Nadia C. Oprandi -...

59
Nadia C. Oprandi focus group Breve compendio teorico–pratico emme&erre libri

Transcript of Nadia C. Oprandi -...

Nadia C. Oprandi

focus group Breve compendio teorico–pratico

emme&erre libri

2

Copyright 2000 by emme&erre S.p.A. Padova, Italy;

Seconda edizione 2001

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effet­ tuata, compresa la fotocopia non autorizzata (art. 171 legge 22.4.1941, n.633).

Emme&erre SpA – P.za Stazione 7 – 35131 Padova – Tel 049­661677 – Fax 049­662579

3

INDICE

Presentazione di Mauro Niero 5

Introduzione 13 1. Aspetti preliminari 15

1.1. Definizioni 15 1.2. Quando utilizzare il focus group 16 1.3. Campi di utilizzo 17

2. Il disegno della campagna di focus group 19 2.1. La definizione del problema 19 2.2. Strategie campionarie in una campagna di focus group 19

3. Disegno campionario e ruolo della inverview guide nella progettazione di una campagna di focus group 25

3.1. Controllo della varietà dei costrutti dovuta alla complessità del tema 25 3.2. Controllo della varietà dei costrutti dovuta ai casi 24 3.3. Altri disegni campionari 28 3.4. Il reclutamento dei partecipanti 30

4. La interview guide 31 4.1. Strutturazione e direttività 31 4.2. La interview guide 32 4.3. Il pilot–test 34

5. Scenario e attori: partecipanti, luogo, moderatore 35 5.1. La numerosità di un focus group 35 5.2. La scelta dei partecipanti 36 5.3. Il luogo 37 5.4. Il moderatore 38

6. La dinamica e il suo controllo 43 6.1. Il comportamento dei partecipanti 43

7. Raccolta e trattamento dei materiali 45 7.1. Come registrare le informazioni 45 7.2. L’analisi delle informazioni 46 7.3. La stesura del rapporto 47

8. Criteri di qualità di un focus group e di una campagna di focus group 49 8.1. Operare in vista della qualità 49 8.2. Complementi 55

Bibliografia 57

4

5

Presentazione

di Mauro Niero

La comunicazione come base del lavoro interdisciplinare

Negli ultimi decenni è aumentata l’esigenza di mettere in comunicazione discipli­ ne dotate di tradizioni scientifiche diverse. Le scienze sociali (la sociologia, la psicologia, l’antropologia; per certi versi anche l’economia) si trovano così ad operare entro pro­ grammi di ricerca promossi da esperti di scienze dell’organizzazione aziendale, della formazione, dell’informazione, della medicina, etc. In questo mix di saperi che si sono sviluppati in modi relativamente estranei l’uno rispetto all’altro, viene spesso richiesto di fornire evidenze reciproche sulla consistenza delle informazioni prodotte, e questo dà luogo ad una serie di “intrusioni” disciplinari che costringono ad uscire dal convenzionale e dal dato–metodologicamente–per–scontato, rendendo espliciti i criteri di scientificità adottati.

La tecnica dei focus group costituisce un esempio emblematico. Tradizionalmente viene usata nel marketing, nella progettazione e nella formazione aziendale, terreni su cui i ricercatori sociali debbono cimentarsi accanto ad una serie innumerevole di culture scientifico–professionali (dagli ingegneri, agli economisti aziendali, ai formatori, ai pro­ gettisti d’ambiente). Nell’esperienza specifica dell’autrice di questo booklet i focus group vengono usati nella formazione in campo medico–sanitario, nell’analisi della qualità della vita correlata alla salute, nelle ricerche di evidence–based medicine, in progetti di ricerca condivisi, nel corso degli anni, con l’estensore di questa presentazione. Gli esperti con i quali ci si confronta in questi progetti, che hanno sempre una natura interdisciplinare, in­ cludono spesso operatori del marketing, farmacologi, amministratori, e soprattutto esponenti della scienza medica (dai ricercatori clinici ai medici di base).

L’accettazione di tecniche qualitative come il focus group da parte di questi refe­ renti avviene con molta cautela, nonostante in campo medico la letteratura abbia registrato, negli ultimi anni, un costante aumento degli studi effettuati attraverso i focus group, e l’autorevole British Medical Journal abbia dedicato, qualche anno fa, un nume­ ro speciale alle tecniche qualitative derivate dalle scienze sociali, fra le quali spiccava appunto il focus group (Mays e Pope, 1996). Tuttavia, le domande che vengono poste da parte del campo medico (in questo caso; ma che potrebbe essere allargato ad applicazioni in molti altri campi) riguardo a queste tecniche di provenienza aliena sono spesso le se­ guenti: «Qual è il loro livello di affidabilità? Qual è la generalizzabilità di queste informazioni? Quanto sono oggettive? Quanto sono scientifiche?»

