potrebbe

aggiungere molto altro (come ad esempio la instabilità nei pronomi usati per il trans, un po‘

maschili un po‘ femminili), ma credo sia sufficiente per classificare questa scrittura come mimetica.

Evidentemente la scrittura mima la voce di un personaggio semicolto o incolto, che parla una forma

di italiano dell‘uso medio, carico di errori logici e di inappropriatezze espressive; non per questo

però reso inattingibile al lettore. Non è certo la voce di Antonello Satta Centanin, non ne è certo la

scrittura; il soggetto ideale che si esprime in queste righe, potremmo anche dire, è ampiamente

spersonalizzato, il suo discorso è colonizzato dal discorso delle merci, è un soggetto debole o

indebolito, sull‘orlo della dissoluzione eppure ancora chiaramente identificabile.

Questo soggetto, però, rimbalza di libro in libro e di scrittura in scrittura di Aldo Nove

costituendone la cifra stilistica più precipua; sicché la mimesi di questa voce non si lega a un

personaggio, ma lega i personaggi a se stessa: precede chi parla, è una sorta di degradato intelletto

possibile averroesco, che parla attraverso il cavo della voce dei figuranti che si avvicendano sulla

scena dell‘enunciazione dei testi di Nove.

La mancata capacità di pianificazione o gestione del contenuto informativo del racconto

(mancanza solo apparente), l‘errore nella dispositio è uno degli elementi stilistici identificanti della

scrittura di Nove fin dagli esordi narrativi: è un effetto pienamente pianificato, e rientra nell‘ambito

dei fenomeni di mimesi dell‘italiano popolare, anche nella sua caratteristica concatenazione logico-

discorsiva. Ora, è proprio come dice Francucci, e già prima Ottonieri: l‘organizzazione destrutturata

non implica assenza di organizzazione; la particolare imitazione cui dà corpo Nove è una traccia

della voce d‘autore, non di quella dei personaggi. Mi spiego meglio: se il supporto attanziale ai

simulacri di soggettività che compaiono come porta parola nei testi di Nove è almeno idealmente

sempre riconducibile ai canoni della mimesi del discorso di uno psicotico, la particolare abilità di

Nove consiste nel trasformare in opera quella assenza d‘opera che dovrebbe contrassegnare da

sempre il discorso dello psicotico, nel conferire la necessaria clôture alla scrittura: clôture che solo

l‘autore potrebbe conferire al testo, non il personaggio che apparentemente parla.

Tommaso Ottonieri, in una sua nota su Aldo Nove, scriveva: ―In Nove, è un tipo, un

universale, il soggetto monologico che si rappresenta, quasi abolendo ogni diaframma fra sé

(autore) e lui (personaggio)‖ (19). Si ripresenta insomma il problema che già Pasolini intravedeva in

Memoriale, di Paolo Volponi: quello della coesistenza di voce autoriale e voce attanziale, di voce

autoriale e voce del personaggio; quello della coestensibilità della categoria di io narrante e io

autoriale; un problema interno alla prosa, ma, evidentemente di natura lirica, se involge le modalità

in cui il Lyrisches Ich si implica al testo. Un problema anche di divisione del lavoro del soggetto, di

soggettivazione del testo tra mimesi (della voce dell‘altro) e registrazione (della voce propria, del

sé). Questa opposizione dialettica è in fondo una opposizione tra un registro – diremo

sbrigativamente – epico e uno più propriamente lirico.

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Ma, se il problema appare essere lo stesso, le categorie ermeneutiche risultano tutt‘affatto

differenti: Pasolini sembra ritenersi capace di isolare le due differenti voci (operaio piscotico, poeta

lirico) in coabitazione nel testo volponiano; al contrario Ottonieri non è in grado di dire dove per

accidente sta parlando Nove al posto del suo personaggio, se non per barbagli. Per Aristotele la

mimesi comica era una questione di identificazione, un‘identificazione anche etica, e morale; qui la

questione dell‘identificazione tra io dell‘autore e io del personaggio è certo più complessa, e

dialettica: una relazione dialettica tra identificazione proiettiva e identificazione introiettiva.

Vediamo intanto concretamente in che cosa consiste questa identificazione-interferenza, tra

io del discorso e io del soggetto, questa sorta di porosità del testo. Ci sono passaggi nel testo in cui

la rottura della mimesi a lasciar aggallare frammenti di un discorso ulteriore sembra più evidente:

―Nella luce della macchina il cazzo sembrava ancora più grande e si ingrandiva mentre glielo

toccavo e lei mi metteva le tette in faccia. / Aveva un profumo fortissimo, da vera troia

completamente profumata. Io sudavo sempre di più a guardare questa confusione da sballo da

15.000 lire, deglutivo e volevo prendere il cazzone in bocca‖. È un passaggio descrittivo, dalla

straniatissima evidenza, che non può coincidere con la capacità di racconto del deprivato

personaggio locutore di Puerto Plata Market, ma deve ben esprimere un punto di vista ulteriore;

sarebbe sbagliato credere che sia il punto di vista di Antonello Satta Centanin; così come sarebbe

assurdo non avvedersi del fatto che il riferimento alla luce in fondo riecheggia attacchi e passaggi di

ben più marcata e tradizionale letterarietà. Diciamo che si tratta di un passaggio in cui a parlare non

è né il personaggio locutore né Aldo Nove, ma una loro ibridazione, un vero e proprio autore

implicito: un autore dalla voce che propongo di chiamare lirica.

È poi la stessa scansione dell‘argomentazione, la stessa scansione paragrafematica, la stessa

dispositio a presentare un punto di vista straniato: ogni volta che c‘è una rottura della coerenza

discorsiva ci si aspetta in fondo di vedere sorgere la ―vera‖ voce dell‘autore, la cui epifania non ha

mai però veramente e completamente luogo. Ma c‘è un punto fondamentale in cui si vede la

solidarietà tra punto di vista del protagonista e dell‘autore: l‘idea che il motore fondamentale per la

decisione di andare con un travestito sia la volontà di succhiare ―il cazzo di una gran figa‖. Vi è

infatti evidente un richiamo all‘idea di pene della madre, di matrice freudiana; e questo richiamo

dissimulatamente colto, incastonato ―come un diamante in mezzo al cuore‖ nel bel mezzo del

discorso del protagonista, non può che rievocare appunto quella speculazione freudiana, in una

vivacissima ed efficacissima parodia. Verrebbe da dire che la giustificazione che adduce il

protagonista per chiarire il perché della sua avventura con un trans sia esemplata persino troppo

meccanicamente sull‘idea freudiana del pene della madre; e che in una comunque normale dinamica

psichica una simile motivazione il protagonista tenderebbe a tacersela. Lo stesso meccanismo

clinico della negazione è da manuale; e sembra riverberare la cultura dell‘autore empirico. Ma

proprio questo difetto di fabbricazione viene fatto assurgere da Aldo Nove a marchio di fabbrica: ed

è un fenomeno che, ancora una volta, se non va ascritto all‘ambito del lirismo, vi è senz‘altro

connesso.

Ascriverei pertanto la prosa narrativa di Aldo Nove all‘ambito del fenomeno che qui è stato

chiamato romanzo lirico; sia pur con l‘avvertenza che gli inserti lirici di Aldo Nove sono certo

meno frequenti rispetto agli esempi citati in prevalenza; e che la fenomenologia del lirismo in Aldo

Nove è pure largamente secolarizzata o dissacrata addirittura, poiché il lirismo spesso è parodia

comica – e patetica - della voce lirica dell‘autore, come nel seguente passo da Amore mio infinito:

Allora non c‘era niente da dire.

Io sentivo il battito del cuore di aria nelle sue mani che mi stringevano.

La sua pelle teneva fermi i minuti, gli anni che devono arrivare. Io non sapevo più chi ero. Io non sapevo più chi

era, c‘era il rumore del mare per davvero che diventava più forte e era il rumore del mio cuore che premeva contro

di lei mentre l‘abbracciavo ero piccolo ero un puntino che torna indietro che ritorna sempre più piccolo mentre il

rumore del mare e sempre più grande abbracciava tutto i gabbiani si tuffavano dagli scogli nelle onde il silenzio

cresceva dentro l‘acqua le spugne di milioni di anni fa di silenzi senza fine e attorno il rumore dei pianeti delle

stelle piangevo sentivo dentro di me crescere il senso di questo lontano dove non ero mai stato e il silenzio, del

sangue(20).

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Tuttavia va anche rilevata una profonda differenza. In fondo quegli esempi di libro di cui

parlava Calvino condividevano tutti un aspetto: il fatto che l‘autore proiettasse suoi simulacri

patemici o ideologici all‘interno del continuum discorsivo e narrativo dei personaggi. In Nove

avviene invece il contrario: una sorta di continuum discorsivo preesistente ai personaggi ha delle

provvisorie incarnazioni in questo o quel personaggio; questo continuum discorsivo è solidale con

l‘immaginario estetico e stilistico dei vari io finzionali su cui poggia il discorso, ma gli è ulteriore:

quasi che l‘autore avesse introiettato in sé delle modalità espressive di una sorta di altro

personaggio, terza persona assente eppure immanente al testo, la cui voce è colonizzata da

ideologemi, scorciatoie concettuali, miti e riti del mondo del neocapitalismo, che Aldo Nove ripete,

a mo‘ di ritornello, all‘interno del testo; questo terzo personaggio è il modello su cui vengono rifatti

i vari parlanti dei suoi libri.

Si è in dubbio, insomma, se la mimesi di certe forme sia un fenomeno che appartiene solo ai

personaggi o anche ad Aldo Nove (non certo a Antonello Satta Centanin). In questo senso,

l‘identificazione immediata e inconscia che compiamo, la risposta alla solita domanda ―chi parla

qui‖, o meglio, la risposta alla domanda sulla relazione in cui sta questo testo rispetto al suo autore

procede sia per binari paradigmatici sia per binari sintagmatici: è ciò che fa di simili testi dei testi

lirici. Anche se il percorso condotto da Aldo Nove negli ultimi anni, all‘insegna del ―diventa ciò che

sei‖, sta sfondando i confini tra ortonimo ed eteronimo, come credo provi soprattutto il libro su

Hopper e Carver.

4. Volendo tirare le fila, cos‘è allora il lirismo nel romanzo? Se accettiamo la definizione di

poesia lirica data da Hegel, i suoi dati più evidenti sono la stasi, l‘assenza di azione per lasciare

spazio a descrizioni o riflessioni, e la centralità locutoria del soggetto, che possiamo certo ritradurre

nell‘idea che il lirismo si materializzi nella prosa finzionale di tipo romanzesco come confusionalità

tra voce dell‘autore empirico, di quello implicito e di eventuali personaggi locutori; e che questa

confusionalità si manifesterebbe, come luoghi privilegiati, in passaggi di tipo descrittivo o che

implichino una riflessione. Si tratta proprio del caso di Nove, direi..

Mi pare le cose cambino sensibilmente se passiamo a occuparci di altri autori. Proviamo a

leggere un ampio excerptum da Le strade che portano al Fùcino di Tommaso Ottonieri. Si può

definire un romanzo, questo libro? Lo stesso Ottonieri ne ha detto:

Si tratta di una serie di narrazioni autonome e (solo apparentemente) eterogenee, tutte inarcate tra due estremi che

potrei definire del comico-basso e del sublime-strano, sviluppatesi nel corso di un ventennio tondo di elaborazione

(ma in quei vent‘anni ho scritto almeno altri cinque libri…). Malgrado questa complessità e relativa

disseminazione, ed effettiva scissione in due emisferi, in due ―zone‖ psico-geografiche (ovest ed est), il libro è a

tutti gli effetti un ‗romanzo‘, in quanto sistema di elementi e di segmenti che s‘intersecano e s‘intessono entro una

rete testuale, una ‗testura‘ sufficientemente (dis)organica(21).

Il libro è a tutti gli effetti un romanzo: ma la verità è che garanzia dell‘unitarietà di questa

rete testuale parrebbe il fatto che a un unico ente o autore è riconducibile la somma dei vari

segmenti. In questo senso il libro, più ancora che un romanzo, è un macrotesto; e dietro all‘idea che

il romanzo vada considerato tale per la sua organizzazione intratestuale parrebbe permanere

l‘arrière-pensée che a farsi garante della consistenza macrotestuale ci sia un riferimento

ontologicamente saldo a un io sempre immanente a quelle vicende. Si tratterebbe dunque di un io

indebolito, decentrato, mobile e insicuro quanto si vuole, ma pur sempre sufficientemente efficace e

saldo da poter fornire un aggancio referenziale tale da garantire la necessaria consistenza

macrotestuale a questa serie di testi di per sé disorganici. Altrimenti la sponda ulteriore del discorso

di Ottonieri sarebbe definire romanzo un libro di pezzi scritti da diversi autori e poi raccolti e

organizzati in un unico libro per la presenza di isotopie omogenee e di una certa sovrapponibilità di

immaginario oltre che di situazioni. Eppure, questa evenienza paradossale, non è forse la verità del

romanzo di Ottonieri? Scritto nell‘arco di vent‘anni, scritto da vari momenti di un soggetto che solo

convenzionalmente riteniamo identico, da un corpo che è andato invecchiando e mutando in quegli

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anni, l‘idea che Le strade che portano al Fùcino sia un romanzo non è forse effetto della sua

innegabile macrotestualità, della presenza del nome d‘autore, una illusione referenziale? Si ha

bisogno di un simulacro di identità, di un eidolon, di fronte al libro, così come di un curatore di

fronte a un‘opera collettiva: che non sarebbe opera se non avesse questo singolare a raccogliere

nelle proprie mani le sparse membra discorsive altrui. Tommaso Ottonieri curatore di sé stesso,

insomma. Come un prestigiatore Ottonieri sa trasformare insomma l‘esibizione dell‘assenza d‘opera

in messa in opera: attraverso la pratica del montaggio, del remissaggio. Il testo non è che

architettura: un‘architettura come il montaggio in qualche modo disautorializzata.

Ecco un brano:

Limite tra cielo e terra così nitido preciso lucido nella gloria dei cristalli, liquidi, plasmato netto così lucido che non

avrei mai detto nella furia della luce diffusa dalla sua stessa accensione proiettata retrostante così netta.

Ingranai la quarta sul rettilineo disabitato apparentemente senso di libertà sulla mia pelle potevo programmarmi

planarmi come planarmi su quella superficie così liscia come di liquido pulsante plasma sentivo la brezza calda

traversarmi le pupille perforarmele netta sferzarmi la pelle nella furia della quinta della sesta ero io in quella quiete

in quella furia come se la brezza mi attraversasse la pelle mi lambisse la punta dei capelli in quella luce la luce dico

accecante che perfora così nitida precisa le stesse lenti scure indossate così facenti al caso, così cruda la luce.

E io ingranai la quinta la sesta e il tornante appariva lontano tanto e così lontano tanto che non pensai io se non ad

accelerare di più sempre di più, di più, perché così nitida la luce mi teneva in suo dominio, perché la brezza mi

avvolge io nella sua spira la brezza calda sferzante schiocco di frusta ma morbida bacio bacio così precisa che io

aspirai tutta l'aria che potevo liquida dai cristalli liquidi liquido bacio bacia come in un mare possibile conosciuto

presente come videato dal tubo, un mare dal vetro, dal tubo.

Il rombo del motore come da un luogo che fosse lì che non sapessi individuare risaltasse sordo da un certo suo

sintetico lontano, rombo tozzo coperto dal vento che forza i miei occhi come un tozzo lamento coperto dal vento

torrente fluente sulla pelle volato senza sapere da dove scrosciato dal vento come se sordo un muggito della stessa

terra dove la terra volata fosse un muggito catodo il lamento, dove la specie incontra le immagini specchiate.

Rombo sintetico che romba la quarta la quinta la quarta e poi la sesta, e poi giù nel rettilineo respirando forte che il

respiro mi rimane tutto dentro e una vertigine mi prende nell'effetto tipo olografico schizzato via da quella

superficie tridimensionale tutta chiusa in un quadrato diciamo di spazio ma pure esteso che non avresti detto. Il

respiro.

Troppo vicino, troppo interno. Non so se durerà, spero che duri. Il casco calcato sulle tempie che sento tutto più

morbido attutito soffice dentro il cervello sulle tempie, però così la materia che si allarga nelle tempie il mio stesso

battito l'aorta. Così il battito che mi sosterrà, cuore che pompa fino al cervello, quello che tuttavia pensa, che forse

guida, che pensa di guidare, la strada tutta lì pulsante come un cuore, cioè arteria dove il sangue s'allarga, e allaga, e

invade.

Motocicletta. Tutta cromata. Schermo si sfalda. Corri la vena. Vena di strada. Sbandi sui margini. Strada si sfalda.

Plop: è il tuo cuore. Pompa di fuori. Cambia colore. Se sfondi muori. Fuori dagli argini.

Limite fra cielo e terra così lucido nel collasso dei cristalli liquefatti, plasmato netto così lucido che non avrei mai

detto nella furia della luce lucida diffusa dalla sua stessa accensione proiettata ma retrostante così liscia, netta.

Illusione ma diffusa.

Ero ripartito di nuovo come da zero dal punto di partenza del segnapunti del mondo stessa strada e ancora la strada

la brezza l'ebbrezza di essere lì nitido lucido io m'ingranai pompai la vena dall'acceleratore, via, via, eh sì il liquido

cola dall'iniettore nel tubicino di sotto, a stilla a stilla, tutto d'un fiato, gli occhi vitrei, appiccicati sullo schermo e

via.

La terza la quarta prospettiva mobile sdrucciola sotto il manubrio così i concorrenti evitati alla grande altri per un

soffio altri per caso altre curve più o meno para-boliche si vibrano dal casco altre varianti ai miei circuiti no non

ancora spenti. Ero lanciato la quinta e sul rettilineo la sesta quando il segnapunti schizza su punteggi totalmente

pazzeschi e io non sbando qualcosa in vena incrinato e io che non sentivo il cric sempre impalpabile da casco a

tempia, che mi si pompa il cuore, e così la testa, cava. Spaccata infine a cocomero, o la cocuzza mitica mistica di

tutto il cocuzzaro, e cava, rotolandosi nella piana a gambero, voglio dire, pure, fuori rotta.

Fu a questo punto che sbucò il concorrente destinato. L'ultimo dei bolidi, ma listato a lutto, così mi parve;

accelerando subito all'uscita della curva. Una sagoma scura che zigzaga orrendamente, arrota certi cuscinetti di

polvere con le sue cieche sgommate(22).

A commento di questa scrittura, Federico Francucci ha parlato di ―sintassi eminentemente

costruttiva che a seconda dei casi torce, spreme o fa volare la lingua, rendendola, lontano da ogni

ipotesi mimetica o banalmente rappresentativa, il materiale e il veicolo delle visioni di cui SPF è

intessuto. E che proprio dal suo sovrano disinteresse per la resa di qualsiasi ipotetico parlato, e dal

suo volersi sempre come edificazione di forme, per quanto fluide, trae, purché la si ricanti, la si

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faccia risuonare, una memorabilità che poche altre scritture, oggi in Italia, possiedono‖(23). È già

possibile, pertanto, rilevare alcuni elementi di questo modo di scrivere. Anzitutto, la fondamentale

antimimeticità della scrittura; in secondo luogo la centralità della lingua: Le strade che portano al

Fùcino è un romanzo in cui per quasi tutto il tempo ciò che realmente conta non è la vicenda

globale, la trama, se non nelle sue connotazioni figurali e lato sensu allegoriche, ma la dimensione

scrittoria e metadiscorsiva. La domanda, in fin dei conti, che ci si pone di fronte a questo testo è

sempre la stessa: chi parla qui.

Si prenda brevemente in esame l‘aspetto della punteggiatura: quasi assente la virgola, il

discorso si abbandona a una sorta di flusso di coscienza ossimoricamente strutturato tuttavia da una

scansione paragrafematica ferrea e perfetta. Lo si confronti ora con il passaggio di Amore mio

infinito poc‘anzi citato: lo stesso tipo di infrazione sintattica resta nel libro di Nove una macchia di

colore nel testo che dovrebbe rappresentare la deriva prepsicotica del soggetto a fronte dello

spossessante sentimento dell‘amore (in una logica certo anche parodica); qui non fa macchia ma

costituisce un elemento di organizzazione testuale. Questa risorsa di scrittura non si contrappone a

una totalità stilistica da cui dovrebbe scaturire, sotto forma di medìetas espressiva, la voce del

personaggio locutore; si individua o soggettiva per un attimo nel frammento in questione, ma non è

un elemento né minoritario né maggioritario all‘interno del testo. La questione fondamentale,

infatti, di Le strade che portano al Fùcino non è chi parla, ma quante persone parlino in questo

testo. Quante incarnazioni, quanti simulacri diversi dello stesso Ottonieri.

Lo spettro di una di queste persone, richiama con forza la propria prosopopea pochi

frammenti più oltre: ―Immaginate allora me che vi parlo‖. La natura simulacrale di questo ―me‖ (e

si noti appunto la modalità con cui il soggetto Ottonieri si dispone all‘altro: immaginatemi nell‘atto

di agire, parlando, di costituirmi come simulacro; siate voi a farmi esistere; anche se un qualcosa,

un‘entità, appunto un eidolon da fuori vi ingiunge di farlo) è evidentissima: il ―me‖ deve apparire

attraverso uno schermo, appunto il Cromakey. Questo ―me‖, parlando, può assorbire frammenti del

discorso dell‘altro: esemplare in questo senso è la criptocitazione di una canzone di Battisti

all‘interno del lungo lacerto citato; ma proprio questo fatto, questo assorbire e rivomitare

continuamente frammenti di scritture e voci o vocalità altre, questo essere me fatto parlare dagli

altri con la loro enciclopedia, questa sostanziale ventriloquia del soggetto lo disindividualizza. Non

c‘è più un personaggio di cui seguire le vicende, ma le vicende di una voce la cui unica modalità di

incarnazione è, tra mille manierismi, installarsi in vocalità altrui e ulteriori.

Quanto detto involge insomma il problema dell‘epistemologia del discorso in Ottonieri. Il

motociclista dell‘episodio appena citato è il veicolo del principium enunciationis per tutto il

romanzo? Mi sentirei non solo di escluderlo, ma di dichiarare, per un libro come il Fùcino, per la

sua coerenza macrotestuale, l‘insignificanza di una simile questione. Percetti e affetti convogliati

nel libro, che ne sono i veri protagonisti, sono come defalcati dalla loro origine umana, e oggettivati

in se stessi; se per avventura questi percetti hanno trovato una forma di unificazione, ciò è avvenuto

in modo empirico e anzi performativo (cioè attraverso il montaggio, la sequenziazione, o la

prosopopea), da un lato, dall‘altro come concessione fatta alla stratificazione temporale della

tradizione: la scrittura pancronica di Ottonieri vince il tempo collocando stilemi di ogni tempo sullo

stesso piano testuale; scivolano su questo piano tra barbagli di identità perché la tradizione chiede a

un testo di avere un autore, sempre.

Di tutti i tipi di competenze che dovrebbero presiedere alla scrittura di un romanzo rimane in

questo libro (ed è il segno della sua riuscita perfetta, della sua grandezza, della sua esemplarità tra le

scritture attuali) quasi solo una competenza macrotestuale, organizzativa. Non c‘è unità stilistica,

non c‘è una vera e propria unità narrativa (al limite e in modo controverso, d‘azione), non c‘è

un‘organizzazione attanziale riconducibile alle strutture (e stretture) del romanzo classico. La

modalità di organizzazione di questo libro sembra davvero aver assunto a modello e fatto tesoro

della lezione del libro di poesia. È un romanzo (e lo è davvero) modellato sulle strutture di un libro

di poesia. E in analogia con quanto dice Enrico Testa del libro di poesia, che a volte si dà proprio

per la strutturata assenza dei tratti che solitamente consentono di classificare una raccolta di poesie

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appunto come libro, anche qui è la strutturata assenza di una serie di elementi che di solito troviamo

nel romanzo a interagire con l‘attesa di romanzo che questo libro, fin dai paratesti (in cui si parla di

narrativa etc.) crea(24). Del resto, come correttamente si chiede Gilda Policastro: ―Uno scritto

rizomatico, ipertestuale (e, nell‘ultima realizzazione, ipermediale), composto di frammenti

all‘apparenza irrelati, con titolazione autonoma e destinazione originaria indipendente, può dirsi

opera coesa, se compattato da un andamento spiccatamente narrativo, evidente quanto meno nel

ricorso a una simbologia costante, a motivi fissi?‖(25). La macrotestualità è ciò che fa di questa

somma di isotopie ricorrenti e organizzate un romanzo.

4. Si può impiegare l‘etichetta di lirismo parlando di questo libro? Ottonieri ha parlato, in La

Plastica della Lingua, di lirismo. Se, negli anni ottanta c‘era stata una ―esibizione d‘una distanza

ironica quale strategia utile ai fini della costruzione di (parafrasando Tani) un «romanzesco di

ritorno»‖(26), in tempi più vicini a noi, si può parlare di:

tendenza […] al riconoscimento entro il proprio discorso: fino alla adesione o alla resa incondizionata a esso (resa

dell‘autore, ma anche resa del discorso - delle retoriche del narrare - in questo); esibirsi di una presunta abolizione

di distanza autore/ narratore; identità di narratore e protagonista. Contatto reciproco in quanto vi è, in entrambi, -

persona e discorso, - di artificiale, di costruito, di impossibile; strategie, in ciò, di rinaturalizzazione del corpo/testo,

a partire dalle sue materie, dalla sua nuova composizione che sarebbe poi - secondo una delle sue vulgate recenti -

«postumana» e più-che-umana (plastica, carta da riciclo, lavatrici, lattice, peluche...), e comunque: di bassa

risoluzione, di bassa tecnologia, di bassa fedeltà...

...Tutto questo, lo abbiamo inteso come tensione lirica del narrare. Il testo che aderisce al suo aperto. A una

ossessione lirica della materia, ancora... Il testo, si dissipa e riplasma, dalle materie rinvenute nella strada; il testo

si narra, nuovamente «creta», pelle vibrante e disponibile a lasciarsi riempire […](27).

Più oltre, si legge:

Ma riveniamo a questa tensione lirica, del narrare. Dove, il sovrapporsi delle persone e delle parti, scava per la

soggettività una posizione inferiore, tutta confitta nel fuoco (ottico) della sua materia. - Senza-organi? - Forse, ma

con un'infinità di protesi e di schede emozionali... - Innaturalista, o addirittura contronaturale? - Sì, ma come

riconfigurazione di un campo di naturalità più crudelmente vere (nuove verità crudeli; secondo il verbo già

futurista e già artaudiano)(28).

Lirismo come dissipazione, come dispersione e dépense di multipli soggetti; ma soprattutto

lirismo come discontinuità mimetica policentrica, come mimesi discontinua e multifocale. Di fronte

a questa opera(zione) tutta efflorescenza, cambia anche la metaforica impiegata per descrivere il

libro: dal libro-corpus (strutturato e fatto di parti[zioni]: organi) all‘opera-pelle. Il lirismo ha subito

quella che potremmo chiamare una trasformazione molecolare: non è più l‘emergenza nelle pieghe

della scrittura di un simulacro di soggettività che la nostra doxa ci induce a identificare in

produzione di quel particolare tipo di discorsività che discende dall‘autore biologico, in una sorta di

illatenza o immanenza testuale dell‘autore empirico. Non qui: dove piuttosto è la materia a chiudere

in se stessa, come una pelle vuota, sparsi elementi, differenti simulacri. Se per avventura qualcuno

di questi, qualcuno di così tanti fluttuanti pensieri appartiene a Tommaso Pomilio non lo si può

imputare al suo autore, semmai all‘eccessiva contiguità dell‘opera allo scrittore. Intanto, in tutto

questo, la situazione si è invertita: nel Fùcino quasi si direbbe che si assista a una sorta di tensione e

trasfigurazione narrativa del lirico. Le modalità con cui Ottonieri definisce la scrittura narrativa e la presenza nel corpo della

prosa narrativa della dimensione o tensione lirica configurano quella scrittura come una sorta di

scrittura bulimica. Ossia, se regge il paragone, una scrittura che ingloba quasi indiscriminatamente

il tutto, quasi sostanza senza soggetto. Aldo Nove, al contrario, autore che parassita un suo

personaggio, si mantiene imbozzolato in un simulacro di soggettività che è altro da sé: di fronte alla

scrittura e all‘autorialità il desiderio di Nove non è il desiderio dell‘Altro, ma il desiderio della

larva. Così la sua è una scrittura anoressica, perché realizza una padronanza dell‘Ideale della

scrittura attraverso la privazione, attraverso l‘immondo (cioè il moralmente ripugnante dei simulacri

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di soggettività dei suoi testi). La scrittura di Ottonieri è la scrittura del pieno, mentre quella di Nove

è quella del vuoto, della necessità di mantenere vuoti i buchi lasciati dal soggetto. In Nove, cioè,

non sappiamo distinguere tra autore e personaggio non a causa di quello che non si dice, ma a causa

di quello che si lascia non detto; tutto il contrario è quello che accade con Tommaso Ottonieri.

Eppure c‘è forse uno stigma comune alle due voci.

5. Sarebbe certo ora troppo complesso problematizzarlo, ma il termine che mi pare più si

attagli e possa fare da denominatore comune a due scritture quali quelle di Nove e Ottonieri, così

diverse, tracciare un contesto, una linea pur negli ovvi tagli, parrebbe quello di manierismo. Anche

questo termine potrebbe essere invocato con ogni probabilità dal nostro lettore idiota degli anni

cinquanta. Manierismo come: ―manifestazione della differenza, di un discorso altro, a volte

esplicitamente e coscientemente alternativo nei confronti della norma dell‘istituzione, e che in ogni

caso tenta di contraddirne, se non di rovesciarne, il ruolo egemone‖(29).

Non è un caso, allora, che queste due scritture che mettono in crisi secondo modalità

completamente differenti gli istituti formali del romanzo siano due scritture pseudonimiche. Alla

problematizzazione del genere fa da contraltare la problematizzazione del nome d‘autore. Non

poteva essere altrimenti. La sperimentazione narrativa di Nove e quella di Ottonieri, pur così

diverse, scaturiscono anche da una messa in questione, dalla chiamata in causa del concetto di

autorialità come infrastruttura ideologica del romanzo. All‘abolizione della figura dell‘autore,

garante dell‘unitarietà e della correttezza epistemologica del romanzo, a questa perdita di centro

(ottenuta attingendo a strumenti e modalità tipiche della poesia lirica), fa da seguito uno

smarrimento, una disperazione che si traduce in forma. Ottonieri parla, come abbiamo già visto, di

―sublime strano‖. Ma cos‘è il ―sublime strano‖ se non il corollario di una sorta di furia formale,

furia dell‘oggetto romanzesco? In fondo questa furia, già pronta a trasformarsi in disperazione, in

manierismo, questa forma della disperazione ha avuto nella tradizione un nome ben preciso:

grottesco. Sarebbe probabilmente questo il terzo e ultimo appiglio cui il nostro lettore idiota

potrebbe aggrapparsi per entrare in queste due scritture e farne esperienza. Questo ―grottesco per

disperazione formale‖ è proprio il carattere precipuo che pone Nove e Ottonieri, sia pur nella loro

differenza, a un gradino successivo e ulteriore rispetto ai precedenti esempi addotti di romanzo

lirico.

Gian Luca Picconi

Note.

(1) Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Claudio Milanini, Milano,

Mondadori, 2000, p. 452n.

(2) Italo Calvino, Il midollo del leone, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori,

1995, p 11.

(3) Italo Calvino, Lettere, cit., p. 596.

(4) Nuove stagioni di Pasolini e Fenoglio, in ―Paragone‖, IX, 114, giugno 1959, p. 77.

(5) Pier Paolo Pasolini, Roma e Milano, in Passione e ideologia, in Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura

di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 771.

(6) È curioso che, di fronte alle tentazioni dell‘ipersoggettivismo poetico pasoliniano, il pubblico abbia

decretato Pasolini come il poeta più venduto di questi ultimi anni, mentre la critica ne abbia pienamente

registrato (cfr., per esempio, Raboni), l‘estraneità al corpo maggiore della scrittura poetica secondo-

novecentesca; donde il modello retrivo della confessional poetry pasoliniana, se resta pienamente attivo a

livello popolare, è invece confinato a un rango deteriore da chi pratica un tipo di fruizione colta della poesia.

È d‘altronde inevitabile riferirsi a Pasolini in un ragionamento sulla dinamizzazione dei generi e delle forme

della letteratura nel secondo Novecento. Quando, nel 1964, Pasolini deve fornire alla rivista internazionale

―Gulliver‖ un suo scritto, questo si intitola: Appunti per un poema popolare, ed è di fatto un prosimetro. È

una sorta di disperazione formale, nemmeno sempre lucida, quella che presiede a questi tentativi di mischiare

le carte della prosa e della poesia: una disperazione formale che non può che dare vita a forme di comico e

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grottesco, come di fatto sono le sue ultime opere di poesia (Poesia in forma di rosa e Trasumanar e

organizzar), e un romanzo come Petrolio.

(7) Italo Calvino, Memoriale di Paolo Volponi, in Saggi, cit., p. 1276.

(8) Ivi, p. 1277.

(9) Italo Calvino, Pavese: essere e fare, in Saggi, cit., p. 82.

(10) Sanguineti, su Pasolini e Pavese poeti ha visto però qualcosa in più, quanto a analogie: ―È ancora

necessario [...] con un gesto che a prima vista riuscirà un po' stravagante, probabilmente, stabilire un

raggruppamento diacronico, che rimescola le carte sposando forzosamente Pavese, Pasolini e Pagliarani. È la

zona di coloro che, ognuno per la strada sua, hanno sognato, o stanno ancora sognando il contatto poetico

con la realtà, e tentano varie forme di poesia-racconto, di poesia-testimonianza, di poesia-epistola‖ (Edoardo

Sanguineti, Introduzione, in Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi,

1969, p. LX).

(11) Paolo Volponi, Francesco Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell‟inverno 1994, Torino, Einaudi,

1995, p. 50.

(12) Des cris, mais sous forme de rêve, Entretien Francesco Biamonti / Bernard Simeone, Villa Gillet

novembre 1995, in Francesco Biamonti, Le silence, suivi de deux entretiens avec Antonella Viale e Bernard

Simeone, Lagrasse, Verdier, 2005, p. 49.

(13) Pier Paolo Pasolini, Il mostro e la fabbrica, in Saggi sulla letteratura e sull‟arte, cit, p. 2367.

(14) Ibidem.

(15) Ibidem.

(16) In Italia, il romanzo lirico, e in generale gli inserti lirici nel romanzo, fenomeno estensibile a

numerosissimi autori, ha espresso compiutamente la parte più importante, nel Novecento, di questo rapporto,

sul versante della prosa; e se ciò è avvenuto, è soprattutto perché l‘esigenza di dinamizzare i generi e le

forme di scrittura (così evidente e immediatamente isolabile in quegli anni sessanta) nasce dal problema

dell‘identità tra io del soggetto e io del suo discorso. Ora, è ovvio che era più facile porre questo problema a

partire dal romanzo, dove la fluttuazione tra le identità era già, in qualche modo, sistematizzata. Tutti i

problemi dell‘identità di cui sono ripieni romanzi e poesie del secondo novecento inoltrato, così, sono stati

appunto il motore per questa commistione dei generi, per questo dialogo tra generi.

(17) Aldo Nove, Puerto Plata Market, Torino, Einaudi, pp. 161-164.

(18) Federico Francucci, Su tre libri di Aldo Nove, in La carne degli spettri. Tredici interventi sulla

letteratura contemporanea, Pavia, Edizioni O.M.P., p. 6.

(19) Tommaso Ottonieri, La Plastica della lingua. Stili in fuga lungo una età postrema, Torino, Bollati

Boringhieri, 2000, p. 115.

(20) Aldo Nove, Amore mio infinito, Torino, Einaudi, 2000, p. 79.

(21)Si legge al seguente sito: http://www.retididedalus.it/Archivi/2008/febbraio/INTERVISTE/ottonieri.htm.

(22) Tommaso Ottonieri, Le strade che portano al Fùcino, Prefazione di Enrico Ghezzi, Guida alla lettura di

Gilda Policastro, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 87-89.

(23) Federico Francucci, «Tu sei le visioni», in La carne degli spettri, cit., 75.

(24) ―Non più, quindi, aspirazione a una totalità assoluta (sia pure quella del Libro), ma ossimorica e

ambivalente tensione che mentre «chiude» ancora il volume, riesce, al contempo, a ritrarsi dalla sua

solidificazione in valori plastici e «monumentali»‖ (Enrico Testa, L‟esigenza del Libro, in La poesia italiana.

Modi e tecniche, a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Fausto Curi, Bologna, Pendragon, 2003, p. 108).

(25) Gilda Policastro, Doppiando il Fùcino (baedeker per un baedeker), in Le strade che portano al Fùcino,

cit., p. 237.

(26) Tommaso Ottonieri, La plastica della lingua, cit., p. 125.

(27) Ivi, pp. 125-126.

(28) Ivi, p. 126.

(29) Amedeo Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari,

Laterza, 1975, pp. 2-3.

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MILVA MARIA CAPPELLINI

“L'IMPOSSIBILITÀ DEL NULLA” - L'ALLEANZA TRA I GENERI NELLA SCRITTURA

DI ROBERTO PIUMINI

Il discorso intorno ai generi letterari, a proposito dell'opera di Roberto Piumini, si potrebbe anche

iniziare e concludere con la definizione di poligrafo (peraltro poco amata dall'autore, che forse

preferirebbe plurigrafo, se questo non fosse già un termine della teoria matematica dei grafi). La

doviziosa bibliografia di Piumini – la quale, per inciso, rende l'esemplificazione virtualmente

vastissima: qui, invece, ci si limiterà all'essenziale – dà conto da sola della feconda capacità

dell'autore di attraversare ogni tipologia di scrittura, di collaborare con ogni altro linguaggio, di

rivolgersi a ogni tipo di pubblico. Ma la connessione dei generi e dei codici agisce anche, com'è

naturale, a livello interno in ciascuno dei generi praticati. Si prenda per esempio il testo narrativo, in

cui ricorrono strutture versali («Oh, amato, il tuo corpo è terra nota»: La celata, ora nella raccolta

Le donne e i cavalieri, Aliberti, Reggio Emilia 2004) ed emergono inserti di prosa ritmata, più o

meno dissimulati (per esempio, nel romanzo Caratteristiche del bosco sacro, Einaudi, Torino

2000). Ad analoga logica poetica risponde l'attitudine a disposizioni narrative di tipo strofico, ossia

incardinate, più che sulla concatenazione consequenziale e sullo sviluppo di eventi, sulla

successione di quadri, o lasse, uniti da un'occasione-cornice narrativa o da variegate ricorsività

interne (accade nei romanzi La rosa di Brod, Einaudi, Torino 1995, e L'ultima volta che venne il

vento, Aragno, Torino 2002). Di contro, nella poesia di Piumini agisce la tendenza alla creazione di

linee narrative anche nelle forme metriche più propriamente liriche (si osservi, in questo senso, il

poema metricamente vario Non altro dono avrai, Interlinea, Novara 2004, e il canzoniere di sonetti:

L'amore in forma chiusa e L'amore morale, entrambi Il melangolo, Genova, 1997 e 2001). Se si

intende poi aggiungere il teatro, basterà notare sul piano testuale il transito di racconti in pièce

teatrali e viceversa, magari con variazione di destinatario: per esempio, Narco degli Alidosi (Nuove

Edizioni Romane, Roma 1987), diventa, da storia per bambini, commedia per un pubblico infantile

(La commedia di Narco, ivi, 2004) e però anche racconto più ampio (Il malafiato, nel citato Le

donne e i cavalieri); non diversamente accade per testi narrativi in poesia destinati anche alla lettura

drammatica, come l'ancora inedito ma già rappresentato Il vecchio nel granturco. E, ovviamente,

non si potrà tacere la multiforme esperienza teatrale di Piumini, in collaborazione con più di un

codice espressivo: la lunga collaborazione con musicisti (tra i molti, Giovanni Caviezel, Andrea

Basevi, Jorge Bosso); la presenza come voce recitante in innumerevoli spettacoli (per esempio, nei

Madrigali a quattro voci, con il Ring Around Quartet); da ultimo, la speciale partecipazione, nelle

sontuose vesti di re Borbone, alla recente messa in scena genovese di Totò Sapore (dal racconto Il

cuoco prigioniero, Nuove edizioni Romane, Roma 2003), per la regia di Patrizia Ercole. Infine,

valgano due esempi, tra i tanti possibili, di coooperazione tra testo verbale e testo iconico: il primo è

il volumetto La scuola di Circe (Nuages, Milano 2006) in cui, a partire dalle immagini di Cecco

Mariniello e valendosi di una metrica non canonica, il poeta costruisce una storia per quadri, in

ciascuno dei quali si condensa un germe di storia; il secondo è l'illustrazione per enigmi, in terzine

dialogate e varie forme metriche, degli arazzi esposti nel 2008-2009 al Museo di Palazzo Strozzi

nella mostra L'occhio indovino Ŕ Caterina e Maria de' Medici regine di Francia: le trame del

potere.

Ma la questione si pone, anche per l'opera di Piumini, al di là di ogni pratica concreta, come

pure di ogni definizione formale dei generi e della loro scambievole permeabilità, e investe i

meccanismi e le ragioni della scrittura. Di recente, presentando ai lettori la raccolta di poemetti Il

piegatore di lenzuoli (Aragno, Torino 2008: un volume a cui si farà più volte riferimento), Piumini

ha celebrato la ricchezza e l'efficacia del narrare poetico contro un eccesso di lirismo che rarefà e

rende astratta la tradizione poetica italiana. L'affermazione veniva subito dopo la lettura scenica del

poemetto eponimo del volume, in modo da completare, per il pubblico, una sorta di esperienza

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multipla di racconto, verso, dizione, glossa d'autore. In altre circostanze di autocommento, Piumini

ha attestato la genesi sonora, anzi radiofonica, della propria poesia, riconoscendone la matrice

remota nei suoni della radio ascoltata da bambino in cucina, tra i rumori e gli odori del cucinare. In

tutta la scrittura piuminina, di fatto, la parola è vastamente sensuale (ma qui il discorso porterebbe

altrove, e lontano) e doppiamente sonora: in virtù del suo passato orale, che conserva risonanze

della sensazione infantile, e del suo futuro scenico, che promette l'esperienza complessa dell'ascolto

e della rappresentazione.

Proprio con la sonorità/teatralità della parola di Piumini, tra l'altro, si spiega non tanto la

posizione del narratore (che pure nella poesia narrativa piuminiana è quasi costantemente interno;

varia invece nella narrativa, dov'è spesso onnisciente), quanto la frequenza della metalessi autoriale.

Infatti, quello che ad alcuni è apparso il vezzo dell'ostentazione metaletteraria, è forse da leggere

piuttosto come l'eco di una seduzione vocale rivolta ai «presenti lettori» (La mongolfiera, in Il

piegatore; ma anche in prosa: «Questo capitolo, che per salvarsi dalla jella di un tredicesimo sarà

con piacere di molti l'ultimo, è naturale abbia tono e funzione di epilogo...»: Il ciclista illuminato, Il

melangolo, Genova 1994) e, al tempo stesso, come un implicito richiamo alla vocazione teatrale del

raccontare, sia esso in prosa o in poesia: lo scrittore che tiene a mente questo, scrive sempre un

cantare, è sempre in certa misura un cantampanco. Ancora più corpose sono le conseguenze che

tale genesi e finalizzazione della parola producono sulla complessiva tessitura linguistica della

scrittura di Piumini: una tessitura la cui ricchezza – talvolta perfino minimizzata dalla felicità degli

esiti – verrà in chiaro, si spera, da indagini più minuziose e attente. Per la poesia, in particolare, si

auspica una perizia metrica, come pure una ricognizione della tramatura retorica e figurale, il cui

sfondo intertestuale abbraccia l'arco intero della poesia italiana (e non solo, poiché andranno

rammentati anche i lavori di traduzione poetica dell‘autore: i sonetti e il teatro di Shakespeare,

Robert Browning, il recente Paradiso perduto di Milton). Prevale, certamente, il magistero dantesco

(per l'abilità piuminiana nell'emulazione della terzina, si ricordino almeno La nuova Commedia di

Dante, con Tullio F. Altan, Feltrinelli, Milano 2004, e l'imminente einaudiano Intervista a Dante)

con l'indiscussa signoria dell‘endecasillabo, dichiarata in Poema tango: «ma lo sentite /

l‘endecasillabo come preme in bocca / a me, e nelle vostre orecchie? A fatica / lo neghiamo e

spezziamo, ne tronchiamo / la materna misura, lo snobbiamo / per più sciolti lavori: e che cos‘è / un

settenario, o un ottonario, se non suo figlio, / erede frammentario / di un‘indivisa gloria?».

Un'indagine linguistica e stilistica non potrà ignorare, tra l'altro, i modi in cui proprio nel

raccontare in versi di Piumini si manifesti con più chiara evidenza la reciproca produttività di metro

e tema, in funzione di vicendevole rinforzo di significato. A chi legga Il piegatore di lenzuoli appare

chiaro come ciò accada non solo quando la scelta retorica confessa il proprio modello, come nel

metro lungo e assonante, tommaseiano si direbbe, delle Leggende di Manta, o come nelle lasse di

prosa ritmata concluse dall‘ottonario in Teseo, ma soprattutto quando l‘andamento del verso prende

la forma stessa della vicenda: in Poema tango, per esempio, il verso calca il passo di danza e

dunque le cadenze del corteggiamento e dell‘innamoramento; nella Mongolfiera, la misura svaria

come seguisse le correnti del vento che trasportano il pallone, in alternanza ininterrotta di stalli,

discese e ascensioni; nel Canto della Parigi-Dakar, la sintassi paratattica, piana come gli orizzonti

del deserto africano, fa contrasto con le spezzature ritmiche, come il silenzio delle dune con il

fracasso della performance brutale. E così via.

A eludere ogni rischio di didascalismo metrico (come anche di naiveté tematica), il poeta-

narratore applica, con costanza e con mano esperta e leggera, i due rimedi distanzianti per

eccellenza, ossia l‘ironia e – si è già visto – la metaletteratura. Ciò si verifica ovunque nell'opera di

Piumini, e tanto più nella poesia narrativa, che da parte sua inclina ab origine a certe forme

autoriflessive: si pensi all‘istituto del proemio, con la sua implicita problematizzazione del rapporto

tra poeta, materia, destinazione, linguaggio e racconto, e se ne leggano le versioni piuminiane nel

Piegatore di lenzuoli, nella Mongolfiera e in Teseo. In fondo il narrare poetico, anche nel

considerare i propri argomenti e funzionamenti, più che limitarsi a trasgredire un sistema o

rimestare una sedimentazione sembra alludere a una radice comune – o quanto meno a una

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concordia iniziale – di verso e narrazione, in cui il racconto narra l‘atto poetico, mentre il discorso

poetico mima la storia raccontata: la memoria formale dello schema metrico agisce allora come

condizione di coerenza e unità, mentre la potenziale infinità degli intrecci apre a innumerevoli

invenzioni.

A proposito di ironia metaletteraria, conviene tornare a Poema tango, autentica

trattazione scorciata di metrica e retorica, che all'interno di un plot vagamente calviniano riflette più

e più volte sulla misura versale, in una sorta di paso doble con l‘«endecasillabo fottuto». Ancora

oltre l‘io-poetico/narrante specula in poesia sui fatti grafici (la barra obliqua, le maiuscole che

designano gli attanti, le parentesi, i puntini) e, facendosi narratologo, ragiona sui segnali di

scansione dell‘intreccio, sulle dinamiche tra protagonista, deuteragonista e comparse, sulla intricata

relazione tra autore e personaggi e dunque tra realtà e scrittura («invidioso / io che li narro sono, lo

confesso, / di quel muto silenzio, invidioso / di quel momento d‘arte della vita») e, infine, sulle

molteplici facce che si assegnano al narratore; e qui l‘ironia, mai paga, si riverbera sulla

metaletterarietà stessa, in un gioco di specchi di cui scrittore e lettore condividono il godimento:

«soltanto noi (sebbene ancora per poco) / lo sappiamo: / e non è questo un gioco, questo non è, /

sebbene fra parentesi, / un delizioso e immenso privilegio?». Così, il racconto in poesia mette a

frutto un linguaggio che svela i propri stratagemmi e, in questo modo, smaschera la menzogna e

ritorna vicino a un dire veritiero e, alla fine, quanto più possibile innocente.

Un livello alto e classico della metaletterarietà è la dichiarazione di poetica. Sebbene in

Teseo sembri di poter cogliere il monito a guardarsi dalla sovrainterpretazione («Non ogni cosa che

accade, non ogni cosa compiuta, nella commedia dei giorni, ha una ragione, o uno scopo. Spesso la

mano dell‘uomo svolge, o avvolge, soltanto, / un suo segreto pensiero»), Piumini offre spesso

allusioni o – specie nel caso dei poemetti – autentiche ipostasi di poetica. Ecco allora una

verosimile definizione della prassi di scrittura nascosta nel Piegatore: «E decisi che fosse il mio

lavoro: / una cosa mai fatta da solo, / ma sempre almeno in due, un utile, / duttile, impensato

servizio»; ecco, nel Vampiro generoso, una celebrazione della materia d‘arte nell‘inno al sangue, e

una raffigurazione del poeta travagliato da «antiche fami di pane e di frutti, desideri da uomo» e

insieme da voglie indicibili e oscure, destinato a esplorare biblioteche e a costruirsi poi, da solo, una

salvezza, scoprendosi capace di «succhiare / là dove il mondo è pieno, per ridonarlo al mondo». Un

appunto sulla carenza del segno referenziale apre La mongolfiera, con il conseguente proponimento

di andare, grazie alla scrittura poetica, «oltre / l‘impura precisione descrittiva» e «oltre il nulla

solerte / di quella prima denominazione», per «narrare / cominciando da ciò che è ignorato / da

qualsiasi vocabolario: / un momento nel tempo». Di fatto, il discorso poetico possiede, nel suo

«volo», un significato radicalmente differente dal linguaggio della chiacchiera, e raggiunge,

nell‘identità di pensiero e canto, un diverso ordine del vero: «Chi non fu uccello, o angelo, lo

ignora: / ciò che in terra ha senso / nel contatto di pietra, o zolle d‘acqua, / persistente contratto,

fedeltà, / muta nel volo la sua verità». Nella dialettica dolorosa (che non può essere del tutto ignota

a nessun poeta) tra scelta dell‘afasia e necessità della parola, la mozione iniziale dell‘aeronauta, di

predazione e morte, si trasforma in desiderio d‘amore e di parola: ed è infine la parola condivisa e

amorosa che sorregge la vita anche sopra le macerie, la «molta, molta, utile parola» capace di ogni

estrema e insperata rigenerazione di sé. Il labirinto, allora, immagine primordiale dell‘esistenza e

della narrazione, diventa per l‘uomo uno spazio che forse non «chiude, senza rimedio, qualcuno, /

ma che gli apre ogni via» (Teseo), così come non intralciano, bensì sprigionano, le discipline del

metro e della disposizione narrativa. È proprio il tragitto del figlio di Egeo, eroe intertestuale come

pochi altri, ad evocare da sempre con il proprio passo l‘andamento del raccontare poetico, è il filo di

Arianna che si sdipana e addipana a raffigurare lo svolgimento di un discorso che si deve finalmente

credere salvifico, è il gesto violento che uccide il minotauro a suggerire il lavoro antico del poeta

che con la voce tiene a bada il nulla, ossia la morte e i suoi mostri. Nella rilettura piuminiana, i

molti fili che si dipartono dal groviglio significano le mille possibilità del mito e del mondo di

lasciarsi di nuovo raccontare, le mille vie di fuga dal dedalo pericoloso, le mille amanti in attesa a

ogni uscita, le mille diverse armonie e i mille sensi possibili. Compito vero del poeta narratore è,

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alla fine, sottrarre cadenze e racconti al «gran male che tutti ci minaccia, e s‘avvicina» (Il moro),

scamparli alla disarmonia dell‘inesistenza, e una volta ancora raccontare – in libero

acconsentimento al ritmo – «l‘evento che non da tutti è saputo: storia diversa, / racconto che non fu

mai raccontato, forse perduto, o sparito, ucciso dalle mutezze, o, per qualche ragione, / tenuto

chiuso e segreto» (Teseo).

Non mette conto sottolineare come non si tratti qui di un puro gioco di parole e

d'immaginazione, bensì di un'operazione anche etica, come sempre dovrebbe essere l'uso condiviso

del linguaggio, e quello letterario non meno di altri. Si spiega così, per contrasto, l'insofferenza

piuminiana verso l'odierna sciattezza linguistica, versione verbale della scelleratezza umana: l‘io

poetico-narrante della Mongolfiera sale sull‘aerostato per sfuggire non solo le atrocità di un pianeta

inguaribile e inguardabile, ma anche l‘abuso e lo spreco del linguaggio, l‘anti-poesia, il «disturbo di

parola»; egli fugge in volo «perché inviperito / dal molto morto parlare, / dal non dire, dal non saper

dire, / dal non chiedere prendere dare, / parole che non sono testamento, / né promessa né

giuramento, / non patto non memoria non nome, / non racconto non canto non stupore, / e nemmeno

un valido pianto». Per quanto si salga, però, il fenomenico ci zavorra, e al volatore del poemetto

(come al poeta-narratore, come al lettore) tocca suo malgrado discendere per guardare i resti del

pianeta, ridotto a un «immenso senza eventi ghiaccio nero».

La funzione etica del linguaggio si esprime con speciale efficacia nel narrare poetico:

offrendo regola e senso (poiché sia il racconto sia il ritmo tendono a individuare e trattenere un

ordine e un significato plausibili del reale), tanto la poesia quanto il racconto si oppongono

naturaliter al dilagare dell‘insulto, dell‘oltraggio, dell‘arroganza professata e operata dall‘«odiabile

masnada / che usa il mondo come fuoristrada» (Canto della Parigi-Dakar). Racconto e poesia

agiscono entrambi immediatamente contro la bruttezza del mondo, che è manifestazione visibile del

male, della prepotenza dell‘uomo e dell‘iniquità della sua storia, dato che «un tempo camminarono

gli uomini / prima di ogni pace e di ogni guerra, / quando ogni pietra era buona, non cattiva, /

ciascuna pietra utile, nessuna preziosa, / e ogni cosa era vera, e avveniva» (ibidem).

Di fronte all'orrore, quello estremo e quello quotidiano, rimane al poeta-narratore la

nostalgia della bellezza sensibile, la «delizia infinita» che il mondo sa offrire, con ostinazione e

nonostante tutto. Fin negli spasmi di una condizione mortifera, un incolpevole bevitore di sangue

magnifica la ricchezza della vita, l‘inesauribile diversità e l'armonia originaria e potenziale delle

creature: «Nel cesto di luce, luminose / e odorose le cose, ardenti le apparenze, i colori, gloriose le

parole, arguti i nomi, / e le forme […]» (Il vampiro generoso). All‘uomo sono concesse esperienze

impagabili, magari sommesse e segrete come la «mite armonia» di un lenzuolo, «fatto a sezione

aurea, però / imperfetta, in modo che rimanga / un dubbio quieto nella perfezione». E anche nel

diuturno fare e disfare la bellezza, replicando gesti, secondo pieghe uguali ed angoli precisi, si

nasconde la morte, o meglio si consuma la vita, e passa, «come una colpa passa / a chi è perdonato»

(Il piegatore di lenzuoli). È, questa, la variante meno bieca della morte, che altrove esibisce volti

ben più odiosi: per restare alle forme poematiche, almeno nella Mongolfiera, nel Canto della

Parigi-Dakar, nelle Tre leggende di Manta, in Teseo. Ma ricorre tanto, il motivo della morte

nell'opera di Piumini (tra tutti gli esempi disponibili, si cita qui solo il perfetto racconto Lo

stralisco, Einaudi, Torino 1987), da far ipotizzare che egli affidi alla poesia, al racconto e al teatro –

in sintesi, al raccontare poetico rappresentato – proprio l'ufficio antropologico di esecrare la morte,

(e la disarmonia, suo sembiante sensibile, e la brutalità, suo volto sociale): la morte che è male

perché è insieme bruttezza definitiva e finitezza assoluta.

Per dare un minimo sostegno teorico alla congettura, bisogna in via preliminare ammettere

che la letteratura sia un fatto antropologico (in questo ci soccorre anche Wolfgang Iser, per il quale

la letteratura costituisce appunto una forma di antropologia estensiva in quanto crea estensioni e

superamenti dell'umano) nel suo rispondere a bisogni profondissimi dell'uomo. Bisogna poi tener

presenti altre idee connesse: che la letteratura, come ogni azione umana derivante dal profondo,

abbia appunto lo scopo di reagire alla morte (di difendere e consolare dalla morte, di esorcizzare e

spiegare la morte: del resto, quale più straordinaria estensione dell'umano, quale maggior

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superamento di sé del superamento della morte – o anche solo del problema della morte?); ancora,

che a questo fine concorrano, ciascuno a proprio modo ma con vaste zone di intersezione e

sovrapposizione, i generi fondamentali della letteratura, individuabili come si è fatto fin qui, in

maniera un po' rudimentale, in narrazione, poesia, teatro; infine, che l'associazione di questi tre

generi incrementi in maniera straordinaria il potere apotropaico di ciascuno di esso, creando una

sorta di potentissimo talismano. Intorno a queste supposizioni, non nuove né acute, si potrebbe poi

continuare a ragionare sparsamente, a cominciare dalle modalità di possibile cooperazione e

alleanza tra generi di scrittura: per esempio ricordando che la narrazione è interpretabile sia come

contenuto della narrazione sia come atto del narrare, atto che ha già in sé una risorsa di teatro; o che

la dimensione affabulatoria è indipendente dal carattere diegetico o mimetico del testo, mentre,

d'altro canto, il teatro accetta tanto la poesia e quanto la prosa; o che perfino l'estrema immobilità

della lirica più sottile lascia intravedere una traccia di fabula, o almeno concede l'eventualità di una

lettura, che a sua volta sottintende una potenziale rappresentazione. Tutte considerazioni generali

che, se non altro, non contrastano in niente con quanto si è detto fin qui della scrittura di Piumini. Si

ripensi allora, a questo punto, all'affermazione piuminiana circa la misconosciuta ricchezza della

poesia narrativa. Nell'ottica latamente antropologica che si è appena detta, il racconto in versi

appare in grado di appagare in simultanea due desideri o bisogni dell'uomo: il primo è conoscere

una storia e ricordarla (anche con l'ausilio della rima-promemoria), il secondo ricordare un ritmo e

riconoscerlo. Nel narrare in versi, si ravvisano meglio le tracce dell‘origine orale che accomuna

metro e affabulazione: si intuiscono nella variazione del respiro – sospeso, affrettato, modulato

secondo il giro degli avvenimenti – di chi racconta e di chi ascolta; nella seduzione e nel piacere

prodotti dalla modulazione della voce, che riecheggia il battito del cuore, la lena del fiato, il

periodico ritorno dei cicli della luna e delle maree. Chi potrebbe escludere che appunto su queste

esperienze percettive aurorali si siano plasmati gli atti di immaginazione e – al di là di ogni

imposizione di paradigma e tradizione – i loro esiti di scrittura? Per questo il luogo in cui la logica

dell‘intreccio e la sensualità dei versi possono ricongiungersi è proprio la voce, nella cui eco il

discorso poetico non è più irrigidito dal metro, ma si sviluppa con libera coerenza, e si conciliano la

riconoscibilità della forma ritmica e il movimento degli eventi narrati. Nella voce, il ritmo del verso

può coincidere con il ritmo profondo del raccontare, con la sua cadenza ordinatamente ricorrente e

al tempo stesso disponibile a ogni mutazione narrativa: avvio, ripresa, ripetizione, sospensione,

scioglimento.

Alla fine, la poesia narrativa rappresentata potrebbe davvero essere la più perentoria azione

– almeno letteraria – contro la morte e le sue epifanie. Nel già menzionato poemetto inedito Il

vecchio nel granturco, strofe di tono sapienziale incorniciano il racconto di un tentativo di

immortalità ingegnoso ma finito in beffa. In esordio, la voce narrante si chiede: «Un uso umano è il

canto della vita, / la sua bellezza, il suo dolce sapore, / la terra e il cielo, il vino e l‘amore, / questa

canzone la si è già sentita: / ma cosa canta l‘uomo quando muore?»; in chiusura, si risponde: «Chi

ha paura di morire, muore, / chi ama è troppo nuovo per finire, / chi ha paura vive senza amore, /

chi ama non ha tempo di morire». Non solo le costellazioni tematiche di Piumini, tuttavia,

suggeriscono l'intento di scongiurare la morte, ma anche e soprattutto le sue scelte di stile, struttura

e genere, e in particolare il privilegio accordato alla narrazione in poesia. Nella concretezza della

rappresentazione (la lettura, la messa in scena, l'illustrazione), poesia e racconto incrementano il

potere, che appartiene a entrambi, di consolare antiche mancanze (o, se si preferisce un altro punto

di vista, di appagare desideri): il narrare lenisce la nostra impossibilità di sperimentare nel vivo

l‘infinità di tutte le storie, mitiga la limitatezza che ci condanna a una storia sola, la nostra, e per di

più incompleta in quanto irrimediabilmente tronca del finale. E mentre il racconto consola così

l'esiguità della nostra esperienza del mondo, la metrica irretisce la dissonanza del mondo frenandola

in simmetria variabile e declinabile, in memoria, in ordine magico ed esatto. Poco importa che tale

ordine sia tanto breve quanto la storia che il poemetto racconta («corta / e necessaria, come a poesia

si addice: / ma non troppo, perché tempo vuole / l‘avvenire e l‘avvenire del dire, / il raccontare,

l‘avvenire del leggere, il vedere»: Poema tango), e pertanto chieda «voce parsimoniosa e attenta»

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come quella promessa dalla protasi della Mongolfiera. Il raccontare poetico, anche di misura breve,

accorda la confortante riconoscibilità dei ritmi con la sorpresa degli eventi nel loro accadere,

coniuga i cambiamenti del disegno consueto con la conferma delle costanti archetipiche, e facendo

questo ci rassicura, alla fine, che «il nulla è impossibile» (Il piegatore di lenzuoli). Ecco il senso

del canto e della sua disciplina, ecco ciò che la controllata armonia del racconto insegna e proclama,

ecco ciò che gesto e voce significano, contro la morte: l‘impossibilità del nulla, se esistono e finché

esistono voce, gesto, storie e poesia.

Milva Maria Cappellini

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PLINIO PERILLI

AL BUIO LA MIA MANO FOSFORA…

Viva la prosa nutrice del verso!

Laxus, onde laxare, lassare, lasciare, lasser ec. è un di quelli

aggettivi, che come ho detto nella mia teoria de‘ continuativi,

mi sanno di participio di verbi ignoti, o non noti come padri di

tali aggettivi ec. e laxare mi sa pur di continuativo per origine

ec. (19 Ott. 1823)

(Giacomo Leopardi, Zibaldone)

Parole secche e senza cavaliere

Colpi instancabili di zoccolo Mentre

Dal fondo dello stagno, stelle fisse

Regolano una vita.

(Sylvia Plath)

Eh, sì, Leopardi che di poesia nobile e sublimante la sapeva fin troppo lunga, ha codificato,

glorificato per sempre solo e soprattutto la prosa come sua unica, umile ma coraggiosa nutrice!…

Nello scrigno dello Zibaldone (a pag. 29 dell‘autografo) c‘è appunto il passaggio esatto, che parte

filologico, attraversa addirittura la gastronomia, e si conchiude quale squisito filosofema:

―… Ottimamente il Paciaudi come riferisce e loda l‘Alfieri nella sua propria Vita, chiamava la

prosa la nutrice del verso, giacché uno che per far versi si nutrisse soltanto di versi sarebbe come

chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a

formare il nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata

dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso.‖…

Mezzo ‗800 italiano vale in poesia specie per le sue prose liriche – e altrettanto potremmo,

dovremmo scrivere per il ‗900 da cui partiamo…

Non erano stati insomma i più moderni poeti romantici e poi decadenti (per quel che valgono gli

aggettivi, le nomenclature di specie), a sdoganare il poemetto in prosa o comunque le prose liriche, i

racconti in versi, come forse i più moderni strumenti d‘un moderno poetare?!… Si pensi a

Baudelaire, a Rimbaud… Ma prima ancora, agli stessi Goethe o Novalis… E di quest‘ultimo,

potremmo infatti citare a iosa tantissimi passi dell‘Enrico di Ofterdingen (1798-1801, pubblicato

postumo da Tieck nel 1802); ad esempio quello della festa, e della danza di Enrico con Matilde:

… Ella sembrava lo spirito di suo padre nel più soave travestimento. Dai suoi grandi occhi sereni parlava

eterna giovinezza. Su un fondo di un chiaro celeste spiccava il mite splendore di due brune stelle. La fronte e il naso si

incurvavan graziosi intorno ad esse. Il suo volto era un giglio inclinato verso il sole nascente, e dal collo esile e bianco

salivano serpeggiando in deliziosi volgimenti le vene azzurre per le tenere guance. La sua voce era come un‘eco

lontana, e la bruna testina ricciuta sembrava soltanto aleggiare sulla sua delicata figura. …

Del resto, perché stupirsene, se solo si pensi quanto anche la grande narrativa moderna – gli

scrittori veramente totali del ‗900 (come Proust, Musil, Mann, naturalmente Joyce, e aggiungerei

per molti tratti anche Kafka, Pasternak e lo stesso Borges…) – avevano in parallelo lavorato ed

estratto dal romanzo, rinforzandolo, smontandolo e rimontandolo, ogni lirico succo, consonante

pulsione emotiva, e provvida o inquieta essenza d‘anima… Impossibile in realtà catalogare, per

molte pagine del Dedalus joyciano (per l‘esattezza, A portrait of the artist as a young man, 1917),

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se appartenenti al mero genere romanzesco, e se invece fossero state capaci di tracimare, travasarsi

appieno in una sorta di fluviale, introiettato ma irradiante poema in prosa:

… Da secoli gli uomini avevano fissato lo sguardo in alto, come lui faceva sugli uccelli in fuga. La colonnata sopra il

suo capo, lo faceva pensare vagamente a un tempio antico e la canna, su cui s‘appoggiava stanco, al bastone ricurvo di

un augure. Un senso di paura dell‘ignoto mosse il profondo della sua stanchezza, una paura di simboli e di portenti:

dell‘uomo in forma di falco, suo omonimo, che s‘involava dalla prigionia sopra ali di vimini; di Thoth, il dio degli

scrittori, che scriveva su una tavoletta con un giunco e portava sullo stretto capo d‘ibis la luna falcata.

Sorrise pensando all‘immagine del dio, che gli ricordava un qualche giudice camuso, in parrucca, intento a metter

virgole a un documento tenuto alla distanza del braccio, e sapeva che non aveva ricordato il nome del dio, altro che

perché somigliava a una bestemmia irlandese. Pazzie. …

Quando mi trovai insomma a mettere a fuoco le mie prime prove poetiche, era oramai e per

fortuna impossibile scremare tra valenza lirica e attitudine prosaica… ―La Voce‖ aveva per fortuna

ben compiuto la sua piccola rivoluzione, e poeti come Slataper, Jahier, Boine, Sbarbaro, gli stessi

Ungaretti, Bacchelli, e poi Cardarelli (né possiamo omettere i già acclarati, desolati ma incoronati

―crepuscolari‖ come Moretti, Corazzini, Gozzano, F.M. Martini, l‘esordiente Govoni, il primissimo

Palazzeschi & Company), ci avevano donato ―prose‖ di altissima densità e dignità lirica…

E lascio volutamente a parte la folleggiante, cadente stella cometa di Dino Campana, che in quegli

anni – per chi almeno volle accorgersene – davvero infiammò, illuminò da sola quel cielo cupo e

tetro del primo dopoguerra… I Canti orfici (1914), si sa, valgono non meno per le parti in prosa che

per quelle eminentemente liriche, in realtà inscindibili…

La giornata di un nevrastenico (Bologna)

… Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subito che siamo in un centro di cultura. Guardano a volte

coll‘ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior di labbra. Formano sotto i portici il corteo pallido e interessante delle

grazie moderne, le mie colleghe, che vanno a lezione! Non hanno l‘arduo sorriso d‘Annunziano palpitante nella gola

come le letterate, ma più raro un sorriso e più severo, intento e masticato, di prognosi riservata, le scienziate. …

Negli anni successivi, votati e consacrati (per non dire: arresi) ad un trionfante ermetismo

(lasciamo stare gli sfumati distinguo tra le varie, differenti posizioni, diciamo così, degli Ungaretti e

dei Montale, dei Saba o dei Quasimodo… non dimenticando, si capisce, il quieto e impassibile

percorso dei poeti dialettali, sempre ben più affini ai fosforici borborigmi della prosa che alle

uniformi di gala dei lirismi altolocati: e citiamo almeno figure, destini come quelli di Virgilio

Giotti, Raffaele Viviani, Biagio Marin, Delio Tessa, Edoardo Firpo, Vittorio Clemente, Giacomo

Noventa, Tonino Guerra, lo stesso Zavattini…), l‘opposizione più accanita alla vulgata lirica in

auge fu certo quella del giovane Cesare Pavese di Lavorare stanca (1936, bissato nel ‘43 da una

seconda edizione aumentata ed arricchita di un importante scritto di poetica, tutto incentrato

appunto sul tentativo, e la glorificazione, della poesia-racconto):

La composizione della raccolta è durata tre anni […] Andava prendendo in me consistenza una mia idea di

poesia-racconto […] Continuavo a sprezzare, evitandola, l‘immagine retoricamente intesa […] Va bene, dicevo,

sostituire al dato oggettivo il racconto fantastico di una più concreta e sapiente realtà, ma dove si dovrà fermare questa

ricerca di rapporti fantastici?

―L‘esperienza di Lavorare stanca‖ – rileva e rievoca Ermanno Krumm – ―si presenta comunque

come qualcosa di fortemente marcato, per quel tempo. Una specie di isola cui tornare ogni qual

volta si cerca in direzione del verso narrativo e lungo che Pavese fu tra i primi a sperimentare

(preceduto negli anni venti da Piero Jahier ed Enrico Thovez).‖…

La vecchia ubriaca

Piace pure alla vecchia distendersi al sole

e allargare le braccia. La vampa pesante

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schiaccia il piccolo volto come schiaccia la terra.

Delle cose che bruciano non rimane che il sole.

L‘uomo e il vino han tradito e consunto quelle ossa

stese brune nell‘abito, ma la terra spaccata

ronza come una fiamma. Non occorre parola

non occorre rimpianto. Torna il giorno vibrante

che anche il corpo era giovane, più rovente del sole.

(da Lavorare stanca, 1936)

Ma torniamo nuovamente, con una bella, energica dissolvenza in avanti, fino agli inquieti e

discussi anni ‘60-‘70… In tempi di strascicato, usurato ―postermetismo‖, e ancor dopo di irruenta,

fastidita ―neoavanguardia‖, gli esiti più ghiotti e sintomatici mi parvero alcuni lampeggianti testi di

Elio Pagliarani, dello stesso Pasolini, perfino dell‘ultimo Montale… La ragazza Carla (1960) fu

certo una rivelazione, e forse anche molti brani di Poesia in forma di rosa (1964) e di Satura

(1971), o del Diario del ‟71 e del ‟72 (1974) e del Quaderno di quattro anni (1977), con la sliricata,

inebetita, quasi, ―macchina da presa‖ sulla nostra ormai minuscola modernità, sventagliata pigra e

attonita in aggiranti inquadrature contropoetiche forse sulla scena stessa (interni ed esterni) del

nostro invecchiato e dismesso ‗900 migliore…

Sul lago d‟Orta

Le Muse stanno appollaiate

sulla balaustrata

appena un filo di brezza sull‘acqua

c‘è qualche albero illustre

la magnolia il cipresso l‘ippocastano

la vecchia villa è scortecciata

da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti

e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno

da molti anni. Un guardiano era previsto

ma si sa come vanno le previsioni.

È strana l‘angoscia che si prova

in questa deserta proda sabbiosa erbosa

dove i salici piangono davvero

e ristagna indeciso tra vita e morte

un intermezzo senza pubblico. È

un‘angoscia limbale sempre incerta

tra la catastrofe e l‘apoteosi

di una rigogliosa decrepitudine.

Se il bandolo del puzzle più tormentoso

fosse più che un‘ubbia

sarebbe strano trovarlo dove neppure un‘anguilla

tenta di sopravvivere. Molti anni fa c‘era qui

una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode

ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi

da essere custoditi.

(dal Quaderno di quattro anni, 1977)

Uno scenario, ripetiamo, dove nemmeno la celebrata e oramai mitica Anguilla montaliana – e ce

lo dice lui stesso! – potrebbe, vorrebbe sopravvivere, in oscuri botri o maldestro, metaforico fango

poematico…

Ma non dimentichiamo che gran parte della poesia americana, e ovviamente anche europea,

chiedeva alla prosa lirica le atmosfere, pause o distensioni fervidissime, e ignote perfino ala poesia.

Penso a tanti poeti statunitensi che amavamo, non solo della ―beat generation‖ (Kerouac, of course,

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o Ginsberg, Corso, Ferlinghetti) ma anche più ufficiali, per così dire (il William Carlos Williams del

voluminoso poema Paterson, lo stesso John Ashbery). Non è un caso che dalle Foglie d‟erba di

Whitman all‘Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e oltre, fino alle estrose e trasgressive

poesie di Bukowski, c‘è tutta una tradizione americana di lirismo prosaico che seminò e a tratti

infervorò intere moderne generazioni:

Penniwit, l‟artista

Perdetti la clientela a Spoon River

perché tentai di far entrare il cervello nella camera oscura

per afferrare l‘anima della gente.

La miglior fotografia che io abbia mai fatto

fu quella del giudice Somers, procuratore.

Egli sedette ben dritto e mi fece attendere

finché riuscì a raddrizzare l‘occhio storto.

Poi, quando fu pronto, disse: – Pronto.

E io gridai: – Respinto – e il suo occhio girò.

E lo colsi proprio come era solito guardare

quando diceva: – Mi oppongo.

Ed egualmente onoravo anche la splendida eredità poematica di tanti racconti di Lorca, o fulgide

prosette laiche (e gnomiche) di Prévert, Char, Valéry, Jacob… Max Jacob, in particolare, quello

postumo dei Derniers poèmes en vers et prose (1945), e che morì nel ‘44 nel campo di

concentramento di Drancy, ostaggio dei nazisti), ci consegnava con le sue aspre ma favolistiche

parabole ammonimenti supremi anche in rapporto alla tirannìa e ignominia della grande Storia:

Amore del prossimo

Chi ha visto il rospo attraversare una strada? È un uomo piccolissimo: una bambola non potrebbe essere più piccina.

Si trascina sulle ginocchia: ha vergogna, si direbbe? … no! È pieno di reumatismi. Una gamba rimane indietro, ed egli

la richiama. Dove va così? Esce dalla fogna, povero clown. Nessuno ha notato questo rospo per la via. Un tempo

nessuno mi notava per la via; ora i ragazzi si fanno beffa della mia stella gialla. Fortunato rospo! tu non hai la stella

gialla.

Non parliamo poi dei nostri beneamati e correnti poeti russi, capaci di intrigarci e commuoverci

con le ―scene‖ e le ―storie‖ delle loro poesie, come dei veri e propri registi cinematografici…

Citiamo almeno Evtušenko, e il gemello dioscuro Voznesenskij, peraltro laureato architetto… Tutte

le prime liriche di Evgenij Evtušenko (La terza neve uscì nel ‘55), ci donavano degli autentici,

animati quadretti, vere istantànee o quasi cortometraggi della sua, loro – romantica ma anche

disillusa – giovinezza sovietica:

Ultimo vicolo

Ultimo vicolo: un nome adatto…

Qui, in una casa trasformata in bettola,

mi fingo dotto con una cretina

e mi rincretinisco sempre più.

Perché esser poeta per pomiciare

con una borghesuccia su un baule?

Son goffo: un lapot‟ con il tacco alto

nelle grinfie di ―nostra madre‖ Mosca…

In questa stanza, fra trumò e bicchieri,

non salvo con il letto la poesia.

Ultimo vicolo: numero tredici.

Oltre ormai non c‘è più strada.

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Ecco dunque gli anni di gestazione e incubazione delle mie anch‘esse sperimentate, stravissute

Ragazze italiane. Il libro, che uscì nel 1990, gettava in effetti un po‘ di sassi e rametti in uno stagno

che da un lato celava tanta acqua annosa e immota del postermetismo (sempre quella che Pavese

paventava ed evitava quale ―immagine retoricamente intesa‖) – e dall‘altra favoriva, certo per

reazione, la fioritura acquatica di strane e finanche mostruose ninfèe sperimentali, votate

unicamente, intenzionalmente, al gioco pseudofonico o joke paralinguistico. Edoardo Sanguineti, ad

esempio, dissacrava e autoironizzava in prospettiva diaristica – vero e proprio, elucubrante spaccato

intellettualistico – l‘in fieri e l‘in progress di ogni pensiero o pensarsi poetico, metaforizzandolo

come prosa e diagnosi stessa creativa… Raccomando ai miei posteri un giudizio distratto, per i poeti del mio tempo:

(perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione):

è inutile pensare, adesso,

ai neostrutturalisti dannunziani (e a tutti gli ―orecchini‖ che verranno, se verranno):

(come è inutile diagnosticarli, rigidi, questi sciamani di Lucifero, e le loro squisite

disperazioni, tra le fedi e le speranze dell‘ultima spiaggia borghese, tra i lampi

ardenti dell‘apologetica indiretta apocalittica):

io non sono così, e non voglio

essere così: (e l‘altra sera potevo concludere, all‘Italsider, confessandomi chierico):

sono un chierico rosso, e me ne vanto:

(e oggi, guarda, mi sorprendo che canticchio,

facendomi la barba, all‘improvviso, ―Montale, gli ottant‘anni ti minacciano…‖):

(da Postkarten, 1978)

Le storie, il raccontare storie era oramai mestiere dimesso, al massimo relegato, lasciato,

subappaltato ai cosiddetti ―cantautori‖ di grido, più o meno poetici (citiamo almeno, a parte

l‘assestata e ―francesizzante‖ scuola genovese dei Paoli, dei Tenco e dei De Andrè, taluni pregevoli

ballatisti o comunque interpreti dal pop al rock, come Lucio Dalla – guardacaso in splendida

collaborazione col poeta Roberto Roversi, un ex civile aedo di ―Officina‖ – Guccini, il vituperato

ma ascoltatissimo Battisti (che schitarrava alla grande suadenti pensieri e parole: cioè le briose

romanticherìe di Mogol), e poi ancora il trasgressivo Renato Zero, gli allor giovani menestrelli

progressisti Antonello Venditti e il più metafisico De Gregori, Ivan Graziani e perfino il primissimo

Vasco Rossi, più scombiccherato beatnik di provincia che il successivo rocker ultramplificato e da

megaconcerto nei grandi stadi che sarebbe diventato:

Albachiara

Respiri piano per non far rumore

ti addormenti di sera e ti risvegli col sole

sei chiara come un‘alba, sei fresca come l‘aria.

Diventi rossa se qualcuno ti guarda

e sei fantastica quando sei assorta

nei tuoi problemi, nei tuoi pensieri.

… E ci fermiamo qui, con l‘italico cantautorato... (Non a caso – pochi lustri più tardi – uno

sperimentatore come Tommaso Ottonieri si provò in una gustosa parodia di molti testi di canzonette

sanremesi…). E in ogni caso venivamo un po‘ tutti da una tradizione, recente ma già consolidata,

che aveva visto un Bob Dylan (citiamo lui per tutti) inanellare, cantilenare, strimpellare, gracchiare

o comunque intonare con le sue fulgide, pulsanti ballate e canzoni folk-rock, le più vitali, necessarie

―poesie-racconto‖ di quegli anni di transizione dal futuro sognato al futuro in atto, e ancora al futuro

da costruire, perseguire, propagandare, convertire…

a ramona

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ramona vieni qui vicino

chiudi dolcemente i tuoi occhi di brina

il dolore della tua tristezza passerà

mentre i tuoi sensi si sveglieranno

i fiori della città

sebbene siano come il respiro

a volte diventano come la morte

e non serve a niente cercare di capire

quelli che stanno per morire

anche se non riesco a dirlo a parole

le tue labbra screpolate di campagna

voglio ancora baciarle

e essere vicino alla forza della tua pelle

i tuoi magnetici movimenti ancora catturano

i minuti in cui io sono

ma addolora l‘amore del mio cuore

vedere che cerchi di essere parte

di un mondo che semplicemente non esiste

è tutto soltanto un sogno

è un niente è un inganno

che ti risucchia e ti fa sentire

come adesso

Ma l‘atmosfera concreta, il retaggio intellettuale che tutto ciò scatenava nell‘aria, nelle tetre

temperie di quello che Pasolini stigmatizzava, denunciava come conformismo

dell‘anticonformismo, era poco meno severo e triste del papalino, reazionario non possumus…

Quando Antonio Porta, nel gennaio 1982, mi pubblicò su ―Alfabeta‖ Tre ricordi, nient‘altro era in

effetti che un evocante, risvegliato e struggente racconto lirico:

Com‘era bello il tuo ricordo!,

prima che tu stessa lo spegnessi

per tornarmi viva, riapparire

luminosa nel presente: identica

a come ti volevo – miracolosa

incarnazione della mia idea.

Prima che ti sognavo indimenticabile:

metà, concreta speranza insaziata,

esaudita ma rinnovata; metà,

bugiarda promessa mantenuta…

―Allora ci vediamo domani!

Facciamo alle quattro a Piazza

di Spagna‖ – ―Sì!, ti aspetto

intorno alla fontana. Capito?

Vengo con la metro…‖. Amore

nostalgico, ripetitivo ma fedele

al suo appuntamento quotidiano

coll‘immediato futuro di ieri.

(poi in L‟Amore visto dall‟alto, 1989)

L‘affettuosa recensione di Giuseppe Conte alle mie successive, adunate e rinarrate Ragazze

italiane (uscita sul ―Mercurio‖ di Repubblica nel settembre 1990), dissipava in effetti ogni sospetto

recondito: ―I versi sono lunghi e narranti, elegiaci, come tradotti da un latino anacronistico: fanno

pensare più a Tibullo e a Properzio che a Gozzano‖… E ancor più fece, bontà sua, Eraldo Affinati

in un saggio di poco posteriore (su ―Via lattea‖, luglio/dicembre 1994): ―Il mimetismo acrobatico di

Plinio Perilli non è frutto di una tecnica: discende semmai dal suo respiro creativo che vive sempre

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in un surplus allegorico dell‘emozione lirica, in grado di accogliere, così atteggiato, gli stimoli

provenienti dalla quotidianità.‖…

Ma eccole, alcune raccattate, convocate briciole di queste esistenze – scrisse Rosita Copioli nel

1990, prefando le mie Ragazze italiane – ―che qualcuno ha dimenticato e che lui non permetterà si

perda.‖

Un paio di brevi esempi a caso. Una scheggia lirica come Il sorriso perduto:

Siccome anche tua Madre ha i tuoi occhi,

io li guardavo come se un po‘ tu mi guardassi.

C‘era malinconia e luce, c‘era l‘ombra

dopo il sorriso. Forse il Suo sorriso sei tu:

Lei lo ha donato a te che lo porti per strada.

Ma anche un altro squarcio sublime e banale d‘esistenza come Le briciole, amabile residuo di

ogni nostra dolce e invaghita nuga quotidiana:

Al bar ti piace la pasta alla crema,

ridi, mi ringrazi, sorridi troppo,

masticando te ne scordi, ti vedo

le briciole tra i denti – te ne accorgi,

chiudi subito le labbra e arrossisci.

Il tuo pudore mi fa ridere, ed ora

sono io che ti mostro gengive

di briciole colorate, a decorarmi

gli incisivi. La figuraccia per fortuna

è reciproca!: uno pari, palla al centro.

E vennero finalmente gli anni, il tempo ormai maturo per i racconti in versi… Al punto che ce ne

sentimmo addirittura invasi, circondati, perfino sommersi… Glissiamo sui nomi – ma non ci fu

moderno, anzi postmoderno lirico di ruolo che non giocò il suo jolly. Naturalmente la posta esigeva,

meritava un rischio molto più sincero (e comunque articolato).

Ci volle il gran lavoro romanzesco e lirico assieme del grande Attilio Bertolucci con La camera

da letto, per ribaltare un po‘ le quotazioni, e comunque concimare quell‘inaridita, isterilita gran

pianura secondonovecentesca che divinava spunti novissimi, soffriva talentuose Autobiologie e

scombiccherate, baluginanti Vite in Versi, profetava Stelle del Libero Arbitrio e Geometrie del

Disordine, Paesaggi col serpente e Laborinti, ma in realtà allungava (al massimo insaporiva) il

brodo dei decenni precedenti – di cui già i massimi rappresentanti avevano auscultato, registrato e

diagnosticato la sfinitezza… Perché, altrimenti, la via di fuga della prosa lirica nelle gran carriere di

Montale e Sinisgalli, dello stesso Gatto, e poi Vigolo, Leonetti e Roversi, Risi ed Erba, Giudici e

Raboni?…

XI

IL BAMBINO CHE VA A SCUOLA, A SEI ANNI

Il bambino che va a scuola, a sei anni

muta profondamente la sua vita,

si ferisce di continuo e guarisce

da solo, i ginocchi e i polsi,

prima intatti, fioriscono di croste

che l‘aria dei mattini d‘inverno

lustra come rubini o come quelle

bacche per cui la siepe è ancora viva

casa e dispensa al passero e ai suoi figli.

Se l‘anima gli si lacera, si cura

nascondendosi agli altri e più a chi

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sino ad oggi gli ha dato gioie e affanni.

(da La camera da letto, 1984-89)

Mario Luzi, è vero, cercava, cercò (e trovò) altre soluzioni: in parte teatrali, in parte di fortissima

prosodia gnostica (Nel magma, 1963; Dal fondo delle campagne, 1965; Su fondamenti invisibili,

1971)… Ma questo è un altro discorso.

La corriera

La corriera procede a strappi, muglia.

Chi nativo di qui ravvisa il giogo

cima per cima segue in lontananza

tutta l‘azzurra cavalcata: il vento

profila i primi monti

bruciati dall‘altezza,

fa livido il colore

più cenere che fiamma

che ha il querceto d‘inverno

su queste terre d‘altipiano,

sferza, ostacola i muli sulla tesa,

stride sui cumuli di brace. Gli altri,

chi recita il breviario a voce bassa,

chi sonnecchia, chi parla dei suoi traffici

di buoi, di lana, di granaglie e volge,

se volge, un occhio disattento al vetro.

(in Dal fondo delle campagne, 1965)

Nessuno, in pieni anni ‘80, credeva più nel verso sonante, nemmeno chi ancora lo cercava, lo

anelava – come Diogene l‘uomo, la lanterna in mano… (Non era stato addirittura l‘ottocentesco e

umbertino Carducci, ad ammonire, inveire, nell‘acceso e fervoroso Preludio delle Odi barbare:

―Odio l‘usata poesia: concede / comoda al vulgo i flosci fianchi e senza / palpiti sotto i consueti

amplessi / stendesi e dorme…‖!?).

Intanto, nella nostra grande-piccola Europa, quanto mai travagliata e ancora ferita da muri,

glaciazioni e contrapposizioni ideologiche, la Bachmann era approdata al fortilizio apotropaico

della prosa; e anche un Enzensberger, o soprattutto un Ted Hughes, usavano la poesia per grandi,

dirompenti riflessioni memoriali o impennate, galoppanti cogitazioni narrativo-epocali…

Ricordi come raccoglievamo i narcisi?

Nessun altro lo ricorda, ma io sì, lo ricordo.

Tua figlia arrivava con le braccia piene, entusiasta e felice,

aiutando il raccolto. L‘ha dimenticato.

Non si ricorda nemmeno di te. E li vendevamo.

Sembra un sacrilegio, ma li vendevamo.

Eravamo così poveri? Il droghiere, il vecchio Stoneman,

strabico, con la pressione che virava al viola barbabietola

(fu la sua ultima occasione,

sarebbe morto nella stessa grande gelata in cui moristi tu),

fu lui a convincerci. Li comprava sempre,

ogni primavera, sette pence la dozzina,

―usanza della casa‖.

(da Lettere di compleanno, 1998)

Baldi poeti giovani di quei fervorosi e per fortuna inquieti tardoanni ‘70, praticarono la prosa non

so se come ―nutrice del verso‖, ma certamente quale ancella, amica più emancipata (leggi: più

libera, errante/erotica/eretica) della poesia… Franco Cordelli, lo ricordo bene, confessò nel suo

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unico libro di poesia questo disagio e questa energia (che definì egli stesso ―un palinsesto

concettuale della scrittura di tipo lirico, e dunque monologico, che anima e forse sovrasta ai primi

romanzi‖):

dall‘etica della parola il transito

a metamorfosi il mondo il ruminar della scienza

e tu mi parli della carta di Atene la sola

visione in punti trentatré dell‘architettura

che nel passaggio alla tecnica scongiura

l‘edilizia il bulldozer che arriva

infastidito a squassare colline sterpi il bubbone

di giardini incolti e case abusive ai margini

della città, le cancroperiferie, la grande

salute dei piani quinquennali

nel trionfo netto degli stili, un superamento

mi dici (per chiudere la storia delle cellule impazzite)

che sia sempre di tutti i cittadini il raccoglimento

(da Fuoco celeste, 1976)

E prose liriche ispirate, anche trascinanti, ne scrissero in quegli anni il majakovskjiano Adriano

Spatola, Mario Lunetta chez Apollinaire, il transoceanico postsurrealista Luigi Fontanella, il

nerudiano Umberto Piersanti (mi diverto a pennellare per ciascuno un aggettivo connotativo)…

Il lavoro di Giuseppe Conte verteva in effetti più sul recupero mitico, e quello di Milo De Angelis

sulla volizione orfica. Se aggiungiamo il chissà perché quasi dimenticato e invece bravissimo

Gregorio Scalise (i Poemetti uscirono nel ‘77, La resistenza dell‟aria nell‘82), e naturalmente

l‘occhio razionale e pensante dell‘esordiente Valerio Magrelli (Ora serrata retinae uscì nell‘80), il

panorama è pressoché completo. Ma ecco il Conte ―mitomodernista‖ de L‟Oceano e il Ragazzo

(1983); tutto natura naturans, natura naturata ed enjambements:

Il vento bisognava sentirlo sul

mare alzare i marosi, stracciare

le nuvole e ritesserle, staffilare

le alberature, rauco, fiorito di

salino, buio, inumano.

Divorare la sabbia, sibilare tra gli

scogli, spingersi sino a far tremare le automobili

sui viadotti.

Fare lividi sotto l‘orizzonte: bruciare

gli occhi.

Si è persa la memoria di Mentone

dove le onde salivano a lasciare

laghi sulla strada della frontiera, di

Vado dove al largo i turbini

levavano brevi alberi

di nebbia.

Quanto all‘Autopia della Neoavanguardia, essa andava probabilmente e interamente riformulata (oggi si direbbe riformattata): ed è quanto in effetti fecero alcuni ―vecchi‖ giovani come Antonio

Porta e Giampiero Neri. Il primo, immettendo gnomica, allertata vis teatrale e luminosi filosofemi

cronachistici nelle sue ultime raccolte (a partire da Passi passaggi, 1980; Invasioni, 1984; Il

giardiniere contro il becchino, 1988); il secondo, con la sua nomenclatura scientista da

similpoemetto didascalico di un Settecento modernamente anticato: ―La Pavonia maggiore o

Saturnia / la farfalla Atropo ed altre specie notturne / sono un notevole esempio di mimetismo.‖

(L‟aspetto occidentale del vestito, 1976).

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Lo stesso Elio Pagliarani poetò adottando prose antique del Savonarola e addirittura incalzanti

sillogismi, enunciati ed Esercizi platonici (1985). O comunque lavorando per tre decenni un

incalzante, temprato romanzo in versi, La ballata di Rudi (1995):

Stamattina al reparto T.A. il ritmatore

della Siemens, a San Siro, è stato allentato di una frazione di qualcosa

e il tempo fra i due lampi verdi entro i quali lampi le operaie

dobbiamo svolgere il lavoro è durato più a lungo

nessuna a differenza di ieri è svenuta, io sono venuta qua

per tutta la giornata un via vai di tecnici e ingegneri a far conti

ad applicare formule attorno alla posizione undici là dove

per otto ore al giorno c‘è da saldare fili a migliaia e migliaia di millanta

rossi gialli bianchi continuando a chinarci a terra per risalire adagio adagio

fino a riempire di fili tutto il pannello di trentasei relé

ritto verticale di fronte a me

Lo sperimentalismo dentro e oltre il postmoderno, tento e provò su se stesso nuovi vaccini, come

fecero, ciascuno a suo modo, autori originali e cauterizzanti quali Marco Palladini (Autopìa è un suo

titolo del ‘91, Ovunque a Novunque del ‗95), Luca Ragagnin, e, last but not least, Aldo Nove…

Ecco ―Soluzione Soledad‖, un monologante, autòpico gesto sliricato di Palladini, vezzosamente

prosaico eppure sentìto, sofferto, engagé, ispirato di corriva ma ardita giovinezza, e del suo baldo,

brioso, viscerale malessere (il brano fa parte di un ben più lungo componimento, davvero uno

struggente e inconsolabile epicedio – che è anche compianto epocale – in memoria di Maria

Soledad Rosas, anarchica, spiega e annota Marco, ―suicidata dalla società‖ nell‘estate del ‘98):

sei la poesia del mondo che si ritira dal mondo

– muri innalzati a respingere l‘onda

―normale‖ globale e kriminale

dell‘in(de)formazione che tutto immerda –

terminale sfiducia nella parola, ogni parola

è menzogna, pensare in forma di parola è

menzogna – rifiutarsi di parlare, rifiutarsi

di comunicare, rifiutarsi di dialogare –

assolutamente separarsi dalla società

della logorrea-spettacolo, del talk show

permanente – frivola merce-chiacchiera

vomitata sul dolore inesprimibile dell‘uomo

a far profitto e osceno coro di canaglie –

fascista è la costrizione a dire – ché non c‘è

più nulla da dire – nessuna libertà

nella parola, dunque soltanto la mutezza

può esserti cara compagna verso la salvezza

…………

(da Fabrika Póiesis, 1999)

Anche molte poetesse adottarono una cadenzata, caparbia prosa lirica come scudiscio, un po‘

ideologico un po‘ stilistico, di sacrosanti redde rationem femministici… Amo molto talune

indimenticabili prose liriche di Anna Cascella o Giovanna Sicari, Biancamaria Frabotta e Jolanda

Insana… E sono addirittura devoto al fascino inesauribile, sconcertante e malioso, del Diario ottuso

(1990) di Amelia Rosselli:

… Entrare nel silenzio della borghesia, a piccoli passi sicuri anche se apparentemente esitanti noi facciamo di

noi stessi una specie di lavatoio pubblico: una querela lasciata a metà, un inchiostro sbiadito dai secoli sulla pagina

fiacca di lacrime mai versate. Apparentemente il mio dilemma era derisorio: profondamente invece esso era giusto e

previggiente: il disastro si sarebbe compiuto, negli anni futuri e nel passato degli altri, la loro querela troppo pericolosa

per essere circuita definitivamente, o apertamente combattuta, o apertamente espressa. …

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Per non parlare delle prose autobiografiche (eppure tutte fantasiose, visionarie) di Alda Merini –

registrazione di puri eventi e malesseri mentali, prima ancora che incandescente, romanzesco e

purgatoriale resoconto esistenziale:

Ho un letto voluttuoso come quello di Messalina, dotato di ben sei materassi ereditati dalla sorte. Tutti concupiscono

il mio povero letto, che è grande e disordinato, ma estremamente pacifico. Però in quel letto l‘amore non si fa, perché

inevitabilmente i materassi si dividono e l‘amante di turno cade nel mezzo senza più riuscire a liberarsi dal lenzuolo che

viene ad avvolgerlo come una specie di sudario. I più audaci hanno provato a ghermirli e si è sentito un tonfo pesante.

Gli inquilini hanno protestato e si sono chiesti: ―Ma chissà cosa fa quella lì di notte‖. Niente, trasportavo materassi dopo

che l‘aspirante amante se ne era andato via sbattendo pesantemente la porta.

(da Il tormento delle figure, 1990)

Più o meno lo stesso faranno, negli immediati anni a seguire, autrici come Antonella Anedda e

Anna Maria Farabbi, Maria Grazia Calandrone e Nina Maroccolo – con quei loro versi lunghi che si

riallineano alla prosa, rigenerandosela come una lirica coltura in vitro, un propedeutico, congelato

deposito di ovuli fecondati… forse di ultrapoetiche e future cellule staminali…

Dopo aver letto la luce

dai monaci amanuensi e dai calligrafi cinesi

ho rotto la scuola. E l‘uovo.

Attraversando le mani di una maestra elementare

che mi ha creata strega accolgo

il paesaggio e la dimora.

Fin qui esposta pubblica

e contemporaneamente profonda in me stessa.

Premo in te l‘orografia della mia impronta digitale

la mia identità senza inchiostro l‘andatura del sangue.

Rumino senza ali piena di gobba.

Al buio la mia mano fosfora:

spacca con un colpo la melograna

schizza i semi dentro la carta ovunque sia.

Ho imparato a firmare sull‘acqua

a segnare con il fiato.

A raccogliermi in posizione fetale dentro la o

per rinascermi erba o atomica.

(da: Anna Maria Farabbi, La Magnifica Bestia, 2007)

Parlo di implose o arcane prose liriche: ometto perciò volentieri la un po‘ oscura disamina dei veri

e propri romanzi scritti, compitati dai poeti di ruolo (ma citiamo, tra i migliori, almeno il Valentino

Zeichen di Tana per tutti, 1983, e naturalmente il Conte di Primavera incendiata, 1980, Equinozio

d‟autunno, 1987, etc.).

Idem valga per i non pochi libri di poesia sliricata frutto e dono di molti valenti narratori di ruolo:

da Antonio Delfini a Tommaso Landolfi, da Luigi Bartolini a Juan Rodolfo Wilcock, da Ottiero

Ottieri a Paolo Volponi, dalla stessa Elsa Morante alla cara Anna Maria Ortese, da Giorgio Bassani

a Giovanni Testori…

Parafrasando Engels

Tutto ciò che esiste è degno

di perire recito anche io fra me e

me parafrasando

Engels

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Ed ecco nel rosso deserto crepuscolo appena dopo

Bologna ecco quasi subito

volando io continuamente in discesa lungo il dritto asfalto laggiù

verso il buio il silenzio la

solitudine

eccola là già in vista la grande la tiepida

dimora

eccola ancora là la mia

gioventù

(da: Giorgio Bassani, In rima e senza, 1982)

Provvido e proficuo discorso a parte ci comporterebbe una sacrosanta sintonia col dialetto – di cui

per molti versi Franco Loi ci parve in quegli anni un campione esemplare, duttile e rigoroso,

sensuale e integerrimo. Ecco le sue osterie, i suoi bar, il suo Teater inoppugnabile di vita, caldo,

animoso e indimenticabile come la vita in prosa nutrice del verso:

Tìrum l‘urlògg indré e fèm ‘na fenta:

‘dèss sèm al Cafè Piola tra quj màster

che, tra ‘n dama e i cart, scròcchen ‘na menta

e ‘l temp e la miseria fan pullàster.

Ne la saletta in fund, campiun de stecca,

i gran vivör de spunda e gran nuttàmber,

la cricca che d‘inturna la te becca,

e, in mezz al füm, un lampedà de facc.

Facciamo girare all‟indietro l‟orologio e costruiamo una finzione: / adesso siamo al Caffè Piola tra quei maestri /

che, tra una dama e le carte, scroccano una menta/ e il tempo e la miseria fanno pollastri. / Nella saletta in fondo,

campioni della stecca, / i gran viveur della sponda e abituali nottambuli, / la cricca che attorno sta a criticare, / e, in

mezzo al fumo, un lampadario di facce. …

(da Teater, 1978)

Ragazze italiane, ripeto, sanciva denudava e arrischiava dei cadenzati ―Racconti in versi‖ (era

infatti il sottotitolo). Più o meno in parallelo, Valerio Magrelli predicava e levigava loiche, sottili

Nature e venature (1987), filigranate in pensiero, ma soprattutto sani, svelati e arcani Esercizi di

tiptologia (1992)… E a seguire, di lì a poco, addirittura l‘artigianato civil-giornalistico delle

didascalie (aggiornata versione del vecchio poemetto eroicomico): Didascalie per la lettura di un

giornale (1999)…

Porta Westfalica

Una giornata di nuvole, a Minden,

su un taxi che mi porta

in cerca di queste due parole.

Chiedo in giro e nessuno sa

cosa indichino – esattamente, dico –

che luogo sia, dove, se una fortezza

o una chiusa. Eppure il nome brilla

sulla carta geografica, un barbaglio,

nel fitto groviglio consonantico, che lancia

brevi vocali luminose, come l‘arma

di un uomo in agguato nel bosco.

Si tradisce, e io vengo a cercarlo.

Il panorama op-art si squaderna tra alberi

e acque, mentre i cartelli indicano ora

una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo,

la statua con la gamba sinistra istoriata

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dalla scritta: ―Manuel war da‖,

incisa forse con le chiavi di casa, tenue

filo dorato sul verde del bronzo,

linea sinuosa della firma, fiume

tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare.

(da Esercizi di tiptologia, 1992)

Pochi anni dopo, mi tuffai in ancora più ardito diario lirico giorno per giorno… Petali in luce,

terzine di lunghi polimetri a raccontare e salvare il nucleo e fulcro lirico di tante quotidiane poesia

trasparenti, umile denudata e tagliente scheggia di mera realtà… Giuseppe Pontiggia amò

battezzarle, ripeto, catulliane nugae (―… una inezia apparentemente ai margini del quadro. Ma

proprio il contatto con la cornice li risospinge in primo piano, lo slancio centrifugo trova l‘equilibrio

con la forza centripeta.‖)… Oggi, ripercorrendole (riproiettandole?), potrei forse io stesso definirle

microsequenze, frammentati cortometraggi, contingenti barlumi d‘esistenza: ……

L‘intensità mi premia: scivola in gioia una lacrima…

sul viso che girato non scorgi. Ti penso il volto che amo,

che conosco. Mi volto e già non sai che per te ho pianto

***

Questo Cenacolo distratto e gaio… Sei camerieri che cenano,

dopo la mezzanotte, bianco povero rito. Ormai pochi i clienti,

e in fuga: come anime perse, se il sonno o la fede ci chiamano.

***

Riaccompagnandoti a casa, fermi sotto il portone, l‘auto

appannata d‘affetto. ―Fumo questa e poi vado‖. Stinto hai

il rossetto, già archiviata una gioia. La notte ci sorride.

***

Gl‘immigrati riuniti, il giovedì festoso! – quando è pausa al

dramma del lavoro. Ho visto nelle piazze i filippini sorridere

fra loro – rito gioioso! – mangiare in piedi insieme trasognati.

***

All‘uscita di chiesa, t‘aspetta l‘obolo, la pietà doverosa

– fede contrìta – il mendicante che su un cartone annuncia:

HO FAME. GRAZIE. E un cagnolino con lui, che guarda e giudica.

***

Quanti bagagli sposta, Giovinezza?! Quanti sogni contengono?!

Valigie e zaini, viaggi o miti inesausti… Di stazione in

stazione le sorride amore – e forse vero peso è solo il cuore.

***

Ce lo ricorda un gatto, il tepore del mondo… Proprio lì dove

manca, o s‘irradia a caso. Acciambellato lo scorgo sul cofano!

Ancora calda la macchina, più umana così, senza il padrone…

…………

(da Petali in luce, 1998)

Credo che sempre e dietro ogni poesia ci sia un‘immagine – Imago etica, sia ben chiaro, come un

piccolo umile fulcro al sublime – che condensi un nucleo di microracconto. Attenzione, non una

mera verve descrittiva (giammai); piuttosto quasi il bisogno di argomentare, rinarrare l‘accadimento

stesso dell‘emozione. Che sprizza, letteralmente gemma da scorza dura come luce da ombra,

carezza da attesa, svolazzante e policroma parola/farfalla dopo orride crisalidi interminabili di

silenzio…

Sprizza e spunta, rigemma, fiorisce – magari anche ―Nel sonno‖, o nel dormiveglia perenne della

lirica, come ancora ci insegnano Gli strumenti umani, sempre oliati e metaforici, affilati e puntuali,

di Vittorio Sereni, con quella sua aria da eterna, ormai impigrita sequenza neorealista, pasionaria

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nell‘osso della mente, ma con un pensoso, cinematografico sorriso trasandato e lieto, più romantico

che romanzesco: nazionalpopolare...

Anima e stile di celluloide, da proiettare su uno schermo che non è più solo quello bianco,

abbuiato dell‘Io, ma il dono, e l‘eredità, di un‘intera epoca immemore – e memoria epocale:

L‘Italia, una sterminata domenica.

Le motorette portano l‘estate

il malumore della festa finita.

Sfrecciò vano, ora è poco, l‘ultimo pallone

e si perse: ma già

sfavilla la ruota vittoriosa.

E dopo, che fare delle domeniche?

Aizzare il cane, provocare il matto…

Non lo amo il mio tempo, non lo amo.

L‘Italia dormirà con me.

In un giardino d‘Emilia o Lombardia

sempre c‘è uno come me

in sospetti e pensieri di colpa

tra il canto di un usignolo

e una spalliera di rose…

(da Gli strumenti umani, 1965)

Non lo amiamo il nostro tempo, che pure vorremmo amare – e non ci ama, proprio non vuol farsi

amare, riamando…

*******

P.S. – Qualche anno dopo – per la precisione, a Roma, il 14 aprile ‘94 – trovandomi a casa da Elio

Pagliarani, maestro beneamato, ne ebbi in dono un suo libro rarissimo del gennaio ‘59 edito da

Veronelli, Inventario privato, e soprattutto una dedica che ancor oggi mi rende fiero:

―All‘autore delle Ragazze italiane, l‘autore della Ragazza Carla, con stima, simpatia e tanti

auguri‖.

Non c‘è nessun libro, dunque, che mi sia più caro: e non per ovvio narcisismo (ahinoi!), ma per

buffa sintesi aneddotica e tranciante diagonale storica. Per il resto mi affido anch‘io alle auree,

controsublimi, giacché querule e un po‘ cantilenanti deduzioni dell‘ultimo Montale:

Si dice che il poeta debba andare

a caccia dei suoi contenuti.

E si afferma altresì che le sue prede

debbono corrispondere a ciò che avviene nel mondo,

anzi a quel che sarebbe un mondo che fosse migliore.

Ma nel mondo peggiore si può impallinare

qualche altro cacciatore oppure un pollo

di batteria fuggito dalla gabbia.

Quanto al migliore non ci sarà bisogno

di poeti. Ruspanti saremo tutti.

(da Diario del ‟71 e del ‟72, 1973)

Più o meno negli stessi anni – gli ultimi della sua disperata vitalità – Pier Paolo Pasolini,

reoconfesso, in questo, e acremente fiero, irrideva e trasformava la sua richiesta e necessità di

poesia nel rito laico e sconsacrante di una ―libertà linguistica rasentante talvolta l‘arbitrarietà‖,

liricizzando, in definitiva, ―l‘affermazione caparbia e quasi solenne dell‘inutilità della poesia‖…

Operazione e terapia omeopatica – sia ben chiaro – ma che diede comunque il timbro e

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l‘accelerazione a tutti i residui anni a venire. Per mera, feconda e polemica scelta stilistica, infatti, le

sue ultime liriche furono in sostanza dei voluti ed inseguiti ―Comunicati all‘ANSA‖:

Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza

di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.

Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero.

Naturalmente per ragioni pratiche.

(da Trasumanar e organizzar, 1971)

Ma nessuno si sogna per questo di affermare che la migliore e più informata, impegnata poesia

―contemporanea‖ coincida col giornalismo, né la citata ed elogiata prosa con la raggiunta e distillata

poesia… L‘immaginazione, e soprattutto lo stile, distillati e autoproiettantisi, proprio non lo

consentirebbero! E chiudiamo, così come abbiamo aperto, con una affilatissima, illuminante

intuizione di Leopardi; il quale, esattamente il 5 Nov 1821, chiosava e ci consegnava, per

vademecum e a futura memoria, la seguente inoppugnabile sentenza:

―L‘immaginazione in gran parte non si diversifica dalla ragione, che pel solo stile, o modo,

dicendo le stesse cose. Ma queste cose la ragione non le saprebbe né potrebbe mai dir così; e solo il

poeta vero le esprime in tal modo.‖

Plinio Perilli

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IN DIALOGO

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ALFONSO BERARDINELLI

1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto

alla questione dei generi)?

Le definizioni vengono meglio e sono più chiare se procedono per comparazione. La prosa, rispetto

alla poesia, sembrerebbe avere meno regole: non si va a capo, non si devono avere buone ragioni

per tagliare i versi, non si è spinti a inventare metafore e a moltiplicare gli artifici e le figure

retoriche ecc. Ma più precisamente si dovrebbe dire che la prosa ha regole diverse: chiarezza,

razionalità, una certa più naturale discorsività, meno inversioni sintattiche, più idee che metafore,

più dati e fatti che immagini e visioni… Naturalmente esistono diversi tipi di prosa: quella

didascalica, impersonale dei trattati e dei testi didascalici, quella più soggettiva, informale e mista,

retoricamente movimentata, della saggistica vera e propria, e poi la prosa propriamente narrativa. I

generi poi sono spesso in concorrenza, o collaborano e si mescolano un po‘. La prosa delle Operette

morali, per esempio, ingloba poesia e filosofia, la prosa d‘arte antica (la ―Kunstprosa‖ analizzata da

Eduard Norden un secolo fa) e un certo allegorismo illuministico. I saggi di Orwell sono spesso,

almeno in parte, narrativi e autobiografici. Lettere luterane di Pasolini e Palomar di Calvino hanno

un rigore, una misura stilistica che fa pensare alla poesia…

2) Guardando a posteriori al suo “La poesia verso la prosa” (1994), e alle reazioni che ha

suscitato, quali pensa siano i principali problemi emersi dal dibattito che ne è seguito? Ritiene vi

siano stati fraintendimenti importanti circa le tesi che intendeva sostenere? Ci sono aspetti della

sua posizione che pensa debbano essere precisati o modificati?

Le reazioni più accese furono anche le più banali. Si possono sintetizzare in una contestazione

risentita: ―No, non è vero! la poesia non è prosa!‖. Naturalmente lo sapevo bene. La mia polemica,

il mio suggerimento aveva un bersaglio più determinato. Negavo due cose. Anzitutto che il

linguaggio poetico sia una lingua speciale, distinta dalla lingua d‘uso comunicativa, un codice

esclusivo ontologicamente distinto dalla discorsività prosastica. Poi negavo che la stessa poesia

moderna fosse così antiprosastica come era sembrata a molti teorici. È vero che Leopardi teorizza la

brevità e quindi la concentrazione lirica, ma Le ricordanze e La ginestra sono quasi dei saggi in

versi. Lo stesso succede in Baudelaire, in Eliot, in Benn. Nel Novecento ci sono stati anche poeti

molto prosastici, come Machado e Saba (che tra l‘altro hanno praticato la prosa aforistica e

sapienziale). Se si separa troppo la poesia dalla prosa si impoveriscono e si indeboliscono entrambe.

La poesia è anche una forma di pensiero. Due esempi: Hans Magnus Enzensberger e Derek

Walcott. In Italia non abbiamo avuto solo Ungaretti e Zanzotto, ma anche Gozzano e Giudici. E

tutto l‘ultimo Montale mette in versi piuttosto liberi il ritmo prosastico dei suoi pensieri.

Comunque, dopo le prime polemiche, mi sembra che molti poeti siano andati ―verso la prosa‖: si

fanno capire di più, cercano di comunicare qualcosa al lettore… Questo non sempre è un vantaggio.

Quando si scrive poesia oscura è più facile barare, imbrogliare, soprattutto quando i lettori di poesia

sono, come oggi, piuttosto distratti e poco competenti, e molto raramente sanno distinguere una

buona poesia da una pessima o inesistente… Se si va verso la prosa, allora diventa più evidente il

vuoto, la povertà intellettuale, il non sapere cosa dire.

3) Nel panorama contemporaneo, internazionale e italiano, o nella tradizione, ci sono autori (di

prosa poetica, prosimetri, poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le

interessano particolarmente?

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A chi scrive in prosa credo che faccia bene leggere e avere letto poesia (purché non si scrivano delle

melense prose poetiche). La poesia è una scuola di precisione e concentrazione sia semantica che

ritmica. Il prosatore che ha orecchio per la poesia è meno sciatto, approssimativo, ridondante. Ma la

poesia italiana degli ultimi vent‘anni ha corretto una maggiore prosaicità con un recupero intensivo

della metrica tradizionale. In questo sono stati maestri Caproni, Penna, Giudici: ragionano e

raccontano, sono epigrammatici e diaristici, ma lo fanno in versi che suonano come versi, e con

molte rime. Così la prosa inglobata nella poesia interagisce con una musicalità verbale più energica

e riconoscibile. È quella che ho definito ―postmodernità neoclassica‖. Lo si vede benissimo in molti

autori, per esempio in Bianca Tarozzi, Patrizia Cavalli, Durs Grünbein…

4) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera di critico e scrittore? Che tipo di lavoro

le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali sono le prerogative o gli strumenti

della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

All‘inizio ero attratto dall‘idea del poeta-critico: scrivevo poesie (poche e non ne ero soddisfatto) e

recensioni. Ora scrivo recensioni per necessità di lavoro, perché i giornali me le chiedono, mi

considerano un critico letterario, ma preferisco recensire saggistica e non narrativa e poesia. È da

molto ormai che mi dedico a una saggistica che spesso parte da considerazioni letterarie, ma finisce

quasi sempre in critica culturale e sociale, in discorso sulla ―vita pubblica delle idee‖. La critica

letteraria in senso stretto mi annoia un po‘. Da un lato mi sembra troppo facile, dall‘altro mi

inibisce, mi sembra di non avere aggettivi sufficienti per definire gli scrittori… Tra l‘altro trovo che

la critica sia un‘attività ―indiscreta‖: il critico si intromette con le sue interpretazioni e valutazioni

nella testa di autori e lettori, entra di prepotenza nel rapporto molto delicato e imprevedibile che chi

scrive e chi legge ha con il libro che ha scritto o ha letto. In molti casi la mia critica letteraria si è

trasformata spontaneamente in satira culturale. Ho perfino scritto saggi aforistici. Più che il verso,

mi interessa la frase…

5) Che tipo di contraccolpo ha avuto sul suo lavoro l‟esperienza di traduzione di autori di prosa

poetica, o di altri tipi di scrittura in prosa?

Ho tradotto lo Spleen de Paris di Baudelaire, ma mi sono accorto che in fondo preferivo la ―prosa‖

che c‘è nelle Fleurs du Mal. Da anni il poeta che mi attira e che leggo di più è Auden. Qualche

volta provo a tradurlo. Ma lo faccio solo per me, come esercizio e gioco. Non c‘è traduzione che mi

sia venuta bene. Anche la sua saggistica mi piace moltissimo. Come critico è sottovalutato. Gli

storici e i teorici della critica non lo citano quasi mai, ma io credo che non sia inferiore a Eliot,

anche se è stato meno influente.

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GHERARDO BORTOLOTTI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

Per quel che mi riguarda, la prosa è la forma naturale della scrittura, intendendo per ―naturale‖

quella che non ho bisogno di scegliere, quella con cui sento un‘intimità specifica e le cui regole

riesco più facilmente a riconoscere ed infrangere. Il mio lavoro con la prosa, tuttavia, non si limita

ad abitare questa intimità ma tiene conto di quella che può essere (o può essere stata) l‘idea di prosa

nel dibattito critico e nel lavoro di altri autori. In questo senso, allora, la mia proposta di prosa può

essere vista come una specie di forma generale e generica di letteratura, una sorte di materiale

letterario grezzo, al di là o al di qua delle articolazioni di genere (si potrebbe quasi dire:

merceologiche) della scrittura. Di nuovo, però, non posso non riconoscere proprio in quell‘intimità,

in quel senso di appartenenza che mi dà la prosa, la base di questo atteggiamento indifferenziato, da

differenziare, che nutro nei suoi confronti. La prosa, per me, è una specie di campo di possibilità

d‘ordine sia soggettive che oggettive e cerco di sfruttare la sua natura amorfa, il suo potenziale di accumulo proprio in vista di esperimenti sull‘ordine e sull‘accumulazione.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Rifacendomi a quello che scrivevo più sopra, non credo affatto che la prosa sia il termine di un

processo di abbassamento ma piuttosto il campo per un set di regole testuali riferibili all‘accumulo e

all‘ordine. Al di là del merito, però, vorrei sottolineare che qualunque teoria dell‘―abbassamento‖

suona piuttosto come il sintomo di una gerarchia di valori (talmente superata, per altro, da poter

apparire appunto come sintomo soltanto) che non un approccio critico utile a qualcosa. Ho anche

l‘impressione però che, impostando la questione nei meri termini di rapporto tra prosa e poesia, da

una parte questa opposizione si carichi necessariamente di giudizi di valore impropri (introducendo

concetti e metafore di arricchimento o impoverimento) e, dall‘altra parte, si perda di vista

l‘orizzonte generale in cui i testi si collocano. Per come la vedo io, si tratta di un orizzonte

soprattutto segnato dalle tecnologie della comunicazione (tecnologie che adesso hanno raggiunto un

apice ma che stanno avendo effetti da ben prima di internet), dall‘approccio al fatto linguistico che

queste implicano (un approccio basato sull‘accessibilità e sulla produzione di contenuti) e da una

rinnovata prevalenza della scrittura (a differenza della direzione verso l‘oralità che, fino a qualche

tempo fa, sembrava essere preminente) che tende a privilegiare la prosa e a diversificarne l‘utilizzo.

Quindi, ecco, se dobbiamo porci la questione della prosa nella poesia contemporanea, lo porrei nei

termini che ho detto. Termini, tuttavia, che mi portano di nuovo al punto di partenza e ad

abbandonare un‘articolazione in prosa/poesia (o addirittura in narrativa/poesia), cercando piuttosto

di stipulare una specie di ―letteratura indifferenziata‖ attraverso cui lavorare, in modo

adeguatamente critico, all‘interno dell‘orizzonte che mi sembra di vedere.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

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vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

In effetti, scrivo solamente prosa. Per lo più micro-prosa, con testi che vanno dal paragrafo alla

frase al singolo sintagma, ma sempre all‘interno di strutture più ampie che cercano di sfruttare

l‘accumulo e la lista come fonti di una specie di fascinazione originaria verso il testo scritto (non

bisogna dimenticare, infatti, che i primi esempi di scrittura sono stati enumerazioni, elenchi,

cataloghi) oltre che come modalità privilegiate di relazione con il mondo e l‘esperienza

contemporanei, basati sull‘accumulazione (dei dati, delle merci) ed i suoi ordini interrotti e

incongruenti.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Di autori ce ne sono parecchi ed elencarli in questa sede sarebbe forse eccessivo. Mi limito a dire

che le letture che mi hanno permesso di ragionare su alcuni aspetti della scrittura in prosa che mi

sembrano essenziali (tra tutti, di nuovo, l‘ordine e l‘accumulo) vanno da Sterne a Calvino, da

Balestrini a Perec, da Markson a Espitallier, da Silem Mohammad a Rosselli e via dicendo (e si noti

che non tutti sono necessariamente prosatori e che nessuno può essere classificato come tale in

modo ovvio).

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Sì e, tra l‘altro, con una certa difficoltà, data la mia scarsa conoscenza delle lingue. Tuttavia, mi

sono trovato a tradurre perché i testi stranieri che venivo scoprendo mi sembravano affrontare le

questioni su cui anche i miei testi si focalizzavano, e consideravo importante farli circolare in

italiano per aprire un eventuale dibattito sulle medesime questioni. Tra gli autori che ho citato

prima, un esempio può K. Silem Mohammad, che ho tradotto nel 2004-2005. Nel caso di

Mohammad, l‘approccio ―indifferenziato‖ che auspico è molto marcato ed è per questo che ho

cercato di farlo conoscere. Tecnicamente scrive, per lo più, quelle che immagino vadano definite

come poesie. Eppure, il fatto che il materiale testuale che organizza nei suoi testi sia ricavato dalla

rete, attraverso la tecnica del cosiddetto googlism, cioè dell‘interrogazione mirata di Google o

comunque dei motori di ricerca, mi sembra davvero emblematico di un approccio al di là o al di qua

delle articolazioni di genere e delle distinzioni tra prosa e poesia.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Considerando quanto detto più sopra, ovvero che scrivo solo in prosa, direi che uno qualunque dei

miei testi può essere esemplificativo dei punti accennati nell‘intervista.

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FRANCO BUFFONI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

Il primo racconto l‘ho scritto a otto anni. Diciamo che ci sono nato dentro. Poi il genere letterario è

cambiato. Adesso sto tornando alla narrativa dopo tre decenni dedicati alla poesia e alla saggistica,

ma si tratta di una narrativa molto particolare. Difatti a Dedalus-Pordenonelegge mi mettono in

classifica nella sezione ―Altre scritture‖. Ultimamente ho scritto due libri di questo tipo: Più luce,

padre, 2006, Sossella; Zamel, 2009, Marcos y Marcos. E un più canonico libro di racconti: Reperto

74, 2008, Zona.

Preponderanti nella mia produzione sono certamente gli otto libri di poesia: nove con ROMA

appena uscito da Guanda. È chiaro che la poesia è il genere letterario in cui mi sono maggiormente

espresso. Che cosa significa la scrittura per me? Non riesco ad immaginare la mia vita senza. Ma la

scrittura intesa come studio, intesa come conclusione di una fase di studio e di riflessione, che mi

permette di elaborare un testo secondo i canoni di un genere letterario che poi sarà la saggistica, la

poesia oppure la narrativa; oppure un testo border-line, narrativa/saggistica (come Più luce, padre e

Zamel). Quindi direi che il libro come prodotto commerciale è proprio l‘ultima cosa che ho in

mente. Io intendo continuare a studiare, a imparare. Poi quando il progetto (anceschianamente

inteso) nella mia testa comincia a prendere forma, può anche darsi che nasca un libro.

Naturalmente, con il passare del tempo, questa operazione diventa meno innocente. So già che un

certo esercizio, una certa ginnastica mentale, una certa ―ricerca‖ diventerà un libro, mentre da

giovane ero più incerto, non lo sapevo: questa forse è la differenza.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Vorrei essere molto chiaro: scrivo poesie per la stessa ragione per cui non scrivo romanzi. Non

posso scrivere romanzi perché del romanzo non sopporto quella parte centrale (corrispondente al

5O, 6O% dell'intera "narrazione") in cui percepisco che l'autore sta menando il can per l'aia. Dopo

quelle prime venti pagine pressoché perfette, e prima di quel finale deciso da lungo tempo, c'è il

limbo dell'invenzione a freddo, della falsificazione, del mestiere.

Amo scrivere poesia perché questo limbo mi viene totalmente risparmiato, perché il testo può

procedere per successive illuminazioni, per sintesi efferate, oppure può sfogarsi sul dettaglio, senza

dover dare spiegazioni. Il libro, la sezione, la plaquette vengono dopo: me li ritrovo sul tavolo come

un trenino in stazione in un'estate tranquilla sistemando i vagoncini contenenti le parole scritte per

necessità.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Tollero abbastanza bene la scrittura saggistica e/o giornalistica, come quella che sto praticando in

questo momento: queste cose non le potrei e non le vorrei dire in poesia. In poesia ("il foglietto a

portata di mano / la biro da scaricare" come ho scritto nel Profilo del Rosa) sento musica scrivendo,

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quella che Keats definisce "without tune", la musica più bella e senza melodia che mi fa mettere

tutte le parole a posto e me le fa scegliere scuotendole e porgendomele all'orecchio come

conchiglie. Certe volte questo processo è molto lento: scrivo e riscrivo, magari lasciando riposare

quel testo per stagioni intere. E in molti casi sine die. Per fortuna non sono costretto da contratti

firmati, o da anticipi ricevuti, a consegnare nulla entro prescritti termini.

Un critico e caro amico, Fabio Zinelli, recentemente ha scritto: ―Zamel è il making of di Noi e

loro, come Più luce, padre lo è di Guerra‖. In effetti, cronologicamente, l‘affermazione ci sta tutta: i

libri in prosa sono nati successivamente ai libri di poesia. Il primo capitolo di Più luce, padre non è

che la dilatazione della nota (in prosa) con cui si conclude Guerra.

Posso aggiungere che le due o tre pagine in prosa che sono solito apporre a conclusione dei miei

libri di poesia sono parte integrante del macrotesto. E che queste pagine invece di costituire un

sigillo nei confronti del libro di poesia, si pongono in modo dialettico nei confronti del lettore,

aprendo la via a futuri sviluppi (in prosa). So bene che canonicamente dovrebbe avvenire il

contrario (Leopardi docet), per questo sottolineo la mia anomalia (non è l‘unica, come ognun sa).

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Certamente, da Lichtenberg a Puskin, da Baudelaire a Ruskin. In particolare nella seconda metà del

decennio 80, in cui scrivevo i miei racconti in versi, poi in parte confluiti in Suora carmelitana e

altri racconti in versi, Guanda 1997. In seguito ho cominciato a concepire i libri di poesia anche

come lunghi racconti unitari (dal Profilo del Rosa a Theios, da Guerra a Noi e loro).

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Ho molto tradotto nella mia vita – un nuovo ―quaderno di traduzioni‖ dal titolo Una piccola

tabaccheria uscirà prossimamente da Donzelli – e sono andato sempre più convincendomi che la

vera differenza non è tra prosa e poesia, ma tra una scrittura provvista di un proprio ritmo interno e

una scrittura che non lo possiede.

Lo sosteneva già Beda il Venerabile con la chiarissima distinzione: ―Il ritmo può sussistere di per

sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una

certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali‖. Una distinzione che ritroviamo

modernamente espressa nel Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: ―Il ritmo non è formalista,

nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no,

secondo l‘umore. Il ritmo di un testo ne è l‘elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi

della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo‖. Con i poeti (ma uso il

termine in senso anceschiano, molto ampio) ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa

parola, cioè diventa linguaggio, e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione. (In

quanto il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che

sta scrivendo non sono arte).

È evidente che le difficoltà di ordine traduttologico che incontro traducendo The Four Quartets

appartengono alla stessa famiglia di difficoltà che incontro traducendo The Waves, anche se ad

occhi ingenui T.S. Eliot ha scritto in poesia e Virginia Woolf in prosa.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Un cammello un dromedario una pantera un gatto

Sulla sua schiena all‘incontrario,

La maglietta rivoltata a dimostrare

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Dalle scapole sui fianchi un cameriere

Umbro rurale

Buono a reggere alabarde al Perugino,

Nero costante popeline ordito

Più fitto della trama garantito

Fine Quattrocento.

Mentre la disadorna

Facciata tripartita

Tra i sugheri compare,

Svitata cattedrale

Accatastata a raggio

In ombra alle absidiole

- La cortina a beccatelli sorvegliante sullo sfondo -

Dal sorriso somigliante alla lunetta del portale

Il fanciullo che ritrae sguardi e mance

Si dispiega carezzando

A segnare il giorno e l‘ora

Teocrito Buceo

Savium basium

Osculum

Meum.

Questo testo appare nella prima sezione – intitolata ―Quella stellata sopra il Foro italico – di Roma.

Sbaglierò: ma la sua ―traduzione‖ in ―prosa‖ per me consiste esclusivamente in una questione di

scansioni, di punteggiatura, di lettere iniziali maiuscole. Il respiro profondo di questa scrittura non

muta. D‘altro canto vi chiedo (e mi chiedo): la Bibbia è scritta in prosa o in poesia?

Un cammello un dromedario una pantera un gatto, sulla sua schiena all‘incontrario, la maglietta rivoltata a

dimostrare dalle scapole sui fianchi un cameriere umbro rurale, buono a reggere alabarde al Perugino: nero

costante popeline ordito, più fitto della trama garantito fine Quattrocento.

Mentre la disadorna facciata tripartita tra i sugheri compare, svitata cattedrale accatastata a raggio in ombra

alle absidiole - la cortina a beccatelli sorvegliante sullo sfondo - dal sorriso somigliante alla lunetta del

portale, il fanciullo che ritrae sguardi e mance si dispiega carezzando, a segnare il giorno e l‘ora: Teocrito,

Buceo… savium, basium, osculum. Meum.

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ANNA MARIA CARPI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

Scrivere in prosa, e intendo narrativa o saggistica. è più difficile che scrivere in versi. La prosa

richiede un‘organizzazione della materia, direi in orizzontale; in poesia si spara in alto, a colpi

isolati. Detto altrimenti: in prosa si combatte in mezzo agli altri, nel senso che si deve essere

plausibili, in poesia si combatte invece da soli, perché la poesia ha qualcosa d‘arbitrario e

incontrovertibile. Di qui anche la difficoltà di giudicarla.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Il ―prosastico‖ può dare dei bellissimi effetti in poesia a patto che stia nel bel mezzo di ―alzate‖

dell‘immaginazione creando così imprevisti salti di registro. Se per es. i miei esperimenti di poesie

―biografiche‖ (come le chiamava G.Benn) rispondano a quest‘intento non so.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Se voglio riferire, diciamo da fuori, di cose viste o vissute in forma di reportage o di fiction, mi

occorre lo spazio lungo della prosa. Sono grosso modo una realista, che ha difficoltà a inventare

trame. Mi piace soprattutto elaborare climi, ambienti, atmosfere, cioè anche qui tiro dopotutto al

poetico.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

M‘interessano le prose – medaglioni di caratteri e situazioni contemporanee – di Tiziano Rossi

(Faccende laterali, 2009). I massimi esempi di poesia d‘oggi li vedo nella Szymborska, in Heiner

Mueller (più noto per il teatro), e nel poemetto Della neve (2003) di D.Gruenbein.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Di prosa ho tradotto in passato da Th.Mann e dai contemporanei P.Handke e di W.Herzog: senza

nessun contraccolpo sul mio lavoro in versi. Una decisa influenza ha invece esercitato Nietzsche

con lo Zarathustra, e più ancora, s‘intende, con la sua poesia.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

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Segnalo l‘ancora inedita ―Un romanzo‖, ―L‘ode di Shelley al vento‖da E tu fra i due chi sei

(Scheiwiller, 2007) e una piccola prosa a uso giornalistico. Lascio al scelta ai redattori.

UN ROMANZO:

chi non lo vuole scrivere?

È andare con passione nella vita

girare il mondo

tutto il mondo è storia.

Anch‘io osservo, anch‘io guardo,

anch‘io ci sono e c‘ero.

Il fatto è che del vero non m‘importa.

Allora inventa,

dice qualcuno, pensa ad una trama.

Ma perché io non posso?

Ciò che invento fa ridere.

Mie care poesie,

mie piccole arroganti,

come i gechi nella notte estiva,

le dita aperte, in agguato sui muri,

preistoria

in attesa di sbadate prede.

L‘ODE DI SHELLEY al vento. al Westwind.

La recita un inglese.

Riempie il cortile Shelley

di aliti di buffi di boati di beffe.

Le sedie ascoltano

e chi non sa l‘inglese,

i polmoni si gonfiano

senza vascelli andiamo

la notte non si vede

e nemmeno più i volti

e tutto è suono e mai uditi prima

accenti folli e guizzi

canto incostanza gioia perdizione.

Monchi, muti ascoltiamo

noi d‘oggi e piange il cuore:

poesia,

poesia oramai impossibile.

MONT NOIR ospita una dimora per scrittori. La casa natale della Yourcenar è andata distrutta nella prima

guerra, gli scrittori stanno in una sua dépendance aperta verso sud, su un immenso prato digradante fino a

una cupa barriera di grandi alberi. Tutto nuovo l‘interno del castelletto fine secolo, sia la saletta con internet

sia le nostre stanze con bagno, sia il corridoio con moquette e fotocellule e tutto dipinto di giallo; verde è

invece la saletta da pranzo al pianoterra che dà su una terrazza e sulla valle. Di giorno ognuno stava chiuso

nella propria stanza nella folle trasferta dello scrivere, la sera si scendeva a cenare assieme, serviti da

un‘eccellente cuoca – un‘eroica fata dai piedi deformati dall‘artrite. Eravamo in quattro, un inglese

ridanciano che attendeva a una biografia ed era deputato a portar su i vini dalla cantinetta, una giovane

polacca ardente di un sogno di gloria, un giovane francese malinconico che avrebbe poi pubblicato il

romanzo ―L‘enfant de la pluie‖ e io che scrivevo il mio autobiografico ―Principe scarlatto‖. Parlavamo

francese e inglese. Eravamo affiatati e felici come quattro principini ereditari.

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MAURIZIO CUCCHI

Qual è la tua idea della prosa? Come si definisce il tuo approccio alla prosa, rispetto alla

questione dei generi, e in considerazione del fatto che il tuo romanzo, Il male è nelle cose, precede

l‟esordio poetico (e quindi un discorso sulla prosa, che si interseca con la scrittura poetica, era

presente già dall‟inizio del tuo percorso)?

Per quanto mi riguarda, quando ero ragazzo non sapevo molto bene dove orientarmi. Il romanzo è

stato scritto nel 1965, quando avevo composto già delle poesie… Ma la storia personale non è

importante. Credo molto nel superamento dei generi, anche perché viviamo in un momento storico

in cui la narrativa sembra essere molto più orientata verso l‘intrattenimento e, di conseguenza, è una

proposta bassa dal punto di vista culturale. Credo invece che certi livelli alti di narrativa italiana,

come quelli offerti da Gadda e Tozzi, potrebbero essere tranquillamente ricompresi sotto una

definizione generale di ―poesia‖ in senso lato. Negli anni Sessanta in Francia su questo si teorizzava

molto, attraverso ciò che si definiva écriture, a mio avviso un tentativo molto importante, perché

cercava di superare uno dei nodi della poesia del Novecento, vale a dire la metrica. Mi sembra che

molto spesso si vada avanti con la versificazione, con l‘uso del verso, più per inerzia che per una

motivazione forte: e non è certo il recupero del verso tradizionale che può risolvere questo

problema, perché la ripresa del verso tradizionale oggi è più che altro un citazionismo che fa

diventare avanguardia ciò che una volta era tradizione depositata.

Manierismo?

Manierismo, ma senza rendersi conto che se Pascoli scriveva sonetti in metrica regolare, la

percezione che se ne aveva era della norma, mentre se oggi si scrive un sonetto, la percezione che se

ne ha è di trasgressione, o comunque di un intervento volutamente anacronistico: e quindi l‘effetto

che ne risulta è tutta un‘altra cosa.

Credo invece che dovrebbe essere praticata molto di più la prosa poetica, perché qualsiasi prosatore

non può non tener conto del ritmo, del senso della parola, e dell‘economia del linguaggio. Elementi

che sono alla base della costruzione della poesia, o di una poesia che guardi alla ricerca profonda di

una verità espressiva.

Quale è la tua idea di prosa poetica?

La mia idea di prosa poetica è qualcosa che io stesso faccio fatica a praticare. Ho visto pochissimi

esempi interessanti: Giampiero Neri, e pochi altri. Personalmente, mi è capitato di farne uso molto

raramente e con qualche difficoltà. La prima volta è stato in Glenn, che nelle intenzioni iniziali

voleva essere un vero e proprio racconto in prosa. Non riuscito però, perché ad ogni passaggio di

scrittura eliminavo via via le cose che mi sembravano espressivamente scariche. Mi spiego: la mia

era forse una forma di non piena comprensione del senso della prosa… Ad esempio, tu dici ―Entrò e

disse‖… Ma se lo fa Balzac ci sarà una ragione forte, e un tipo differente di equilibro e di rapporto con i ritmi. Lì si gioca tutto. Devi renderti conto che l‘economia che c‘è nella prosa narrativa è di un

tipo, e l‘economia che c‘è nella prosa poetica o nella versificazione è di un altro. Non è facile. I

poeti, comunque, quando hanno scritto in prosa, hanno fatto un ottimo servizio alla lingua.

Pensiamo a Penna, a Saba, a Sereni… Ma non tutti: alcuni hanno avuto difficoltà evidenti.

Quindi uno degli effetti della prosa sulla poesia è il ripensamento della struttura ritmica di

quest‟ultima?

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Leopardi diceva che il verso non è affatto essenziale alla poesia. E aveva perfettamente ragione.

D‘altra parte abbiamo esempi francesi di grandissima qualità: Ponge, Char, che è straordinario,

senza tornare all‘Ottocento… Peraltro mi sembra che lo stesso Baudelaire dicesse che in un

momento di ottimismo particolare tutti noi abbiamo pensato di scrivere un bel poemetto in prosa.

Sono convinto un po‘ astrattamente che questa sia la direzione. A un certo punto che cosa è

diventato il verso? Certo ci sono le pause. Come nel teatro: a teatro si sente l‘attore che recita senza

seguire una linea di senso logico del discorso: interrompe per mettere in evidenza delle parti e crea

delle pause…

Se dobbiamo trasgredire la norma, allora questa trionfa sempre. Ma la norma non c‘è più. C‘è un

altro modo di intendere la cosa, si devono superare certi blocchi. L‘endecasillabo non è un‘idea

platonica: Bonvesin de la Riva scriveva in alessandrini… Sono convenzioni, certo, che tutti noi

abbiamo dentro. Si legga, nella prosa, ad esempio Il sorriso dell‟ignoto marinaio di Consolo, che è

tutto scritto in endecasillabi. Consolo è uno dei nostri migliori prosatori, ma quando me ne sono

accorto ha cominciato a pesarmi. Stendhal diceva che non bisogna mettere versi nella prosa: Balzac

però, e anche Zola, ne sono pieni. Anche in D‘Arzo, per esempio: in Casa d‟altri troviamo una tale

serie di ottonari che a un certo punto, se ci cadi dentro, ti spaccano la testa.

Una questione che nel discorso critico sul rapporto tra poesia e prosa è più volte riemersa è quella

dell‟abbassamento prosastico Ŕ la poesia verso la prosa – dell‟avvicinamento della poesia alla

dimensione radente della prosa, come possibilità aperta nella poesia italiana dall‟ultimo Montale.

Anche questa è una delle modalità, anche se non la sola, con cui si configura il rapporto tra poesia

e prosa. Credi si tratti di una opzione centrale, oppure quanto dicevi poc‟anzi, come ci sembra di

cogliere, va in una direzione differente?

Tutto il Novecento ha praticato questo tipo di opzione: l‘abbassamento prosastico è la scoperta

dell‘acqua calda. Montale lo ha fatto, ma non perché avesse un progetto di quel tipo: è stato il più

grande poeta del Novecento e a un certo punto ha pensato di sfociare in una forma diaristica perché

era stanco di tenere il tono. Il progetto della poesia del Novecento è l‘inclusività: l‘assunzione di

materiali linguistici ed esperienziali che appartengano a qualsiasi forma. L‘idea di una poesia

impostata verso l‘alto è molto ingenua, anche se c‘è ancora qualcuno che crede che la poesia sia

poesia perché differente dalla prosa, poeti che impostano il tono così come un cattivo attore recita

come crede si debba recitare. Ma il grande attore non recita: Salvo Randone sembrava stesse

parlando normalmente. La grandezza dell‘attore sta proprio qui. La grandezza del poeta sta nel

rendere normale quello che invece è elevato. Quanto all‘avvicinamento alla prosa, basta leggere

Prufrock: ―Nella stanza le donne vanno e vengono./ Parlando di Michelangelo‖. Naturalmente nella

traduzione questo emerge ancora di più, perché si perdono tutti gli accorgimenti prosodici. È una

questione presente continuamente nella tradizione più alta del Novecento. Credo che il problema

della poesia non sia quello di darle un tono che la faccia sembrare poesia. Pensiamo alla tradizione

comico-realistica della poesia italiana dal Duecento in avanti. Non è la linea che ha vinto, certo – ha

vinto la linea petrarchista: Petrarca era un genio, al contrario dei suoi imitatori, un fisico atomico

che ha inventato delle modalità e una lingua che non c‘erano – tuttavia la linea comico-realistica è

stata altrettanto presente lungo i secoli, con un abbassamento e uno sporcare la pagina che, dai

toscani in poi, e non solo nei grandi dialettali come Porta e Belli, erano cosa normale… Si pensa di

venir fuori dalla retorica ottocentesca con l‘abbassamento verso la prosa. Ma non è così, tutto

questo c‘era già anche nell‘Ottocento: nel secondo Ottocento, ad esempio, se si leggono le poesie di

Remigio Zena, di Bettini, di Betteloni, si trova anche la poesia racconto che introduce a Gozzano.

Qui c‟è un altro elemento, che va distinto, vale a dire quello narrativo. Avvicinarsi alla prosa non

significa peraltro necessariamente introdurre elementi narrativi, ma anzi può significare

rimescolare i generi e uscire dalla stessa narratività.

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L‘elemento narrativo è un aspetto che è sempre stato tipico della grande poesia. A parte i poemi, la

narrazione costituisce i tre quarti della poesia di tutti i tempi, forse anche di più.

Quando utilizzi la prosa in poesia senti prevalere in te questo elemento narrativo?

No. Sento prevalere un altro ritmo, un‘altra economia della parola, un‘altra durata dei tempi, di

estensione della poesia. Non un cambio di genere, piuttosto un cambio di passo, e di registro.

Personalmente, sono stato perseguitato dall‘idea che la mia poesia sia narrativa. In realtà, ho sempre

cercato di far finta di raccontare. Anche nel Disperso: come si può definire narrativo un discorso

che svicola continuamente da un‘altra parte? Dove un personaggio diventa di continuo un altro

personaggio? Certo, non mi offendo se mi dicono che si tratta di poesia narrativa, ma non vorrei si

equivocasse sull‘idea che io voglia raccontare delle storie. Tutt‘altro: volevo raccontare delle storie

che non sono storie, che non riescono mai ad avere una consequenzialità logica.

Per tornare a Montale e all‘idea che abbia inventato l‘‖avvicinamento alla prosa‖, stiamo attenti a

non pensare che magari non sia poi il contrario. Nel clima in cui c‘era Giudici, c‘era un certo

Sereni, e c‘era il primo Raboni, anche Montale forse si è reso conto che si poteva abbassare il

registro e andare un po‘ di più verso la prosa.

Ha captato?

I grandi captano sempre. Spesso crediamo che arrivi il personaggio che inventa. Ma neanche Dante

aveva inventato. La discesa agli Inferi c‘è in Bonvesin de la Riva, in Uguccione da Lodi e in

Gerardo Patecchio. I grandi sono dei grandi veicoli. Così Montale, che pure dopo Xenia mi piace

molto meno: lì c‘è come una voluta noncuranza, una trascuratezza che non condivido per niente;

così in Transumanar e organizzar di Pasolini, che non è poesia: sono solo chiacchiere.

Passando allo specifico della tua scrittura, guardando alle singole opere e ai cambiamenti

intervenuti nelle diverse fasi del tuo percorso: che tipo di lavoro ti interessa fare nella prosa

rispetto al verso?

A me la prosa piace molto. Quasi in tutti i poeti con il passare degli anni il tentativo di usare la

prosa diventa più naturale. Ricordo che Sereni negli ultimi tempi diceva di voler fare solo prosa. Si

veda Tiziano Rossi, che è arrivato a scrivere solo in prosa. Ad un certo punto arrivare alla prosa è

una cosa fisiologica. Ci può essere un tempo in cui non ce la fai, e un tempo in cui ci riesci, o

almeno credi di riuscirci. Personalmente, credo di avere ora un rapporto con la prosa molto più

facile, e piacevole. Faccio fatica – ma questo è forse un problema che dovete risolvere voi scrittori

più giovani – a trovare il modo di scrivere dei veri componimenti poetici in prosa: sono più per una

prosa che vada verso un finto racconto, con un respiro più ampio. La fase intermedia, che potrebbe

essere la migliore, mi riesce più difficile.

Infatti dopo Glenn hai diminuito gli inserti di prosa nei lavori poetici…

Non ho mai progettato a freddo. Glenn l‘ho scritto con la convinzione di dover scrivere un racconto,

o un romanzo, e non ci sono riuscito. Poi, con Il male è nelle cose, ho ripreso il vecchio romanzo

scritto quaranta anni prima, perché mi dispiaceva lasciare incompiuta una cosa cui tenevo

moltissimo. Complessivamente l‘ho attualizzato, perché non mi ricordavo più come andava il

mondo nel Sessantacinque, e poi l‘ho tagliato e asciugato. Però la struttura, il personaggio, le

vicende, erano già quelli: e anche una certa idea della prosa, anche se più immatura, e con meno

strumenti. D‘altra parte quasi mai è successo che un ragazzo di vent‘anni abbia scritto un romanzo

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compiuto. Quasi sempre, nella prima giovinezza, si comincia con la poesia. Anche narratori molto

noti, come Bassani, hanno iniziato così.

Tornando alle tue raccolte di poesia, a parte il caso di Glenn, dove c‟è un‟intera sezione, la prima,

che costituisce un poemetto di prose brevi, ci sono anche altri modi in cui vai oltre il verso. In Per

un secondo o un secolo, con una modalità anticipata già nelle Poesie della fonte (dove compare la

prosa di Incendio) affiorano tra i versi diverse pagine in prosa. Una modalità ancora differente e

particolare si trovava poi nel Disperso, nella forma di un avvicinamento asintotico, un verso che si

allunga, si allunga, e a un certo punto diventa un inserto di prosa.

Un blocchetto.

Ci sono ad esempio degli elenchi, che hanno la forma grafica di blocchetti di prosa inseriti tra i

versi, un procedimento peculiare del Disperso, e che dopo non hai più ripreso.

Proprio così.

Guardando ora al panorama contemporaneo, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri, poemi in

prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che ti interessano particolarmente?

Alcuni nomi son già venuti fuori, come Char e Ponge, anche se dopo quest‘ultimo la poesia

francese non è più stata così interessante. Da noi, Pagliarani: La ragazza Carla è un testo strepitoso,

ad altissima definizione. E tra i più giovani, Massimo Daviddi, poi tornato al verso.

Hai mai fatto esperienza di traduzione di autori di prosa poetica? Se sì, che contraccolpo ha avuto

il lavoro di traduzione sulla tua scrittura in versi?

Ho tradotto poca poesia e molta prosa. Ma in generale le mie traduzioni non hanno avuto

contraccolpi. Se penso a Stendhal, ciò che mi ha interessato è la sua lingua fantastica, di efficacia

immediata, ottenuta con grande economia di mezzi: una prosa che per asciuttezza, rigore e sobrietà

mi sembra preferibile a quella di Balzac e Zola. È comunque molto importante che i poeti leggano

prosa. In un autore come Faulkner, ad esempio, vi è qualcosa di estremamente vicino al discorso

poetico: il suo modo di raccontare che lascia in sospeso… E quanto c‘è da apprendere da Bestie di

Tozzi! Tra i contemporanei, De Lillo: tutta la prima parte di Underworld, e poi Rumore bianco, e

quell‘idea che con l‘omicidio di Kennedy la fiction entra nella storia. La Trilogia di New York di

Paul Auster, e I miei luoghi oscuri di Ellroy, che mi ha colpito anche per motivi personali.

Ci puoi segnalare un tuo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto?

A proposito del rapporto tra scrittura poetica e lettura di prosa narrativa, voglio segnalare un testo

che compare nella prima sezione di Vite pulviscolari, che è una vera e propria versificazione di un

brano di Dickens.

Ti disturbava quel fervore chiassoso

dell‘officina, quel gran disordine

di ferro in barre, in cunei, in lamiere,

serbatoi, assi, ingranaggi, manovelle,

marmitte soprattutto, e tute di operai

giovani, sporchi di fuliggine e di gesso

e le montagne di frantumi arrugginiti.

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Avessi visto invece, come nell‘album

delle figurine, la nobiltà del ferro

giovane, abbagliante. Il ferro rosso

di fuoco o bianco incandescente, il ferro

nero freddo, e un gusto forte

di ferro, un odore aspro

di ferro…

Una operazione simile si trova anche ne La luce del distacco, dove mettevo in versi un brano di

Meister Eckhart:

Ecco, il distacco

costringe Dio ad amare me,

è molto più nobile che lo costringa

a venire a me,

che non costringermi ad andare,

io, a lui.

Già, eppure l‘angelo più alto,

l‘anima e la mosca

hanno in Dio un archetipo comune.

Dio non può creare senza di me

un solo verme…

Donna è il nome più nobile

che si può dare all‘anima.

Molto più nobile che vergine.

(Conversazione con Alessandro Broggi e Italo Testa, Milano, 10 febbraio 2010)

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UMBERTO FIORI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

Volendo ridurre tutto ai minimi termini, la prosa è l‘ambito letterario in cui – a differenza che in

poesia – la scrittura tende a presentarsi principalmente come veicolo per comunicare questo o quel

contenuto. In realtà – lo sappiamo – anche lì la forma, lo stile, il significante, hanno il loro peso;

quello che conta è che non arrivano mai (o quasi mai) a ―rubare la scena‖ alle cose da dire. La

retorica – fondamento della prosa – è un‘arte ―di servizio‖, che non ha certo la pretesa di occupare

da sola il centro dell‘opera. Nella scrittura in prosa mi piace il fatto che il ritmo, l‘articolazione del

discorso, i nessi argomentativi etc., quando sono ben controllati, fanno scorrere il testo senza farsi

troppo notare. Mi sembra – in generale – un‘arte più discreta di quella della poesia o – per essere

meno generici – di certa lirica ―verticale‖ del Novecento e oltre. Scrivere in prosa è un esercizio

fondamentale, io credo, anche per chi si dedica principalmente ai versi (Franco Fortini lo

raccomandava con insistenza): senza questa prova, questa ginnastica, la poesia rischia di perdere ogni contatto con le radici profonde della lingua, con il suo humus.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

L‘idea di ‖abbassamento prosastico‖ e quella di una fusione dei generi sono – a mio modo di vedere

– due aspetti di un approccio puramente estetico-letterario al rapporto tra poesia e prosa, approccio

che mi sembra abbia mostrato negli anni la sua sterilità. Per me non si tratta di ―abbassare‖ la lingua

della poesia o di creare per ibridazione nuovi generi: misurarmi con la prosa – e in particolare con la

prosa argomentativa, col saggio – ha significato e significa sottrarmi almeno in parte al rischio

dell‘arbitrario, del gratuito, che sempre incombe sulla lirica, per riscoprire una parola poetica

―responsabile‖, una parola capace di misurarsi anche con il senso comune e – fin dove è possibile –

di dar conto di sé al lettore.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nella mia prima plaquette, Case (1986), un‘intera sezione era in prosa. Nei primi anni ‘80 ero

molto interessato a un racconto scorciato, rarefatto, una sorta di ―narrazione senza storia‖. In

seguito, ho preferito realizzare quest‘idea in versi (una poesia di Esempi, Treno, è la rielaborazione

di una prosa, Possibili soste in colonna, che si trova in Case). Le ragioni di questa scelta –a distanza

di tanti anni – non mi sono più così chiare. Forse volevo semplicemente evitare ambiguità di genere,

forse il petit poème en prose non era poi tanto nelle mie corde. Come ho già detto, la prosa che più

mi interessa è quella di natura argomentativa. Fin dagli anni ‘70 ho avuto occasione di scrivere di

musica: alla recensione, all‘articolo, ho preferito in genere la forma del saggio. Mi piace individuare

questioni, approfondirle, formulare domande, argomentare. Più tardi ho cominciato a mettere per

iscritto anche le mie riflessioni sulla poesia, a partire da questo o da quell‘autore, da un problema

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teorico, dalla lettura di un‘opera: questa attività critica mi pareva il naturale complemento della mia

scrittura poetica. In prosa ho scritto anche un romanzo e un dialogo, ma si tratta di episodi isolati:

quello che più mi interessa e che mi sembra più legato al mio modo di intendere la poesia è la

riflessione critica, l‘interpretazione, l‘analisi testuale. È un lavoro che mi stimola, a volte, quasi più

della scrittura in versi.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

A parte il Baudelaire dello Spleen de Paris (che qui mi pare superfluo nominare), mi hanno

interessato molto fin da ragazzo Piero Jahier (di recente ho riletto il suo bellissimo Con me e con gli

alpini), Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine. Poi c‘è Sereni: in lui mi interessa l‘intreccio (e il

contrasto) tra poesia e narrazione, tra i versi del Diario d‟Algeria e certe prose de Gli immediati

dintorni (su questo ho scritto di recente). Un altro autore che trovo affascinante, e che mi sembra

aver rinnovato in Italia il genere del poema in prosa, è Giampiero Neri. Tra i narratori che più ho

frequentato citerei Gadda, ineguagliabile virtuoso di quella smisurata tastiera che è la lingua

italiana, e Kafka: quando si affronta la sua opera, la distinzione tra prosa e poesia –e l‘idea stessa di

genere letterario – davvero perde senso.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Non ho mai avuto occasione di tradurre prose poetiche. In prosa ho tradotto soprattutto saggi di

argomento musicale.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Segnalerei i due testi che nominavo prima: Possibili soste in colonna (in prosa, da Case, del 1986) e

Treno (da Esempi, 1992), che del primo è una rielaborazione in versi, con variazioni importanti.

Confrontandoli si può forse capire da dove nasca la mia decisione di accantonare la prosa poetica.

Anche qualche passo dai saggi (raccolti in La poesia è un fischio, 2007) potrebbe servire a chiarire

la mia idea di prosa, ma forse è più sensato rinviare a una lettura integrale (per chi abbia il tempo e

la voglia di farla); estrapolare questo o quel passo non è facile e potrebbe essere fuorviante: quando

scrivo un saggio non penso alla singola frase, alla singola pagina, ma all‘intero svolgimento del

ragionamento, alla sua ―trama‖.

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MARCO GIOVENALE

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

La mia idea di prosa è ovviamente anche un‘idea o massa-matassa non solo mia: è di fatto

trasmessa, sovrascritta: è una cosa e una casa anche altrui, costantemente. Precisamente per il fatto

di appartenermi, è altra, composita, giocoforza differenziale, effusa direi anzi dissipata ossia

sprecata in diffrazioni, prassi e diversioni da prassi (da quelle prediffuse, usurate). È cioè una

specie di gomma-somma non aritmetica e anzi mosaico o ventaglio di eredità, microlabirinti e

ricodifiche, giostre in buona parte e assai volentieri disallineate dall‘usuale asse e traccia playback

della prosa che si legge nei libri degli editori generalisti.

(Rispetto a questi ultimi trovo, semmai, e spesso, consonanza felice fra prosa scritta mia e flusso

parlato casuale, eavesdropping, banalità da bar, eccetera: però, anche lì, è il quid normante del

normale a indispettirmi. Il già dato, il precompreso, il predetto, quanto si sa e si vuole già letto dall‘ebetudine dello spettatore di pagina o di festa aggiornato che si fa dire da giornali e inserti

cos‘è che deve scandire, ritenere, immettere in chat).

Quanto a(l) ―me‖ in abito di lettore-lettore talvolta agìto, che cioè si sa e si vuole ingenuo, ben

volentieri spendo tempo sulle pagine di Bram Stoker. Per dire. Non avanzo però molto in qua nel

presente, se si tratta di cose così. Stili e modi così. Racconto-racconto. Certo, uno vede il

gazzettone, la tabula recensoria dei best editoriali, e si domanda: ma quale roba non è così, in

scaffale? Un esercito di marchese e contesse e raccontesse fanno le gare di puntualità. Il tè si serve

alle cinque spaccate. Chi c‘è c‘è. (Ci stanno tutti).

Al posto della ―figura dell‘editor‖, a una rimota et aliena omai intellezione bisognerebbe più tosto

un auditor. Un udente tacito. Bene, non v‘ha. (Bene non v‘ha).

E gli autori, che fanno? Gli autori, gestori gestiti, giovani holding, si fanno demoltiplicare dalle x

fisse che moltiplicano il mercato. È storia vecchia, di vecchi razzi, vecchi trucchi e gare tra mondi,

poli, blocchi. E più gli alfabetieri sono prossimi già per loro VIRTVS allo zero, più certo è che

partono avvantaggiati. Alleati naturali dell‘attrito mancante, della veloce rotazione-turnazione delle

faccette sul blogscaffale.

Insomma. Caro Broggi, che vuole che le dica? lei mi è sodale nella diffiziosa ventura di Prosa in

prosa, presso Le Lettere. Dunque ambinoi_ahinoi bene sappiamo che nulla salus si dà extra

mercato, fuori dai modi di prosa cuciti dalla confindustrietta della carta. Rade chances. Pinto che

traduce Schmidt o Zaffarano che traduce Gleize o Bortolotti che volta in italiano il Derksen, per

lunga pezza si staranno con noi nel basso dei geli.

Apro una parente. Sembra sia un particolare tipo di prosa a persuadermi: è certo anzi. E però mai,

per questo, sottrarrei ascolto (tantomeno stima) a quelle vie del narrare in senso strettissimo che

hanno tutti i pregi del depistaggio e dell‘antiromanzo, dell‘ombra e del non detto, perfino ove

classicamente offerte. (Pur esse vie non sempre vantando, forse, statura di oggetti estetici). Penso a

uno dei migliori prosatori degli ultimi decenni, quel Roberto Bolaño inaspettatamente accolto dalle

braccia del lettore medio, di recente. (Ma mi permetto di preferire il dedalo compatto e pieno di

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incertezze di Monsieur Pain, al pur geniale 2666). D‘altro canto tutte le lingue del colonialismo, se

hanno covato e trasmesso il predatore peggiore degli ultimi secoli, il romanzo, hanno anche

incubato ed espresso i migliori capovolgimenti del medesimo. Ha lo spagnuolo il Cortàzar, l‘inglese

il Beckett, Pynchon pure, il francese il Perec, il Tarkos.

(Poi penso al senso che Beckett e Bernhard hanno nel pensiero filosofico di Emilio Garroni, e sono

tentato di aprire una parente nella parente; invece mi forzo alla doppia chiusura).

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Una delle ragioni per cui la razza umana ha impiegato milioni di anni per arrancare fino al

linguaggio, è che c‘erano importanti critici letterari.

A fare ostacolo, barriera. Anche prima. Anche prima del linguaggio.

Tu disegnavi due corna sulla roccia, su una bulla, su un toblerone d‘argilla, e il critico ti suggeriva

il bisonte sotto. Corna = bisonte. In fondo non c‘è bisonte che manchi di corna, ti dicono. Dunque

con due spunzoni tracciati, l‘animalone fia sottinteso.

Vàgli tu a spiegare che quelli lì magari sono segni, che sono delle A, o una V, e che i tuoi neuroni si

stanno facendo un culo tanto per inventare l‘alfabeto. No, loro completano i (tuoi) disegni con

l‘allucinazione del loro déjà-vu. E così, dàgli, giù bisonti e bisonti per migliaia di anni.

Vedi tu se non sarà così anche con poesia e prosa. E col romanzo. Il novissimo bisonte.

Una delle bufale meno insensate dunque più ripetibili, poi, riguarda il cosiddetto abbassamento alla

prosa della (dalla?) lirica, che qualche sùpero di genio ha evidentemente posto a guardia & fons

sacra della scrittura sensata=potabile, anche da prima che si dichiarasse il verbo divino tombé giù in

mota dalla zucca highclass dei vescovi, e idem il verbo poetico conciato come Baudelaire dice, con

quella storia dell‘aureola.

Ma gli autori, nuovi, che non si pongono (più, mai) il problema della ―lirica‖, non si pongono

nemmeno quello degli ―abbassamenti‖. Scrivono e non si danno troppo pensiero dello scontornarsi

delle righe.

Codice e coscienza (dei codici), ci vogliono, sì, in chi scrive. Ma ci vuole anche, da parte del lettore,

una permeabilità al nuovo, al ricodificando, una disponibilità / disposizione ad andare verso il testo,

ad accettare come parte del gioco ermeneutico l‘accumulo di non detto, di marcatori formali non

individuati, di ombre e geometrie non note che il testo implementa. Non è facile trovare questa

disponibilità nel lettore italofono, abituato com‘è all‘aut aut prosa da una parte (che si autotraduce

issofatto nell‘imperio muggente del manzone) O poesia dall‘altra (immancabilmente lirica, sorgiva

nell‘anthropos come la dromomania nel cucciolo).

In questo comico cosmo-duopolio, è evidente che se la poesia ―s‘abbassa‖ casca a pera nel narrare

(epica? Spesso. Anche post-Novecento?! Così pare, così pera. Dolciume, retorico, catabasi

rotondosa). MENTRE se la prosa ―s‘inalza‖, e svetta, diventa sic et simpliciter prosa lirica, poème

en prose.

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Vàgli tu a indicare, ai pomìprosi rondisti, che Perec ha scritto L‟infra-ordinario qualche bel

decennio fa. Vàgli tu a mostrare le V sulla parete. Disegneranno sempre un manzo sotto, o un

tabernacolo sopra, radiante.

Proprio non ce la fanno ad andare verso l‘opera che hanno di fronte. Non sapendo andare, devono

adorare. Non leggendo, eleggono. (L‘eletto, il già dato, il sempre uguale).

E così i millenni passano, e nel loro piccolo gli anni, e nel loro nulla gli annuari.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Le mie narrazioni à la Cortazar non innamorano l‘editoria corrente. Del resto non faccio quasi mai

tentativi e proposte di narrazioni. In ogni caso, tempo addietro un amico anche redattore di rinomata

rivista mainstream (ma non chiusa chiusa a esperimenti) definì i miei testi narrativi con suoni

gutturali da fumetto, non con formole di critico. Di questo gli sono profondamente quanto

inutilmente grato. Mi convinse da allora che i lettori ideali di quel tipo di pagine sono forse proprio

lettori di fumetti, di fantascienza, di cattiva letteratura. Testi di surrealtà troppo malata, da fotografo

d‘antan che i sali d‘argento se li beve. (Va da sé che quei ―fluff zing smack crash‖ – come furo detti

– persistono inediti tutt‘ora).

Questo, per il racconto. Se raccontare si deve, quando si fa, quando si vuole. (Non è mica vietato,

basta aver dato una scorsa anche veloce a seimila anni di mucche in riga, per sapere che fare, cosa

evitare).

Detto ciò, penso a tutt‘altro, ossia (per esempio) a La casa esposta, uscito per Le Lettere nel 2007.

Lì convergono – nell‘architettura – tre elementi: una poesia vagamente assertiva, in realtà

fittamente sviata, ritorta, twisted, soprattutto sul piano sintattico; uno stack & stock di fotografie in

bianco e nero che documentano il caos di un informe enorme duro doloroso scasamento e

sradicamento interminabile; e infine una sequenza di prose presentate anche con corpo tipografico

differente/differenziante, scritte e assemblate in vari modi – ma volentieri attraverso googlism (roba

diversa dal cut-up propriamente detto).

Ebbene, il libro è in disequilibrio, il libro è un disequilibro (lasciatemi divertire). Le foto sono

inserto ‗di mezzo‘ (d‘intralcio?), ma che non compare collocato al centro-centro; semmai spostato,

mosso, sfocato di un grado verso l‘inizio del testo. Poi il libro ―finisce‖ con delle note ... ma

ricomincia subito dopo con le prose. Struttura bislacca.

In sostanza, prose e versi, blocchi e righe e immagini, non si guardano in cagnesco ma nemmeno si

spalleggiano. Anzi forse si contestano a vicenda. L‘impianto, la struttura, non è di contrafforti

simmetrici, non c‘è Rinascimento (senza che per questo si voglia cascare in barocchetto). Né le

fotografie traggono luce dai testi, che per parte loro non giocano il gioco della didascalia.

Le prose di quella sezione si intitolano Tranne un oggetto. Le ho portate con me – tradotte in

francese da Michele Zaffarano – a Lione nel 2008 per una lettura. Le medesime traduzioni sono

uscite sul numero recente (n. 6) di «Nioques».

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Ciò detto, derivo dai vari noccioli di discorso sparso per via: la prosa nel mio lavoro non ha un

ruolo marginale, di ―chiusura‖ (lampo, cerniera) nei libri, o di (absit iniuria eccetera) poème en

prose.

Anzi.

Vorrei con qualche scàndolo gittare alle maestranze delle lettere contemp. l‘indicazione che le mie

(seppure di nulla eco) prose sono totalmente disinteressate allo statuto di prosa, come allo statuto di

versi. Anche i versi hanno questo deplorevole atteggiamento, ma forse (ancor meno echeggianti)

pubblicizzano poco e male la faccenda. (Tanto che curatori e cocuratori mi invitano spesso ―a‖

reading e ―in‖ antologie con neolirici e neorealisti, ignoro perché).

Non nego che una fortissima gioia di prosa(tore), joie du proseur, mi faccia di sé repleto come la

colomba di pentecoste, con tutti i canditi e i mandorlini nella panza, quando pongo quotidiana mano

alle lussurie di http://differxit.blogspot.com, ma pur basta/basterebbe prendere atto del lavoro svolto

negli anni con altri testi, già da Curvature (La camera verde, 2002), e direi già da La Welt

addomesticata (nell‘ultimo numero di «Rendiconti», 1997), per dar contezza della sostanziale

permeabilità di struttura versale, a-capo non metrico, metri ironici, gleiziana prosa in prosa, non-

racconto, prosa franta, e altri Franti eventuali, che in capo a un decennio e qualche spicciolo ho

avuto la malaidea di diffondere in carte e bytes.

Di una delle ultime letture di Amelia Rosselli a cui ho avuto la ventura di assistere (Roma, via dei

Riari, 1993? ‘94?), ricordo: introducendo il suo Diario ottuso, spese parole molto nette e dure di

critica alla tradizione italiana del poemetto o poesia in prosa, e della prosa lirica. Parlò, anzi, di

necessità di matematica, geometria, di freddezza, di misura. Poco mancava che dicesse

precisamente prosa in prosa. (Dato assodato: non parlava di romanzi...)

Riprendendo il filo: Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso?

Mi interessa produrre oggetti estetici (quella compagine incerta di enti sdefiniti, non garantiti, che il

Novecento sembrava aver reso familiare a tutti, come ―(non)categoria senza caratteristiche‖,

produttori di senso-non-senso; se non fosse che l‘Ottocento governa e rigoverna il Paese, via video,

da troppo tempo ormai).

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Nella tradizione c‘è da sbizzarrirsi, e lo faranno un po‘ tutti rispondendo a questa inchiesta con i

nomi che sappiamo. Glisso e metto a fuoco invece, dei contemporanei italiani, Nanni Cagnone per

testi come Enter Balthazar (Edgewise, 2000), geniale, non a caso pubblicato negli USA. Autore

diversissimo è Carlo Bordini, che riesce a disintegrare o bellamente bypassare plot e regolarità

narrative a colpi di candore-ghigno anche quando si getta nel(l‘apparenza di) romanzo: di lui

bisogna soprattutto citare un libro, che sarà pure confluito in altra opera successiva, ma ha

indipendenza e potenza: Pezzi di ricambio (Empiria, 2003). Una breve ricerca in rete dimostrerà

quanto siano validi, oggi, alcuni esperimenti di autori come Roberto Cavallera (appartatissimo,

finora ―on paper‖ ha pubblicato slm, presso le edizioni Arcipelago, nella collana ChapBook di

Bortolotti e Zaffarano).

Spostando l‘osservazione solo leggerissimamente indietro nel tempo, va fissato lo sguardo su alcuni

nomi cardine. Emilio Isgrò, sicuramente, e Giancarlo Majorino. Così come mi sembra quasi

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insuperabile il Porta di Partita. E: inutile dire che le giustapposizioni del Balestrini di Tristano

(proprio nei singoli blocchi di prosa, a prescindere dal concetto complessivo di montaggio del libro

come tale, pur estremo e acuto, innovativo) sono quelle che accolgo con più favore (rispetto, per

dire, al flusso di Vogliamo tutto). (Mi spiego: le slogature e i salti logici impliciti in Tristano sono il

versante a mio parere più gustoso proficuo geniale, e attualmente ahinoi non vincente, della linea di

lavoro che dal cut-up porta al googlism; mentre la consequenzialità colloquiale, pur fluida, di

Vogliamo tutto, ha trovato decisamente più eredi, anche se si vorrebbe dire epigoni).

Inoltre mi limito a (ri)suggerire autori tradotti da Zaffarano e Bortolotti per http://gammm.org :

Jean-Marie Gleize, Éric Suchère, Éric Houser, Christophe Marchand-Kiss, Jean-Michel Espitallier,

Christophe Tarkos, Tao Lin, K.Silem Mohammad, Jeff Derksen, Lyn Hejinian. Ed è un elenco

rapido/incompleto.

Vorrei poi nominare Robert Crosson, Paul Vangelisti, Laura Moriarty, Michael Palmer, Leslie

Scalapino. Senza contare gli autori della language poetry, Charles Bernstein, Ron Silliman. Uno

degli scrittori di nuova prosa a cui è più dimostrabilmente sensato legare testi miei (almeno per una

parte del mio lavoro, dico, p.es. per Tranne un oggetto) è Rodrigo Toscano, e in particolare mi

riferisco alle sue 62 prose units written in illness, tradotte da Gherardo Bortolotti per la collana

ChapBook dell‘editore Arcipelago.

In sintesi. Non posso non pensare a quegli scrittori che, in tradizioni soprattutto non italiane, hanno

fatto della permeabilità o piena esplosione del confine tra prorsus e versus una costante che è

sintomo di due cose: 1, passaggio avvenuto del Novecento (non a caso miscompreso in questa

attuale squallitalia da tre tenori); 2, attestazione sempre più netta, pervasiva e positiva, durante e

dopo il Novecento, dell‘oggetto estetico (linguistico, visivo, verbovisivo, installativo, performativo,

concettuale, ...).

[«Estetico» è sempre da intendersi nell‘accezione trasmessa da Emilio Garroni attraverso le sue

letture kantiane]

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Ho tradotto Kathleen Fraser, e autori di diversa generazione come Jennifer Scappettone, Susana

Gardner, Drew Kunz, Linh Dinh, Nellie Haack, Eric Baus. Alcuni testi di Scappettone, con versi

molto lunghi che lavorano non immediatamente sul piano metrico ma su quello dell‘irradiazione

semantica (vocaboli e incontri di vocaboli che moltiplicano i piani di significato, senza che però mai

cedano ad alcun ―connotativo‖ tipico del ―poetico‖, ossia alla ―suggestione‖), mi hanno dato molto

da riflettere su una serie di cose che sto scrivendo dal 2001 in versi che sondano in tutti i modi

(anche grafici) la modalità del non-verso.

Ma non posso dire che tradurre abbia riorientato e sovrascritto in forma totalmente determinante

alcune mie scelte. Mentre devo e posso dire che l‟insieme dei testi letti in traduzione e in originale

(inglese e francese) mi ha confermato in molte persuasioni che avevo, in tema di scrittura di ricerca.

E ha accelerato certi processi miei, o certe radicalizzazioni. Le letture sono quelle che si trovano su

gammm, insisto.

Faccio infine una digressione non troppo estesa per toccare un tema a cui tengo:

Sono particolarmente interessato ai caratteri installativi dei testi verbali, che sarei tentato di definire

in molti casi postverbali. Macchine elencative interminabili, blocchi verticali di textus che esce

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proprio quantitativamente dal campo della tessitura, del rinvio sonoro, lineare, performabile, per

entrare semmai in quello della scultura, del volume-massa, dell‘oggettualità piena, fissa. (Words to

be looked at, recita significativamente il titolo del saggio di Liz Kotz dedicato non a caso a

«Language in 1960s Art», MIT Press, 2007).

Se penso a Il dramma della vita, di Valère Novarina (la cui conclusione esce in italiano su Nazione

indiana, tradotta da Andrea Raos), o ai monoliti che punteggiano le uscite di

http://hotelstendhal.blogsome.com, o ai flowchart ritoccati di Brunt, di Emilio Villa, o ancora alle

opere in rete di Jim Leftwich, Jukka-Pekka Kervinen, Peter Ganick, non mi torna affatto come eco

distante un‘idea di scrittura di scena che (si) fa muro: muro-scena, opera verbovisiva in sostanza.

(Che perda o meno il suo carattere alfabetico cellulare, costituitivo). È una delle vie di

comunicazione verso la visual poetry, anche.

Ma qui si entra in altro tema ancora. E siamo in chiusura di digressione e di intervista.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Mi sento di segnalare quattro testi usciti recentemente su «Ekleksographia», e tradotti in inglese da

Linh Dinh:

http://ekleksographia.ahadadabooks.com/ballardini/authors/linh_dinh.html

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ANDREA INGLESE

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

A me interessa soprattutto l‘idea che vi sia una zona dell‘invenzione situata a distanza sia della

poesia che della narrativa. Quando si parla di ―prosa‖ si evoca qualcosa di estremamente ambiguo: è

poesia divenuta prosa, poesia senza verso, oppure è saggistica, ma non accademica, capace di dare

spazio all‘io singolare piuttosto che al noi scientifico, o è semplicemente prosa narrativa, racconto

breve, romanzo sperimentale o tradizionale? Evocare quindi il termine prosa, che non è ovviamente

un‘indicazione di genere, significa assumersi in qualche modo questa ambiguità, questo possibile

gioco di malintesi. Per chi viene dalla poesia come me, ma è familiare anche con il saggio o con il

racconto, la prosa diventa quindi una zona contigua a quella della scrittura poetica, che può

permettere una sorta di estensione di campo – come accade nel Paterson di Williams –, oppure una

sorta di via di fuga, zona di transizione verso un genere altro.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Non so. Quando si parla di abbassamento prosastico, bisognerebbe dire che cosa la poesia

―incamera‖, guadagna, in termini tonali, timbrici, lessicali, ecc., attraverso questo tipo di fenomeno.

A me, nell‘abbassamento prosastico interessa un ritmo che possa ricalcare il flusso dell‘oralità –

impossibile da riprodurre nelle forme metriche, troppo cristallizzanti –, ma anche l‘apertura

all‘idiozia e al banale, sia in termini sintattici che lessicali e tematici, come avviene in certe prose di

Beckett. Vi è poi la fondamentale lezione di certi libri di Perec (Specie di spazi) e la nozione di

infraordinario. Oppure l‘assorbimento nella scrittura poetica della riflessione critica, come avviene

in certi libri di Ponge (Per un Malherbe). Insomma, ribadisco: la prosa non è un genere, ma una

zona d‘affluenza dai vari generi. Dipende da quale versante ci si posiziona, e che cosa si vuol far

affluire…

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nei miei libri di poesia (da Prove d‟inconsistenza a La distrazione) non vi è spazio per testi in

prosa, privi di verso. Anche se l‘abbassamento prosastico è presente come fenomeno. Ho poi

qualche esperienza come narratore. E forme di narrazione si ritrovano anche in certi miei interventi

di tipo saggistico o polemico. In questo momento ho aperto due cantieri, in cui la nozione di prosa

come l‘ho intesa più sopra è centrale. In uno, sto sperimentando forme di narrazione breve o

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brevissima, che partendo dal modello standard del racconto, giochino sugli stereotipi di genere – sia

guardando al romanzo sia alle narrazioni televisive o cinematografiche. Se questa è in qualche

modo la pars destruens, esiste anche una pars costruens incentrata su di un lavoro ritmico e

sintattico, che restituisca una sorta di multidimensionalità alla scrittura narrativa, in modo da

arricchire la sua natura di discorso progressivo e lineare. Credo di aver scritto con questo intento i

testi presenti nel libro collettivo Prosa in prosa e che s‘intitolano Prati e un‘altra serie, a cui sto

ancora lavorando.

L‘altro cantiere persegue un obiettivo per certi versi più ambizioso. Sto lavorando infatti da un paio

d‘anni, seppure in modo intermittente, ad un libro su Parigi come città erotica. Ora, in questo caso

ho scelto la prosa, perché è l‘unico terreno che mi garantisca una complessità che la poesia non mi

garantisce da sola. In questo testo, la componente saggistica è strettamente legata a quella narrativa,

ma anche a una dimensione lirica. Potrebbe essere un romanzo, se volessi raccontare una storia che

comincia e finisce. In realtà, mi interessano degli intervalli di storia, e dei materiali eterogenei, che

in qualche modo ho esigenza di ―poetizzare‖. Quindi la forma romanzo non mi conviene. Si tratta

insomma di un libro sperimentale, ma non nel senso che il termine ha acquisito in Italia, a causa del

suo provincialismo culturale. In Italia sperimentale significa più o meno: ―quelli che ancora

continuano a scrivere come gli autori della neovanguardia degli anni Sessanta‖. Intendo qui il

termine sperimentale, nel senso in cui un poema come quello di Majorino Viaggio nella presenza

del tempo è un‘opera sperimentale. Ma ciò vale per ogni lavoro, in cui la ricerca della forma

appropriata accompagna ed è simultanea alla raccolta di materiali da mettere in forma. Certo, una

faccenda rischiosa.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Tutto m‘interessa, se è buona letteratura. Posso citare solo alcuni autori o libri a cui sono

particolarmente affezionato: Michaux, Ponge, Maurice Roche, Perec, Tarkos, Luca (Levée d‟écrou),

Tholomé, Giraudon; Il libro dell‟inquietudine di Pessoa, Beckett (la Trilogia e i Testi per nulla),

Casi di Charms. In Italia, oltre allo straordinario Sbarbaro, in ordine sparso mi vengono in mente

opere singolari come Nostra signora dei turchi di Bene, lo strepitoso Il presepe di Manganelli, i più

recenti L‟uomo avanzato di Bàino, I Cristi polverizzati di Di Ruscio, e poi il lavoro dei compagni di

strada di GAMMM. Non è ovviamente che una lista parziale, e soprattutto ho tenuto fuori i

cosiddetti narratori puri, come Gianni Celati, il Parise dei Sillabari, i Diari di Delfini, i romanzi di

Marosia Castaldi, ecc.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Tradurre è sempre un contraccolpo. (Ho tradotto Michaux, Tarkos, delle prose di Viton, di Nathalie

Quintane, dei brani dei romanzi di Volodine, ecc.). Solo che se il colpo lo ricevi sempre, non sai

mai bene dove.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

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Un racconto dal primo cantiere:

Azione dimostrativa

Militanti alla conquista della scena. Accesi, allarmanti. Prendono tutti di sorpresa: sono vestiti benissimo. Gli

uomini della sicurezza scontano un ritardo motorio. Le signore, tacchi a spillo dorati e plastica facciale, non

scendono più la scalinata. Coccodrilli e cobra gonfiabili fluttuano a mezz'aria, la strategia dell'elio. Tutti o

quasi i nemici ora come scomparsi. Gli avversari di classe, i manutengoli del sistema, la servitù mediale. Il

presentatore ancora in piedi, ma come svenuto. Fuori dagli studi ammassano elettrodomestici nuovi di zecca,

per dare loro fuoco durante un urlo risanatore. Non tutti i propositi insurrezionali vanno a buon fine. La gente

si è tirata fuori dal letto, almeno per qualche ora. I colori acquistano intensità, si staccano a poco a poco dalle

superfici. I militanti soddisfatti, accorati, esausti. Scatenano infine una discussione sui motivi veri della

militanza. La gente li ascolta dai diffusori, versandosi bicchieri di latte. I motivi falsi e apparenti non

bastano. Bisogna tutti calarsi nel pozzo dei veri motivi. È quanto sostiene uno biondo, tenendo alte e aperte

le palme delle mani. Le forze dell'ordine sono rallentate da un sistema di sensi unici alternati. E gli uomini

della sicurezza stanno avanzando con estrema calma oltre le fantasiose barricate di animali gonfiabili.

Secondo alcuni, i militanti sono persone che fanno quello che fanno per pura disperazione numerica. Si

sentono dei numeri, ma dei numeri bassissimi, con molti zero davanti. E vogliono con azioni eclatanti

raggiungere lo splendore dei numeri interi, ma abbastanza alti, che superino almeno il cinquanta. Altri

sostengono invece, schiumando dalla bocca, che tutto è frutto d'imperizia sessuale. L'impossibilità di una

brevissima penetrazione genera energia rivoluzionaria: l'atto sessuale mancato produce un'azione di disturbo

riuscita. Il terzo gruppo, poco propenso a repliche, difende la nota tesi dell'arrivismo attraverso la miseria. Il

miserabile usa la sua verificata infelicità, la sua patente e indubitabile disperazione, come capitale per piccoli

e progressivi investimenti simbolici, che lo porteranno a divenire il primo dei cameraman o degli esperti

luce. I numerosi leader dei militanti – ogni tre militanti ne esiste uno – decidono di comune intesa di ballare

intorno al marchingegno che emette una nebbia inodore. Questo balletto nella nebbia artificiale avrà un

valore di denuncia per chi guarda da fuori. Quanto agli spettatori, la maggioranza dei quali non ha avuto il

coraggio di tornare a letto, non può vedere nulla, in quanto le trasmissioni sono state sospese. Proseguono

solamente le sigle pornografiche di sottofondo.

* * *

Un brano dal secondo cantiere (Materiali per un libro su Parigi):

tra le cose difficili l‘amore è tra le cose più difficili è tutta latenza erotica nessuno sa in questa complicazione

quale desiderio come esattamente vorrebbe siamo in superficie a galla del desiderio è una frase di psicanalisi

ci provano anche nei momenti sbagliati talmente difficile che basta poco all‘amore diciamo questo nome

come fumo negli occhi diciamo questo per placare le vite siediti ecco ristorante due cose da dirti una volta

assieme facciamo i turni piatti e lavatrice poi mi trovo nuovamente a masturbarmi in bagno e tu sei salita con

un tipo nell‘ombra non vi vedeva nessuno ancora nella latenza solo in sogno ho visto come prendere davvero

le cose prendile come vengono fammi venire come puoi dicono che Jacques che Fred che Vincent che

Delphine chi si faceva talmente male chi piangeva uno ha messo tutta le testa dentro vetri compresi rimasti

un bocca uno zampillo di sangue

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ANGELO LUMELLI

COME SALTARE SULLA SPALLIERA DELLA SEDIA(1)

L‘esempio che sto per fare mi attira al punto che lo farò, pur avendo tutte le qualità di un esempio

sconveniente.

Tanti anni fa, Giancarlo Majorino, poeta, in visita a casa mia alla Ramata, manifestò a mio padre,

contadino, una curiosa perplessità sull‘imponenza di un toro piemontese, effettivamente grave di

mole, nell‘atto di saltare sopra una femmina, tanto più gentile alla vista e minuta sulle zampe.

Mio padre rispose: si fa leggero.

Giancarlo Majorino rimase favorevolmente impressionato dalla risposta, la quale mentre risolveva

un interrogativo ne poneva ben altri.

Le mie idee sui versi potrebbero anche fermarsi qui.

Con ciò mai più vorrei attribuire al verso una oscura attinenza sessuale, quasi il verso voglia

montare la lingua, eccezionale istante dell‘alzarsi, una eccitazione primaria in virtù della quale

saltare ogni indugio e prevenire la narrazione.

Non sono nemmeno sicuro di voler dire che la lingua, esasperata dalla moltiplicazione da lei stessa

intrapresa, si ravveda immolandosi nel rito della festa, dove esistere nella sua doppiezza, tra scisma e dogma, tra il crimine della ragione e il crimine dell‘identità.

In ogni caso il verso comincia dai blocchi di partenza, segnale chiarissimo che qualcosa è a termine

e che non si tratta di una prosecuzione.

Un altro esempio evitabile mi viene dall‘incantesimo infantile del treno.

La presa di velocità del treno, nel mio ricordo di terza classe, era marcata dalla tacca dei giunti delle

rotaie, quasi una pronuncia osservante ogni passaggio inciso, la quale, dapprima lenta e sillabante,

si lanciava in un indistinto fragore di ferro fino a diventare un percorso liscio e silenzioso.

Il sopruso della velocità, che tanto mi piaceva, non riusciva mai ad abolire il pensiero di quegli

inizi, tacca dopo tacca, per cui, all‘entrata delle stazioni, finito quel precipizio del continuo, mi

sembrava venisse ripristinato il merito e perfino la giustizia del buon percepire.

Chi vuole può riflettere a lungo se l‘incisione possa essere considerata la genitrice abbandonata

della velocità o un prodotto tardivo della discriminazione.

Questi esempi, che non esito a riconoscere ambigui oltre che démodé e poco ortogonali, risultano

ancora ragionevoli a fronte di quest‘altro che riguarda la causalità e una attitudine alla preghiera.

Un gioco delle infanzie molto riservate consisteva nel fare accadere le cose attraverso l‘apparizione

di un segno con funzioni di annuncio e di indovinello.

Innanzitutto bisognava prendere una cosa in quanto segno, per esempio e per comodità una nuvola.

Se la nuvola getterà l‘ombra su quell‘albero, accadrà qualcosa.

Il vincolo tra almeno due cose, tre includendo il soggetto, costituiva una minima rete di garanzia, un

po‘ statistica, un po‘ oracolo e un po‘ retorica.

Le pretese infantili le ricordo modeste e abbastanza furbe, per esempio apparirà un uccellino, dei

quali c‘era abbondanza nei dintorni.

Penso, in realtà, che la posta in gioco fosse molto più alta, forse sacra e non pronunciabile.

Accadde invece che il gioco finì nei termini qui esposti delle corrispondenze, lasciando tuttavia una

impronta metodologica.

Il simbolo diventò un interrogativo che mai avrebbe potuto essere risolto da una apparizione.

La latenza dell‘apparizione non assolveva la nuvola dai suoi compiti verso di me e forse viceversa.

Quel simbolo non consumato mi tiene ancora oggi a guardare i più diversi fenomeni senza altra

attesa che la mia pura relazione, inerme, devota e senza ulteriori speranze.

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La speranza da qualche parte c‘era, ma non prendeva sede in me, che facilmente l‘avrei trasformata

in impazienza e disappunto, bensì, rifugiandosi dall‘altra parte, nelle cose stesse, faceva in modo

che fossero le cose a sperare in me.

Raggiunta questa parità alternata, tutto rimaneva com‘era e accadeva tutt‘altro.

Quest‘ultimo esempio sembra assai poco congruente con l‘assunto degli altri due, ma è

indispensabile, a mio avviso, per fomentare i segni senza esito, nobile esercizio dell‘annunciare,

esperienza che simula il nostro stesso essere segni, alla mercé di grammatiche che non si fanno

abbindolare o che, abbindolate, scrollano la testa e ridono ridono.

Il verso, in quanto alzarsi senza toccare la meta, fa sicuramente parte degli incantesimi per

coincidere in modo breve e tuttavia non si tratta di un suo innestarsi in coppia, bensì di un modo di

farsi espellere, a bella posta e con vanto, una rappresentazione senza finestre (Leibniz?), tanto che, a

dispetto dei sadici che vorrebbero continuare il gioco, succede che uno, alla lunga, implori il

linguaggio lineare (quello definito cattivo) e la conseguente sottomissione all‘accordo, in riga,

come sa benissimo il corpo vivente, disposto a quasi tutto.

―Le tue parole sono forse prove?‖ dice Giobbe.

Lo sono, anche se prove di tutt‘altro.

Il verso persegue un‘anomalia che lo preserva nel suo stato di scambio fittizio, senza residui e

uguale a zero non per la perfezione dei termini, quanto per il fatto che il termine è uno (il detto) e

l‘altro è il non detto, per cui non c‘è avanzo o rifiuto in questa astinenza delle parti…

Senza accumulazione non c‘è sistema e il verso, mentre realizza l‘utopia del non contraddetto, sa

che intraprende una espansione al contrario, una restrizione in realtà, fino al collasso.

La poesia vive al di sopra delle proprie possibilità?

Sarebbe più semplice dire al di sotto, ma non può permetterselo.

A lungo andare, si potrebbe dire in modo sfacciato, la poesia rischia di passare confini che sono

stati rimossi.

Come nelle comiche cerca una porta sprangata che non c‘è più.

Luciano Berio racconta un episodio al quale fu testimone, da ragazzo, nel corso di uno spettacolo di

Grock, il grande clown che aveva preso casa a Imperia, una villa uguale a lui, tanto rigorosa quanto

beffarda e fiabesca…

Alla fine dello spettacolo, ―Why? perché?‖ pronunciò rivolto al pubblico, dopo essere saltato sulla

spalliera di una sedia suonando una trombetta e disceso con un inchino.

Quel ― Why?‖ era dentro o fuori dal numero?

Se fosse stato fuori, quale aggiunta estemporanea, bisogna riconoscere che il senso maggiore dello

spettacolo veniva da fuori e all‘ultimo minuto.

In ogni caso, anche fosse stato un soprassalto di intelligenza, ironia e pietà di quella sera, ―Why?‖

rientra immediatamente nella rappresentazione.

Il senso di ―Why?‖ esige che il salto sulla spalliera della sedia sia eseguito alla perfezione.

In un veloce passaggio sugli schermi televisivi, nei primi giorni di questo gennaio 2010, con

immagini da Rosarno, luogo della prima sommossa dei neri in terra italiana, si è visto un bellissimo

volto di donna, nera, che diceva a nessuno, ―perché?‖

Era la poesia in persona.

Enunciava una conoscenza senza ulteriori soluzioni, ultima, regolati tutti i conti possibili, spinta

indietro nel suo confine estremo, non parola intermedia di un dialogo, già mangiato in quella

posizione di massimo sapere.

In questi ultimi giorni ho letto una poesia di Adriano Sofri, pubblicata su Repubblica, nobile e

conforme a ciò che la poesia può fare sotto la spinta dell‘emozione e del dovere, sul tema degli

stessi fatti di Rosarno.

Questa poesia di Sofri, onorevole, non contiene il ―Why?‖ finale che prevede il salto sulla spalliera

della sedia, né può considerarsi lo spettacolo che crolla e risorge sotto i colpi inferti dalla coscienza

dell‘istante.

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Nemmeno il ―perché?‖ della donna nera di Rosarno è una poesia, in quanto manca la controparte

della menzogna.

La controparte che istituisce la posizione di poesia, mettendola in mappa, è già alle spalle, un

termine con il quale non parlare, ma decisivo di ogni parlare futuro.

La poesia come lingua colpevole è stata graziata da sempre, ufficialmente, dalle grandi istituzioni.

La sua illegalità, (tanto che mai il verso dovrà farsi prendere sul posto), è già stata punita attraverso

il riconoscimento del suo ruolo, ivi compresa la reclusione volontaria.

L‘allarme di molti, mi sembra, è di non riuscire più a essere colpevoli, una nuova colpa sostitutiva,

ma troppo di seconda mano per dare soddisfazione.

Se penso alla mia gioventù, mi sembra di poter dire che il concetto di merce sembrava ancora

sorprendente, un po‘ menzogna e un po‘ cura, un po‘ galera e un po‘ scampo, alla fine una

sostituzione ancora imperfetta, con larghe aperture di anima, un originario eventuale, per cui

l‘emersione dal sommerso e dal tutto pieno era sorretta da un‘idea di luogo, strana patria da

rintracciare in tutti i dispersi.

Quella iniziazione barbarica sulla piazza del mercato poteva essere un dolore necessario, se non

fosse che il mercato l‘ha preso in parola. Affare fatto.

Il mercato ha fatto sapere che di poesia ne bastano un po‘ di campioni, l‘indispensabile per un

allestimento rappresentativo, un po‘ per ogni tipo, un po‘ di oracoli, un po‘ di regresso

nell‘insoluto, un po‘ di caparre sulla lingua futura.

A questo servono le antologie generaliste.

La religione, avveduta, non è mai cascata nel tranello e, difendendo la propria illegalità logica e

merceologica, se la passa niente male.

Se dico che della poesia rimane valido, anche di questi tempi, il suo compito, vorrei anch‘io pensare

in modo esteso e generoso (tornato di moda, mi sembra, più per sfinimento che per volontà),

promovendo un‘idea di mestiere che si faccia carico di registrare le tacche disgiuntive delle quali la

mente è reticolata, già superate dall‘arte della truffa o della buona salute che induce a incontri

solidi come morse.

La cura si nutre del male e difficile è dire chi guarirà.

Per quanto possa sembrare inattuale, la poesia è fatta per il lettore.

Miserabilmente impedita a parlare per convincere, alla poesia non rimane che trovare un

insediamento nella lingua e là aspettare.

Le sue triangolazioni con lingua e storia non garantiscono che sarà rintracciata e amata, ma se

comincia a sbracciarsi non c‘è più niente da fare.

Una poesia iniziata è una poesia finita, senza prolungamenti fittizi.

Infatti il lettore non è l‘interlocutore, ma il luogo.

Essere luogo significa essere intatti, tassativamente non intercambiabili, tuttavia visibili, esposti.

La poesia è cinica tutte le volte che vuole sembrare fraterna e ―mon semblable‖, nel caso ci tenga a

essere rappresentato, penso vorrebbe estirpare la poesia dal suo luogo e umiliarla insieme a sé,

grandiosa battaglia giullaresca di un linguaggio futuro.

È tuttavia nel presente che la poesia cerca rifugio, se non fosse che il suo arrivo, anticipato da

premonizioni nell‘andatura, infligge una incisione sconcertante, nella quale rimane imprigionato il

suo slancio di libertà.

Quella tacca nella rotaia aveva un senso e il verso dice e ricorda tutto ciò.

Il suo esistere, irrevocabilmente compiuto, non appartiene a una fantastica catena positiva

dell‘essere con la sua staffetta di mani esplicite o soverchianti.

Il verso si rende immune non dal ludibrio, che va messo nel conto, ma dal divieto di parlare fuori

posto, attraverso l‘anello mancante che gli prepara uno spazio discontinuo.

Il verso si alza, affermativo, affinché il taciuto possa espellere il proprio dire, il quale è esattamente

dire del taciuto, una fin troppo palese rappresentazione della morte.

Nel verso la prima cesura è all‘inizio, tra verso e non.

Quella cesura invisibile, spacciata per inizio, è il segno che siamo già alla fine.

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La poesia è passiva e tale debolezza disarmata esige un accumulo sproporzionato di forze per

mantenere la posizione.

Se la poesia intende scaricare le immani sollecitazioni statiche su fondamenta di sicurezza, quali il

discorso o immaginarie confraternite, vuole dire che ha scavalcato il confine che la assicurava nel

suo unico destino di essere corpo.

Dal punto di vista energetico, la passività della poesia è enormemente dispendiosa.

Questo sentimento della poesia sembra immobilizzare ogni positività del dire poetico a favore di

una tautologia del perduto, della quale il verso è traccia e imitazione, con ciò producendo la propria

fine con l‘aria di fare un colpo di mano.

Quando succede che il verso non sta più in piedi, per incredulità propria e smentite continue dei

parlanti, può irridere se stesso prolungando il gioco o prendere atto che è arrivato il tempo non della

fine ma di un ulteriore accanimento.

Tale accanimento può avvenire nel ripristino delle ragioni che non lo assolvono, ma lo esigono.

Il verso è stato tradito dalla letteratura che è il suo mercato, non dalle ragioni sue proprie, le quali,

comunque vada, sono sempre ragioni lampeggianti e brucianti, rimorsi più che progetti.

Si tratta sempre di regolare conti prima ancora di escogitare, per cui, c‘è da supporre, il lavoro non

manca.

La sua sacralità è nel contrastare, dal suo remoto cronicario, la salute che fa più morti della malattia.

Aleggia forse nell‘aria l‘idea che la poesia possa curarsi con la prosa?

È come dire all‘ammalato che la morte lo guarirà, come per altro è vero.

Il verso è sempre ammalato, allo stesso modo che è sempre un‘ infrazione.

Se penso a una speranza di verso, non posso sperare che abbandoni la sua posizione insostenibile.

È là che esercita la sua funzione intollerante di ogni risultato.

Questo sacrificio di rappresentare sparizioni, vincolandosi ad esse, con ciò equivalendo nel destino,

non penso appartenga soltanto alle ossessioni personali, ma a un procedere che deve essere

costantemente riportato sul posto, là dove è avvenuto il misfatto.

Non è una soluzione, è un sacrificio.

Si tratta di un arcaico scambio simbolico?

Si tratta di appartenenza a una cultura manuale e a un tempo psichico nel quale il passato non cede

che passo passo al futuro?

Siamo ancora a pronunciare i ―Nove miliardi di nomi di Dio‖ (racconto di Arthur Clarke)?

Erano secoli che i monaci tibetani eseguivano il compito, alla fine del quale sarebbe finito anche il

mondo. Stanchi del lavoro senza fine, invitarono i tecnici dell‘IBM con un potente calcolatore, il

quale si mise a decifrarli in tempo breve. I tecnici, temendo che i monaci se la prendessero a male

per la profezia fasulla, lasciarono il monastero mentre il calcolatore finiva il suo compito. Nella

discesa videro che una stella si spegneva, poi l‘altra, poi l‘altra.

Si tratta dunque di regredire?

Si tratta di stare faccia a faccia con gli inconvenienti invece che essere definiti e portati avanti dalla

meta irresistibile?

Si tratta di salvare la pelle?

Se penso a un verso che non proponga seduzioni servili, penso alla pantonalità di Schoenberg,

incluso il destino della musica seriale di non avere avuto futuro se non di vecchiaia, come ha fatto

in tempo a constatare T.W. Adorno.

Sperare nella dissonanza è come sperare nel dolore, ma si tratta di un dolore di cui il mondo

risuona, originario, nitido, senza ritorsioni.

Si incontrano, su questa strada, i concetti di verso continuo e bipolare.

Qualcosa di simbolico e qualcosa di artigianale si attiva sotto questi termini.

Il verso continuo è un verso di perdono per la cesura iniziale in virtù della quale le parole non si

donano, ma si espongono.

L‘inizio che chiamava verso di sé, per cui il verso era tutto su quel confine, viene preso alle spalle, a

partire da un punto ingenuo.

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Dentro la temporalità che ha fatto breccia, si annida il sotterfugio della vita?

Si tratta dunque di un trucco?

Viene minimizzata la natura del verso, abissale anagramma, introducendo elementi clandestini e tali

da comportare un definitivo sbilanciamento verso l‘eccentrico?

Attenti alle fughe in avanti! si diceva una volta.

Pensare che io sto dalle parti di Fausto Coppi.

La privazione su cui si staglia il verso, atto che indirizza l‘evidenza nel sempre differito, viene

dunque dispensata dalla stretta osservanza e mille mani getteranno il loro perduto come disperati

fiori e ogni temibile eccetera?

Non sarà esattamente così, in quanto la poesia mangia il proprio futuro e la sua espiazione non ha

nulla di penitenziale né promessa di ravvedimento.

Non si tratta di liberazione dell‘antecedente (presente compreso), ma di una rinuncia al suo dominio

fino al punto di mettersi nelle sue mani.

Il principio escluso, diventato beffardamente ragione, ha ciò che gli spetta: essere frutto del dopo.

Il verso che è preso in tutto ciò, sarà un verso che ama la dissonanza come affermazione senza

seguito.

L‘intimità della poesia è promossa dalla sua articolazione architettonica , ripari senza preavviso che

sono le condizioni formali dell‘accoglienza in un universo sia totalitario che indifferente.

La pluralità medesima, mito di noi stessi, come il transito delle voci, sciame che mitiga e subito

acuisce ogni destino, si comporta come i voli di storni che si dirigono, all‘unisono, verso direzioni

superidentiche, immediatamente variabili e quelle.

Così può comportarsi il verso continuo, un assoluto per mancanza di prove.

Mi è capitato di pensare in questi giorni (sarà un preavviso?) a persone amate nella mia infanzia,

uno soprattutto, che mi costruì un burattino che salta sullo spago, oggetto delizioso e difficile da

spiegare.

Di queste persone non c‘è continuità genetica (e anche se ci fosse?), né altra memoria se non la mia,

insufficiente e a termine.

Il codice che li aveva registrati (l‘uomo del burattino è stato in un campo di concentramento), è

ancora lì, ancora più perfezionato nei suoi aspetti totalitari, a dimostrare che la contabilità dello

scambio ha eliminato la grande smemoratezza su cui si fonda la memoria, il gioco cruento con la

sparizione e con il dono.

La loro perfetta mancanza di tracce è un verso che fa il suo dovere.

Animali cancellano con la coda le loro impronte. Sono poeti?

L‘imprendibile ha strane geometrie, tra le quali, tutte esatte, c‘è quella che verrà, immediata e

futura, inviolabile.

La passività del testo, manomessa da chiunque, rimane tuttavia inviolata.

Contrariamente a ogni discorso volitivo, la poesia continuerà a esporre la sua salda dicitura dove

abita l‘ingenuità.

Non si può dire con maggiore chiarezza di Hölderlin il dovere di difesa dell‘ingenuo come dimora

iniziale e finale della verità:

―Trascrivila tre volte,

ma bisogna che resti, come è ora

inespressa…‖ (Germanien – trad. Enzo Mandruzzato)

Ancora una volta l‘inespresso, meravigliosamente attribuito alla poesia, non chiama la melodia ma

la dissonanza.

Non mi riferisco all‘Hölderlin di allora, ma a ciò che di lui ci ha raggiunto, adesso.

La filologia (e la traduzione) hanno il loro da fare per stare alla lettera (o altrimenti dove?).

Il difetto di compiuto nel massimo di compiutezza e irreversibilità è un ulteriore indizio che il verso

sente da lontano e del quale deve tenere conto, tra molte colpe, affanni e infamie della mente.

Da queste parole si immagina ben poco di ciò che sogno per i versi futuri.

Se sarò sognato e là mi troverò, è un'altra questione ancora.

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Almeno è chiaro che non parlo di un programma, ma di una immaginazione.

Non si fanno programmi per l‘improvviso.

Ritengo non abbia senso pensare alla prosa come evoluzione della poesia, né facendo valere le

dominanti poetiche (intendo ritmiche e anagrammatiche, più conniventi con se stesse che con il

lettore dei fatti), né facendo valere uscite di disimpegno che, tuttavia, tempi e mercato inducono a

considerare come principio di realtà.

Può la poesia volere la propria catastrofe?

Non mi riferisco alla catastrofe primaria, quella connessa alla propria illegalità, ma alla catastrofe

successiva, determinata dal riconoscimento di una funzione, alla quale funzione viene chiesto

seguito.

C‘è da immaginare e sperare che tutto avverrà altrove, non per via diretta e rovesciata, la poesia

contro qualcosa.

Non si potrà nemmeno dire, tuttavia, la poesia al posto di qualcosa.

Rovesciare il rovesciato non è detto che metta le cose dritte e c‘è il sospetto che, nel gran finale, il

corpo, là dove si trova, sia ancora il testimone non tanto in grado di discutere con il codice, ma di

fondare la propria assenza.

Quel ―perché?‖ della donna nera di Rosarno e il ―why?‖ di Grock non danno pace né possono

essere sciolti rispondendo.

Sembra non venga da Karl Marx, ma si trova nei Grundrisse (I,291): ―Il lavoro è produttivo solo in

quanto produce il suo contrario‖, intendendo per ―contrario‖ il capitale.

Difficile cavarsela.

A questo punto viene in soccorso il coltello di Chuang-tzu (cito da Baudrillard), che non taglia il

pieno ma attraversa i vuoti, esso medesimo senza spessore.

È un cuoco che parla e descrive la propria arte nel tagliare la carne : ―Quando iniziai…vedevo

soltanto il bue. Ora mi affido allo spirito… nelle giunture vi sono dei vuoti…nei vuoti c‘è spazio

più che sufficiente per il coltello.‖

In questo modo Chuang-tzu non deve cambiare coltello ogni mese, come fa il cuoco mediocre, in

quanto il suo coltello non tocca ostacoli, né li distrugge, distruggendo la forma stessa delle cose.

A continuare il paragone non saprei se la lingua è il coltello perché non so cosa rappresenti il bue,

se il mondo o la lingua stessa.

Di sicuro rimane questa miracolosa inviolabilità di ogni cosa.

È lo stesso che dire ingenuità o lo stesso che dire smemoratezza in difesa della memoria, invece che

repertorio e catalogo.

Di fatto il catalogo bussa a ogni porta, non per visita d‘amore ma per compilare il suo foglio di

magazzino.

Il tutto pieno che è riuscito a produrre è lo stesso che il tutto vuoto.

In questa completa reversibilità, la quale non toglie in alcun caso le posizioni assegnate, veramente

si sente il gemito dei sottostanti, qualcosa che non avrà più bisogno di essere parte, in quanto ha già

deciso per un altro luogo.

Non mi rimane che il mio agire dissonante.

La musica era stanca dei suoi tromboni che scuotono il cuore e ingannano il tempo?

T.W. Adorno dice che la disperazione esigeva non di essere detta ma di dire attraverso il proprio

suono.

Si usava, tra galantuomini, essere uomini di parola.

È questo che le parole hanno reso così difficile.

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OH VOI DORMIENTI ANGELI

1.

nel tratto che intercorre non è il fine che fa ordine né vegliare né dormire è possibile o muoversi fatato in

essere o piegato in due è un interno inutile è quello sciame di suono e polveri manca una parete in quella casa

sul pavimento c‘è una scarpetta rovesciata né uno né tanto solo e complesso è il vento tra conifere ma bello

di nuovo è il fuori di ogni cosa oh generalmente oh subito io o unito o lontano come è lontana la luna e

l‘argento così fossi punito necessario è oscurare da vicino singolo è il tempo del particolare una morbida

belva l‘accaduto o quelle flottiglie di pesci che ti toccano il fard dei tuoi occhi tra corni di luna eu quereria o

la corona dei fatti o quella buca diamantata para ser o para recusar nel denso chiamare me veridico se rendi

vera la domanda ma testa dell‘angelo dormiente in quel limbo così che messi fuori o come scapoli o nel

neutro accadere un‘altra cosa è la pace sociale o l‘essere per cui fu tolto quell‘ingombro di occupanti i poveri

fanno le pulizie di pasqua teneri discorsi come punte di dita oh lacerata retina come lacerarsi è guardare io ti

chiamo ma dappertutto è chiamare o chi tornò dalle madri non sue le uniche possibili perdonate voi

arcobaleni alte palme nella luce incrollabile nel ricovero dell‘intimo piccole ciotole e preghiere.

2.

né chiede seguito né l‘appoggio dei poveri né più crudele è il deperire mirabile che collega il paesaggio

nell‘imbrunire si spegne tutto il singolo in quella massa anche i cereali che splendono sensibili al riverbero

sto sulla soglia e il chi va là se l‘essere trama ancora meglio dove lancia un fischio il distinto è fuori mente o

introdotto in fatti solidali o in coppia o diversa è l‘accensione del folle topazio un posto vuoto è il raggiunto

ma mandami piacere in punta di dita iris è il fiore più profondo colpevole è la sosta di domanda o il viola e

quella tenebra che luccica o le madri di allora c‘è buio nella borsa della spesa la parziale oscurità dei sedani i

mucchietti di seta e foulards en aceite de olivas sardine portoghesi o me mucho o se fuere l‘eterno anche

discusso a ritroso meu amigo de alma.

3.

l‘aperto così come discusso che se va bene rimanda periodico in notte o le scure violette che allevò io non è

chiaro nel passaggio né il chiarore che introdusse la pioggia e quelle gocce del simile né il chiamare rende

fermi al contrario consola il prelievo di me che tu fai cosa o luna che ti devolvo tra sì e no quelle girandole

mangiatrici l‘io centrale che cedo in riscontro che come appare sono anch‘io appena per non essere o diventa

solido il simile un‘ombra armata o fare bau orco necessario che ci sei che ti invito con la testa che venne

dalla notte degli ulivi o dall‘uno o controparte che si aprì la scura nuvola anche le guance ne risentono con

veloci lustrini.

4.

nei reparti silenziosi dell‘essere in quiete e in vasetti come in vasetti è il sole sotto vetro cade il tempo in

pulviscolo al di qua delle tendine io dico di questi chicchi in fila uno è il semprevivo dei tetti l‘altro è il

giorno che disse questo giorno che fu finché cade all‘interno è incremento di te che sbucci come fave o

piselli il contenuto di interni come il rosso di sera in occidente e il suo lampo sul vetro ben lontano è il polo il

bipolare di base oh ciò che tiene distanti i soggetti chi bussa è l‘inizio o la fine diversamente complesso è il

mare quei navigli di vele non frutto di sguardo è il diviso cade da una parte l‘anima viola imprendibile ombra

ai tuoi piccoli piedi per questo la pupilla si sbianca vecchie maestre pregano i caduti.

(da ―Bambina teoria‖, Corpo 10, 1990)

Nota.

(1) (N.d.R.) Angelo Lumelli ha preferito, in risposta al questionario da noi inoltrato, rispondere con questo

testo saggistico, fatto seguire da un proprio lavoro in prosa.

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GUIDO MAZZONI

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

Comincerei ricordando una cosa ovvia che però, come succede spesso alle cose ovvie, rischia di

sfuggire alla riflessione. Per le abitudini della nostra cultura, la prosa costituisce il medium ordinario

del discorso, mentre la poesia è uno scarto rispetto alla norma. La prima è oratio prosa, «discorso

che procede in linea retta», la seconda è legata al rituale del versus – «linea», «riga», ma anche «ciò

che è girato indietro». La prosa è percepita come un discorso di grado zero, la poesia come un

discorso coperto da un ornamento. Quest‘ultima si trova dalla parte dell‘artificio da oltre due

millenni, cioè da quando la cultura greca antica, seguendo l‘esempio di Anassimandro, comincia ad

affidare i propri discorsi veridici a frasi che non vanno a capo seguendo un rituale. Da quel

momento, la versificazione diventa un tropo, cioè una svolta rispetto al corso ordinario del

linguaggio. La storia della poesia è anche la storia dei tentativi di legittimare il verso, cercando di

mostrare come questo rito permetta di accedere a una dimensione originaria del linguaggio, a uno strato di senso che sfugge al discorso piano.

A partire dalla seconda metà del Settecento, la scrittura in versi subisce l‘egemonia del genere che

oggi chiamiamo lirica, la forma di poesia nella quale una prima persona espone contenuti personali

in uno stile che vuole essere personale. A ben vedere, l‘idea che si possa fare della poesia usando la

prosa nasce dalla stessa svolta da cui ha origine la poesia moderna. Da quando lo spazio letterario

della poesia cominciò a identificarsi con la sfera della soggettività, il tratto distintivo del genere non

fu più la scansione metrica, come era accaduto per millenni, ma l‘espressione autentica di sé, il

pathos lirico in quanto forma dell‘individualità. Nella logica di questa metamorfosi è implicita

l‘idea che nulla obblighi la soggettività libera ad andare a capo. Si può dunque scrivere, senza

rispettare il rituale del verso, un testo che appartiene, per slancio lirico, al territorio della poesia.

La riflessione sulle origini serve a creare una morfologia elementare della poesia in prosa.

Distinguerei due grandi famiglie: quella che, per compensare la perdita di marche letterarie legata

alla perdita del verso, rafforza i tratti stilistici della lirica moderna (il patetismo sentimentale,

l‘oscurità, il metaforismo, i giochi col linguaggio); e quella che usa la prosa per recuperare temi e

forme esclusi dal territorio della lirica. La più diffusa è la prima. Appartengono a questa tendenza i

testi che cercano di rendersi interessanti attraverso uno straniamento linguistico e metaforico, come

accade nel poème en prose di origine simbolista o surrealista, o in molti degli esperimenti usciti

dalla seconda stagione delle avanguardie novecentesche. L‘altra famiglia ha una tradizione mossa e

una genealogia più sfrangiata. Personalmente non ho mai avuto interesse per la poesia in prosa del

primo tipo, che ai miei occhi replica, in minore, i rischi di chiusura gergale caratteristici della poesia

moderna. La seconda invece mi attrae molto, perché rompe il rituale artificioso del verso, perché

allarga il territorio del dicibile e perché consente di narrare e di riflettere, cioè di recuperare due

giochi linguistici che la lirica moderna espelle o emargina dal proprio territorio.

Nel corso del XX secolo, la poesia moderna ha cercato di praticare la narrazione e la riflessione per

lo più attraverso la forma-poemetto. In Italia, il poemetto conosce la sua età di maggior fulgore fra

gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, un‘epoca nella quale il rapporto degli

scrittori con la politica è intenso, la cultura italiana scopre le scienze umane e la letteratura italiana

scopre le grandi costruzioni antiliriche della poesia modernista in lingua inglese. Molti scrittori

sentono il bisogno di oltrepassare il territorio egocentrico della poesia soggettiva e di mostrare le

circostanze politiche, sociali, antropologiche che si nascondono nell‘apparente immediatezza delle

esperienze personali. I poeti di «Officina» e i poeti della neoavanguardia trasformano il poemetto in

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una scelta apertamente antilirica, almeno nelle intenzioni; altri lo usano in modo riformistico, per

allargare lo spazio della prima persona e includervi nuove dimensioni narrative, saggistiche o

teatrali. È così che agiscono Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, Fortini – ma anche Zanzotto, almeno

nella fase delle Ecloghe.

Io credo che si possa leggere la poesia in prosa degli anni Zero come il corrispettivo di ciò che,

negli Cinquanta, Sessanta e Settanta del XX secolo, veniva espresso nella forma del poemetto.

Perché oggi si ricorre alla prosa? Secondo me, ciò accade perché sta diventando sempre più difficile

giustificare la scrittura in versi. Quanto più la poesia diventa un genere marginale e privo di

mandato, quanto più la versificazione appare un rito lontano e libresco, tanto più diventa complicato

legittimare il gesto di andare a capo prima della fine tipografica del rigo. Oltre che ad allargare il

campo, la prosa serve anche a uscire dall‘artificio. In questo senso, esiste forse un legame fra il

recupero della prosa e quella tendenza a versificare come se la metrica tradizionale non fosse mai

esistita, una tendenza che attraversa in modo sotterraneo la poesia italiana degli ultimi anni. La

ritrovo in libri come Ritorno a Planaval (2001) di Stefano Dal Bianco, Il catalogo della gioia

(2003) e Dal balcone del corpo (2007) di Antonella Anedda, Umana gloria (2004) e Pitture nere su

carta (2008) di Mario Benedetti. In modi diversi fra loro, questi autori ricercano una scrittura

ultralirica e postletteraria, fondata su un‘esigenza di autenticità che sta prima (o dopo) la

mediazione della forma – come già accadeva e come continua ad accadere, peraltro, nella poesia di

Viviani o di Fiori e, prima ancora, nella poesia di Milo De Angelis. Uno dei luoghi in cui questo

atteggiamento si rende visibile è la forma interna dei versi, che sembrano ignorare la tradizione

metrica italiana, o per sprezzatura (come nel caso di Dal Bianco, studioso di metrica), o per

estraneità (come nel caso di Benedetti). Si tratta di un movimento uguale e contrario a quello che ha

portato, fra la fine egli anni Settanta e gli anni Ottanta, al recupero manieristico dei metri

tradizionali. Il significato culturale mi pare lo stesso. Sono due modi di reagire a un anacronismo

oggettivo.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Qualche poeta continua a servirsi della prosa per creare un abbassamento prosastico; ma forse la

categoria dell‘abbassamento non aiuta più a capire il rapporto che intercorre fra poesia e prosa nella

letteratura contemporanea. E forse neppure la metafora hegeliana della prosa del mondo. Mi sembra

che oggi il rapporto fra poesia e prosa segua l‘antitesi fra artificiale e naturale, fra compresso e

disteso, fra centripeto e centrifugo. L‘antitesi fra alto e basso è tutto sommato secondaria.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Uso la prosa per aprire uno spazio riflessivo, saggistico. Non c‘è una vera rottura tonale con le

poesie, perché forme di riflessione sono presenti anche nei testi in versi; e tuttavia la prosa

introduce un cambio di passo, un moto centrifugo, un allargamento.

Questa variazione è stata decisiva per l‘architettura dei Mondi. Risponde innanzitutto a un bisogno

ideologico. La forma di vita contemporanea riconosce, come unica zona di sacralità, la mera

esistenza privata. Si vive per se stessi, o per gli esseri che formano la cerchia prossima degli altri

significativi. La cultura cui apparteniamo ha imparato a fare a meno delle trascendenze; i nomi

stessi delle trascendenze passate (Dio, il Dovere, la Politica, la Rivoluzione) sono diventati

impronunciabili, vagamente o apertamente ridicoli. Questo movimento è inscritto nella logica della

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vita borghese moderna, ma la stagione che si aperta negli anni Ottanta del XX secolo lo ha

accentuato, mostrando, con chiarezza brutale, la dialettica di una società fondata sull‘economia di

mercato, sull‘ethos dell‘individualismo, sulla presunta impersonalità delle grandi decisioni

collettive. L‘umanità occidentale vive in piccole sfere private e (per ora) abbastanza protette;

all‘interno di questi territori ognuno ricerca una felicità privata o, più modestamente, un equilibrio

fra desideri e realtà. Alla relativa sicurezza e alla relativa autonomia di cui gli individui godono in

questa sfera corrisponde la rinuncia a qualsiasi potere sulle scelte di fondo che determinano

l‘orografia generale dei nostri territori esistenziali, e dunque i nostri destini. Incontriamo

quest‘esperienza di spossessamento ogni giorno: per esempio quando constatiamo la crisi di ogni

agire politico degno di questo nome, o l‘immutabilità delle grandi scelte economiche e sociali della

nazione cui apparteniamo, qualunque sia il governo in carica; quando pensiamo ai rapporti di classe

che assegnano a ciascuno un certo posto nel mondo, allo Zeitgeist che ci fa pensare e parlare in un

certo modo, alla nostra impotenza di fronte a tutto questo. E prima ancora, su un piano ulteriore,

quando i presupposti ontologici della nostra esistenza, che normalmente non percepiamo se non

astrattamente, si rivelano in un piccolo evento quotidiano, in un‘epifania casuale.

Le scritture autobiografiche – dalla poesia lirica al narcisismo di massa dei social network –

intercettano uno strato profondo del presente. Esprimono infatti la chiusura monadica e

microcomunitaria delle vite contemporanee, l‘ultraindividualismo della nostra epoca. La società

dello spettacolo si incarica ogni giorno di mostrare, nello stesso momento, la crisi della poesia lirica

tradizionale e la vitalità della lirica come forma. È quello che accade con la fortuna planetaria delle

canzoni pop: una prima persona racconta le proprie esperienze personali davanti a milioni di altri

esseri isolati che attribuiscono un‘importanza assoluta a storie puramente soggettive. Ma se i destini

privati sono, per noi, l‘orizzonte che non possiamo oltrepassare, ogni traiettoria individuale è in sé

del tutto condizionata e sostituibile. Basta allontanarsi per un attimo dal cerchio della propria vita

per capire che siamo come tutti gli altri, che siamo parlati da potenze sovrapersonali, che la nostra

differenza soggettiva è un fenomeno, una facciata. Non possiamo non dire io; e al tempo stesso l'io

è, alla lettera, una singolarità qualunque, un personaggio-che-dice-io. Volevo provare a tenere

insieme questa dialettica senza uscita: ammettere che, in ultima analisi, siamo solo delle monadi, e

al tempo stesso cercare di trascendere la miopia della prima persona attraverso la riflessione, per

recuperare ciò che normalmente non vediamo. A volte, il fascino della poesia moderna nasce da

un‘eclissi momentanea della coscienza desta, da una regressione. A costo di fallire come opera

d‘arte, I mondi cercano di trattare il lettore come qualcuno che non rinuncia a pensare. Una parte

decisiva di questo esperimento passa per la prosa.

4) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

I modelli cui guardo non sono italiani e non rientrano nella genealogia canonica del poème en

prose. In particolare, mi sento del tutto estraneo alla tradizione che più ha lavorato sulla poesia in

prosa, quella francese.

La famiglia letteraria che ho in mente non forma un genere riconosciuto. Potremmo dire che si tratta

di una famiglia di fatto. Vi includerei certe pagine dei Diari di Constant, alcuni aforismi di

Nietzsche, certe pagine di Kafka (da Betrachtung, dai Diari e dai Quaderni in ottavo), le parti

riflessive della Recherche, certe pagine della Nausea di Sartre, certe prose di Benjamin e di Bloch,

di Adorno. Ciò che accomuna queste scritture è il fatto di calare un processo di pensiero nelle

circostanze biografiche dalle quali il pensiero nasce, e alle quali ritorna. Sono opere che intrecciano

Erlebnis e riflessione; trasmettono un‘esperienza intellettuale, e non un semplice contenuto

filosofico. Nella costruzione della nostra identità, le esperienze intellettuali contano quanto le

esperienze che chiamiamo vissute: il processo che ci porta a capire qualcosa di importante su di noi,

sugli altri, sul mondo non è meno importante dell‘attimo nel quale il nostro destino subisce una

svolta, o del processo attraverso il quale si capisce di amare o di odiare una persona. Ma mentre la

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mimesi delle passioni e il racconto dei fatti appartengono a generi precisi, le esperienze intellettuali

non hanno una patria letteraria definita. O meglio: la loro patria è la famiglia di fatto di cui

parlavamo prima. Nella mia percezione, che è parziale e limitata, si tratta di una famiglia soprattutto

straniera. Gli unici esempi italiani che conosco appartengono a Calvino (certe pagine della Giornata

di uno scrutatore, per esempio), ma soprattutto a Fortini.

Fra la fine del XX e i primi anni del XXI secolo, la poesia in prosa è diventata una tendenza diffusa

nella letteratura italiana contemporanea, grazie soprattutto ai prosimetri di Anedda, Magrelli e Dal

Bianco (Residenze invernali, Esercizi di tiptologia, Ritorno a Planaval, Il catalogo della gioia). Ho

letto da poco Prosa in prosa e trovo delle somiglianze fra alcuni dei testi raccolti in quest‘opera e le

prose dei Mondi. Mi sembra che la poesia in prosa sia ormai un fenomeno significativo della

letteratura contemporanea. Per certi aspetti, questo rimescolamento dei generi codificati ricorda

quanto è accaduto quasi un secolo fa, negli anni Dieci del Novecento.

5) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Ne propongo due, di lunghezze diverse:

SUPERFICIE

Ora che la conversazione ti lascia da parte in una specie di cono e le cose che pochi minuti fa provocavano

un‘increspatura nei rapporti fra te e le persone sedute al tuo tavolo sembrano prive di peso, percepisci ancora

il campo di tensioni che un discorso sulle automobili, sulle forme di un vestito, su un modo di vivere, su una

notizia che fra dieci giorni dimenticherai può aprire all‘improvviso, ma fatichi a recuperare il valore di ciò

che per un attimo è stato così importante da rappresentare la tua identità e da meritare una difesa. La risacca

che ti trascina via lacera la patina delle tue azioni e ti fa capire quanto sia piccola la distanza che ti separa

dagli altri, quanto siano fragili i contenuti con cui riempiamo il gioco di equilibri e di squilibri che lega

insieme le persone, generando la superficie dove ci muoviamo. Tu però vivi sulla superficie, tu sei la

superficie che ti ha fatto parlare con una foga assurda di un‘elezione amministrativa o di un individuo che

non conosci; ed è per questo che, quando uscirai poco prima dell‘alba e la rete dei fanali, gli alberi allineati

fra le case del sobborgo, le sagome dei pendolari che vanno a lavorare ti sorprenderanno, verrai colto da una

forma di vergogna che supererai facilmente, perché questa è ormai la tua vita, l‘unica cosa che conta per te,

l‘orizzonte che non puoi oltrepassare.

PARCHEGGIO

Benché la vita di queste persone che escono dalle auto parcheggiate fra le strisce degli spazi condominiali gli

sembri incomprensibile ora che sta uscendo dall‘infanzia, sa bene che il luogo e il tempo in cui è nato lo

destinano a diventare come loro, una versione migliorata di loro. Per non posteggiare la propria auto davanti

a un palazzo come questo, per non perseguire avanzamenti di carriera fra i quadri intermedi di una gerarchia

aziendale, dovrà attraversare dei conflitti invisibili e feroci con gli esseri che oggi formano il suo mondo, con

le persone che ama. Appoggiando la fronte al legno degli infissi, studiando la cura insensata con cui i vicini

incerano le macchine prima di coprirle con i teli, crede di sentire il peso di quello che sta per accadere. Ha

tredici anni; sa che la vita è solo sua; vede solo se stesso.

Non vede invece che è stato il lavoro di queste persone, la fatica che hanno fatto per uscire dai poderi

mezzadrili e raggiungere una periferia residenziale, a consegnargli il potere di essere diverso, di coltivare

altre mete e altre paure. Nella crudeltà della prima adolescenza può capire solo poche cose degli individui

dispersi lungo il piazzale. Vivono per sé; accettano la sfera di relativa sicurezza che questa periferia sembra

custodire; non credono in nulla che oltrepassi i destini familiari. Fra pochi mesi forze ignobili gli faranno

desiderare di trascendere ciò che vede, di vivere vite più prestigiose o più morali. Cercherà di procurarsi

un‘altra biografia, proverà passioni per conflitti lontani, soffrirà per ingiustizie che non gli appartengono,

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finché un giorno, con vergogna e ostinazione, darà a questo desiderio la forma più banale, mettendo su carta

il proprio io ingigantito per sperare di sopravvivere più a lungo.

Vent‘anni dopo, mentre le stesse strisce ridisegnate brillano sotto gli alberi di Natale e i suoi coetanei

ritornano nelle case dove sono cresciuti portando passeggini, crede di capire meglio. Oggi pensa che nulla

possa trascendere la nostra sorte singolare, la vita infissa nei lineamenti che la luce bianca sembra cancellare

quando tocchiamo i pupazzi appesi sopra i cruscotti o attraversiamo l‘aria fra le macchine vuote, seguendo la

traiettoria che forze invisibili hanno preparato per noi, l‘ellittica di una deriva personale. Oggi crede che non

esistano valori ma solo vite, modi di interpretare un destino che rimane solo privato, per tutti. Loro lo sanno

da tempo: tutta la loro identità è modellata su questa certezza. Sanno che quanto accade in questo recinto è

tutto quello che realisticamente esiste qui e ora, ai margini di una città europea di medie dimensioni; e dentro

questo spazio ricavano le loro minime sacche di valore, rimuovendo ciò che li trascende e che un giorno si

mostrerà all‘improvviso in un prepensionamento, in un divorzio, in un‘analisi medica, in un incidente

stradale.

Miliardi di uomini che hanno vissuto o vivono in altri tempi o in altri luoghi hanno desiderato e desiderano la

vita che la classe media occidentale ha conosciuto nella seconda metà del ventesimo secolo, dopo millenni di

violenza e povertà. E se è vero che la sicurezza di queste case nasce sul risvolto di rapporti di forza che

infliggono violenza e povertà a miliardi di esseri lontani per i quali sarebbe difficile, sarebbe irrealistico

provare qualcosa, è altrettanto vero che pochissimi degli individui che occupano questo luogo e questa epoca

ne sono consapevoli o hanno colpe. Oggi capisce la dignità, la complessità delle persone che esistono per sé,

senza bisogno di trascendenze, risarcimenti, giustificazioni. Il parcheggio si è coperto di automobili; nelle

borse giacciono i regali di Natale. È come loro, e non ha nulla da opporre se non il proprio sguardo, la rabbia

senza oggetto con cui osserva i volti dei nuovi individui, le sagome delle nuove costruzioni sotto il solito

cielo.

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LAURA PUGNO

1) Qual è la sua idea di prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto alla

questione dei generi)?

La mia idea di prosa è quanto più lontana dal poema in prosa possa esservi, è prosa-prosa e in

qualche modo si definisce a contrario: la prosa serve a fare tutto, tranne quello che si può fare in

poesia, vale a dire, parlare di ciò per cui non abbiamo, o non abbiamo ancora, una lingua. Se questa

lingua esiste, è già il regno della prosa.

In merito alla questione dei generi, credo che l‘essenziale sia fare una distinzione, capire se

parliamo del genere come strumento descrittivo, di cui non si può fare a meno, o come formula

commerciale, diciamo così, ―normativa‖: il problema di molta discussione critica sul tema è che non

si fa chiarezza linguistica e si confondono i due piani.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

In questo momento, in realtà, poesia e prosa in Italia mi sembrano estremamente distanti, non tanto

nel senso di possibili avvicinamenti stilistici, ma di non frequentazione tra i due mondi. Chi scrive

poesia e chi scrive prosa in Italia sembra abitare due piani della realtà diversi: in uno esiste il

mercato e nell‘altro no.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nella mia storia di scrittura, la prosa arriva tardi, poco prima dei trent‘anni, e in modo imprevisto,

passando attraverso l‘interesse per la scrittura per il cinema. Col tempo ho imparato ad apprezzarne

l‘infinita libertà. Esiste in me una sorta di osmosi interna per cui immagini che appaiono prima in

poesia poi si riversano, in forma diversa e con diversa funzione, in prosa. Più raramente succede

anche il contrario. Detto questo, sia la prosa che la poesia richiedono una disciplina: se la poesia è

scatto la prosa è resistenza, e va sostenuta nel tempo, con una grande fatica.

In quanto alle prerogative e agli strumenti, per diversi anni ho scritto racconti di insight, che Andrea

Cortellessa ha felicemente definito installazioni. Poi nella mia opera è entrato il tempo, forse perché

nella vita di noi tutti c‘è un momento in cui del tempo si impone la percezione irreversibile, e sono

passata al romanzo, che è la forma a cui adesso mi sto dedicando. Di questa forma mi interessano le

sue possibilità narrative specifiche, anche se la produzione di prosa italiana contemporanea, con

scarse eccezioni, anche quando viene definita romanzo ha sostanzialmente caratteri non narrativi.

Dico questo senza polemica, perché credo nella libertà di scrittura di ciascuno.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

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Sì, ma non farei una lista. In quanto al poema in prosa, confesso una certa freddezza, anche di

lettura, verso il genere, indipendentemente dalla bravura dell‘autore, anche se scrive in francese.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Non ho tradotto in modo significativo autori di prosa poetica, mentre ho un passato di traduttrice di

lavori sia in prosa che in versi, ma in modo particolare in prosa, con una decina di romanzi e saggi

per varie case editrici (Theoria, Fazi, Minimum Fax). Ho iniziato a tradurre molto giovane, prima di

iniziare a scrivere prosa – ma non prima di iniziare a scrivere poesia, dato che per me dura da

sempre – e sicuramente la traduzione mi ha traghettato, in qualche modo, verso lo scrivere prosa.

Anche se l‘ossessione di fondo di chi scrive poesia, vale a dire il controllo completo del testo e del

bianco, non mi ha mai abbandonato.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Scelgo tre testi, intorno all‘immagine della sirena. Una poesia de ―Il colore oro‖ (Le Lettere 2005),

scritta nel 2007, in cui le sirene fanno una prima apparizione; qualche riga dall‘incipit del di poco

successivo romanzo ―Sirene‖ (Einaudi 2007).

metti la ciotola davanti alla porta,

ritirati dove non sei visto

le sirene verranno a mangiare strisciando,

facendo forza sulle mani

la sera latte bianco e piccante

o ti morderanno alla gola

[―Il colore oro‖, Le Lettere, 2007]

**

DA SIRENE

Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì uno degli armadietti. Si tolse la tuta col logo

western standard della yakuza – una y stilizzata in un cerchio enso, che sembrava tracciata col sangue – e indossò la muta di neoprene.

Il bordo vasca era deserto, non c‘era nessun altro nell‘allevamento. Con l‘epidemia di cancro nero, c‘erano

stati tagli al personale. Erano rimasti solo due sorveglianti, Samuel e Ken‘nosuke, che lavoravano su turni, i

tecnici veterinari e gli addetti alla macellazione della carne.

Quello era uno degli impianti più piccoli, uno dei primi. C‘erano stabilimenti più grandi e moderni in altri

punti della riserva marina yakuza.

La monta delle sirene stava per iniziare. Subito dopo, dal pannello di controllo del sistema di svuotamento delle vasche, Samuel avrebbe attivato il ricambio dell‘acqua. Era una delle cose che gli piaceva fare.

L‘acqua dell‘oceano entrava con un risucchio e un gorgoglio. La griglia di filtraggio ne regolava la potenza,

permettendo un‘osmosi dolce e controllata tra mare esterno e mare interno, ma se Samuel avesse commesso

un errore, se non avesse fatto incastrare perfettamente la griglia nel quadro a cerniera, la furia dell‘acqua avrebbe spazzato via tutto.

Allo stesso modo l‘oceano spazzava le piattaforme esterne degli allevamenti nella riserva yakuza al largo

della costa della Nuova Baja California, nelle acque di Underwater, dove nessuno, e soprattutto non il

governo dei Territori, avrebbe potuto scoprirli, e certamente non avrebbe avuto voglia di mettersi lì a

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controllare cosa facevano gli yakuza nelle loro riserve. Non con l‘epidemia di cancro alla pelle – cancro nero, sole nero – che divorava la popolazione.

Se Samuel avesse voluto distruggere tutto, poteva farlo.

Questo pensiero gli era di grande conforto.

Sadako era morta l‘anno prima, a diciassette anni. In piena estate, quando il cancro nero è più feroce. Lo

chiamavano cancro ma era qualcosa di più di una proliferazione impazzita di cellule. Era, almeno così diceva il Mermaid Liberation Front, il giudizio di dio per quello che la specie umana aveva fatto alle sirene.

Samuel aveva dei dreadlocks biondi lunghi fino alla vita. Il giorno in cui aveva iniettato l‘eutanasia a

Sadako, si era rasato a zero. Sadako non avrebbe voluto questa forma di omaggio. Un cranio rasato significa cancro nero quasi certo, cominciando dalla testa, soprattutto in un fototipo I.

Ma Sadako era morta.

Sotto, nella vasca, i maschi di sirena coprivano le femmine.

[da Sirene, Einaudi, 2007]

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FABIO PUSTERLA

1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto

alla questione dei generi)?

Non sono certo di avere ―un‘idea della prosa‖; in ogni modo, siccome della prosa sono soprattutto

un grande lettore, si tratterebbe eventualmente di un‘idea meno precisa e meno orientata di quella

che forse potrei avere della poesia, che invece scrivo. Leggo molta prosa, senza grandi distinzioni di

genere (al più, ci sono generi che non pratico quasi mai). Mi interessa, comunque, una prosa che si

ponga come obiettivo prioritario quello di rappresentare il mondo (una fetta di mondo),

interrogandone le contraddizioni. La prosa può far questo in molti modi diversi; ma se rinuncia a un

simile orizzonte, allora non mi interessa più particolarmente.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Mi pare che il cosiddetto ―abbassamento prosastico‖ abbia ormai da tempo dato i suoi frutti; e, al di

là di qualche eventuale commistione, non mi sembra per ora di notare fenomeni nuovissimi. Non

credo neppure che il dialogo tra poesia e prosa debba a tutti i costi risolversi in mutamenti visibili

del linguaggio poetico: la prosa rimane il grande territorio in cui chi ama leggere vaga alla scoperta

di qualcosa. Se questo lettore nomade vuole poi anche provare a scrivere, e se sceglie la poesia, non

c‘è dubbio che le sue letture avranno un‘importanza fondamentale, eppure non sempre visibile.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nelle cose che ho scritto non ci sono, mi pare, inserti in prosa; le poche prose che ho inserito in

alcune raccolte poetiche sono piuttosto prose ―liriche‖, mediamente meno narrative di alcune poesie

limitrofe. Allora semmai quello che talvolta mi è potuto interessare è la ricerca, all‘interno del

linguaggio lirico, di una dimensione narrativa. Non per scrivere delle vere e proprie ballate

narrative; piuttosto per tentare di mantenere una specie di ―tensione narrativa‖ latente, dentro la

singola poesia e anche, a volte, lungo l‘intera raccolta. Un altro aspetto, del resto ovvio, che mi

affascina, è la ricerca di un ritmo che non sia semplicemente metrico o para-metrico; un ritmo del

pensiero e della sintassi, un fluire della voce; e qualcosa del genere non è impossibile trovarlo nella

prosa migliore. Se non sbaglio, Henri Meschonnic ha chiamato questo ritmo ―rythme énonciatif‖,

opponendolo al più tradizionale ―rythme numériste‖. Per quanto il ―ritmo enunciativo‖ non sia

facilissimo da definire, se non come ―movimento della parola nel linguaggio‖, che è una definizione

assai metaforica, mi sembra che l‘immagine suggerisca qualcosa di importante. Qualcosa che il

lettore appassionato e attento della prosa conosce da sempre.

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4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

La cosa più importante della domanda è messa fra parentesi. Io direi: soprattutto non italiani,

perché la prosa italiana più recente, sia pure con le debite eccezioni, non mi sembra particolarmente

interessante. Invece leggo molto volentieri la narrativa che proviene da altre tradizioni e da altre

lingue, e che spesso (non sempre) mi sembra avere un respiro e un coraggio più ampi, soprattutto in

rapporto a ciò che dicevo al punto 1. E poi, ma forse è una questione di età, mi piace sempre di più

rileggere alcuni grandi classici.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Ho tradotto un breve romanzo del portoghese Nuno Judice,Adagio, le Cento piccole storie crudeli di

Corinna Bille, e alcune opere scritte in prosa da Philippe Jaccottet (Libretto, Austria, La ciotola del

pellegrino, Paesaggi con figure assenti), oltre a qualche articolo o saggio scritto da poeti e filosofi.

In generale, la prosa che ho tradotto è stata sostanzialmente una prosa poetica, qua e là (come nel

caso di Judice) spostata verso la dimensione narrativa. Non so se si può parlare di un contraccolpo

sulla mia scrittura, come chiede la domanda; e non so se, in tal caso, io sono la persona più adatta

per parlarne. Ho l‘impressione, tuttavia, che i due aspetti più significativi di questa esperienza

traduttoria abbiano riguardato il ritmo (l‘ho già detto prima: leggendo, e a maggior ragione

traducendo, bisogna per forza ascoltare un ritmo particolare, ogni volta diverso e originale; e questo

probabilmente apre l‘orecchio, e speriamo anche la mano, a nuove possibilità espressive) e

l‘elasticità linguistica (cioè la capacità, che deriva dell‘esercizio pratico e dalla necessità

drammatica che il traduttore avverte, di accendere velocemente associazioni linguistiche – lessicali,

sintattiche, foniche, ecc.— più o meno distanti dal proprio uso consueto). Se e come questi due

aspetti si siano poi manifestati nella mia scrittura, sta eventualmente ai lettori dirlo.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Non è che non voglio, è che non vedo bene cosa potrei segnalare. Me la caverò con una poesia

recente, che farà parte del mio prossimo libro, in cui forse l‘orizzonte vagamente narrativo e la

dimensione ritmica a cui accennavo prima si possono almeno intuire.

MILANO CENTRALE, GENNAIO 2006

Fossi appena – e lui rimane accampato testardo

nel suo silenzio nero di quasi zingaro, con unghie

rotte, orecchini, e il cartone malchiuso del mistero

che oscilla sopra grate di sostegno, nel concerto

variopinto di laptop cellulari amazzonici pagers,

pellicce di finto lupo e montoni da indossare, parka –

se fossi solamente meno debole, con quello che ho passato, che ogni vita

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mi sembrava di averla già vissuta, e malattia,

con tutto questo, capisci che tu devi andartene, adesso,

sono più vecchia di te, quarantaquattro come secoli,

tu fresco di trenta, e puoi ancora trovare qualcuno,

quei figli e la famiglia che oggi no ma domani vorrai,

e io se fossi soltanto meno debole,

mi sarei come sai tirata un colpo alla testa da tempo

già in Kossovo forse, o poco dopo, se soltanto

fossi stata capace di farlo, vai via, per favore

vai via…Ombre che in controluce

appaiono a Sesto e poi scompaiono appaiate

nella bruma del giorno che comincia,

come in una fiumana

dolorosa, ombre remote

e prossime, transito d‘esistenze

quasi solo intuite

e fraterne, distanti (e l‘altra, prima,

salita a Monza, imbacuccata, che spiegava a una voce lontana

sì, vado a trovare lo stronzo, benché malata, come senti,

ma questa me la paga, proprio oggi, e intanto sto malissimo,

febbre senz‘altro, e brividi,

ma certo, la puttana è su a sciare, beata lei. Io qui da sola).

Pianissimo entra in porto trenitalia, e tutti vanno

rapidi verso quello che li attende,

rassegnati o frementi, nel ronzio

che sale dai cunicoli, e folate

di vento freddo spazzano via Gioia.

Milano chiama, la stazione è un‘onda bruna,

una promessa che inghiotte, un destino, una gola.

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ANDREA RAOS

1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto

alla questione dei generi)?

C‘è del buono un po‘ dappertutto. L‘essenziale è che sia a disposizione dei lettori il maggior

numero possibile di strumenti. È una questione politica, di politica editoriale, molto più che

strettamente estetica.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟”abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

La cosa più importante è non ragionare in termini di alto e basso. Ne derivano solo azioni molto

meccaniche. Mi interessa molto di più la polifonie pigmee.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Tutte. Tutti. Tutti.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Sannazzaro, Arcadia.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Direi soprattutto la poesia di Volodine e la prosa di Reznikoff. Non me ne vengono in mente altri, al

momento.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Segnalo questo mio post scritto a Lettere nere (raccolta pubblicata in forma parziale nel libro

collettivo Prosa in prosa, Le lettere, 2009)

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post scritto a Lettere nere

L'avevo richiesto, sperato, eppure dapprima volli quasi tirarmi indietro di fronte alle scosse irradiate da

questo accostare versi e prosa. Perché già dalle prime caotiche stesure l'effetto si rivelava duplice: un

inchinarsi delle poesie, anti-vestizione di ogni lucore carismatico derivante dal vuoto reso naturale fatto stare

accanto a ciascun verso - ne ho ascoltati troppi detti in pubblico che per la voce sembravano stupendi ma di

cui a leggerli non restava più niente. Proprio questo ho voluto evitare, e questi sono versi sottratti tanto al

vuoto fisico della carta quanto al raschiare del fiato nei bronchi. Se la stessa voce è trasmessa sulla pagina da

quel bianco che odio, che mi odia, di cui non faccio a meno, allora questa, se è poesia, lo è per residuo,

scrostatura di migliaia di gesti non pensati e di parole non richieste, sì, ma anche di silenzi non attesi. Alcuni

dicono che la «più bella cosa» in una poesia resta attraverso, malgrado, ma anche grazie a una pessima

traduzione - e se è così i pochi presenti in questo libro sono versi 'tradotti', con la più grande violenza di cui

sono stato capace (comunque poca, ho la disgrazia di un carattere mite). Ricordate quel passo glaciale e

straziante della Vita agra in cui Bianciardi deporta in inglese dal Lavoro culturale il suo sogno di gioventù?

Io ho amato una donna, quando mi ha pisciato in bocca.

Per la prosa. Nel poco che so e capisco di 'narrazione' ho voluto impiantare quanto mi sembrava uno dei

massimi risultati raggiunti dai poeti che mi piacciono, cioè una possibilità di aperture multiple dell'io, di

frantumazione e dialoghi frantumanti come tutti i dialoghi (in questo senso, solo in questo, sono davvero un

'lirico'). Questi poeti sono, fra quelli ancora vicini e italiani, Zanzotto, Villa e, nel suo modo paradossale e

triste, Fortini - non farò la lista di tutti gli altri, in particolare dei 'classici'. Ho voluto, soprattutto, impiantarvi

un rimpianto di quello stesso 'vuoto' di cui parlavo prima, invertire la rotazione.

Rileggendo quest'opera, che oggi mi sembra stata scritta da un altro, vedo che questo folle dibattersi e

agitarsi scossi, questa forsennata volontà di fracassare la letteratura per vendicarmi di un male che non era

stata lei a farmi - ci si può mai vendicare di chi non sia innocente? -, che questo è il modo che mi si impose

allora - ognuno ha il suo - per non andare a carte quarantotto, per non suicidarmi. Quel che è peggio, mi ci

sono anche divertito.

E dunque oggi che mi sembra di essere un altro - ma anche oggi che non sono stato mai così accerchiato

dalla vita, non me lo potrei nascondere - in questa vita non sono più così sicuro che un cercare frenetico la

porta sia il modo migliore per uscire - e pure è certo che per me la vera scommessa, il vero rischio, iniziano

ora. Mi alzo per uscire. Mi alzo, esco.

Yubujima, 30 aprile 2000

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FLAVIO SANTI

1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto

alla questione dei generi)?

La mia idea di prosa – in relazione alla poesia – è molto intuitiva e rozza, temo, e rimanda a Rino

Gaetano, Nuntereggae più: ―Vivremo nel terrore che ci rubino l‘argenteria, è più prosa che poesia‖.

Ecco, la mia prosa ama il contingente, sia come dato storico che personale. Bieco, squallido,

minoritario, opaco contingente. La poesia, invece, è la follia pura, sia linguisticamente che

tematicamente. Quanto alla questione dei generi, rilancio con due citazioni: ―Esistono solo due tipi

di libri. Quelli scritti bene e quelli scritti male‖ (Oscar Wilde); ―Gli unici generi che conosco sono i

mariti delle figlie‖ (Ennio Flaiano, e anche il principe Antonio De Curtis).

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come

importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Credo che la questione sia capziosa, come spesso capita (cfr. la questione dei generi).

Personalmente un avvicinamento della poesia alla prosa ha a che fare con la progettualità, con lo

sviluppo di un‘idea poematica forte, un intreccio, un plot, una trica, come dicevano gli antichi

commediografi latini. Sarò un nostalgico, un ingenuo, ma a me l‘idea della narrazione sta molto a

cuore.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nella prosa lo spazio bianco non parla (o parla meno). Nella poesia sì. Questa, almeno per me, la

più grossa differenza (oltre a quanto già detto sopra). Per dirla con un nostro grande irregolare,

Luigi Di Ruscio: ―Quando va per le lunghe è prosa, sennò è poesia‖. Sottoscrivo in pieno. Un po‘

come se la poesia fosse un fotogramma (di un sentimento, una storia, un‘esperienza), la prosa la

possibilità dell‘intero film. Anche se spesso mi struggo all‘idea di quanto sia bello pensare un‘opera

e basta (come diceva Pasolini-Giotto nel Decameron: ―Perché realizzare un‘opera quando è così

bello sognarla soltanto‖).

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Letture folgoranti, in ordine sparso: Oneghin di Puskin, Golden Gate di Vikhram Seth, Georgiche

di Virgilio, Omeros di Walcott, Della neve di Grünbein, Metamorfosi di Ovidio, L‟Orlando Furioso

di Ariosto, La camera da letto di Bertolucci, Allergia di Ferretti, Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Il

fatto che sia sempre avvenuto un passaggio dalla poesia alla prosa, e mai viceversa (mai! non si dà

un solo caso di romanziere folgorato sulla via della poesia: perché?), vorrà pur dire qualcosa? O

sono millenni che tutti si sbagliano tragicamente? (Non è nemmeno da escludere questa ipotesi

comunque. Pensate: la storia dell‘umanità come colossale errore compulsivo.)

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5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Di recente ho tradotto per i tipi di Tararà L‟évangile selon Judas di Maurice Chappaz. Grande

delirio testuale e filosofico. Grande divertimento e grande sofferenza nel tentare di trasporre lo

spirito totalmente libero dello svizzero. Per ora non registro alcuna reazione sul mio lavoro, né in

versi né in prosa. Il che non mi turba: sono un diesel, assorbo e rumino lentamente.

6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Allego un breve ―racconto in versi‖, scritto prima che scoppiasse il caso di Via Anelli a Padova.

Non so perché, ma è una cosa che mi capita di constatare non poche volte: sono una sorta di

parafulmine, per cui pre-sento certe tendenze (che, per carità, sono cicliche). Qualche esempio? Il

mio primo romanzo, Diario di bordo della rosa, anticipò il ritorno del romanzo sperimentale in anni

di personalismi e ombelichismi vari; il mio secondo, L‟eterna notte dei Bosconero, anticipò il

ritorno dei vampiri; e altri casi che non allego per non tediarvi. Non credo, però, che sia un bene:

quando i miei lavori escono, infatti, tutti mi prendono per pazzo, per uno non sintonizzato, poi

quando – come si suol dire – ―il trend si consolida‖ naturalmente nessuno si ricorda di te. Sic transit

gloria mundi.

PADOVA, VIA ANELLI

È tempo di bombe inesplose,

si capisce dall‘aria e dall‘odore di stallatico

che brucia in città.

In via Anelli ci arrivo una mattina

che dalla stazione mancano due chilometri

e poche ore a una festa sacra

di italiani miti e incapsulati.

Ma la Pasqua non ha più rametti

né pronti seminaristi né fioretti

o giochi di carta, e dalle scale

si è liberata una lenta processione

di cristiani, bianchi e vegetariani.

Certo, sarebbe tempo di pasque,

mi fa capire anche una merla mostrandomi

il suo culo piumato, ma io cosa festeggio?

Ghetto di via Anelli, «negri ovunque,

marocco, tunisi, muri pidocchiosi,

brande e vetri rotti,

arrivare qua non è bene,

venire qui è ammalarsi, consumarsi

di pigrizia e tristezza».

Questo sento dire dalla nostra cristiana Pasqua.

Le case sono quelle lì

dei negri, la muffa ferma sul muro

che sale, i fili della luce scoperti,

sotto il tetto finestre senza vetri e poco più,

orbitali di cemento, cumuli d‘immondizia,

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benedetti dal Signore delle Pesti

e lasciati sulle strade come altari.

Ma allora le spacconate edili,

quando i verricelli

lamentavano assenze di bravi muratori,

non erano che una glassa

per ammansire qualche troglodita,

inganni di un‘ideologia

che rapinava ai poveri per dare

ma a chi?

Da loro le bombe cadevano a grappoli

da noi i muratori sembravano ormai

attrazioni da circo,

così sono migrati qua,

questi esseri mutanti, zombie,

che nessuno vuole, nessuno ama

paga bassa e tirare dritti...

A una certa ora

si attirano tutti qua

come sul miele le mosche

e c‘è nell‘aria

il loro sapore

e se uno ti fissa

è un chiodo nelle orbite.

Spacasciate sono le case, dice Osama.

Sfasciate.

«Sei anche tu uomo che se ne frega?»

«Girare intorno a cose lo fanno

bimbi con triciclo, anche voi»

«Quando gli uomini non laveranno

e non puliranno più i vostri residui,

che ne sarà? di voi intendo

e della vostra razza»

«Insomma la mattina uno si sveglia,

e quello che deve fare non è alzarsi

per fare piacere a se stesso, ma alzarsi

per andare ad arricchire qualcun altro»

«Uomo che se ne frega,

voi pensate sempre brutto,

siete come uccelli che stanno

nel nido di mamma»

«Stupido uomo di bene e di male,

c‘hai detto che libertà è assenza

di sogni e bisogni…»

«Dopo bella scopata

uccello pisciotta fuori

come fontana» mi assale Nadir,

esiliato dal cesso, adesso sembra

un Napoleone sullo scoglio

estremo dell‘isola di Sant‘Elena,

«con cagata in canna» aggiunge.

Ma deve aspettare, il cesso è uno solo

per quindici di loro.

«La storia è fatta di strati

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di merda e gemme d‘onice»

L‘allegria scamiciata di questi ragazzi

è contagiosa e drammatica.

Dare l‘antiruggine

ai fatti della vita, se solo si potesse...

Fermare i momenti più belli

e solo quelli portarsi qua...

E invece ho visto le loro anime

incrinarsi come lattine di birra.

«Ma questa realtà

quanti cammelli vale?» si chiede Mohamed.

«Boh»

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GIULIANO SCABIA

1) Qual è la sua idea della prosa? Come si definisce il suo approccio alla prosa (anche rispetto

alla questione dei generi)?

Prosa è andare diritto, verso è voltarsi e andare a capo. Il sentiero, fin che non svolta, sarebbe prosa.

Andare diritto (prosa) fino a chissà dove, e magari nel chissà dove improvvisamente scoprire in una

radura una compagnia di attori dilettantistico amatoriali che battono nella voce i versi bianchi di

Shakespeare. Come sono impressionanti i versi di Shakespeare (in inglese). Come quelli del Tasso

drammaturgo dell‘Aminta. Una volta ho sognato che cascavo dalla Divina Commedia (versi) nel

Decameron (prosa). Chissà. Però con Virgilio e Dante si camminava nella prosa, ma in versi, su per

la scalinata di terzine dall‘Inferno al Paradiso.

2) Crede che nella poesia contemporanea il problema della prosa si ponga soltanto nei termini

dell‟“abbassamento prosastico” e dell‟avvicinamento asintotico della poesia alla prosa, come importanti critici hanno sottolineato, oppure le sembra di osservare Ŕ nel lavoro suo, o di altri Ŕ

altre modalità di interazione, o di scambio di strumenti tra i due generi?

Nella prosa posso raccontare grandi storie, più lunghe che in poesia. Solo la prosa ha reso possibile

il romanzo moderno. Ma i primi romanzi europei (quelli di Chretien), erano in versi, e cantati. C‘è

mistero su verso e prosa. Bisognerebbe interrogare i cavalieri messi in verso e poi passati

derisoriamente in prosa da Cervantes quando non ci si credeva più. Nelle poesie succede però che, a

volte, per come nascono, si va più nell‘abisso, ad ascoltare il non si sa che.

3) Quale posizione ha la prosa all‟interno della sua opera, e di singole sue opere (eventualmente

scindendo il discorso tra libri di poesia in cui compaiono pezzi o inserti in prosa e libri di narrativa

vera e propria)? Che tipo di lavoro le interessa fare con la prosa, anche rispetto al verso? Quali

sono le prerogative o gli strumenti della scrittura in prosa che le interessano maggiormente?

Nel romanzo molto importante è la struttura, l‘architettura. C‘è gran lavoro per accordare tutto, per

me anni di lavoro. Ma poi in un libro per me centrale (Teatro con bosco e animali) c‘è prosa,

poesia, teatro. I generi, che sono natura, sono anche un po‘ stupidi, come tutte le definizioni. La

lingua, per fortuna, è matta. Nei versi cerco di ascoltarla secondo fiato, ritmo, musica, tono, timbro,

umidità, armonia, invincibilità. Nella prosa secondo gentilezza, amore e bizzarria.

4) Nel panorama contemporaneo, o nella tradizione, ci sono autori (di prosa poetica, prosimetri,

poemi in prosa, prosa narrativa, frammenti lirici o altro) che le interessano particolarmente (anche

non italiani)?

Uno dei compagni di viaggio di cui mi ha impressionato la prosa, molto vicina alla poesia e al

teatro, è Dylan Thomas. Poi Lorca. E Maiakowski. E Brodski. E Pasternak. E Palazzeschi. E Dino

Campana. E Zanzotto. E Meneghello. E Rigoni Stern.

5) Ha mai fatto esperienze di traduzione di autori di prosa poetica, o di altri tipi di scrittura in

prosa? E che tipo di contraccolpo hanno avuto sul suo lavoro in versi (se ne hanno avuto)?

Ho tradotto versi da molte lingue, per esercizio interiore. Ma non prosa poetica (forse qualcosa di

Char, anni fa).

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6) Ci vuole segnalare un suo testo, o un brano in prosa (poetica o altro) rappresentativo rispetto al

discorso fin qui fatto, che possiamo utilmente riprendere in coda all‟intervista?

Come esempio vi segnalo la Visione notturna, in Nane Oca rivelato (Einaudi, 2009). Ma tutto il

ciclo di Nane Oca è poesia e prosa, prosa e poesia.

VISIONE NOTTURNA

Che notte blu scura.

Le stelle tremano, fanno firmamento.

C'è la brina.

Guardo Orione, le sue luci.

Ecco Betelgèuse, la stella più luminosa.

Come mi piacerebbe raggiungerla. E poi andare oltre, fino al margine dell'universo che si espande.

Sto camminando verso il platano alto.

I passi scricchiolano su qualche velo di ghiaccio del sentiero.

Piano piano vicinando sento un concerto di vocali e consonanti: sì, sono loro, forse provano le voci - forse

cercano di parlare con la notte, o le stelle, o l'infinito - forse fanno così per chiamarmi.

Com'è certezza trovarvi, o poeti del platano alto - sapere che siete là fra i rami a tessere i suoni - come

ricamatori, come infilaperle.

Chi siano le parole delle bestie e degli uomini, e dei pianeti e stelle e galassie del cosmo universo

cerchiamo di capirlo nominando, decifrando.

Caro Giovanni là appollaiato a cantare su uno dei rami, dopo le foreste sorelle (che sono infinite: anche

ogni persona, bestia, pianta, sasso è una foresta) andrai fin laggiù?

Si che ci andrai, perché sei figlio di Aura la fata e Celeste lo sposo - e là forse finalmente capirai dove

tutto sta andando, da dove viene - e avrai l'ultima rivelazione sul vero significato del tuo sopra nome, cosi:

Stanno gli astronomi intanati

nei loro telescopi sedentissimi

intenti a sopra nominare

stelle e spazi lontanissimi.

Anche l'astronomo Zanibon

osserva ciò che appare:

ed ecco che improvvisamente

sulla prua della nave di luce

che entra nel buio senza fine

gli sembra vedere Nane Oca

polleggiare nel vento stellare –

e gli domanda: Sei in oca?

Si che sono, – risponde Nane Oca, –

perché adesso finalmente è rivelato

che andare in oca è

a gamba lenta dondolare mentre

per un poco appare la visione

del tempo senza fine in espansione

e poi tornare – coi piedi per terra –

ai baci avere e dare.

Anch'io adesso salgo sull'albero e mi unisco al canto.

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O poeti dei Ronchi Palù (e del mondo), orafi e calligrafi, coltivatori dell'attesa nel silenzio, innamorati

delle Muse e del respiro - ecco (approssimativamente) l'immagine di quello che vedo e ascolto - e sempre

ascolterò:

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IDEE DELLA PROSA

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GIORGIO AGAMBEN

IDEA DELLA PROSA

È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia

perfettamente soddisfacente, tranne quella che ne certifica l'identità rispetto alla prosa attraverso la

possibilità dell‘enjambement. Né la quantità, né il ritmo, né il numero delle sillabe – tutti elementi

che possono occorrere anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un discrimine

sufficiente: ma è senz'altro poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un

limite sintattico (ogni verso in cui l‘enjambement non è, attualmente, presente, sarà, allora, un verso

con enjambement zero), prosa quel discorso in cui ciò non è possibile.

Vi sono poeti – Petrarca ne è il capostipite – in cui l‘enjambement zero costituisce la regola,

altri – e Caproni è fra questi – in cui il grado marcato tende, invece, a prevalere. Nell'ultimo

Caproni, tuttavia, questa tendenza si esaspera fino all'inverosimile: l'enjambement divora allora il

verso, che si riduce a quei soli elementi che permettono di attestarne la presenza – al suo specifico

nucleo differenziale, dunque, se l‘enjambement individua, nel senso che s'è visto, il tratto distintivo

del discorso poetico. Citiamo da una poesia recentissima:

........ La porta

bianca...

........ La porta

che, dalla trasparenza, porta

nell'opacità...

........ La porta

condannata...

La tradizionale consistenza metrica del verso è qui drasticamente contratta, e i puntini di

sospensione, così caratteristici del tardo Caproni, stanno appunto a segnare l'impossibilità di

svolgere il tema metrico del verso al di là del suo nucleo costitutivo (che – osservazione non

triviale, anche se, dopo quanto si è detto, scontata – sta non al principio, ma in fine, nel punto della

versura), così come, nell'adagio del quintetto schubertiano op. 163, di cui Caproni ha messo a frutto

la lezione, il pizzicato ribadisce ogni volta l'impossibilità, per gli archi, di formulare compiutamente

una frase melodica. Non per questo la poesia cessa di essere tale: ancora una volta, l‘enjambement,

diversamente dal bianco mallarmeano, che annette la prosa al campo della poesia, è condizione

necessaria e sufficiente della versificazione.

Che cosa, dunque, è propriamente in esso in questione, perché gli venga conferito un simile

potere delle chiavi sui metri della poesia? L‘enjambement esibisce una non-coincidenza e una

sconnessione fra elemento metrico e elemento sintattico, fra ritmo sonoro e senso, quasi che,

contrariamente a un diffuso pregiudizio, che vede in essa il luogo di una raggiunta, perfetta

adesione fra suono e senso, la poesia vivesse, invece, soltanto del loro intimo discordo. Il verso,

nell'atto stesso in cui, spezzando un nesso sintattico, afferma la propria identità, è, però,

irresistibilmente attratto a inarcarsi sul verso successivo, per afferrare ciò che ha rigettato fuori di

sé: esso accenna un passo di prosa col gesto medesimo che attesta la propria versatilità. In questo

gettarsi a capofitto sull'abisso del senso, l'unità puramente sonora del verso trasgredisce, con la

propria misura, anche la propria identità.

L'enjambement porta così alla luce l'originaria andatura, né poetica né prosastica, ma, per

così dire, bustrofedica della poesia, l'essenziale prosimetricità di ogni discorso umano, la cui

precoce attestazione nelle Gatha dell'Avesta o nella satura latina certifica il carattere non episodico

della proposta della Vita nuova alle soglie dell'età moderna. La versura, che, pur restando

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innominata nei trattati di metrica, costituisce il nocciolo del verso (e la cui esposizione è

l‘enjambement), è un gesto ambiguo, che si volge a un tempo in due direzioni opposte, all'indietro

(verso) e in avanti (prosa). Questa pendenza, questa sublime esitazione tra il senso e il suono è

l'eredità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo. Per raccoglierne il lascito, Platone, rifiutando

le forme tràdite della scrittura, tenne fisso lo sguardo su quell'idea del linguaggio che, secondo la

testimonianza di Aristotele, non era, per lui, né poesia né prosa, ma il loro medio.

Giorgio Agamben

[Da: Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002.]

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ALFONSO BERARDINELLI

I CONFINI DELLA POESIA

Per conoscere i confini di una qualsiasi regione si deve avere un'idea di quella regione. O forse

meglio: è la conoscenza dei confini che ci fa capire di quale territorio stiamo parlando. Con la

poesia questo discorso dei confini e dei limiti diventa un bel guaio. Infatti, come tutti sanno, noi

sappiamo e non sappiamo che cosa la poesia è e di che cosa parliamo parlando di poesia. Definire la

poesia, cioè tracciarne i confini, è stata una delle più appassionanti e fallimentari imprese del

pensiero estetico. Da anni, ormai, direi da decenni, l'impresa è stata abbandonata. Qualche ragione

deve esserci, Tempo perso, devono aver pensato i filosofi, o almeno i più razionalisti, i più

onestamente empirici, i meno teologi.

A chiedersi che cos'è la poesia sono rimasti infatti i teologi, o i filosofi (e oggi sono molti)

per i quali la filosofia è una specie aggiornata della teologia. Cosi, nella riflessione o rimuginazione

di questi filosofi-teologi, i discorsi sulla poesia finiscono per somigliare al discorso su Dio: che si

mostra e si nasconde, si rivela nelle superfici e si ritrae negli abissi. Il discorso sulla poesia prende

cosi la forma di un trattato di teologia negativa: un «infinito intrattenimento», per usare la formula

di Maurice Blanchot, in cui la necessità di tacere di fronte a un'entità indefinibile dà luogo

viceversa, o per paradosso, a discorsi senza fine. Il discorso diventa discorso sul silenzio e somiglia

sempre più a un rumore di ebollizione. Nel corso dì questa ebollizione il pensiero filosofico perde il

suo statuto concettuale: prima diventa liquido, e poi evapora. Della poesia intesa come qualità

ontologica non si può parlare, ma si deve, in effetti, tacere.

Ho azzardato un'espressione forse suggestiva, perfino filosoficamente suggestiva, ma certo

tutt‘altro che chiara: «qualità ontologica». Se i discorsi sulla poesia si rivolgono a questa qualità

intrinseca entrano nella dimensione del tautologico. Con l‘aria di dire la cosa essenziale, non dicono

altro che questo: la poesia è quello che è, la poesia è poesia. Questo vicolo cieco indica almeno una

cosa interessante: che quando abbiamo a che fare con una poesia che sia poesia, questo

riconoscimento è una constatazione empirica che non può essere giustificata o argomentata

concettualmente. Non ci sono ragionamenti, non ci sono prove razionali, non ci sono metodi certi

per accertare la presenza della «qualità ontologica» chiamata poesia in un certo testo. L'ultimo e più

scientificamente specioso tentativo di «rassicurazione metodologica» è stato compiuto in questo

senso, qualche decennio fa, da Roman Jakobson. Con Jakobson l‘ontologia si veste di terminologia

linguistica. La poesia, la quidditas poetica, l'essenza che distingue un testo poetico da un testo non

poetico, secondo Jakobson era quella che lui chiamava «funzione poetica».

Fra le diverse funzioni del linguaggio (emotiva, conativa, referenziale, metalinguistica,

fàtica) ce ne sarebbe una distinta dalle altre: la funzione, appunto, poetica, la cui caratteristica

sarebbe quella di non comunicare altro messaggio che il messaggio di comunicare un messaggio. La

letterarietà, oggetto esclusivo della scienza della letteratura, avrebbe come carattere distintivo la

«non referenzialità», il non riferirsi alla realtà extra-linguistica, ma solo all'organizzazione dei segni

linguistici.

La lingua poetica, secondo questa teoria, è nettamente distinta dalla lingua comune: e mentre

la lingua comune serve anzitutto a comunicare, la lingua poetica sarebbe tanto più se stessa quanto

più si sottrae al funzionamento comunicativo. Interrotto il rapporto con la realtà extra-linguistica (il

referente) e con il lettore (o destinatario), la lingua poetica viene definita come svuotamento e

sospensione del significato. La sua semantica è per definizione delusiva (deludente?).

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Come è stato osservato in diverse occasioni (da Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo),

oltre ad essere contestabile sul piano linguistico, questa teoria di Jakobson non sarebbe che una

versione tardiva e ammodernata della poetica dell'arte per l'arte. La letteratura non incarnerebbe,

quindi, una più energica e viva attitudine comunicativa, ma sarebbe fuga dalla comunicazione e dal

significato. I confini della poesia sarebbero in questo senso confini che stringono quella dimensione

insieme sublime e depauperata in cui il linguaggio si disincarna, anche se più denso e spesso è il suo

tessuto di figure.

I procedimenti della letterarietà sarebbero quindi procedimenti che staccano la poesia dalla

comunicazione, che isolano la funzione auto-referenziale o poetica dalle altre funzioni linguistiche,

e che infine isolano la poesia dagli altri generi, soprattutto dalla prosa. Lo scrittore più adatto alla

teoria jakobsoniana sembra, alla fine, essere Mallarmé, forse fra tutti il poeta più lontano dalla

prosa. Mentre il romanzo moderno era nato dalla fusione e dalla mescolanza, all'inizio un po'

informe e caotica, di diversi generi letterari sia vecchi che nuovi, più tardi, intorno alla metà

dell'Ottocento, la poesia moderna si fissava come lirica nel modello opposto della purezza, della

depurazione, dell‘interruzione dei rapporti dialogici e dinamici con gli altri generi letterari.

La cosa curiosa è che anche le avanguardie novecentesche più audaci e iconoclaste, più

sfrenatamente nemiche in apparenza della purezza estetica, come il futurismo e il surrealismo, sono

finite in realtà nello stesso alveo della «poesia pura», magari per altre vie: per esempio con il rifiuto

violento della convenzione stilistica, del pubblico, della discorsività, della rappresentazione, della

narrazione. Fra uno charme di Valéry e un testo surrealista prodotto con la tecnica della «scrittura

automatica» le differenze, da questo punto di vista, non sono poi molte. Anche se le scelte formali

sembrano opposte (da un lato metrica classica e lessico selezionato, dall'altro magma linguistico e

mostri dell'inconscio), la distanza dalla prosa è nell‘un caso e nell'altro fortissima. È, più

precisamente, una distanza voluta, ideologica e di principio. Raccontare, esprimere, ragionare e

rappresentare sono, sia per Breton che per Valéry, qualcosa che deve restare al di là dei confini

della scrittura poetica.

Questo tipico cammino della modernità poetica, di solito, viene dato per concluso da tempo,

al punto che non se ne parla più. Eppure, attraverso una serie di prestigiose teorizzazioni (che

arrivano fino a Roland Barthes e oltre), grazie al lavoro di innumerevoli epigoni, e con l'aiuto di

un'egemonia strutturalistica e neo-formalistica durata nelle università per circa vent'anni, il

linguaggio poetico ha continuato sulla strada della depurazione anti-comunicativa e si è

progressivamente svuotato e indebolito. È diventato sempre più inadatto all'elaborazione di

esperienze nuove. Quasi senza rendersene conto, ipnotizzati da un'autorità teorica che definiva la

lingua poetica come lingua che fugge dalla discorsività, dall'emotività e dalla rappresentazione, la

maggior parte dei giovani autori che hanno cominciato a pubblicare dagli anni settanta in poi non

hanno varcato i confini e i recinti ristretti fissati dall'estetica formalistica e dalle avanguardie

informali, secondo cui, in poesia, tutto era possibile, tutto era concesso, fuorché dire qualcosa.

Nonostante la sua insistenza sulla tecnica, il formalismo, quando si è trasformato da

attenzione al linguaggio in estetica e in teoria generale della letteratura come letterarietà, ha finito

per produrre idealismo. Cioè: la letteratura come idea e il linguaggio poetico come mito. Con una

certa approssimazione provocatoria, si potrebbe dire che l'ultimo vero mito prodotto dalla letteratura

europea è stata proprio l'idea di Scrittura letteraria come infaticabile e inflessibile distruzione di

valori semantici. Un mito il cui merito e la cui responsabilità sono da attribuire soprattutto alla

cultura francese: che, dagli anni sessanta in poi, è riuscita a fare a meno tanto del romanzo quanto

della poesia a tutto vantaggio della critica e della scrittura filosofica, post-filosofica e teorica.

Quanto meno poesia e narrativa si scrivevano, tanto più grandiose, suggestive, pervasive e

internazionalmente influenti diventavano la critica e la teoria letteraria prodotte in Francia. Una

sontuosa propaganda fatta alle possibilità trasgressive, critiche, generative di una letteratura in

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verità assai esigua, quasi sparita, ridotta appunto all'idea di se stessa. Tutto, d'altra parte, in linea di

principio, diventava letteratura, cioè Scrittura: la critica, la storiografia le scienze umane, la

filosofia.

I confini della Letteratura, intesa come macchina testuale che divora se stessa, si dilatavano

enormemente, impedendo che l'idea e l'essenza letteraria facessero davvero attrito con qualcosa di

diverso e di estraneo.

Nonostante la dipendenza coloniale della cultura letteraria italiana da quella francese, in

realtà nella nostra poesia qualcosa di interessante e di inatteso stava avvenendo in quegli anni. Per

brevità, faccio solo due nomi, quelli di Montale e di Pasolini. Due casi di progressivo e accelerato

avvicinamento della poesia alla prosa, della lirica alla discorsività. La vicenda è tanto più

interessante per la diversità di temperamento e per la distanza generazionale fra questi due poeti.

Montale era stato in Italia il punto culminante della poesia tardo- e post-simbolista, un virtuoso

manierista del monologo allusivo, cifrato, in codice. Pasolini era partito dal lirismo dialettale per

arrivare al poemetto civile. Sia l'uno che l'altro, all'inizio degli anni settanta, portano la poesia verso

la prosa. Montale da Satura in poi diventa un poeta satirico, colloquiale, cerimoniale semi-

giornalistico e blandamente auto-divulgativo. Pasolini, sempre più scontento di sé, con Trasumanar

e organizzar tocca il limite dela trasandatezza stilistica: le sue poesie diventano sciatti articoli in

finti versi.

La sua versificazione sempre più incerta e informe era ormai inadatta a esprimere una poesia

che stava diventando sempre più potentemente e aggressivamente argomentativa. Montale aveva

sciolto e articolato in nessi razionali, in gradazioni ragionevoli, le sue perentorie e intimidatorie

allegorie, quasi mettesse in ritmo e rima i suoi corsivi sul «Corriere della sera». Pasolini inventava

un nuovo efficace organismo formale: il poemetto ideologico in prosa, l'articolo «di poesia».

Soprattutto con Lettere luterane questa riconversione del poemetto civile in una prosa

argomentativa energicamente ritmata (in cui la frase prende il posto del verso) viene portata a

compimento. L'attenzione tecnica viene spostata sulla prosa polemica. Toccare i confini della

poesia, spostarli, forzarli diventava un atto vitale necessario per uscire da sistemi stilistici che

tendevano a chiudersi. Ed è significativo, credo, che anche un poeta come Pasolini, che si era

formato nella polemica contro l'ermetismo e la poesia pura, abbia alla fine sentito il bisogno di

andare oltre la poesia in versi, trasformando il poemetto di confessione e di denuncia in una prosa

saggistica costruita sulla ritmica dell‘argomentazione.

Una tendenza della poesia a spostarsi verso la prosa si era comunque notata già da tempo,

anche in altre letterature. Tutti sanno che alcuni dei maggiori e più originali poeti del Novecento

sono tipicamente anti-lirici e prosastici e hanno applicato tutta la loro inventività formale nella lotta

e nell'attrito con contenuti e messaggi che sembravano refrattari al linguaggio poetico: Eliot,

Majakovskij, Brecht hanno scritto meditazioni, manifesti, satire, monologhi teatrali e discorsi

politici in versi. L'idea del linguaggio poetico come fuga dal significato e dal referente extra-

linguistico già con molti poeti del primo Novecento non funziona. Ma, più tardi, dagli anni trenta in

poi, quando la Modernità sembra aver finito di inventare se stessa (o la propria ideologia), alcuni

poeti più giovani si rendono conto che il «progresso» della rivolta e dell'esoterismo si è bloccato e

rischia di replicare se stesso; basti pensare a un poeta tipicamente prosastico come Wystan H.

Auden, che mette in versi satire, epigrammi, fluviali elucubrazioni saggistiche. Perfino in area post-

surrealista avviene qualcosa di sintomatico: Francis Ponge scrive poemetti di osservazione e di

riflessione saggistica in prosa, anche se spesso il risultato è dubbio (direi: vale più il proposito che il

risultato).

Pochi altri poeti danno come Auden il senso di un cambiamento d'epoca nella poesia

moderna. Quanto a capacità inventive e abilità tecnica, come poeta intellettuale e morale, e perfino

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forse come critico letterario, Auden, ad esempio, non è inferiore al suo più fortunato e influente

predecessore, Eliot. Eppure c'è in tutta la sua opera una curiosa instabilità.

Dopo le sorprendenti raccolte poetiche del suo esordio, dopo la prima affermazione negli

anni trenta come poeta «impegnato», Auden sembra entrare in una vasta, troppo vasta terra di

nessuno nella quale la poesia può fare mille cose ma, nello stesso tempo, non sa più con precisione

che cosa fare. Auden scrive versi a centinaia, lunghi poemi di riflessione redatti diligentemente in

forme metriche tradizionali, con rime sempre pronte e puntuali a dare forma e limite e arguzia

fonica al variare camaleontico del ragionamento. Poeta tutt'altro che puro e puramente lirico, capace

di versificare qualunque cosa, da un programma pubblicitario per le ferrovie a una ricetta medica,

Auden non mette confini tematici, di tono e di argomento alla sua poesia. Può parlare di tutto.

Varia, riprende commenta altri testi, divaga solennemente e umoristicamente sulla storia della

civiltà a cui appartiene, butta giù appunti di diario e pettegolezzi teologici o sessuali su personaggi

storici e sui propri amici. Usa abbondantemente la forma dell'epistola in versi e del dialogo. Ha

scritto in versi un libretto d'opera per Igor Stravinskij (The Rake's Progress). A volte quasi

ferocemente giùdica la propria epoca. A volte gioca e scherza amabilmente su se stesso e la propria

cerchia. A volte esprime la sua gratitudine di creatura terrestre e umana al supremo ente divino che

con tanta saggezza ha distribuito qualità e quantità nell'ordine del mondo. Le sue frasi in versi sono

costantemente governate da un'arte del legamento discorsivo e musicale. Diversamente dai

simbolisti, dai poeti puri, dagli ermetici, diversamente dai visionari e dai nuovi metafisici,

diversamente dai surrealisti ma anche da Pound e Eliot, in Auden non troviamo fusioni di immagini

e accostamenti per pura analogia, non troviamo neppure la tecnica dell'immagine singola che balza

fuori dal vuoto e dal buio, e non troviamo collages o montaggi di brani. I suoi versi sono funzionali

all'espressione di idee e di sentimenti definiti. La teatralità della sua versificazione, a volte

parodistica e a volte oratoria, riporta la poesia nelle dimensioni della conversazione, della satira,

dell‘ecloga, dell'invettiva, del saggio e del sermone. Perfino la cosiddetta conversione cristiana di

Auden potrebbe essere interpretata, almeno in parte, come un bisogno di più salda organizzazione

formale del pensiero e dell'esperienza: bisogno cioè di una retorica, di una stilistica della vita

morale e psichica, nelle diverse gradazioni dal privato al pubblico.

In un'altra regione letteraria, vasta, prestigiosa e ben nota all‘estero come quella francese, è

stato forse più di altri Francis Ponge a segnalare nella poesia moderna l'opportunità di una svolta.

La letteratura francese è una letteratura che esibisce svolte repentine, clamorose inversioni di

tendenza. È certo una letteratura sommamente ordinata e organizzata, nella quale lo sfruttamento

razionale delle risorse ha sempre garantito una straordinaria stabilità e fecondità produttiva. Ma è

anche una letteratura che fa periodicamente saltare in aria il fiero e composto decoro delle sue

tradizioni. In nessun altro paese occidentale la poesia moderna aveva radicalmente rielaborato come

in Francia il suo codice teorico e linguistico. Come l'idea di rivoluzione, così anche l'idea di poesia

moderna ha trovato in Francia il suo codice più perfetto e in apparenza esportabile: attraente e

maneggevole come un elegante e spietato teorema.

In modo molto diverso da Auden, anche Ponge potrebbe essere considerato protagonista di

una svolta «neoclassica» (oggi si direbbe: post-moderna) rispetto alla poesia cresciuta fra

simbolismo e avanguardia surrealista. Come Auden, anche Ponge spoglia il linguaggio poetico del

suo sublime impulso mistico (eroico, a volte, e a volte evasivo). Per vie opposte, rinunciando

esplicitamente alla versificazione, anche Ponge indirizza il lavoro della poesia verso la prosa. I

bizzarri saggi poetici, o poemetti prosastici, di Ponge sono interessanti soprattutto come programma

di igiene mentale per la disintossicazione del linguaggio poetico dalla massa delle sue scorie liriche.

Ma Ponge si lascia spesso andare, forse senza volerlo, ad una certa blanda musica dell'umiltà

prosastica, una musica che vagheggia o corteggia la prosa.

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Il volenteroso rigore nuovo che il poeta si propone di perseguire con i suoi esercizi

descrittivi (descrive un ciottolo, un ragno, un prato ecc.) è un'idea di rigore, è una posizione di

principio che stenta a trovare corpo, e crea invece suggestivi ma vacui ectoplasmi verbali. Ponge

finge poeticamente di condurre per mano, come a scuola, la poesia verso la prosa. Ma i suoi

resoconti sono le tracce un po' sbiadite di una fantasticheria intorno alla precisione: una rilassante,

disintossicante, ma forse troppo prolungata vacanza dai generi. Senza assumersi né la responsabilità

della prosa ne quella della poesia, Ponge sembra intrattenersi con divaganti propositi.

È nel corso delle sue ricerche e nei suoi vari esperimenti sulle modalità fondamentali della

prosa che Italo Calvino, ad un certo punto, incontra Ponge. Di questo poeta insolito, la cosa che

attira di più Calvino è la discrezione, la voce bassa, l'abito di modestia, il tono sommesso di chi fa

prove e «saggi» per misurare i vari sforzi e incidenti di adeguazione delle parole alle cose. Calvino

negli anni settanta stava scrivendo i capitoli del suo Palomar, e faceva quindi a sua volta esercizi di

descrizione delle cose dal vero. Ma già dai tempi delle Città invisibili, dieci anni prima, aveva

provato a imprigionare una narrazione in una descrizione: la favola raccontabile si era trasformata

nella favola racchiusa in un emblema da contemplare nella sua fissità inesauribile. Infine, con le

Lezioni americane, che sono una sorta di autobiografia teorica di scrittore, Calvino mostra la sua

crescente attrazione di prosatore per certe qualità e certi procedimenti del linguaggio dei poeti. O

almeno per la precisione analitica, descrittiva e prosastica di certi poeti, come William Carlos

Williams, Marianne Moore, Eugenio Montale e, soprattutto, Francis Ponge.

L‘amore di Calvino per la poesia non era disinteressato, ma egoistico e utilitario. Mentre

aumentava la concentrazione, leggerezza e rapidità della propria prosa imparando dai poeti, metteva

molto bene in evidenza la sostanza, il sostrato di prosa che rende resistente e vitale il tessuto

stilistico di molti poeti. Non solo poeti antichi come Lucrezio e Ovidio, molto amati da Calvino, che

ragionano e raccontano, ma anche poeti del Novecento intensamente attratti dai mille aspetti del

mondo visibile e portati a trasformare una visione della mente in un'accurata descrizione e

un'accurata descrizione in una favola morale.

Mi chiedo se in futuro non possano essere i più diversi prosatori, Proust o Kraus per

esempio, a influenzare i poeti.

Alfonso Berardinelli

[Da: Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati

Boringhieri, Torino, 1994.]

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UMBERTO ECO

IL SEGNO DELLA POESIA E IL SEGNO DELLA PROSA

Le banalità diffuse dal romanticismo circa l'arte come creatività assoluta, libertà espressiva, e sulla

creatività intellettuale come arte, ci hanno abituato a ritenere che non si possano svolgere né

componimenti poetici né riflessioni filosofiche a tema fisso. Riteniamo che male facessero i sofisti a

imporsi l'elogio o la condanna di Elena come tema per una riflessione intellettuale sulla colpa o

sull'innocenza. E ci pare barocco, nel senso negativo del termine, il comando graziosamente e

preziosamente impartito dalla preziosa al poeta secentesco affinché si esercitasse su un tema scelto

a capriccio. Ma se Rossana non avesse imposto a Cristiano di discettare sul bacio, Cyrano, sotto il

balcone, non ne avrebbe scoperto tante e così poetiche implicazioni. Ringraziamo Rossana, la

creatività è valore che si manifesta solo di fronte a un ostacolo.

E cosi ringrazio gli organizzatori del convegno che mi hanno imposto, prima che io potessi

protestare, il tema "Il segno della poesia e il segno della prosa". Che non pare aver connessioni

immediate né con le giornate filologiche né con il prosimetrum né con lo spoudogéloion, né forse

coi miei interessi semiotici, perché di primo acchito mi son chiesto quale sia e se esista il segno della poesia o il segno della prosa e cosa queste espressioni significhino.

Poi, trattenendomi dall'esigere una modificazione del programma, mi sono detto che la sfida

andava raccolta, e sono a voi per esporvi una serie di riflessioni, ingenue e non sentimentali, sulla

poesia e sulla prosa, forse tra il serio e il faceto, rispettando così parte del programma espresso in

greco ed in latino e rispettando anche il genius loci, perché i genovesi, come noi altri piemontesi, e

specie noi piemontesi di frontiera dell'alessandrino, siamo gente concreta, e credo che di tutte le

definizioni della poesia e della prosa siamo portati a preferire le più terra terra, del tipo "la poesia è

quella cosa che va a capo prima che la pagina sia finita, e la prosa quella che continua sino a che si

possa sfruttare una porzione di carta, riducendo al massimo i margini, perché la carta costa, anche in

senso ecologico, e piuttosto di andare a capo troppo in fretta si accetta anche di spezzare una parola

in due, ciò che la poesia di solito non fa, salvo nei deliri della più estrema avanguardia, e guardate

quanto tira lunghi i suoi versi, l'avanguardista Sanguineti, da buon genovese, pur di non comperare

un altro quaderno".

Quale è la differenza tra serio e faceto? Quello che vorrei suggerire è che la facezia è spesso

via alla verità, e che le cose un poco facete che ho detto sinora andranno prese con la massima

serietà, perché nell'imbroglio in cui mi trovo è dalla definizione testé fornita (la poesia va a capo

prima della prosa) che vorrei partire.

Anche perché, e sia questo non ultimo omaggio a questo consesso di filologi classici, così ci

hanno insegnato gli antichi, che hanno se non altro il merito di averci fornito un aggancio

etimologico (come è loro costume) e di averci messo di fronte a un punto di partenza da cui non

possiamo prescindere, per tanto che gli estetologi abbian detto dopo: perché di qui non si scappa,

prorsus è ciò che va in linea retta e diretta, teste Quintiliano (Institutio, I, 8, 2), mentre versus è il

solco, il filare, ciò che va per un po', poi s'arresta e, o torna indietro bustrofedicamente, o riprende

da dove era partito, ma una riga sotto.

Dunque partiamo di qui, e cioè da ciò che tutti sanno: che un articolo di giornale è prosa e

che la Vispa Teresa è poesia. Magari nessuno dei due è arte, ma l'uno è non arte in prosa e l'altro è

non arte in poesia. E che, nel campo dell'arte, se il Rimbaud della Saison en enfer passa da una

pagina in cui va a capo quando arriva al margine a una pagina in cui va a capo molto prima, una

differenza ci sarà, e questa differenza non ha nulla a che fare con l'arte perché, sfido chiunque a

negarlo, la Saison è arte sempre. Per quale ragione Rimbaud decide di amare la prairie in rima e il

desert in prosa? Non lo so, o non lo so ancora, e in questa sede non voglio saperlo, perché non

discuterò che cosa sia l'arte. Mi avete solo chiesto di distinguere la poesia dalla prosa.

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E di distinguerla, immagino, da semiologo, perché avete usato la parola "segno". A questo

mi atterrò. Sono avvantaggiato dal fatto che il segno (ammesso che esista, dato che molti ne

discutono) è un artificio umano usato per porre qualcosa al posto di qualcos'altro, e questo artificio

viene usato per molte funzioni, per indicare cose e stati del mondo, per impartire ordini, per

manifestare desideri, per suscitare passioni, per parlare di altri segni e talora per provocare una sorta

di conoscenza mista a diletto che variamente si chiama piacere estetico, o artistico, o anche poetico.

E di questo parlerò: di cosa voglia dire usare dei segni (nella fattispecie parole o sequenze di parole)

per produrre testi che vengono qualificati come poesia o come prosa.

Parlerò cioè di due modalità di uso dei segni, mentre i segni di per sé sono per così dire

anteriori a queste modalità. Infatti posso dire "une fleur" in tanti modi, al fioraio per ottenere una

merce, al botanico per indicargli le caratteristiche di un tipo specifico di vegetale, a una sposa per

lodarne, non molto poeticamente, la salute. Ma quando Mallarmé dice "une fleur!", lo sappiamo,

"musicalment se lève, idée même et suave, l'absence de tous bouquets". E qui occorre che quello

che era un segno sia posto in una qualche posizione strategica, o tra altri segni verbali o nello spazio

acconcio di una pagina sufficientemente bianca.

È nel trovare e produrre, o annullare, questo bianco intorno a una parola (oppure sostituire il

bianco con un silenzio, l'andare a capo con un respiro) che si stabilisce la differenza tra prosa e

poesia. Occorre essere espliciti e affermare con Zirmunskij che "il linguaggio poetico si distingue

dalla prosa per l'ordinamento regolare del suo materiale fonetico". Questo ordinamento regolare può

essere di tanti tipi, purché il poeta si sia imposto una regola. E il materiale non deve essere

necessariamente o solo fonetico: la regola può essere anche grafica. Grafica o fonetica che sia, la

regola impone un ritmo. "Regolare alternarsi nel tempo o nello spazio di fenomeni omogenei"

(Tomacevskij), il ritmo in poesia ha una funzione predominante, non vicaria, non occasionale, come

ci ha ripetuto Tynijanov.

Dobbiamo quindi rifiutare subito una accezione troppo lata del termine poesia, tanto per

capirci, quella crociana e non solo crociana, per cui la categoria della poesia diventa coestensiva a

quella dell'arte, e non solo dell'arte verbale. Se accettassimo e incoraggiassimo questo equivoco,

tanto varrebbe cambiare argomento e interrogarci su cosa sia l'arte. Interrogativo illustre, ma che

per il momento non ci riguarda. Come non ci riguarda, per il momento, spiegare perché una delle

modalità d'uso dei segni a fini artistici ed estetici (non discuterò neppure questa opposizione o

omonimia che dir si voglia) sia diventata, per curiosa e certamente motivata sineddoche, il nome di

quella attività che tanto bene esemplifica senza tuttavia esaurire.

Visto che abbiamo deciso di definire la poesia e la prosa come due modalità di uso dei segni

dobbiamo cercare la poesia come modalità d'uso anche là dove Croce avrebbe visto solo letteratura,

e cioè nella Vispa Teresa o nei versi del signor Bonaventura. Così come dobbiamo trovare la prosa

anche là dove Croce avrebbe parlato di poesia per dire che un romanzo gli andava a genio.

L'estendere il poetico all'estetico non è stato solo un vizio crociano. Aveva cominciato Aristotele,

quando aveva individuato la poesia come discorso sul possibile e sul verisimile, contro la storia

come discorso sul fattuale. A giustificare la decisione aristotelica sta forse il fatto che ai suoi tempi

il discorso sul verisimile, dal poema epico alla tragedia, assumeva necessariamente la modalità

poetica in senso stretto, e cioè la forma del verso. Ma non è su questo versante che va individuata la

ragione della sua sineddoche. È che già con Aristotele iniziava il tentativo di identificare il poetico

attraverso il suo effetto sul versante del contenuto.

Sia chiaro che da questo momento mi sto rifacendo alla distinzione hjelmsleviana tra

espressione e contenuto: di conseguenza parlerò di espressione sempre per indicare la faccia

significante di ogni segno o sequenza di segni, senza riferimento alle connotazioni "poetiche" del

termine /espressione/ così come è staro usato nell'estetica crociana; e parimenti non opporrò

contenuto a forma, ma contenuto a espressione, dato che sia espressione che contenuto sono

soggetti a pertinentizzazione formale.

L'Aristotele della Poetica identifica l'effetto o il risultato poetico con la capacità che la

poesia ha di comunicarci un contenuto universale; tutte le sue indagini sulle manipolazioni

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dell'espressione, anche quando fatte in sede di poetica, riguardano la manipolazione retorica e sono

valide anche per il discorso non poetico. Caratterizzare la poesia per quel che essa realizza a livello

del contenuto serve senz'altro quando si identifichi poesia con arte o effetto estetico, ma non serve a

distinguere poesia da prosa. Tutto quello che Aristotele dice sulla poesia si potrebbe applicare alla

prosa di Stendhal (e infatti la Poetica, più che una teoria della poesia, è una teoria della narrativa;

ma d'altra parte Aristotele con poièsis non intendeva ancora quello che noi intendiamo con poesia, e

quindi il problema andrebbe visto altrimenti).

Ma deve essere chiaro, che ogni volta che si tratti di identificare la poesia con una modalità

di produzione segnica che affetta principalmente il contenuto di una espressione, si perviene

all'accezione "lata" di poesia. Si veda quanto avviene, in tempi ben più recenti, con la Rhétorique de

la poésie del Groupe μ, dove il poetico viene identificato con una particolare struttura semantica

(anthropos, logos, kosmos). Non intendo soffermarmi ora su questo approccio: non è chiaro se esso

lasci fuori dalla poesia il signor Bonaventura e la Vispa Teresa, ma è certo comunque che con un

minimo di buona volontà si può ritrovare la dialettica logos-anthropos-kosmos anche in opere dette

di prosa, dai Promessi Sposi alla Critica della Ragion Pura.

Ancora una volta, ammesso che la Rhétorique de la poésie (1) sia una buona teoria dell'arte

(o almeno di quella verbale), essa non costituisce una definizione soddisfacente di cosa sia poesia in

senso stretto in quanto distinta dalla prosa.

Naturalmente il Groupe μ si muove nell'ambito strutturalista, e conosce la lezione

Jakobsoniana, per la quale il poetico nasce da un particolare modo di legare espressione e

contenuto. A questo mirano infatti le nozioni di ambiguità e auto riflessività del messaggio poetico,

e tipico della lezione Jakobsoniana sembra l'attenzione portata al significante o all'organizzazione

dell'espressione nella misura in cui essa affetta il contenuto.

Tuttavia anche la poetica Jakobsoniana va vista come una teoria dell'arte (verbale) e non

come una teoria della poesia in senso stretto.

Voglio dire che tutte le caratteristiche che Jakobson individua come tipiche del poetico

possono essere estese a quel prosastico a cui si riconosca valore estetico.

Jakobson lo sa in partenza, quando afferma che "il compito fondamentale della poetica

consiste nel rispondere a questa domanda: che cosa è che fa di un messaggio verbale un'opera

d'arte?" Quello che fa di un messaggio verbale un'opera d'arte è "la messa a punto rispetto al

messaggio", come è noto. Perché "l'orribile Oreste" e non "il disgustoso Oreste?" Perché orribile sta

meglio. E perché sta meglio? Perché realizza una paronomasia. Ma come si vede subito dopo,

questo principio della paronomasia, che anticipa e prefigura il fenomeno dell'equivalenza,

fondamentale per la definizione Jakobsoniana del poetico, lo si può ritrovare benissimo anche nella

prosa, vedi lo slogan "I like Ike".

Jakobson ha dato un contributo insostituibile allo studio della semiotica del verso, ma a

questo proposito bisogna osservare che, da un lato, la struttura del verso rappresenta qualcosa che

va al di là del semplice principio di equivalenza, mentre d'altro canto molte delle caratteristiche che

Jakobson attribuisce al verso sono proprie della modalità prosastica, o di altre modalità produttive

in altri sistemi: per esempio il concetto di attesa frustrata si applica anche a una strategia fondata

sulla manipolazione di struttura narrativa e Jakobson stesso lo ha applicato al di fuori del verso, per

esempio alla analisi del significato musicale. La rima rappresenta certo un caso di parallelismo, ma

ci sono casi di parallelismo che non hanno nulla a che vedere col verso e basti citare la sequenza di

onomatopee di cui si sostanzia l'undicesimo capitolo dello Ulysses di Joyce.

E nemmeno mi pare persuasiva l'identificazione della poesia con la metafora e della prosa

con la metonimia. Non solo perché la differenza tra queste due figure è meno netta di quanto si

creda (cfr. il mio "Metafora" sulla Enciclopedia Einaudi(2)) ma perché non si possono ridurre le

leggi della poesia alle leggi della retorica. Molte delle modalità che sono tipiche della poesia

(numerus, clausula, cursus) sono fenomeni che la retorica classica ascrive all‘elocutio,

distinguendoli dalle figure, considerandoli sotto la rubrica dell‘ornatus in verbis coniunctis. Ma

come tali questi fenomeni di compositio sono presenti anche nella prosa. Ciò che caratterizza la

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poesia è l'assumerli come organizzati e prescritti da un sistema di regole particolari. Quindi la

modalità poetica non è caratterizzata da questi artifici retorici, ma dalla decisione di usare questi

artifici in un certo modo.

Nessuna figura della retorica classica è di per sé poetica. Per quanto riguarda le figure in

verbis singulis, nessuna di esse da sola costituisce poesia, neppure la metafora, che pure da molti è

stata presa come metafora di poesia, la quale poesia è presa come sineddoche di arte. Si veda il

recente Metaphors we live by di Lakoff e Johnson, dove si mostra in modo persuasivo come il

linguaggio nel suo complesso sia non solo intessuto di metafore, ma basato sul principio della

metaforicità, anche ai suoi livelli più quotidiani, scientifici e denotativi.

Quanto alle figure in verbis coniunctis anch'esse possono ricorrere sia in poesia che in prosa.

Che la prosa cerchi, poi di evitare, per esempio, l'allitterazione o l‘omoioteleuton, e la poesia invece

li incoraggi, è ancora cosa tutta da vedere.

La prosa di Marinetti incoraggia l'allitterazione e la poesia di Manzoni, come vedremo tra

poco, fa il massimo possibile per evitarla. C'è poesia che evita quella torma di omoioteleuton che è

la rima, e prosa che la sopporta benissimo. Naturalmente siccome il modo di produzione poetico si

realizza, come vedremo meglio, sempre e comunque in verbis coniunctis, si può dire che le figure di

questo tipo sembrano ricorrere con più frequenza in poesia, mentre si può dire che nessuna metafora

(come nessuna metonimia o nessuna antonomasia) presa da sola può permettere la modalità poetica.

Sembra che siamo ad un punto morto: a caratterizzare il poetico in senso stretto non valgono

parametri estetici; non valgono parametri che riguardino il solo contenuto; non basta quella

specifica relazione tra espressione e contenuto che si può manifestare come parallelismo o come

autoriflessività del messaggio; infine non valgono categorie retoriche. Dove andremo a cercare il

discrimine?

Lo abbiamo detto, dobbiamo partire dalle nostre esperienze più banali, dall'istinto volgare

che induce a riconoscere qualcosa come poesia rispetto a qualcosa che è invece prosa.

Abbiamo a disposizione alcuni criteri. Il primo, che scarterei subito perché dipende dai

seguenti, è editoriale. Non è irrilevante, ma non è indispensabile cercare le ragioni per cui un

editore come Mondadori decide di pubblicare un testo nella collana Lo specchio e un altro nella

Medusa. L'editore sa benissimo cosa il pubblico, magari ingenuamente, si aspetta. Può violare la

regola, ma per ragioni provocatorie, proprio perché la regola esiste e si vuole che la sua violazione

sia sentita come significante (così come decise Vittorini quando pubblicò nella "Medusa" i fumetti

di BC: voleva sostenere che si trattava di buona letteratura e di buona narrativa, ma proprio perché

lui e gli altri sapevano che le regole della narrativa verbale sono diverse dalle regole di quella

narrativa visivo-verbale che è il fumetto).

Il secondo criterio è visivo, grafematico o se volete grammatologico: la poesia, come si è

detto, va a capo prima che sia finita la pagina. Ci deve essere una ragione. Nei calligrammi, nei

carmi figurati, nella poesia spaziata di Mallarmé, la ragione è appunto grammatologia. Nella poesia

tradizionale, e in gran parte di quella moderna, la ragione è fonica. Fonica, non fonologica, e

dunque non grammaticale, non linguistica, caso mai totemica, paralinguistica, soprasegmentale.

L‘andare a capo suggerisce un respiro, impone una pausa.

Questa regola è di solito ignorata dai cattivi attori che recitano poesia ―con sentimento‖, per

far capire che essi ―interpretano‖, ovvero che hanno capito di cosa si parla. Di fronte alla Pentecoste

di Manzoni, un cattivo attore reciterà:

Madre de' santi, immagine della città superna (pausa)

del sangue incorruttibile conservatrice eterna (pausa)

tu che da tanti secoli soffri, (pausa breve) combatti e preghi...

Il buon attore, o il poeta che legge i suoi versi, direbbe invece:

Madre de' santi (pausa breve) immagine (pausa lunga)

della città superna (pausa lunga)

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del sangue incorruttibile (pausa lunga)

conservatrice eterna (pausa più lunga)

Tu che da tanti secoli (pausa lunga)

soffri, combatti e preghi...

La prima regola è dunque che la misura del verso imponga un ritmo fonico (lo spiega molto

bene Jean Cohen ne La struttura del linguaggio poetico) che non ha nulla a che fare col ritmo

semantico, e cioè con quello che sarebbe imposto da ciò che l'espressione vuol dire (le ragioni

remote di questa scelta, le origini della poesia dalla danza, eccetera, in questo momento non mi

interessano).

Qualunque cosa il poeta voglia dire, o si salva nella rottura del ritmo semantico (ovvero ne

emerge un ritmo semantico più profondo, meno abituale, che impone di accentrare l'attenzione sul

contenuto in modo deautomatizzato), oppure si ha il nonsense. La misura del verso è un ostacolo

scelto per provocare un effetto di straniamento semantico. Ecco perché è importante che la poesia

vada a capo, qualsiasi sia la ragione scelta per decidere quando e dove andare a capo. E se in

qualche modo la poesia consente di non andare a capo (e modi di imporre l'a capo ve ne sono di

infiniti, anche quelli imposti dal verso libero, che non ha né metro né rima, ma in qualche modo ha

delle regole magari idiolettali che impongono un certo respiro indipendente dal respiro semantico),

se in qualche modo la poesia permette che non si vada a capo con la voce senza tuttavia perdere

nulla, ecco che il discorso non può essere definito poesia.

Con tutto ciò si è detto che il verso, come artificio espressivo, detta leggi al contenuto. Il che

non equivale a dire che il poetico consiste in un gioco puramente espressivo. Il contenuto deve per

così dire adattarsi a questo ostacolo espressivo, ma riuscirne rinforzato e amplificato.

Ma vediamo intanto cosa caratterizza la prosa. La caratterizza il fatto che l'espressione fa di tutto

per adeguarsi al contenuto. Se il contenuto è una successione di oggetti, la prosa assume il ritmo

parattatico dell'elenco, se è una implicazione di cause ed effetti assumerà quello sintattico di un

periodo denso di subordinate- Il principio della prosa è rem tene, verba sequentur, il principio della

poesia è vero tene, res sequentur. Purché si intenda con res il contenuto, e non dei referenti esterni,

ovvero dei possibili referenti esterni ma già organizzati, pertinentizzati, formalizzati in contenuto.

Dunque il principio di discriminazione non gioca sulla prevalenza del contenuto o dell'espressione,

ma neppure si rifà a una generica adeguazione tra i due livelli, si chiami essa autoriflessività o

parallelismo. Quelle che dobbiamo individuare sono due modalità specifiche di correlazione tra

espressione e contenuto che caratterizzano due diversi modi di costruire una funzione segnica, la

funzione istituita dalla poesia e quella istituita dalla prosa.

A questo punto non posso che rifarmi a una distinzione che ho posto nel mio Trattato di

Semiotica generale e, si noti, non nella prima parte dedicata alla teoria dei codici o alla struttura dei

sistemi di significazione, ma in quella dedicata alla teoria dei processi comunicativi, ovvero dei

modi concreti di produrre segni. In quella sede cercavo di articolare meglio una serie di opposizioni,

ancora ambigue, tra arbitrario e motivato, convenzionale e naturale, simbolico e iconico, attraverso

la opposizione tra ratio facilis e ratio difficilis.

Queste due rationes non riguardano il modo in cui un segno si correla ai propri referenti, ma

il modo in cui una espressione si correla al proprio contenuto. Nella ratio facilis abbiamo una

espressione preformata, e infinitamente producibile come occorrenza di un tipo ben definito, che

viene correlata per convenzione a un certo contenuto. L'espressione /cane/ è fonologicamente

precostituita e foneticamente producibile all'infinito, e solo una convenzione culturale decide se

vada correlata a una serie di proprietà che caratterizzano e delimitano, in italiano, un certo animale,

o a una serie di marche operative che caratterizzano, in latino, l'ingiunzione a emettere suoni vocali.

La ratio difficilis si ha invece quando le modalità di articolazione dell'espressione e i suoi tratti

pertinenti vengono fissati modellandosi in base ai tratti pertinenti del contenuto, attraverso regole di

proiezione più o meno codificate o inventate ad hoc. Così l'espressione costituita dal quadrante

dell'orologio viene organizzata (è stata organizzata per la prima volta ma può venir riscoperta sotto

questo profilo ogni qual volta si riconsideri con freschezza semiotica il quadrante dell'orologio)

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sulla base di un modello di contenuto che mette in forma il movimento apparente del sole intorno

alla terra. A tanto spazio ricoperto dal sole in moto corrisponde proporzionalmente tanto spazio

circolare sul quadrante. Come si vede, il rapporto è tra espressione e contenuto, non tra espressione

e referente o stato del mondo, non solo perché è irrilevante al funzionamento semiotico

dell'orologio che siano il sole o la terra a muoversi, ma perché oltretutto la regola di proiezione

inverte sul quadrante il moto del sole quale lo si concepisce guardando e poi modellizzando il suo

tragitto da est a ovest, per un osservatore con gli occhi al nord.

Ora il linguaggio verbale è quasi sempre ispirato a ratio facilis per quanto riguarda il lessico

e quasi sempre ispirato a ratio difficilis per quanto riguarda la sintassi. II rapporto tra una

espressione singola e il suo contenuto è ispirato a ratio facilis (non c'è rapporto di motivazione tra il

modello di contenuto corrispondente al cane o all'unicorno e la forma delle parole /cane/ e

/unicorno/), tranne casi eccezionali come l'onomatopea (e anche qui il rapporto tra parola e suono

reale è mediato dal contenuto e cioè dalla rappresentazione culturale del suono reale, cosicché il

suono del tuono e il chicchirichì del gallo o l'abbaiar del cane vengono onomatopeizzati in modi

diversi da diverse culture).

In sintassi invece il rapporto è di ratio difficilis, perché la differenza posizionale tra /Pietro

ama Giovanni/ e /Giovanni ama Pietro/ (così come la differenza non posizionale ma flessionale tra

/Petrus Paulum amat/ e /Paulus Petrum amat/) sono prescritte da ciò che si vuol dire. L'espressione

riflette, mappa, imita, mima a modo proprio (e in modi e secondo regole di proiezione variabili da

cultura a cultura) i rapporti di contenuto. Ora se negli esempi citati la ratio difficilis è per così dire

accettata e sovente non riconosciuta come tale, in quei casi di uso estetico del linguaggio in cui sì

parla di parallelismo e autoriflessività del messaggio, abbiamo invenzioni originali secondo

modalità di ratio difficilis non ancora sperimentate. Quindi nell'uso estetico del linguaggio parole

quasi sempre prodotte per ratio facilis sono disposte (e talora prodotte) per ratio difficilis.

Ma mi rendo conto ora (nello svolgere il presente discorso) che la mia opposizione soffriva

ancora dei difetti che rimproveravo a Jakobson e ad altri teorici strutturalisti dell'effetto poetico.

Essa lascia indiscriminata la differenza tra prosa e poesia.

Dirò di più, mi rendo conto ora che essa rende conto solo di quell'uso estetico del linguaggio

che si attua mediante la modalità della prosa. Una bella prosa è appunto quella in cui l'espressione,

manipolata con sapienza, si adatta mirabilmente, in modo insostituibile, a ciò che vi è da dire. Non

sto dicendo che ciò che vi è da dire preesiste al modo in cui lo si esprime: dico che se ciò che vi è da

dire viene espresso bene è perché tutto nell'espressione è sfidato ad adattarsi a ciò che vi è da dire, e

ad imporre persino respiri, ritmi, pause toniche (oppure grafematiche) tali che ciò che vi è da dire

appaia come deve apparire (il che non significa nel modo più facile, ma anzi nel modo più

sorprendente, inaspettatamente evidente).

Cosa intendo dire apparirebbe in modo chiaro se avessimo tempo di rileggerci passo per

passo la prima pagina de I promessi sposi.

Quanto l'espressione mimi il contenuto ce ne rendiamo conto se rileggiamo il brano tenendo

sotto gli occhi una carta geografica. Manzoni non sta partendo da decisioni verbali ma da decisioni

epistemologiche. Egli ha deciso che la sua descrizione dell'ambiente deve procedere anzitutto per

un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di zoom e come se la ripresa fosse fatta

da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti.

Questa prima opposizione tra alto vs basso, ovvero questo primo movimento continuo dall'alto al

basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a individuare (come non si

potrebbe da una altezza "geografica") il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla

decisione, sempre epistemologica, di procedere da nord verso sud, seguendo appunto il corso di

generazione del fiume; e di conseguenza il movimento descrittivo parte dall'ampio verso lo stretto,

dal lago al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all'arredamento minimo

delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.

La visione geografica, man mano che procede dall'alto verso il basso, diventa visione

topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. E come ciò avviene, la pagina compie

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un altro movimento, questa volta non di discesa dall'alto geografico al basso topografico, ma dalla

profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio

concreto, la visione scende dall'alto al basso; a questo punto l'ottica si ribalta, e i monti vengono

visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi. Per cui si dice del

Resegone che "non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte...". E a quel punto anche i pendii e i

viottoli visti prima dall'alto sono descritti come se fossero "camminati", con suggestioni non solo

visive, ora, ma anche tattili. Solo a quel punto il visitatore, che cammina, arriva a Lecco, E qui

Manzoni compie un'altra scelta, non più epistemologica (dal cosmo all'esperienza individuale) ma

direi in termini di consuetudine enciclopedica (che forse ricalca la progressione del Genesi): dalla

geografia passa alla storia. Ed ecco che Manzoni narra la storia del luogo or ora descritto

geograficamente.

È chiaro che le decisioni che Manzoni prende non sono linguistiche, anche se sono ancora

semiotiche. Esse coinvolgono problemi di semiotica della cultura, dello spazio, del corpo, della

percezione. Attraverso di esse egli predispone un modello di contenuto, e del contenuto fa parte la

tecnica di scoperta di un ambiente, tecnica che avrebbe potuto essere anche opposta, Lecco e il lago

via via scoperti da un passeggero umano che vi arriva pian piano, spuntando da dietro una

montagna: ma è ovvio che Manzoni, per ben iniziare, procede con gli occhi della Provvidenza che

ha disposto così il paesaggio, non con gli occhi dei piccoli uomini che lo abiteranno.

Non dico che le decisioni linguistiche seguano questa decisione; forse cronologicamente, nel

senso del progresso dell'invenzione scritturale, la precedono: ma è chiaro che generativamente, alla

luce di una modellizzazione dei vari livelli testuali, le decisioni di contenuto, anche se sono istituite

e concretate dalla scrittura verbale, la precedono, la fondano, ne decidono il destino. Narrare in

prosa non è anzitutto scrivere, è concepire un mondo. La decisione è cosmologica.

Cosa accade invece con la poesia? Il poeta sceglie una serie di costrizioni espressive, e poi

scommette che il contenuto, qualsiasi esso sia, e per quanto esso potesse precedere la scrittura, si

adeguerà alle costrizioni espressive, e tanto meglio se ne verrà modificato. Il poeta guarda al mondo

così come le costrizioni del verso gli impongono. Non solo, ma in tal modo guarda anche alla

lingua. Perché se la prosa, prima che un fatto linguistico, è un fatto cosmologico, la poesia, prima

che un fatto linguistico è un fatto paralinguistico. In. entrambi i casi la lingua è come presa nel

mezzo, e reinventata alla luce di una delle due costrizioni. In entrambi i casi la lingua è determinata

da altri sistemi semiotici. Non è il ritmo (sia esso piede, metro, cadenza libera, verso secondo

l'orecchio o il respiro, cesura fissata arbitrariamente ma in modo ciclico) che si adegua alle parole,

ma le parole che si adeguano al ritmo. Le parole sono scelte dal ritmo. Cosi come in prosa esse

erano scelte dal contenuto. "Orribile Oreste" è antonomasia, ma è prosa, perché a decidere

l'antonomasia sia il fatto che Oreste non sia grazioso.

"Parenti serpenti" è invece poesia, perché è la rima che impone di disprezzare i parenti,

indipendentemente da quanto noi pensiamo dei rapporti parentali. Certo, la rima ammetterebbe

anche "parenti sergenti", che fa meno senso, ed è per questo che la buona poesia impone un

rapporto che appaia necessario tra contenuto ed espressione, tra suono e significato. C'è differenza

tra la poesia come opera d'arte e di conoscenza e il nonsense rimato. E la Vispa Teresa avrebbe

anche potuto sorprendere tra l'erbetta una gentil cavalletta. Ma allo stesso titolo Manzoni avrebbe

potuto rispettare lo stesso approccio cartografico iniziando il suo romanzo con "Quella diramazione

del Lario che, puntando a sud tra due sequenze di dossi...". Ma lo si è detto, qui non si sta cercando

di stabilire la discriminante tra arte e non arte, bensì quella, elementarissima, tra prosa e poesia.

E così dirò che, se in prosa si realizza il caso esemplare di una ratio difficilis per cui

l'espressione si adegua alle esigenze del contenuto, in poesia si attua una ratio che ora definirò

difficillima, in cui il contenuto si adegua alle esigenze dell'espressione.

Come modelli metaforici, citerò l'onomatopea e l'allitterazione. L'onomatopea è prosastica,

la forma dell'espressione deve adattarsi alla forma del contenuto, che precede. L'allitterazione è

poetica: la forma dell'espressione – fondata sulla ripetizione di un suono – detta legge all'invenzione

del contenuto. Come diceva Tynijanov, "in poesia il significato delle parole è modificato dal suono,

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nella prosa il suono è modificato dal significato". Più recentemente Stefano Agosti ricorda che "i

significanti in poesia, se, da un lato, rimandano pur sempre ai significati, dall'altro si costituiscono

invece entità autonome e, al limite, depositarie esse stesse di senso".

Come esempio di ratio difficillima cercherò di ripercorrere la storia di alcune varianti

apportate da Manzoni a una poesia teologica quante altre mai, La Pentecoste, che sembra nata, e

di.getto, nella sua cantabilità di settenari dall'apparenza naturale e facilissima, da una ispirazione

religiosa e morale che abbia preceduto la scelta delle parole.

Giugno 1817, Manzoni abbozza una prima stesura, che inizia in modo assai diverso dall'inno

definitivo, e pone l'accento sul popolo d'Israele e sulla chiesa primitiva ai tempi della passione(3). Monte ove Dio discese, (p, 146)

ove su l'ardue nuvole (s, 146)

Salve o pendice eletta (p, 146)

del solitario Sinai, (p, 146)

Caliginosa rupe (p, 146)

ove ristette Adonaì... (s, 146)

A parte le difficoltà di rendere accettabile la rima in /Sinai/ (si veda l'orrore di quell'Adonai),

Manzoni trova evidentemente che qualcosa non va: sposta, ricompone, arriva alla pietosa soluzione

di: salve o terribil Sinai (p, 146)

salve famoso, ond'Ei (t, 146)

ai liberati Ebrei (t, 146)

il suo voler dettò, (t, 26)

Quando, nell'aprile del 1819, arriviamo al secondo abbozzo, la critica riconosce con interesse

contenutistico che egli, avendo scritto la Morale Cattolica, sposta l'attenzione dal mondo ebraico

primitivo alla chiesa militante nel pieno del suo trionfo ecumenico. Ed ecco che l'inizio suona ora: Madre dei Santi, immagine (s, 146)

della città superna, (p, 146)

del Sangue incorruttibile (s, 26)

conservatrice eterna... (p, 26)

Mutamento di contenuto? In realtà tra queste due stesure noi troviamo qualcosa di molto più

interessante. È che Manzoni nel 1817 aveva decisa la misura del settenario, ma non ancora

l'alternanza delle rime (che tentativamente è ABACBDDC), tipo di costrizione che definisce in

questo secondo abbozzo del 1819 (ABCBDEEF). Ma c'è di più. Quegli imbarazzi tra Sinai, Adonai,

Ei ed Ebrei, derivano anche dal fatto che egli non aveva ancora deciso circa un'altra costrizione, e

cioè se i settenari dovevano avere accenti sulla prima, quarta e sesta sillaba, o sulla seconda e sesta

(se cioè dovevano essere trocaici giambici, o giambici) e sposta nelle varie correzioni i suoi versi,

come se ogni rima fosse buona per qualsiasi cosa, alla ricerca di una soddisfacente soluzione

accentuativa. E inoltre non aveva ancora deciso quali versi dovessero terminare sdruccioli, quali piani e quali tronchi, ma infila tronchi anche a metà strofa. Nella versione 1819 ha deciso

definitivamente che la successione sdruccioli-piani sarà la seguente: sp, sp; sp, pt. E anche se non

ha fissato una regola per il succedersi dell'accento iniziale sulla prima o sulla seconda sillaba, ha

ormai deciso che in ogni strofa deve esserci una alternanza regolata dei due modelli.

Ma ecco che (sempre in questo abbozzo) egli non sa come risolvere una questione di

contenuto (ancora una volta geografica), ovvero il modo in cui dovrà rappresentare la diffusione

della religione cattolica sino agli estremi confini del mondo. Come per il Manzanarre e il Reno, egli

va per sciabolale degne di una compagnia aerea (Manzoni aveva una vocazione cartografica), e per

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il momento decide in questi termini. Dopo aver nominato a volo d'uccello la Vistola e il Tebro, la

Senna e l'Ebro, ecco che si avventura oltre oceano: A te della pacifica (s, 26)

onda i sanguigni liti, (p, 146)

a te si piega il bellico (s, 26)

coltivator d'Haiti... (p, 146)

Segue, alcuni versi più avanti, il Libano.

Ma la faccenda non pare funzionare ancora, anche se l'alternanza sp (e quella degli accenti)

pare corrispondere alla regola che si è posto. Forse ha resipiscenze dal punto di vista del contenuto,

non sa se l'haitiano sia meglio identificato come selvaggio bellicoso o come pacifico coltivatore. E

tenta: Te salvator l'armigero (s, 146)

Padre di tutti il bellico (s, 146)

coltivator d'Haiti (p, 146)

fido agli eterni riti (p, 146)

canta disciolto il piè (t, 146)

Che è bruttarello assai, anzitutto per la faticosità sintattica (l'armigero coltivatore dovrebbe

cantare dio padre di tutti, ballando col piede disciolto e fido ai suoi riti eterni, immagino, o ai riti

eterni della vera religione…). Ma la cosa non può funzionare anche perché, per cedere a una

impennata di contenuto quasi dionisiaco, Manzoni ha dimenticato le costrizioni che si era posto, e si

ritrova tra le mani due sdruccioli di seguito e poi tre piani, e inoltre i cinque versi sono tutti

accentati sulla prima sillaba, e la bella alternanza che si era proposta, sia pure cum grano salis, è

andata a farsi benedire.

Cosa interessa a Manzoni? La bellicità del coltivatore o l'alternanza degli accenti?

L'alternanza.

Ed ecco che nel settembre del 1819 Manzoni tenta un miglioramento, invero assai limitato: Te sanguinose invocano (s, 146)

consolator le sponde, (p, 146)

cui le vermiglie battono (s, 146)

e le pacific'onde; (p, 146)

Te Dio di tutti il bellico (s, 146)

coltivator d'Haiti, (p, 146)

fido agli eterni riti (p, 146)

canta, disciolto il piè. (t, 146)

Troppo poco, la successione di sdruccioli, piani e tronchi può funzionare ma l'accento è

sempre e costantemente sulla prima sillaba.

Nel settembre del 1822, Manzoni riprende, rifonde, e, per amor d'accenti e di sdruccioli, butta

a mare il bellicoso, il coltivatore, gli eterni riti e il piè disciolto, che chiaramente non gli

importavano nulla:

O spirito! Supplichevoli (s, 26)

ai tuoi novelli altari (p, 26)

soli per selve inospiti (s, 146)

vaghi in deserti mari (p, 146)

sparsi dall'Ande al Libano (s, 146)

dalla scogliosa Haiti (p, 146)

sparsi d'Ibernia ai liti (p, 146)

ma di cor uni in Te. (t, 146)

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Dove la successione st è quella buona, ma due soli versi accentati sulla seconda sillaba sono

seguiti da sei versi accentati sulla prima. Di interessante c'è da notare che, per semplificare,

Manzoni scopre che Haiti è montuosa, e sul piano del contenuto questo gli permette di recuperare

connotativamente la bellicosità degli haitiani, perché è noto che i popoli montanari sono

bellicosissimi. Il coltivatore, pazienza, e d'altra parte come si può coltivare sugli scogli?

Nell'ottobre del 1822 Manzoni ritrascrive la precedente versione in pulito, mantiene i primi

quattro versi, e sostituisce così gli ultimi quattro: Dall'Ande algenti al Libano (s, 26)

da Ibernia all'irta Haiti (p, 26)

sparsi per tutti i liti (p, 14)

ma d'un cor solo in te. (t, 146)

Dove si ottengono i seguenti risultati. Gli otto versi ora rispondono mirabilmente al modello

sp, sp, sp, pt; due versi ad accento 2/6 si alternano sempre a due versi 1/4/6; l'arrivo dell'Ibernia

permette un parallelismo di contenuto con l'opposizione freddo/caldo che si sottende all'opposizione

Ande/Libano; l'Ibernia impedisce ad Haiti di essere scogliosa, ma tanto meglio, /irta/ porta le

connotazioni sia di scoglioso che di bellicoso, e inoltre è più poetico. Infine, quel /cor solo in te/ mi

pare meglio di quel /di cor uni in te/ ed è peccato che alla fine, come vedremo, scompaia.

E arriviamo all'edizione definitiva del 1855, che è quasi come quella originale del '22, salvo

che Manzoni alla strofa fatidica apporta correzioni in bozze e mentre il verso finale ritorna ad

essere:

uni per te di cor

(scelta che rimane responsabilità sua della quale non vorrei rispondere), il distico geografico

diventa:

Dall'Ande algenti al Libano (s, 26)

d'Erina all'irta Haiti. (p, 26)

Scelta che lascia perplessi e per due ragioni. Il nuovo toponimo è meno comprensibile del

primo, e non vale sia più arcaico né si vede il perché di tanto snobismo, dato che pur sempre

d'Irlanda si tratta. Inoltre mentre l'accentuazione d'Ibernia è priva di ambiguità, non è chiaro se il

verso, con Erina, debba essere letto 1/4/6 o 2/6, e se fosse buona la prima soluzione (Èrina), si

perderebbe la giusta e simmetrica alternanza dei modelli accentuativi. L'unica spiegazione, a

dimostrare che si ha poesia quando si fissano per bene i criteri di costrizione (e che nessuna figura

retorica da sola fa poesia) e che la /b/ di Ibernia allitterava con la /b/ di Libano, e questo a Manzoni

non piaceva.

Questa è una spiegazione che mette in crisi il mio modello di poesia, perché le ragioni per cui

l'allitterazione viene evitata sembrano di tipo prosastico: una ripetizione di suono imporrebbe un

pietinage sur place in una volata geografica che si vuole senza sosta e trionfale, e quindi qui

l'espressione si adegua alle esigenze del contenuto. Ma il sospetto è salutifero, perché ci dice che i

modelli, compresi quelli di modalità poetica e di modalità prosastica, sono appunto modelli, e si

realizzano poi in modo misto all'interno di contesti detti poesia o prosa a seconda della assoluta

predominanza, non dell'esclusività, di uno dei due.

All'opposto penso che il parallelismo di contenuto (Ande e Erini, fredde, Libano e Haiti,

calde) sia un effetto di senso che non è stato deciso in anticipo, ma derivato come guadagno di

contenuto, premio all'essersi piegato così docilmente alle costrizioni dell'espressione.

Come conclusione diremo che, se il modello di scrittura poetica proposta è valido, la poesia

appare come una modalità che educa all'ostacolo, che tiene in esercizio il contenuto, ovvero tiene in

esercizio il pensiero, perché si tratta di dire qualcosa di accettabile anche se lo dice per tener fede a

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una costrizione puramente espressiva. Col che si vede che il principio di adeguazione del contenuto

alla espressione è ratio difficillima perché, ancorché risolversi in bieco formalismo, come

accadrebbe nella cantilena e nel nonsense, riesce bene e vittorioso quando il contenuto è sfidato a

ripensarsi in modo inatteso ma non vuoto. La poesia produrrebbe allora creatività a livello del

contenuto attraverso un'automatizzazione dell'espressione. Il che è bell'esercizio ginnastico, e ci

dimostrerebbe che la poesia è salute.

Rimarrebbero da esplorare le situazioni di frontiera che si dà il caso siano la norma: e cioè i

casi di attualizzazione della modalità poetica nell'esercizio della prosa e viceversa. Perché dovrebbe

essere ascritta a modalità prosastica la faticosa sintatticità di Proust, che deve riprodurre nel

linguaggio i ritmi congetturali ed esplorativi della memoria, ma è lecito il sospetto che, solo dopo

aver preso una decisione di sintatticità assoluta, per non essere come il paratattico Hemingway,

Proust abbia veramente realizzato la sua vocazione di rimemoratore a tempo pieno. Il che vale a

dire che, sempre, una scelta di stile coerente, instaura il principio della poesia nella prosa, e questo

vale a giustificare quanti hanno identificato il poetico con l'estetico, e col trionfo dello stile, tout

court. Ma del pari, ogni qual volta un modello non linguistico di contenuto ha diretto la scelta delle

cadenze linguistiche, anche in un poema, il principio della prosa si instaura nella poesia.

Ma oggi si trattava solo di delineare dei modelli euristici, partendo dalla domanda "perché la

poesia va sempre a capo prima della fine del foglio?" A questa domanda, almeno, spero di avere

risposto.

Umberto Eco

[Da: Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985.]

Note.

(1) Bruxelles, Complexe, 1977.

(2) Ora in U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984.

(3) nei versi che seguono, p/s indica l‘alternanza di piani e sdruccioli, mentre i numeri da 1 a 6 indicano le

sillabe su cui cade l‘accento.

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SCENARI EUROPEI

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GIANFRANCO CONTINI

«SANS RYTHME»

«Une prose poétique, musicale sans rythme et sans rime»: tale la celeberrima definizione che del

modello ideale baudelairiano dà la lettera-dedica a Houssaye. Ma è ben noto che, pur in assenza di

rime, la realizzazione difficilmente si potrebbe chiamare aritmica, se non nel senso restrittivo che

non vi è perseguita la ricerca sistematica d'un'iterazione di misure. Nella stessa dedica si riverbera a

ritroso la fenomenologia dei Petits poèmes propriamente detti, il cui centro è costituito dalla

frequenza dell'emistichio di alessandrino, tesa al limite della sua immediata ripetizione, e perciò

della ricostituzione del verso.

Basta esaminare la struttura del primo paragrafo per ricavarne la prova della non-aleatorietà

(ciò che non significa di per sé intenzionalità cosciente) dei fatti. Esso termina infatti con un

alessandrino: «j'ose vous dédier le serpent tout entier», la cui infrazione alla canonicità consiste

puramente nella rima interna, che a sua volta rima con l'«amuser» precedente; questo sembra anche

il solo caso di ritmo rafforzato dalla rima, sia pure, trattandosi di rima non ricca, di rima pochissimo

baudelairiana, sprovvista del suo vero tratto pertinente. Ora, ogni clausola nel paragrafo (innanzi a

forte pausa, segnata tipograficamente da punto fermo, in un caso da punto e virgola) è un emistichio

di alessandrino («le lecteur salecture», «se rejoindront sans peine», «peut exister à part»): la

posizione rende probabile che questa misura sia significativa, mentre da soli gli esempi ìnterni

(«puisque tout, au contraire», «seront assez vivants», ecc.) non riuscirebbero perentori.

Alcune altre clausole sono alessandrine («alternativement et réciproquement», «nous offre à

tous, à vous, à moi et au lecteur» di seguito a «cette combinaison»), rendendo ugualmente

incontestabili gli alessandrini interni («dont on ne pourrait pas dire, sans injustice», «car je ne

suspends pas la volente rétive»). La sola eccezione parrebbe allora «[d'une] intrigue superflue»,

emistichio crescente di una sillaba, se esso non fosse preceduto da un emistichio sintatticamente

legato, contenente infatti il determinato «au fil interminable»: la somma produce un « alessandrino

doppiamente crescente» più simile d'ogni altro all'andatura d'un alessandrino classico, in particolare

baudelairiano, «au fil interminable + d'une intrigue superflue». Alessandrini crescenti saranno più

oltre «n'a-t-il pas tous les droits a être appelé fameux?» e addirittura quello finale della dedica

(anomalo per il ce enfatico), «d'accomplir juste ce qu‘il a projeté de faire».

Agli «alessandrini crescenti a destra» (che si comportano «glissando » su un'e muta,

intrigue, appelé, projeté, non più centro di sillaba) fanno riscontro quelli che si possono chiamare

«alessandrini crescenti a sinistra», caratterizzati da emistichi sinistri in -ie(s) non sinalefizzati con

una vocale iniziale a destra. Tale «ou plutôt d'une vie moderne et plus abstraite», che dunque è in

realtà, secondo l'ortodossia tradizionale, la somma di due emistichi. A iniziale di paragrafo, punto

quasi altrettanto visibile che la clausola, si può per esempio avere un numero dispari di emistichi,

uno, «Mais, pour dire le vrai», ma fino a tre, «Quel est celui de nous | qui n'a pas, dans ses jours |

d'ambitïon, rèvé». È dalla fusione sintattica di coppie di simili emistichi che nasce l'alessandrino, un

cui ultimo esempio è «du croisement de leurs innombrables rapports».

Un'analisi affine si può allargare con risultati non meno probatori ai singoli poèmes en

prose. Se ne possono citare alcuni provvisti di qualche interesse generale. Così, la clausola-

emistichio compare fin dal primo (L‟Étranger): «les merveilleux nuages!» che rinnova nella sua

misura, a poche sillabe indeclinabili d'intervallo («là-bas... là-bas...»), il sintatticamente parallelo

«les nuages qui passent…». In un largo numero ci viene innanzi un compiuto alessandrino, talora

fra i più straordinari che Baudelaire abbia scritto: «au loin je ne sais quoi avec ses yeux de marbre»

(Le Fou et la Vénus; se si tien conto della caratteristica che antecede questa mantissa, «Mais

l'implacable Vénus regarde», dove si isola l'emistichio «l'implacable Vénus», si ottiene il duplice

ricordo dei finali di Don Juan aux Enfers, «Mais le calme héros […] | Regardait le sillage [...]», e

del precedente L'Homme et la mer, «[...] ô frères implacables!»); «servir de confident aux douleurs

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solitaires» (Les Veuves); «est incommunicable, + même entre gens qui s'aiment!» (Les Yeux des

pauvres); «Mon Dieu! Seigneur, mon Dieu! faites que le dïable | me tienne sa parole!» (Le joueur

généreux); «[et] graviter vers la gloire ou vers le déshonneur» (Les Vocations; dopo una cascata

ritmica in cui si accumulano un alessandrino, «allant, à son insu, selon les circonstances», e un

doppio emistichio, «mûrir sa destinée, scandaliser ses proches»). La combinazione si complica se

una clausola alessandrina risponde, mordendosi la coda, a un attacco ugualmente alessandrino. À

une heure du matin comincia «Enfin! Seul! On n'entend plus que le roulement» e termina su «[je]

ne suis pas inférieur a ceux que je méprise!», trascurando i pianerottoli intermedi. Si rilevi anche la

figura offerta da Le «Confiteor» de l'artiste: aperto da un bellissimo alessandrino doppiamente

crescente («Que les fins de journées + d'automne sont pénétrantes!»), continua con alessandrini di

affine irregolarità a inizio di ogni altro paragrafo («[Grand] délice que celui de noyer son regard»,

«Toutefois, ces pensées, + qu'elles sortent de moi»), tranne l'ultimo che si compensa con un

emistichio terminale («avant d'ètre vaincu»). Naturalmente questa antologia di alessandrini-fuori-

dei-versi perderebbe alcuni dei suoi lemmi più illustri se trascurasse, oltre gli interni, quelli finali, se

non di poème, di paragrafo; «[et] remplissait la maison de ses glapissements» (Le Désespoir de la

vieille, ogni cui clausola è un emistichio, «sans dents et sans cheveux», «des mines agréables »,

«que nous voulons aimer!»), «la curïosité et l'admiratïon», «minute par minute, + seconde par

seconde!» (La Chambre doublé, grondante in séguito di alessandrini interni, «il n'est plus de

minutes, + il n'est plus de secondes!», «ce taudis, ce séjour de l'éternel ennui», «mais si plein de

dégoût, un seul objet connu»).

Un'attenzione particolare meritano i tre poèmes dello Spleen che hanno ugual tema e titolo in

altrettanti delle Fleurs, La Chevelure (poi quello in prosa Un hémisphère dans une chevelure: che è

un doppio emistichio acefalo), L'Invitation au voyage, Le Crépuscule du soir. Per la verità un

rapporto diretto coi versi si ha soltanto nel primo caso: gli altri due testi poetici, particolarmente

L‟invitation che non ha nessun rapporto con l'alessandrino, sono già tanto lontani da non aver

lasciato tracce formali nei loro omonimi in prosa. Con La Chevelure si pone invece un problema di

cronologia relativa, che qualcuno è stato addirittura tentato di risolvere nel senso opposto a quello

che è ovvio le altre due volte, in maniera disforme dalla successione delle stampe principes (1857 la

prosa, 1859 la poesia). Il punto di stile che qui interessa è in grado di contribuire alla soluzione.

Il glorioso finale del penultimo pentastico suona: Sur les bords duvelés de vos mèches tordues

je m'enivre ardemment des senteurs confondues

De l'huile de coco, du musc et du goudron.

Ed ecco il finale, sintatticamente distinto (nei due casi precede punto e virgola),

dell'ugualmente penultima lassa prosastica (le lasse corrispondono ordinatamente ad altrettante

strofe): «sur les rivages duvetés de ta chevelure je m'enivre des odeurs combine du goudron, du

musc et de l'huile de coco». Non sembra sussistere dubbio sull'entropia del rifacimento: soprattutto

inverosimile sarebbe che bastasse un colpo di pollice, invertendo esattamente l'ordine dei termini, a

ottenere un così sublime alessandrino (l'eventuale della prosa, nella sua abnormità, sarebbe «du

goudron, du musc et | de l'huile de coco»), inverosimile in subordine la seriatura «du goudron, du

musc», dal più esteso al meno esteso, concepibile solo polemicamente (l'ordine nella sua unità

primitiva, cioè l'emistichio, è infatti quello normale). Con questo, tuttavia, va detto addirittura, non

si persegue nel passo, o almeno non si consegue, una messa in prosa radicale che elimini qualsiasi

traccia del linguaggio poetico (si pensi alle vestigia esametriche permanenti in prosificazioni come

il frammento dell'Aja o lo Pseudo-Turpino) : se «rivages» per «bords» annulla l'impronta del verso,

«des odeurs combinées» per «des senteurs confondues» lascia persistere l'emistichio, della prosa

inoculando puramente l'abbassamento di tono. In questa lassa, del resto, s'introduce ex novo uno

splendido alessandrino, «resplendir l'infini de l'azur tropical», oltre gli emistichi «je respire l'odeur»

e «à l'opium et au sucre». Baudelaire, nonostante tutto, parla, per così dire, naturalmente in

alessandrini o loro frammenti anche là dove li smorza e riduce.

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Altra prova dell'anteriorità del verso si ricava dalla chiusa della quarta strofa,

D'uri ciel pur où frémit l'éternelle chaleur.

La prima redazione in prosa legge «sur un ciel immense où fremit une chaleur éternelle», la

definitiva «sur un ciel immense où se prélasse l'éternelle chaleur». Se veramente il testo in versi

procedesse da quello (originario) in prosa, questo si trasformerebbe (né di per sé l'ipotesi d'una

doppia e press'a poco coeva rielaborazione sarebbe assurda) e in poesia (dove si serberebbe «où

frémit») e in prosa (dove si serberebbe «immense»). Tanto in questo caso quanto nell'altro più

semplice in cui la poesia preceda, si assiste comunque alla ricostruzione, se non d'un impeccabile

alessandrino, d'un doppio emistichio, «immense où se prélasse + l'éternelle chaleur», per ottenere il

quale si rifabbrica attraverso il verso o, nell'ipotesi più verosimile, si recupera dal verso primigenio

«l'éternelle chaleur». La lassa si arricchisce degli emistichi «de chants mélancoliques » e (questo

secondo solo nella terza e ultima redazione, Un hémisphère...) «fines et compliquées». E simili

acquisizioni s'incontrano, magari in fattispecie meno appassionanti, in ogni lassa, toltane la quinta,

assolutamente prosastica. La prima offre l'inizio (dunque assoluto) «Laisse-moi respirer longtemps,

longtemps, l'odeur» e «plonger tout mon visage, + comme un homme altéré»; la seconda, l'attacco

«Si tu pouvais savoir», l‘interno «j'entends dans tes cheveux! » e soprattutto la clausola «comme

l'âme des autres hommes sur la musique» (eco del verso «Comme d'autres esprits voguent sur la

musique»); la terza, gli emistichi «contiennent tout un rêve» (resto del verso «Tu contiens, mer

d'ébène, un éblouissant rêve»), «plus vaste [poi bleu] et plus profond», il doppio «dont les

moussons me portent + vers de charmants climats» (da altro «climats» in rima), il doppio finale

«par les fruits, par les feuilles + et par la peau humaine». Solo riduttiva diventa l'ultima, dove

«mordre, mordre longtemps» in Un hémisphère... perde un «mordre», e l'alessandrino «[je] mordille

tes cheveux solides et crépus» è smantellato dal sostitutivo binomio «élastiques et rebelles», tanto

più forse perché gli tiene dietro, a chiusura del poemetto e quasi a rispecchiamento del canonico

inizio, il simil-alessandrino (con «je» enfatizzato) «il me semble que je mange mes [poi des]

souvenirs».

La divaricazione fra Le Crépuscule du soir in versi e il petit poème suo omonimo risalta dal

loro associarsi in quella che è per quest'ultimo l‘editio princeps. In esso, s'intende secondo tale

redazione più antica, manca ogni presenza di alessandrino, ma non un certo numero di emistichi

hexasyllabes, di cui alcuni in posizione demarcativa, finali di periodo («fait la nuit dans le leur») o

di paragrafo («éclairent mon esprit») o addirittura del poemetto («et m'étonne toujours»), iniziale

una volta di paragrafo («Mais j'ai eu deux arms»). Nessuno di essi permane nella redazione

definitiva, molto modificata, l'ultimo esempio citato scompare anzi anche prima (per sostituzione di

«Cependant» a «Mais»). Nella definitiva ritroviamo ancora alcune microcadenze interne («un

excellent poulet», «plus sombre, plus taquin», «d'une réte intérieure») che il lettore comune

potrebbe essere tentato di credere obbligatorie e non significanti, pur pensando ai toni bassi che

dominano la parte finale della poesia, se qualche dato non allarmasse l'attenzione. Anzitutto: la

clausola (davanti a punto e virgola) «sa maîtressei et son fils» è surrogata, ma a parità di lingua

colloquiale, da «sa femme et son enfant»; come mai non intervengono in questa fenomenologia né*

«sa maîtresse et son enfant» né* «sa femme et son fils» se non perché non deferiscono a uno

schema, per così dire, congenito, fondamentale (in positivo o in negativo)? Ancora: la serie più abbondante di correzioni, a prova dunque d'insoddisfazione, è nella lezione primitiva la

consecuzione «La venue du soir gâtait les meilleures choses» – idem, ma con «pour lui» inserito

dopo il verbo – «Le soir, précurseur des voluptés, lui gâtait les choses les plus succulentes»;

finalmente la lezione definitiva, introducendo «profondes» dopo «voluptés», placa l'inquietudine

dell'autore (e l'enunciato, così baudelairianamente approfondito, simmetrizza sostantivo e aggettivo,

connotato questo da costanti foniche), ma frattanto la placa attraverso il consueto rimedio

dell'emistichio, «des voluptés profondes». A questo punto non ci si meraviglierà più di constatare

che il passaggio da ritmicità ad aritmicità, denunciato dai luoghi demarcativi, ceda il posto, a più

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accurato scrutinio, a un andirivieni che perennemente discuta, in fatto, la categoria di ritmicità.

Perdita di ritmicità convenzionale, nel passaggio da primo a ultimo stadio della redazione definitiva,

denunciano la riduzione dell'alessandrino «crescente a sinistra» (consecutivo al vero alessandrino

«du haut de la montagne arrive à mon balcon») «à travers les nuées transparentes du soir» mediante

la sostituzione con «nues» e quella dell'emistichio clausulare «doux et tendre et brillant!» mediante

la soppressione di et brillant. Ma questo mostra il transito da «hospice des Antiquailles» a «hospice

perché sur la montagne» (quasi a contatto, per di più, col triplo emistichio in cui si imbricano due

alessandrini, «[en] contemplant le repos de l'immense vallée, hérissée de maisons»); l'ampliamento

di «mais sur lui-même» (ereditato dalla prima redazione) con l'inserzione di«aussi» dopo «mais»; il

passaggio da «les feux des lampes» a «les feux des candélabres»; la formazione del doppio

emistichio (ad apertura di paragrafo) «On dirait encore une + de ces robes étranges», dove «une»

risulta da «d'une». Questi piccoli ritocchi arricchiscono un testo dove già allignavano altri tripli o

doppi emistichi («apaisement se fait | dans les pauvres esprits | fatigués du labeur», «les lourdes

draperies + qu'une main invisible», «les splendeurs amorties + d'une jupe éclatante»). Quanto più ci

si allontana nel tempo dai distici del Crépuscule du soir poetico, tanto tornano ad abbondare gli

atomi del tessuto alessandrino.

Se con La Chevelure si aveva una derivazione immediata dal testo poetico e con Le

Crépuscule du soir un mero ricordo dello schema che vi è istituzionale, L'Invitation au voyage offre

ancora un'altra situazione, poiché vi è abbandonata quasi ogni memoria della specifica base metrica,

in tutto remota dall'alessandrino che pur domina le Fleurs (è eccezionale che clausole come «et mon

dahlia bleu!» o «qu'a peint mon esprit, ce tableau qui te ressemble?» rammemorino «De tes traîtres

yeux» o «Aimer et mourir | au pays qui te ressemble!»); in compenso abbondano, non meno che nei

casi fin qui esaminati, le tessere settenarie e le loro derivazioni, fino alla chiusa «de l'Infìni vers

toi». Per misurarne la portata dà anche qui sufficiente materiale la collazione con gli stati

precedenti. La prima clausola di periodo, «avec une maîtresse chérie», diventa totalmente

l'emistichio (crescente) «avec une vieille amie» (precede già «un pays de Cocagne», segue quasi

sùbito l'alessandrino «l'Orient de l'Occident, la Chine de l'Europe», poi l'emistichio «s'y est donné

carrière»). Nel secondo paragrafo l'alessandrino «où le luxe a plaisir à se mirer dans l'ordre»

(immediatamente preceduto da «riche, tranquille, honnête») risulta dalla soppressione di «l'air de

prendre» fra «a» e «plaisir», e «[...] l'imprévu sont exclus» sostituisce «[...] l'imprévu n'existent

pas», imbricandosi con «exclus; où le bonheur est marié au silence», più «[où] la cuisine elle-

même». Il terzo, che ne è in sostanza una variazione, gronda e grondava di emistichi, solo in parte

coincidenti, ma l'alessandrino «qui s'empare de nous dans les froides misères» (anche nel penultimo

stato) surroga un primitivo «qui s'empare de notre esprit dans les plus dures misères», quasi a

compensare la perdita di «ta Mignon, ta Mignon aimée et protégée». Nel paragrafo che, solo, è

aperto da un alessandrino («Sur des panneaux luisants, ou sur des cuirs dorés»), un semplice «et» lo

separa da una successione di emistichi che nel centro si costituisce in alessandrino, così (secondo il

testo primitivo); «d'une richesse sombre + vivent discrètement des peintures heureuses, + pleines de

calme, comme + les âmes des artistes », interventi successivi hanno attaccato la parte fra

«peintures» e «comme» – attualmente «béates, calmes et profondes» –, lasciando intatto

l'alessandrino, ora chiuso su «béates», e sopprimendo unicamente il ritmo dell'elemento successivo,

sintatticamente artificiale; ma perfino questa tenue riduzione, che in fondo è come se rettificasse un

equivoco, trova un compenso poco più oltre, dove «[des] âmes civilisées» si migliora ritmicamente

in «des àmes raffinées», circondato da una moltitudine di clausole affini. Anche nel séguito,

gremito a profusione di emistichi che talora si saldano in alessandrini impeccabili («comme dans la

maison d'un homme laborieux», «cet ordre, ces parfums, ces fleurs rniraculeuses », «tout chargés de

richesses, et d'où montent les chants», «tout en refléchissant les profondeurs du ciel»), per un

emistichio che se ne va («plus l'âme est délicate», simmetrico a «l'éloignent du possible», si dilata

in «plus l'âme est ambitieuse et délicate») un altro permane attraverso la modificazione («combien

comptons-nous d'heures» per «combien y a-t-il d'heures»), entro un periodo aperto del resto da una

frazione omologa, «Chaque homme porte en lui». Tanto lusso si presta a una sola interpretazione,

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che epigraficamente si potrà enunciare come trasformazione dell‘Invitation in un equivalente della

poesia in alessandrini.

«J'ai une petite confession à vous faire. C'est en feuilletant, pour la vingtième fois au moins,

le fameux Gaspard de la Nuit, d'Aloysius Bertrand [...] que l'idée m'est venue de tenter quelque

chose d'analogue, et d'appliquer à la description de la vie moderne [...] le procédé qu'il avait

appliqué a la peinture de la vie ancienne, si étrangement pittoresque». Questa insigne chiamata di

correo, contenuta nella dedica dello Spleen de Paris, puntualmente sollecita a un collaudo sul

«precursore» di ogni proposizione formulata circa i petits poèmes, e all'obbligo non può sottrarsi il

presente suggerimento. È da dire sùbito che, con tutto il grondare che anche Gaspard fa di emistichi

di alessandrini, e il non infrequente raggruppamento binario o magari di grado superiore, in

posizione il più delle volte casuale, eppure in non pochissimi casi significativa, se ne ricava

un'impressione complessiva totalmente diversa. Se il verso archetipo dominante – poco importa a

che livello di consapevolezza e di programma – lo Spleen è un alessandrino mediante fra Racine e

Ìe Fleurs, non sembra accidentale che il motto di Gaspard sia composto in alessandrini, ma in quelli

più seducentemente prosaici delle Consolations sainte-beuviane, «Ami, te souviens-tu qu'en route

pour Cotogne […]»: uno schema da certo Victor Hugo accennante verso Francois Coppée, nel cui

campione letteralmente figura, perfino con la stessa andatura ternaria, il «Piove. È mercoledì. Sono

a Cesena» di un francese del 1830, «Un dimanche, à Dijon, au cœur de la Bourgogne». La parola di

Bertrand è (retrospettivamente) calante di molti toni rispetto allo Spleen, appartiene infatti al

dominio del «pittoresque», non a quello, che Baudelaire gli oppone, di una vita «plus abstraite»,

cioè del presente eterno.

Accade allora che fin dal primo paragrafo di Gaspard l'alessandrino faccia un'apparizione

centrale, in sostanza iterandosi a ritroso: «[…] qui a initié son cœur. – Enfance et poesie! Que l'une

est éphémère, et que l'autre est trompeuse!»; esso si rinnova poi, al termine del brevissimo

paragrafo, nei simili-alessandrino «ses fleurs sont parfumées + et ses fruits sont amers». Ma la

liricità è di tenue durata. Non per niente i prossimi alessandrini sono «joueurs de violon et peintres

de portraits» e «s'échappa a son insù une fleur desséchée», e gli emistichi intercorrenti della portata

di «J'étais un jour assis», «ainsi nommé de l'arme», «et du peintre Guillot», «La toux d'un

promeneur» (inizio di paragrafo), «C'était un pauvre diable» (inizio del periodo successivo),

«misères et souffrances» (chiusa dello stesso periodo), «dans le même jardin», «son feutre

déformé», «brosse n'avait brossé» (che a rigore fa alessandrino con quanto precede, incatenandosi al

lemma anteriore, «déformé que jamais»), «sa physionomie», «chafouine et maladive»,

«condamnent à courir», «Nous étions maintenant» (altro inizio di paragrafo). Sono esempi la cui

qualità sembrerebbe a prima vista deporre per la loro natura interamente aleatoria, non so (perché

me ne manca purtroppo la tecnica, mentre qui ci vorrebbe un Monod della filologia) se

numericamente prevedibile col calcolo delle probabilità. Certo, se tutti fossero del tipo «et du

peintre Guillot », citabile solo per probità di completezza sì da portare l'elencazione al limite del

ludicro, la risposta positiva non si farebbe aspettare: sono i dati sintattici di posizione rilevante, le

incatenature, le simmetrie, le duplicazioni a far propendere per la tesi della pertinenza (in senso

tecnico), almeno nella forma attenuata che, posta la cultura francese del verso discorsivo e teatrale,

un assunto di prosa in qualche modo poetica importa «naturalmente» strutture ritmiche che gli si

riferiscano. (È una questione affine a quella, in realtà qualche volta caricaturalmente affermata,

dell'endecasillabo entro la prosa italiana, alla cui soluzione dava un valido contributo Eugenio

Montale il giorno che mi segnalò gli endecasillabi regnanti, dal manifesto affìsso in una stazione,

negli enunciati di una notissima impresa: «Scuole riunite per corrispondenza. Impiegati, operai e

contadini!»), Non nego che alessandrini rischino d'incontrarsi dappertutto: apro a caso il primo libro

raggiungibile con la mano, che si trova esser opera di autori addirittura non francofoni (il Répertoire

métrique di Mölk e Wolfzettel), e in uno stesso paragrafo incontro, per trascurare i copiosi

emistichi, i perfetti alessandrini «nous avons appliqué le principe suivant», « au-dessous du schéma

de vers correspondant». Ma esiste anche una prova in negativo, cioè la difficoltà di scovare in uno

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stilista programmatico quale Flaubert degli «alessandrini interni» che pure non mancano del tutto,

quali «voulant ensevelir cette histoire de vol» (L 'Education sentimentale) o « + savait brider un

cheval, engraisser les voiailles» (Un cœur simple): ciò non vuol dire che nel passaggio attraverso il

«gueuloir» i segnali più vulgati dello stato poetico vengono repressi, se non proprio farisaicamente

obliterati? (In una lettera proprio a Flaubert l'anziana George Sand si rimprovera di essere incorsa in

un alessandrino involontario). Importa comunque tener fermo, per ciò che è di Bertrand nella parte

di «precursore», che la presenza di istituti astrattamente simili dà luogo in contesti diversi a

qualificazioni diverse.

Non si potrebbe sottoporre senza sazietà a un'analisi come quella esercitata sulle primissime

pagine di Gaspard la totalità del libretto. Se ne ricaverebbero risultati sensibilmente uguali, pur

prevalendo le modalità descritte nel Bertrand introduttivo piuttosto che nella maggioranza dei

singoli poemetti, costitutivi delle Fantaisies. Ma è utile estrarre dal materiale analizzato qualche

conferma o precisazione dei risultati ottenuti. Se nella conversazione che s'inizia con l'«inconnu»

sùbito oltre il punto dove s'era fermato lo scrutinio, compaiono alessandrini lapidari come «Vous

avez cherché l'art! Et l'avez-vous trouvé?» (in risposta a una battuta consistente essenzialmente in

un alessandrino «crescente a sinistra», «si c'est être poète + que d'avoir cherché l'art!») e «Une

chimère!... Et moi aussi je l'ai cherché!» e ancora «Qu'est-ce que l'art? – L'art est la science [se

bisillabo] du poète», è chiara l'ascendenza dell'enfasi teatrale, e con ciò una delle fondamentali

etimologie culturali. La narrazione prosegue con resurrezioni della cadenza (da integrare con

cascate di emistichi, «charnier d'un bouquiniste», «sur une bandérole», «le livre énigmatique», ecc.)

quali «effleurait le clavier de l'orgue universel» (clausola) o «J'enjambai la fenêtre, et je regardai en

bas» (periodo, più «O surprise! rêvais-je?») o «n'est plus qu'une Béatrix a la robe azurée» (clausola,

uncinata all'altro alessandrino sintatticamente impossibile «encore inassoupie! Elisabeth n'est plus»

e seguita da «Elle est morte monsieur»), per giungere ad alessandrini interni ma irrecusabili come, a

poche righe d'intervallo, «d'un rayon de soleil ou d'une ondée de pluie» o «de tous les coins du ciel,

en bandes fatiguées», clausolari in quanto entrambi precedenti una pausa necessaria entro un

periodo complesso tutto tritato di movenze settenarie. Non c'è, letteralmente, pagina che non si

presti a commenti. Fatta o rifatta questa indispensabile riserva, ecco dal Gaspard introduttivo,

sempre in ordine topografico, qualche ultimo esempio più segnalato; «un Dijon d'aujourd'hui, un

Dijon d'autrefois» (finale di paragrafo erompente direttamente dalla matrice sainte-beuviana); «qui

frissonne à l'air vif et piquant du marin» (clausola); «Cependant un héraut sonne de la buccine»

(attacco di paragrafo a cui si salda l'emistichio «sur la tour dulogis», e che a un periodo di distanza è

confermato dall'inizio, se pluvieux si legge trisillabo, «Le temps est pluvieux; une brume grisâtre»),

«où l'encens a fumé, où la ciré a brûlé, où l'orgue a murmuré» (sesquialessandrino che segue di

poco a «des chevets de tombeaux, des dalles d'oratoires» ed è di altrettanto poco seguito da «ont

fléchi le genou», sempre nell'ambito di una reggente che comincia «vos pas y heurteront»); «Cette

ville n'est plus que l'ombre d'elle-même» (periodo intero alla cui piattezza prelude l'antecedente

emistichio «au domarne royal»); «[Gargantua escamota] les cloches de Paris, Philippe-le-Hardi

l'horloge de Courtray; chaque prince à sa taille» (serie di emistichi montabili ad libitum in

alessandrini altrettanto, per intenderci, sainte-beuviani); «il agiote à la bourse. On le grave en

vignettes, + on le broche en romana» (sparsamente preceduto da «Néanmoins il existe», «Cela est

positif», «II pérore a la Chambre», sindrome di apertura a cui nel séguito si oppone clausularmente

«que les miroirs de poche ont été inventés»); «Qui, monsieur, j'ai longtemps cherché l'art absolu! O

delire! ô folle!» (altro sesquialessandrino in parlato).

Più rapidamente si può passare sui poemetti delle Pantdisies, dove la raccolta sarà anche

statisticamente meno straripante, ma in compenso si colora di maggior necessità. Gli alessandrini

clausolari o addirittura a senso compiuto di Le maçon («Voilà qu'un cavalier tambourine là-bas») o

di Départ pour le sabbat («escalada les bords du magique volume») si coronano nella posizione

finale di poemetto in La chambre gothique («plonge son doigt de fer rougi à la fournaise! », che

solo il tenue cuscinetto d'un y stacca dal precedente «qui, pour cautériser ma blessure sanglante»),

La ronde sous la cloche («les fleurs de mon jasmin secoué par l'orage») e anche Le deuxième

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homme («cette pierre angulaire + de la création», beninteso se création è letto quadrisillabo). Anzi,

la frequente comparsa di emistichi settenari in posizione, nonché terminale di paragrafo (le

ocorrenze da citare sarebbero davvero troppe), finale di poemetto (Le falot: «du damoisel de

Luynes!»; Le raffiné: «un bouquet de violettes», se letto con sineresi; La messe de minuit: «son

missel sous le bras»; La cellule: «un tromblon sous sa robe») già sembrerebbe conferire pertinenza

a questa più facile figura se non intervenisse a togliere ogni dubbio la sua adozione al termine di

tutte le lasse in Les lépreux («dans de clairs marécages», dopo «que de hérons pèchant»; «lentes

pour la souffrance! ». che un si stacca dall'omologo «rapides pour la joie»; «de leur éternité», dopo

l'intreccio «sur le cadran solaire + dont l'aiguille hâtait la fuite de leur vie» | «de leur vie et

l'approche», «reclus à leurs cellules»). Altra prova della consistenza dell'atomo settenario la duplice

ripetizione, in La chasse, a fine di paragrafo, della formula ternaria (a rigore, emistichio +

alessandrino), enunciata sull'inizio «claire étant la journée, + par les monts et les vaux, par les

champs et les bois» (tutti i residui paragrafi tranne uno sono ugualmente chiusi da emistichio). Altra

ancora, l'iterazione iniziale in Les muletiers: «[Elles] égrainent le rosaire ou nattent leurs cheveux,

les brunes Andalouses + nonchalamment bercées». Analogo il finale del primo paragrafo in

Octobre: «comme les hirondelles + précèdent le printemps, ils précèdent l'hiver»; o l'inizio (vero e

proprio doppio alessandrino) del paragrafo terzo e centrale di Scarbo: «Que de fois je l'ai vu

descendre du plancher, pirouetter sur un pied et rouler par la chambre» (del resto un alessandrino vi

chiude il paragrafo successivo, «un grelot d'or en branle à son bonnet pointu! »).

Più spaziata ma nell'insieme più elegante, è dunque, come ci si poteva aspettare, la

fenomenologia delle Fantaisies a costituire semmai un degno precedente, anche in questo rispetto

tecnico, dello Spleen de Paris. Il divario capitale sta nel fatto che in Baudelaire la prosa d'intenzione

poetica si nutre del suo proprio verso dominante, un alessandrino discendente per diretto tramite

dall'esametro virgiliano (ne convince l'analisi degli esametri baudelairiani magistralmente condotta

da Marino Barchiesi), mentre Bertrand sembra piuttosto aver praticato la metrica melica del

romanticismo minore. Il suo alessandrino gli viene dalle letture, non dal laboratorio. La poesia in

prosa gli è in qualche modo il surrogato d'una metrica adeguata.

Se si esauriscono facilmente gli antecedenti, vasto, se non oceanico, è il comprensorio dei

conseguenti. Seguendo il filo usato fin qui, si possono compiere esperimenti assai vari; qui non si

può dare più di un campione, e conviene sceglierlo con qualche accortezza. L'esempio da adottare

sarà dunque quello di Saint-John Perse, opportuno per tutta una serie di motivi: perché la presenza

dell'alessandrino è flagrante, perché essa è unanimemente riconosciuta, e finalmente perché su

quella che, per intenderci rapidamente, sarà chiamata (con definizione da lui respinta) prosa poetica,

l'autore ebbe ad esprimersi molto esplicitamente.

Per la constatazione di base tanto vale rifarsi dalla citazione già addotta da Valery Larbaud

in quella recensione a Éloges (1911) che costituisce il più antico lemma della bibliografia su Saint-

John Perse. Il «passage pris au hasard» è ricavato dalla Récitation a l'éloge d'une reine (ora parte di

La Gioire des Rois):

J'ai dit, ne comptant point ses titres sur mes doigts:

ô Reine sous le rocou! grand corps couleur d'écorce, ô corps

comme une cable de sacrifices! et table de ma loi!

Aînée! ô plus Paisible qu'un dos de fleuves, nous louons

qu'un crin splendide et fauve orne toa flanc caché,

dont l'ambassadeur rêve qui se met en cbemin

dans sa plus belle robe!

(ma a rigore bisogna aggiungere il ritornello comune a tutte e cinque le lasse di cui questa è la

seconda: «- Mais qui saurait par où faire entrée dans Son cœur?»). La scansione è qui sottolineata,

più di quanto non accada per solito, tipograficamente, segnalando l'intenzionalità come versi del

primo elemento, del terzo (stampato da Larbaud di séguito al precedente), del quinto (inoltre del

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refrain), mentre il penultimo e l'ultimo equivalgono, con la stampa adottata, a un alessandrino

«crescente a sinistra» più un emistichio (se fossero stati stampati di séguito, sarebbero stati

interpretati come un emistichio femminile più un alessandrino: la soluzione adottata è di ragione

epodica, perché tutte le lasse terminano su un elemento più breve, ma intanto autorizza l'amalgama

di emistichi dei due tipi, anche se sarà prudente farne per Perse un uso esegetico moderato). Il

secondo elemento è interpretabile come un alessandrino (da Reine a écorce) avvolto di connettivo,

il quarto forse come un alessandrino anch'esso «crescente a sinistra» più louons.

Presenze analoghe percorrono, con maggiore o minore abbondanza (ad esempio minor copia

in Exil), tutta l'opera di Perse, perentoriamente segnalati come significativi o dalla ripetizione dello

schema o dal distacco tipografico o dalla posizione (iniziale, finale, di ritornello). La proclamazione

di un pensiero produce con naturalezza epigrafica un alessandrino («Je porterai plus haut l'honneur

de ma maison», entro il primo paragrafo della parte VI di Chronique, aperto da altro alessandrino,

«Comme celui, la main au col de sa monture», e connotato da altri ancora, fra cui uno a immediato

séguito dell'enunciato, «et la plaine à ses pieds, dans les fumées du soir»). È commovente per il

critico constatare che l'ultima (1971) pagina di poesia inclusa da Perse nelle Œuvres complètes della

Pléiade (1972), Chant pour un équinoxe, cominci con un alessandrino, anzi con una serie di due

alessandrini e mezzo ripartiti in due versetti, «L'autre soir il tonnait, et sur la terre aux tombes

j'écoutais retentir || cette réponse à l'homme, | qui fut brève, et ne fut [que fracas]» (oppure

emistichio da «et» a «fracas») e l'alessandrino rispunti continuamente, spesso isolandosi anche

graficamente come epodo in un distico («et l'amour, en tous lieux, remontait vers ses sources»,

«Dieu l'épars nous rejoint dans la diversité», «où le ciel fut sans voix et le siècle n'eut garde»), fino

all'isolamento dello stico terminale, «équinoxe d'une heure entre la Terre et l'homme». Misura

pertanto riduttiva, basilare.

Tanto rigore di fedeltà nella durata d'una vita poetica induce a chiedersi se Perse abbia mai

scritto «veri» alessandrini, e quali. Almeno uno specimine lo conosciamo da un testo giovanile (Des

villes sur trois modes) riprodotto «à titre documentaire» nelle Œuvres complètes (pp. 651 sgg.): ora,

questi alessandrini (non rimati) dell'amico di Jammes, che in Italia si definirebbero volentieri

«crepuscolari», possono presentare irregolarità attorno alla cesura, non violano però la norma del

numero totale di sillabe, in particolare se si tratta di versi «crescenti a sinistra» (come il primo, «Des

villes plus absentes qu'au miroir des mortes»). Ma l'alessandrino sotteso alla poesia di Perse è

quello classico (con al massimo, ma non frequentissima, la licenza «baudelairiana» dell'emistichio

femminile «crescente»): invano, credo, vi si cercherebbe il descritto tipo «prosaico», se non forse

nel semiclandestino testo del 1907 Cohorte (ora riprodotto in Œuvres complètes, pp, 682 sgg.), tra i

cui sporadici alessandrini regolari se ne trova uno preceduto da uno «prosaico», «Et d'autres vont,

les pattes longues sur l'eau rousse, | comme les maringouins au-dessus de nos mares...» (da notarsi

di passata che in questo testo si parla dell'albatro, anche in alessandrini, «L'Albatros est vorace et ne

pond qu'un seul œuf. (Nid d'herbage pétri de terre et d'excréments) », con una disistima che ha tutta

l'aria di essere polemica antibaudelairiana).

Nell'assetto definitivo dell'opera di Perse, e precisamente in La Gloires des Rois, figura un

solo componimento in versi regolari, Berceuse, che, benché edito la prima volta nel 1945, si

presume risalga agli anni giovanili di Éloges. Diversamente dal rifiutato Des villes, esso ha, nella

sua misura specifica, infinite corrispondenze entro l'opera accettata: associati in pentastici non

rimati, sono octosyllabes «giambici», indifferentemente femminili o maschili, « Première-Née –

temps de l'oriole, Première-Née – le mil en fleurs»… Gli octosyllabes, o novenari se si preferisce,

abbondano a partire da Anabase, anzi dalla prima pagina di Anabase, la Chanson a preludio;

«Bitume et roses, don du chant! | Tonnerre et flutes dans les chambres! | Ah! Tant d'aisance dans

nos voies, | ah! tant d'histoires à l'année, | et l'Etranger à ses façons | par les chemins de toute la

terre!... [quest'ultimo crescente, verosimilmente con escamotage della finale di toute]». La serie ne

segue peraltro una (a semplice variazione dell'inizio assoluto) di alessandrini: «Il naquit un poulain

sous les feuilles de bronze. | Un homme mit ces baies amères dans nos mains. | Étranger. Qui

passait. Et voici d'un grand bruit | dans un arbre de bronze». È facile, d'ora in poi, trovare cascate di

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siffatti novenarì: « Dans l'Été vert comme une impasse, | dans l'Été vert de si beau vert, | quelle aube

tierce, ivre créance, ouvre son alle de locuste?» (Exil); «Ici la grève et la suture. | Et au-delà le

reniement... | La Mer en Ouest, et Mer encore, | à tous nos spectres familière» (Vents, paragrafo

autonomo).

Con non minore sicurezza, anche se a più parca frequenza, si possono isolare dei

décasyllabes o endecasillabi ugualmente di razza «giambica». Così i due che tengon dietro ai

quattro octosyllabes, nell'esempio di Exil: «Bientôt les hautes brises de Septembre | tiendront

conseil aux portes de la Ville»; seguono ancora un octosyllabe e un décasyllabe, «sur les savanes

d'aviation, | et dans un grand avènement d'eaux libres». Il décasyllabe si trova in una stessa pagina

associato all'octosyllabe come l'alessandrino (da Amers: «Et la fraîcheur du linge est sur les tables, |

l'argenterie du dernier soir | tirée des coffres de voyage...», «Et dans les temples sans offices | où le

soleil des morts range ses fagots d'or»). Se i risultati della scansione trovassero una sistematica

rappresentazione tipografica, questa si apparenterebbe, salvo la polimetria, alla Laus Vitae

dannunziana meglio che a ogni altro termine di confronto. La Laus Vitae si strutturava attorno a un

novenario di base, e una quota di variabilità ineriva al suo stesso assunto. La poesia di Perse

ammetterà certo ipotesi di misure crescenti o anche calanti (un paio ne sono state messe in opera qui

sopra), ma sarebbe urgente procedere in prima istanza, se si volesse addivenire a un tentativo di

scansione concreta, a un passaggio per le maglie della massima regolarità; non si può probabilmente

prescindere dalla presenza di tessuto connettivo ritmicamente neutro, ne d'altra parte dalla

plurivocità d'interpretazione metrica di certe consecuzioni (ad esempio di tre emistichi di

alessandrino): se questa «prosa» risultasse semplicemente da un artificio Di somma senza accapi,

perderebbe la dignità della sua necessità. Fin d'ora appare evidente che la posizione di monopolio, o

anche di semplice predominio, della funzione alessandrina è fortemente scossa.

La tesi dell'alessandrino di base è affermata da una parte della critica. «C'est», precisava

Larbaud nel suo studio del 1911, «l'alexandrin de Malherbe et de Racine, restauré par Baudelaire (et

assoupli - désarticulé, plutót - par Verlaine et Coppée), qui en est la base». L'impressione era

comprensibile a livello di Eloges, ma reiterarla per Anabase (prosodia «basée sur l'Alexandrin»,

nella «Nouvelle Revue Française» di gennaio 1926; non so se da lui o per spontanea convergenza

Ungaretti) è senza dubbio semplicistico. L'inizio di Anabase, si è visto, parla per l'alessandrino, ma

parla non meno energicamente per l‘octosyllabe. Per accorgersene ci volevano un filologo come

Albert Henry (1963) e, press'a poco nello stesso tempo, un quasi-filologo come Jean Paulhan.

Henry, «la nette prépondérance des groupes syllabiques "pairs": six, huit, dix ou douze "pieds", et

jusqu'à seize et plus; "vers" blancs, ou bien [...] groupes assonancés ou allitérés» [l'osservazione

sull'assonanza compie quella già di Larbaud sulla frequenza di rime]; ma Henry sùbito aggiunge

l‘importanza dei «volumes impairs», e più radicalmente sottomette le misure e la periodicità

accentuativa alla«maîtrise des groupes de souffle», in cui si giustificano tutte le «irregolarità» («les

rapports entre ces masses [sonores] pouvant s'exprimer en un nombre simple, le nombre deux, le

plus souvent; et qu'à partir d'un certain volume, il y ait, par exemple, dix ou onze "pieds" importe

peu: d'autant que les syllabes qui supportent les accents de groupe sont, presque toujours, charnues

et dilatables»). Paulhan, «dans son verset nombreux et plein, l'alexandrin, l'octosyllabe, le

décasyllabe, et l'hexasyllabe font retentir leurs cadences, et s'enchantent de leurs confluents». Ma

certo solo in un tecnico del livello di Albert Henry si trova una giustificazione generale, e che se pur

tacitamente non può essere se non a posteriori, fondata sull'obbedienza alla «poussée lyrique du

moment»: ragionamento che, se il critico fosse italiano, si direbbe gentiliano, quale è in particolare

l'analisi dell'endecasillabo dantesco tentata da Mario Casella. Si può sospendere, ma con

pregiudizio favorevole e perché si tratta di ritmi entro il non-ritmo e per l'autorevolezza del

proponente, l'assenso fino a una concreta esecuzione di scansione.

Nello stesso senso vanno le testimonianze procedenti dall'autore stesso, qualche volta

perfino dalla più tarda opera poetica (nel Chœur di Amers si susseguono «mètre», «strophe»,

«Ode», «trame prosodique», «récitatif», poi «épode» opposto a «strophe» e perfino «robe

prosodique»), più spesso da lettere accolte nel prezioso, ancorché sovrabbondante, scrigno delle

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Œuvres complètes (nelle cui annotazioni compaiono pure, ricevendone così uno stigma almeno

generico di approvazione, tutte le critiche citate). Importanti le testimonianze sulla «métrique

interne» (pp. 922, 968, e cfr. 564 sgg.) e sul rigore, ma non l'apriorismo, della composizione

musicale, da distinguersi dalla verbale (pp. 750 sgg.); la «versification précise encore

qu'inapparente» di Perse sarebbe del tutto estranea agli istituti, dalle denominazioni messe tra

virgolette, del «vers libre», del «poème en prose» e della «prose poétique», in particolare di

Whitman (e da Whitman non meno che dall'altro prosi-versifìcatore biblico Claudel lo allontana

anche Allen Tate, p. 1295); «le poème français [dunque opposto all'inglese] le plus espansif [...] ne

serait encore fait que pour l'oreille interne» e non ammette la lettura a voce alta; «Les lois les plus

rigoureuses de la composition musicale elle-même, qui relève de la Mathématique, pour être

inéluctables n'en sont pas moins subies». La conseguenza è non solo l'intraducibilità, ma

l'improbabilità di introdurre varianti, occorrendo «même nombre de syllabes et même accent» (p.

563), Un ideale modello possibile è Pindaro, della cui traduzione si possiede anche un frammento

(pp. 724 [lettera proprio a Claudel], 731 sgg., 742 sgg., 753). Ma per quanto spetta alla tradizione

che qui interessa, una testimonianza decisiva reca la prefazione, del 1963, alle Poésies di Léon-Paul

Fargue, uno scrittore che dice di essersi fatto «un vers libre réglé par l'alexandrin». Se il suo genere

dev'essere definito «poème non versifié improprement appelé "poème en prose"» (pp. 518 sgg.),

l'elenco dei suoi cultori dei quali si segna la differenza da Fargue, automaticamente traccia la prima

e più ovvia estensione della presente ricerca; nell'ordine di Perse, Claudel, Bertrand, Baudelaire,

Maurice de Guérin, Rimbaud, Fargue stesso con la sua «métrique invisible». Le qualificazioni sono

probabilmente, ai fini attuali, un po' troppo metaforiche, ma due impongono un riscontro

immediato: Bertrand e Baudelaire, appunto. Ora, se nel primo caso l'epiteto di «pittoresque»

coincide, forse casualmente, con l'aggettivo usato da Baudelaire stesso, svolto nel senso d'una

evocazione «plus visuelle qu'auditive», nulla potrebbe dirsi più alieno dall'analisi qui sperimentata

sui poèmes en prose, che, dice Perse, «n'ont rien du poème, ne poursuivant, sur un mode analytique

ou discursif, sans souci propremenc mélodique, qu'un intérêt psychologique », O al massimo se ne

ricava un attestato in negativo del misticismo diacronicamente statico, sottratto a qualsiasi

drammaticità formale, di Perse in persona. «Aucun trouble métrique».

Gianfranco Contini

[Da: Gianfranco Contini, Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1989.]

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ERMANNO KRUMM

LA POESIA NARRATIVA: CARVER, BUKOWSKI, DOROTHY PORTER E ALTRI

(RECENSIONI)

W. H. Auden

Col finire degli anni 20 si chiude il grande modernismo della poesia inglese (Dylan Thomas a

parte) e si apre un decennio ossessionato dalle questioni sociali e politiche. Rifiutata l'apertura

transletteraria di Eliot e Pound, in nome di un ritorno alla "realtà", i poeti "trentisti" si appoggiano

alle due culture dominanti, marxista e psicoanalitica. Il più significativo di loro, W. H. Auden

(1907-1973) reintroduce la forma chiusa, la metrica tradizionale da opporre alle sperimentazioni

moderniste, l'io contro la pretesa impersonalità della generazione precedente.

È il periodo di transizione che, in una sua opera, Auden chiama L'età dell'ansia. Con Auden

si ritorna a un linguaggio che – per usare una sua espressione – potremmo dire "intimista", chiuso

all'interno di un interminabile parlottio (le sue poesie, infatti, sono molto lunghe). Il poeta va

almanaccando un po' su di tutto: città, soldati, viaggiatori, diseredati, presi, in generale, come tipi

adatti allo svolgimento di un tema. Al contrario di Eliot e Pound che avevano lasciato l'America

per avvicinarsi alla tradizione europea, Auden lascia l'Inghilterra prima per la Spagna (dove

combatte contro i franchisti) per poi divenire cittadino statunitense (pur continuando a spostarsi in

Italia, in Germania e in Austria).

Le sue poesie – quelle in particolare raccolte con il titolo Un altro tempo – quasi sempre

lunghe e meditative si reggono su un tempo ritmato largo e fluente, difficile da trasferire in un'altra

lingua (dove finisce inevitabilmente per affiorare solo l'aspetto contenutistico). Vi si trovano alcuni

dei testi più famosi del poeta, come quel Musée des Beaux Arts, dove, fra l'altro, si contempla

l'Icaro di Bruegel. Osservando il ragazzo cadere dal cielo, il poeta esclama: "Come ogni cosa

ignora serena il disastro". Lo ignora il contadino che ara la terra in primo piano come la bella nave

che prende il largo.

In Bruxelles d'inverno, la città è una matassa di corda aggrovigliata, dove tutto sfugge,

incapace di ritrovare concretezza, di dire "sono una Cosa". Solo i diseredati sembrano ancora

essere "lì dove sono" ("nel loro abbandono sono tutti riuniti; / l'inverno li tiene insieme come il

teatro d'opera").

Alla fine la poesia stessa pare colpita dall'irrealtà: nel tentativo di sfuggire al modernismo

oggettivante dei padri, Auden si trova in una posizione difficile. Da una parte, il mondo reale,

intensamente ricercato, sfugge nel parlottio delle conversazioni e del sociale; dall'altra manca un

discorso forte dell'"io", non si arriva all'osservatore, il beholder, della grande tradizione romantica

inglese (ancora così efficacemente rappresentato nella poesia americana novecentesca di Stevens o

Lowell).

Seamus Heaney

Con questo poeta irlandese – dotato di una concretezza e di una partecipazione alle sorti della

propria terra degna del suo grande predecessore, William Butler Yeats – i nomi dei luoghi, le

vicende e le tragedie della lotta politica entrano nella poesia con asciutta lucidità.

Lontano da qualsiasi modernismo, si avverte nelle sue pagine occhio da "naturalista" (su

alberi, fiumi, campagne e animali) e asciuttezza d'osservazione. Con una manciata di persone e

piccoli eventi tratteggia un mondo di insensatezza e violenza, con bruciante disillusione.

L'angosciata sensualità finisce con l'incontrare l'altro grande irlandese del secolo, emigrante come

lui e anatomista del grande corpo moderno in sfacimento, James Joyce.

Niente lirismo, solo la responsabilità di dire il vero: un presupposto che ha unito Heaney al

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russo emigrato Iosif Brodskij e al caraibico Derek Walcott in un dialogo a distanza dove, dalla loro

posizione, insieme istituzionale e lontana dal centro dell'impero, individuano la grande tradizione

poetica del Novecento.

Ho già citato North, la raccolta del 1975 (traduzione italiana di Roberto Mussapi), in cui

Heaney mostra quanto forte sia il suo attaccamento alle proprie origini. Non solo agli uomini e alla

terra dell'amata Irlanda, ma anche alla sua preistoria. In occasione del ritrovamento di alcuni corpi

dell'età del ferro, straordinariamente conservati in una torbiera dell'Ulster, dedica alcune poesie a

L'uomo di Grauballe che "giace su un cuscino di torba": "la venatura dei suoi polsi / è come

quercia di torbiera, / la sfera del tallone // come un uovo di basalto".

Heaney non si ferma con i pescatori, non osserva i contadini, questa volta il poeta

immagina di accompagnarsi con gli antichi abitanti, messaggeri del neolitico, e forse di vedere con

i loro occhi che furono aperti su mondi tanto remoti. North è il libro di una nuova strana solitudine

con la quale sembra abbandonare la superficie della terra per entrare nel profondo del regno fossile

e geologico. Assieme alla pietà e all'interesse per gli antichissimi costumi funerari, si percepisce

una ebbrezza nuova, fatta di cieli deserti, nutrita di "sogni di ambra del Baltico".

Lasciate da parte le cose quotidiane, in questa che è la sua quarta raccolta entra in un

mondo quasi mitico. Scende "nel tesoro di parole" scritte nel buio e affilate al gelo delle albe

boreali e lì nell'incontro con gli inaspettati antenati di stirpe vichinga, Heaney sembra acquistare

forza. Da qui l‘immagine dell‘osso trovato in un pascolo e lanciato con violenza simbolica

dall'altra parte dello stretto di mare contro l'Inghilterra.

Veder cose, la raccolta del 1991 (traduzione di Gilberto Sacerdoti), è segnata invece da un

sistema ritmico-grafico svelto (lontano ormai da Una porta sul buio, del 1969, la felice raccolta in

equilibrio fra paesaggio e i suoi abitanti in cui ogni testo è un microracconto compiuto) e da una

vena più difficile, meno narrativa. Un rapporto complesso di termini concreti e astratti interviene,

in ogni composizione, come un controcanto. In particolare la lunga sezione delle Quadrature fa

pensare un po' ai Mottetti di Montale (più asciutta e scorciata rispetto al precedente delle

Occasioni). Ma manca qui la concentrazione folgorante e le immagini risolutive (del tipo dei "due

sciacalli" al guinzaglio sotto i portici di Modena).

Qui, Heaney imprime al proprio lavoro una nuova curvatura che tende verso l'astratto,

sposta il tiro e realizza un tipo di poesia più linguistica, più compressa, con soluzioni talvolta

sorprendenti. Per esempio in Una cesta di castagne, si parla delle castagne spinte verso l'alto e poi,

per contraccolpo, verso il basso. Alla fine, per una strana procedura, la cesta finisce col diventare il

"correlativo oggettivo" di un pittore e del suo quadro. Ma non lo diventa attraverso qualche

dettaglio fisico, qualche improvvisa epifania, come sarebbe avvenuto in una raccolta precedente: lo

diventa per una specie di tensione verbale che inarca, insieme, concetti astratti e complicati, con

qualche luccichio proveniente dalla cesta. Una soluzione tipica dei poeti metafisici del '600

prevista, d'altra parte, dall'autore stesso.

---------

In America

William Carlos Williams

Il Paterson di William Carlos Williams è un'opera monumentale composta in più di quarant'anni,

una sorta di enorme manifesto della poetica oggettiva del suo autore. Vi si rincorrono infiniti toni,

voci diverse, insieme a documenti e materiali vari. Nell'ampio fluire del testo, il lettore è chiamato

a sperimentare il fascino della contemporaneità degli eventi, attraverso i quali si aprirà una via

personale di accesso, scegliendo, scartando, ripigliando e procedendo con la stessa libertà con cui

il libro stesso è stato composto.

Partendo dall'avventura imagista di Pound, Williams trova ben presto una via autonoma in

direzione delle cose, espressa nei famosi versi: niente idee se non nei fatti. In questa via, il grande

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poeta della modernità si muove liberissimo, usando tutti i materiali possibili in una cornice

"poetica" che va dalla cantilena alla ninna nanna, dal monologo interiore alle voci personificate dei

fiumi e delle città.

Come scrive Robert Lowell,

Paterson è l'America di Whitman fattasi patetica e tragica, brutalizzata dall'ineguaglianza, disorganizzata dal caos

industriale, confrontata con l'annientamento. Nessun poeta ha scritto di lei con una tale fusione di splendore, simpatia

ed esperienza, con tale vigilanza ed energia.

Williams rappresenta uno dei punti più felici e più alti della poesia anglosassone, di quel

tipo di poesia cioè che fonda la propria forza sul potere di irradiazione delle cose. Una passione

profonda – antiletteraria – anima queste pagine, fornendo un'occasione unica di entrare in una delle

più straordinarie officine del modernismo, di quel periodo ormai mitico che si suole chiamare

l'avanguardia storica.

Raymond Carver(1)

Ma la vera ―cultura‖ americana passa da quella sorta di mitologia degli spazi dilatati dove, tra un

whisky e un fumoso locale jazz, si incrociano personaggi perfettamente sospesi sul niente, pronti a

essere inghiottiti nel grande caos di cui fanno eroica e felice parte. Con pochi gesti si entra in un

giallo, in un film d'azione. Lì, tra un bicchiere di superalcolico e un'autostrada, ognuno si muove

con una naturalezza impensabile in Italia.

Tali sono le comparse americane dei brevi racconti di Raymond Carver (1938-1988). E

anche delle poesie. Assieme a Melville, Emily Brontë, Hardy, Williams, Lowry e Bukowski,

Carver è uno dei grandi romanzieri di lingua inglese che scrive anche grande poesia.

Nelle poesie di questi narratori si percepisce tutta la distanza che ci separa dagli Stati Uniti

d'America. Di sicuro, in Italia (dove non mancano scrittori-poeti da Pavese a Pasolini, Bacchelli,

la Morante), non esiste una tradizione come quella cui appartiene Carver: apparentemente

autobiografica ma perfettamente neutra, capace in poche righe di infilzare un mondo. Anche per

questo, la poesia di Carver è doppiamente preziosa: innanzi tutto per la sua forza intrinseca e poi

anche come rimedio, per noi, contro qualunque indugio iperletterario e qualunque gioco linguistico

fine a se stesso.

Nei suoi testi spesso lunghi e narrativi, capaci di salti improvvisi, il narratore sostiene il

poeta, almeno per due cose: primo, il gusto dell'osservazione, dei particolari; secondo la cattiveria.

Si tratta di una dote rara nei poeti-poeti mentre è quasi indispensabile nei veri romanzieri (un nome

su tutti: James).

I suoi microracconti scorciati e compressi in versi si chiudono intorno a una frase, una

ferita, una specie di dislivello dell'esperienza. È il suo modo di teatralizzare i sentimenti familiari,

quasi sempre raccapriccianti. In Su una vecchia foto di mio figlio, una madre e un figlio si

accapigliano intorno a una vecchia e odiatissima foto. La cornice è nitidissima. L'incipit, molto

incisivo, è sul tempo ("Siamo di nuovo nel 1974 e lui è tornato un'altra volta"). La chiusa è cattiva,

rassegnata e ironica ("Tutti miglioriamo col tempo").

Ogni tanto il narratore si addormenta e, in poche righe, lascia il posto al sogno di un poeta

("Le notti tranquille"): "Mi addormento su una spiaggia, / mi risveglio su un'altra. // La barca è ormai pronta, / tende gli ormeggi."

La raccolta intitolata Blu oltremare si apre con un battere d'ala che riconduce chi parla –

forse il poeta stesso – sulla sua strada. S‘era scordato di tutto, s‘era perso in pensieri lontani, poi

uno stormo di uccelli levandosi dagli alberi aveva segnata la direzione.

Segue una poesia dedicata al braccio intorpidito, di notte, abbandonato sotto le spalle della

donna che gli era accanto. Risvegliati, cercano insieme di sollevare quell'arto formicolante: lei poi

si riaddormenta mentre lui, disteso fino all'alba, con le braccia sul petto, continua a pensare a un

altro viaggio: "Al fatto ineluttabile che persino quando / intraprendiamo questo viaggio, / un altro

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ancora, molto più bizzarro, / ce ne resta da fare".

All‘ultimo viaggio Carver dedica l‘ultima raccolta, Il nuovo sentiero per la cascata

(edizione italiana a cura di Riccardo Duranti) scritta nell‘imminenza della morte. La sua

compagna, Tess Gallager, ricorda che Ray (il suo Raymond), scriveva persino sul pacchetto delle

sigarette: Now, ora, subito. E tra l'altro, spiega come sono entrati nel libro certi brani di Cechov

(scelti per la sua malattia), Seifert, Milosz, Lowell e altri che accompagnano il difficile cammino

verso la morte. Lui le si rivolge dal libro: in Colibrì, per esempio, una brevissima poesia sull'estate

che il poeta sa di non poter vedere ("quando aprirai / la lettera, ti verranno in mente / quei giorni").

Nessun compiacimento, però. L'ultima partita fa parte dello spettacolo del mondo, come il

pescatore nel porto (La rete): Ray – il personaggio-poeta che si muove nelle poesie – gli passa

accanto senza una parola. Si gira solo quando è lontano abbastanza "da vedere l'uomo preso nella

rete".

Tutto è pronto: il traghettatore si porta via Ray ma lascia i suoi formidabili manuali: vuoi

sapere come fare poesia parlando solo di bibite e scaffali? Leggi Carver. Leggi Limonata. Vuoi

imparare a parlare di tutto con un taglio e uno sguardo sicuro? Segui l'ultima puntata, tutta

anglosassone, di una storia fatta di cose e persone, segui Il nuovo sentiero per la cascata.

Charles Bukowski(2)

Dorothy Porter

Fiumi, nuvole, alberi ce ne sono ben pochi, nei libri di Dorothy Porter ci sono, invece, le persone e

le loro storie. Le situazioni si intrecciano, i personaggi si scontrano e, come nei romanzi, vanno

incontro a un finale d‘effetto. Ma il fatto è che quelle della Porter sono poesie. E che poesie:

pagine e pagine che si leggono d‘un fiato. Tre i libri, tradotti da Fandango, e ciascuno, a suo modo,

un caso (intanto Dorothy Porter, nata a Sidney nel 1954 e attiva a Melbourne, è al suo decimo

libro). L‘ultimo è intitolato Che gran capolavoro, e non per un gioco ironico sull‘opera e il suo

valore, ma per rendere omaggio all‘ironia di Amleto. Il capolavoro, naturalmente, è l‘uomo ―nobile

d‘ingegno e immenso di capacità‖. Proprio come lo psichiatra quarantaduenne protagonista del

romanzo in versi: si chiama Peter e dirige un ospedale psichiatrico con entusiasmo e simpatia per i

suoi pazienti. Ma è il 1968 e la ricostruzione della Porter è spietata (tutto in lei lo è). Peter dispensa

tranquillamente elettroshok (senza anestesia, che costa troppo), cure del sonno all‘insulina e una

quantità di farmaci: è come se tutti i dibatti del tempo, sull‘antipsichiatria e la psicoanalisi,

rivivessero tra le righe, nelle parole della giovane amante noiosissima, quando parla di sociologia e

politica, o della ex moglie, freudiana convinta, che disapprova la sempre più disinvolta professione

di Peter. In poche notazioni tutto è chiaro. Mentre lui sguazza in quella specie di palcoscenico, una

paziente con cui ha una relazione e una mongoloide in cura si suicidano. Alla fine, quando lascia

l‘ospedale per la libera e più redditizia professione, Peter toglie al suo amico paziente e poeta carta

e penna, ben sapendo che ne morirà. Proprio un capolavoro d‘uomo, insomma. E anche di poesia,

però. Strano caso, questo di un autore che nei suoi versi riesce a raccontare quello che vuole e lo fa

con un occhio sul mondo lucido e teso. Lasciando spazio, come un vuoto, un respiro tra una poesia

e l‘altra (ognuna con titolo, svolgimento e finale), Dorothy Porter non spiega tutto. Ma si capisce

lo stesso. E il lettore che ci deve mettere del suo resta avvinto, preso nella costruzione che gli

cresce davanti agli occhi. Improvvise espressioni fiorite, iperboliche e violente riportano all‘idea

che si sta leggendo poesia (come un detective al bar bevendo whisky fa subito giallo). Quando, per

esempio, Peter dice ―Il vino salpa per la sua dolce rotta intorno alla mia lingua‖, non c‘è né

compiacimento né lirismo: solo una botta che funziona.

Derek Walcott

Sensazioni e cose oscillano nella calda aria tropicale: un vapore torrido si leva dalla sabbia, dalla

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terra, e fa tremare i contorni delle cose. Alla fine, tutto sembra preso nello stesso movimento delle

onde del mare. In questo vorticare di alberi, pietre, luoghi, persone e memorie, si snoda Prima luce

(The Bounty, 1997), il recente libro del poeta caraibico Derek Walcott. Un fiume di parole,

allineate in versi molto lunghi che Andrea Molesini traduce dall‘inglese ormai torrenziale del

premio Nobel 1992. Qui non si incontrano più le felici ―ariette‖ dei pescatori delle isole, né l‘acqua

dell‘arcipelago ha più la nitidezza della Goletta ―Flight‖. Ma l‘ampiezza dello spazio e la violenza

della luce aprono sempre, tra gli scogli della sua Saint Lucia, scenari accecanti. Cielo e mare si

mescolano, punteggiati, qui e là, da piccole odissee, che riconducono all‘antico sogno omerico: ―I

Caraibi sognano l‘Egeo‖.

Ma la visione della Grecia è filtrata da mille passaggi: la Francia di Manet e Baudelaire;

l‘Italia cara all‘amico poeta Iosif Brodskij, cui è dedicata una delle numerose sezioni del libro (ma

ci sono anche Montale e Quasimodo); la Spagna di Machado, l‘Irlanda di Yeats. Un crogiolo dove

tutto si va ―creolizzando‖ e nessuno può più riconoscersi solo in una cultura, una comunità o una

lingua.

Con la sua opera, Walcott dà vita a un pensiero-arcipelago – qualcosa di cui parla Édouard

Glissant nella sua Poetica del diverso – dove alberi, animali e pietre sono vivi alla pari delle

persone. E delle parole che sulla pagina si distribuiscono come foglie ed erbe sui prati. È quello

che Walcott chiama euforia di lingue (―Ero sicuro che tutti gli alberi del mondo condividevano la

stessa euforia di lingue, il tiglio, l‘albero della gomma‖ e molti altri ancora). Scrivendo in presenza

di tutte le lingue e di tutte le cose viventi, la poesia di Walcott ritrova il suo respiro antico e il

legame mai veramente reciso con la natura.

Nessun ritegno, nessun limite condiziona il poeta che guarda trionfare intorno a sé la

bellezza dei Caraibi: una sorta di magica retorica gonfia i suoi versi e il suo cuore (―nessun mare è

più pesante del mio cuore gonfio‖). Ed è la stessa luminosa eloquenza dei suoi acquerelli, che

riscrivono, con distratta indifferenza, le medesime pagine di un interminabile diario.

Denise Levertov

Rispondendo, in Poeta e lettore, alla domanda su come le nasce un testo, Denise Levertov

racconta, con immagini fisiche e concrete, di come le si faccia strada attraverso il braccio, la mano

e la penna, finché, poi, quando prende forma ed esiste autonomamente, esplode un canto di gioia

che esprime tutta la felicità per la nuova creazione. Si tratta per lei, in qualche modo, di una strada

tracciata fin dalla nascita. Il padre Philip Levertoff (il cognome è stato cambiato in Levertov da

Denise al suo arrivo negli Stati Uniti) – uno studioso che vuole conciliare la fede ebraica e quella

cristiana – infatti, la educò personalmente, rifacendosi tra l'altro alla tradizione di un antenato

illustre, fondatore di un ramo del movimento hassidico.

Nata a Ilford (Essex, Inghilterra) nel 1923, da una famiglia ebrea russa, a soli 12 anni

Denise invia alcune poesie a Eliot che le risponde incoraggiandola. La ragazzina, intanto, si dedica

sempre di più ai propri studi, che interrompe solo per l'altra sua passione: la danza.

Nel '47 sposa lo scrittore amerifcano Mitchel Goodman e con lui si trasferisce negli Usa. Si

stabilisce a New York dove legge appassionatamente William Carlos Williams che la indirizza

verso una scrittura di oggetti, tessuta di cose reali. Frequenti i ritorni in Europa, in particolare nel

sud della Francia dove con il marito raggiunge Robert Creely, animatore della rivista ―Black

Mountain‖.

Rimasta tuttavia sostanzialmente estranea all'elaborazione teorica del gruppo, insegue

autonomamente propri temi e immagini. Dopo una prima serie di raccolte (assemblate in Collected

Earlier Poems 1940-1960) che Ralph Mills definì poesie dell'immediato – come sottolinea

nell'introduzione Liliana Casati – la poetessa si avvia sempre più decisamente sulla strada delle

contestazioni. Partecipa a manifestazioni e a marce per la pace, interviene contro la guerra e l'uso

indiscriminato del nucleare. Ma non per questo rallenta rallenta la propria attività di scrittura. Le

raccolte si seguono alle raccolte, col ritmo spesso di una all'anno. Alla sua morte, avvenuta nel '97,

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se ne contano più di una ventina.

Dopo gli anni dell'impegno, col mutare dei tempi, la Levertov si avvicina ai movimenti

ambientalisti: nell'insieme della sua evoluzione, al di là delle poesie a contenuto più spiccatamente

impegnato, sono quelle di ispirazione personale e intima a costituire la costante nel tempo e a dare

i risultati migliori.

Oltre la fine è vicina – almeno per il tono discorsivo, di intima e sommessa riflessività – a

una delle ultime, del '96, a quel "Poeta e lettore" di cui si parlava. Il tema dell'arte torna a più

riprese nel libro: in una pagina del '60, dedicata al "vero artista" che non lavora a caso come

l'"artista disonesto". O nella poesia scritta come una "Lettera a un'amica", dove si analizza il

quadro (una cartolina ricevuta) di una donna seduta a un tavolo con una tovaglia bianca e uno

sguardo luminoso e coraggioso. Numerose anche le sequenze dedicate al matrimonio e poi alla

separazione e al divorzio. Ogni volta l'attenzione per la vita quotidiana occupa la mente dell'artista,

assieme ai segnali di quella "sottile foschia oscura" che comunque – lo si voglia o no – copre come

un'ombra gran parte dei nostri pensieri. Nel tentativo di tenere un equilibrio fra ragione e istinto,

fra ciò che è chiaro e dicibile e ciò che è irrazionale e nascosto (il mistero si ripropone sempre per

la Levertov come un limite estremo), questa poesia traccia un percorso che – nei momenti più

felici – è come un arcobaleno: per un attimo, dopo l'acquazzone, celebra le nuove nozze fra cielo e

terra.

Anne Sexton: L‟estrosa abbondanza

Americana come Robert Lowell (ai cui seminari di scrittura partecipò, nel 1959, con Sylvia Plath),

Anne Sexton (1928-1974) è stata collocata, come gli altri due poeti, nell'area "confessional". La

sua opera è infatti segnata da una particolare concretezza di dati autobiografici e personali.

Bisogna intendersi però: ciò non significa che si tratti di un tipo di poesia tutta sfogo e

confessioni veritiere. Anne Sexton stessa precisa parlando di una sorta di aggiustamento: i suoi

versi partono sì, dal disagio psicologico e mentale, dagli internamenti psichiatrici, dai conflitti

psichici (con la famiglia innanzi tutto) – dati già segnalati dai titoli delle raccolte – ma nello stesso

tempo li trasformano, ne fanno un uso improprio, li trasportano nel mondo della finzione.

Il dato personale, comunque, rimane e dà una forza particolare a queste raccolte intitolate:

"In manicomio e parziale ritorno" (1960), "Tutti i miei cari" ('62), "Vivi o morti" ('66), "Il libro

della follia" ('72), "Taccuini della morte" ('74) e postumo "Il tremendo remare verso Dio" ('75).

L'ampia scelta antologica curata da Rosaria Lo Russo, Antonello Satta Centanin e Edoardo

Zuccato consente (dopo la recente, infelice, edizione delle "Poesie d'amore", '69, curata dalla sola

Rosaria Lo Russo) di entrare nel mondo di questa poetessa con traduzioni di qualità.

Alcune poesie erotiche sono di crudezza e violenza davvero sorprendenti. Scritte negli anni

sessanta, rappresentano il corpo femminile come un'opera muraria che la mano dell'amante

continuerà a costruire, o il corpo della donna sola come luogo di una ricerca ossessiva del piacere.

Nella "Ballata della masturbatrice solitaria", il ritornello – Io da sola ogni notte sposo il letto –

chiude sette strofe di una intensità fisica e visionaria che ha pochi precedenti (Whitman e Wilde).

A parte alcune poesie lunghe, la maggior parte dei testi tradotti sono brevi e folgoranti.

Un'occasione da non perdere, utile anche per riprendere contemporaneamente la stessa Plath e

Lowell (entrambi pubblicati da Mondadori).

Il re di maggio

Si registrano salti, restauri e cadute, nel secondo '900, a distanza di 25 anni anche in due poesie di

Allen Ginsberg. Kral Majales (la raccolta King of May: America to Europe), del 7 maggio 1965, e

Return of Kral Majales, del 25 aprile 1990, trattano entrambe della festa del primo Maggio. Nel

'65, Ginsberg è fatto Re dalla folla di Praga, ma il regime lo tenne segregato una settimana e poi lo

espulse a Londra. Nel '90, non ci sono più gli studenti del Politecnico, né la polizia, né il partito

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comunista; c'è una commissione federale che proibisce di leggere alla radio o in televisione poesie

"indecenti" nelle ore del giorno. Per il resto al poeta invecchiato, dai capelli imbiancati e radi

(questo è il salto) non resta che "tornare passando dal Paradiso a reclamare la corona di carta" di

una volta (è questo il restauro?). Ora è un re senza amore, un re che canta un mantra sanscrito in

versi che suonano così: "andato, tutto andato oltre l'alto ora vecchia mente Ah".

Siamo alla fine della modernità conosciuta (quella che alcuni chiamano postmoderna, ma

postmoderno a me pare significhi un'altra cosa), non c'è più comunismo e neanche beat

generation. Tutto è andato, resta solo la corona pazza

the foolish crown of no ignorance no wisdom anymore non fear no hope in capitalist striped tie & Communist

dungarees

No laughing metter the loss of the planet next hundred years

la corona pazza della non ignoranza non saggezza non più paura non speranza con cravatta a righe capitalista e tuta da

lavoro comunista / Non fa proprio ridere la perdita del pianeta nei prossimi cento anni.

A una grande utopia si è sostituita una disastrosa previsione (la perdita del pianeta). Tutto andato,

col canto del mantra: "Questo era quando ero giovane", "Ora sono un anziano"

Am I my self or some one else

or nobody at all?

Then what's this heavy flesh this

weak heart leaky kidney?

Sono me stesso o qualcun altro / o proprio nessuno? / E cos'è questa carne pesante questo / cuore debole rene crepato?

Dunque non c'è restauro: in queste condizioni la poesia continua fluviale, ritmata, in un

deserto di oltre duecentomila morti, in mezzo a "milioni di persone che acclamano e sventolano

bandiere di gioia a Manhattan".

Ermanno Krumm

[Pubblichiamo qui il capitolo 15 del saggio inedito di E.K. La statura della cose. Poesia e metamorfosi nel

‟900. Sotto il titolo l‘autore annotava: ―Questo capitolo è ancora da finire: da equilibrare ecc.‖ (N.d.R.).]

Note.

(1) Di Raymond Carver si conoscevano diversi romanzi, Cattedrale (trad. it. Mondadori); Di che cosa

parliamo quando parliamo d'amore? (Garzanti) che gli avevano guadagnato (impropriamente) la fama di

"padre dei minimalisti". Nel 1994 l'editore Pironti di Napoli ha pubblicato la raccolta di poesie Blu

oltremare, a cura di Pasquale Sica. Minimum fax di Roma pubblica, ora (2001, N.d.R.), a cura di Riccardo

Duranti, Il nuovo sentiero per la cascata, una raccolta degli ultimi versi che registrano la sofferenza e

l'avvicinarsi della morte del poeta.

(2) Nel dattiloscritto è indicato qui solo il nome di Bukovski (N.d.R.).

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GIOVANNI NADIANI

IL VERSO INFRANTOSI NELLA STORIA INTERROTTA

Appunti sul concetto di ―prosa breve‖ come iperonimo

1. A mo‟ di premessa personale

Sempre più spesso mi capita di dover rispondere in margine a letture, spettacoli, performance varie,

che nel mio piccolo, e ben cosciente dei miei profondi limiti estetici, assolvo tuttavia con gioia

solitaria o condivisa con dei musicisti settimanalmente nelle più svariate situazioni e davanti a tipi

diversificati di pubblico nella vasta provincia di questo nostro Basso Impero, non tanto alla

domanda sul ―perché scrivi?‖, ma a quella ben più imbarazzante per me del tipo ―sta‘ un po‘ a

sentire, ma cos‘è ‘sta roba che scrivi, reciti, interpreti?‖

Questione imbarazzante per me, perché assolutamente imprevista, in quanto ciò che rigo con

la vecchia stilo su un taccuino o digito dentro un portatile su un treno in ritardo ―mi viene naturale

così‖ senza essermi mai granché posto il problema: una volta va così, una volta cosà e una volta

proprio non si sa. E lo stesso dicasi in qualità di lettore: il genere è del tutto secondario rispetto a ciò

che cerco: parole per me necessarie che corrispondano al mistero di queste quattro ossa su questo

cemento in questo tempo bituminoso con la forma d‘arte sviluppata dall‘unica specie dotata,

appunto, di parola: la letteratura. Cioè ciò che anche un noto critico militante tedesco, dunque

abituato a confrontarsi col ―consumo‖ quotidiano di letteratura però altresì esponente di una stampa

che non vuole limitarsi alla sola informazione letteraria, ha definito ―innanzitutto un‘opera d‘arte

linguistica, un complesso articolato, pensato con intelligenza, forgiato assennatamente, altamente

organizzato dal punto di vista formale, il cui effetto, sia pure inebriante, dipende da principi

drammaturgici e di economia linguistica. Il piacere che ne deriva, in questi tempi tardo-moderni e

disincantati, si deve alla conoscenza di questi principi. Insomma, è dentro al sapere che noi godiamo

di un‘opera d‘arte, attraverso la conoscenza e per mezzo di strumenti analitici‖ [Winkels: 2006].

È così importante far rientrare forzatamente tale ―complesso articolato‖ dentro qualche

schema predefinito per non si sa bene quale scopo? Per me no: o questo ―complesso‖, con le

strategie sue proprie ―mi parla‖, o ―non mi parla‖. E dal lato della produzione: o sono riuscito a

creare un tale ―complesso‖ in cui tutto si tiene e in quel modo così specifico, o non ci sono riuscito.

L‘etichetta di genere è, tutto sommato, superflua e ininfluente.

Se ciò vale per me, mi rendo conto tuttavia che per il lettore/spettatore/uditore da un lato, e

per editori redattori e librai dall‘altro, una catalogazione di determinati testi possa essere di una

qualche utilità ―scaffalatoria‖, magari tramandata da barbose lezioni scolastiche oppure per

un‘intrinseca necessità di chiarezza dell‘intero sistema editoriale (dalle singole collane fino,

appunto, agli scaffali di una libreria), ma niente di più. Anzi, tale tramandata propensione alla

catalogazione ha (avuto) come ricaduta, sia di critica sia di produzione/distribuzione, la doppia

polarizzazione sull‘estremità positiva (in un intrinseco rapporto assolutamente disomogeneo) dei

soprageneri ―romanzo‖ (fagocitante e annichilente qualsiasi altra forma narrativa) e ―poesia‖, a

prescindere dall‘insignificanza da questa rivestita nell‘intera economia editoriale: anche il

megastore delle catene librario-mediatiche dei monopoli italiani e stranieri con relative lobby della

distribuzione e la piccola libreria vecchia maniera di quartiere, accanto alle ingombranti pile di

cosiddetti bestseller e di romanzi romanzetti e romanzacci di stagione, continuano ad avere da

qualche parte un piccolo scaffale (d‘accordo, sempre più ristretto) con volumi di poesia; e l‘intero

sistema critico-accademico-scolastico continua ad assegnare anche alla poesia e ai poeti un ruolo

significativo. Questa doppia polarizzazione ―in positivo‖ ha, come conseguenza, relegato al polo

opposto tutte quelle scritture, di cui anche la storia e il presente letterari italiani sono ricchissimi,

che per vari motivi, quando ci si è degnati e ci si degna di tenerne in considerazione, sono (state)

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definite ―in negativo‖ [cfr. Giusti 1999], e alle quali solo in rarissimi casi è stato e viene assegnato

uno scaffale, reale o metaforico che sia. Senza voler affrontare qui nuovamente ben precise

idiosincrasie e storture dell‘attuale ―marketing editoriale‖ o della necessità di reintrodurre concetti

come quello di Trivialliteratur, già trattate altrove in riferimento all‘area linguistica tedesca ma con

forti paralleli alla situazione italiana e non solo [cfr. Nadiani 2009a; 2009b], mi sembra di poter

comunque affermare che queste scritture continuino loro malgrado a scontare pesantemente presso

editoria e critica la ―colpa‖ di essere, nella loro poliedricità e versatilità, sostanzialmente sfuggenti a

qualsiasi catalogazione e, in particolare, a espiare i loro due ―peccati originali‖: la brevità e

l‘ibridismo, o meglio, la polifonia stilistica.

Questo, nonostante che uno dei santi protettori delle lettere italiane, Italo Calvino, abbia

sostenuto a forza in una delle sue Lezioni americane (Rapidità), nel frattempo passate anch‘esse nel

dimenticatoio – tanto può l‘inebriante smemoratezza dell‘epoca MIM (Mega Intrattenimento

Mediatico) – le ragioni delle forme brevi e della relativa serrata ricchezza stilistica per conseguire

un‘espressività unica, memorabile, assolutamente necessaria [cfr. Calvino 1988: 31-53].

Tra l‘altro, laddove la menzionata sanzione critico-editoriale viene parzialmente a cadere, la

reazione del pubblico non tarda a manifestarsi smentendo in tal modo almeno certi preconcetti

editoriali (si veda esemplarmente il successo occorso in patria e nel resto del mondo ai due

sudamericani Augusto Monterroso e Eduardo Galeano, o al francese Philippe Delerm).

Stante comunque il fatto che anche il sottoscritto, prima di approdare alle sue attuali,

―naturali‖ varie forme di espressività non romanzesca e non meramente lirica, linguisticamente e

dal punto di vista dei generi meticciate e performative riconducibili dal suo punto di vista tutte alla

definizione-contenitore prosa breve (sentendo risuonare fortemente nella primo elemento del

sintagma il ―prosaico‖ e il ―quotidiano‖), e al conseguente non porsi più il problema del genere, era

pur partito seguendo due ben precisi solchi tradizionalmente solidi: quello di una poesia

fonosimbolica con forti venature ermetiche da un lato; e quello del racconto (più o meno lungo)

dall‘altro, non gli farà male riprendere in mano vecchi appunti e letture su annose questioni nel

tentativo di ripercorrere la strada fatta, cogliendo l‘occasione offertagli dalla Rivista ―L‘Ulisse‖, per

cercare di chiarire a se stesso (anche in qualità di traduttore di prosa breve principalmente dal

tedesco) il proprio operato – benché in un primo momento egli snobisticamente non lo ritenesse

necessario – e di rispondere in qualche modo all‘imbarazzante domanda iniziale dei suoi quattro

lettori/ascoltatori. Così facendo, attraverso anche la breve disamina della situazione in altre aree

linguistiche, magari si solleveranno questioni di interesse più generale che potranno arricchire il

dibattito lanciato dalla Rivista.

2. Una questione di genere: dalla Kurzprosa alla prosa breve

A differenza del panorama letterario italiano che da sempre mostra una certa idiosincrasia

nei confronti di testualità brevi, di non grande formato e che sembra non disporre di una definizione

specifica per i vari tipi di scrittura di ampiezza limitata (anzi, essi sembrano costituirsi in genere

autonomi a partire dalle definizioni che ne danno gli autori di volta in volta; cfr. Giusti 1999),

nell'ambiente critico-letterario di lingua tedesca è ricorrente il termine Kurzprosa [traducibile col

calco ―prosa breve‖] (e, in certi casi, il suo derivato Kürzestprosa [prosa brevissima]). Che cosa,

tuttavia, esso indichi di preciso non è facile stabilirlo. Quanto afferma Burkhard Spinnen a

proposito della kurze Prosa, concentrandosi in particolare sulle diverse tipologie di testi brevi a

carattere giornalistico di ben noti scrittori quali Robert Musil, Joseph Roth, Robert Walser, Alfred

Döblin, può valere anche per la definizione cumulativa Kurzprosa: ―Già questa denominazione di

genere, diventata nel frattempo corrente, benché essa sembri registrare unicamente elementi

quantitativi dei testi, mostra quanto la prosa breve, nonostante o addirittura a causa della pluralità

dei suoi esempi, si sia dimostrata finora resistente a qualsiasi definizione vincolante‖ [Spinnen,

1991:3] .

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Già il termine in sé di Kurzprosa e il tentativo, come s‘è visto, di trovare un adeguato

corrispettivo in italiano (―prosa breve‖; ―narrativa breve‖; ―prosa narrativa breve‖; ―prosa d'arte

breve‖ ―prosa poetica breve‖, ―poesia in prosa‖ ecc.), con tutte le implicazioni che comporta il

concetto di ―prosa‖ nella storia letteraria italiana, presuppongono comunque la pacifica accettazione

dell'esistenza di precisi generi letterari e di specifiche suddivisioni testuali al loro interno.

Ma che cosa sono i generi o i sottogeneri e in che modo esistono? Sono solamente quelle

―vuote fantasime‖ che erano per il Croce dell'Estetica [Croce, 1965: 43] all'inizio del Novecento, o

fasci di regole esemplari, o sistemi di classificazione, oppure ―strumenti‖ indispensabili alla

categorizzazione e alla comprensione delle singole opere letterarie, o quant'altro ancora? L'ormai

comune riconoscere che i generi in qualche modo esistono, non implica ancora una risposta univoca

alle domande testé formulate.

2.1. Classificazione e definizione dei generi testuali e letterari. Alcune posizioni.

Come sottolinea Pieter de Meijer ―le incertezze cominciano col termine genere stesso. A che

cosa si riferisce precisamente questo termine? E si riferisce alla stessa cosa a cui si riferiscono il

termine francese genre, che si ritrova nell'uso inglese, e il termine tedesco Gattung? Quest'ultima

domanda non va formulata per soddisfare una semplice curiosità comparatistica, ma riguarda il

nucleo stesso della problematica. Quando ci si pone un problema di tipo ―generico‖, ci si trova

infatti da una parte di fronte a un problema che trascende l'ambiente nazionale [...] e dall'altra si è

costretti a rendersi conto di come le soluzioni del problema, sia sul versante della produzione sia su

quello della ricezione e della sistemazione critica, fanno parte di situazioni comunicative che

differiscono da un paese all'altro‖ [De Meijer, 1997a: 5]. E Paolo Bagni nel suo serrato studio

monografico Genere dà per acquisito che il genere non sia nozione semplice, riducibile a un

significato univoco essendo molteplici i criteri di pertinenza del genere, secondo molteplici

possibilità di integrazione sistematica (Bagni, 1997: 99). Egli si pone sullo stesso orizzonte di

Hernadi preferendo ―il più sobrio principio di discutere di letteratura in una cornice concettuale

policentrica‖ alla ―illusoria promessa di unità e semplicità offerta da molte sommarie

classificazioni‖ [Hernadi, 1972: 153], respingendo ―la fallacia di un principio classificatorio

monistico‖ [Bagni, 1997: 99] e auspicando che le future teorie della letteratura esplorino ―come i

più validi concetti generici proposti negli ultimi decenni possano venire integrati in un insieme di

‗sistemi‘ connessi‖ [Hernadi, 1972: 153]. Si tratterebbe, insomma, di inquadrare la questione del

genere – inteso, al negativo, né come fascio di regole esemplari, né come sistema di classificazione,

né come essenziale principio di sviluppo, ma come qualcosa che si descrive in una molteplicità di

piani e funzioni – nella ben più importante ―questione del rapporto tra la fisionomia del genere e la

letteratura nel suo insieme‖ [Bagni, 1997: 83] concordando ancora una volta con Hernadi che ―le

più apprezzabili classificazioni contemporanee di generi ci indirizzano oltre il loro immediato

obiettivo e mettono a fuoco l'ordine della letteratura, non i confini tra i generi letterari‖ [Hernadi,

1972: 184].

Eppure da un punto di vista di ―pragmatica della fruizione‖, senza volere addentrarsi nei

fondamenti delle varie teorie della letteratura, sembra indubbia l'utilità di disporre di definizioni e di

delimitazioni, per quanto insufficienti, del termine ―genere‖ e di eventuali classificazioni dei generi.

Nella cultura letteraria italiana, nonostante gli importanti contributi di diversi studiosi (come

si vedrà più avanti), la valenza del termine ―genere‖ è rimasta vaga, potendosi riferire all'epica, alla

lirica, alla drammatica, ma pure al romanzo, al madrigale, alla tragedia ecc. In altri paesi si possono

invece constatare tentativi più o meno riusciti di delimitare il significato del termine,

contrapponendolo ad altre definizioni usate per fenomeni ―generici‖.

Uno dei tentativi più rigorosi è senz'altro quello di Klaus W. Hempfer e della sua

Gattungstheorie. In questo studio l'autore tedesco esamina e discute approfonditamente le teorie

crociane e tutte le teorie sui generi di qualche importanza proposte dalla fine dell'Ottocento in

Europa e negli Stati Uniti, concentrandosi in particolare su quelle formulate dai critici tedeschi, in

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quanto nella cultura tedesca del Novecento la riflessione sui generi è stata più forte che altrove in

Occidente, e mostra nuove soluzioni e proposte, tra cui una sua particolare terminologia. In un

sistema basato da un lato sul concetto di Sprechsituation [situazione locutoria], in cui si determina

un preciso rapporto fra parlante e uditore, e dall'altro sul concetto di struttura di Jean Piaget,

Hempfer distingue, da una parte, quattro concetti base: Schreibweise [modo di scrivere]; Typus

[tipo]; Gattung [genere]; Untergattung [sottogenere]; ed evidenzia, dall'altra, Sammelbegriffe

[concetti d'insieme] [Hempfer, 1973: 26]. Per Schreibweisen si devono intendere costanti a-storiche

come il narrativo, il drammatico e il satirico; per Gattungen le attuazioni storiche di queste

Schreibweisen come il romanzo, l'epopea; per Untergattungen forme come il romanzo epistolare,

picaresco ecc.. Il Typus indica le possibilità delle Schreibweisen che travalicano i singoli periodi

storici. Ad esempio: la narrazione condotta da un io narrante è un Typus della Schreibweise

narrativa. Hempfer distingue, inoltre, Sammelbegriffe, classificazioni di comodo quali ―l'epica‖, ―la

lirica‖ che servono per parlare di una data forma di un dato periodo [Hempfer, 1973: 27-28]. Il

merito di Hempfer è quello di delimitare in maniera rigorosa il significato del termine ―genere‖, che

non può più significare epica o lirica ecc.

In Francia Gérard Genette, risalendo a Platone e ad Aristotele, sottolinea che nel concetto

traducibile come mode (modo) si può reperire un criterio fondamentale di questi filosofi per la

distinzione di diverse testualità. Il mode si basa sulla situazione enunciativa: o parla il poeta o

parlano i personaggi [Genette, 1977: 394]. Questi ―modi‖ (il narrativo e il drammatico) non sono da

confondersi con ―tipi ideali‖ e non sono da identificarsi con i tre generi (―archigeneri‖), lirica,

epopea, dramma [1977: 394-421]. Per Genette i generi sono ―classi empiriche stabilite

dall'osservazione dei dati storici‖ [1977: 419] e la loro relazione è complessa ma non riducibile a

una ―semplice inclusione‖ dei generi nei modi [1977: 421]. Secondo De Meijer, benché Genette

sembri non essere al corrente dello studio di Hempfer, ―la convergenza fra le due teorie è notevole:

la base trovata nella situazione locutoria o enunciativa, la distinzione dei modi, il rifiuto di generi

naturali o ideali al di fuori della storia, e la distinzione di concetti di insieme, come li chiama

Hempfer, o ―archigeneri‖ come li chiama Genette‖ [De Meijer, 1997a: 7]. Successivamente però

Genette sembra tendere a spostare la nozione di genere su un altro piano, perché, senza contraddire

apertamente la priorità dei modi di enunciazione, delinea un sistema fatto non tanto più di

differenze e opposizioni di tratti costitutivi, quanto di relazioni fra i generi. L'idea centrale è quella

di trascendenza testuale ―tutto ciò che lo [il testo] mette in relazione, manifesta o segreta, con altri

testi‖ [Genette, 1981: 69], che si dispone in una serie di rapporti tra i testi, di transtestualità, ovvero

di: intertestualità, ―la presenza letterale (più o meno letterale, integrale o no) di un testo in un altro‖;

metatestualità, ―la relazione transtestuale che unisce un commento al testo che commenta‖;

paratestualità (rapporti di imitazione e di trasformazione, come il pastiche o la parodia); la

―relazione di inclusione che unisce ogni testo ai diversi tipi di discorso ai quali appartiene. Qui

vengono i generi e le loro determinazioni già intraviste: tematiche, modali, formali e altre(?)‖: i

generi sono dunque l'architesto con cui il testo sta in relazione di architestualità. [1981: 70].

Nella cultura anglosassone nell'ambito degli studi sui generi notevole importanza ha assunto

la proposta di Alastair Fowler Kinds of Literature. A leggere il sottotitolo, An Introduction to the

Theory of Genres and Modes, anche Fowler al pari di Hempfer e Genette sembra proporre una

teoria dei generi e dei modi. I genres e i modes dello studioso americano però non corrispondono né

alle Gattungen e alle Schreibweisen di Hempfer né ai genres e ai modes di Genette. Secondo il De

Meijer il sistema proposto da Fowler è più vicino a quello di Hempfer che non a quello di Genette,

non coincidendo però affatto con il primo in quanto: ―Il termine genres come lo adopera Fowler è

un termine globale che indica sia i generi quali si manifestano storicamente, i kinds del titolo, sia i

―modi‖, che costituiscono selezioni o astrazioni dai generi storici, come il modo pastorale, il modo

storico, il modo tragico, ecc., sia i ―tipi costruttivi‖ (constructional types), che sono procedure

puramente formali o compositive come per esempio l'incorniciamento di una serie di novelle, sia

infine i subgeneres, sottogeneri, che possiedono le stesse caratteristiche del kind corrispondente, e

in più un contenuto più specifico. [...] In particolare il ruolo fondamentale che lo studioso tedesco

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attribuisce alla situazione locutoria per distinguere il narrativo e il drammatico come ―modi di

scrivere‖ primari rispetto a ―modi di scrivere‖ come il modo satirico o tragico, non ha un

equivalente nella teoria di Fowler, il quale nega esplicitamente un posto privilegiato a quello che

egli chiama un representational mode‖ (De Meijer, 1997: 9).

Nonostante le differenze e la confusione di carattere terminologico tra le diverse teorie sui

generi, tanto più marcate quanto si scende al piano più concreto delle denominazioni di singole

categorie o di singoli generi storici, spesso frutto di concezioni diverse di quanto dovrebbe essere

fondamentale in una teoria dei generi, un orientamento comune almeno in vista di una direzione in

cui cercare le soluzioni non sembra del tutto impossibile. A vedere questa possibilità è il De Meijer

che propone innazitutto una distinzione fra i generi quali si manifestano storicamente e gli elementi

costitutivi di tali generi. Fra questi elementi egli riconosce da un lato modi che riguardano

l'esposizione, l'enunciazione o la presentazione del contenuto (le Schreibweisen primarie di

Hempfer, i modes di Genette, i representational modes di Fowler), e dall'altro modi che riguardano

il contenuto (le Schreibweisen secondarie di Hempfer, le ―categorie tematiche‖ di Genette e certi

modes di Fowler). Per questi due ―modi‖ diversi lo studioso olandese propone i termini ―modi

enunciativi‖ e ―modi semantici‖ [De Meijer, 1997a: 11-12] e in entrambi i modi egli distingue delle

suddivisioni, così come nei generi storici si possono distinguere dei sottogeneri. ―Sono evidenti

soprattutto i vari tipi del modo enunciativo narrativo, i sous-modes di Genette, che si possono

chiamare, con Hempfer, tipi [...]. I modi enunciativi, certi tipi e certi modi semantici (il comico, il

tragico, il satirico, ecc.) sono costanti a-storiche nel senso che possono manifestarsi in generi di

epoche lontanissime l'una dall'altra. Oltre ai modi interviene nella costituzione di un genere ancora

un terzo elemento, il ―mezzo‖ con cui si realizza la mimesi secondo Aristotele, la ―determinazione

formale‖ per Genette: la lingua, come poesia o prosa. Un genere storico si lascia allora descrivere

come l'intersezione delle manifestazioni concrete di un modo enunciativo, un modo semantico e una

scelta linguistica, intersezione nella quale possono però verificarsi varie sovrapposizioni modali e

linguistiche‖ [1997a: 12].

Comune a tutte le teorie fin qui esposte sembra essere la concezione secondo la quale ―i

generi vanno studiati non come analogie di oggetti fisici ma come schemi comunicativi, o come

sistemi di norme comunicative o come codici supplementari nel quadro di una situazione

comunicativa che comprende il mittente, il messaggio ma anche il ricevente‖ [1997a: 13], come

sottolineato anche da Fowler, non certo vicino a impostazioni semiotiche: ―This book has set out the

idea that it is a communication system, for the use of writers in writing, and readers and critics in

reading and interpreting‖ [Fowler: 1982: 256]. In una prospettiva di questo tipo sono da collocarsi

anche i maggiori contributi italiani allo studio dei generi, quelli di Maria Corti e di Cesare Segre.

Nel capitolo ―Generi letterari e codificazioni‖ del libro Principi della comunicazione

letteraria Maria Corti evidenzia un approccio storico-semiotico ad alcuni generi storici, visti come

sistemi di comunicazione letterari codificati da una stretta interdipendenza del livello tematico e del

livello formale. ―Il genere letterario [...] può definirsi il luogo dove un'opera entra in una complessa

rete di relazioni con altre opere; da tale angolazione pertinente è la natura delle relazioni che si

instaurano, il loro carattere di invarianti sicché in un certo senso il genere può dirsi un tipo di

processo letterario‖, in cui, ―a livello tematico, è significativa entro un genere non tanto la presenza

di alcuni contenuti, temi o motivi, che come tali possono essere comuni a più generi letterari [...],

bensì il rapporto fra l'organizzazione tematica e il piano formale, senza di che non vi è genere‖

[Corti, 1976: 156-157]. Corti sottolinea il legame esistente in un genere tra la tematica e il piano

formale: solo dalla loro interdipendenza nasce la codificazione, e non si potrebbe parlare di codici

se non vi fossero regole di interazione fra forma del contenuto e forma dell'espressione. Di qui

discende il tentativo di rinvenimento, in un corpus abbastanza omogeneo di testi, ―delle invarianti

che danno vita al codice, di contro alle varianti dei singoli testi, e delle regole di trasformazione dei

codici stessi‖ [1976: 157]. La codificazione, all'interno di un genere, determinata dalle rispettive

invarianti rinvenute, non ha i tratti normativi, ad esempio, di un sistema linguistico o giuridico, ma

si presenta piuttosto come un ―programma‖ basato su leggi molto generali riguardanti ―il rapporto

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dinamico fra certi piani tematico-simbolici e certi piani formali, il tutto in relazione distintiva o

oppositiva rispetto al programma di un altro genere‖ [1976: 158].

Segre, nella voce Generi curata per l'Enciclopedia Einaudi, sembra proporre un approccio

non molto dissimile da quello di Corti definendo il genere letterario come ―un particolare tipo di

rapporto fra le varie particolarità formali e gli elementi contenutistici‖, reggendosi tale rapporto

soltanto in certi periodi e ―in minima parte‖ su codificazioni esplicite, di solito invece su ―norme di

coesione‖ non rigide [Segre, 1979: 584].

Al termine di questa breve panoramica e di fronte ad alcuni elementi caratterizzanti una

sorta di orientamento comune non si può però evadere la domanda sulla specificità di tale

orientamento nell'affrontare testi di carattere letterario: ―La scelta linguistica, il modo enunciativo e

il modo semantico, ecco tre criteri, si potrebbe obiettare, che serviranno magari a distinguere generi

letterari, ma anche generi non letterari e come distinguere allora l'insieme dei testi letterari da altri

tipi di testo?‖ [De Meijer, 1997: 16]. De Meijer stesso cerca di dare una risposta a questa domanda,

ovvia ma legittima, innanzitutto a livello dei mezzi espressivi e formali, evidenziando come i generi

non letterari non siano soggetti alle costrizioni formali caratteristiche dei generi letterari. Lo

studioso olandese è cosciente però anche del fatto che le costrizione formali più forti non sono

elementi caratteristici della letteratura in generale, ma solo di alcuni generi, e che se esse, sul piano

dei mezzi espressivi, possono avere un valore discriminante, da sole non sono sufficienti a

delimitare l'ambito dei generi letterari [1997a: 17]. In relazione ai modi enunciativi, De Meijer

sottolinea l'impossibilità di trovare in prima istanza criteri distintivi fra generi letterari e generi non

letterari, potendosi al massimo distinguere alcuni generi letterari da altri non letterari conoscendo

eventualmente le convenzioni su cui si basa la ―finzionalità‖ [1997: 19], secondo un contratto che

l'autore stipula con il lettore che prevede la sospensione di alcune regole della comunicazione

diretta e pratica [Searle, 1975: 155]. Come per il livello dei mezzi espressivi e per quello dei modi

enunciativi, anche per il livello dei modi semantici, per quello tematico e per la funzione sociale

secondo de Meijer è molto difficile reperire dei tratti distintivi precisi, e pur volendo forzatamente

far valere il ―contratto finzionale‖ (cosa comunque da non doversi fare) non solo per i generi

drammatici e narrativi, ma anche per i generi lirici, bisogna giungere alla ―conclusione che lo studio

dei generi letterari si può sviluppare pienamente solo nel quadro dello studio dei tipi di testo in

generale. [...] Pur non configurandosi come un gruppo omogeneo e pur ―imparentandosi‖ da tutti i

lati ad altri tipi di discorso, i generi letterari costituiscono un ―aggregato‖, che o per la scelta dei

mezzi espressivi o per la scelta dei modi enunciativi e semantici o per una funzione sociale o per

varie combinazioni di questi elementi è ancora abbastanza riconoscibile per mantenere l'idea di un

loro specifico studio‖ [1997a: 23-24].

Per Philippe Hamon, invece, la riconiscibilità ―intuitiva‖ di un ―genere‖ letterario sarebbe da

ricondurre alla memoria (all'esperienza, dunque) del lettore col suo orizzonte d'attesa allenato a

cogliere i segnali incorporati nel testo. Ponendo l'accento sulla necessità dell'identificazione

immediata del ―genere‖ di un'opera – e quindi dei segnali che la caratterizzano – come tappa

indispensabile alla comprensione dell'opera stessa, riprendendo idee e terminologie di Genette [cfr.

Genette, 1992] e Lane [cfr. Lane, 1992] egli circoscrive il ―genere‖ in una ―cornice‖ che assicura

un patto di comunicazione: ―Le genre est donc cette ―aire de jeu‖, balisée de certains signaux, à

l'interieur de laquelle, sur la base de certains règles, va se jouer, entre partenaires disjoints, la

communication littéraire. On peut donc le définir comme le ―cadre‖ nécessaire permettant d'assurer

un pacte de communication. Pas de lisibilité sans cadrage de la mémoire et de l'horizon d'attente du

lecteur par un genre (qu'il soit unique ou pluriel, respecté ou perturbé), et pas de genre qui ne soit

indiqué par des signaux incorporés au texte. [...] Le terme ―cadre‖ peut donc s'entendre au sens

pragmatique large (un pacte de lecture général valant consigne) et au sens sémiotique étroit (le

système démarcativ des points stratégiques du texte, ses marges et ses seuils, son péritexte – titre,

incipit, clausule). L'un et l'autre étant étroitement liés: c'est en général sur ses seuils et incipit qu'un

texte littéraire dispose les signaux indiquant le(s) genre(s) dont il relève‖ [Hamon, 1996: 72-73].

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2.1.2. L‟aspetto narrativo nella Kurzprosa e nella Kürzestprosa

―Dal lato della produzione un genere o un sottogenere letterario può essere visto come il

risultato di alcune scelte che nella costanza sopra-individuale diventano convenzioni‖ [De Meijer

1997b: 187-188].

Tra queste scelte risultano fondamentali, ad esempio, quelle tra lingua e dialetto, tra oralità e

scrittura, tra prosa e poesia, tra forma breve e forma lunga. A proposito di queste ultime due

tipologie di scelte, si deve tener presente che ―un testo narrativo presenta tutti i problemi di

qualsiasi altro tipo di testo, oltre a qualcuno in più‖ [Eco, 1979: 69] e che, quindi, nell'esame di testi

narrativi rimane fondamentale quel problema ―in più‖, cioè il narrativo propriamente detto, la

narratività e che questa si mostra nel modo in cui è condotta la narrazione e nella storia narrata.

Se da un punto di vista prettamente formale consideriamo la poesia come ―un discorso

caratterizzato al livello più superficiale del discorso da costrizioni più forti di quelle valide per la

prosa‖ [De Meijer, 1997b: 194], quest‘ultima, come ricorda Lausberg [1969: 256], è ―il discorso

diretto in avanti‖ (provorsa), che al contrario del verso (―svolta‖, ―ritorna‖) non conosce alcun

ritorno regolare, a danza, di uguali cadenze ritmiche. Ma, come sappiamo, a partire dal

romanticismo sono venute a destrutturarsi gradualmente le forme metriche tradizionali a favore di

una ricerca ritmica nella prosa, che porterà Baudelaire, Verlaine, Rimbaud ed altri al poema in

prosa, alla prosa musicale, al frammento lirico o al verso libero. In questo contesto significativi, per

un‘indagine stilistica della prosa artistica del Novecento italiano, sono stati i contributi di Beccaria

[1975], che ha individuato in D‘Annunzio il punto di incrocio di numerose esperienze e soluzioni

tecniche che si riflettono dalla prosa alla poesia e viceversa (il periodo cumulativo, l‘enumerazione,

la paratassi, le riprese oratorie ecc.).

Sapendo, dunque, che la prosa può andare benissimo in tante direzioni, compreso verso la

poesia, che cosa caratterizza la prosa nel senso della narrativa?

Senza entrare nel merito delle varie metodiche e prospettive talora molto divergenti della

moderna narratologia, di cui ormai nessuno contesta la legittimità, è utile tenere in considerazione

un punto su cui sembra vigere un accordo di fondo: e cioè di come il testo narrativo venga inteso

come ―un messaggio sotteso e organizzato da uno o più codici, trasmesso mediante un canale, in un

dato contesto, da un emittente a un destinatario. In una siffatta forma di comunicazione letteraria

occorre tenere ben distinte due coppie di ―partecipanti‖ modellate sulle funzioni emittente-

destinatario:

a) lo Scrittore-Autore e il Lettore, rapportati dal Testo-Libro (livello della comunicazione

che definiremo extratestuale);

b) il Narratore e il Narratario o Destinatario interno, rapportati dal testo-Narrazione (livello

intratestuale)‖ [Marchese, 1990: 76-77].

Segre riassume il narrare come ―realizzazione linguistica mediata, avente lo scopo di

comunicare a uno o più interlocutori una serie di avvenimenti, così da far partecipare gli

interlocutori a tale conoscenza, estendendo il loro contesto pragmatico. La narrazione può assolvere

un compito di documentazione e/o di testimonianza, anche a valore storico, volta a collocare nel

―presente‖ elementi del ―passato‖ disponendoli nella memoria, che è dispositivo e repertorio

culturale. La narrazione si orienta verso l‘artificialità, e anche verso le arti, quando, ponendosi con

una certa autonomia nei confronti del reale, fa intervenire i meccanismi della simulazione,

dell‘invenzione, della finzione, dell‘immaginazione anche collettiva, che pure non sono estranei alle

relazioni e interpretazioni storiche, non foss‘altro perché intervengono criteri di orientamento

dell‘osservazione, del tempo, e quindi dei valori. L‘attività narrativa implica inoltre nelle sue varie

destinazioni diversi effetti di visualizzazione, diversi assetti del materiale e diversi piani di

manifestazione‖ [Segre, 1980: 701].

Interessante da un punto di vista pragmatico per l'individuazione empirico-deduttiva di punti

nodali di un testo definibile come narrativo è lo schema suddiviso in tre ambiti di analisi proposto

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da Werner Riedel e Lothar Wiese. In un primo momento vengono analizzati gli elementi che si

riferiscono in particolare al narratore in qualità di mediatore del mondo narrato. Le caratteristiche

del narratore fissano il punto di vista del lettore sul narrato: forme della narrazione; luogo del

narratore; atteggiamento della narrazione; punto di vista del narratore. In un secondo segmento di

analisi vengono evidenziati aspetti come: strutture della narrazione e taglio temporale, forme di

rappresentazione, mezzi linguistico-narrativi. In un terzo ambito di analisi vengono esaminati

aspetti quali: modellamento semantico spazio-temporale; caratteristiche dei personaggi. Infine

l'analisi è completata da un ulteriore segmento relativamente al rapporto col lettore, col contesto e

con la ricezione [Riedel-Wiese, 1995: 14-15].

Una delle scelte più importanti sul piano dei mezzi narrativi è quella tra forma breve e forma

lunga del raccontare. De Meijer vede configurarsi l'opposizione forma breve VS forma lunga

innanzitutto come semplicità VS complessità, tale opposizione esprimerebbe due modi diversi di

cogliere la realtà: da una parte la tendenza verso la concentrazione e la sintesi, dall'altra la tendenza

verso la pluralità e l'analisi [De Meijer, 1997b: 213-216]. Egli vede la forma più elementare di tale

opposizione presente nella narrazione in generale nel contrasto fra l'attenzione per l'accadere

dell'avvenimento e l'attenzione per la spiegazione di esso: ―Ciò si può ancora vedere nella storia di

un individuo che il romanzo può narrare nel suo svolgimento intero o in una crisi e che la

narrazione breve può cogliere soltanto in una crisi, il che sembra precludere la possibilità di

―coprire‖ una vita intera. In realtà le cose non stanno così: la forma breve può benissimo raccontare

una vita intera, solo che la rappresenta allora come un momento, come una crisi, come una

manifestazione del puro accadere‖ [1997b: 217].

In effetti in molti casi sembra che le forme brevi o brevissime, le ―scaglie narrative‖

rispecchianti fulmineamente la crisi di una vita e di un mondo, siano dovute all'esperienza di

frammentazione, di polverizzazione di presunti concetti monolitici quali ―realtà‖, ―mondo‖, ―vita‖:

il frammentario ovvero l'astrazione, l'uscire quasi dalla narrazione di una storia sembrano abilitare

molti autori a cogliere con strumenti minimali in uno spazio ridottissimo tale esperienza di crisi.

Parlando della Kurzgeschichte, la variante tedesca soprattutto postbellica della short story,

prendendo a prestito il titolo di un racconto dello scrittore inglese Edward Morgan Forster, The

Eternal Moment, anche Manfred Durzak associa il termine ―Krise‖ alla narrazione breve

presentandolo però come alternativa all'attimo epifanico della conoscenza: ―Tutto è condensato in

un‘infima porzione di tempo, che però è tutt‘altro dall‘essere casuale o interscambiabile. Si tratta

piuttosto di un momento messo in risalto, un‘esperienza chiave, la cristallizzazione temporale di

una crisi, di un momento di conoscenza, che riunisce e sintetizza un calderone di eventi fino a quel

momento imperscrutabile ovvero la totalità della storia di una vita in un singolo punto focale‖

[Durzak, 1994: 161].

Se, genericamente, le forme brevi (la novella, il racconto breve, la short story ecc.)

costituiscono dunque la rappresentazione di un momento, la manifestazione di un puro

accadimento, la compressione, la condensazione di un avvenimento e in molti casi ―gradi di

evanescenza epica‖ [Durzak], riducendo al minimo la narrazione e tendendo quasi all'astrazione,

che cosa caratterizza allora la cosiddetta Kürzestprosa? Secondo Riedel-Wiese, sebbene sia quasi

impossibile differenziare la ―forma brevissima‖ da altre forme narrative e assegnarle un'identità di

genere, si può tentare di circoscrivere in negativo il concetto evidenziandone le mancanze: ―Alla

Kürzestprosa perlopiù mancano un‘azione narrativa progressiva, uno spazio temporale e

evenenziale omogeneo, e spesso il carattere fittizio non è presente in modo univoco‖ [Riedel-Wiese,

1995: 59]. Ma come tantissimi testi di scrittori tedeschi o sudamericani dimostrano anche tale

definizione è insufficiente a cogliere l'ampio ventaglio delle forme brevi. Ciò nonostante essa può

essere utile per tratteggiare una direzione verso un ―luogo di raccolta della comprensione‖, luogo in

cui possono concentrarsi, quasi sinonimicamente, altre forme brevi come la Kürzestgeschichte o la

Kurzgeschichte.

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2.1.3. Dalla Kurzgeschichte alla Kürzestgeschichte

Per molto tempo considerata la ―parente povera‖ tra le forme brevi, una sorta di Zwergprosa

[prosa nana] ][Schmidt-Dengler, 1972: 493] o di Kleinvieh der Prosa [bestiame minuto della prosa]

[Höllerer, 1962: 237], nonostante una considerevole tradizione che annovera autori quali Robert

Walser, Franz Kafka e Bertolt Brecht, la Kürzestgeschichte, nella diversità delle sue forme, ottenne

il giusto riconoscimento critico e di pubblico solo verso la metà degli anni Sessanta in seguito alla

pubblicazione di importanti raccolte ad opera di autori quali Helmut Heißenbüttel (Textbücher I-VI,

1960-67), Reinhard Lettau (Auftritt Manigs, 1963), Peter Bichsel (Eigentlich möchte Frau Blum den

Milchmann kennenlernen, 1964, Premio ―Gruppe 47‖), Günter Eich (Kulka, Hilpert, Elefanten,

1968), Ror Wolf (Danke schön, nichts zu danken, 1969). Da allora il ―successo‖ della

―Kürzestgeschichte‖ – mascherato dietro definizioni come Kurzprosa, Kürzestprosa, Miniature,

Bagatelle, kurze Geschichte, o addirittura semplicemente di Geschichte - si può dire sia stato

ininterrotto fino ai nostri giorni, al contrario della ―sorella maggiore‖, la Kurzgeschichte, da cui

pure ha ereditato più di un elemento, non ultimo il suo ―aspetto camaleontico‖ [Bender], la quale

dopo essere stata per alcuni decenni la forma narrativa breve per eccellenza (si pensi ad autori come

il Premio Nobel Heinrich Böll, Sigfried Lenz o Martin Walser, che a giudizio di molti hanno dato il

meglio di sé nella ―storia breve‖ e non tanto nei romanzi che pure hanno fondato la loro fama) e,

dopo un periodo di appannamento durato una trentina d‘anni, è tornata ad essere produttiva propria

con la sua storica definizione (non a caso uno degli autori di qualità di maggior successo, lo

svizzero Peter Stamm, la riprende nei suoi libri) oppure nascosta nella variante inglese short story

con tutte le implicazioni del caso, sembra da tempo aver trovato una forte concorrente anche come

campo sperimentale di narrazione compressa in altre forme ancora più ridotte [Schweike, 1984:

243].

Ma se la Kurzgeschichte ha in qualche modo determinato il formarsi e l'affermarsi della

forma più breve, avendo per prima da una parte cercato una propria strada autonoma tra le varie

forme brevi della tradizione letteraria tedesca (Novelle, Erzählung, Anekdote, Kalendergeschichte

ecc.) e, dall'altra, creato il giusto clima per un'ampia ricezione di narrazioni brevi, sarà innanzitutto

necessario evidenziare alcuni aspetti di tale ―camaleonte‖ narrativo, benché questi – al pari di quelli

della Kürzestgeschichte – siano di difficile e incerta determinazione, toccando di passata altre

forme brevi per soffermarsi infine sulle principali caratteristiche della Kürzestgeschichte,

nell'impossibiltà di circoscriverne le forme in un ―genere‖ definito.

La Kurzgeschichte, sorta in Germania verso il 1920 come forma letteraria ―rapida‖ per il

crescente mercato delle pubblicazioni quotidiane e periodiche adatta ad un pubblico di massa

frettoloso alla ricerca di tematiche realistiche, vicine alla propria esperienza, in un linguaggio

comprensibile, deve però la sua ―fortuna‖ essenzialmente alla nuova generazione di scrittori messisi

all'opera nel Secondo Dopoguerra con l'intenzione di rompere con una tradizione letteraria sentita

come troppo ―compromessa‖ col tragico, recente passato. È a partire dalla nota antologia Tausend

Gramm. Sammlung neuer deutscher Geschichten, pubblicata nel 1949 da Wolfgang Weyrauch con

la relativa postfazione – contenente le parole d'ordine, poi degenerate, per una nuova letteratura

(Kahlschlag, Nullpunkt [punto zero], ecc.), l'appello agli autori a favore di una responsabilità

morale della scrittura nonché‚ di un'esatta descrizione delle condizioni sociali della situazione

dell'immediato Dopoguerra –, che la Kurzgeschichte si afferma come la forma più congeniale a far

fronte alle sfide di una precisa stagione storico-letteraria. ―Die Methode der Bestandaufnahme. Die

Intention der Wahrheit. Beides um den Preis der Poesie [...] Sie [die Autoren] fixieren die

Wirklichkeit. Da sie es wegen der Wahrheit tun, photographieren sie nicht. Sie röntgen. Ihre

Genauigkeit ist chirurgisch‖ [Weyrauch, 1949: 217-218]. Molti autori si allontanarono ben presto

da queste radicali osservazioni/richieste programmatiche di Weyrauch, abbandonandosi con estrema

libertà all'ampio spettro di potenzialità estetiche offerte dalla nuova forma breve.

Nonostante i numerosi e ampi studi e le innumerevoli, spesso serrate, dichiarazioni di

poetica avutisi sulla Kurzgeschichte nel corso di circa quattro decenni, non è stato possibile

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determinarne le precise coordinate di ―genere‖. Esemplare in questo senso è risultato il lavoro di

Ludwig Rohner, che dopo aver esaminato acribicamente 150 testi di dieci autori e aver dato un

ampio quadro dei fenotipi della Kurzgeschichte non arriva a formulare una precisa teoria del genere

[Rohner, 1973]. Ciò non toglie che alcuni lavori, come quelli di Klaus Doderer, Die Kurzgeschichte

in Deutschland, e di Walter Höllerer, Die kurze Form der Prosa, sulla produzione dei primi anni

della rinascenza della ―storia breve‖, nonché quello di Manfred Durzak, Die Kunst der

Kurzgeschichte, siano riusciti, se non a fondare una vera e propria teoria del ―genere‖, perlomeno a

circoscrivere alcune caratteristiche generali.

Doderer nella sua dissertazione del 1953 suddivide le forme della Kurzgeschichte in due

―tipi ideali sovratemporali‖ e in tre ―gruppi tecnici legati al tempo‖. I due tipi ideali si intendono

riferiti al contenuto e si basano sulla reazione del protagonista a un situazione di crisi: se il

protagonista va contro il proprio destino (comportamento attivo), Doderer parla di ―tipo-azione‖; se

invece il protagonista si sottomette al proprio destino (comportamento passivo), egli parla di ―tipo-

condotta‖. I tre rimanenti gruppi vengono distinti da Doderer in base a punti di vista strutturali:

1) la Kurzgeschichte abbozzata con descrizioni di dettagli d'ambiente;

2) la Kurzgeschichte strettamente epica con argomento elevato narrato in forma scorciata;

3) la Kurzgeschichte oggettiva, redatta in stile quasi giornalistico con mascheramneto degli

effetti.

A parere di Doderer, la Kurzgeschichte presentandosi essenzialmente come la riproduzione

artistica di un significativo momento di rottura nella vita (nel destino) di una persona si

distinguerebbe chiaramente dalle altre forme brevi. Dall'Anekdote [aneddoto] in quanto questo, ad

esempio, ha un'acme mentre la Kurzgeschichte una rottura, e a differenza di questa vuole essere

storico e avere un protagonista, mentre nella Kurzgeschichte il motivo trainante può essere anche

solo il destino. Per Doderer la Kurzgeschichte si distinguerebbe anche dalla short story anglo-

americana, in quanto, a differenza di questa considerata una sorta di nome cumulativo per qualsiasi

forma breve, sarebbe un genere dai contorni ben chiari. A differenza della Novelle [novella], che

chiude una problematica, la Kurzgeschichte la schizzerebbe solamente. Infine secondo Doderer

―anche nei confronti dello schizzo e del racconto per non parlare del romanzo, la Kurzgeschichte

preserva la sua autonomia. Mentre il primo riproduce soltanto un‘atmosfera, nella Kurzgeschichte si

svela un colpo del destino; e mentre il racconto addiziona degli eventi senza regolarità, la

Kurzgeschichte si limita a un unico evento elaborandolo in una forma precisa‖ [citato da Graf von

Nayhauss, 1977: 45-46]. Successivamente Doderer si è allontanato dalla sua prima classificazione

tenendo in considerazione solo quattro caratteristiche formali vincolanti per la Kurzgeschichte: essa

sarebbe più breve della Novelle, inizierebbe solitamente senza preambolo, si svilupperebbe in modo

lineare e di regola avrebbe una chiusa aperta, spesso sorprendente. [cfr. Doderer, 1972].

Anche Höllerer, nel noto saggio Die kurze Form der Prosa pubblicato nel 1962 sulla rivista

―Akzente‖, dopo aver escluso in partenza una concezione normativa di genere della Kurzgeschichte

e aver evidenziato sette condizioni basilari perché essa possa darsi nonché tre ―possibilità‖ di suoi

tipi, cerca, per esclusione, di isolarla dalle altre forme prosastiche brevi ricorrenti nella letteratura

tedesca. Per Höllerer le condizioni fondamentali (nello stesso tempo caratteristiche principali)

perché possa darsi la Kurzgeschichte sono:

1) la fissazione dell'attimo;

2) i passi decisivi scattano nelle situazioni in apparenza prive di importanza;

3) gli avvenimenti vengono solo accennati;

4) i personaggi e gli oggetti nelle situazioni focali si avvicinano gli uni agli altri;

5) l'azione si basa su singoli blocchi narrativi che si sostengono a vicenda;

6) il narratore non cerca di occultare l'operazione del narrare;

7) l'incipit e la chiusa sono aperte.

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Le tre possibilità di una tipologia della Kurzgeschichte sono:

1) la Kurzgeschichte dell'attimo;

2) la Kurzgeschichte arabescata;

3) la Kurzgeschichte sforzata ovvero a dissolvimento.

Secondo Höllerer la forma in questione non sarebbe un aneddotto, poiché i sette punti

appena citati per essa non vi si adattano, inoltre questo è localizzato spazio-temporalmente e

provvisto di un'acme. Il Witz [motto di spirito] è, a differenza della ―storia breve‖ o ―brevissima‖

molto arguto; mentre la Fabel [fiaba] intende mostrare una similitudine didascalica, estranea alla

Kurzgeschichte. Essa non è uno Skizze [abbozzo], poiché‚ questo non ha storia né azione,

comunicando solo sensazioni unitamente a riflessioni; e neppure uno Sketsch, essendo questo

innanzitutto solo un quadretto d'atmosfera. Benché molte Kurzgeschichten a carattere monologico si

avvicinino all'Einakter [atto unico] di ispirazione cocteauniana, questo presuppone quasi sempre un

antagonista anche se invisibile, assente nelle ―storie brevi‖ monologanti. Höllerer, a differenza di

altri, sottolinea come la Kurzgeschichte sia stata influenzata, angesteckt [contagiata] da due forme

di prosa breve: da un lato dalla Feuilletongeschichte (che potremmo osare di tradurre con

―elzeviro‖) col suo gradevole tono parlato; e, dall'altro, dalla lyrische Prosa [prosa poetica] a

impronta metaforica e ritmica. [Höllerer, 1962: 226-245].

Durzak tenta di sfruttare le ―possibilità di una teoria induttiva della Kurzgeschichte‖

[Durzak, 1994: 10] esaminando, nel succedersi cronologico e nell'intrecciarsi delle riflessioni, le

posizioni espresse da tutta una serie di autori di ―storie brevi‖ (Wolfgang Weyrauch, Alfred

Andersch, Elisabeth Langgässer, Wolfdietrich Schnurre, Herbert Heisenreich, Heinz Piontek, Kurt

Kusenberg, Hans Bender, Sigfried Lenz, Martin Walser, Günter Kunert, Josef Reding, Heinrich

Böll) allo scopo, se non di arrivare a una ben definita teoria del genere, di mostrare quali ―elementi

costitutivi rendano questa forma un genere letterario‖ [1994: 62]. Durzak perviene alla conclusione

che la Kurzgeschichte nel suo sviluppo storico è strettamente legata alla letteratura postbellica ed è

improntata da un fattivo scambio con la short story di stampo anglosassone, pur mostrando forti

legami con la tradizione narrativa tedesca. La Kurzgeschichte, per le sue condizioni di diffusione e

ricezione, non sfrutta il codice poetico della tradizione bensì il linguaggio della comunicazione

parlata. Essa, inoltre, pur essendo sulla carta realistica prelevando la materia narrativa dalle

esperienze di realtà dei lettori, modella le esperienze di realtà anche con il fantastico, l'ideale. La

Kurzgeschichte è una forma letteraria tutt'altro che impretenziosa, anzi dal momento che si basa

sulla riduzione, sull'eliminazione, sullo scorciamento, sulla concentrazione estrema, sull'attenzione

alla singola parola o frase e sugli spazi, i ―silenzi‖ significativi di questi – elementi che in alcuni

casi possono avvicinarla alla poesia –, richiede agli autori la massima abilità nella gestione dello

strumento ―scrittura‖. La dimensione rappresentativa portante della Kurzgeschichte è il tempo:

come continuum temporale di una determinata situazione, di un'azione, di un periodo della vita di

un attimo decisivo, come scandaglio di uno stato della memoria o della coscienza la dimensione al

presente della storia funge da punto focale in cui la totalità di una vita o di un'esperienza si

comprime tanto da rendere fulmineamente riconoscibile l'identità della realtà. Tale compressione,

concentrazione in un punto non significa però frammentazione del tempo. In relazione alla struttura

narrativa all'interno della Kurzgeschichte si può dire che essa, nonostante l'inizio spesso

improvviso, si muova verso un'acme, un climax, rispetto all'azione o all'attimo cognitivo, che offre

al lettore un orizzonte di conoscenza aperto spingendolo alla riflessione oltre la fine della singola

storia. La Kurzgeschichte, infine, benché possa servirsi per la propria diffusione di media caduchi

come la stampa quotidiana o periodica, è una forma narrativa ad alto contenuto artistico e di grande

efficienza espressiva [1994: 62-63].

Se i maggiori autori di ―storie brevi‖ si erano concentrati tematicamente dapprima sul

periodo bellico e postbellico, quindi sugli anni del ―miracolo economico‖, e successivamente sul

―sociale‖, sviscerando criticamente il pensiero e il modo di vita ―borghese‖, e passando

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gradualmente da uno stile fortemente orientato al realismo a un modo di scrivere di impronta

psicologica con puntate nel surreale, a partire dalla fine degli anni Sessanta si nota nelle narrazioni

di scrittori come Jürgen Becker, Peter Bichsel, Reinhard Lettau, Christa Reinig, Peter Handke, Wolf

Wondratschek, Thomas Bernhard, Gabriele Wohmann, Günter Bruno Fuchs, Günter Kunert una

nuova, diversa coscienza formale. ―La soggettività nella prospettiva, nel modo di rappresentazione e

nella tematica si impadronì della Kurzgeschichte vista come propria forma espressiva relegò in

secondo piano quelle forme di letteratura, quali il resoconto e il reportage, che nonostante la pretesa

oggettività si dimostrarono forme azionistiche socio-politicamente impegnate‖ [Graf von Nayhauss,

1982: 7]. In questa nuova temperie culturale, sorta dalla disillusione nei confronti della possibilità di

trasformare la società con gli strumenti dell'arte, maggiormente attenta all'io, alle emozioni, alle

sensazioni, al quotidiano – rilevabile anche nelle tendenze della coeva poesia della cosiddetta Neue

Subjektivität [Nuovo Soggettivismo] o della Alltagslyrik [poesia del quotidiano] – la

Kürzestgeschichte sembra diventare, col risalto dato al dettaglio e con la sperimentazione di singoli

elementi linguistici e con le sue strutture minimali, la forma più congeniale a cogliere le scaglie, i

frammenti di un mondo atomizzato. Nell'osservazione momentanea, nell'atmosfera aleatoria e nel

modo di raffigurazione di queste ―kostbaren Nichtigkeiten‖ [preziose nullità] (Peter Altenberg)

sembra trovarsi l'estratto dell'esistenza. Altro elemento importante da segnalare, della ―storia

brevissima‖ rispetto alla Kurzgeschichte, legato all'ulteriore riduzione e compressione, è senz'altro

l'intenzionalità di parodiare quest'ultima, presente in diversi autori, e quindi il relativo gioco coi

contenuti e certe forme narrative [Riha, 1990: 115].

―Genericamente‖ anche la Kürzestgeschichte è di difficile, se non impossibile catalogazione,

data l'estrema varietà delle forme esistenti. Per essa possono senz'altro valere alcune delle

considerazioni svolte in precedenza per la Kurzgeschichte talvolta portate alle estreme conseguenze,

tenendo in considerazione una maggiore influenza sulla ―storia brevissima‖ di forme quali il Witz,

lo Sketsch e l'Erzählgedicht [poema narrativo]: in sostanza un'ulteriore compressione del narrato,

un'estrema ellitticità, una forte attenzione alla scelta e alla distribuzione linguistica, una più forte

sottolineatura dell'acme.

1.1.4. Dalla Kürzestgeschichte alla minificción alla Kürzestprosa

Nell‘ultimo decennio, sulla base di una tradizione piuttosto lunga peraltro, in ambito

ispanico e in particolare latinoamericano (Brasile compreso: si pensi al grande Dalton Trevisan, ―O

Vampiro de Curitiba‖) le potenzialità della prosa breve e brevissima di taglio narrativo anche sui

generis sono state sfruttate al massimo da tutta una serie di scrittori, le cui opere sono seguite da una

attentissima e motivata critica [cfr. in particolare Noguerol 2004; Zavala s.d.a; s.d.b; 2000; 2004a;

2004b]. Ovunque si moltiplicano congressi, riviste, concorsi e gli spazi anche sulla stampa

quotidiana e periodica dedicati alla cosiddetta minificción (un iperonimo che viene a comprendere

anche il termine a lungo suo concorrente di microrelato), ovvero a racconti brevi della lunghezza

massima di una pagina. Tra le caratteristiche di questi miniracconti sono da annoverarsi un‘estrema

brevità, un‘economia di linguaggio e la presenza di giochi di parole. Con l‘enfasi tipica di fine

secolo Lauro Zavala ritiene che questo tipo di prosa sarà il genere del terzo millennio, in quanto si

tratta di una forma letteraria che ben si adatta alla frammentarietà paratattica della scrittura

ipertestuale, propria dei mezzi di comunicazione elettronici come internet, che saranno in futuro il

luogo privilegiato per la diffusione della letteratura [Zavala, s.d.b]. Egli identifica sei caratteristiche

fondamentali della minificción sulle quali dovrebbe concentrarsi l‘analisi e la critica letteraria:

―brevedad, diversidad, complicidad, fractalidad, fugacidad y virtualidad‖ [brevità, diversità,

complicità, frammentarietà, fugacità e virtualità]. La brevità è senz‘altro la caratteristica più

evidente di questi testi, che in tal modo contribuiscono a sfatare il mito che solo testi che superano

una certa lunghezza possono essere definiti testi letterari. Brevità non è, come si tenderebbe a

pensare, sinonimo di semplicità; al contrario lo spazio di una pagina può essere sufficiente a dar vita

alla maggior complessità letteraria possibile. E anch‘egli si rifà al Calvino della lezione americana

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sulla rapidità in cui la brevità è vista come una virtù, che nasce dall‘abilità e dal duro lavoro dello

scrittore che cerca di condensare e concentrare il più possibile la narrazione. Solo con le forme

brevi si riesce a raggiungere appieno e a mantenere lungo tutta l‘opera quella tensione e densità di

narrazione e d‘espressione che avvicina la prosa alla poesia [Calvino, 1988: 56]. Con la brevità e

con la fugacità si può raggiungere un‘efficacia narrativa e simbolica sorprendente. Basti pensare

alle parabole bibliche, la loro virtù pedagogica non sarebbe quella che è, se esse fossero state lunghe

svariate pagine. Trattando della diversità come caratteristica della minificción individuata da Zavala

si torna nuovamente a parlare dell‘eterogeneità e dell‘aspetto camaleontico e proteiforme del genere

della prosa breve. Zavala ritiene che la minificción sia una forma naturalmente ibrida, sia nella sua

struttura interna, sia per il fatto che questa forma letteraria si avvicina ad una pluralità di generi tra

cui la vignetta, la cronaca, il racconto poliziesco e di fantascienza, la prosa a carattere fiabesco,

fantastico o saggistico [Zavala, s.d.a: online]. In questo egli fa proprio determinate coordinate già

stabilite anche in ambito critico tedesco a proposito delle grandi prose restie a una classificazione

organica ad esempio di Robert Walser, Alfred Polgar o Franz Werfel, sbrigativamente etichettate

come feuilletonistisch (attributo traducibile con un termine ormai definitivamente in disuso:

elzeviristiche), distinguendo svariate forme ibride a metà strada tra la prosa narrativa, la cronaca e il

saggio tra le quali: l‘ensayo narrativo [saggio narrativo], la crónicas-ensayo de naturaleza

narrativa [saggio cronica di natura narrativa], la crónicas ficcionalizadas [cronaca a carattere

finzionale] e altre.

Un‘ulteriore caratteristica fondamentale della prosa breve o brevissima è secondo Zavala la

fractalidad, che si potrebbe tradurre come frammentarietà. Le forme brevi o brevissime

rappresentano la frammentazione di concetti percepiti come univoci e unitari quali realtà, mondo e

vita. Tale accresciuta frammentarietà deriva da una diversa visione del mondo e costituisce un

diverso modo di scrivere, che stravolge l‘unitarietà dell‘opera letteraria. Il frammento non è un

dettaglio di poca importanza, ma un elemento dal quale si può partire per ricostruire un‘interezza,

ed esso racchiude in sé una totalità che merita di essere scoperta e esplorata. La frammentarietà è

per Zavala però anche un diverso atteggiamento del lettore che, come afferma Daniel Pennac nel

suo famoso decalogo ha sempre il diritto di ―piluccare‖, ovvero di leggere ―a spizzichi‖. La

frammentarietà, al pari della brevità, sembra essere quindi una delle caratteristiche fondamentali

della scrittura contemporanea e del futuro, poiché essa non solo si adatta alla diffusione attraverso le

tecnologie informatiche, ma anche perché ben si sposa con la vita frenetica della società odierna

[Zavala, s.d.a: online], tutti elementi peraltro individuati in precedenza anche dallo scrivente [cfr.

Nadiani 1995: 91-109; online]. Una letteratura flash destinata ad essere consumata nei tempi morti,

mentre ci si sposta in metropolitana da un lato all‘altro della città o navigando in internet. E il

sostantivo aggettivante ―flash‖ lo troviamo anche nel sintagma del titolo di due fortunate antologie

uscite negli Stati Uniti [cfr. Thomas & al. 1992; Thomas; Shapard 2007], diventato una sorta di

definizione-ombrello per tutte le forme di ―very short stories‖ o di ―short short stories‖.

Un‘ultima caratteristica che Zavala attribuisce alla minificción è il suo essere un luogo privilegiato

per diverse forme di humour e di ironia [Zavala, s.d.a], che senz‘altro si attaglia anche ad altre aree

linguistiche, basti pensare in ambito americano a Dave Eggers, e in quello tedesco a Ror Wolf,

Günter Kunert o Max Goldt.

Ma tra i generi che influenzano e si mescolano alla minificción Zavala non dimentica di

certo la poesia. La tendenza poetica di alcune prose brevi non stupisce, in quanto prosa breve e

poesia sono accomunate da una forte densità di linguaggio e di contenuti. Non è un caso infatti che

nella lingua tedesca gran parte del campo semantico relativo alla poesia, Dichter [poeta], dichten

[scrivere poesia], Gedicht [componimento a carattere poetico], Dichtung [poesia], derivi

dall‘aggettivo dicht, che significa per l‘appunto ―denso‖. Il punto di ibridazione tra la prosa

narrativa breve e la poesia è ovviamente anche per Zavala il poemetto in prosa, che gli studiosi

tedeschi fanno rientrare col termine di Prosagedicht [poesia in prosa] o con quello di Erzählgedicht

[poema narrativo] nella definizione di già citata all‘inizio di Kürzestprosa. Stando ad alcuni il

poemetto in prosa, chiaramente di ascendenze baudelairiane attraversanti tutto il primo Novecento

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italiano ―frammentista‖ e ―prosartista‖ [cfr. Giusti 1997; 1999a; Giovannetti 1998; Gubert 2004;

Valli 1980; 2004], è ―ciò che resta della poesia quando le si toglie il metro‖ vale a dire la poesia

senza il verso [Giusti, 2005: 14]. Si tratta di testi fortemente strutturati, dove la suddivisione in

paragrafi riprende la suddivisione in strofe, sia dal punto di vista strutturale che iconico e nei quali

l‘autore cerca di riprodurre la poeticità propria della poesia, rinunciando però alla metrica [2005:

18-19]. In questo modo egli entra in un territorio in cui la poeticità è valutabile solo sul piano

estetico e deve essere percepita prima di tutto dal lettore, necessitando di essere di volta in volta

concordata tra quest‘ultimo e l‘autore. Questa necessaria complicità tra autore e lettore è quindi

caratteristica comune sia alla minificción che al poemetto in prosa. Anche nel caso del poemetto in

prosa, la brevità non sarebbe un elemento marginale, ma uno strumento necessario soprattutto a far

sì che il testo abbia l‘effetto sperato sul lettore [Giusti, 2004: 24]. Come già aveva notato Vittorio

Pica, l‘autore di ―poemucci in prosa‖ (secondo la sua definizione) deve possedere grande doti

stilistiche poiché deve essere in grado di condensare in poche righe ciò che avrebbe potuto dire in

molte pagine, utilizzando uno stile musicale e sopperendo al bisogno di ―concisione suggestiva‖ del

lettore [cfr Pica, 1888 cit. in Giusti 2005: 23].

Ma, ovviamente, nella poliedricità della definizione di Kurzprosa (inglobante quelle finora

affrontate di Kürzestprosa, minificción e di flash fiction nelle loro varie declinazioni) e che da ora in

avanti mi permetto di usare nel suo calco italiano di prosa breve, vengono a rientrare dal mio punto

di vista forzatamente anche tutte quelle forme di ―scritture performative‖, ―dialogiche‖, che hanno

la pretesa nella ―storia‖ narrata di essere dialoganti, oltre che con un lettore, anche con uno

spettatore/ascoltatore, talvolta liricamente e/o musicalmente ritmate ma non necessariamente; con

forti connotazioni teatrali insomma, in cui il testo funge anche da spartito da interpretarsi, ogni volta

sempre in modo nuovo in base appunto alla risposta del pubblico, del dialogo co-creativo che si

instaura in quella specifica situazioni tra tutti i partecipanti all‘evento. Ed è in questo spazio vivo

che si insinuano sempre più la mia piccola, prosastica letteratura, i miei prosaici, impoetici versi.

Uno ultimo spazio in cui contribuire al crearsi, seppur momentaneo ma non meno importante, di un

luogo comune, a fronte della dispersività mediatica a cui sembra essere condannata la parola

letteraria, così come ancora la conosciamo.

3. A mo‟ di conclusione: prosa breve come iperonimo personale

Allora, ecco la voce, il suo suono innervarsi attorno a quello degli strumenti di un blue-jazz

funky e fusion suburbano sfregiato da una stridente contemporaneità contiguamente ai ―contenuti‖

dei versi. Ecco la traccia esprimersi appieno nell‘esecuzione dal vivo. È qui nell‘esecuzione ―tra la

gente‖ (e per me negli ultimi vent‘anni ciò ha significato ―esibirsi‖ in piazze, strade, piazzette,

teatri, circoli, pub, discoteche eccetera) che la traccia si fa azione, opera, e consegue la sua

accessibilità, la sua fisica, corporea consumabilità. Perché l‘esecuzione dell‘opera – un insieme

inscindibile di parole, musica e ―paratesto‖ (gesti, sguardi, luci, rumori ecc.), nato e cresciuto

dall‘incontro creativo, che può durare nelle sue varie fasi mesi e anni tra i partecipanti

all‘esecuzione/produzione, e rinnovato, ricreato ad ogni nuova pubblicazione (esibizione) –

costituisce il momento cruciale di una serie di operazioni, che sono per così dire le fasi

dell‘esistenza del testo/spartito da interpretarsi, come si diceva: produzione, trasmissione, ricezione,

conservazione, ripetizione. Per Zumthor, l‘opera diventa ciò che è comunicato qui e adesso: testo,

sonorità, ritmi, elementi visuali: questa la totalità dei fattori; la poesia, la narrazione, la melodia

dell‘opera è il testo, senza che vengano presi in considerazione gli altri elementi; il testo sarà la

sequenza linguistica uditivamente percepita, sequenza il cui senso globale non è riducibile alla

somma degli effetti particolari prodotti dalle sue componenti successivamente percepite. Il

messaggio è pubblicato nel senso più pregnante del termine. L‘esecuzione diventa un evento sociale

creatore, atto pubblico di rifiuto della privatizzazione del linguaggio, in cui l‘ascoltatore con la sua

azione ricettiva – durante la quale egli ricrea a suo proprio uso, e secondo le sue proprie

configurazioni interiori, l‘universo significante che gli è trasmesso – contribuisce in modo

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determinante, diretto, alla produzione dell‘opera in esecuzione. A mio avviso la ―fusione dialogica‖

di strumenti e voce, l‘insieme veicolato/ascoltato significa qualcosa di più rispetto al

significante/significato delle singole componenti (traccia, note, voci ecc.) e – così mi sembra – la

ferita, il dramma, la gioia, la rabbia o quel che é possono essere esperiti più potentemente. Stando ai

termini leggermente apologetici di Zumthor, l‘esecuzione simboleggia un‘esperienza, ma al tempo

stesso lo è, un‘esperienza sempre ripetibile eppure sempre nuova. Il testo che si propone nello

spettacolo vissuto non sollecita l‘interpretazione perché il suo senso non è di natura tale da poter

esser esplicitato da un‘ermeneutica ―letteraria‖, perché questo senso è, in profondità e

nell‘accezione più ampia del termine, politico. Esso proclama l‘esistenza di un gruppo sociale

(autore-esecutori-ascoltatori), poiché la funzione permanente dell‘esecuzione è quella di unificare e

unire, rivendicandone il diritto di parola, il diritto di vivere [cfr. Zumthor: 32; 95; 184; 287; 293;

294]. In tal modo attraverso il ―suono‖ (tutto quell‘insieme di cui si diceva) viene abolita la

separatezza tra il tracciatore di versi e il suo pubblico: ecco avvenire l‘incontro, la Relazione

(almeno questa è la sensazione che più volte si è provata). È in essa che si crea, in forme e misure

diverse, il barlume di una sorta di luogo di una comune diversità, di socialità, altrimenti solo

immaginarie; il luogo in cui, ―quando una parola funziona, quando una comunicazione accade […]

sentiamo, per un istante almeno, il brivido di un‘esistenza condivisa‖ [Ronchi 2000: 14].

Mi si conceda dunque di impiegare, se proprio si vuole una definizione in questa epoca in cui le

Grandi Narrazioni (a cui certi generi letterari hanno dato il loro determinante contributo) hanno

fatto veramente il loro tempo, e a fronte della prosopopea spesso vuota del romanzo, del ―genere di

consumo‖ per antonomasia ma pure della ―profetica sacerdotalità‖, spirituale o sociale che sia,

ancora di troppa poesia, questo umile termine-ombrella di prosa breve, trascendente – per dirla con

Genette – le testualità, elastico e camaleontico il giusto per nascondere dentro di sé in forme sempre

nuove e incompribili, nella lingua (sempre nel senso dello studioso francese, di poesia o prosa)

meticciata di un codice bastardo (lingue ufficiali e dialetti ecc.) ―le parole per noi necessarie‖.

Giovanni Nadiani

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AL DI LÀ DEI GENERI

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JÉRÔME GAME

ATTUALITÀ DEL MODERNO

Secondo il filosofo Jacques Rancière, la modernità estetica nella sua accezione corrente (vale a dire,

per quanto riguarda la poesia, l‘«epoca» aperta da Baudelaire e dalla triade Rimbaud-Lautréamont-

Mallarmé) è un cattivo concetto: sorta di passe-partout superficiale ed incoerente, esso non

riuscirebbe a spiegare, all‘interno di questo preciso momento storico, la singolarità della produzione

poetica in quanto frutto di una estetica trans-storica piuttosto che di un‘estetica semplicemente

cronologica. Così, anziché definire la modernità come aperta rottura tra un prima e un dopo, si è

giustamente preferito concepirla come pensiero del divenire delle forme. In sostanza, la «tradizione

del nuovo» esiste soltanto nella relazione intima ed inestricabile con la «novità della tradizione»: la

modernità non può essere datata a partire da un‘origine o da un fondamento che la inauguri

leziosamente, come se fosse un ramo della metropolitana o una linea ferroviaria. Al contrario, essa

trae origine da una genealogia, da una storicità, da una riflessività – vale a dire da un modo

particolare di creare pieghe in un substrato, di produrre opere sopra, con, a partire e contro altre

opere. Questo gesto caratteristico della modernità in quanto rapporto con il passato – il nuovo inteso

come piega più intensa degli strati costitutivi del reale e del simbolico, di quel famoso sempre-già-là – balza chiaramente agli occhi nell‘ultimo saggio di Christian Prigent, Salut les anciens/Salut les

modernes (ed. P.O.L., 2001), in cui tre giovani poeti (Philippe Beck, Charles Pennequin, Christophe

Tarkos) sono studiati in diretto confronto con Lucrezio, Marot, Jarry, Verlaine, ecc.

Inventare riprendendo ed abbandonando: è così che funziona la fissità in perpetua oscillazione, il

movimento immobile che definisce la modernità come atto più che come periodo o catalogo (di

opere, di autori). In ogni particolare epoca, la questione della modernità consisterà dunque nello

specificare questa fondamentale caratteristica a partire dalla interrogazione delle condizioni e delle

modalità del gesto dell‘invenzione poetica: perché questa piega adesso? chi o che cosa inventa

poeticamente? in che modo? mosso da quale forza o da quale energia? in quale contesto? con quali

finalità?

Le righe che seguono si sforzano di comprendere la poesia contemporanea nell‘accezione che

Dominique Fourcade assegna a questo termine nel suo libro Outrance utterance et autres élégies: è

contemporaneo ciò che non quadra con il moderno, ciò che è, rispetto a quest‘ultimo, «non-

identico». Si tratterà così di osservare schematicamente il modo con cui la modernità dispiega la

propria diversità riguardo alla questione della produzione e della esperienza poetica come

destabilizzazione della soggettività tradizionale (l‘Io/Me sostanziale, colto nella sua dimensione

cronologica) a tutto vantaggio di una identità porosa e in continua elaborazione (la

soggettivizzazione come prova di un puro presente), con tutte le implicazioni sul reale che un tale

dispiegamento nasconde – vale a dire la dimensione propriamente politica, rivendicata o non

rivendicata, cosciente o non cosciente.

In effetti, tanto a partire dall‘Io-è-un-altro di Rimbaud che dall‘impersonale mallarmeano, numerosi

sono i percorsi tracciati ad uso della scrittura; questi percorsi, attraverso tessiture labirintiche,

offrono oggi alla lettura e all‘ascolto due grandi tipi di poesia, che, in mancanza di meglio e in

mancanza di tempo, chiameremo poetica del soggetto e poetica dell‟evento. La poetica del soggetto

è stata teorizzata per prima ad opera di Jean-Michel Maulpoix, e consiste essenzialmente nel dire la

vita: una voce, un‘anima, parlano, si manifestano: «mi succede qualcosa» – così facendo,

manifestano il mondo. Il componimento poetico è un‘espressione dell‘esistenza in quanto cosmo

infinito, e il poeta è un «soggetto lirico» (Maulpoix) che la produce attraverso una deiscenza

costitutiva. È riconoscibile in questa poetica dalla struttura chiasmatica il paradigma

fenomenologico: un orizzonte, un uomo, un tutto. A questa tipo di ispirazione appartengono le

opere di Yves Bonnefoy, Antoine Emaz, Jean-Michel Maulpoix, André Du Bouchet, Jude Stefan e

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di molti altri ancora – mentre quelle di Bernard Noël, Dominique Grandmont, Fabienne Courtade,

Michel Deguy, Yves Di Manno costituiscono già una sorta di termine mediano tra le due posizioni.

La poetica dell‘evento, invece, anziché dire la vita, tenta di fare in modo che sia la vita stessa a

dire. Con un‘immediata precisazione da aggiungere: tale poesia si trova destinata al lavoro e alla

fatica tanto quanto la precedente – anch‘essa è produzione, composizione, opera e non natura. Si

tratta tuttavia nel suo caso di manifestare attraverso le costruzioni testuali il carattere per l‘appunto

già costruttivista della stessa natura. Non soltanto secondo questa posizione – ma questo vale anche

per la poetica del soggetto – esiste una certa inadeguatezza tra l‘io e il mondo, tra l‘io e il

linguaggio, e persino all‘interno dello stesso io, ma soprattutto – e qui sta la differenza con quanto

affermato dalla poetica del soggetto – tale inadeguattezza non è affatto solubile né risolvibile in un

universo chiasmatico, per quanto questo possa essere effimero come l‘istante di un testo poetico. Al

contrario: lo stesso carattere poetico si fa generalizzazione, disseminazione, proliferazione,

diffrazione della inadeguatezza. Seguendo una logica dell‘aggravamento, esso consiste

nell‘intensificare la natura naturans del mondo attraverso la natura del soggetto, nell‘innalzarla

reciprocamente al quadrato, al cubo, all‘ennesima potenza, piuttosto che nel ridurla o nel

razionalizzarla, nel soppesarla introducendo il concetto di una natura naturata che il poeta e il

mondo rappresenterebbero l‘uno nei confronti dell‘altro, fosse solo per poco tempo o in alternanza.

Detto in altre parole, lungi dall‘essere la descrizione del reale, proprio di questo reale il testo

poetico rappresenta invece l‘«operazione» (Alain Badiou), una operazione che è sempre e

sicuramente finita, ma nella quale comunque lo stesso reale tende a «macchinarsi» (Deleuze e

Guattari) attraverso il linguaggio per formare il solo senso che non sia predeterminato: l‘in-sensato.

Usando i termini di Christian Prigent, non c‘è mai «idillio» o pausa nel non-senso. Usando quelli di

Gilles Deleuze, «il Caos caotizza», e quindi non esiste essenza: ciò significa che è l‘informe del

reale e del linguaggio, mai predeterminato una volta per tutte, a concatenarsi in maniera costante e

senza modalità d‘impiego lungo le espressioni – le opere. Queste ultime non sono più il fatto o il

prodotto di una coscienza – sia pure aperta – quanto piuttosto di una circostanza che si determina

tra un corpo, una cultura e una storia: un evento, concepito come simultaneità di una prova e

insieme della intelligenza impersonale che da essa viene prodotta. Il testo poetico si trova ad essere

traccia attiva di un processo grazie al quale il mondo in quanto caos si propaga e si trasforma. La

poesia come espressione non si concepisce più in termini di comunicazione, presupponendo due o

più soggettività preformate che (si) rappresentano nelle loro opere, quanto ormai in termini di

vibrazioni formanti esse stesse delle entità tanto precarie quanto la corrente che le descrive

unendole.

Da tutto questo consegue che al posto dell‘Io/Me, del tu, del chi, è invece un cosa, un che, un si che

scrive: un flusso-movimento, una progressione al di là di ogni piano o di ogni mappa pre-esistenti.

Così indeterminato, un tale «soggetto» non ha più alcuna materia da «dire» nel suo testo poetico: la

dicotomia sfondo/forma tradizionale non ha più alcun senso. Lungi dal riassumersi nell‘espressione

a mezzo di parole di una percezione, di un‘idea o di un sentimento prodotti nell‘alambicco dell‘Io,

la poetica dell‘evento consiste piuttosto in un appuntare incoerentemente ed arbitrariamente la

fluidità ultima, essa stessa contingente, dell‘essere; in definitiva: una messa in disordine del

disordine – vale a dire, naturalmente, un ordine superiore, una coscienza impersonale superiore: un

ordine che è una conoscenza della propria precarietà e quindi anche ciò per mezzo di cui il senso si

crea – il senso dell‘in-sensato, il senso come in-sensatezza rivelata dalla forma come in-formalità.

Non essendo più pertinente la dicotomia tra sfondo e forma, non lo sono più nemmeno quei temi o

quelle figure di stile che considerati in sé avrebbero naturalmente potuto, in altre occasioni storiche,

apparire come poetici. Nasce da ciò una incertezza generale nell‘opera di questa poetica dell‘evento

tanto riguardo a ciò che si dice quanto riguardo alla maniera di dirlo. Possiamo così segnalare

l‘insistenza di Philippe Beck sul verso accanto al lavoro sulla prosa di Nathalie Quintane, Didier

Garcia, Vincent Tholomé e Christophe Hanna – da qualche altra parte invece Dominique Fourcade

e Jean Pierre Faye si trovano ad operare sulla radicale indeterminatezza tra i due. Quanto agli altri,

Olivier Cadiot, Jacques-Henri Michot, Manuel Joseph e Vannina Maestri aggravano la natura

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costruttivista del reale attraverso le loro procedure di cut-up e di montaggio – e questa ultima

nozione viene intensificata in vari altri modi anche da Jacques Sivan o, recentemente, da Anne

Portugal. Non dimentichiamo nemmeno i montaggi delle pagine di Michel Crozatier e Joseph

Guglielmi. O i balbettamenti pastosi e inerti di Christophe Tarkos e di Charles Pennequin, la lingua

a scatti di Mathieu Messagier, i ritornelli di Christophe Fiat, le concrezioni di Philippe Beck, i

soggetti fantasma di Anne-James Chaton – che sono tutte procedure dell‘evento. Come lo è pure la

tensione tra senso e non-senso che le parole di Jan Baetens esasperano lavorando sulla letteratura

delle costrizioni, e come lo è pure il motore a scoppio chimico-poetico che Jean-Michel Espitallier

si è inventato.

A livello più generale, è importante osservare come in tutte queste scritture la contingenza si

manifesti mediante una forte propensione all‘assunzione di un corpo, quindi non verso la

recitazione dei propri testi in pubblico o una scrittura sopra il corpo, ma piuttosto verso la

trasformazione della performance fisica in tutta la sua irriducibile imprevedibilità nel luogo preciso

della propria in-sensatezza. Questo punto trova una risonanza particolare con la posta in gioco

rappresentata dal sesso e dal desiderio, intesi come paradigmi della creazione poetica, la quale viene

a sua volta concepita come massima tensione verbale dell‘essere e come propensione alla morte – in

particolare con le opere di Christian Prigent, di Dominique Fourcade, di Marie-Laure Dagoit e di

Jérôme Game.

Al termine di questa rapidissima quanto incompleta rassegna, mi sembra di poter osservare che il

criterio generale in grado di specificare la prodigalità e l‘eterogeneità professate dalla poesia

contemporanea si riveli essere proprio questo attaccamento collettivo alla scrittura in quanto

dimensione di una rivoluzione ontologica, sperimentata in modo particolare attraverso la rottura con

la figurazione e l‘inedita corporalizzazione a cui si è dato luogo: il soggetto, l‘individuo, l‘io, il me,

il tu, il noi, non sono veramente più ciò che erano – sono invece diventati movimento e materia

sottoposti a un divenire diversificato. Ed è allora qui che si decide della dimensione

simultaneamente pan-artistica e politica connessa con questa radicalizzazione del moderno.

Meglio di altri Jean-Marie Gleize ha compreso lo statuto per così dire trascendentale del nesso che,

all‘interno delle coordinate della modernità estetica, si viene a stabilire tra sesso, in-forme,

soggettivizzazione, stile e potere (riconoscendo così tutto il debito della modernità nei confronti

della filosofia di Gilles Deleuze e di Michel Foucault). Gleize chiama questo nesso «principio della

nudità integrale», e afferma, con un certo compiacimento, che «la nudità vince», vale a dire che le

potenze dell‘in-forme, la materia nuda, pura e non idealizzata, esasperata nella sua finitezza e nella

sua malleabilità da ogni genere di affetto, stanno costituendo per mezzo di una poetica letterale più

che metaforica, metamorfica più che figurata, una nuova piega generale in seno al moderno. Da una

parte, infatti, la rivoluzione ontologica interessa, per definizione, ogni intersoggettività umana, e più

violentemente ancora interessa tutte quelle intersoggettività che si specializzano nel pensare e nello

sperimentare se stesse come se non fossero una cosa ovvia: l‘arte quindi come insieme di pratiche

creative che si incrementano a vicenda. Dall‘altra, e per essere più precisi per estensione, una simile

modernità poetica non può che ritrovarsi ad essere parte integrante di ogni tentativo rivoluzionario

quanto alla ideazione dei modi di resistenza al potere, inteso nella sua generica accezione di

stomaco, vale a dire nella sua spaventosa ed anonima attitudine a dominare tutto e a digerire tutto –

vittime consenzienti, vittime inconsapevoli, oppositori. In effetti, tale realtà del potere non

rappresenta più una «minaccia» che viene posta di fronte all‘«umanità» benevola e non sollecita più

quindi una controffensiva da parte della «civiltà». Piuttosto, questa realtà, siamo noi, è già il noi, e

siamo noi ancora domani – ma mai tutto il noi. In altre parole, al posto di invocare un argine

escatologico in versione da gran serata, il potere contemporaneo alimenta la possibilità storica di

una rivoluzione perpetua: la metamorfosi, il divenire-altro come identità. Ed è questo ciò a cui il

poetico contemporaneo – e occorre rallegrarsene – risponde con energia.

Jérôme Game

[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]

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JEAN-MARIE GLEIZE

LA SCELTA DELLE PROSE

Il meno che si possa dire è che è difficile vederci chiaro. La prosa è il romanzo (evidentemente), e

la poesia è la poesia. Quest‘ultima bisognerà pure riconoscerla da qualche cosa. Il caso più semplice

è quando va a capo su una linea (il verso); quando invece si presenta in prosa – come dire? – si

riconosce ugualmente e subito: di norma non assomiglia alla prosa. E poi si capisce bene che

funziona come una poesia: non va a capo-linea, ma va a capo-pagina, crea un blocco, e c‘è dello

spazio bianco tra i blocchi, un vero e proprio spazio bianco invalicabile: la poesia basta a se stessa,

è un oggetto messo in una forma (d‘oggetto), e lo si percepisce al primo sguardo. Queste sono

comunque cose assolutamente evidenti.

Il vero problema è che oggi, nella massa concreta degli scritti letterari, nulla avviene in realtà come

sui nostri scaffali o in accordo con le nostre reminiscenze scolastiche. Ci si ricorderà forse di un

volume collettivo, non molto ben accolto dalla critica, e destinato a gettare scompiglio sugli scaffali

dei generi: si intitolava L‟Hexameron(1) e recava come sottotitolo: c‟è prosa e prosa. Forse questi

scrittori pensavano che la prosa del romanzo non fosse la «sola» prosa? E che del resto non lo fosse

nemmeno quella della «poesia in prosa.» D‘altro canto, malgrado le apparenze, si può anche

affermare che c‘è sempre poesia e poesia, e che la «querelle», le guerre di religione, gli spostamenti

diversi, le battaglie di trincea, e persino le sortite corpo a corpo continuano, anche se tutto questo

avviene (provvisoriamente) in un angolo morto: la questione della prosa non è regolata.

Se si volessero tracciare con poche parole i contorni di questo paesaggio, si dovrebbe dire questo:

che resta un forte baluardo perennemente preoccupato di definire la poesia per mezzo della metrica,

e costituito a sua volta da un versante che non si può evitare di definire conservatore (esso esalta

una certa «restaurazione» metrica, fino ad arrivare all‘elogio del verso alessandrino – e abbiamo

assistito poco tempo fa a dichiarazioni del genere sotto la penna di Jacques Réda), e da un versante

modernista: quello della ricerca neometrica, tanto attraverso il reinvestimento di metriche lontane

(nello spazio: le tradizioni altre: cinese, giapponese…, o nel tempo: riattivazione della memoria

metrica: trovatori, «grands rhétoriqueurs»(2)…), tanto attraverso l‘investigazione e la

sperimentazione di nuove costrizioni (è tutto un aspetto del lavoro formalista dell‘Oulipo). Il poeta

Jacques Roubaud è assai rappresentativo di questo versante moderno, perfettamente illustrato a suo

tempo anche dall‘attività di autori e teorici raggruppati intorno alla rivista Change. All‘interno di

questa tendenza, se si cerca un titolo recente e brillante, spicca la raccolta di Pierre Lartigue La

forge subtile (Le temps qu‘il fait, 2000), che si pone sotto il segno di Arnaut Daniel e dei migliori

«fabbri» di sonetti, canzoni e altre sestine. Questo da una parte.

Dall‘altra, dalla parte invece di coloro che ricercano al di fuori delle regolamentazioni metriche, non

è impossibile distinguere due posture: ci sono quelli che pensano di non poter fare a meno di

conservare una specificità formale della poesia, e scrivono poesie in prosa (o prose di poesia), e si

chiamano Gilles Jouanard o Jean-Michel Maulpoix – il filone, che trova la sua fonte (una delle sue

fonti) in Gaspard de la nuit(3), e che si perpetua magnificamente, al di là dell‘esemplare Cornet à

dés di Max Jacob, fino ai giorni nostri, non sembra assolutamente esaurito. Ce ne sono anche altri

che, senza abbandonare il campo, e senza soprattutto abbandonare il canto della poesia

«propriamente detta» – per quanto diverso esso si possa presentare: dall‘eufonia alla dissonanza –,

continuano a praticare il verso libero, o il versetto ad alta tensione (Pierre Oster) o a bassa tensione,

prosaizzante, volutamente privo di grazia (James Sacré). Altri, infine, e non sono certo i meno

avventurosi o i meno giustificati, da André du Bouchet fino a Claude Royet Journoud, hanno

esplorato, sulle orme di Mallarmé, quella che potrebbe essere una lingua poetica che non fosse né

prosa né verso, con disposizioni diversamente spaziate sulla pagina, movimenti, e ponendo (mi

sembra) una transizione verso altre ricerche, sfruttando una tipologia di prosa che, polimorfa e

spesso innestata su altri modi di espressione (video, fotografia, performances…) pare proliferare al

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giorno d‘oggi, talvolta ancora dichiaratamente «all‘interno» della poesia, talvolta altrettanto

dichiaratamente «al di fuori» di essa.

A questo punto del discorso occorre fare un passo indietro e riascoltare la voce di Baudelaire che

nella celeberrima lettera ad Arsène Houssaye (la si colloca normalmente a prefazione dei Petits

poèmes en prose) pone la prosa in avanti, non come strumento o come forma messi a disposizione,

ma come esigenza, e non come semplice esigenza interiore, personale, ma come esigenza oggettiva:

«Chi di noi non ha sognato, nei giorni dell‘ambizione, il miracolo di una prosa poetica [in un‘altra

versione Baudelaire diceva: di una «prosa particolare»] musicale senza rima né ritmo…» e

aggiungeva che «questo ideale ossessionante» era legato alla «frequentazione delle città immense»,

e nasceva «dal groviglio dei loro rapporti innumerevoli». Proposizione sicuramente paradossale, dal

momento che si trattava di reinventare una scansione lirica che da un lato si adattasse alle nuove

condizioni della vita urbana (ed è vero che la necessità di un «nuovo» lirismo moderno in

accompagnamento alle modificazioni tecniche di produzione e circolazione dei messaggi ritmerà la

storia delle nostre avanguardie poetiche, dagli «ideogrammi lirici» di Apollinaire fino all‘uso del

registratore nei cosiddetti poeti sonori), ma che dall‘altro avrebbe dovuto essere musicale senza

musica (senza rima né ritmo, vale a dire senza le iterazioni che costituiscono il carattere lirico della

lingua in poesia). Insomma, una prosa più prosa, una prosa a tutti gli effetti «particolare», difficile

da concepire (e tuttavia sentita come necessaria e inevitabile). Quel che è certo è che Baudelaire si è

impegnato a dare corpo a questa prosa del passante che vaga nei «greti serpeggianti delle sconfinate

città» (come scrive in «Les bons chiens», l‘ultimo dei poemetti in prosa), a questa prosa da cani, da

greto, da strada, che comporta la sostituzione della «musa familiare» (pedestre) alla «musa

accademica» (o nobile, o alta, o «lirica», o convenzionalmente versificata). Unendo dunque

andatura prosastica e accettazione del «prosaico» ai rifiuti della vita moderna. Lo stesso in un

frammento (Del vino e dell‟haschich) in cui descrive il poeta come uno straccivendolo: «Ecco un

uomo incaricato di raccogliere i rifiuti di una giornata della capitale. Tutto ciò che la grande città ha

gettato, ha perduto, ha disdegnato, ha frantumato, egli lo cataloga, lo colleziona. Esamina gli archivi

della dissolutezza, il cafarnao dei rifiuti.» Non siamo lontani dal prosaico-prosastico di Ponge,

dall‘orcio e dalla cassetta, dall‘attenzione alle cose insignificanti (se non, addirittura, vuote), dal

richiamo all‘attenzione per quelle cose che, in una maniera o in un‘altra, sono «gettate sulla strada

senza ritorno.» E neppure siamo lontani da quei dispositivi che comportano prelievo,

inquadramento e montaggio di materiali «ready-made», gesti emblematici di tutta una modernità

postpoetica, dal Denis Roche dei Dépôts de savoir et de technique (Seuil, 1980) al Jacques-Henri

Michot dell‘ABC de la Barbarie (Al Dante, 1998). Dunque, la «prosa particolare» della raccolta e

del riciclaggio, tra una nuova scansione da inventare (duttile o rozza, melodica o non armonica), e

la neutralità-piattezza prosastica atonale…

In tutto questo affare, il punto fondamentale resta senza dubbio quello della scelta, della decisione

strategica. Di sicuro, la scelta della prosa non è comprensibile se non sullo sfondo di questa storia

per cui, progressivamente, nella poesia francese, malgrado le continuità e le riapparizioni che ho

indicato prima, la prosa ha lavorato ai fianchi la poesia, e l‘ha in qualche modo «attaccata»,

arrugginita… : in un primo tempo attraverso la prosaicizzazione del verso – ed è una lunga storia,

da Hugo («Ho gettato il verso nobile ai cani neri della prosa») fino al Rimbaud di «Mémoire.»

Questa progressione è stata tradotta in un bel racconto da Jacques Roubaud nel suo La vieillesse

d‟Alexandre. E poi sorge la poesia in prosa, con le sue due varianti principali, quella che tenta di

ripoetizzare la prosa (attraverso l‘immagine e il ritmo) e di reincantarla, e quella che al contrario

cerca una prosa più prosa o «molto prosa» (secondo una definizione di Flaubert): e fino ai giorni

nostri, da «poème» a «proème», da «proème» a «prosème», «poesia di prosa» (l‘espressione è di

Jude Stefan) o prosa in poesia. Vi è poi la scelta della prosa al di fuori della poesia, e forse contro di

essa, forse anche contro la poesia in prosa. Qui il percorso di Ponge è esemplare: in un primo

tempo, scelta della prosa contro il verso (il Partito preso delle cose è un partito preso della prosa, e

questo è legato a quello), e poi abbandono della poesia in prosa (piccoli scritti, «sapates», pezzi) a

profitto di una pratica della prosa, di una esibizione della esperienza dello scrivere che implica la

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pubblicazione senza vergogna degli abbozzi, delle prove, delle minute, dei fallimenti e delle

cancellature. Difficile chiamare questi incartamenti «poesie in prosa». È un‘altra cosa.

Ed è esattamente di questa altra cosa che si tratta oggi. In uno spazio formale in cui nulla è

stabilizzato. Ma secondo procedimenti più o meno radicali. Si vede quanto il vecchio Baudelaire sia

tutt‘altro che inattuale. Si prenda ad esempio Pierre Alferi: nel 1993 ricordava, con un certo

compiacimento, che la poesia aveva definitivamente perso ogni specificità metrica, e che il gesto

per eccellenza della modernità consisteva nel trattamento tramite taglio e montaggio di sequenze

prelevate dalla prosa del mondo, come per esempio nel gesto «oggettivista» di Reznikov (per

Testimony e Holocaust), e che, se poesia restava, essa non si sarebbe più trovata nei versi o nelle

poesie, quanto nel taglio, nella puntuazione, nella «messa in ritmo» di un materiale. Resta dunque,

in realtà, una specificità della poesia (al di là della metrica), ma poesia e prosa ormai si toccano,

sconfinano una sull‘altra e una nell‘altra, ragion per cui, in ultima istanza, non avrebbe più

importanza la poesia in se stessa quanto piuttosto «la potenzialità poetica della lingua comune.»

Una volta sacrificata (come nel caso di Baudelaire) la formalizzazione metrico-musicale, si fa strada

una musica altra (senza musica), chiamata qui (ancora una volta ) «ritmo»… Molto vicina la

posizione espressa da Dominique Fourcade nel 1998 a proposito del suo libro Le sujet monotype:

egli oltrepassa la separazione tra prosa e poesia e dichiara la contaminazione, la mescolanza,

l‘inghiottimento del verso da parte della prosa, e l‘abbandono dell‘unità-poesia a vantaggio

dell‘unità-pagina, dello spazio-libro, all over, come nella pittura americana, non paginato («c‘è

qualcosa di non paginato che si sente», dice da qualche parte). Ma qui ritorna ancora il fatto del

ritmo, per modulazione delle velocità, maneggiamento di un motore: «all‘interno della linea, il cui

regime varia, con elementi che salgono e scendono su loro stessi, o in rotazione su loro stessi, in

modo completamente distinto dalla velocità lineare della scrittura.» Un motore nel corpo della linea

lingua, che tiene il «tempo» del libro. E ancora il carattere prosaico, tramite l‘opposizione tra alta

tensione (che è ancora il regime dei poeti sovversivi del XIX secolo e delle avanguardie del XX, fino

a Christian Prigent e a TXT) e bassa tensione, trivialità e prosa, osservabile nei poeti americani ma

anche in certa pittura francese, in Degas per esempio. In cui si incontrano scrupolo poetico e

scrupolo politico, «il quale consiste nel mantenersi a stretto contatto con le cose-parole-mondo, e a

esporle, tali cose, amorevolmente.» In generale, se si vuole: la pratica della poesia come

esposizione, prosa posta, e senza posa, esponente, una «prosa-(dispositivo-di-)scatto»: «dispongo le

cose in bella mostra, metto a nudo la vita senza commenti.»

E al di là, che cosa? La prosa in prose è un cantiere. Per conto mio, riguardo a questo cantiere,

considero il lavoro di Emmanuel Hocquard come assolutamente esemplare: la poesia, qualunque sia

il modo in cui si travesta e si presenti, finisce sempre per presentarsi come una sovra-lingua, come

una pratica sovradeterminata dalla sublimazione estetizzante, dalla preziosità formale (talvolta

truccata da minimalista). Occorre dunque spostare, spostarsi. Per esempio (soluzione Hocquard):

condurre un‘indagine sugli usi contemporanei e ordinari della lingua (ordinario, è anche

l‘espressione utilizzata da Flaubert in una lettera a Louise Collet sulla prosa molto prosa; è anche

l‘espressione utilizzata da Perec, in forma estremizzata: l‘«infraordinario», in un manifesto-

programma del 1973), investigare, diventare detective, grammatico…

Vigilare… Ce ne sono i motivi. Tutto il resto dello spazio è da una parte occupato dalla prosa

legittima, quella del grande romanzo onnivoro (con le sue varianti alla moda, e vendute come

«avanguardia»), e dall‘altra dalla «poesia», alla maniera delle raccolte NRF, carine, seducenti –

poesia rispettata e rispettabile. Accanto, i dispositivi, non identificabili o malamente identificabili,

le installazioni verbali (o parzialmente tali) alle quali si potrebbe dare il nome di «prosa» a

condizione di comprendere che «prosa», in questo senso, si allontana dalle sue definizioni accettate,

stilistiche, retoriche. Che prosa non esiste (ancora). Che è il nome extragenerico di tali pratiche

sperimentali. E che quelli che vi si applicano sono ormai, per la maggior parte, indifferenti a questo

tipo di terminologia. Più che mai essi sono coscienti della loro «responsabilità formale.» Tutti

occupati sulle loro accanite minute.

Jean-Marie Gleize

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[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]

Note.

(1) L‟Hexameron, Paris, Éditions du Seuil, coll. «Fiction & Cie», 1990.

(2) Con questo termine vengono designati alcuni poeti francesi fioriti verso la fine del Medio Evo, grosso

modo tra il XV e il XVI secolo, e più precisamente tra la pubblicazione del Testament di François Villon

(intorno al 1460) e gli esordi di Clément Marot (secondo decennio del ‗500). I nomi più rilevanti sono: Jean

Meschinot, Jean Molinet, Jean Lemaire, Pierre Gringore, Jean Marot, ecc. Tradizionalmente considerati, a

causa dello spiccato formalismo tecnico e del carattere talora eccessivamente cortigiano dei loro testi, come

autori di importanza minore, è solo a partire dalla seconda metà del XX secolo che vengono finalmente riletti

e in grande misura riabilitati, tanto da parte della critica più avvertita (per esempio: Paul Zumthor), che da

quella di molti autori (soprattutto d‘avanguardia – per esempio: Denis Roche).

(3) Quest‘opera di Aloysius Bertrand è stata pubblicata postuma nel 1842.

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CHRISTOPHE HANNA

L’EMERGERE DI NUOVE SCRITTURE

Esistono in Francia da almeno trent‘anni forme di poesia il cui statuto letterario e sociale resta

quello dell‘anomalia; a priori esse non sembrano essere collocabili, sprovviste come sono di quei

tratti che abitualmente ci permettono di riconoscere il carattere poetico. Come si è giunti a questo

punto? Attraverso quali rotture o quali progressive trasformazioni? Attraverso quali ridefinizioni di

principi considerati come inerenti al genere stesso? Come può essere che queste poesie siano ancora

chiamate poesie? Premesso che ogni spiegazione comporta un‘inevitabile semplificazione, nelle

righe che seguono tenterò di abbozzare una schematizzazione di tipo diacronico.

RETORICA. La reintroduzione da parte di Francis Ponge, verso la fine degli anni Quaranta (in

Proêmes), della nozione di retorica all‘interno dello spazio poetico può essere considerata come un

avvenimento decisivo per la nostra modernità letteraria. A partire da quel momento tale nozione

sarà senza sosta ripensata: dallo stesso Francis Ponge, nel quadro specifico del suo lavoro; poi, sotto

un profilo più generale e storico, da Roland Barthes; e infine, da un punto di vista linguistico e

psicoanalitico, da alcuni scrittori-teorici appartenenti al gruppo di Tel Quel, come ad esempio

Marcelin Pleynet.

Sappiamo che l‘ideologia romantica aveva rafforzato l‘idea, sorta durante il Rinascimento, di una

incompatibilità tra la retorica da una parte e dall‘altra quello che era diventato l‘essenza stessa

dell‘espressione poetica, il lirismo. Il lirismo esigeva la sincerità, la spontaneità del canto schietto, e

la poesia diventava allora il sangue stesso del poeta, sgorgato fresco dal suo cuore ferito. La retorica

significava, al contrario, un calcolo freddo e calibrato degli argomenti, una meccanica della

persuasione, una tecnica sospetta per la manipolazione degli animi.

La retorica, per come è stata reinventata da Francis Ponge e ripresa poi da certe avanguardie negli

anni Sessanta e Settanta, è una conseguenza del suo proprio «partito preso delle cose»: è

l‘invenzione di tecniche di scrittura destinate ad elaborare forme verbali capaci di trasmettere al

lettore un certo tipo di sapere, potenziale e non formulato dalle scienze, un complesso di sensazioni-

emozioni scaturito dall‘oggetto di natura. La nuova nozione di retorica è dunque profondamente

diversa dalla concezione classica di questa disciplina. Resta sempre una tecnica, ma non viene più

concepita come sistematica, unica o universale.

In quel particolare momento, l‘approccio retorico diventava un mezzo per estromettere tutti quei

concetti trascendentali sottesi all‘ideologia dominante, sulla base della quale veniva considerato

l‘insieme dei linguaggi e dei discorsi, e in particolare la forma dei discorsi poetici: l‘idea di sincerità

lirica, l‘emozione vera del soggetto che trapassa «naturalmente» nello scritto come idea di

chiarezza, di «verità evidente» percepibile per mezzo della ragione. Sparisce allora il mito di una

differenza di natura tra i discorsi. Il dominio della poesia moderna non sembra più essere il dominio

del soggettivo, dell‘intuitivo, ma diventa piuttosto quello del «sapere insignificante», vale a dire di

ciò che per le nostre società risulta contemporaneamente non significativo, non redditizio, non serio,

non formulato in discorsi, non considerabile come oggettivo ma da oggettivare invece attraverso la

messa a punto di tecniche in grado di produrre forme espressive a partire da esso. Un triangolo

relazionale si è così costituito tra le nozioni di tecnica di scrittura volutamente plurale, forma

testuale e sapere trasmissibile unicamente attraverso nuove forme.

SAPERI & TECNICHE. Gli anni Sessanta e Settanta vedono moltiplicarsi le strategie di scrittura

tendenti a produrre forme significanti dell‘«insignificante.» Fin dalla seconda metà degli anni

Cinquanta Henri Michaux aveva messo a punto alcuni procedimenti di «inscrizione» sismografico-

annotativo-analitica al fine di captare le «percezioni disorientanti» provocate in occasione di

esperienze allucinatorie o di incidenti ordinari (come in «Bras cassé»). Questa seconda opzione

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caratterizza molto meglio le poetiche degli anni Settanta e Ottanta. Penso al lavoro di Claude Royet-

Journoud, il quale sviluppa una scrittura per cancellazioni, condotta come investigazione intorno

alla piatta sostanza verbale delle righe che giornalmente, e in maniera continuativa, egli abbozza.

Penso anche ai Dépôts de savoir & de technique di Denis Roche, vera e propria macchina da

frammentazione / accumulazione, concepita per estrarre un sapere da una materia prima costituita

da briciole di giornali, corrispondenze, fatture, da materiali insomma fino a quel momento ritenuti

trascurabili dal punto di vista letterario.

Gli anni Ottanta e Novanta vedono la poesia appropriarsi poco alla volta di tutte le tecniche

possibili di rappresentazione, anche di quelle considerate «non letterarie.» Questo furto di tecniche

condotto a tutto campo ha potuto effettuarsi, e si effettua tuttora, in due maniere. O per

trasposizione sul piano verbale di processi originariamente a-verbali: i prelievi testuali dei Dépôts di

Denis Roche riproducono sulla materia-lingua l‘effetto di una inquadratura fotografica e, allo stesso

modo, il Grio di Jacques Sivan trasforma il testo nel pendant formale di uno scatto, o

dell‘impressione di una pellicola. Oppure integrando tali e quali queste tecniche, con la forma

poetica che di conseguenza diviene una combinazione di processi eterogenei di rappresentazione; è

questo, per esempio, il caso della «poesia-azione» sviluppata a partire dal 1962 da Bernard

Heidsieck, che mescola sequenze registrate e performances orali. Negli anni Novanta, l‘evoluzione

dei mezzi tecnologici destinati alle telecomunicazioni e all‘edizione (di testi, immagini, suoni) è

stata all‘origine di una sensibile complicazione delle poetiche, che accusano in questo modo il loro

carattere eterogeneo.

Alcuni poeti riprendono oggi i procedimenti di impaginazione sviluppati dalla stampa a grande

tiratura, per ripensarne però i codici (come fa Olivier Quintyn), oppure manipolano dei programmi

di trasformazione sonora (come fanno gli Événements di Anne-James Chaton) o di animazione dello

schermo e di inserimento sul web (Éric Sadin).

Questa proliferazione tecnica e formale è probabilmente il fenomeno che più profondamente ha

contribuito a scompigliare l‘aspetto pubblico della poesia contemporanea. Parrebbe tuttavia che

dopo gli anni Settanta tale paesaggio, che si presena a priori come confuso, si stia organizzando

attorno a due posizioni distinte in maniera abbastanza netta: le poesie che chiamerei «réelistes»(1) e

le poesie «metadiscorsive.» Le prime ricercano le forme verbali di un‘esperienza diretta del reale; le

seconde, al contrario, intrattengono con il mondo una relazione indiretta: esse assumono come loro

oggetto i nostri sistemi di linguaggio, i nostri codici di figurazione e di significazione.

POESIE «RÉELISTES.» Furono quelle di certe avanguardie degli anni Settanta e Ottanta, intorno alle

riviste Siècle à main e TXT. Restano in gran parte confrontabili con la posizione pongiana e con

quella del Michaux di «Bras cassé.» In queste poesie, il lavoro di scrittura è legato ad un compito di

elucidazione del reale. L‘origine del sapere resta l‘esperienza sensoriale e corporale della realtà.

Tale esperienza è enigmatica proprio perché irriducibile ai termini della lingua corrente, e perché

incomunicabile attraverso le forme di discorso disponibili. Le poesie «réelistes» sono dunque poesie

di una sensazione indicibile all‘interno della norma linguistica, sensazione bisognosa di un «lavoro

pratico» di espressione. È in questo modo che Anne-Marie Albiach gioca sulla dispersione vocale e

sulla spazializzazione teatrale della voce, o che Christian Prigent distorce e sfigura le formulazioni

usuali carnevalizzandole. Le poesie «réelistes» sono poesie di resistenza, refrattarie, insolubili nel

flusso delle lingue mediatiche; le caratterizza una certa illeggibilità, una certa impronunciabilità.

A partire dagli anni Ottanta si è poi sviluppato un altro tipo di poesia «réeliste»: la poesia letteralista

di Jean-Marie Gleize e, più tardi, quella di Siegfried Plümper-Hütenbrink e di Michel Crozatier.

Queste ultime lavorano su una poetica assolutamente opposta a quella della figurazione, fosse pure

di quella sfigurante proposta da Christian Prigent. Il processo di scrittura punta ad annullare le

immagini concepite in quanto oggetti seducenti, ostacoli all‘assunzione del reale. Si tratta di

corrodere la lingua, di parlarla contro se stessa e contro l‘uso metaforico che, automaticamente o

per riflesso condizionato, ne facciamo. Tale scrittura scruta la lingua, e talvolta lo fa esplicitamente:

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è per questo che essa va situata nelle immediate vicinanze di quelle poetiche che chiamo

metadiscorsive.

LE POESIE METADISCORSIVE. Le poesie «metadiscorsive» e «metarappresentative» sono il prototipo

stesso della poesia degli anni Novanta. Sono poesie che toccano il reale indirettamente, di sponda:

non si confrontano con la sensazione ma pongono piuttosto in questione i modi con cui

normalmente rappresentiamo la realtà per arrivare a produrre delle «teorie» o delle forme di

osservazione critica. Queste poesie sono lingue dell‘ostentazione: rendono cioè visibili le modalità

con cui vediamo, parliamo e immaginiamo il reale. Sembrano potersi distinguere due tendenze, non

esclusive, e anzi talvolta mescolate tra loro: le poesie «grammaticali» e le poesie «dispositivo».

Le prime scrivono una lingua che parla di linguaggi (la lingua in senso stretto, ma anche il cinema,

la fotografia, le usuali tipologie mediatiche per assemblare foto e lingua): esse producono delle

forme analitico-critiche. Tra i rappresentanti più significativi possiamo citare l‘Emmanuel

Hocquard di Commanditaire o di Voyage à Reykjavik, il Pierre Alferi di Chercher une phrase, il

Christophe Tarkos di Ma langue, la Nathalie Quintane di Mortinsteinck.

Per quanto riguarda le poesie «dispositivo», esse applicano dei procedimenti di scrittura ereditati

dall‘Isidore Ducasse di Poésies II, dai cut-up americani degli anni Cinquanta e Sessanta o dal

collage Dada. Sono macchine ideate per ricomporre del materiale linguistico preesistente o, più in

generale, degli elementi di rappresentazione (disegni, logotipi, foto, sequenze sonore o video). In

confronto alle poesie «réelistes», le poetiche del dispositivo ribaltano il senso della relazione tra

tecnica e sapere: la tecnica non è più preceduta da un sapere muto o enigmatico, ma ne è piuttosto la

condizione stessa. Tali strategie di scrittura sono allo stesso tempo dei mezzi di osservazione e dei

mezzi di spiegazione: esse producono l‘effetto di una rivelazione, portando alla luce il modo stesso

con cui le nostre rappresentazioni piegano o condizionano la percezione del mondo. Le poesie

«dispositivo» propongono forme di lingua non lineari, e sono veri e propri strumenti concepiti per

sfuggire all‘influenza di discorsi che pretendono di porsi come la forma verbale del vero. Mi

vengono in mente tre testi esemplificativi di queste pratiche: Heroes are heroes di Manuel Joseph,

Un ABC de la barbarie di Jacques-Henri Michot, Le sacrifice transformateur di Thibaud Baldacci.

Sono, queste, le opere di una generazione che comprende quanto il proprio rapporto con il mondo

sia mediaticamente mediatizzato, e che si è vista spettatrice delle manipolazioni del carnaio di

Timisoara o della disinformazione orchestrata dalla CNN durante la guerra del Golfo.

Christophe Hanna

[in: «Magazine littéraire», n. 396, marzo 2001; traduzione italiana di Michele Zaffarano.]

Note.

(1) Questo neologismo coniato da Hanna è in verità assai difficilmente trasponibile nella lingua italiana.

Mentre infatti in francese esistono un «réEl» e una «réAlité», in italiano la radice dei sostantivi corrispondenti

è identica, e abbiamo infatti: «reAle» e «reAltà». Il gioco semantico, dunque, a voler tradurre letteralmente,

andrebbe completamente perso: in entrambi i casi avremmo infatti l‘esito: «reAlista» (contro la dicotomia del

francese «réAliste»/«réEliste»). Questa è la ragione che ci ha convinti a mantenere anche nel testo italiano il

termine originale.

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GAMMM

Nel segmento della poesia e delle scritture ―di ricerca‖, un lavoro piuttosto significativo – nelle

quattro direzioni di un primo screening del paesaggio americano, francese e italiano più recente,

della ripresa di testi/autori esemplari del secolo scorso, del dibattito teorico e del confronto con le

altre arti (soprattutto, in ambito visivo) – lo sta svolgendo da alcuni anni il sito collettivo GAMMM

(http://gammm.org), massimo comune multiplo degli interessi, della curiosità critica e degli

approfondimenti dei sei curatori.

Il lavoro fatto offre anche – ed è quanto più interessa ai fini di questo numero dell‘Ulisse – una

ricca casistica di vie percorribili: rispetto ai fuochi della ―prosa non poetica, non narrativa, non

saggistica‖, o, detto con Gleize, ―prosa in prosa‖, e di testi versificati (e/o non versificati) che si

facciano più o meno radicalmente carico, con accenti, strategie e soluzioni diverse per autore, di

strumenti tipici della scrittura, lettereraria e non, in prosa (e/o, più in generale, delle prerogative di

modalità linguistiche, discorsive e comunicative altre rispetto alla poesia ed alla lirica).

Una rapida lista di link agli autori ospitati sul sito (a opinione di chi scrive i più rappresentativi

rispetto al tema ―problematizzazione e allargamento delle maglie dei due generi‖) appare utile per

esemplificare quanto si viene dicendo [per percorsi di lettura più esaustivi, rimando senz‘altro all‘Indice generale di GAMMM]:

Inquadramento/sfondo teorico:

Pierre Alferi, Gherardo Bortolotti/Marco Giovenale, Nicolas Bourriaud, Georges Didi-Huberman,

Michel Foucault, Kenneth Goldsmith, Nelly Kaprièlian, Christoph Hanna, Sol LeWitt, Jean-

François Meyer, K. Silem Mohammad, George Perec, Denis Roche.

Autori francesi, o francofoni:

Stéphane Bouquet, Patrick Bouvet, Olivier Cadiot (II), Nicolas Chazel, Claude Closky, Jean-Michel

Espitallier (II), Christophe Fiat (II-III-IV), Jean-Marie Gleize (II-III), Éric Houser, Christoph

Marchand-Kiss, Jacques-Henri Michot, Valère Novarina, George Perec (II), Francis Ponge, Claude

Royet-Journoud, Eric Suchère (II-III)), Christophe Tarkos (II-III), Vincent Tholomé, Fabienne

Vallin, Jean-Jacques Viton (II).

Autori americani, o anglofoni:

Eric Baus, Charles Bernstein, Jules Boycoff, Bruce Covey, Jeff Derksen, Linh Dinh (II), Denise

Duhamel (II), Ray Gonzalez, Kate Greenstreet, Nellie Haack, Lyn Hejinian, Jenny Holzer, Piers

Hugill, Morton Hurley (II), Kent Johnson, Jukka-Pekka Kervinen (II-III), Richard Kostelanetz,

Drew Kunz, David Lehman, Jon Leon (II), Tao Lin (II-III), David Markson, Bernadette Mayer,

Charles North, Frank O‘Hara, Charles Reznikoff, Gregory Victor St. Thomasino, Zachary

Schomburg (II-III), Ron Silliman, Gary Sullivan, Rodrigo Toscano, Cecil Touchon, Paul Vangelisti,

Lewis Warsh, Barrett Watten.

Autori italiani:

Vincenzo Agnetti, Nanni Balestrini, Giacomo Bottà, Roberto Cavallera (II), Gianluca Codeghini

(II-III), Ugo Coppari (II), Corrado Costa, Alessandra MR D‘Agostino, Alessandro De Francesco,

Francesca Genti, Gianluca Gigliozzi, Emilio Isgrò (II), Antonio Loreto, Giancarlo Majorino,

Michele Marinelli, Giulio Marzaioli, Bruno Munari, Giampiero Neri (II), Massimo Orgiazzi (II-III),

Adriano Padua, Amelia Rosselli, Greta Rosso, Vanni Santoni (II), Sergio Soda Star (II), Ruggero

Solmi, Luca Zanini.

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GLI AUTORI

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LETTURE

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FRANCO ARMINIO

GROTTAMINARDA, FRIGENTO, VILLAMAINA

Oggi niente paese, niente casa, niente libri, niente piccoli giri in bicicletta, niente computer. Un giro

nei paesi, ma non quelli lontani, un giro vicino, sempre a mezz‘ora da casa.

Pensavo di fermarmi a Guardia e invece scendo sull‘Ufita e poi mi allungo fino a Grottaminarda.

C‘è traffico, è il paese coi commerci, con l‘autostrada e il suo indotto. Fa anche caldo. Mi viene

l‘idea di andare al cimitero. Ci sono passato tante volte e non ci sono mai entrato. La scritta in latino

è molto bella: ti sia lieve la terra, dice. È una frase esemplare che i vivi possono dire ai morti. E

forse c‘è una frase che i morti possono dire ai vivi. Forse è per ascoltarla che entro nel cimitero, è

una frase che non può avere parole, è un qualcosa che ti entra dentro senza la furia che hanno i vivi.

La faccia di un morto su una lapide è come un albero, come un gatto. È qualcosa di

irrimediabilmente innocente, qualcosa che ha dismesso la fosca battaglia per stare in mezzo agli

altri. Ho voglia di vedere facce. Un cimitero è anche una grande mostra fotografica. Qui a Grotta

non c‘è nessun visitatore. Il parcheggio era affollato, ma sono andati tutti al mercato. Mi segno

nomi e date, guardo specialmente quelli che sono nati dopo il sessanta. Camminando nel cimitero sento che il cuore si è rimesso a battere con precisione, prima sembrava disordinato, impaurito.

Adesso cammino e faccio attenzione a quello che vedo. Il cimitero di Grottaminarda non ha marmi

scintillanti e lapidi di forme strambe, non somiglia per niente all‘orrenda piazza da poco realizzata.

Insomma, c‘è molto più ordine di quello che c‘è fuori.

Adesso che sono qui a casa, adesso che sono passate molte ore, non so dire di preciso come mi

sentivo stamattina, non so dire come la morte educava i miei passi e i miei pensieri. La nostra testa

è fatta di lampi deboli e lontani oppure di un cielo basso e grigio e inerte. Basta poco e non

sappiamo dove siamo, cosa pensiamo. E allora arrivano le parole da cui sfiliamo altre parole e altre

ancora per non trovarci di fronte all‘esatta insensatezza di appartenere a una specie che ha perso il

filo del suo viaggio nel mondo. Stamattina non pensavo alle cose che sto scrivendo. Pensavo solo di

mettere sul computer i nomi e le date che andavo trascrivendo sul taccuino. Villanova Antonio

(1963-1998), De Paolo Concettina (1965- 2005), Michele Iacoviello (1972-2009)Palumbo

Pasqualantonio (1958-1995), Maurizio Grillo (1970-1994) Romano Generoso (1962-1991),

Romano Massimo (1970-1991), Carla Formato (1947.1997), Del Viscovo Michele (1960-1992),

Dario Bottino (1963-1984), Amalia Minichiello (1984-2001), Blasi Guido (1968-1983), Di Vito

Giulio (1977-1996). Stamattina ognuna di queste persone mi ha consegnato una sua frase, ognuna

delle loro facce mi ha fatto compagnia per qualche attimo. Di più non è possibile.

Non sono mai stato così bene a Grotta come in questa ora passata al cimitero. Quel filo di dolce

mestizia che mi ha accompagnato adesso si è dissolto. Oggi mi sono preso tutto il vento della vita,

me lo sono preso anche io che sto sempre al riparo, incredulo di poter veramente partecipare a

questa vicenda di stare al mondo, questa vicenda appartenuta anche alle persone di cui ho appena

trascritto i nomi.

Uscito dal cimitero sono andato verso l‘alto,verso la sobria bellezza di Frigento. La via panoramica

chiamata Limiti era mossa da un vento senza fiamme. Poca gente in giro e tanta terra davanti a me.

Contento di essere lì, sicuro di avere fatto bene ad andarci, contento di stare seduto senza far niente

su uno scalino all‘ombra.

È nuovamente tempo di scendere, vicino c‘è un altro posto con una sua intensità. Vado alla Mefite.

Un pozza di acqua e fango che ribolle può essere poco. Oggi è molto, il vento muove le canne, si

sente che il luogo ha avuto una sua storia e io sento che è bello stare qui a bocca aperta, farsi entrare

nel petto quest‘aria che può sembrare l‘alito di angeli ubriachi.

Vado verso Villamaina. So che c‘è un boschetto con alberi poco fitti. Scendo a fare una foto e vedo

una mamma di cinghiale con sei cuccioli. Non se ne scappano e non me ne scappo nemmeno io.

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Loro si avvicinano e mi avvicino pure io. Faccio tranquillamente le mie foto. Io sono un cacciatore

di desolazione e non di animali. Li guardo con allegria, mi sento felice del fatto che non faccio

paura, che questi animali smuovono la terra vicina ai miei piedi senza alzare lo sguardo verso di me.

Forse hanno capito che vago nel mondo da disarmato. Li lascio a malincuore, ma questo bosco

ormai è un altro luogo che mi appartiene, un luogo sacro come tutte le cose che ho visto oggi.

La giornata volge al tramonto. Passo per Gesualdo. Anche questa è una bella Irpinia. Mi basta

vedere il castello da lontano e sono felice. Il mio passaggio dura poco più di una stretta di mano.

Sento amicizia per questo luogo, mi basta averlo visto, gli voglio bene, voglio bene alle sue pietre.

Oggi ho visto i morti di Grotta, la luce di Frigento, il fango della Mefite, ho viste tante cose , tutte

bagnate in questa Irpinia d‘agosto che non è né vuota né concitata. Un‘Irpinia che sarebbe bello se

avesse questi abitanti anche d‘inverno.

Sono nuovamente a Grotta. I morti sono al loro posto e le macchine fanno i soliti giri. È ora di

tornare a casa. Ci torno per scrivere, per onorare la bellezza semplice e appartata delle cose

osservate.

Ho voglia di scrivere senza la lingua sporca che uso quando parlo con le persone. A parte qualche

mezza frase che viene ogni tanto, il mio eloquio è vanamente concitato. Parlo e sento che non

dovrei parlare. Dovrei soltanto far suonare il mio corpo. Scendere a picco sulle cose e risalire in

verticale. Basta coi giri obliqui, tutti questi giri che mi hanno fatto impallidire. Voglio tornare a

essere secco e delirante, voglio portare gli altri davanti al mio furore o alla mia calma e non sempre

davanti a questa poltiglia di stati d‘animo che cambiano aspetto appena li smuovi, appena ti ci

muovi dentro. Voglio essere come le cose che ho visto oggi: i morti di Grotta, la luce di Frigento, il

fango della Mefite, i cinghiali del bosco, le pietre di Gesualdo. In alcuni giorni, in alcuni minuti c‘è

un attimo di bene che vaga per il mondo. È il caso di riconoscerlo e nominarlo.

Notizia.

Principali notizie bio-bibliografiche sull‘autore: http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Arminio.

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NANNI BALESTRINI

GLI INVISIBILI

I sotterranei sono un dedalo di budelli illuminati ogni venti trenta metri da tubi al neon polverosi

appesi a lunghi fili elettrici sbrindellati che pendono dal soffitto di cemento grezzo del sotterraneo

spaccato da fenditure profonde lunghe che non si vede la fine e in qualche punto si abbassa gonfiato

verso il basso come spinto da un peso enorme che sopra lo schiaccia curvandolo sfondandolo e ogni

quattro cinque metri puntelli di grosse travi lo sostengono il legno è marcio ammuffito il suolo è

coperto da un sottile velo d'acqua marcia l'odore dolciastro e nauseante di carogna d'animale si

mescola all'odore della muffa ogni tanto a una biforcazione o a un incrocio di due budelli ci sono

piccoli mucchi di sabbia di cemento bagnati franati calpestati pale e altri attrezzi arrugginiti

abbandonati l'aria è umida e dalla bocca escono piccole nuvole di vapore quando si respira quel‘aria

nauseante

lo scalpiccio disordinato del piccolo corteo muto si mescola al tintinnare continuo delle catene

rimbomba quando si attraversano le passerelle di legno fradicio le ombre si allungano dietro i passi quando si avvicinano alle zone illuminate dai neon scompaiono e subito riappaiono davanti e si

allungano i passi avanzano lenti facendo attenzione a dove si mettono i piedi e alle catene per non

tirarle troppo davanti o dietro cercando di lasciare sempre la stessa distanza con chi sta davanti o

con chi sta dietro facendo attenzione a non strisciare la spalla destra sulla parete viscida bagnata e

evitare a sinistra le canne dei mitra puntati orizzontali mentre il piccolo corteo gira più volte a

destra e a sinistra a sinistra e a destra fino a perdere del tutto l'orientamento

poi saliamo su una scala stretta semibuia soffocante con lunghe rampe alti gradini faticosi strappi

alle catene che fanno male ai polsi e alla fine dell'ultima rampa la luce di una piccola porta e

sbuchiamo fuori in alto in cima a una gradinata spalancata su un'enorme sala molto illuminata piena

di gente che si muove giù in basso sotto di noi sento improvvisamente contro la gamba un muso che

ringhia minaccioso le pupille nere dilatate i grandi occhi sporgenti due lunghi denti bianchissimi le

labbra rosse contratte rovesciate un grosso cane gigantesco il pelo lucido nero rizzato sulla schiena

che si incurva tesa le orecchie dritte mosse da un tremito continuo il carabiniere che lo tiene al

guinzaglio è impassibile nella tuta blindata antiterrorismo ultimo modello

dal punto in cui siamo la gradinata scende ripida fino al pavimento della sala e da lì salgono

tutt'intorno fino al soffitto spesse sbarre cilindriche di ferro verniciate di grigio metallizzato

l'enorme gabbia è piena di carabinieri in tuta blindata grigia metallizzata sopra sotto di fianco con

altri grandi cani neri ringhianti e nervosi a uno a uno i carabinieri ci sfilano la catena ci tolgono i

ceppi dai polsi rossi che fanno male ci arrivano in faccia le vampate di luce accecante dei flash dei

fotografi cani anche questi anzi sciacalli e si contorcono si piegano si alzano sulle punte dei piedi un

balletto affannoso alzando le braccia tirandole ancora più su con le maniche delle giacche che si

accorciano sui gomiti ancora più su

ci freghiamo i polsi rossi accendiamo le sigarette camminiamo un po' su e giù per la gradinata

salutiamo qualche parente ci sediamo a due o a tre vicini scambiando qualche frase a bassa voce i

fotografi in basso si piegano sulle ginocchia spostano di scatto il tronco a destra e a sinistra come

contorsionisti del circo si protendono verso le bestie dentro la gabbia tentano di infilare la testa di

traverso tra le sbarre infilando i lunghi obbiettivi tra le gambe le braccia dei carabinieri che formano

una barriera immobile agitano le dita isteriche fanno ballonzolare le macchine e scattano e sparano

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lampi abbagliano contro le facce nella gabbia poi in un angolo lontano si accende una luce ancora

più abbagliante e comincia il ronzio delle telecamere

mi siedo sul gradino più io alto della gradinata e giù in fondo vedo gli avvocati con le mantelline

nere distrattamente buttate sulle spalle che confabulano tra loro calmi a gruppetti dietro i banchi di

legno scrostato sulla destra parallela alla gabbia è schierata la corte con il presidente arcigno e

pensoso seduto in mezzo lo schienale altissimo che gli arriva un bel pezzo sopra fa testa poi il

giudice a latere stravaccato di traverso su un'altra sedia altissima e a destra e a sinistra i giurati

popolari uomini e donne quasi tutti con la faccia nascosta dietro occhiali larghi e scuri le larghe

fascio tricolori che attraversano i golfini pallidi le camicette gonfie con i colletti inamidati le

giacche doppiopetto in diverse tonalità di grigio le cravatte verdastre bluastre o giallastre e in fondo

a destra c'è il palchetto solitario del pubblico ministero

sopra le teste della corte milioni di tessere compongono un enorme mosaico impolverato e sbiadito

che arriva fino al soffitto e rappresenta una scena confusa una battaglia furiosa dalla parte sinistra ci

sono le forze del male rappresentate da strani esseri contorti mostruosi aggrovigliati soprattutto di

colore verde e viola e dalla parte destra le forze del bene angeliche trasparenti armoniose azzurre e

leggere che si scontrano al centro in una battaglia furiosa ma le forze del male sono già chiaramente

sconfitte e battono in ritirata incalzate dalle implacabili forze del bene in basso in un ovale dorato

campeggia la figura imponente della giustizia bendata che regge in una mano lo spadone nell'altra la

bilancia un po' più sotto la scritta in rilievo la legge è uguale per tutti c'è scritto

sulla sinistra dietro lo sbarramento dei carabinieri ci sono le transenne di legno dietro le transenne

c'è lo spazio per il pubblico ma il pubblico non c'è lo spazio per il pubblico è quasi completamente

vuoto salvo qualche parente madre padre sorella fratello cugino zio cognata nessun amico nessun

compagno perché tutti hanno paura perché visto da fuori il tribunale si presenta con una scenografia

da guerra transenne metalliche e fili spinati cordoni di polizia e carabinieri un susseguirsi di

sbarramenti e mezzi blindati disposti nei punti strategici mentre altri mezzi blindati girano

continuamente intorno al palazzo e poi cani e metal detector all'entrata e perquisizioni interrogatori

schedature minacce avvertimenti insinuazioni e tutto il resto

la piccola porta alle nostre spalle si apre un'altra volta e in mezzo a un altro nugolo di carabinieri

appaiono in cima alla gradinata le donne anche loro incatenate e con i ceppi tutti ci alziamo

avvicinandoci la gabbia si riempie di grida di saluti di sorrisi di profumi diversi si sono messe tutte

vestiti coloratissimi gonne lunghe camicie colorate foulard colorati gli anelli alle dita collane

catenine spille braccialetti ciondoli ai polsi grandi orecchini bizzarri fermagli tra i capelli nella

confusione i carabinieri si agitano urlano ordini i cani ringhiano minacciosi riesplodono le vampate

dei flash dei fotografi i giornalisti prendono frenetici appunti sui taccuini i pochi parenti si

sbracciano gridano saluti dietro le transenne e rispondono altre grida e saluti

a una a una i carabinieri sfilano la catena e tolgono i ceppi le ragazze corrono verso di noi corriamo

verso di loro sulla gradinata ci ingarbugliamo ci intrecciamo ci avviluppiamo in un mosaico di

abbracci di strette di baci di voci l'unica cosa che ci interessa adesso è poterci parlare parlare di

tante cose parlare di tutto finalmente parlare parlare il più a lungo possibile e poterci toccare sentire

tra uomini e donne tutto scompare intorno l'aula i carabinieri i fotografi i cani i giudici tutto quello

che c'è al di là delle sbarre ci è estraneo non esiste si intrecciano i regali amuleti piccoli oggetti tutto

quello che è stato possibile portare fin lì dentro la gabbia ci scambiarne anche i vestiti le camicie i

maglioni i foulard le sciarpe

squilli di un campanello che viene dal banco della corte e il presidente comincia a leggere arcigno il

lungo elenco dei capi d'imputazione questo quello imputato di e così e così per avere e qui e là

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questo quello imputato di e qui e là per avere e così e così e in concorso con legge con un tono di

voce uniforme in modo sbrigativo tirato via questo quello imputato di e così e così per avere e qui e

là tira via si mangia le parole dalla fretta questo quello banda armata associazione e qui e là non si

riesce a seguire niente finisce in fretta e poi vengono i preliminari e gli avvocati senza nessuna

convinzione e per pura formalità presentano le solite inutili eccezioni e quindi sospensione della

seduta e ritiro della corte per decidere delle eccezioni della difesa e pochi minuti e sono già di

ritorno e altri squilli per dire che ovviamente tutte le eccezioni della difesa sono respinte e altri

squilli e si dichiara aperto e il presidente dichiara aperto il dibattimento

[Da: Nanni Balestrini, Gli invisibili, ora in La Grande Rivolta, Bompiani, 1999]

Notizia.

Cenni biografici e principali pubblicazioni dell‘autore su:

http://it.wikipedia.org/wiki/Nanni_Balestrini.

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MARIO BENEDETTI

La bellezza delle lacrime. La trasparenza.

Tutto è vicino e lontano.

Io a frammenti di te, di noi.

Progetto di vita in cui non saremo,

non siamo, non fummo.

―Sai‖ non è un ―tu‖, eppure è da lì.

Bocca sul catino. Non ho madre.

Padre di me stesso padre. Sul cielo stellato.

Che cos‘è questa poesia? L‘ho scritta suggestionato da Bataille, rimontando parti: Il supplizio,

secondo capitolo del libro L‟esperienza interiore. Si capisce? Il mio testo, intendo. Riporta frasi di

Bataille. Sofferenza, angoscia, disgusto mantenuti. La ‖trasparenza‖ produce ―frammenti‖.

L‘―eppure è da lì‖ è il dato concreto esperienziale. Padre di me stesso, senza padre. Dio di me

stesso, senza Dio. Con l‘innalzamento ‗dissolvente‘ del tempo e del non-tu, e l‘immagine del

catino-vomito come cielo stellato. Cielo comunque. Espressione. Eppure l‘espressione in sé, qui la

poesia, è in fondo una forma di dépense. Ma se resto muto, è come se non ci fossi. Dunque

comunico, devo. Piccola progettualità discorsiva. Non affronto il ―come se non ci fossi‖. Ora. Per

adesso.

***

Finché Nadine è qui nei suoi occhi ci sono degli alberi, poi ritornano nei boschi e un‘altra vita non

basta a guardarli. Ma non c‘erano cose nella sua contentezza. Io invece sono arrivato al cortile. Le

donne morte ritornano con il catino dell‘acqua. Le guardo ed è la forza di rispondere: muoio adesso

anch‘io. Un ragazzo che grida dai vetri agli amici ma non si sente nulla. Parlano degli anni Trenta

come se contassero gli anni e non per vederci come saremmo potuti essere. Il caffellatte è una cosa

nella tazza ma io non ho niente da scoprire. Vorrei che fosse possibile dire: finché il senso non

viene restiamo qui, tra quello che sappiamo, finché non verrà più. Guardo la finestra, la sua luce. A

volte l‘allontano in tante immagini, a volte resto di fronte. Sento che potrei essere qualcos‘altro.

Posso dire: luce, piangi tu per me. E vedo la luce piangere...

[da: Materiali di un'identità, Transeuropa, Massa, di prossima pubblicazione.]

Notizia.

È consultabile su: http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Benedetti_(poeta_italiano).

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PAOLO COLAGRANDE

PORTIOLI

Portioli quando si è accorto di essere povero in canna ha smesso di andare al cinema e al bar, per

risparmiare, poi ha rinunciato al caffè, ha rinunciato al giornale, alle sigarette, all‘acqua minerale,

ha rinunciato anche al telefono, dopo ha rinunciato al gas e ha rinunciato alla luce e di conseguenza

ha rinunciato anche alla televisione alla radio al frigorifero alla lavatrice. Quindi è passato ai capi di

vestiario e ha rinunciato al paltò al cappello ai guanti e alla sciarpa, ha rinunciato perfino alle scarpe

e anche alle calze, poi alla camicia alla canottiera alle mutande e poco alla volta ha rinunciato a tutti

i vestiti. Ma siccome era sempre povero in canna è andata a finire che ha rinunciato anche all‘acqua

del rubinetto e di conseguenza ha rinunciato al sapone e al dentifricio e alla schiuma da barba e

naturalmente ha rinunciato anche a bere, e così per forza di cose ha rinunciato anche a mangiare. E

dopo aver rinunciato anche a camminare e a sedersi e a stare in piedi, si è coricato ignudo sul

pavimento con la faccia che guardava il soffitto, e stando in quella posizione ha rinunciato prima a

parlare poi a ascoltare poi a guardare. Alla fine, che nonostante tutto era sempre povero in canna, ha rinunciato anche a pensare. Se entravi in casa sua per andarlo a trovare lui era come se non ci fosse,

non ti guardava, che aveva rinunciato a guardare, di conseguenza non ti offriva niente perché

avendo rinunciato al mangiare al bere e al fumare cosa vuoi che ti offriva; e non partecipava al

dialogo perché aveva rinunciato a parlare e a ascoltare; e poi cosa dialogavi con uno coricato ignudo

per terra. Del resto non gli potevi neanche telefonare, che aveva rinunciato al telefono, e poi cosa gli

telefonavi a fare, che non parlava e non ascoltava. Quando ha deciso di rinunciare a respirare però

non ce la faceva, provava riprovava e poi riprovava un‘altra volta ma niente, non ce la faceva a

rinunciare a respirare, del resto non poteva neanche usare la forza del pensiero, avendo rinunciato a

pensare. Ma un giorno è venuto a trovarlo Porcari, il suo amico più caro, che vedendolo coricato

ignudo per terra magro consunto e pallido e anche sporco lo ha tirato in piedi contro il muro e lo ha

strangolato, così ha smesso anche di respirare. Era un brav‘uomo Portioli. Anche Porcari era bravo.

La prossima volta parliam di Porcari.

POETICA DEL RUDO

Una più plausibile difesa dell‘ambiente può ripartire da una frase del popolo: Buttalo nel mio

bidone. Naturalmente la versione in italiano rende meno di quella, originaria, in dialetto (Tràl in

d‘al mé tulòn) ma l‘idea ecologica che racchiude è precisa. Parliamo di bidone o tollone (tulòn) nel

senso di pattumiera, cioè raccoglitore di rudo, ovvero rusco, o rumenta; monnezza, come dicono gli

attori in televisione. L‘atto del buttar nel bidone rappresenta, nelle dinamiche della veterociviltà

artigianale o agricola, l‘extrema ratio di una vocazione conservatrice radicale e quindi la definitiva

investitura del bene come rudo; ma nell‘attimo appena precedente quel fondamentale gesto, che

segna un altrettanto fondamentale passaggio macroeconomico, c‘è ancora una residuo di speranza:

il mio rudo, quello che è il risultato di un meticoloso processo di sfruttamento delle cose fino al loro

estremo limite produttivo oppure ornamentale o anche voluttuario, può riqualificarsi in casa del mio

vicino e ricominciare un suo nuovo cammino. L‘inutile, del resto, non è assoluto e l‘utilità è un

concetto soprattutto soggettivo di sensazioni, come dice grosso modo Alfred Marshall, economista

inglese; di conseguenza se una cosa mi è diventata inservibile, magari dopo progressive e

scrupolose fasi di riciclo trasformazione, riuso, secondo la legge naturale della cosiddetta utilità

decrescente, può servire ancora a qualcun altro e ripartire magari da capo.

Questo è il motivo per cui un po‘ di secoli fa, o forse solo un po‘ di anni fa, soprattutto in campagna,

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l‘unico vero residuo improduttivo era quello organico di origine umana, praticamente e moralmente

irriciclabile: tutto (o quasi) il resto rientrava nel paradigma di Antoine Lavoisier chimico francese

ghigliottinato nel 1794 per cui nulla si crea nulla si distrugge e tutto si trasforma. La massima qui è

rivisitata in termini socioeconomici, non chimici.

È quindi attraverso il rudo, pura sostanza fisica per sua definizione esausta, che si manifesta la

cosiddetta diversità e quindi la cosiddetta identità. Nel momento in cui l‘identità si corrompe o si

deprime, l‘utile e l‘inutile si globalizzano nei rispettivi spazi, il concetto di rudo si amplia oltre la

sua stessa valenza semantica e la quantità di rudo aumenta in progressione. Diventa allora più

appropriato il termine italiano rifiuto, che richiama l‘idea del fallimento, della sconfitta,

dell‘esperimento non riuscito: un bene che non serve più perché non è più all‘altezza dello scopo o

forse non lo è mai stato e chissà se era mai stato inventato per servire a qualcosa o a qualcuno.

È tutta una conseguenza della civiltà industriale, dice Charles Dickens, che questo rapporto tra rudo

e produzione l‘aveva capito bene: la villa dei Boffins, ad esempio, è stata costruita da Mister

Harmon su mucchi di dust e il paesaggio intorno è fatto di colline di dust: grazie al dust Harmon ha

fatto i soldi. Nel romanzo Il nostro comune amico il dust ha un ruolo centrale ma non si sa bene

cosa sia, anche se il dizionario di inglese dice spazzatura (c‘è anche il significato di polvere, ma qui

non interessa). Gli studiosi si sono interrogati a lungo su quale sia l‘essenza del dust che compone le

colline di Mister Harmon, ma senza arrivare ad una conclusione coerente. Invece il significato è

abbastanza semplice: il dust è il post-rudo, quello che segna il passaggio dal rifiuto esausto

tradizionale ad un concetto moderno, di derivazione più consumistica, che prescinde dalla

cosiddetta legge economica di utilità decrescente: dust è il bene che viene buttato acriticamente o

impietosamente nel bidone, prima del suo exitus biologico-produttivo o prima dell‘esaurirsi delle

sue vocazioni, senza neanche interpellare il vicino perché novanta su cento i bisogni del vicino

coincidono con quelli di chi ha compiuto il gesto, o se non coincidono gli assomigliano. Siam tutti

uguali, o analoghi, o omogenei. Siam tutti allegramente generici. L‘unica cosa eterogenea,

individuale, specifica, sofisticata e contraddittoria è quella massa di dust che si accumula insieme e

sotto di noi, o sopra di noi, insieme all‘universo del ventunesimo secolo.

In questa collina di mister Harmon possiamo metterci allora di tutto, anche i vestiti e le scarpe

nuove, i palazzi e i governi, il cane o il gatto che non son più così carini, il pc diventato un po‘ lento

e obsoleto, gli esseri umani viventi che ci sembrano un po‘ incompetenti.

Ma dentro quella massa c‘è tutta una potenza inesplosa, una forza viva per sua natura ingovernabile

che sublima le energie disorganizzate di tutti quei fallimenti precocemente dichiarati e che un

giorno, al prossimo strato di dust cioè nel secolo prossimo facendo un calcolo approssimativo ma

realistico, si rivolterà contro il vecchio mister Harmon, cioè contro tutti. ―Bisogna che ci diate

dentro con tutte le forze e con tutto lo zelo – è la conclusione logica di Dickens – altrimenti la

montagna ci crollerà addosso e ci seppellirà‖.

Io proverei allora a tornare al rudo classico e ai suoi processi selettivi, con devozione, rispetto e un

po‘ di gratitudine, recuperando anche il dialogo scambievole col bidone del vicino, in un simbolico

abbraccio tra consumatori. Buttalo nel mio bidone, se non ti serve. Naturalmente dopo avermelo

chiesto.

Notizia.

I principali riferimenti bio-bibliografici sull‘autore sono rintracciabili su:

http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Colagrande.

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LUIGI DI RUSCIO

I VERSI

È la coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime con il linguaggio scintillante che è

capace di verità e si esprime molto meglio della coscienza cosiddetta onesta che gli si contrappone.

Anche questa l‘ho trovata leggendo Hegel e una scuola di poesia carissimo critico militante è

impossibile, se la poesia è linguaggio scintillante che può essere espresso solo nell‘inversione di

una coscienza disgregata, una scuola di poesia per poeti significa fare una scuola per la formazione

di disgraziati. Mettere i versi in movimento, veloce, strappare e cancellare e il tutto dovrebbe

cessare di, lo cancello, al centro dei versi dovrebbe esserci la vertigine, una parete del ventesimo

piano si apre e tutto precipita fuori di sé, tutta questa gioia non è certo una preparazione alla morte,

la sconfitta dell'utopia ha scatenato i diavoli più luridi dell'inferno nostro, la fine della speranza, la

nostra sconfitta, gli sbranamenti dei nazionalismi degli straccioni, se la resistenza nostra è ancora

possibile, la sconfitta non è definitiva, la speranza è tutta nella nostra capacità a resistere ridendo,

un mondo salvato per il resistere dell‘ultimo giusto. La caduta della speranza, l'utopia era diventata un incubo, i colpi improvvisi tra capo e collo proprio quando iniziavo ad invecchiare, quando ero

giovane la speranza e il comunismo erano ancora volanti, vivo l'epoca della sconfitta, va tutto male

meno il cazzo che sembra a volte perfino ringiovanito e azzoppato mi dirigo verso la cassetta

postale, imbuco i messaggi estremi, opere prime stupefacenti e le poesie orribili della vecchiaia.

Hanno immaginato che Omero fosse cieco perché ci vedeva troppo, la sconfitta politica può

provocare la creazione di una poesia stupefacente. Però oltre ai capricci del vegliardo esistono

anche quelli giovanissimi di Paganini, la vita vuole che vuole vivere ad ogni costo sino alla morte,

però un romanzo potrebbe finire come le comiche di Chaplin che ad ogni FINE si riparte per

raggiungere nuove storie. Ogni fine è anche un inizio ed è necessaria una forte resistenza delle

nostre gambe e alla nostra bocca è necessaria una grande capacità di ingoiare tutto e sputare tutto il

più lontano possibile

LA MACCHINA DA SCRIVERE

Il sottoscritto finita l'ultima guerra mondiale si iscrisse al partito comunista e decise di scrivere le

poesie e di fare del tutto per mostrasi normale, evitare stranezze, allucinazioni, affrontare

tranquillamente angoscia e solitudine, il nostro lavoro è come quello di chi tenta di scassinare la

cassaforte, la cosa va fatta in silenzio e con calma, ormai questa macchina da scrivere perde pezzi

da tutte le parti, sembra una trappola per sorche, i pensieri devono sputarsi sulla carta

simultaneamente. Lo stato normale è quello angoscioso e tutto ad un tratto la gioia tutta intera mi

salta addosso e faccio un mucchio di cazzate, momenti quindi che potrebbero essere anche

pericolosi, la gioia è tanta che l'inconscio è invidioso e cerca di punirti, non meriti tutta questa gioia

e inciampi, sbatti il ginocchio sull'angolo, comperi fiori alla consorte e a rate un nuovo frigorifero o

televisore, ti indebiti e perdi pure il portafoglio, dici brutto cornuto al caporeparto e dimentichi il

preservativo e di nuovo le preoccupazioni per le mestruazioni che ritardano, di nuovo le male parole

della consorte per le mie sciaguratezze e ricomincia l'angoscia. È difficile vivere tutta sta gioia

senza inconvenienti, devi riuscire ad avere un inconscio tanto propizio che ti fa camminare sui filo

delle alte tensioni e rimani incolume anche se fai le capriole sui fili ardenti, con un inconscio

amoroso tutte le sprocedatezze della gioia verranno perdonate e potrai buttarti dalla finestra e

planare sul selciato dolcemente come un angelo dalle lunghe ali. La gioia improvvisa, dirompente,

scrivo una pagina nera, schifosissima, la scritta che trapassa tutti i margini, noi che prestissimo

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affrontammo una afferrata battaglia e serbiamo fede ai nostri precoci propositi. Ed entrando nel

reparto per la gioia mi metto ad urlare come un matto, tanta è la gioia che improvvisamente mi si

scatena addosso anche nei posti più luridi, il rumore delle macchine è tanto atroce che il mio urlo

rimane invisibile anche se fosse potente come l'urlo dipinto da Munch, gli operai sanno bene che

sono italico, di conseguenza non troppo normale di testa. Mia moglie mi dice spesso Smetti di

scrivere le poesie, prendi la cittadinanza norvegese e prima di morire normalizzati! Rimango

anormale, sta tranquilla e così continuerai ad essere pervasa da bellissimi orgasmi, per certe cose la

normalità è distruttiva, quindi sfido i regolamenti del reparto, abbandoni i ragni filanti, corro al

gabinetto a pisciare, bevo acqua dai rubinetti proibiti e sono nel mio corpo come un popolo è nella

sua patria agognata, nel momenti orgasmici i confini del mio corpo diventano imprecisi e vengo

ingoiato dalle cosce, cioè dalle cose e ciao.

LA FABBRICA

Uscire dalla fabbrica era come uscire da una guerra dove si esce vivi solo per caso, quell'unto,

polvere della trafilatrice, i saponi bruciati, lo stridulio dei ferri, il sudore che scendeva sino agli

occhi, bruciava entrava dalle labbra, quest'urlo non potrà essere sentito, neppure tutti gli urli di tutti

noi messi insieme, qualche trafilatrice lustrata stirata continuamente non oltrepassare la norma è

meglio stare sotto chi non resiste verrà scaraventato nel massimo dell'orrore sociale, questa è

l'ultima stazione, sei ancora nell'organismo sociale se ti licenziano è come se venissi sputato

nell'ignoto in una caduta che non verrà attutita, l'operaio metalmeccanico è attaccato qualcosa di

diabolico, un polacco mi diceva che lavorare per l'avvenire sotto i comunisti era ancora peggio,

ammiro il coraggio di mia moglie intestardita a sposare un operaio che pressato al massimo e che

guadagna il minimo, bestemmiatore ateo e anche comunista, qualche macchina ferma sembra una

cassa da morto, per chi sta veramente male mettersi sotto cassa malattia è difficile di questo italiano

straniero non sappiamo niente si sa solo che puzza ed esiste un tempo, ogni venerdì distribuzione

della busta paga era veramente una bustina dentro le carte monetarie belle nuove coloratissime. nel

guardaroba tutti nudi sotto la doccia stanchissimi, sono norvegesi bianchissimi e quasi tutti spelati,

perdiamo i denti, i capelli, le forfore, catarri, resti biologici ovunque è anche il momento della

liberazione, una allegria della stanchezza il quel momento che sembrava essere vicini alla fine, uno

si faceva la doccia una volta all'anno alla vigilia di natale e neppure puzzava.

POESIA OPERAIA

Ci fu un periodo di stasi anche per motivi famigliari però, alla fine degli anni sessanta una follia

poetica mi riprese in pieno, scrivevo disperatamente delle streghe che si arrotavano le dentiere

perché rimaste tutte sdentate dalla vecchiezza. Precise e conclamate responsabilità della poesia

nostra sulla vostra insonnia, il sottoscritto chiamato anche poeta di ferro perché da più di anni

quaranta iscritto nel sindacato dei metallurgici di Oslo e Vassalli che mi scrisse che la poesia

operaia lo aveva disgustato a me invece la fabbrica era diventata un incubo e che ci fosse la

categoria della poesia operaia mi sembrava incredibile, la fabbrica come cattedrale del nostro

medioevo, la produzione dell'acciaio è centrale come nella chiesa cattolica è centrale l'eucaristia, la

fabbrica era anche l'ultimo rifugio, eravamo alla base della piramide sociale, essere licenziati era

come essere sospinti nel niente, diventare un barbone, non avere più una funzione, smettere

d'esistere e per aumentare lo spessore di questa scrittura introduco tutta una versificazione andata a

male, riciclare versi scartati, come questo: Ignoravo l'ago e sputavo un dente. Tutte queste lettere

letterarie piene di catastrofi. Pensavo di tener nascosta la mia condizione proletaria. Se faremo le

fabbriche senza gli uomini bisognerà eliminare i padroni oppure saremo noi ad essere eliminati,

trovare il sistema per far superflui i padroni, la nostra vita non varrà neppure una lira sputata se

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continueranno ad esistere e avrai a disposizione solo le montagne odorose dei rifiuti delle metropoli,

la salvezza o la certezza per la nostra sopravvivenza è ancora una volta affidata alla più assurda

delle utopie che ne sarà di tutti questi metallurgici? Urlo ai miei figli: Scrivetelo anche voi uno

straccio di romanzo, i figli sono la negazione dei padri almeno in Europa terra di rivoluzioni

continue e riguardavo tutte le diapositive particolarmente sfocate e allucinate, tutte le porte chiuse

sono state fulminate. Devo ringraziare tutti quei che hanno testimoniato la mia esistenza e ricordato

il Palmiro e le poesie delle corse per le discese dei vicoli vincoli nostri e Crocenzi quello che

pubblicò nel Politecnico di Vittorini le fotografie della processione è pure morto e l‘ho incontrato

sorridente in un loculo del cimitero di Fermo ed io cerco di continuare tutto con una Olympus e con

una serie d‘obiettivi acceco tutte le porte chiuse e davanti alle cattedrali opache sputo su una diecina

di rullini perché il tutto rischia di perdersi e non si salva neppure la crosta.

PENSIONAMENTO

Giunto dopo quaranta anni di sfinimenti metallurgici al pensionamento, gli uccelli che volano

vicino al fumo delle ciminiere di fabbrica crollano ed ogni giorno vedi una spasura d‘uccelli

annientati. Mercurio è ad est ed è diventata la stella mattutina, è iniziato il periodo della lunga notte,

sorgono ormai solo le tenebre nostre. Ho svuotato il mio guardaroba del reparto ed ho portato tutto a

casa, ho appeso davanti a questo muro gli occhiali da saldatore con tutte le lenti spruzzate con

questi occhiali guarderò tutte l‘eclissi solari, lo stato norvegese mi garantisce una pensione che

basta alla sopravvivenza, mia moglie lava i pavimenti in banca, posso scrivere dalla mattina alla

sera senza divagazioni, faccio progetti di continui annerimenti delle carte, invento sughi mai

assaggiati a lunghissime bolliture se a base di carne triturata, sughi esclusivamente vegetali invece

vanno bolliti molto meno per non disfare i sapori delle varie vegetazioni, i pasti devono essere

essenziali, il fumare, il bere alcolici non ci è più possibile, sarebbe assurdo l‘andare a cercare

amanti cosa che mi era difficile anche da giovane, sembra che tutto sia stato premeditato perché

viva in una scrittura continua, per quattro soldi ho travato nel mercato dei pulci tre dischi quasi

nuovi, tutte le sonate per violini e piano di Beethoven, pianoforte Clara Haskil, violino Arthur

Grumiaux, abito al‘ottavo piano e assisto a tutti i nostri tramonti, è possibile che sia in pericolo

estremo? Basta una piccola diminuzione della pensione reale per trascinarmi alla disperazione

assoluta, infatti è risaputo che mai potranno riequilibrare il bilancio dello stato senza rendere ancora

più disgraziati i disgraziati.

Notizia.

Luigi Di Ruscio è nato a Fermo (AP) nel 1930, emigrato in Norvegia nel 1957 dove ha lavorato per

anni quaranta in una fabbrica metallurgica, nel 1960 sposato con Mary Sandberg con cui ha avuto

figli quattro. Ha pubblicato questi libri: Non possiamo abituarci a morire. Prefazione Franco

Fortini, Schwarz, Milano, 1953; Le streghe s'arrotano le dentiere. Prefazione Salvatore Quasimodo,

Marotta, Napoli, 1966; Apprendistati, Bagaloni, Ancona, 1978; Istruzioni per l'uso della

repressione. Presentazione di Giancarlo Majorino, Savelli, 1980; Epigramma, Valore d'uso

edizioni, Roma, 1982; Enunciati, a cura di Eugenio De Signoribus, Stamperia dell'arancio,

Grottammare, 1993; Firmum, peQuod, Ancona 1999; L‟ultima raccolta, prefazione Francesco

Leonetti, Manni, Lecce 2002; Epigrafi, Grafiche Fioroni, Casette D‘Ete, 2003; 15 epigrafi con

dedica, Battello Stampatore, Trieste 2007; Poesie Operaie (raccolta antologica) EDIESSE, Roma

2007; L‟Iddio ridente. Prefazione Stefano Verdino. Editrice Zona.

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GABRIELE FRASCA

CHE SI RICHIUDA COME DEVE IL VARCO

c‘era ricordi sentì dire il parco e la panchina e la sentì col culo. fredda di pietra ruvida fu un

attimo e salì lungo l‘abito alla nuca. il sole trapelava con le grate d‘ombra dei rami e ti finì sul

braccio. doveva essere il primo pomeriggio a dar fede al silenzio dei viali. terra battuta e muschio

sotto i lecci e la radura con la sua magnolia. dove v‘incontravate a dire il vero se non si

prevedevano effusioni. che poi voleva dire solo noia redenta dal sollievo del saluto. aspettavi

venisse con quell‘ansia di liberarti presto del fastidio. avrebbe dovuto esserci da un pezzo ma ci

provavi gusto ai suoi ritardi. davano il tempo di prefigurare la successione almeno delle smorfie.

prima d‘affanno poi di contrizione infine un bel sorriso pronto al broncio. da sciogliere in un bacio

fosse l‘ultimo anche se già disposto all‘ulteriore. ma quella volta c‘era da giurarci sarebbe stata la

definitiva. quanto il tempo vi avesse allontanato non eravate tipi da nasconderlo. entrambi

consapevoli del taglio dio sa se necessario avreste pianto. più o meno e non insieme consolandovi a

turno e dando ognuno forza all‘altro. stando così le cose prevedevi non t‘impegnasse pure la serata.

sempre incapace di tenerti il bene era un bene per te finisse presto. scorresse via quel giorno come

ogni altro perché l‘affetto che si spegne è spento. e se si giunge a tanto altro non serve che la

constatazione del decesso. dare un addio all‘addio non era giusto il tuo modo di dire preferito. sì si

rispose e ritornò dov‘era sulla poltrona accanto alla finestra. guardò le mani nella luce opaca delle

nubi dell‘alba troppo lenta. poi il grappolo di tetti fino al mare che tremolava a un raggio trapelato.

nella morsa del porto fra le gru per poi tornare grigio come asfalto. nulla di nuovo sentì dire aspetta

che si richiuda come deve il varco. tendendo fra i volumi un‘uniforme superficie su cui specchiare

gli occhi. che sei com‘eri quella volta al parco che lo guardavi e non vedevi il prato. ma solo una

distesa senza nome di fili silenziosi d‘erba stinta. e ripetevi al buio il ritornello di quello che

nemmeno avevi detto. eccellevi sul serio nella replica in abbondante anticipo sul fatto. questo

almeno ti va riconosciuto e si rispose ridacchiando vero. non ho sbagliato un colpo e me ne sono

dati di quelli forti nella vita. non perché lo volessi ma alle strette o quello o la lentezza della pena.

tanto valeva allora prepararselo il colpo che sarebbe sopraggiunto. e su quella panchina ancora

fredda combinavi le parti del discorso. l‘argomento era certo e le parole da improvvisare su una

falsariga. tipo non sai cosa farei per te per non farti del male amore mio. e poi ma se va fatto allora

sùbito e infine meglio sì per tutt‘e due. erano come sono sempre formule anche stantie ma a

variazione libera. ognuno mette il suo finché l‘evento non assume un aspetto memorabile.

agganciando se mai un particolare che s‘attacchi alla testa con lo scolice. e quella volta fu come

s‘alzò dopo l‘ultimo bacio col singhiozzo. di scatto con le braccia strette al petto e gli occhi chiusi e

prese a camminare. come avrà fatto ti domandi ancora a non incespicare tutto il tempo. resti sulla

panchina e segui il corso di quella fine ed eccoti in poltrona. grigio uniforme chiuso il varco il cielo

trova nel mare spento il proprio schermo. e tu io si rispose e poi si disse guardando nel riflesso tu

ora qui. ti chiedi quando abbia riaperto gli occhi se dopo la magnolia o solo al sole. se scorsero una

strada oppure niente di più dell‘inversione del sentiero.

Notizia.

Una sintesi dell‘attività dell‘autore si può leggere su: http://it.wikipedia.org/wiki/Gabriele_Frasca.

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GIULIANO GUATTA

L‘EROE E IL VICESINDACO

Noncurante, attraversò il cortile facendo roteare una sedia di legno, che poi lanciò, cadendo a pochi

metri di distanza. La gente intorno, che aveva assistito alla scena, lo guardava con timore misto ad

ammirazione, riconoscendo in lui un‘eroe, rendendosi conto della sua grandezza, ma non poterono

dimenticare la minaccia rivolta al vice sindaco, ormai caduto preda di un incubo terribile, al punto

tale da pensare di dare le dimissioni e dedicare il resto della vita alla pratica del disegno in una

prospettiva di meditazione e di ricerca del sè, una vita fatta di rinunce e privazioni.

Ma questa era l‘unica boa a cui aggrapparsi in questo lago di mestizia e disincanto; quell‘uomo,

l‘eroe, lo aveva messo di fronte alla sua miseria e le persone intorno, che di queste cose non ne

volevano sapere, (pensavano solo ai soldi), pur riconoscendo in lui un‘eroe lo cacciarono in malo

modo.

INQUIETUDINE, ALLEGRIA, POVERTÀ

Quella cosa, in fondo alla valle, che si muoveva, così sembrava, inquietante, faceva scoppiare dal

ridere, come a dire: ‖a noi nulla fa paura, tutto ci fa ridere‖, altro che inquietare… te la do io

l‘inquietudine… cammina!

Avevamo affittato un appartamento dove sballottavamo le sciambrolle smollettate alla trattoria

Birbesi a mangiare e bere, tastando per bene le gambe dei tavolini fino a sfiorare il pavimento e poi

via di corsa come schegge nella notte, algidi, fulgidi, limpidi.

Gente strana che non si mostra interamente, solo alcune parti: testa, braccio, gamba… strani vestiti,

corazze, stracci piazzati qua e la, una scarpa, uno zoccolo. Povera gente, triste, che si trascina per le

strade disordinatamente, bussa alle porte delle case, delle chiese. Tanta tristezza, ma anche una gran

voglia di divertirsi.

VALANGHE IN VALSABBIA

Arrivato al ponte si guardò attorno. Non vide nulla. Il ponte era costituito da due enormi tronchi

trasportati li da venditori ambulanti che si ritrovavano ogni venerdì sera a casa di Mauro a discutere

su questioni legate al preoccupante aumento di valanghe in Valsabbia, negli ultimi mesi. Soluzioni

non ne trovarono, però trovarono un topo morto e lo fecero sparire lanciandolo dalla finestra perché

se fosse entrata la moglie del padrone di casa si sarebbe messa ad urlare e avrebbe mandato tutto

all‘aria, cosa che avrebbero volentieri evitato vista la difficile situazione, la povertà, l‘indigenza,

l‘indecenza di quella gente, poveracci senza futuro.

COME RAGGIUNGERE LO STAGNO

Il sentiero che portava allo stagno si intravedeva appena tra l‘erba alta. Le donne non passavano più

da lì, avevano scelto altre vie, perché il passaggio era troppo ripido e più d‘una era caduta

malamente a terra nel tentativo di raggiungere la pozza d‘acqua.

Una fitta nebbia impediva loro di vedere, ciononostante decisero di intraprendere il cammino per

raggiungere lo stagno che distava dal luogo in cui si trovavano una decina di chilometri.

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Posero delle ciotole in testa, in segno di buon augurio, inchinandosi le une di fronte alle altre.

Alcune di loro si scontrarono rompendo le ciotole e ciò era cattivo segno: significava che non

sarebbero potute partire, quindi rimanevano, mettendosi a saltellare sul prato, tirando calci ai frutti,

ai fiori e all‘erba a dimostrazione del loro sconforto; le altre si incamminavano lungo il ripido

sentiero che portava allo stagno confuso tra l‘erba alta e alcune di loro caddero malamente nel

tentativo di raggiungere la pozza d‘acqua.

RITO E COMUNITÀ

Afferrò un bastone, lo conficcò nel terreno, segnando così la fine di un‘epoca di falsità e ipocrisia e

l‘inizio di una nuova era. La comunità, accolse quel gesto con entusiasmo e riconoscenza verso

quell‘uomo, che poco prima avevano bistrattato, ma che ora riconoscevano come guida spirituale,

ponte verso il raggiungimento dello stato di pura percezione della verità, a cui tanto aspiravano.

L‘indomani, di buon mattino, accorsero tutti sul luogo del rituale, e fissarono a lungo il bastone fino

a ritrovarselo in testa come un copricapo, spezzato in due, conficcato nel cervello, nei pensieri più

lontani; pensarono al loro passato, a tutta quella strada percorsa nel tentativo di raggiungere la

ricchezza. Povera gente, tanti sacrifici, tante fatiche, tutto per niente. Ma non si scoraggiarono, si

misero le gambe in spalla e cominciarono a camminare di buona lena.

Giunti al luogo dell‘appuntamento presero accordi sul da farsi, anche se non sapevano bene cosa

fare: chi guardava per terra, chi studiava le pareti, chi saltava, tutti presi da una frenesia spaventosa.

Ad un certo punto, tutti scapparono come spaventati e non rimase più nessuno. Anche i bambini,

solitamente così di compagnia, se ne andarono ognuno per conto suo a zonzo per quelle viuzze,

bighellonando di corsa su autostrade di paese con i nonni e le nonne che saltavano qua e là come

presi da una smania giovanile; altro che tranquillità economica, qui c‘era in ballo la vita.

Ce n‘era uno, però giovane, appoggiato con i gomiti al basso cancelletto in legno dipinto di verde, i

pugni sotto il mento che si era schiacciato la lingua tra i denti, che stava li possente, ritto su due

piedi, a sentenziare, a sbraitare e a offendere tutti i passanti che poi, onde evitare di venire

nuovamente offesi, non tornavano più da quelle parti e si rifugiavano su per le montagne,

abbarbicandosi, costituendo piccole comunità di persone per bene per lo più amici tra loro,

scambiandosi idee, favori e sorrisi. E lui stava sempre là, appoggiato coi gomiti al cancelletto di

legno verde, sbraitando, le braccia all‘aria, la lingua tra i denti che ormai gli penzolava giù dalle

labbra.

SEGNALI DI RIVOLTA

Perché sei sempre così inquieto? No! Non dirmi la verità. Pensa che domani ti alzerai e vedrai le

magliette appese al davanzale. La recitazione ha provocato quanto di più abominevole poteva

esserci. Le reazioni sono state puntuali, si sono presentati tutti… in mutande, con i cartellini sulla

testa. Le ventinove bandiere trovate nella discarica sventolavano nella mano destra come un

esercizio abituale. Venditrici assonnate e tutti i castrati a contare le biglie nel giardino di

prezzemolo… muso di topo.

SOLDATI

Le mani alzate e correre continuamente, su e giù per gli argini; gli altri brandivano le fiaccole,

sfiancati dal vento. L‘intera compagnia stesa al sole. Fumavano gli occhi, il veleno saliva nel naso

mentre mi asciugavo le mani. Tutti i soldati venivano da me, chiedevano asilo, ma io come potevo

accontentarli? Sono riuscito a non farmi incastrare in aprile; ho visto le luci in lontananza infilzare

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le vecchie trombe portatrici di vendetta. Ho posato le calde mani di vetro sul collo pulsante. L‘arido

squallore dei corpi evanescenti crepitava al suono acido dell‘altoparlante sempre attivo. I comparti

si aprivano in dodici schemi come prestabilito un mattino di novembre. Sempre imbecille.

NIENTE C‘ENTRA CON NIENTE

Tutto è stato condizionato dall‘inerte demenza di un aristocratico deficiente assunto dalla polizia di

stato, per contare le vittime degli assolo di Marcello. Mal di testa, causa di esposizioni per lunghi

periodi in luoghi malsani, abbietti, sensazionali, liberi dalla presenza ossessiva del mecenate

galante. Ruvida traccia vermiglia di fronte all‘esteso balcone, un suono monocorde proviene dal

giardino antistante. Male e bene seduti e poi argento. Il caffè è servito. Oggi ci troverai, arrivando al

galoppo dell‘ultimo ebreo in braghe di tela, ordinate anni prima nell‘ostello di via Borsieri, con le

suore a distribuire la pappa, sempre distinte dalle poste italiane, offrendo un po‘ della loro

scempiaggine ultraterrena, fintanto che il ribollio della brodaglia non abbia raggiunto l‘ultima

comunione con il docente libero professionista, caduto anche lui nella polvere da sparo, morto

sparato, scoppiato come me, nel midollo. L‘ultima speranza vagabonda tra stanze e letti.

Uno scroscio, il suo volto avvolto senza crederci più di tanto.

Notizia.

Giuliano Guatta è principalmente artista visivo. Il suo curriculum espositivo è consultabile su:

http://www.colomboarte.com/index.php?id=4&no_cache=1&menubasso%5Blevel%5D=artisti_2&

artista%5Baction%5D=biografia&artista%5Buid%5D=10&lang=default.

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GIANCARLO MAJORINO

CENA IN CASA

―Alla quale con Andreuccio fu presso, essa incòntrogli da tre gradi discese con le braccia aperte e,

avvinghiatogli il collo, alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza

impedita; poi lagrimando gli baciò la fronte e con voce alquanto rotta disse:

- O Andreuccio mio, tu sii il benvenuto.

Esso, meravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose:

- Madonna, voi siate la ben trovata‖.

Prima con ―un‘aguzza fiamma negli occhi‖ rido, copiando l‘amico. E, lei avendo sorriso per quella

mia frase e forse la invito a ridere così vanitoso? intanto il mio sorriso si espande le guance

diventano gote estremi della bocca tremolanti gioia! gioia, come una macchia di rossore d‘olio:

gettando nell‘oscurità che non è io. Cade gli occhi a terra; quindi, anche per criticare e moderare il

proprio impulso di strage, batte con le dita sopra il mento. Reagisco recitando l‘Atleta: pugni levati

potrebbero cascarti addosso, poi una spalla che s‘alza; qui semmai puoi colpire? qui odiare? Guarda

con intenzione le braccia magre. ―Le donne hanno lo sguardo preciso e corto‖. Incerta se lottare, per

gioco e davvero, moralizza a sua volta: come sono avvilita, che uomo stupito ho scelto. Paterno,

sacerdotesco, voglioso di penetrare in lei, di proteggermi, di riconquistarla, di riguadagnarne la

stima, riappacificarmi per meglio dominarla, per poi stringerla a riconoscere i suoi torti, la giustezza

di un‘alta considerazione di me, le mie qualità: mi accosto e ―le prese (le schiaccio la faccia tra le

mani‖. Rassegnata ci baciamo, quasi lottando dentro ciascuno, per inoltrare maggiormente la lingua.

Vincitore la serro; si stacca infastidita. Sguardo da mezzo metro, non proprio come due pugilatori

però neppure come mostrano i films... con cautela, cautela; d‘altra parte, che fare? l‘animosità si

scolora: ci guardiamo sguardi che stanno per scivolare nella scanalatura abituale. Scappi ―per il

momento‖ aprendo un panetto di burro come si stappa il cognac hai bisogno di aiuto? Ne spargi su

mezza michetta, copri con sale, addenti ―vuoi anche tu?‖ si apre la porta dell‘anticamera, già un po‘

di caldo e odore di buon lesso: comunque meglio di prima. ―Tieni, brutto‖. Brutto! rimasto

dall‘inizio ma anche in un diverso ventre di colleganza; da vergognarsi quasi. Mangia tranquilla; la

guardo stringendo il naso, come il David della Settimana Incom, più di trequarti, poco badandole

insieme, la voglia e la vanità di sopraffare dense, lì per sbottare. Intanto, anche perchè il cibo le ha

introitato energie, lasciando cadere briciole dalla mano aperta si avvicina, le labbra unte. La fisso,

―avvicinando la bocca‖ piena di denti, stretto il naso, soono o nò bello? Io sono bella emana

carezzandomi.

Foglia nel buio il ginocchio nudo della sorella mentre ―non voglio‖ di allora questa volta si apre e

miele cucchiaini di miele ―voglio‖ una mano di Paul Newman tocca le gambe del tavolo mentre sai

la ―musica per sempre‖ cedo come cederei se g fosse fuggito quasi quasi ho molto bevuto per

talmente insiste dovrò consentire invece entrerò dal giardino ―che belle piante‖ è un albero mentre

potrei farmi regalare in cambio Enzina non ti alzi? sto bene sotto le coperte e scese dalla portantina

color leone ―una forza impressionante‖ promosso Direttore Generale il più giovane direttore

generale di Europa a momenti gli scodello un bimbo tra gli urli carezze carezzare le carezze ha

smesso di urlare il cespuglio trema neri prati ―dove avevo gli occhi aveva i piedi‖ l'automobile con i

parafanghi affondati nell'erba radio accesa e-ora-sìi-solleva

soleleva

il corpo offre

―le celesti mutandine‖ bofonchio

―(voglia) da pazzi‖ corollano

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stringendo floscie ma con elastico

le coscie verso i sottili ginocchi

impacciano

ma tremo di più

è legata

la zia che s'era gettata dalla finestra ha fatto il bagno prima di uscire la zia che s'era gettata dalla

finestra occhi rotondi oltre il vetro la Malata chiede quello che desideri il Dottore con l'ago mugola

Cagnolino Pesce scivola nuota rientro d'improvviso sopra la Servente piccolina fragorosamente a

scoppi a tappi a baci con lo schiocco ma Scolara-Maestro se Camionista Prostituta sale scende dalla

cuccetta sino a chiedere consiglio anche gli uomini nei quadri hanno lo sguardo Fidanzata che la

guarda il Consigliere dietro la grata e tace

hai provato? sdraia ammorbidendosi mollica nel morbidissimo

vino

errante ccntauro:

torace e capo da uomo

sull'ondulata schiena orizzontale

schiena di donna carne

che sguilla a mezz'aria

un crepitante film

alla frontale parete.

Per essere davvero felice

davvero felice

anche il vuoto seguente

deve colmarsi di felicità?

La mano del cervello entra nel buio:

difatti alla televisione stasera

vi è Milan-Real Madrid.

Anche per lei il vuoto

ma è vuoto per lei?

seguente deve colmarsi

di felicità

o non dolore almeno

per essere felici

ora? ora

fresche lenzuola

tuo corpo esatto

in acqua benedetto

alle persiane asciuga

zebra in ombra e luce

riconoscente oceano

fuso ringrazio.

Poi, davanti il piatto è festa la testa non cade

nel piatto come un osso di pesca si ride, fuori sale

la nebbia lombarda che si può tagliare con il coltello

se hai finito di tagliare la pesca esci: vuote auto

―si soffoca lì dentro‖, la trattoria marrone con il pollaio

dove i polli bigi scanno insieme, tu che guardi,

altri fari, questo posto si chiama?

―una trattoria per il sabato sera‖;

fuggendo illuminiamo un albero i rami

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laghi di ciclo nel fogliame eccetera, perché

i giovani abbandonano la campagna?

e che un albero pare

una bestia nello zoo;

così un campo, un prato...

Babbo, mamma, tua sorella, il nonno, i due professori, l'amica anziana, lo zio, il dottor Liebig, come

due figurine di cioccolata giocano a carte, dentro la grotta ―fiamma che non s'obliqui! che non

s'avvicini la tenaglia cranica dei felini‖: ―bellissimo, hai messo su l'acqua, Pupo?‖ ―sì, Mimmina, e

tu hai ben chiuso l'uscio?‖: io scrivo nella zona sinistra del tavolo nella zona a destra batte a

macchina che io correggo ciò che tu ricopi che io riscrivo che tu riordini ciò che io correggo ciò che

tu batti intanto cuoce la minestrina la minestrina che bisogna mangiare che bisogna apparecchiare

metti via i tuoi fogliolini io metterò in tavola i cucchiaini.

―...E allora abbiamo bevuto un marsala, io ero riuscita a portarne via una bottiglia ai padroni, e lui

ha messo sù CUORE, il successo della Rita Pavone, che io gli avevo regalato per Natale, io volevo

ballare ma lui‖

―poi siamo andati a letto, ma ha voluto togliermi lui le calze, pensavo che faceva cosi perché gli

piaceva di togliermele lui, ma era quasi ubriaco‖

―io gli ho dato uno schiaffo perché ha detto che può trovarne finché vuole, lui mi ha dato un pugno,

poi uno spintone che mi ha farro cadere...‖.

―Sul comodino, quando siamo entrati noi, vi erano due mezze sigarette; sul pavimento carta di

caramelle, sudicio dappertutto‖.

Con gli aghi, aghi nella palta dei corpi

―moglie mia‖ gridava uno

―marito mio‖ una donna tra le più pie;

pungevano si pungevano erano punti.

Mio padre, quando ha conosciuto mia madre, ha detto che il

suo cognome era Mairino; presentato alla madre di lei, si è messo a zoppicare; più tardi le ha scritto

una lettera anonima ―guardi che il suo fidanzato la tradisce‖, con specificazione di luoghi, nomi,

date. Mia madre ha sùbito stracciato la lettera.

E se qualcosa si muove

non i grani piccoli e bagnati dello zucchero?

qualcosa si muove nel fondo della tazza

per questo avevi male alle reni

la .Natura è furba

fragili noi nipoti di violentatori

abbiamo anche sposato le sorelle mentitrici

granchio a granchia

sono nati i figli che sempre sorridono

come un pettine tremante

la mano donda i ricci

del piccino se-piccino:

tu sarai felice

l'ometto malriuscito

―Io sono/sarò re‖

e slitta le due zampe di salsiccia

nero ardore saliva di mater tra le gengive

avanzi di pater coagulatisi nelle orecchie

―nostro sogno carnoso‖

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296

nostro sogno carnoso

tuto ingollando remando dentro la bocca

il pìccolo

la piccola

avrà denti

taglienti

denti

taglienti

organiinespansionc stomaco con mucosa

sottomucosa

tunica muscolare (fibre circolari)

tunica muscolare (fibre longitudinali)

tunica sierosa

ma basterà

per una donna?

tu seddendrionale parli cosi perché nosci

il sangue fuollemente greve

la schiavitù nelle vene

Venere lenta un veleno

che covi e rifluisce a piano a piano in bbene

poi, quiete, parlarono

tra donne di famiglia

che legalmente amarono

i mariti e partoriranno

le nocciuole, i figli,

teneramente anno dopo anno;

e mia madre insegna

ma mia madre insegna

ma mìa madre continua a insegnare:

―credevo d'avere soddisfazione nei figli,

consolazione da vecchia; non è così:

io ho la mia vecchiaia

tu hai la tua giovinezza‖.

(Sei qui?

pensavi che t'avessi abbandonato?

che ti volessi colpire?

taci per questo?

la faccia che fa finta di dormire,

le mani che riparano il grembo?

Apre nuovamente il corpo

doloroso

goloso

ora mi mastica ghiotto lentamente)

allora io mi metto di fianco sul gomito destro alzo la gamba sinistra e la chiudo come in un angolo

con il braccio sinistro stringendo progressivamente ma la mano destra è troppo corta tocca appena

la pelle allora devo scendere steso sul materasso cammino con il braccio destro ora non schiacciato

sotto il collo lei si solleva per poi schiacciarmelo di scatto nel risollevarmi interamente apro la

coperta da ambo le parti ed entra aria fredda lei sùbito mentre si accomoda meglio con la schiena

ben aderente al materasso ma i gesti sono troppo bruschi con le due mani afferra i lembi della

coperta e progressivamente l'abbassa intanto io le fiato troppo vicino alla faccia scendo con il

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fiato baciandole collo scendo ora lei con le mani carezza ma guidando con attenzione spostamenti

del grembo la penetrazione io fatico devo alzarmi di più però chiudiamo gli occhi e sostenermi sulle

braccia rigide il suo bacino ondeggia a spirale ma sono troppo affaticato per baciarla anche provo

comunque scendendo sui due gomiti anzi con un solo braccio mi sostengo mentre con l'altro giro

dietro che alza il dorso ma non arrivo sino in fondo lei compensa dicendo ―amore, stringimi‖ siamo

sudati libero il braccio sinistro alla napoleona sulla schiena e abbasso la coperta ora lei si agita

prima di me e vuole che stia molto attaccato anche schiacciandoti? sì allora la stringo quasi

soffocandola ritmicamente penetrando a esse contemporaneamente non molto d'accordo con il suo

rantolo e il suo fiato nell'orecchio destro guardando fisso il cuscino puntellandomi intanto sul

gomito sinistro entro con la mano destra tra il dorso e il lenzuolo però non riesco più a controllarmi

bene e ci diamo tremendi colpi con i denti un gran caldo si bolle con una scrollata della schiena

faccio scendere la coperta enorme calore rantoli fiati lei comincia a gridare che ci sentiranno allora

la bacio succhiando mordendola che deve togliere le labbra ma con gli artigli mi afferra le natiche e

tira verso di sé dentro di sé proprio quando per forza devo uscire.

[Da: Giancarlo Majorino, Ricerche erotiche, Garzanti, 1976; originariamente apparse sulla rivista Il

corpo, 1965.]

– Mi sono familiari da tempo, e una grande libertà linguistica e l‘incorporazione del doppio

valore estetico eteronomo e autonomo di ogni opera davvero tale (cioè il suo essere

praticabile e valutabile nella presenza di entrambe le visioni, di entrambe le possibilità

attuabili). Conseguentemente, la distinzione tra poesia e prosa, più che un problema

costitutivo, appare una delle varie modalità, inerenti allo scrivere, da osservare, da

concretizzare, da studiare. Magari considerando senza obblighi e senza adesioni corporative,

il combinarsi, il miscelarsi, il selezionarsi delle righe e dei versi.

Indicazioni inerenti sono state additate circa il mio modostile (nel Poema*, ad esempio,

caleidoscopica è la ressa delle ambiguità, dei canoni infranti, delle scelte azzardate, ecc.) da

parecchi recensori, che hanno posto in rilievo l‘amalgamarsi di prose in sé, prose narrative,

prose critiche, prose divenienti poesia e viceversa, poesia realistica, poesia lirica, poesia epica

– persino ―comunicazioni‖ (intendendo ―comunicazione‖ nel senso forte di ―cosa e come

valga la pena di essere messo in comune‖, e non nel senso debole, circolante urbi et orbi,

vagante a cascata, con dolci sorprese di novità vendibili).

L‘esserci quale singolo-di-molti (quindi non quale individualità e/o particella di una massa)

criticamente innervato, spostantesi, per esperienza vissuta e sogno padrone-servo della

straripante energia della lingua, è uno dei più decisivi fattori scriventi (―libertà che chiama

libertà‖), una delle definizioni più idonee potrebbe essere il motto o slogan del fare privo di

obbedienze mercantili e corporative. Inutile sottolineare quanto e come, in un orizzonte così

illimitato, fortemente simile-dissimile al dispiegarsi infinito e proliferante del linguaggio,

possano muoversi scritture dedite, contemporaneamente, alla magnanimità irregolata

dell‘eteronomia e al rigore privo di riconoscimenti dell‘autonomia del testo. –

-------------------------------------------------------

* Viaggio nella presenza del tempo, Mondatori, 2008.

Giancarlo Majorino, 5 marzo 2010

Notizia.

Una sintetica panoramica sull‘attività dell‘autore e un elenco delle sue pubblicazioni sono leggibili

su: http://it.wikipedia.org/wiki/Giancarlo_Majorino.

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298

FRANCESCO OSTI

ALBERGO STELVIO

“In un ridente rimando? sulla chiara orlatura del turno di notte? oppure al banco del bar, lungo

l‟incerta imbastitura lavorata dalla barista…”

**

Albergo Stelvio

Qui la sera è luce al neon e il sonno tarda a scendere dalla sua scala scura; anzi, calca la mano sullo

stampo delle pareti, fino a quando gli insonni riuniti non sentono formicolare la lingua, andare in

acqua il cervello; fino a che ogni passo diventa un tuffo sordo, un sasso nello stagno.

*

Inaspettato come una mosca che risalire il fondo del bicchiere e asciuga le ali, così il perdigiorno si

pianta nella hall a gambe larghe: ―morto io, ci pensa dio…‖.

*

Mi domandi sempre chi abbia visto nell‘atto degli elementi che si compongono; quali le figure

scivolate dentro, sul nastro di catramina del dopolavoro: lo stato di lavorazione, la fase on/off, il

livello di contaminazione… Continuamente ti paragoni, aggiorni il tuo work in progress.

*

Ipotizzo un gesto, dato il fumo che appena percepisco da un‘asola che manda in cucina. Esce il

cuoco con lo stesso slancio di chi vince ad una bisca: ha la pelle costolata, un intrico di quarti ed

armatura, qualcosa che ricorda la pasta di un cantiere… Non una parola, ma il braccio tatuato

Carmen webcam.

*

Dannato al bersaglio, sulla corona che sgrana di nero in giallo, proprio dove va a battere la punta

della mia freccetta; così si avvia o si fissa il signore ansioso, annodato da non so quale infortunio

sul lavoro che ora vedo catacombare dove la notte rilascia la presa…

*

Non dovresti mancare tu al mio tavolo riservato: ma non riesco a pensarti se non sbriciolata dal

quotidiano. Forse sei la michetta spiluccata, fatta rotolare sulla tovaglia, che finalmente arriva al

fusto dello scarto secco; pronta per il grande passo nel sacchetto del pane grattugiato.

**

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299

Cartoline da un isola di traffico

La biga romena riporta in patria gli scarti della macellazione; da ore un odore di fosso e ammonio

ristagna nell‘aria, ma credo non dipenda da alcuna meccanica o sentimento. Sono felice di scrivere

questa cartolina, di godere la panoramica veranda, mentre sorseggio la cheta nevrastenia del

commesso viaggiatore che chiude in trionfo la sua giornata. Dove il mio vicino di seggiola, in un

grido, ordina una liquirizia: un bicchiere della sua anima nera.

*

Sto bene, rassicurato come è ovvio dall‘arrivo, ora che fisso l‘arpione a questo punto di luce.

Ricordo di te tutto ciò che hai detto, nella mente si dispiega il tratto grasso della tua grafite: tra

cunei, circonvoluzioni, piccole selve di connessioni e ceramica. Domani sarà una nuova mappa, un

altro approdo o la definitiva partenza…

Notizia.

Francesco Osti nasce a Morbegno (Sondrio) nel 1976, qui vive e lavora come magazziniere presso

un biscottificio.

Suoi testi sono apparsi su alcune riviste ed antologie fra cui Nuovissima poesia italiana

(Mondadori, 2004) e La riqualificazione urbana (CoenTanugi Editore, 2006). Nel 2005 è uscito

presso l‘editore Lietocolle il suo primo libro, intitolato Errore di sintassi, cui ha fatto seguito

Itinerari (Stampa, 2009).

Un‘altra raccolta, fino ad allora inedita, è uscita nel 2007 sull‘Almanacco dello Specchio, edito da

Mondadori.

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LUISA PIANZOLA

COLTIVAZIONE DEL DESERTO

Non mi spaventi. Schiacciami, tempo. Azzera le prospettive, pianifica per tutti noi la totale assenza

di futuro. Vedi che restiamo immobili duraturi, finché la biologia ce lo permette, anche per

moltissimi anni. Possiamo vedere molto bene, da questa postazione, la tundra ghiacciata delle

possibilità. Ci prepariamo a coprire, dopo l‘esondazione, migliaia di chilometri resi vergini da un

sistema solare spietato. Ma abbiamo bisogno – non ci crederai – di questa desertificazione.

L‘abbiamo voluta, ci appartiene come questo suolo lunare da nausea.

*

Niente è ancora troppo poco. Tanto vale il mai stato, il mai essere stati e con un colpo di frusta

completare il quadro: zero. Uno zero docile, attivo, dove poggiare la sapienza molle. Io su questa

rada totale ci faccio un picnic, mi ci rotolo coi miei simili, ci preparo una nuova specie magari senza

testa né gambe.

*

Quali città, quali metropoli stranite o suburbia allampanata: qui saranno tutti campi, prati di nuova

seminazione. Mi basta un cenno (sono un tipo pratico) e mi faccio da parte per le nuove

generazioni.

Come prendere congedo da sé e da conduttori esausti

dare un ordine al vissuto. Senza mestizia collocare la

parola fine. Ma non mortale, da guarire e darne un

segno, da vedere oltre.

(Menzione Speciale della Giuria al Premio Turoldo 2009)

**

VIA PRINETTI

Professor X

Dice «finché te la senti, cammina. Finché dura questo passo fangoso e le scarpe hanno di che

faticare, resta diritta sospesa, molleggia vagamente, ma con giudizio».

Prescriveva la serie ordinata di posture (la questione fisica del corpo e la spinta verso l‘alto), tra lo

slargo di via Padova e le ninfee a pelo d‘acqua. Si doveva assumere, mi pare, una certa dose di una

tal sostanza e parlare con rispetto di sé, questo lo ricordo bene. Rispetto, salute, memoria senza

strappi ma smemorarsi di una nausea ormai già vecchia, archivio buono per l‘album di famiglia. La

famiglia del tu e del lei. E dei loro, anche.

*

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301

Che ci fosse molto da ricordare, è talmente scontato che non serve. Che fosse il salto della quaglia

zoppicante (anche lei signora – ci hanno già provato in tanti – non farà eccezione) adesso è

incredibilmente chiaro. Abbiamo ridisegnato il ritratto. Lo abbiamo cancellato.

*

Capitava che si piangesse di niente, costretti a torcere il collo verso un lato o addirittura all‘indietro

senza sentirne la necessità. Quella era la cura: spaccarsi l‘osso dello sterno a furia di sussulti,

redarre il compitino sempiterno della tragedia banale (il professor X staccava alle diciotto, nel cauto

andirivieni della sera, pronti all‘aperitivo di una decina d‘anni dopo).

*

La storia raccontata tutta d‘un fiato, poi c‘era la sera fresca, schiantarsi correndo verso casa, la casa

provvisoria. Si usciva e si rientrava nel giro di una patologia frequente, buona per ritrovarsi in due a

discutere un futuro come tanti, camminando lesti e guardandosi le spalle.

Tutto concluso. Guarito. Ripiegato come le camicie di Gianluca che sorseggia bicchieri mai toccati.

Tutto disposto nell‘album ceralacca in copertina. Tutto discorso, dominato. Ossificato in punti

pronti per la fine.

Notizia. Luisa Pianzola (Tortona 1960) poetessa, giornalista e copywriter. Laurea in storia dell‘arte

contemporanea (Lettere Moderne) a Genova e diploma in visual design a Milano. Dopo due saggi

sull‘architetto Alberto Sartoris, ha pubblicato i libri di poesia Sul Caramba (Sapiens, Milano 1992),

Corpo di G.(LietoColle, Faloppio 2003, prefazione di Maurizio Cucchi), La scena era questa

(LietoColle 2006, prefazione di Gianni Turchetta). Cocuratrice dell‘edizione 2006 de Il Segreto

delle Fragole (LietoColle) e coautrice del video poetico Bíos (2007). Suoi testi, apparsi in riviste e

siti online, sono presenti nei saggi e antologie Senza Riparo. Poesia e Finitezza, Stefano

Guglielmin, La Vita Felice, Milano 2009; Leggére variazioni di rotta, Le voci della luna, Sasso

Marconi 2008; La nebbia non si mangia. Dodici poeti alessandrini, a cura di Sandro Montalto, di

prossima uscita per Manifattura Torino Poesia. È redattore de ―La Mosca di Milano‖ e collabora

con ―Pagine‖. Tra i riconoscimenti ottenuti, il Premio del Presidente della Giuria al Premio Città di

Corciano 2008 e la Menzione Speciale della Giuria al Premio Turoldo 2009. In corso di stampa, per

La Vita Felice, il suo quarto libro di poesia.

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ROSA PIERNO

UNIONE E SEPARAZIONE

L‘armonia è la legge di composizione secondo la quale l‘unità si attua nella varietà. Se varietà si

ottiene col numero più piccolo consentito della pluralità, l‘equilibrio può darsi sia stabile, ma

temporaneo, oppure può durare in eterno, ma con il sospetto che ciò accada a discapito della varietà.

Oppure può durare in eterno con molta varietà.

Riguarda anche la loro coppia, la regola che vuole che un corpo, in virtù dell‘inerzia, inviti un terzo

corpo a occupare il medesimo luogo. Fatti furono per trasformarsi nell‘altro, per fingere altrui

identità, per mimare inseparabile giunzione, soprattutto per giurarsi eterna fedeltà.

Le forze derivate attive e passive servono proprio a spiegare l‘azione reciproca fra corpi diversi in

movimento, eppure, mai spiegano come sia possibile che due corpi si uniscano per amore e poi

indifferenti si separino.

Concetti e sensazioni, anziché opporsi l‘uno all‘altro senza mediazione, sono collegati attraverso un

numero infinito di gradi intermedi: ciò rende possibile il passaggio continuo da un contrario

all‘altro, procurando un‘unica indeterminatezza: proprio quella relativa al prosieguo dell‘amorosa

relazione.

Si potrebbe congetturare di distinguere le differenze di grado nel continuo, anziché esclusivamente

individuare opposizioni qualitative. Gli amanti dovrebbero comprendere che restano legati

indissolubilmente anche se si allontanano, che corde li costringono a subire il medesimo

andamento, almeno per un bel po‘ di tempo.

Eppure, a tal orrida fine, ci si può con tutte le forze opporre: non può darsi il nulla assoluto, come

non può darsi la quiete assoluta in quanto qualità contraria del movimento. Sempre sarà lotta

intestina per non credere a quel che si vede, per rovesciare la frittata.

Si può trattare l‘uguaglianza come un caso limite della disuguaglianza, fingere che l‘amante

ritornerà, che in fondo l‘ha sempre fatto, che lo fa dall‘inizio dei tempi, che è una storia di amore

assoluto, fuori da ogni ragionevole dubbio, inscritta nella ciclicità delle stagioni.

L‘approssimarsi asintotico a un‘identità è il paradosso che amanti indefessamente perseguono.

Come l‘antecedente contiene il conseguente, così il cattivo esito della vicenda promuove un

ennesimo tentativo di riavvicinamento.

Anche subire un effetto è un genere di attività, una reazione, un‘azione contraria espressa nella

forma dell‘inerzia. Amore, è movimento infinitesimale nell‘istante privo di estensione. Con ciò ci si

avvicina gradualmente a movimento perenne, ma mai soddisfacente. Eppure: il pneuma dell‘intero

universo non vale il sospiro dell‘amante.

L‘infinita divisibilità della materia potrebbe anche essere vista come infinita separazione. Non

sussiste alcuna relazione tra le parti che si uniscono in un tutto per attrazione. Fra le cose resta un

vuoto comprimibile, ma non sopprimibile.

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Tutti i corpi dell‘universo indirettamente vengono a sfiorarsi, a toccarsi e, dato che la materia è

infinitamente divisa, reagiscono in termini infinitamente sottili alle più piccole variazioni che si

verificano nell‘universo-letto. Se il cosmo è retto da unitario principio, resta da ficcarci dentro a

forza di spinte e controspinte anche lo strano miraggio, pura appercezione, dell‘apparente fenomeno

dell‘unione.

Distanza si percepisce come un feltro posto tra le carni a ovattare la più piccola sensazione. Non si

raggiunge l‘interiorità dell‘amato. Se non mettiamo le dita nel costato non riusciamo a orientarci

nella selva di singole entità, di assolute estraneità.

Non si dà mai nulla senza una ragione, pertanto una delle due: o siamo uniti per sempre o

potenzialmente divisi. E, dunque, unità diviene fluente per forzosa soluzione. Fluente diviene, di

conseguenza, anche il vincolo che unisce. Siamo punto e daccapo, interminabilmente.

Notizia.

Cenni bio-bibliografici sull‘autrice sono presenti su:

http://www.anteremedizioni.it/?q=staff_rosa_pierno.

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STEFANO RAIMONDI

*

L‘hanno trovata con gli occhiali abbassati sul

naso e un libro tra le mani: era mattina. Non si è

mai saputo quale fosse l‘ultima parola che le sia

piaciuta tanto. C‘era una grotta intorno che poi

sembrava un‘ombra, un suono, un sogno.

Un segno nerofumo appiccicato in fondo alla pa-

rete. Una scintilla scappata da una pietra focaia.

*

Entrare nelle caverne, nelle facce come uno sguardo da fiammifero e proseguire. Diventare,

noi, più bui del buio, fino a illuminarlo, come

fanno alcune ombre, che frugano, dal basso in

alto, un rasoterra voltato dalla parte del chiaro.

*

Da qui l‘ho pensata l‘illusione: quel qualcosa che

possa continuare sempre e per sempre. Da qui, da

questa cerchia magra di polmoni e d‘occhi punta-

ta verso il niente: proprio come i tetti visti da lon-

tano quando sembrano tutti uniti e non è vero.

L‘ho pensata, davvero, da qui, ma solo da qui e

una volta soltanto, lo giuro!

*

Si redimono così le pareti: figliando e tacendo. Là

dentro scomparve di tutto. Era una finestra tran-

uilla a vederla da qua. Macchie di sangue sullo

zerbino hanno parlato tra loro, attirando atten-

zione. Si distruggevano piano, a furia di morsi.

Era una bella famiglia, rispettata da tutti. Quando

fu scardinata la porta, le mani staccate si davano

ancora carezze tra loro, come potevano.

*

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Si sono trovate uova nella cassetta della posta

stamani. Non era arrivato nulla a destinazione. La

città covava la sua alba tranquilla. L‘ovulazione

era cominciata da tempo. Le arterie pulsavano

veloci sangue nuovo dappertutto. I portoni prepa-

ravano l‘ombra ai bambini.

*

Progettava così la sua vita. Dalla finestra misu-

rava il tempo delle cadute: degli stracci, delle

pattine appena lavate, delle bottiglie di plastica

schiacciate. Prendeva appunti: vento, attrito, con-

dizioni variabili della temperatura, l‘impatto delle

cose sul terreno, lo scomponimento dell‘oggetto,

le fratture irreparabili. Aveva trent‘anni, era lì da

poco. Abitava al quarto piano della casa nuova:

quella che non c‘era quando ero piccolo, quella

fatta sul posto della fabbrica di gomma e di

cerchietti, vicina al rottamaio che stortava tutto.

Distruggeva.

*

È stato il buio a nascondere tutto il quartiere delle

nicchie, anche quella volta. Il guardiano di notte,

quella notte, si è incastrato nella scena. Sembrava

un fantoccio. Si era gettata dal secondo piano, si

era infilzata il collo sulla cancellata. Uccidono

così le case. L‘agrimensore parlava col suo giudi-

ce, supplicava. Neppure sette di loro furono sal-

vate. Ci sono generazioni che sulle mappe.

[da Interni con finestre. Presentazione di Milo De Angelis. Edizioni La Vita Felice, 2009.]

Notizia.

Stefano Raimondi (Milano, 1964) poeta e critico letterario, laureato in Filosofia (Università degli

Studi di Milano). Sue poesie sono apparse nell‘Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2006).

Ha pubblicato Invernale (Lietocolle, 1999); Una lettura d‟anni , in Poesia Contemporanea.

Settimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2001); La città dell‟orto, (Casagrande, 2002); Il

mare dietro l‟autostrada (Lietocolle, 2005), Interni con finestre (La Vita Felice, 2009). È inoltre

autore di: La „Frontiera‟ di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), (Unicopli, 2000),

Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char, (CUEM,

2007) e curatore dei seguenti volumi: Poesia @ Luoghi Esposizioni Connessioni, (CUEM, 2002)

e [con Gabriele Scaramuzza] La parola in udienza. Paul Celan e George Steiner, (CUEM,

2008). È tra i fondatori della rivista di filosofia ―Materiali di estetica‖.

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ANDREA SARTORI

MICRO-TRATTATO DELL‘UMORE

I.

Non è raro che sul volto del sofferente psichico si dipingano, ad intermittenza, delle

espressioni d‘accesa partecipazione a qualcosa che non sia il suo male interno. Balena allora in lui,

certo in forma paradossale, contraddittoria, impronunciabile, l‘ombra d‘una guarigione.

Paradossale, perché essa è dettata più dall‘acuirsi del morbo che dalla sua sedazione.

Contraddittoria, perché subito viene negata dallo sprofondare nell‘umor nero.

Impronunciabile, perché di questo improvviso balenio, all‘ammalato, non resta memoria

alcuna, e l‘affacciarsi in un altro mondo è talmente subitaneo da non permettergli neppure di dire,

anche solo in un soffio: «Sono felice».

Nel catatonico, la rivelazione improvvisa si manifesta non con l‘anomalo movimento d‘un

arto – una sorta di reazione galvanica tutta interna alla logica dell‘immobilità – ma con un singolare

tralucere dallo sguardo fisso, che pare dire: «Io vedo».

Nell‘autistico, la rottura della ripetizione di gesti o parole non è rilevabile direttamente, ma

solo di riflesso, come ripercussione – soggettiva, fallace, inaffidabile – che il medico, l‘insegnante,

il genitore, l‘amico, l‘operatore, avvertono su se stessi, quasi che lo sguardo del disabile mentale si

faccia tocco morbido alle spalle, intenzione incompiuta d‘appoggiarsi, di seguire, di imitare.

Nel ciclotimico, ciò che viene allo scoperto è anche ciò che resta perennemente avvoltolato

nel disordine degli stati emotivi: un‘incessante piccola apocalisse che scontorna ogni certezza, si

rimangia il già detto, arringa contro ogni abbozzo d‘identità stabile.

Il trasparire d‘una possibile redenzione, al pari d‘un annuncio escatologico, tanto più

fortemente accolto quanto più empiricamente disatteso, non s‘identifica, quindi, con lo stato

euforico come tale – sebbene di esso abbia lo scoordinato ardore – né con la pura, esaltata, mania,

bensì con la dialettica tra queste ed il loro opposto, lo stato depresso.

Difficile, d‘altra parte, separare una delle due condizioni dall‘altra, poiché il depresso tende

a curare se stesso procurandosi, precisamente, immotivate occasioni d‘eccesso – un‘utopia di gioia

che giunge, a seconda dei casi, alla demenza, alla devianza, alla reclusione – e l‘euforico

costantemente alimenta la colpa nei propri godimenti.

Più nello specifico, è l‘inizio della remissione sintomale della depressione maggiore a

rappresentare il momento del disvelamento, il prodursi d‘un istante sottratto al tempo. Accade

infatti – per quanto ciò possa apparire curioso – che l‘incerto regredire del nulla faccia apparire,

assieme ad una prima attenzione per il mondo esterno, il pensiero del suicidio. Ne va, qui, non d‘un

pensiero ricorrente, d‘un basso continuo, ma della possibilità concreta dell‘atto, del gesto in quanto

tale. E, dunque, d‘una occasione irripetibile di trascendenza. Tale condizione è però meno insolita

di quanto si creda, e rappresenta la soglia oltre la quale una vita o s‘incaglia per sempre, o procede

ad un grado superiore di consapevolezza. Per quanto quest‘ultima possa farsi raffinata e duratura,

tuttavia, essa non sarà mai percepita con la medesima intensità che scheggia, come un fulmineo

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lampeggiare, l‘orizzonte del tempo debito. Il tralucere degli occhi fissi, la carezza dello sguardo, la

pausa nell‘eccitazione psico-motoria, la primigenia ideazione suicidiaria, assommano lo spessore

cognitivo della conoscenza al movimento della pulsione, la chiarezza epistemologica alla vescicola

dell‘istinto. Una tale sovrapposizione di sostanza organica, moto dell‘umore, e riflessione oggettiva,

a cui siamo soliti dare il nome di «stato di grazia», non si manifesta in altri stati di coscienza, ché

l‘estasi religiosa e lo stupore sono anch‘essi puntuali patologie dell‘essere umano, delle quali è sì

possibile stilare un‘apposita nosografia, ma in fondo ricorrente e analoga, secondo il ritmo e il

baluginare in essa dell‘imprevisto, alle forme psichiatriche dell‘alterazione.

II.

Proprio qui, nella distorsione del divenire-altro, nell‘essenziale alterazione del pensiero,

nella sua natura iatrogena, si palesa quella logica dell‘alterità che è condizione dell‘incarnarsi della

parola nella pulsione corporea, del farsi contenuto da parte della forma, per quanto bizzarra questa

possa essere.

Nel destino del sofferente psichico, è perciò inscritto ch‘egli veda realizzate le paure, le

fantasie, le convinzioni paranoiche – laddove si manifestino – che affollano il suo animo. Come

ogni avveduto psichiatra sa, sarebbe un inutile dispendio d‘energie ricercare di volta in volta una

corrispondenza tra i vaneggiamenti del paziente e la realtà, ma non perché questa corrispondenza

sia impossibile, bensì perché, al contrario, la concordanza che qui intendiamo tra gli uni e l‘altra è

facilmente assumibile a priori, e ad essa basta, a garanzia della sua verità, un‘unica deduzione

trascendentale.

Ebbene, come i nostri morti ci insegnano con analitico rigore, il nulla è ben un destino, e

non un‘illusione. L‘indeterminato, il niente, il non-essere, appaiono controintuitivi solo ad un

intelletto aduso a pensieri psicotici, dunque, correttamente, ad un pensiero in alto grado malato.

Viceversa, ciò che il sofferente psichico in stato di grazia non si limita a sapere, ma

contemporaneamente avverte fin dentro il gelo delle proprie ossa, o nella disperata esaltazione della

propria mente, è appunto un‘assenza di spazio, d‘argine, d‘essere, che fa un sol boccone d‘ogni

ontologia iper-parmenidea e d‘ogni anomia sociologica (essendo la sociologia del suicidio null‘altro

che un ennesimo, per quanto congruo, edificio di mattoni comunitari innalzato per contrastare il ben

più vincolante sentimento individuale del tutto e del suo contrario).

Ogni paziente psichiatrico è così un embrione di Cristo all‘atto d‘essere concepito, il cui

DNA lentamente dipanato è l‘interna manifestazione, esteriorizzata nella materia sensibile,

dell‘indifferente destino di tutti sulla Croce, ovvero dell‘incontrovertibile nichilismo che da sempre

ci accompagna e che sempre ci accompagnerà.

III.

Che cosa si può opporre a ciò? Certo, dirà qualcuno, una struttura originaria eterna,

impastata di pensiero e di mondo; ma chi riesce effettivamente a smentire anche solo un lembo della

psicologia di chi s‘è irrimediabilmente spezzato? Chi riesce a compensare il posto lasciato vuoto

accanto a noi?

La promessa di gioia autentica contenuta nel seguente enunciato psicotico: «appare sempre

qualcosa e non il nulla», è poi naturalmente falsa, eppure anch‘essa trova cittadinanza nella più alta

sapienza – tanto più alta quanto più inconsapevole, immediata – dell‘idiota di famiglia, del Cristo

che diventa il capro espiatorio d‘una società incapace di giungere, compatta, all‘altezza del proprio

dolore.

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Non è dunque possibile avanzare alcuna seria obiezione al memento mori che la sospesa

perplessità del malato psichico ci trasmette, né è ragionevolmente invocabile la resurrezione dei

morti, se non, ancora una volta, in quella forma condivisa di follia estrema che è rappresentata dalla

preghiera, ciambella di salvataggio che la religione lancia ad alleviare l‘insostenibilità del nulla: il

volto socialmente accettato, insieme alla creazione artistica, del delirio individuale.

La fenomenologia psichiatrica, che in conclusione non ha mai cessato d‘essere una

fenomenologia dello spirito, è pertanto tuttora la migliore cassetta degli attrezzi a nostra

disposizione per fronteggiare l‘inevitabile stato d‘angoscia che prima o poi accompagnerà la

diastole e la sistole del nostro respiro. Essa è l‘unica forma di comprensione del mondo psichico

scompensato che vanti la diretta convalida del paziente, e non si limiti all‘assunzione di corretti

parametri biologici e neuronali. Sebbene questa seconda conoscenza protocollare sia estremamente

utile ed efficace nella cosiddetta «cura» della malattia mentale, e nella corrispondente medicazione

dell‘umore, essa non può ignorare quanto alcuni clinici hanno raccolto tramite l‘ascolto dei

contenuti delirati dai loro pazienti, che hanno riferito l‘esistenza di determinati «raggi» (in tedesco:

Strahlen) dell‘intenzione, sovente visti fuoriuscire dai propri occhi o da quelli d‘altri, come a

tracciare immaginarie traiettorie di relazione tra persone e cose, alle quali sono associati, altrettanto

spesso, vissuti psichici d‘avvinghiamento, se non di vera e propria persecuzione. Occorre

considerare attentamente la natura di questa singolare conferma del principio husserliano

dell‘intenzionalità, il quale, nel vissuto di buona parte degli ammalati, caratterizza la visione

quotidiana come un‘indubitabile ed ultimativa evidenza.

Siamo qui in presenza d‘una conferma empirica – per quanto allucinata – d‘una

fondamentale componente della «teoria» fenomenologica, oppure d‘una sua convalida narrativa, in

quanto scaturita dal racconto e dall‘ascolto pietoso?

Sul crinale di questa ambiguità si giocano buona parte delle sorti d‘una scienza medica – la

psichiatria – che, facendo sfoggio del proprio potere, occulta, spesso anche a se stessa, lo

scetticismo performativo da cui è attraversata sin dall‘epoca della pubblicazione delle opere di

Sigmund Freud.

Al di là delle sottigliezze gnoseologiche, e dell‘apporto indubbiamente destabilizzante che la

psicanalisi ha conferito alla psichiatria «organica», è comunque chiaro che assieme al nostro fiato ci

trasciniamo la nostra malattia, ed è da augurarsi non tanto di far refluire in un canale di scolo il

peggiore umor nero che accompagna i nostri risvegli ma, al contrario, di riuscire a distribuire

uniformemente questo stesso umore nelle giunture che incardinano un istante nell‘altro, come un

lubrificante del tempo che ci aiuti ad affondare meglio nella vita.

IV.

Un affondare, in definitiva, che lo stesso vecchio Freud avvertì sotto ogni suo aspetto negli

ultimi diciassette anni della propria vita, allorché seguì, dapprima inconsapevolmente – tra studi,

elaborazioni teoriche, affetti ed analisi – il lento progredire d‘un cancro alla mascella, lo

slabbramento dell‘osso ch‘era impalcatura del suo linguaggio e sostegno della sua pipa.

Un colare granuloso, una frammentazione, cui ciascuno partecipa, a volte cogliendosi

nell‘atto di rimangiarsi le parole, di ricacciare in gola un urlo ch‘è inutile richiamo d‘aiuto.

E ci stupiamo, in un attimo spudorato d‘accecante chiarore, di questo sprofondare nella

voce, lungo le ulcerate pareti delle nostre faringi, come se, smentendo l‘impianto materiale del

logos, revocassimo la condanna che ci governa. Allora, deposta la fierezza d‘essere umani, sottratta

la facoltà della parola, ci appare auspicabile l‘ebete felicità dell‘incoscienza.

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Proprio nel gesto che si toglie, nello sfarinare della volontà, nell‘abdicazione alla sovranità

sulla vita, si cela la pratica della follia, la torsione patologica della resistenza, la crudeltà che intacca

la scienza che vuole governarla.

Portiamola dunque alla luce, questa follia, nell‘ afonia idiota che insensatamente scuote la

testa, e getta le briciole calcaree lontano dall‘osso consumato, prossimo al niente, non più osso.

Alleggeriti d‘ogni zavorra, polvere lieve sopra la terra, aerei al di là delle nostre

disgiunzioni, abbandoniamo a se stessa la volontà di comprendere.

Non resti che un imprecisato bianco, un ricettacolo vuoto, ad accogliere l‘impossibile Grazia

che viene.

Notizia.

Andrea Sartori (1972) vive e lavora tra Milano, Reggio Emilia e San Pietroburgo. È tra i redattori

del blog letterario La poesia e lo spirito, per il quale pubblica racconti, recensioni e saggi. Suoi

scritti sono apparsi sulla versione web de Il primo amore e in opere multimediali dell‘artista visuale

Francesco Attolini, esposte alla Triennale (2006) e alla Galleria San Lorenzo (2009) di Milano,

nonché al Master of class Festival e alla OIOIOI International Art Gallery di San Pietroburgo

(2008, 2010). Contributi di critica letteraria sono stati editi da Il Ponte e Ore piccole. Suoi saggi

filosofici e sue traduzioni sono apparsi in diverse riviste.

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GIOVANNI TUZET

ASSENZE

X

Profumo di viole incanta un Oscuro

(G. Trakl)

X l‘ho conosciuta in un locale messicano a Bologna, uno di quei posti dove si mangiano piatti

piccanti e si balla sui tavoli. Ma non aveva niente di messicano. Ricordava quelle figure femminili

ritratte, forse è meglio dire sfumate, appena sfumate, nei libri inglesi dell‘Ottocento. Era pallida,

magra e molto alta. Con i lineamenti appena irregolari. Un vestito di velluto e i capelli neri, lunghi e

lisci. Ricordo che i miei amici si erano avvicinati al tavolo delle ragazze, parlavano e scherzavano.

Lei no e questo mi aveva immediatamente attratto. Riuscii a strapparle qualche riposta. Poi anch‘io

facevo il misterioso. Ebbi comunque il numero di telefono e due giorni dopo la chiamai, senza

trovarla.

Una sera incontrammo ancora le sue amiche, in una discoteca vicino alle Due torri. Una si premurò

di dirmi che X non poteva esserci, aveva le sue cose. Il dettaglio mi colpì: perché mai un‘amica

dovrebbe dirmi questo? Pensai che l‘amica fosse un po‘ scema. Mi sfiorò il pensiero che anche X lo

fosse, viste le compagne. Ma subito mi corressi: X era diversa da loro, molto diversa. X le aiutava,

il suo altero silenzio le faceva riflettere ogni tanto. Doveva essere così. Però non riuscii a trattenere

un altro pensiero: che X fosse con un ragazzo. Pensavo ai lineamenti irregolari.

La trovai al telefono qualche giorno dopo. Ebbi un appuntamento, a cui arrivai trafelato e con una

macchina non mia. Suonavo ancora il contrabbasso all‘epoca, avevo delle prove nel pomeriggio da

quelle parti e la mia macchina era in carrozzeria. Arrivai con la lunga macchina di un amico, diesel,

goffa. Trovare parcheggio fu un‘impresa.

Bevemmo qualcosa in un locale molto buio scelto da lei. Era vestita in nero, con gli occhi affondati

nel trucco. Sentivo un profumo di viole, l‘incanto dell‘Oscuro. C‘era una larga candela sul tavolo.

Con le dita modellava la cera ancora calda. Iniziai a fissarla e quando si accorse di essere osservata,

tirò la maglia a coprire le mani. Mi fece sorridere.

Oggi non ricordo assolutamente di cosa parlammo. Ma parlai quasi sempre io. Ci fermammo sotto

casa sua mentre continuavo a parlare. Forse lei aspettava che la baciassi, non diceva niente. Io

cercavo di prendere tempo, mi sforzavo di trovare argomenti per fingere una conversazione, magari

per crederci. Rimanemmo lì diverso tempo, con il contrabbasso disteso nel retro. Quando fu molto

tardi e il silenzio ingombrante, pensai che oltre non avrei potuto. Si lasciò baciare senza la minima

resistenza e il minimo trasporto.

X non si fece trovare per diversi giorni. Mi dicevo che forse non ero stato abbastanza deciso, forse

le ero sembrato inconcludente, un pasticcione, uno che parla troppo. Ma anche il pensiero di non

essere il solo mi tornò. Che X uscisse con un altro, con altri? Che non si facesse trovare per questo?

Che avesse un calcolo delle sere? Questo mi tornava in mente: X che modellava la cera e

nascondeva le mani.

Finalmente la trovai e uscimmo una seconda volta. Di quella sera non ricordo neanche il locale.

Ricordo che dopo ci allontanammo dalla città, trovai un posto buio e fermai la macchina. La mia

macchina, questa volta. E non c‘erano indugi. Si lasciò togliere la maglia, la maglietta, il reggiseno.

Sdraiata in silenzio sul sedile abbassato. Si lasciò togliere le scarpe, i pantaloni, il resto. Mi misi ad

accarezzarla, a baciarle la pelle. Io ero ancora completamente vestito, con il cappotto. Immaginai

che iniziasse a togliermi qualcosa. Le guardavo i seni che non aveva. Aspettavo. Ma non si

muoveva, intanto cominciavo ad avere caldo. Baciandola ancora sentii con le dita se fosse eccitata e

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lo era. Ma continuava a rimanere immobile. Io iniziai a innervosirmi. Non capivo che cosa

aspettasse, che senso avesse una cosa del genere. Volevo togliermi il cappotto ma aspettavo una sua

mossa, anche una minima parola, un tremolio nelle anche. Iniziai a pensare che così non va, che ci

vuole entusiasmo, partecipazione… Anche con gli altri faceva così? Mi meritava? Non ero lì per

arrangiarmi! Basta, non sentivo più il profumo di viole. Sentivo una specie di risentimento verso

quell‘immobilità, tutto il fastidio e il peso del cappotto.

Le dissi di rivestirsi. Poi non ci sentimmo più.

Ma di X mi è rimasto un nodo: lasciare le cose a metà non mi è mai piaciuto, ho sempre cercato di

finirle. Me lo ha detto mia nonna di Ferrara: voi che venite dal Friuli siete della razza dei tedeschi,

con il chiodo in mezzo alla testa. Il chiodo? Quello degli elmetti con la punta in cima, nella Prima

guerra mondiale. Sarà. Mi sembrava ridicolo telefonarle ancora passato tanto tempo, però mi

sarebbe piaciuto ritrovarla. Ogni tanto capitavo nei locali dove immaginavo potesse essere. La

cercavo con lo sguardo: mai vista.

Anni dopo capito a una festa in campagna, una sera di giugno. È un vecchio casolare vicino al

fiume, in una zona molto isolata fra campi di grano e frutteti. Ci sono tavoli di legno imbanditi,

tovaglie bianche e grandi caraffe. Mentre sono a dire chissà quali sciocchezze versando da bere, mi

trovo davanti l‘amica scema. Ha sempre i capelli corti e tinti di rosso, i pantaloni stretti in fondo e

larghi sui fianchi. Lei è contenta di vedermi. Le chiedo di X. Un po‘ indugia, poi si mette seria e mi

dice che X è morta. Si è ammalata ed è morta, non trova altre parole. Io rimango così, con il

bicchiere in mano, senza chiedere altro.

In quella arriva il padrone di casa che la saluta e non ha sentito. Mentre si mette a scherzare con lei,

mi allontano e salgo al fiume. È un argine con le erbe molto alte, cui la casa dà le spalle e che poco

prima si snoda in una curva insolita per questa pianura. Guardo le luci della casa e l‘imbrunire

avanzato, poi mi atteggio a una domanda solitaria rivolto ai frutti sulla terra. ―Spighe ondeggianti a

sera, ombre dorate della tristezza, ditemi che cosa ha scontato‖. ―Era un corpo passato dal freddo al

caldo. Da latitudini gelate alla calda Emilia, dalle severità alle distrazioni‖. E se penso a me? Non

suono più, non soffro. Me la passo, mi concedo delle serate mondane dove si conversa amabilmente

e si balla con malizia.

Ridiscendo pensieroso. Hanno iniziato a ballare attorno ai tavoli, sull‘aia, della musica elettronica.

Mi metto a ballare con l‘amica scema, a cui hanno versato abbondantemente da bere. Le verso

miele e ancora vino, applaudo all‘orchestra invisibile e mi felicito con le stelle. Le volteggio

attorno, sempre più, ammicco, mi stringo, fingo d‘allontanarmi. Amica, amica che balli con malizia,

non ricordi nei miei passi qualcosa che ci manca ancora? Non senti un profumo di viole? Avanti…

avvicìnati… non senti che puoi farci felici, tutti finalmente? Avvicìnati, lasciati attraversare.

Y

I corpi che passano dal freddo al caldo non possono conservarsi sani e si

ammalano, mentre quelli che si trasferiscono dal caldo del sud al freddo del

nord, non solo non soffrono per il cambiamento, anzi si irrobustiscono.

(Vitruvio)

Y l‘ho conosciuta in treno da Bologna a Parigi. Quando? Il giorno di San Valentino. Sul treno, di

notte, dove salì anche un pazzo che diceva di andarci pure lui. A fare che? Comperare dei cd, che là

costavano meno.

Ma chi c‘era? Oltre al pazzo c‘ero io, una cinese obesa, un‘americana secca, una francese con un

grande naso e un‘altra francese: Y. Aveva i capelli biondi e raccolti con cura, Y, gli occhi molto

chiari.

Loro erano un po‘ preoccupate per il pazzo. Perché? Aveva dei lampi inquieti. Non si sa come

parlava un po‘ di inglese e di francese, era vestito di sola camicia e gilet, non aveva una valigia ma

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un sacchetto di plastica. Altro che cd: cambiava versione ogni volta che spiegava il motivo del

viaggio. Secondo la più poetica, era un pittore e sarebbe andato a Montmartre a trovare

l‘ispirazione. Anche le versioni circa il suo lavoro in Italia, quando le ragazze un po‘ imprudenti lo

interrogavano, erano diverse di volta in volta. Faceva i capricci? No, ogni volta era stato licenziato,

si giustificava. Ora diceva di lavorare ai servizi sociali, con i tossicodipendenti e gli immigrati.

Mentre parlava con una mano si strofinava il gilet e agitava il ciuffo liscio.

E cosa vi è successo? Andammo a bere tutti assieme al vagone ristorante, pazzo compreso. Ci

divertimmo, il pazzo faceva delle scene assurde con i camerieri strofinandosi il gilet. Prima voleva

pagare in franchi, poi in lire, poi ancora in franchi, poi voleva una birra invece del vino, poi ancora

vino… Ma il bello è venuto dopo. Tornati alle cuccette, chiese se ci si dovesse spogliare tutti

insieme o uno alla volta. E voi? Noi lo abbiamo convinto ad andare a letto vestito, a tenere stretto il

gilet e tutto il resto, non si sa mai di notte sui treni, c‘è gente strana. Allora il problema divennero le

scarpe, dove metterle. Lo convinsi a tenere anche quelle e mi offrii come volontario per la cuccetta

in alto davanti alla sua.

Dunque? Per paura del pazzo, Y (con cui si era creata una certa complicità) venne a dormire nella

mia cuccetta. La cosa curiosa era questa: durante la notte, mentre la cinese russava e si

approfondiva la conoscenza fra Y e il sottoscritto – con un po‘ di difficoltà, devo dire, per ragioni di

spazio – il pazzo produceva degli strani rumori nel buio... parlava da solo e non si capiva se

dormisse o ascoltasse... poi rideva... poi nel buio lo si sentiva strofinare e rovistare nel sacchetto di

plastica... Y ed io ne ridevamo sottovoce, toccandoci.

Il giorno dopo, Y mi invitò a telefonarle. Lo feci, mi venne a prendere a un appuntamento e mi

portò direttamente a casa sua (viveva sola, come si usa a Parigi). L‘appuntamento era nel cortile

della Sorbona. Era una giornata molto grigia e fredda. Lei portava, lo ricordo bene, dei guanti in

rete color crema. Andammo a casa sua, mi offrì qualcosa da bere. Una certa eleganza femminile

stonava con la casa: c‘era un gran disordine, i piatti e le tazze da lavare, scatole aperte dappertutto .

Prendiamo un caffè. Poi parliamo della sua famiglia, della mia, di altre cose. Mi parla del rapporto

difficile con la madre, medico oculista, di antenati aristocratici e un palazzo sulla Senna. A me non

interessa poi tanto e mentre spiega comincio a fissarla, iniettandole un po‘ di imbarazzo negli occhi.

Decido di venire al dunque e inizio un bacio avvolgendole la schiena. Mi sorprende che lei faccia

un po‘ di resistenza… dopo quello che era successo in treno la notte prima… Comunque cede,

finiamo a letto. Lei s‘è sciolta i capelli, siamo nudi ed è già buio. La bacio a lungo, ha dei fianchi

non magri, un seno florido. Salde ossa, un corpo robusto. Decido di passare all‘atto vero e proprio.

Lei allora mi ferma e mi dice seria che senza il preservativo non lo facciamo. Ma a me non piace

farlo con il preservativo e non ne ho. Lei neppure. Vado a cercarne uno? Mi dice di restare. Io esito

ancora, riprovo, lei è ferma. I suoi occhi sono fermi. Rimaniamo nudi, così, nel letto. Passano i

minuti e anche la voglia di parlare in francese. Mentre Y si addormenta provo delle sensazioni

molto diverse, contrastanti. Mi rimprovero, dovevo pensarci prima… ma l‘incompiuto ha sempre un

fascino, un gusto agrodolce e speciale.

La mattina mi alzo con la voglia di andarmene al più presto. La luce mi guasta la dolcezza notturna;

non faccio neanche una doccia. Lei in accappatoio prepara una colazione rimediando qualche tazza

pulita. Me ne vado con un fare sbrigativo, ma è ovvio che appena sono in strada cerco una farmacia

e acquisto quello che mancava. Ora le condizioni ci sono tutte.

La sera la richiamo. Non mi risponde. Lo stesso il giorno dopo e i successivi. Avessi almeno il

numero dell‘amica… Y non mi risponde più. Ricordo che mi mettevo accanto alla finestra,

guardavo la scatola dell‘amore, facevo il numero, aspettavo. Ma non mi abbassavo a cercarla fino a

casa. Potevo tornare nella via, aspettarla. Se Y mi vedesse cambierebbe idea, mi dicevo. Ma

restavo. E più il tempo passava, più sentivo la sua assenza come intollerabile, come una passione

insensata ma vivissima. Mi era imposto di soffrire.

Ricordi altro? Abitava in Rue Malebranche, il teologo razionalista. Questa è la sola cosa che ricordo

con piacere. Il resto è un senso di naturalezza sciupata. Anzi, c‘è un‘altra cosa: quando eravamo nel

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vagone ristorante, le due ragazze francesi avevano una videocamera e ripresero il pazzo e me.

Forse, Y può ancora vedermi. Io posso solo pensare, cercare di ricordarla, cercare in memoria i

capelli raccolti, gli occhi puri, il seno e i fianchi saldi. Cercare a scene chiuse, come un forzato del

pensiero.

Z

Qui c‟è il sud, mandriano e mare.

S‟appoggia ad ogni declivio una gioia.

(G. Benn)

Z l‘ho conosciuta al mare in una specie di discoteca. Aveva una conchiglia come spilla. Castani i

capelli mossi e la pelle di sabbia. Ho iniziato a fare lo spiritoso sulla conchiglia, le sono piaciuto.

Abbiamo ballato delle musiche latine, mentre il locale si svuotava. Ricordo un senso di polvere per

terra, con le luci radenti, mentre allargavamo le braccia e la bocca per muoverci meglio. Poi ci

siamo trasferiti in un altro posto, a mangiare dei piatti freddi. Ma con noi c‘era anche il ragazzo che

frequentava. Lui la stava scaricando, ricordo che al momento di salutarci lei lo baciò sulle labbra,

mentre lui scendeva dall‘auto, facendo in fretta e ridendo come uno sciocco.

Z mi disse più avanti che il giorno dopo si procurò il mio numero. Ma non mi chiamò, le amiche la

convinsero che non era il caso. Ci ritrovammo mesi dopo, un‘avanzata primavera. Uscimmo a cena

all‘aperto, in un posto dove non c‘era nessuno e al dessert iniziarono a vedersi dei fuochi d‘artificio

non lontani. Si vedevano dal nostro tavolo, Z era più contenta d‘una bambina, mi diceva che era

destino, che fortuna, che bello!

Ci baciammo con naturalezza. Mi regalò una spilla simile alla sua. Poi passarono dei giorni in cui

non riuscimmo a vederci, lei partì per lavoro. Passò una settimana e un‘altra ancora; finalmente una

sera riuscii a invitarla a cena a casa mia. La pasta aveva della pancetta. Scoprii servendola che era

vegetariana. Lei iniziò a raccontarmi di quando stava male, di quando sua madre la portò a curarsi

per l‘anoressia. Ora stava meglio, ma rimaneva la tensione, come qualcosa che si restringe,

l‘ossigeno che a un momento si interrompe. Pensai che le persone fragili o rese fragili dalla vita

hanno bisogno di sicurezza. La portai in camera. La baciai e pensavo che il resto fosse facile. Mi

disse che doveva andare, senza aggiungere altro.

Il giorno dopo non l‘avevo digerita. ―Non si può cambiare intenzione così! Questa è mancanza di

stile. Mi ha molto seccato che il tempo trascorso l‘abbia spenta… Oppure ho sbagliato io? Che

cosa? Perché? Ci sarà una spiegazione degli errori? E se anche ci fosse? La psicanalisi è il ricovero

dei debosciati…‖ Mi dicevo cose del genere, esagerando.

Forse Z si aspettava che la richiamassi, che la cercassi ancora. Forse era partita di nuovo, per un

viaggio. Ma com‘era uscita dalla mia stanza, volli interrompere anch‘io senza aggiungere altro. Poi

un amico mi raccontò di averla vista a Cuba, sulla terrazza di un hotel che guardava le macchine

d‘epoca aspettare i clienti, in un‘aria stupenda. Era proprio lei, con la spilla di conchiglia. Un altro

mi disse di averla incontrata a Formentera a ballare sui tavoli. Qualcun altro crede che fosse a

Zanzibar. Uno che leggeva troppa poesia mi disse che sembrava avanzare esitante su una terra

sconosciuta.

A me arrivò un giorno una lettera non firmata. Pensai che fosse Z. Chi l‘aveva scritta mi raccontava

di avere passato un anno e più con un campione di poker, un ex campione che ai tempi d‘oro

giocava forti somme per altri. La portava in castelli a cenare, in valli lontane, poi rimanevano in una

sala del castello, poi in una grande camera, andavano a letto e dormivano assieme. Mentre leggevo

pensavo ai candelabri e al giocatore appesantito che la spogliava. Una volta in un castello dove

servivano carne alla brace, grandissima specialità dello chef. Così anche il giocatore di poker aveva

sbagliato un menù ma alla fine, ecco, alla fine l‘aveva stretta in un letto. Perché non io? Avrò

calcolato male, imboccata una falsa pista, lui avrà sbagliato una mano ma non la partita. E me lo

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immagino soddisfatto, addormentarsi contemplando i trofei da caccia appesi alle pareti, alla luce

delle esperte candele. Ma era veramente Z? Lei amava il mare, le onde, le conchiglie, non i castelli.

E perché non firmare la lettera? Forse voleva dirmi delle cose ma allo stesso tempo farsi

dimenticare. Z.

C‘era stato solo un bacio e poco più, poi la sera da archiviare a casa mia, ma è rimasta in me

un‘affezione che nel tempo è cresciuta. Tengo la sua conchiglia come un piccolo tesoro. Avevo

sbagliato a non cercarla più? Spero che il male non l‘abbia stretta ancora, che possa gioire, che

l‘assenza si colmi. Un‘altra amica mi scrisse un giorno questo: ―Se ti penso ti vedo con quel sorriso

che è molto naturale ma contiene allo stesso tempo la fatica di non essere riuscito a trattenerlo‖.

Aveva ragione? Quelli del mio calibro sono così: si controllano, si trattengono, agiscono o

sembrano agire con freddezza. Poi, come un‘eccezione, si intrufola in testa una specie d‘amore, ma

di cose che mancano, che abbiamo avute e perse. Succede per una strana incapacità, di sopportare i

difetti di quello che ci scorre fra le mani. Sì, ora mi rendo conto di quello che negli anni ho sentito

oscuramente: lo sdegno per l‘errore, per le debolezze, le incoerenze, i grumi di sporcizia, il marcire,

e la passione per le cose irraggiungibili, ideali e incorrotte, primavere decisive, pure e cartesiane.

Come un forzato della perfezione.

Notizia.

Giovanni Tuzet (Ferrara, 1972) ha pubblicato alcune prose in alcune riviste fra cui ―Atelier‖,

―Argo‖, ―Daemon‖, ―Interpretare‖. Inoltre ha pubblicato tre raccolte di poesia e alcune sillogi in

riviste o raccolte. È redattore di ―Atelier‖ e di ―Argo‖.

Laureato in Giurisprudenza all‘Università di Ferrara, insegna Filosofia del diritto presso

l‘Università Bocconi di Milano.

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I TRADOTTI

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JORGE ESQUINCA

PAOLO UCCELLO

[Ringraziamento:

Jorge Esquinqa e Moira Egan sono si sono incontrati al

Civitella Ranieri Center di Umbertide (PG), dove

entrambi hanno trascorso un periodo come Fellows.

Damiano Abeni ha avuto la possibilità di lavorare con

loro, come Director‟s Guest, grazie a Dana Prescott. A

Dana e a tutto il personale della Fondazione, a Moira e

Jorge, il più sentito ringraziamento: senza di loro questa

traduzione non esisterebbe]

Tu, Uccello, insegni a non esser più che una linea

e l‟alto stato di un segreto.

Antonin Artaud

favola prima che uccello, no –prima il volo, il becco, la corazza

ultravioletta –palpita qui il suo polso, la sua eresia in un nulla d‘aria

però inspira, è un cielo –favola no, uccello prima –plana e vira, una

sfumatura nell‘amido del guardare, un disperso –calcolatore,

geometrista, tardo-gotico

*

cavalli dispiegati : battaglie, prese di, o profili, zoccoli rampanti, un

rilucere, bai o neve nell‘immobile del, o nell‘incisione, attraverso il

multiplo e come in equilibrio, neon nell‘incerto del nume, lancio di

cavalli nel reticolo di

*

il dipinto, un dire : uccello Medici

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*

incidi-lo notte, il chiuso, quello che si nasconde nel rene del no,

raffinato lavoro in miniera, uccello, scava nel qui : un trattato di aria

tra il polmone e la miniera. (lontano da ogni stregoneria –si tratta di

scavare). i vuoti, uccello, per il tuo volo in picchiata : uccello,

uccellino, dolce cosa è la prospettiva

*

…come il precipitato che si ottiene dopo aver macerato con minuzia

iniziatica il Calcolo algebrico dell‟arcobaleno –cavalli, battaglie, visti

*

nella tavola di Leibniz –dicono che aveva visto, dicono che aveva

ordinato le sue monadi. dopo respirava, nei colori del prisma,

respirava. molto vicino : calcolava come. ah, la vastità dell‘arco…

*

quelli che si dicono cavalli : crini, fianchi, groppe, zampe impennate,

nitriti. quelle che si dicono battaglie : mazze, frecce, cimbali, trombe,

stendardi –no, uccello aveva una scacchiera che guardava, di quando

in quando. pezzi fissi, poi li scompigliava, tornava a sistemare. andava

e veniva; uccello, in fine. dopo la fine appariva un tessuto –

uccello percepiva la trama –linee

*

dal neon al nume al volume, un passo, un tratto. un inabissarsi nella

rivolta del guardare. uccello di miniera. una linea lancia, filo del

pennello, nel limite di. firmata la tregua, la quiete, nell‘intravisto,

nello sfondo

*

appaiono emergono si materializzano le arance.

anatomia del cerchio, arance, tra fronde di lance e fronde

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propriamente dette. ―una naturalezza aliena a…‖ frutto di un

estraniamento compatto

*

linea : giro di forza, punto di fuga –guarda– lente, rallenta, rimanente,

tensione, segnalazione, discernimento, cavità, gancio, cima, fenditura,

firma, crepa, scarto, velocità –in-spirazione espirazione

*

cavalli : sulla tavola, dipinti

*

ermeticamente chiusi nelle loro armature di metallo… effigi,

silouhettes abitate : condottiero dal turbante in fiore, piccolo pedone

dalla lancia spezzata, dagli speroni d‘argento che –cavaliere deserto–

immobilizzano

*

mazzocchio : strappato dalla trama barbara, di fronte alla sinistra

alberatura, ponderava. quanto persistente il clangore della battaglia,

quanto perplesso, quanta sconclusionata fanteria. mazzocchio : non

bambino né niente del genere, già era sul punto di sapere, era sul

punto di penetrare l‘occulto –ah, a proposito, il mazzocchio è un

cappello, guardalo bene

*

uccello, nume o neon, attraversa la nebbia del non guardare, scava,

vertigine, uccello in picchiata, come se rinascesse

là nell‘aria

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*

Sul punto di cominciare, nel volteggiare, nella grazia mobile del tuo

verbo --dire : e volando nell‘artiglieria, nel trambusto, dove, uccello

perduto annuncerà l‘aurora di un come

*

La materia pittorica dei tre dipinti è preziosa: Paolo Uccello cesellò i

contorni delle armature e delle armi fin nei minimi dettagli,

adornandole in seguito con sfoglie d‟argento riflettente. I musi e i

finimenti dei cavalli sono immersi nell‟oro; il verde del fogliame è

dipinto in malachite e le luci sono state realizzate con tocchi dorati.

Attualmente, anche se l‟argento delle armature è quasi del tutto

caduto ed esse paiono incolori, e la malachite si è scurita, l‟oro delle

bocche dei cavalli e delle decorazioni delle palizzate tuttora risponde

ai cambiamenti di luminosità. Risulta ancora possibile immaginare

come vibrasse la materia delle tre tavole al variare della luce del

giorno nella stanza a piano terra di Lorenzo.

*

calcolo .) sassolino, errore di, arte del risolvere .) riflessione,

prudenza, agire con molto .) concrezione di pietra che si forma nel

rene del no, o nella vescica .) differenziale, inifinitesimale .)

sedimento sulla superficie liscia di una tavola

*

in questa terra, su questa terra, suddiviso in azzurro e verde, sotto gli

zoccoli, tra le zampe degli ammutoliti, l‘uccello in calce enuncia il

proprio nome:

pauli uccelli opus

*

Tommasa gli diceva, lo chiamava uccellino vieni qui, accoccolati che

la fiamma arde calda assai e io mi sto arrabbiando, vieni a bruciarti, da

dove altro può venire il dipinto, da ciò che sta per vedersi, uccelletto,

da dove se no, vieni qui ghiacciolo, lascia il travaglio, ah quanta

polvere stiamo sprecando per fare solo petardi

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*

nume uccello quello che tracciava in ciascuna lancia, nel qui, senza

nome

*

senza nome si avvicina, un‘esalazione uccello!

*

come –lone ranger rotto, solitario, in un colore di tramonto, ferito,

nuovamente in arcione, nel rosso si dissolve : una fibra d‘oro, una

trama, un separarsi– il bambino che vide

*

quando quella del dormire lo chiamava a dormire, uccello vegliava,

era uno, col nume –tentava–, non sentiva niente, però ascoltava il

colpo del nulla nell‘arancia

cielo o terra

dipingere la rotondità di ciò che cade

*

l'arancia, un intravedere : guardare, caduto, la sfera arco

voltaico del cavallo trattenuto al salto, o nel franco distendersi, come

si imbizzarrisce –cavallo– nel no, nel no del nume, qui

*

nel dipinto, nella tavola, dal pennello, prima del tu, quando la mano si

muoveva attorno al pennello, quando la mano prima di muoversi,

immobile

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*

proprio come lei, Tommasa, era la fiamma, era –parlando chiaro come

l‘argento– quello che chiama e che si allontana, fino al fondo del

paesaggio : esercito? spirito? –quella che ti chiamava ragazzo,

uccellaccio, svergognato, adesso spegni la candela e vieni a letto, che

qui c‘è un bel calduccio –mentre tu, nel travaglio e nel senza fine,

nella urgenza di un sì, scompari

*

tra le zampe dei cavalli : ritorna radice della vertigine, ah del calice,

corri del cantare, oh la criniera del destriero che Paolo dipingeva, era

uno stoppino, era quasi la luce adombrata, era ascoltarti nella battaglia

del nume –e tu, con il tuo battere d‘ali, dove vai?

*

come un quieto splendore –argento!– come cavallo rampante mentre

una fredda punta di lancia trafigge la costola della tavola

*

– Sì –

*

un bambino un paolino un guardato nel giro di –un bambino accecato

un ghiacciolo –un terzetto di tavole che Paolo Uccello dipingeva –o

dormiva non dormiva mai, planava freddo nel neon, sapeva a memoria

la battaglia –ah, la memoria del bambino che come uccello tese

***

Nota su Uccello, di Myriam Moscona

Basata sulle tre opere del pittore Paolo Uccello che narrano la

battaglia di San Romano, questa poesia è anche il riflesso del suo

nome (Uccello : uccello) e combatte con la medesima levità –

aerodinamica– del volo. Nell‘opera di Esquinca costituisce al tempo

stesso una virata radicale e il suo lavoro più libero e rischioso. Breve,

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di sorprendente concentrazione, si serve di un linguaggio d‘ombrosa

flessibilità che può essere amato o disamato, e può suscitare letture

multiple.

Si espongono gli elementi della battaglia: archi, lance, cavalli e

cavalieri, sproni, rotture, visti nella memoria di un bambino che

ricorda abbacinato –in una luce rarefatta– le tavole del pittore. Questo

sguardo esige una risposta dal linguaggio. Così si spiegano le

allusioni, le reiterazioni, i punti di fuga, tracciati con rigore

ammirevole.

Uccello si muove attraverso velature, strati successivi di colore,

cresce per accumulazione. L‘uso sconnesso delle preposizioni, le sue

rotture sintattiche e sonore, gettano la poesia in un recesso interiore da

dove ritorna a prendere quota per rilanciarsi in picchiata.

Come tutte le grandi poesie, la si potrà sempre leggere da ottiche

diverse, o potrà scomparire come l‘immagine di un ologramma. Paolo

Uccello è divenuto noto per il dominio perfetto della prospettiva.

Quasi seicento anni dopo, Esquinca lo traduce, gli dona un corpo

verbale e lo impregna di significati e di una emozione che esplode

lentamente nella immaginazione dei lettori.

[traduzione di Damiano Abeni con l‘autore.]

Notizia.

Le principali coordinate bio-bibliografiche sul poeta messicano sono rintracciabili su:

http://www.elcalamo.com/esquinca.html. Il più recente Descripción de un brillo azul cobalto (2009)

si è aggiudicato il Premio Iberoamericano de Poesía Jaime Sabines.

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DURS GRÜNBEIN

SENZA MANDATO

Questa volta erano dunque davvero pronti al gesto estremo, intenzionati a portarmi in quanto

oppositore ai piani alti, a portare me, che ai piani bassi al massimo potevano temere come

avversario. Era bastato che mi prendessero in parola per ritrovarmi subito in viaggio da loro, e

nessuno poteva sostenere che non me lo fossi meritato. Provocatoruncolo e parassita in custodia

preventiva un attimo prima, me ne stavo seduto poco dopo su un‘imbarcazione del comandante, suo

prigioniero personale, e venivo condotto all‘isola principale a est dell‘arcipelago. Le mie guardie si

rivelarono meno loquaci di quanto i loro volti sinceri preannunciassero, la traversata sul catamarano

a motore durò meno di quanto la distanza dall‘isola facesse prevedere. A velocità sempre maggiore

stavo entrando in quel turbine che io stesso avevo generato, in apparenza soltanto con la punta delle

dita e tutto solo, come un tipico europeo.

La prima cosa che scorsi una volta arrivato sull‘isola furono gli enormi manifesti elettorali che

mi ritraevano, appesi vicino a quelli del comandante che sembrava quasi abbassare gli occhi dinanzi

al mio sguardo radioso. Puro specchio di acqua sorgiva nel cuore del Paese, ero io il beniamino del popolo, come dicevano in molti, mentre lui non prometteva che una vita di benessere. Non avevo

ancora colto del tutto quale fosse la differenza tra oppositore e avversario quando un nubifragio

abbastanza comune a queste latitudini ci separò con una cortina di pioggia e, inforcato dalle

guardie, più volando che incespicando venni portato via dalla spiaggia. In quel momento vidi

scorrere davanti a me in rapida successione basse capanne di bambù, palme popolate da esseri

silenziosi, simili a lemuri, che se ne stavano appollaiati uno sull‘altro, volteggiavano come bandiere

oppure facevano ginnastica alla chetichella sulle vette strappate degli alberi. Intere piantagioni di

una monocoltura dalle foglie particolarmente grandi emanavano un odore che mi diede il capogiro e

mi fece perdere l‘orientamento. Alla fine, gli occhi bendati, ben sapendo che sarei rimasto in quel

torpore a lungo, mi rimisi alle decisioni di chi conduceva il gioco e mi era senza dubbio superiore in

tutto.

Perché in fondo, dopo settimane di squallida reclusione mi trovavo già da tempo, almeno col

pensiero, dove ora mi si voleva trasportare – ridotto a un fascio di nervi, bendato e inutilmente

terrorizzato –, e cioè dal comandante dell‘isola principale, un carcerato deportato come me che con

un colpo di stato aveva ottenuto potere e dignità. Regnava in quel luogo già da sette anni senza aver

ricevuto alcun mandato dal suo popolo, protetto all‘esterno da un esercito di mercenari, all‘interno

da un ristretto club di caccia, indisturbato e con grande potenza vocale, come un tenore di fama

imperitura. Tra i primi provvedimenti della sua dittatura vi fu – cosa per noi inconcepibile –

l‘abolizione delle caste e la revoca, mediante un‘offerta di pace alla vicina terraferma, della censura

sull‘espulsione di tutti i filosofi cinesi che decenni prima erano emigrati nel nostro arcipelago;

dopodiché nelle case di tutti entrarono prima dolore, poi perplessità, infine un silenzio

imbarazzante, i temuti venti del nord si placarono e il traffico navale della regione diminuì pian

piano. Cos‘era successo?

Per scoprirlo, e tra l‘altro a mani nude, ho azzardato qualche mese fa l‘audace impresa di uno

spettacolino. Una mattina presto, in una baia abbandonata della nostra isola a ovest dell‘arcipelago,

lontano dai villaggi e dalle strade coi loro rottami d‘auto tutti uguali ho fatto decollare un pallone

frenato sulla cui tela bianca era scritto in maiuscolo: SENZA MANDATO. Il pallone, spinto dai venti

secondo i miei piani, si levò con il sole del mattino nell‘azzurro mostruoso fino ad ergersi quasi a

picco sul punto di triangolazione dell‘ultimo promontorio, ben visibile a tutti gli abitanti dell‘isola.

Acchiappasguardi ed eloquente emblema dell‘isola governata a distanza, era fissato a terra come un

aquilone da una fune che avevo ancorato nell‘ampia spiaggia sotto un mucchio di pietre.

Indisturbato dai granchi di terra e dalle tartarughe marine che deponevano le uova, potei contare in

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poco tempo sullo scoppio di un inquietante silenzio. Ho sempre percepito come una minaccia non

poter sapere con certezza se il mondo animale, il regno demonico delle piante e in generale l‘intero

territorio degli spiriti non ricusino la più bella delle strategie umane. In nessun luogo come in

questo vi fu mai una forza di gravità così incontrollabile, uno spazio così vasto per l‘idiozia,

l‘ostinazione e ogni sorta di sciagure inflitte dalla natura. L‘impenetrabile: coi suoi mille e mille

nomi mi era sempre rimasto ignoto, troppe voci in esso si sovrapponevano l‘una all‘altra, una cosa

stava per un‘altra, nulla parlava soltanto per sé; e così l‘uno restava vincolato all‘altro, pronto a

cambiare, generando un‘ambiguità di segni da cui l‘universo traeva nutrimento con un silenzio

assassino.

Eppure se fossi riuscito ad intuire già allora quale piega avrebbe preso il mio esperimento,

credetemi, sarei fuggito nella foresta più fitta piuttosto che cacciarmi in quello che stava per

cominciare.

Non il pallone, pacifico, la scritta nera che parlava al cielo, bensì io stesso venni strappato via,

sradicato con un solo gesto. Da quel momento i giorni dell‘Alcione per i miei bravi isolani erano

contati.

Un‘infiammazione alla gola mi impedì di verificare nelle giornate a seguire se tutto fosse a

posto sulla spiaggia. L‘esplosione però mi raggiunse poco dopo con una debole onda d‘urto, quando

una delegazione di soldati bambini, aggressivi come coboldi, spuntò al mio capezzale.

«Chiedigli cosa gli manca!», ordinò il capo del drappello, riconoscibile per via delle numerose

cicatrici lievemente aperte sul viso, al più giovane di tutti, che certo non poteva avere più di otto

anni. «Parla!», urlò subito questi ansimando meravigliosamente, e a quanto pare faceva sul serio.

Quello che non potevano sapere né capire, come temevo, era che a causa del mal di gola il solo

parlare mi procurava dolori atroci dei quali volevo assolutamente fare a meno. Riuscii a mala pena a

farglielo intendere cercando di deglutire a fatica e questi, perplessi, si videro costretti ad abbracciare

le armi. Intanto il mio silenzio aveva dimostrato chi era il parassita. In un attimo mi ritrovai

smascherato, colpevole agli occhi vispi dei bambini, e non era servito a nulla esser stato sincero fino

in fondo.

Ad ogni modo i bambini avevano ricevuto un addestramento esemplare. Le mani dalle bianche

nocche sporgenti strette con forza alle canne dei pesanti fucili di legno, sussurravano sopra la mia

testa in una specie di lingua segreta che mi fece ben presto assopire. Incantato dal loro entusiasmo,

dai loro teneri muscoli che fremevano di responsabilità, vidi improvvisamente il futuro della nostra

isola sotto una luce crudele ma giusta. Per questo forse caddi poco dopo nel sonno, esausto e

soddisfatto.

Il più vecchio aveva suddiviso lesto le guardie e un bimbo piuttosto emaciato, lo sguardo

infuocato malgrado la denutrizione, venne incaricato di fare da corriere per riferire immediatamente

del prigioniero costretto a letto, che poi ero io. Più tardi, la sera, arrivò al mio capezzale un altro

gruppo di bambini, tra cui anche alcune ragazzine in divisa, e con mani esperte venni caricato su

una lettiga, come un nonno da nipoti premurosi, e condotto alla prefettura dell‘isola.

Quando realizzai quale metamorfosi stessi subendo in quel momento era troppo tardi. Più

venivo allontanato dal mio studiolo, dal mio romitaggio, dalla mia maledetta strada di paese, e più

divenivo io quel tizio sul cartellone elettorale, una sorta di tribuno della plebe della lontana Europa,

un personaggio per le biblioteche del futuro. I pochi vicini che rincasavano dalla mietitura o dallo

zuccherificio non videro me e le mie labbra che biascicavano senza dir niente, non interruppero

nemmeno per un istante i loro stupidi discorsi. Dopotutto quello che i solerti bambini stavano

portando via sotto i loro occhi, verso il sole che tramontava, altri non era che un malato grave,

degno di nessuna considerazione, giustamente in mano alla polizia sanitaria locale. Come desiderai

di perdere la ragione in quel momento! Ma nessuna requie, nessun riposo, neppure la beatitudine

del sedativo mi aiutò a superare quella notte.

Da allora fui trattenuto in prigione per qualche settimana, senza una spiegazione, senza un

processo, con la sola assicurazione che ci si sarebbe occupati quanto prima del mio caso. Ogni

mattino puntualmente alla stessa ora cinque rappresentanti di una commissione governativa

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costituita in fretta venivano nella mia cella. Conoscevo ciascuno di loro. Giorno dopo giorno si

ripeteva sempre la stessa udienza. Un nano benvoluto da tutti, direttore dello zoo nazionale della

nostra isola, ogni volta mi si avvicinava, un foglio bianco in una mano e nell‘altra l‘invito, per

iscritto, a firmare senza indugio. E ogni volta, dato che mi rifiutavo di farlo, se ne andavano senza

aver concluso nulla, sospirando e facendo spallucce, ma affatto indispettiti. La cosa strana in questo

rituale, che si reiterò in tutto più di cinquanta volte, era che non si scambiava una parola tra noi,

come per un tacito accordo.

Col tempo imparammo a capirci sempre meglio. Presto il loro andirivieni divenne una

cerimonia che attendevo con gioia. Ci salutavamo senza proferire parola, sorridendo e facendo un

cenno con il capo come conoscenti di vecchia data, fedeli allo stesso codice di cortesia. Non mi è

mai passato per la testa di chiedere perché avessero bisogno della mia firma, così come a loro non è

mai venuto in mente di mettermi in difficoltà con suppliche o costrizioni. Sembrava che in assenza

di una lingua comune avessimo rinunciato del tutto a parlare. Se ci siamo riusciti? Ancora oggi

penso che è proprio grazie a queste persone per niente appariscenti se la mia causa non è rimasta

bloccata. All‘improvviso si spezzò l‘incantesimo e solo allora ritrovai la mia voce: quasi per gioco,

per provare, credetemi, non per far loro un piacere, feci una firma falsa sul foglio; apparvero

sollevati, poiché erano i miei avvocati, e mi svelarono quello che tutti qui, al di fuori di me,

sapevano da tempo.

Stupito, solo allora e da ultimo appresi che ero libero da settimane e che mi si teneva ancora

rinchiuso in quel luogo soltanto per completare la mia guarigione. Contrariamente alle consuetudini

ma in accordo al diritto naturale godevo, in quanto candidato volontario dell‘opposizione alle prime

elezioni pubbliche dell‘arcipelago, di piena immunità. Dunque la mia prigione era stata in realtà

soltanto un sanatorio. Ero stato semplicemente preso in parola. La mia fotografia era apparsa a più

riprese su tutti i giornali. Chiunque mi avesse conosciuto in passato si diceva fortunato.

Un‘imponente marea di lettere mi aveva travolto. Nelle scuole i maestri raccontavano a bambini

affamati la mia storia. Nel frattempo l‘esperimento col pallone aveva trovato ovunque emulatori

entusiasti e i giri in mongolfiera, visti di buon occhio dai vertici, erano diventati addirittura una

nuova moda vacanziera per i turisti dell‘isola. Nel corso dei pochi giorni tempestosi in cui non

avevo potuto mostrarmi a causa della malattia la fiducia di molti elettori nei miei confronti crebbe a

dismisura. Lo stesso comandante, messo in disparte, adesso mi voleva al suo fianco.

Avevo considerato ogni cosa attentamente, chiuso ogni porta di servizio, sbarrato ogni via di

scampo?

Dimenticate questo racconto confuso, che nasce e muore tra due respiri. Dimenticatelo, come

l‘ho dimenticato io nel momento in cui cominciò a piovere. Sano come un pesce, cantando a

squarciagola, preso come non mai da faccende importanti, solo ancora un po‘ sonnambulo, guardo

indietro un‘ultima volta dall‘alto della mia nuova posizione. E vedo me stesso, passo dopo passo,

guadagnare terreno rispetto agli inizi.

Diffidate di questo breve racconto. Come molti prima di lui non è fatto che di menzogne. Non

sono mai stato fuori di me, non sono mai stato costretto a fare nulla. Se guardo avanti mi rendo

conto ora più che in passato di quanto sono stato fortunato quando, a pochi metri dal sobrio posto di

comando, le guardie alla fine mi lasciarono libero. Lentamente comparvi tra il giubilo della folla

nella piazza antistante all‘edificio, circondata di palloni bianchi e alla cui fine, a metà scalinata, mi

accolse muto, venendomi incontro nella pioggia scrosciante, il comandante.

[Da: Durs Grünbein, Schöne Aussichten. Neue Prosa aus der DDR, a cura di Christian Döring e

Hajo Steinert, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1991. Traduzione di Daniele Vecchiato.]

Notizia.

Insignito ad appena trentatré anni del prestigioso Premio Georg Büchner, Durs Grünbein

rappresenta senza dubbio la voce più significativa della poesia tedesca contemporanea. Nato a

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Dresda nel 1962, appartiene all‘ultima generazione di scrittori tedesco-orientali. La sua prima

raccolta di liriche, Grauzone morgens, volumetto dalla carica semantica straordinaria, esce un anno

prima della caduta del muro di Berlino e tradisce un‘amara disillusione nei confronti delle utopie

sgretolate della DDR. Le raccolte immediatamente successive, Schädelbasislektion (1991) e Falten

und Fallen (1994) spostano l‘attenzione sul corpo, sulla caducità della carne, sulla concretezza

materiale del dato fisiologico e cerebrale come antidoto alle ideologie astratte e nocive. Il verso si fa

sarcastico strumento di dissezione; il poeta diviene anatomista, biologo, sensibile osservatore del

mondo fisico. Nel 1999 la svolta poetica: a partire dalla raccolta Nach den Satiren Grünbein rivolge

con autocompiacimento sempre maggiore lo sguardo all‘antichità classica, avviando soprattutto con

le liriche degli ultimi anni (Erklärte Nacht, 2002 e Strophen für übermorgen, 2007) un gioco

complesso e articolato di riferimenti intertestuali e fitte trame citazionali. Il dialogo del poeta doctus

col passato non è già tentativo snobistico e codardo di fuga dal presente; al contrario, è proprio dal

lucido confronto coi classici – da Giovenale a Dante, da Cartesio a T.S. Eliot – che prende corpo la

riflessione grünbeiniana sulla contemporaneità e sul significato della poesia.

L‘opera di Grünbein è tradotta e studiata in tutto il mondo; in Italia sono ad oggi usciti presso

Einaudi la silloge A metà partita, il poema lungo Della neve (ovvero Cartesio in Germania) e le

note diaristiche Il primo anno.

Il racconto favolistico-distopico Ohne Mandat qui tradotto, ascrivibile ad una certa tradizione

narrativa fantapolitica ed antitotalitaria, è stato pubblicato assieme ad altri brevi testi giovanili dal

retrogusto vagamente kafkiano nell‘antologia Schöne Aussichten, uscita un anno dopo la

riunificazione delle due Germanie, che raccoglie numerose prose di poeti e scrittori dell‘ex

Repubblica Democratica Tedesca.

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BARBARA KÖHLER

PAPIERBOOT

für Eva Angela Ulrike Gudrun

I

Den Flüssen hier glaubt man nicht, daß sie ins Meer

wollen.

Der Elbe bei Dresden sieht man den Atlantik nicht an

und nicht die Gezeiten.

Hier ist Ebbe, sagt jemand.

Und ein gebogener toter Fisch hängt drüber, fällt

unversehens ins Wasser: der Mond. Vier Frauen in

Betrachtung.

Die romantischen Bilder blättern ab. Unterm Kleister werden die verworfenen Entwürfe sichtbar, das Gewebe

des Grundes. Der goldene Rahmen ist nur scheinbar das

Ende der Welt; wir haben ja noch die Tiefe.

Die giftige Schlammschicht am Grund der Flüsse, sagt

jemand.

Die nicht ausgeführten Entwürfe, sagt jemand.

Das Gewebe, neu zu bezeichnen, sagt jemand.

Den Mond und das unglaubliche Meer.

II

Vielleicht ist das eine deutsche Geschichte: je knapper

bemessen die Oberfläche, desto grundloser die Tiefe.

Wer sich fallen läßt, geht zu Grunde. Im Schlamm, der

den Boden verbirgt. Den blutigen Boden deutscher

Geschichte. Worauf aber sollen wir bauen und was,

zwischen Barock-Konserven Ruinen Beton.

III

Der ins Wasser gefallene Mond ist ein Boot. Eine

leichte Barke, aber Grund genug für die Versicherung,

daß auch Sachsen am Meer liegt. Grund genug – habe

ich Grund gesagt, können wir auf einem Papierboot

bestehen.

Papier, das aus halbtoten Wäldern uns zuwächst, dem

wir manchmal unser Sterben anvertraun: Nächtebücher,

versiegelte Sätze, Briefe, nicht abgeschickt. Bilder ohne

Rahmen, Entwürfe ohne Maß, die geheime Zerstörung

der Proportionen. Papier voller Irrfahrten und

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Abenteuer, wenn das Land uns verlassen hat und die

Hoffnung uns fahren läßt; Papier auf dem wir zu uns

kommen, Papier auf dem wir untergehen, unsere Barke

unser gebrechlicher Grund. Sachsen am Meer – Ahoi!

*

BARCA DI CARTA

per Eva, Angela, Ulrike, Gudrun

I

A questi fiumi non si crede che vogliano gettarsi nel

mare.

Dall‘Elba a Dresda non si vede che c‘è l‘Atlantico, o le

maree.

Qui c‘è bassa marea, dice qualcuno.

E un pesce morto, ricurvo vi è appeso sopra, cade per

errore nell‘acqua: la luna. Quattro donne in

contemplazione.

Le immagini romantiche si sfaldano. Sotto la colla si

intravedono gli abbozzi scartati, la trama del suolo. La

cornice dorata è solo in apparenza la fine del mondo;

dopotutto abbiamo ancora la profondità.

Il fango velenoso sul letto dei fiumi, dice qualcuno.

I disegni incompiuti, dice qualcuno.

La trama da ridefinire, dice qualcuno.

La luna e il mare a cui non crediamo.

II

È questa forse una storia tedesca: più stretta si misura la

superficie, più incalcolabile diviene la profondità. Chi

si lascia cadere è rovinato. Nel fango che nasconde il

terreno. Il terreno insanguinato della storia tedesca. Su

cosa però dobbiamo costruire e che cosa, tra barocco in

conserva rovine cemento.

III

La luna caduta nell‘acqua è una barca. Una barca

leggera, ma suolo sufficiente per poter dire che anche la

Sassonia ha il mare. Suolo – ho detto suolo, possiamo

vivere su una barca di carta.

Carta che cresce da boschi mezzi morti, carta a cui a

volte affidiamo la nostra morte: libri notturni, frasi

sigillate, lettere mai spedite. Quadri senza cornici,

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abbozzi senza misura, la misteriosa distruzione delle

proporzioni. Carta greve di peregrinazioni e avventure,

se la terra ci ha abbandonati e la speranza ci fa andare;

carta su cui torniamo in noi, carta su cui sprofondiamo,

la nostra barca il nostro suolo fragile. Sassonia sul mare

– Ehilà!

**

ABENDLAND

Die östliche Seite eines Sonnenuntergangs

Licht auf verwitterndem Backstein rosig-

schwarze Wolken aus Fabrikschloten

Fenster voll Blendung der blasse Mond

wird angezündet, die letzten Gaslaternen

des Kaßbergs pfeifen mit dünner Stimme:

Dreh dich nicht um was vergeht

siehst du vor dir der Glanz ist

Abglanz er verdeckt nur das Ende

einer Geschichte die beginnt

wie alle wirklichen Märchen ES WAR

EINMAL wartest du fällt dir

kein Licht mehr in den Rücken.

Wir machen dir einen Schatten

mit dem sich umgehen läßt.

mai 89

*

OCCIDENTE

Il lato orientale di un tramonto

luce sui mattoni corrosi

nuvole nero-rosa dai camini delle fabbriche

finestre abbacinanti la pallida luna

si accende, gli ultimi lampioni a gas

del Kaßberg fischiano con voce fioca:

non ti girare ciò che passa

lo vedi davanti a te il fulgore è

riverbero nasconde solo la fine

di una storia che inizia

come tutte le vere fiabe C‘ERA

UNA VOLTA se aspetti non scenderà

più luce sulla tua schiena.

Ti disegniamo un‘ombra

con cui si possa andare d‘accordo.

maggio 89

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330

**

ELB

ALB

1

DIE ELBE IST EIN GRENZFLUSS sie fließt

von Südost nach Nordwest und kein Schiff

mit acht Segeln durchkreuzt meinen Traum.

Der Atlas legt mir die Karten hier bleibt

Schicksal Geographie. Ich höre das Knirschen

der Steine den Text der Geschichte.

Manchmal träumt mir von einer Liebe ohne

Hoffnung schöne Aussichtslosigkeit fließend

trennend verbindend wie diese Grenze über-

leben

2

DRESDEN DER KLASSISCHE BLICK auf die Altstadt es

fehlt nur ein Turm die Schornsteine sind

hinzugekommen Hier hat die Vergangenheit eine

Gegenwart sag ich sie schiebt sich unter die Füße daß

man ihr nicht entgehen kann Wir laufen tagaus die Elbe

entlang Siehst du die Scherben sag ich ein geborstener

Himmel unwirklichen Blaus das berühmte Meißner

Zwiebelmuster Wege aus zermahlenen Trümmern

aufgeschüttet Der Engel auf der Kuppel der Akademie

das Jüngste Gericht über der Stadt Mein Engel sagst du

nimmst mich in deinen Mantel ein Film läuft rückwärts

die Flammen fallen zusammen wir gehn durch die

Zeiten hinter der Flußbiegung baut man das Blaue

Wunder ab oder auf oder streicht es nur neu Der

Himmel der Strom sind kein Ausweg mehr Verseuchte

Metaphern die unsre Sehnsüchte zurechtweisen das

Wunder ist grau

[...]

6

VOM GRUNDE

Wenn ich allein versinke im stillen Wasser der Tage

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331

ins Atemlose gezogen vom Blei

in den Lungen Schwefel und Rauch

vor den Augen wenn ich sie schließe

im Papiergrab Aktenstaub in allen Taschen

entwertete Fahrscheine wenn die Müdigkeit

größer ist als der Himmel der haltlose Raum

dann liebe ich dich

wie eine letzte Hoffnung

eine Verzweiflung wie das harte Brot

wie die Stummheit der Dinge manchmal

wie ein Gespräch wie das Wortlose

die Worte aus einer fremden Sprache

wie das Meer das ich nicht sehe

wie ein Land

das es nicht gibt

[...]

*

ELB

ALB(1)

1

L‘ELBA È UN FIUME DI CONFINE scorre

da sudest a nordovest e nessuna nave

con otto vele solca il mio sogno.

L‘atlante mi fa le carte qui la geografia

resta un destino. Odo lo stridore

dei sassi il testo della storia.

A volte sogno un amore senza

speranza bella assenza di orizzonti che scorre

divide unisce come questo confine sopra-

vivere

2

DRESDA LA CLASSICA VISTA sulla città vecchia manca

solo una torre(2) i comignoli sono stati aggiunti Qui il

passato ha un presente io dico si insinua sotto i piedi e

non si può schivarlo Andiamo di giorno lungo l‘Elba

Vedi i frantumi dico io un cielo esploso di un blu irreale

il celebre motivo della cipolla blu di Meißen Sentieri

fatti di macerie triturate ammassate L‘angelo sulla

cupola dell‘accademia il giudizio universale sulla città

Il mio angelo dici tu mi prendi nel tuo cappotto un film

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gira all‘indietro le fiamme si sgonfiano ci muoviamo

nel tempo dietro l‘ansa del fiume si distrugge o si

ricostruisce il miracolo blu(3) o lo si ridipinge soltanto

Il cielo il fiume non sono più vie d‘uscita metafore

appestate che rimproverano i nostri desideri il miracolo

è grigio

[…]

6

DEL SUOLO

Quando sprofondo nell‘acqua placida dei giorni

tirata dal piombo dove non c‘è respiro

nei polmoni zolfo e fumo

innanzi agli occhi quando li chiudo

nella tomba di carta polvere notarile in ogni borsa

biglietti obliterati quando la stanchezza

è più grande del cielo spazio instabile

allora ti amo

come un‘ultima speranza

una disperazione come il pane duro

come la mutezza delle cose a volte

come un dialogo come un senzaparole

le parole di una lingua straniera

come il mare che non vedo

come una terra

che non c‘è

[…]

[Da: Barbara Köhler, Deutsches Roulette. Gedichte 1984-1989, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am

Main 1991. Traduzione di Daniele Vecchiato.]

Note.

(1) Il titolo del ciclo, di difficile resa in italiano, gioca con la contiguità fonica tra Elb(e), il fiume che

attraversa il capoluogo sassone, e Alb, vale a dire ―oppressione, angoscia, soffocamento‖, da cui Albtraum,

―incubo‖. [N.d.T.]

(2) Probabile riferimento alla cupola della Frauenkirche, che dopo i bombardamenti del febbraio 1945 non

era più stata ricostruita. Solo nel 2005 la chiesa è tornata ad essere cuore pulsante e simbolo della città.

[N.d.T.]

(3) Con das Blaue Wunder, letteralmente ―il miracolo blu‖, si usa definire la Loschwitzer Brücke, l‘unico

ponte sull‘Elba rimasto in piedi dopo la distruzione della città. [N.d.T.]

Notizia.

Barbara Köhler, premiata nel 1996 col Clemens Brentano, nasce nel 1959 a Bürgstadt, una cittadina

della Germania Est. A partire dal 1984 pubblica testi sia su fogli non ufficiali sia su riviste di ampia

circolazione. Dal 1985 al 1988, studentessa presso l‘istituto lipsiense di letteratura intitolato a

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Johannes R. Becher, vive a Chemnitz, nel popoloso quartiere Jugendstil di Kaßberg. Nel 1991 esce

Deutsches Roulette, raccolta che segna l‘inizio di un percorso di sperimentazione linguistica e di

riflessione critica sul linguaggio che accompagnerà tutta la giovane produzione della Köhler, dalle

liriche di Blue Box (1995) alle riflessioni poetologiche di Wittgensteins Nichte (1999). Insistendo

sulle ambiguità e sulle ambivalenze semantiche l‘autrice denuncia nei suoi versi la porosità del

mezzo linguistico e cerca costantemente di smascherare la nebulosa polisemia della superficie

segnica. Dal 1994 Barbara Köhler vive a Duisburg, dove opera come scrittrice (tra le pubblicazioni

più recenti ricordiamo i canti odissiaci di Niemands Frau, 2007) e occasionale curatrice di

installazioni audiovisive.

Le liriche qui tradotte, il trittico Papierboot, la malinconica Abendland e una selezione di tre poesie

dal ciclo Elb/Alb, interamente dedicato alla città di Dresda, sono state composte tutte prima della

caduta del muro di Berlino.

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SOPHIE LOIZEAU

LA DONNA LEGGE

La donna legge

apre un luogo né acqua

né terra litorale effetto del calore – penombra del fatto

che al corpo rallentato sia devoluto lo spirito

talora il movimento rinnova di una gamba anchilosata

m'installo nel profondo – non prima di aver

pulito la mia stalla aerato le lenzuola sbattuto il cuscino –

la mano libera ispirata

durante la lettura non incita a godere gioca tra i peli

***

, impacchettata alla bell'e meglio o seminuda lenitiva

il letto ripieno del corpo (mandorla) quasi indistinguibili

le gambe cessano di nuotare nel concentrato di lenzuola fino alla vita

– oscillazione del busto a seno nudo –

la donna letto sente che tutto il suo corpo le è dato in seconde nozze

***

il lenzuolo si oppone al sudario mentre si muove

adorabile è la coscia nuda sbucata senza fretta dal gorgo

chiamata a più alte visioni la fessura nella rarità

un campo il letto, o allora ristretto (ragionevole) coperto d'un lenzuolo libero

la calma stesa di getto, sotto in ricezione

ha un buon odore e io m'appassiono al mondo facendolo dolcemente

muovendo le membra

nata da una semplice convulsione del lenzuolo

i rumori nel letto un garbuglio di pelle e biancheria analogo

al movimento dell'acqua nella vasca da bagno

***

depurata di tutto, l'opera di distensione del corpo articolata sul letto (calma sposa)

prova la risorsa

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335

di un'esistenza migliore: respirazione larga attraverso le foglie

cencio, pianta nel letto di vagabondi naturali solo sogni

attorno alla morte

***

ritornare a letto dopo aver vissuto una notte intera l'amore dei sogni

di certo un letto concepibile – erogeno a cominciare dal caldo

come regione genitale

sospiri gemiti, profondi di contentezza

(lo stato di grazia) il letto rifà un corpo

io volo senza schiavitù mi mostro i paesaggi formati al margine

l'emergenza al mattino dell'io lira dal principio alla gioia d'abitare

***

queste cose, le pieghe, creste spianate sotto di me sotto il mio movimento

marcano delle strisce all'uscita da una cupa tortura

il dorso zona di colpa ancor più della guancia

oggi colpevole e tutta la gran bontà che ho per me i sogni

l'allucinazione del mattino quando poco volitiva all'altra vita lascio

fare e crescere un po' di follia nel sonno è turbata

io non separo la gioia attiva

o solamente secondaria come ruminare la sensazione del piede fuori dal letto

a guardarlo con il retrogusto ancora di me legata a lui d'innocenza

***

le cosce aperte legge / s'interrompe ché ama riprendere

e poco vestita dal lenzuolo, eccitata dal libro

***

una notte il libro finisce (diana data sempre questo tempo dovuto

alla chiusura del libro per la sua importanza finisce col rigurgitare

– raccoglimento in cui ricorda a sé stessa

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adora senza posa i libri e il sonno allo stesso tempo,

il loro accavallarsi

allentare la presa sul libro all'abisso istante del sonno

dopo che tutto ha ceduto la mano tiene il mio libro, di più, tenace,

prodigiosa

la serra, questa mano responsabile nel corso della lettura

molle nella discesa così forte l'attrazione per l'abisso

la caduta fa trasalire le palpebre del libro al suolo

è brusco non lottare più

***

non ritornai a me da dove sprofondavo in un luogo fresco – conservazione

dei manoscritti / mi perderà

la mia infatuazione per i mostri e i fenomeni da giardino

(inchiodata al suolo dalla disgrazia

d'ali corte la chimera dopo tutto due

puma selvaggi dalle alette accostate conviene

a chi possiede cento ettari di parco adatto almeno al libero sfogo

delle potenti zampe anteriori di bestie enormi; il resto del corpo, la sua terminazione

si risolve in niente

***

Huysmans con lo sperma e io sento che trasuda

di tipo osceno il legame fatto col Cristo di

Grünewald in morte radiosa

sangue lussuoso, di figlio rifulse la sua mano ghermita

il torso intero entrò per il morso mistico enorme

Castello di Tiffauges, 1428

(Cf. J.K. Huysmans, Là bas, 1891)

***

Come Catullo si vide scacciare da un passero

– passero scuro puttanella cullata

dal gioco untuoso delle cosce cuffia per la fica rasata della mia amante

levati che la penetro ma l'uccello si gonfia come fa lui

più comune di questa bizzarra nidiata più testardo sotto la stoffa

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nuda fino al ventre lei lo imbecca

il suo dito umido di saliva passa e ripassa sulla piccola testa avida

****

le dimore di cui Malpertuis bordello degli dei (isolati)

fondo dell'edera che lo rende oscuro: chi vede fuggire

la sua mano nel nero a piacimento come la foglia e la sporcizia

ruminano – profumo intorno al Neroli

l'umido e il secco, antica concezione dei sessi ma il dio bagna

generosamente nella dea

il montaggio patibolare nel rodaggio si copre di perfezione (lucentezza

una bocca stagna alla giunzione i succhi

l'amante è l'umido io sento dal

davanti del piatto della mano il cotone annerito dello slip

(Cf. Jean Ray, Malpertuis, 1943)

***

Il celeste caduto nelle copulazioni *

l'odore di creazione che sordo agli amanti li eccita, composto

del culo, di ciascuno con i suoi sudori (e l'affollamento della piccola vena

sulla fronte all'ala del piede – il manifesto straziante

* Matière celèste, Pierre-Jean Jouve

***

riavvicinamento d'allucinati: Henri Bosco

la sua complessione di sognatore polmonare, lui respira fortemente

i fianchi che qualcuno vorrebbe sollevargli

godere di me, metterlo sul conto del letto che divide in gradi

i suoi stati (secondo le zone) dalla febbre al più freddo non fosse stato

il rischio di atrofia

dei muscoli avrei potuto far sì che la mia vita avesse questa postura:

giacenza così dolce che rimugina

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la sua via di fuga una lunga molto

lunga macerazione lui penetra in lentezza, lezioso perdurare nello stato

spugnosa ma con contegno (tenendo le mie carni)

io m'ingozzo. poi io. trasferisco. io mi innamoro

a denudarmi a credere che mi guardi

***

dall'al di là poiché è morto è per lui che ondeggio tra le lenzuola

che mostro i miei seni

mi rendono folle i suoi modi di abbracciare obliquamente i suoi sfregamenti

di tutta l'anima

la natura in lui grande / selvaggia supplisce alla mancanza d'organo

***

all'ora melanconica, quando si fa scuro per il mescolarsi

– Nerval la sentì spuntare verso l'alba, in questa direzione

[da: La Femme lit, Flammarion, 2009. Traduzione di Paola Cantù.]

Notizia.

Sophie Loizeau vive a Versailles (Paris). Ha pubblicato Le Corps saisonnier (Le dé bleu, 2001), La

Nue-bête (Com'Act 2004) e Environs du bouc (Com'Act 2005) raccolti poi in Bergamonstres (Act

Mem 2008), La Femme lit (Flammarion 2009).

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RAMÓN GARCÍA MATEOS

POESIE SCELTE

[HE REGRESADO HOY…]

Aquella sería para siempre la casa del padre,

donde el tiempo no existió y los paisajes son

mágicos recuerdos. Allí transcurrieron los años

de la infancia -entre amor y despedidas-

con su presencia constante y protectora.

He regresado hoy

recobrando paisajes

a la casa perdida

en el filo del tiempo.

Allí estaban los años

de tristeza y de juego,

las nostalgias heridas

de mi madre y su ausencia,

las tardes de verano

bajo el nogal antiguo

de canciones y cuentos.

Allí estaba el misterio

de las viejas alcobas,

el desván polvoriento

con el eco sonoro

de temores y risas,

la soledad atroz

de tanta despedida.

Y todo lo cubría

la presencia de ella,

amorosa y distante,

como diosa que sabe

acariciar la aurora

—constante su palabra

inventando mi mundo—

o amasar los silencios

en la casa perdida

en el filo del tiempo.

[SONO TORNATO OGGI...]

Sono tornato oggi

riacquistando paesaggi

alla casa perduta

sulla lama del tempo.

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Laggiù erano gli anni

di tristezza e di gioco,

le nostalgie ferite

di mia madre e l‘assenza,

i pomeriggi estivi

sotto il noce antico

di canzoni e racconti.

Laggiù era il mistero

delle vecchie alcove,

polverosa soffitta

con l‘eco rumorosa

di timori e risate,

l‘atroce solitudine

di un addio come quello.

E ricopriva tutto

la presenza di lei,

amorosa e distante,

come una dea che sa

accarezzare l‘alba

—costante il suo dettato

che inventava il mio mondo—

o ammassare i silenzi

nella casa perduta

sulla lama del tempo.

*

[ES TU LUZ LA QUE INUNDA MIS VENTANAS…]

Porque yo, cuando fui desventurado,

por tu voz, por tus ojos, por tu aurora,

recobré mi esperanza y mis delicias.

Antonio Carvajal

Es tu luz la que inunda mis ventanas,

la luz del tiempo de los tallos verdes,

la luz del alba que amanece el día,

la luz del tiempo del amor sin redes.

Es tu luz la que renueva el aire,

la luz que me desborda y me cautiva,

preso mi corazón de esa candela

está ya detenido al mediodía.

Es tu luz la que descubre el mundo,

el mundo que renace abierto y claro

a mis sentidos: horizonte y guía.

Vista, oído y olor, sabor y tacto.

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[È LA TUA LUCE AD INONDARMI I VETRI]

È la tua luce ad inondarmi i vetri,

luce del tempo dagli steli verdi,

luce dell‘alba che risveglia il giorno,

luce del tempo dell‘amore libero.

È la tua luce a rinnovare l‘aria,

luce che mi oltrepassa e mi cattura,

preso il mio cuore da questa candela

rimane imprigionato a mezzogiorno.

È la tua luce a rivelare il mondo,

il mondo che rinasce aperto e chiaro

ai miei sensi: è orizzonte e guida.

Vista, udito, odorato, gusto e tatto.

[Da: Triste es el territorio de la ausencia, Madrid, Asociación de Escritores y Artistas (Col. Julio

Nombela), 1998. Premio de Poesía Blas de Otero 1997.]

**

[LA VIEJA PUENTE DEL RÍO...]

No por el puente de hierro,

el de piedra es el que amaba.

A ratos miraba el cielo,

a ratos miraba el agua.

BLAS DE OTERO

La vieja puente del río

no mira pasar el agua

la vieja puente de piedra

a solas desconsolada.

De piedra puente del río

llora en la noche del agua

no pasa sobre sus arcos

mi amor por la madrugada.

Mi amor se fue con la noche

agua que llora en el agua

igual que llora la puente

llora de pena mi alma.

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[IL VECCHIO PONTE DEL FIUME...]

Il vecchio ponte del fiume

non guarda passare l‘acqua

il vecchio ponte di pietra

da solo ormai sconsolato.

Di pietra ponte del fiume

piange nel buio dell‘acqua

non passa sopra i suoi archi

il mio amore nell‘alba.

L‘amore è sparito col buio

acqua che piange nell‘acqua

così come piange anche il ponte

piange di pena il mio animo.

*

[ERES BLANCO SILENCIO…]

Para Álvaro y para ti

Eres blanco silencio

de luz y luna,

como paloma al viento

su voz te arrulla.

Como canción errante

su voz de tierra

mientras manos de rosa

te balancean.

Mientras suaves caricias

cubren tu cuerpo

su ilusión entre espuma

vence misterios.

Por quererla te quiero,

flor de la aurora,

por quererte la quiero, luz entre sombras.

[TU SEI BIANCO SILENZIO...]

Tu sei bianco silenzio

di luce e di luna,

come colomba al vento

la sua voce ti ninna.

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Come canzone errante

la sua voce di terra

mentre mani di rosa

continuano a cullarti.

Mentre dolci carezze

ricoprono il tuo corpo

la sua gioia spumante

sottomette misteri.

Perché l‘amo ti amo,

fiore della aurora,

perché ti amo l‘ amo,

luce in mezzo alle ombre.

[Da: Lo traigo andado, Salamanca, CajaDuero, 2000.]

**

[DESDE LA VIEJA HABANA DONDE ESCRIBO…]

Desde la vieja Habana donde escribo

estos versos de amor, de fuego amante,

siento tu cuerpo, faro y estandarte,

para mi cuerpo ansioso y encendido.

Te imagino desnuda entre mis manos,

tus labios me recorren, besan, lamen

cada porción de piel. Ahora se abren

y abrazan mi deseo enamorados.

Acaricio tus senos dulcemente

y bebo de tu sexo —fuente clara—

mientras la llama arde y estremece

de fuego y de color la madrugada.

Entro en ti, mi amor, quiero tenerte

ebria de luz: mi soledad te abraza.

[DALLA VECCHIA LA AVANA DOVE SCRIVO]

Dalla vecchia La Avana dove scrivo

questi versi d‘amor, di fuoco amante,

sento il tuo corpo, faro e emblema vivo

per il mio corpo ansioso ed avvampante.

Tra le mie mani nuda ti figuro,

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le tue labbra scorrendomi, baciando,

leccando la mia pelle. Innamorando

abbracciano il mio desiderio duro.

Accarezzo i tuoi seni dolcemente

e bevo dal tuo grembo – chiara fonte –

mentre la fiamma arde e fa vibrare

di fuoco e di colore l‘albeggiare.

Entro in te, amore mio, io voglio averti

nella luce: ti abbraccia il mio esser solo.

[Da: De ronda y madrugada, Alicante, Aguaclara (Col. Anaquel), 2001. Accésit del Premio de

Poesía Ciudad de Torrevieja 2001.]

**

[ADIVINAR EL TIEMPO YA PASADO…]

El poeta no recuerda el pasado, lo anticipa.

Y no imagina el futuro, lo recuerda.

[Malversación de una cita de Carlos Fuentes]

Adivinar el tiempo ya pasado,

vislumbrar en palabras los recuerdos

como augurio del tiempo que vendrá.

Alba y premonición es la memoria.

El porvenir se extiende igual que un manto

bordado con agujas en pretérito.

Tejedor del futuro es el poema

remembrando palabras olvidadas.

Escribo con las voces de los muertos

y el eco de los años que he vivido.

Sobresalto y oráculo que dicta

esta crónica amarga del mañana.

Presiento lo que fui. Será ayer siempre.

De mi muerte aún tengo yo el recuerdo.

[INDOVINARE IL TEMPO GIÀPASSATO...]

Indovindare il tempo già passato,

abbozzare i ricordi con parole

come augurio del tempo che verrà.

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Alba e premonizione è la memoria.

Il futuro si stende come un manto

circondato di aghi del passato.

A tessere il futuro è quel poema

che rimembra parole ormai scordate.

Io scrivo con la voce che è dei morti

e dell‘eco degli anni che ho vissuto.

Sussulto e insieme oracolo che detta

questa cronaca amara del domani.

Presento ciò che fui. Ieri è sempre.

Anche della mia morte mi ricordo.

*

[TAL VEZ EL GESTO ÚLTIMO PREVENGA]

Tal vez el gesto último prevenga

la insidiosa mentira de la muerte.

Sin ciega falsedad ni cobardía,

sin esperanza vana o triste espera.

La muerte es el final. Cierra el camino.

Acabar la jornada es lo que importa.

Descansar del esfuerzo y sombra eterna.

Nada más. Nada más. Y ya es bastante.

Quisiera un gesto de torero antiguo:

inmóviles los pies sobre el albero,

dispuesta la verónica imposible.

Un gesto así, altivo y sosegado,

sin máscaras sagradas, sin adornos,

digno y febril para la suerte última.

[MAGARI È IL GESTO ULTIMO A EVITARE]

Magari è il gesto ultimo a evitare

l‘insidiosa menzogna della morte.

Senza falsità cieca o codardia,

senza vana speranza o attesa triste.

La morte è fine, termine al cammino.

Finire la giornata è ciò che conta.

Riposarsi di qua dall‘ombra eterna.

Niente più. Niente più. È già abbastanza.

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Invoco il gesto di un torero antico:

Immobili i suoi piedi sull‘arena,

già pronta la veronica impossibile.

Un tale gesto, fiero e imperturbabile,

Senza maschere sacre, senza fronzoli,

degno e febbrile per la sorte ultima.

[Da: Como otros tienen una patria, Sevilla, Algaida, 2007. Premio de Poesía Ciudad de

Salamanca.]

[Traduzione di Matteo Lefèvre.]

Notizia.

Ramón García Mateos (Salamanca, 1960) è poeta, traduttore e studioso di Letteratura spagnola. Ha

dato alla luce diversi libri di poesia, tra cui si ricordano soprattutto: Triste es el territorio de la

ausencia (1998, Premio Blas de Otero); Como el faro sin luz de la tristeza (2000); De ronda y

madrugada (2001); Morfina en el corazón (2003, Premio Rafael Morales); e Como otros tienen una

patria (2007). Come critico ha pubblicato saggi su Federico García Lorca e José Agustín Goytisolo,

del quale, in particolare, nel 2009 insieme a Carme Riera ha curato una importante edizione critica.

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PLAUTO

Da: Aulularia

PROLOGO

LARE

Lare - Prima che mi chiediate chi io sia,

ve lo rivelo: il Genio della casa

da dove sono uscito. La possiedo

e la proteggo da parecchi anni,

già dai tempi del nonno, e poi del padre,

di chi ora la abita. Quel nonno,

in gran segreto, un giorno, mi affidò,

con molte invocazioni, un tesoro,

ben seppellito sotto il focolare, e m‘implorò di conservarlo. Quando

tirò le cuoia, tirchio come era,

non volle rivelarlo al suo figliolo

e, piuttosto che dirgli il nascondiglio,

gli lasciò la miseria, con soltanto

un po‘ di terra da cui ricavasse,

sgobbando, qualche cosa per campare.

Appena lui fu morto, cominciai

a osservare se, per caso, il figlio,

mi onorasse di più: invece quello

mi onorava di meno, sempre meno,

e io lo ripagai adeguatamente,

finché anche lui schiattò, lasciando un figlio

che ora abita qui, spilorcio quanto

erano il padre e il nonno: ma ha una figlia

che tutti i giorni, con incenso o vino,

diverse offerte, e fiori, mi dà onore:

così, io ho concesso a Euclione,

il padre, di scoprire il tesoro,

perché più facilmente possa darle,

se vuole, un marito: giacché, intanto,

un giovane di qui, di schiatta nobile,

l‘ha avuta a forza. Lui sa chi lei è,

invece lei non sa chi fosse lui,

e il padre non sa niente. Oggi io

procurerò che la chieda in sposa

un uomo anziano, che abita vicino,

in modo che la venga a domandare

quello che l‘ha sedotta, perché il vecchio

che la chiederà in moglie, è lo zio

del giovanotto che, in quella notte

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della veglia di Cerere, l‘ha presa…

Ma senti, intanto, strilla come al solito,

Euclione, e caccia fuori casa

la vecchia schiava, perché non sospetti.

Vuol dare un‘altra occhiata al suo tesoro,

nel gran timore che gli sia rubato!

EPILOGO

LARE

Lare - Eccoli tutti in festa, e quella pentola,

così a lungo segreta, seppellita

in nascondigli, o in terra, come fosse

qualche cosa d‘immondo, una vergogna,

fra poco tornerà a contenere

quello per cui è fatta, cibo umano.

Quello che conteneva (lo si sa

anche se non si è degli indovini)

svanirà molto in fretta: durerà

meno del desiderio: nuove ansie,

altre preoccupazioni nasceranno.

Per il momento è festa: ancora ride,

là nella culla, appena nato, il piccolo,

e agita le mani, richiedendo,

alla giovane madre, il dolce latte.

Ma ora, se denaro non avete,

o latte, vi accontenti questa storia,

e, battendo le mani, consolate

chi si è sbracciato e sgolato per voi.

[Traduzione e rifacimento di Roberto Piumini.]

Notizia.

it.wikipedia.org/wiki/Tito_Maccio_Plauto

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FRANCIS PONGE

ALLA MATERIA SOGNANTE

Probabilmente, tutto e tutti (e noi stessi) non siamo altro che sogni, immediati, della Materia

divina: i prodotti testuali della sua immaginazione prodigiosa. E così, in un senso, si potrebbe dire

che la natura intera, compresi gli uomini, non è che una scrittura, ma una scrittura di un certo

genere, una scrittura non significativa, poiché non si riferisce ad alcun sistema di significazione, in

quanto si tratta di un universo infinito, o per meglio dire immenso, senza limiti.

Mentre il mondo delle parole è un universo finito. Ma, poiché è composto di questi oggetti

molto particolari e particolarmente emozionanti: i suoni significativi di cui siamo capaci, che ci

servono a nominare gli oggetti del mondo e insieme ad esprimere i nostri sentimenti intimi,

È senza dubbio sufficiente nominare alcunché – in una certa maniera – per esprimere tutto

dell‘uomo e, d‘un sol colpo, glorificare la materia, esempio per la parola e provvidenza dello

spirito.

[Da: Francis Ponge, A la rêveuse matière, Lausanne, Éditions du Verseau, 1963. Traduzione di Italo Testa.]

Notizia.

Una biografia dell‘autore si può leggere su: http://it.wikipedia.org/wiki/Francis_Ponge

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GUSTAVE ROUD

SCÈNE

(1941)

Il poeta beve nei villaggi.

C.F. Ramuz, La Grande Primavera.

(È una festa paesana. Si scorge una tavolata sotto i festoni di muschio, i rami d‟abete stretti in

mazzi, punteggiati di rose di carta. Il poeta Ŕ che gli altri personaggi non vedranno, o non

sembreranno vedere Ŕ è seduto davanti ad un bicchiere e alla sua bottiglia. A sinistra sul tavolo

stanno bottiglie e bicchieri. A destra, la testa rovesciata sopra i rami, un uomo addormentato.

L‟orchestra conclude un walzer dal ritmo scandito. Per alcuni secondi, silenzio. Appaiono Rosa e il

dragone e vanno a sedersi a sinistra davanti ai bicchieri abbandonati).

Rosa Ŕ Ti hanno dato un premio? È bello?

Il dragone Ŕ Una zuccheriera forse d‘argento, con un‘incisione:

CORSA AD OSTACOLI

PRIMO PREMIO

Non la useremo. Sarà messa con altre nella stanza degli ospiti.

Rosa Ŕ E se lo volessi?

Il dragone Ŕ Rosa, Rosa, non oseresti usarla. A meno che un bel giorno, forse…

Rosa Ŕ Un bel giorno?

Il dragone Ŕ Quando una certa stanza ora in attesa sarà stata occupata…

Rosa Ŕ Luigi, zitto!

Il poeta Ŕ … La stanza degli ospiti, la stanza quasi sempre chiusa, quella che si offre all‘amico

venuto per la festa. Vi si addormenta subito, senza un pensiero per le ragazze di seta della

domenica, che ballano. E quando all‘alba riapre le persiane, vede laggiù sulla via, solo con le

rondini e il canto della fontana, un ragazzo che miete a colpi di scopa grandi banchi di polvere.

Rosa Ŕ E Piero? Elena? Piero che è caduto! Hanno detto che si è fatto male.

Il dragone Ŕ Un taglio sulla fronte, un piccolo taglio. E così non è voluto venire al ballo.

Rosa Ŕ Elena è venuta lo stesso?

Il dragone Ŕ Mentre attaccavo il cavallo sotto il tiglio, è corsa verso di me, credeva fosse lui. È

ripartita ridendo, senza dir nulla, rideva come si piange. L‘ho rivista vicino alla pista da ballo.

Questa volta piangeva. Si beffavano di lei perché aveva gridato.

Rosa Ŕ È vero, ha gridato talmente forte quando Piero è caduto! Mi teneva per mano, l‘ha

lasciata di colpo. Io non ho visto niente, avevo gli occhi pieni di polvere. Quando i vostri cavalli

galoppano, si formano come piccole nuvole e il vento ce le spingeva contro.

Il dragone Ŕ Ma tu, anche tu sei tornata!

(Rosa ride, gli prende la mano. Silenzio).

Il poeta Ŕ Ecco. È una festa di dragoni. Credevo che quest‘anno non ce ne sarebbero state più.

Spesso è a primavera, quando l‘ultima neve si è appena sciolta. La strada è già polvere al sole, e

fango ancora nell‘ombra, chiazzata come un tronco di platano. Il passo dei cavalli rimbomba sui

muri delle case; ai piedi delle palizzate i gatti dormono sui ciuffi di violette. La foglia grande e

grassa dei giacinti sbuca dalla terra delle aiuole. L‘aria sa di sigaro e neve.

O allora è in luglio, quando il fieno è nel fienile, sui campi falciati così dolci da guardare, su cui

le ombre verso sera si coricano come carezze. Ma oggi! Ovunque è finita la mietitura. È una festa di

dragoni ed è una festa delle messi… Chi m‘ha guidato misteriosamente verso questo villaggio?

Tutti sono bellissimi; uno dopo l‘altro, tutti v‘invitano, di collina in collina, con il dito d‘oro del

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loro campanile sotto le nuvole. Ognuno di loro sa stregarvi d‘un incantesimo così puro, talmente

imperscrutabile che sembra quasi una mezza bugia. Questi è una rosa. Quell‘altro batte le ore con

una campana più profonda del vostro cuore. Quest‘altro ancora nasconde sotto il fogliame le alte

mura di neve d‘una domenica infinita.

Ma questo mi tiene prigioniero con vere e proprie catene: questi festoni di muschio e di rose,

prigioniero un giorno intero, una notte intera di letizia. Ed è la poesia ad averlo voluto, quest‘arco di

trionfo laggiù sul sentiero verso occidente:

BENVENUTO E FELICE FESTA

AI RAGAZZI E ALLE RAGAZZE CHE BALLANO

Perciò sono restato.

Quale brace ancora divampa sotto le mie palpebre? Sì, è dalla brace che questa festa ha preso

avvio, il fuoco bianco del mezzogiorno sulla piazza, quando la banda tra due rive di bambine dalle

labbra dischiuse se ne veniva avanti come un roveto di scintille e di piume! Ogni passo tocca terra

come un colpo di schioppo: ottoni e piatti. Poi il primo dragone infigge al centro del cielo la punta

aguzza del gagliardetto a frange. E dietro ad esso ecco i camerati, in fila per due, fianco a fianco,

fratelli d‘arme (un‘antica fraternità, che un tempo mi sembrò bellissima – ma occorrerebbe essere

soli, oh certo, perché vi possa commuovere fino alle lacrime…), fratelli d‘arme, viticoltori,

mietitori, ginocchia strette al cuoio della sella, le redini attorte ai loro polsi bruniti, e valli d‘ombra

sui loro visi sotto i drappi del sole… Un‘intera festa bizzosa, che ancora sfila battendo il passo nella

memoria, corteo infinito di groppe frementi, cangianti come un prato di giugno sottovento.

Ho seguito il corteo verso la pista delimitata dalle corde. Tutto il pomeriggio tra le giovinette, i

ragazzi con le loro camicie di gesso abbacinante, ho visto balzar fuori le bestie, ad una ad una, ai

rintocchi di una piccola campana. (È un carro al centro del terrapieno, ingombro di ufficiali, bei

signori con la coccarda. Un giovane dragone si concentra a più riprese sui foglietti che il vento gli

ruba, e ci sono anche molti bicchieri e le bottiglie). Ho visto i battimani, gli hurrà e le risate a poco a

poco spegnersi con il sole, il sole talmente basso all‘orizzonte che l‘ombra dei cavalli balzava al di

sopra delle nostre teste, rasoterra, il sole talmente basso e così rosso che i vincitori, coi premi

branditi e levati, lo toccavano senza fatica, forando il buio con una breve mano di sangue. Ho visto

cadere Piero, la mia fronte ferita insieme alla sua; ed è proprio accanto a me che Elena ha gridato,

ho sentito la mia voce spezzarsi insieme alla sua…

Rosa Ŕ Luigi, non dici più niente… (Un grido). Luigi!

Dormivi! Sì, ora i tuoi occhi si riaprono. Oh, che bel cavaliere, che bella festa! Come sono felice

d‘essere venuta! Anziché ballare come le altre, andrò a cullare il mio ragazzino, e dormirà, dormirà

come un bambino buono buono…

Non dormivo, sogno. (Tutte le messi stanno nelle mie braccia). Sognavo d‘aver finito, che solo

un covone rimaneva sul ciglio dell‘ultimo campo. Un covone grande e dorato, biondissimo, e il

carro era già partito ed io gridavo: «Non l‘avrete, ah no! È per me, questo covone, per me solo!»

Ora lo prenderò per la vita (scivola un braccio intorno alla vita di Rosa) lo isserò sulle mie spalle, e

arrivando al paese dirò: «Venite, guardate il più bel covone, il più alto, il più pesante. È d‘oro come

i capelli di chi so io, è troppo bello perché lo si metta nel fienile! Bisogna fargli onore. Gli daremo

una stanza».

Rosa Ŕ Luigi!

Il dragone Ŕ I suoi capelli hanno il colore del grano maturo.

Rosa Ŕ Sei più in gamba dei tuoi sogni, Luigi. Ch‘è mai un covone con capelli d‘oro? E per

giunta io non posseggo la Chiave dei Sogni, come Maria. Vuoi che la chiami? Anche lei è bionda.

Capirà meglio.

Il dragone Ŕ (Esita) I tuoi capelli sembrano grano maturo. (Silenzio) Oh, non so più.

Il poeta Ŕ I tuoi capelli hanno il profumo del grano maturo, ma il colore è più bello ancora.

Il dragone Ŕ Il tuo braccio nudo – (Silenzio) Ah, quante cose vorrei dirti, che dovrebbero dirsi!

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Il poeta Ŕ Il tuo braccio, il tuo braccio nudo che ha il profumo del grano in fiore! Ti ricordi, quel

campo che ci toccava attraversare ogni sera accanto al bosco, poco prima della rugiada?

Il dragone Ŕ Ogni sera (Silenzio). Rosa, è vero che ho dormito e ora che mi sono svegliato, tutte

le mie parole svaporano, si fanno nebbia. (Provando) Ogni sera… (Bruscamente una Mazurca in

orchestra. Rosa e il dragone sussultano).

Rosa Ŕ (Già in piedi) Oh, una mazurca! Vieni, vieni, Luigi, forse è l‘ultimo ballo! (Passano

accanto all‟uomo addormentato, Rosa si china, poi si gira verso Luigi, un dito posato sulle labbra.

Escono. La mazurca continua in orchestra, e si fa flebile quando il poeta, dopo un momento di

silenzio, riprende la parola).

Il poeta Ŕ … Queste cose volevano, dovevano dirsi! Che altro debbo fare, se non dirle, allora?

Rosa ha ragione. È l‘ultimo ballo. Ci si accorge facilmente che la festa sta per spegnersi. È come

la notte poco prima dell‘alba. Un freddo improvviso. Sembra una mano che vi tocca il petto. Il vino

era fresco nei bicchieri. Ora è ghiacciato.

E le cose che non hai saputo dire, Luigi, io le dirò per te, per lei, per tutto questo popolo di

mietitori stanchi, ripresi e vinti dalla fatica.

Rosa, ti ricordi il campo di segale che ci toccava attraversare, poco prima della rugiada? Quel

boschetto di spighe ogni sera un po‘ più alto, prima del grande bosco? Hanno toccato le tue spalle, il

tuo viso, poi i capelli. Una sera ti hanno nascosta interamente. Là sotto tu chiamavi come una bimba

smarrita, e ho dovuto prenderti per mano, timorosa! E avevi sempre paura di entrare sotto i rami, nel

buio. Lanciavi un piccolo grido, come l‘uccello d‘inverno quando vola senza forza da un abete

all‘altro, stretto fino al cuore dal gelo. Io non potevo dire più nulla; sentivo il sangue battere alle

tempie e fiorire. Con l‘odore d‘una rosa alla tua cintura, con la macchia fremente della tua gonna,

con un po‘ di pelle tiepida sotto le dita, ti risuscitavo interamente, Rosa divorata dall‘ombra, e tu eri

più bella rinascendo dal mio sangue.

Quando smetteremo di nasconderci, mietitrice? Quando ti porterò via, con una bracciata, covone

straripante? Oh, ad ogni giorno di mietitura, ad ogni colpo di falce nel grano, poi ad ogni covone

che veniva stipato sul legaccio davanti a me, una bracciata dopo l‘altra, volgevo gli occhi al tuo

villaggio, Rosa, pensavo: «Fosse lei e non mia sorella o la mia domestica che si china accanto a me

tra la paglia e poi si rialza, spargendola con un gesto sulla stoppia! Fosse lei a versarmi il vino rosa

nel sole! La mia sete sarebbe per sempre allora spenta».

Rosa, ho sempre sete.

(Pausa).

Questo vino troppo freddo! E nessuno, nessuno mai a brindare con me, guardandomi dritto negli

occhi. Non sembrano vedermi, o la sola occhiata è quella che riservano al vagabondo sulla panca

della stalla, quando tossisce e si strozza trangugiando la minestra, con l‘occhio fisso al sentiero da

dove potrebbero spuntare i poliziotti. «Mangia la tua minestra, giacché hai fame, e poi va‘ per la tua

strada. E soprattutto, rimettiti il sacco in spalla!» L‘uomo sospira, lecca con cura il cucchiaio, lo

posa insieme alla scodella, trae poi tra le ginocchia il proprio sacco, fatto di tela grezza, gonfio

come una mela, in cui nessuno saprà mai cosa ha ficcato. Quanto a me, è ancora peggio, perché ho

le mani vuote e non domando loro nemmeno la carità. Oh, hanno ragione, non sono nessuno, io

sono – loro, io sono

tutti!

La mietitura è finita, hanno chiuso le porte dei loro granai sui covoni ancora caldi, e già altri

doveri li attendono, dopo una pausa sotto l‘albero della danza e del vino. Domani le falciatrici

taglieranno l‘erba rifiorita, il vomere scaverà la piaga rosa dell‘aratura. Bruma e tramontana

avranno girato la pagina dell‘estate. E verrà il tempo delle campane, dei frutti, del fumo, quando il

passante sotto il melo, sorpreso dal vapore, ha un brivido e sente la nebbia di novembre sciogliersi

sul viso, lacrima dopo lacrima.

Ma io, che farò con questo grano ormai morto? La mietitura che si spegne sotto i vostri tetti

come brace sotto la cenere, io non l‘ho fatta con voi, l‘ho salvata. E vive, e voi vivete, a lei confusi.

Non una delle vostre fatiche che sia dimenticata, non un sol gesto andato perso! Richiudo gli occhi

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su quest‘altra brace: la prima macchia d‘orzo tra il verde, il primo fuoco della segale. E le messi a

strati, stese dal campo fino alle colline, come un crine d‘oro, su cui il cielo posa un turgido labbro

azzurro.

Come è bello, questo mattino di mietitura che inizia! Appena imboccata, la strada grigia e rosa

tra le file dei peri sfavillanti si è popolata di mietitori. Uno canta, l‘altro fischietta, il suo vasto petto

nudo attraversato dall‘ombra della falce. Passano ridendo e il mio salve in questo roveto d‘uomini

bronzei fa sgorgare come un volo d‘uccelli il loro buongiorno squillante. Niente è perduto, tutto

vive ancora di queste giornate destinate all‘oblio. Ero forse fuori dal tempo, fuori dallo spazio, per

questo quasi non mi vedeste, uomini prigionieri del vostro tempo, della vostra terra. Un giorno mi

sentirete. E vi vedrete rinascere a poco a poco, frase dopo frase, quali voi siete, gli stessi – e tuttavia

resi alla vostra eternità.

I mietitori sono alle spalle. In un primo giardino un bambino piange e chiama, la gota appoggiata

ai gladioli arancione. Una donna trascina nella polvere i suoi passi felpati e alla locanda sbatacchia

un leone arrugginito accanto al platano. Invano! La strada è vuota. La fucina del fabbro rimbomba

nel cuore del villaggio deserto. Mietitori, oh, che un giorno voi possiate riconoscerlo, conoscerlo, il

vostro villaggio che ho attraversato e che adesso ricreo per me solo nella notte! Ero risalito verso di

voi sulla collina più alta. Steso sul trifoglio in fiore, bevo con voi il suo gusto di miele a sorsi lenti,

Luigi, Emilio, Amato, Piero, oscure statue di sudore e di forza! Ognuno, finita l‘andana, si ferma

vicino a me senza vedermi, fa scivolar giù la falce dalla spalla nuda, la raddrizza e l‘affila, mola alla

mano, contro il sole. E da questo campo sul versante della valle da ogni parte si schiude la terra

d‘erba grassa e di messi, in un disordine di grandi appezzamenti gialli e rosa, cinti d‘arbusti,

chiazzati d‘alberi, fino alla comitiva solenne delle montagne. Valle delle messi, valle felice!

Mezzogiorno sale verso di noi da cento campanili annegati nel torpore dell‘aria sotto un fiume d‘afa

trasparente. Mezzogiorno, l‘ora della minestra e del sonno. E poi viene l‘ora di chi lega i covoni, i

grandi uomini furenti in piedi tra le donne chine. In piedi! – e poi d‘un colpo inginocchiati sul

cumulo di paglia che stanno domando, coi pugni stretti a stringere il laccio di segale! In piedi! Il

covone buttato dietro di loro come un cadavere. In ginocchio. In piedi! Il corpo catturato fino alla

collottola in una tela di neve così pura che si direbbe la messe degli Angeli…

(Silenzio).

I musicisti se ne vanno. Ecco la donna del tirassegno che spunta fuori dalla baracca con la sua

biacca, la sua parrucca, gli orecchini: due lunghe lacrime gelate. Nessuno. Ma la giostra gira ancora.

Un leone, una barchetta, un cigno, un cavallino, un leone, una barchetta, un cigno… piano piano. Il

leone senza voce ruggisce rosso, il cigno è stanco di aprire le ali. Piano piano… Un cavallino, un

leone, una barchetta… La barchetta ricade. Il falso marinaio salta nell‘erba. È finita. I lampioncini a

grappoli si spengono d‘un colpo. Il nostro ancora brucia tra il fogliame, il suo riflesso moribondo tra

i bicchieri. Il cavallo di Luigi sbuffa nell‘ombra. La sella riluce. Sulle staffe una chiazza di luce

dolce come una lucciola. L‘ultimo tavolo sotto il tiglio, sul ciglio della notte… E accanto a me

quest‘uomo addormentato, la testa contro le rose e la ramaglia, da ore, senza un sussulto.

(Tornano Rosa e il dragone).

Rosa Ŕ Luigi, vuoi partire! È sempre triste, quest‘ultimo giro di danza. E il clarinetto che

suonava l‘assolo per sé!

Il dragone Ŕ E il contrabbasso che non suonava più! Musica pietosa!

Rosa Ŕ E quelle grida dietro la locanda!

Il dragone Ŕ Andrea ha fatto a pugni con l‘uomo della giostra.

Rosa Ŕ Perché?

Il dragone Ŕ Non ne ho idea, lui nemmeno, immagino. Gridava: «Bacerò quella che mi pare, lo

capisci, lo capisci?» L‘uomo gli ha sferrato un pugno in bocca. Ed eccoci al sangue.

Il poeta Ŕ Andrea, con una rosa sul suo bel vestito nero!

Il dragone Ŕ Sono caduti nell‘erba sbuffando forte. Andrea l‘ha preso d‘un tratto sotto la nuca e

le ginocchia, l‘ha buttato in una barca. «Prendi il largo, marinaio d‘acqua dolce, e non tornare più!

Ah, la mia rosa ch‘era rosa, eccola diventata tutta rossa! E molto più bella così».

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Il poeta Ŕ È la rosa che ha vinto al tirassegno. Il sangue era versato.

Il dragone Ŕ Ha staccato il suo cavallo, ci è saltato sopra. «Addio, amici miei». Ma tutti gli sono

andati dietro al galoppo, e non c‘è più nessuno.

Rosa Ŕ Non restiamo che noi due, Luigi – e poi Amato. Niente lo sveglia. Se lo chiamassi?

Il dragone Ŕ Lascialo dormire. Ha dovuto mietere come un pazzo tutta la settimana. Ieri ha

legato covoni fino a notte.

Il poeta Ŕ La sua mano sanguina ancora, la sua forte mano fulva, abbandonata; l‘altra dorme

accanto al vino. Come è calmo! Si direbbe che l‘ombra stessa respira al ritmo del suo fiato…

Il dragone Ŕ La festa è finita. Vieni bambina. Andiamocene!

Rosa Ŕ Oh, Luigi, non ancora! Quando Amato si sveglierà. Mi vien sonno a vederlo dormire. E i

nostri bicchieri non sono ancora vuoti.

(Si siedono).

Il dragone Ŕ (Assaggia un sorso) È gelato! Vienimi vicino, Rosa, giacché hai sonno. Più vicino.

Non avere paura. Piano piano. Piega la testa sulla mia spalla. Ancora. Così… (a bassa voce contro

l‟orecchio di Rosa) Che bella festa! Anziché ballare come gli altri, avrò cullato la mia bambina e lei

dormirà, dormirà come un bimbo calmo e buono, come un bimbo…

Rosa Ŕ (Con gli occhi ormai chiusi) Più vicino. Luigi…

(Silenzio. Il lampione sopra la tavola si spegne. Notte completa).

Voce del poeta Ŕ Tutto mi è tolto.

L‘amore, la notte, il sonno hanno preso di nuovo il sopravvento. Il vino stesso è lontano dalle

mie mani cieche. Sono solo, assediato da una subdola assenza universale in cui tutto si strugge e

perde il suo nome, il suo essere. Tutto! Questi due corpi confusi labbra contro labbra, quest‘uomo

colto dal sonno, e io stesso, se l‘ombra osasse. L‘ombra ci prova, mi stringe, mi parla: «Tutto è

assenza. Alza gli occhi!» Alzo gli occhi, vedo brillare a goccia a goccia tra le foglie un‘altra assenza

più terribile ancora: le stelle.

Tutto mi è tolto!

Tutto mi è reso!

Che le forze della notte contro di me s‘uniscano, che mi preparino le loro più oscure trappole, le

più perfide: il sogno, il sonno! Niente può abolire la mia presenza. Io sono. Io sono il poeta che

accetta il mondo, il mondo che mi è dato. Che altri ne ridano, di questo dono! La loro febbre li

lancia verso esseri e cose che consumano d‘un colpo d‘anima. Ricadono allora nella loro assurda

diversità, cercando in lei sola un impossibile nutrimento. La disperazione, l‘odio, i sogni, come un

grido subito strangolato dal silenzio – questa morte prima dell‘altra – chi non ha pietà di un tale

destino?

Io sono, perché accetto il mondo. Accetto la mia diversità, che è di vivere ogni vita, mentre

ognuno vive la sua soltanto. Non sono un testimone che giudica e raffronta, il cuore vuoto e gli

occhi secchi. Partecipo. E c‘è un solo mezzo per riuscirvi: l‘amore. Niente si dà a chi non si è dato.

Cercate di capirmi. Cogliete infine il senso della mia infinita ricerca! Interrogato senza amore,

l‘universo intero, fosse pure sotto tortura, non potrebbe che tacere o mentire. Interrogo il lago,

interrogo le montagne, e ogni giorno la loro risposta è diversa e più bella. Interrogo gli uomini, li

considero ad uno ad uno. Nessuno di loro mi è chiuso. Sono solo, e la mia solitudine è popolata di

passioni che accetto, ricco d‘una tenerezza inestinguibile. Ed ecco nascere dal mio sangue le

misteriose creature che poi si mescolano agli altri uomini, vivendo un‘altra vita, la stessa.

Una roccia è una roccia e non può diventar nuvola, la nuvola non può diventare montagna. Ma il

lago diventa roccia, diventa nembo, diventa collina, diventa sole. Ed accoglie ogni cosa, perché

ama. Ed è tutto.

Cercate di capirmi. Capite che tutta l‘impresa del mio amore è di far nascere, lontano dalle

tempeste del tempo, frase dopo frase, un‘immensa nuda distesa su cui un paese intero si china, per

riconoscervi il suo volto.

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[Da: Gustave Roud, Requiem e Altre Prose Poetiche, cura e traduzione di Pierre Lepori, Interlinea

edizioni, 2009.]

Notizia.

Una biografia dell‘autore si può leggere su: it.wikipedia.org/wiki/Gustave_Roud

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MARK STRAND

THE MONUMENT – IL MONUMENTO

nella versione di Damiano Abeni con Moira Egan

Al traduttore di THE MONUMENT nel futuro

---

“Siste viator”

2

Parto dall‟incontro con quello che sono, con quello che adesso comincio a essere, mio discendente

e mio antenato, mio padre e mio figlio, mia dissimile somiglianza.

Benché mi estenda su centinaia d‘anni come se non esistessero, immaginandoti in questo momento

che cerchi di immaginare me, e provando in fondo che l‘immaginazione compie più della storia, tu

mi conosci meglio di quanto io non conosca te. Forse la mia voce è flebile nell‘estendersi su così

tanti anni, così tanti da sembrare una lunga macchia sfocata che viene cancellata da, e in cui

confluiscono, eventi e vite che diventano un evento, una vita; anche così, la mia voce basta a

edificare Il Monumento ricavandolo da questo momento.

8

Fai quel che devi, Musa; da me impara

a farlo apparire, nel futuro remoto, com‟è ora.

Attraverso te io rinascerò; sarò sempre di nuovo me stesso; me stesso senza altri; me stesso con una

tomba; me stesso oltre la morte. Ti immagino che prendi il mio nome; ti immagino dire ―me stesso,

me stesso‖ e ripeterlo di continuo. E d‘un tratto non esisterà cielo azzurro né sole né forma alcuna

di alcunché senza quella semplice espressione.

19

Risparmiate il fuoco alle mie ossa,

ponetemi intero nella fossa,

che sia in aria o terra morta,

l‟una o l‟altra, non m‟importa.

Ricordi la storia della mia morte? L‘ho architettata con enorme anticipo. E l‘ho fatto per te, così che

possa capirla come nessun altro. Quando mi lasciai andare sui cuscini freddi, fissando oltre la

finestra aperta il cielo nero e vellutato, indicando qualcosa, come se la mia mano fosse sul punto di

crollare, ed esclamai con voce calma e chiara: ―Guardate! Guardate!‖, stavo chiedendo l‘impossibile agli amici fedeli che affollavano la piccola camera. Perché essi guardarono dalla

finestra e, non vedendo nulla, chiesero quasi all‘unisono: ―Cos‘è?‖ E io risposi con un tono che allo

stesso tempo calmava e incitava: ―Là! Là!‖ Un attimo dopo ero morto. Questa è la celeberrima

storia della mia morte, tramandata, credo, per più o meno una dozzina d‘anni e poi dimenticata. È

tua perché tu hai trovato Il Monumento. Trovare Il Monumento era ciò cui incitavo quando

esclamai: ―Guardate! Guardate!‖

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È mia convinzione che in un dato giorno della vita di una persona le forme di tutte le nuvole in cielo

per un unico momento, proprio sopra la sua testa, gli assomiglieranno. È triste destino comune,

praticamente di chiunque sia mai esistito, essersi perso un tale spettacolo, ma non è andata così con

me. Oggi ho visto Il Monumento affermato in cielo. Me ne stavo seduto su una sedia e per caso ho

guardato all‘insù e questo è ciò che ho visto:

Si narra di un uomo che trascorse la vita nell‘attesa di questo momento nei cieli, e ogni giorno

v‘erano nuvole ed egli si sdraiava supino davanti a casa. Lo faceva estate e inverno e l‘unico riposo

se lo concedeva nei giorni sereni o in quelli completamente coperti. Alla fine, fattosi assai vecchio,

vide se stesso nelle nuvole e morì subito dopo. Lo trovarono in terrazza, gli occhi sbarrati su cui

ancora persisteva uno sguardo attonito.

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Siamo i nemici della violenza pastorale, gli amanti del freddo; il corpo reclinato come Il

Monumento è per noi il sommo bene; pesanti allusioni al clima sono solo un altro fardello per noi.

Dateci un bel sigaro, una cenere lunga su cui si possano fare congetture. E fumo a volontà. Ha, aah.

Adesso dateci un bicchiere di brandy spagnolo. Dateci una parete vuota così che possiamo vedere

noi stessi in modo più vero e più arcano. Adesso dateci la carta, la carta quotidiana su cui scrivere.

Adesso dateci il giorno, questo giorno. Riportatelo via. Lo spazio che resta è Il Monumento.

[Da: Mark Strand, Il monumento, Fandango Libri, in uscita a maggio 2010. Traduzione di Damiano

Abeni, con Moira Egan. Per gentile concessione dell‘editore.]

Nota.

Fonti delle citazioni utilizzate da Strand (in corsivo nel testo):

2 ―L‘antica poesia‖ di Octavio Paz, da ―Aquila o sole?‖.

8 Sonetto numero 101 di William Shakespeare.

19 ―La morte è sogno‖ di M. Playa.

Notizia.

Una sintesi della vita e dell‘attività dell‘autore si può leggere su:

http://en.wikipedia.org/wiki/Mark_Strand.