Ad alcune di queste domande risponderà la Oprandi nel suo saggio. Per altre, so­ prattutto quelle riguardanti l’oggettività e la scientificità, è opportuno fornire qualche indicazione preliminare, riguardante le radici delle tecniche qualitative e i loro rapporti con le tecniche quantitative nelle tradizioni delle scienze sociali.

6

Tradizioni metodologiche nelle scienze sociali

Occorre cominciare affermando che all’interno delle scienze sociali vi sono due indirizzi metodologici (si potrebbe dire paradigmi) diversi e spesso concorrenti (in questo caso mi riferirò prevalentemente alla sociologia, ma mutatis mutandis, la questione vale anche per la psicologia e per altre scienze sociali).

Le due tradizioni alle quali si rifanno questi due paradigmi sono quella ermeneuti­ ca, o umanistica, o aristotelica da una parte; positivistica o scientistica, o galileiana, dall’altra (vedasi per una sintesi: Statera, 1984; Niero, 1993; etc.).

Seguendo questa seconda tradizione, fra le due guerre si è avuto un enorme svi­ luppo dei metodi di ricerca sociale quantitativi (dando luogo ad una sorta di disciplina a sé stante: Coleman, 1986), amplificato in tempi più recenti dal supporto di nuove e sofi­ sticate tecnologie statistiche e dall’adozione dell’informatica nel trattamento dei dati.

La metodologia quantitativa, grazie alla sua tradizione di riferimento, sembra ri­ sultare in una metodologia più facilmente comunicabile a chi si occupa di scienze naturali perché per buona parte ne condivide i canoni. La forte base statistica le conferisce una certa trasversalità disciplinare e le procedure che utilizza presentano molte somiglianze con quelle adottate in altre scienze sperimentali. Possiede criteri di valutazione della qua­ lità della conoscenza condivisi e ufficializzati (ad esempio i criteri psicometrici della American Psychological Association) di cui si occupano delle associazioni internazionali che curano la precisione dei concetti e la terminologia. Non sono molti i metodologi so­ ciali che condividono integralmente l’idea di monismo metodologico, vale a dire di universalità e unicità interdisciplinare del metodo scientifico (il termine è di Von Wright, 1977, ma l’idea è ricorrente, si veda ad esempio Nadel, 1949; Hempel, 1942; Popper, 1969; vedasi anche Gasperoni e Marradi, 1996). L’inquietudine dei sociologi è partico­ larmente rivolta al pericolo (più che giustificato) di feticizzare il metodo a scapito della sua utilità conoscitiva (Toulmin, 1972; Mills 1959). Ma tutto sommato le regole metodo­ logiche “a monte” permettono di documentare la ragionevolezza di scelte, anche trasgressive, adottate nel disegno di una ricerca, e gli eventuali margini di arbitrarietà so­ no virtualmente circoscrivibili e soprattutto giustificabili.

La radice umanistica è invece alla base dell’altro tipo di tradizione. In sociologia viene fatta risalire a Max Weber, ma le prime consistenti applicazioni empiriche avvenne­ ro con la cosiddetta “Scuola di Chicago”. Del lavoro del dipartimento di sociologia dell’Università di Chicago, istituito alla fine dell’Ottocento sono testimonianza le ricer­ che di Thomas e Znaniecki (The Polish Peasant), Anderson (The Hobo), Wirth (The Ghetto), etc., effettuate negli anni Venti sui problemi di quella città, allora centro di una forte immigrazione richiamata dalla nascente industria automobilistica americana (vedasi Madge, 1966); sempre all’Università di Chicago fece capo, successivamente, la corrente dell’interazionismo simbolico, in particolare di Mead, Blumer e Goffman (vedasi ad e­ sempio Lallement, 1993); di provenienza europea, anche se sviluppate negli Stati Uniti, furono invece le traduzioni sociologiche del pensiero fenomenologico di Husserl (Shutz; Berger e Luckman, Giddens, etc.; vedasi Jedlowski, 1999).

I metodi di ricerca che si rifanno a questo filone poggiano sulle caratteristiche ermeneutiche della propria tradizione. Max Weber (1958), in particolare non amava trac­ ciare confini rigidi fra quella che definì la sociologia comprendente e la tradizione scientista, e preferiva vedere una continuità fra scienze della natura e scienze dell’uomo in termini metodologici. Queste ultime, in particolare, disporrebbero tuttavia di un plus

7

rispetto alle scienze naturali, dato dalla facoltà di 'comprendere', vale a dire di poter in­ terpretare il mondo sociale per il fatto stesso di appartenervi. Poco sul piano metodologico venne prodotto dalla scuola di Chicago, che mostrò di dare importanza ai problemi studiati, più che alle metodologie. Confini più profondi rispetto alla metodolo­ gia di derivazione scientista furono invece tracciati in parte con il lavoro di Blumer e Goffman e con quello del filone fenomenologico. Ma, più ancora che dagli autori citati, questo solco fu tracciato dall’elaborazione metodologica qualitativa, fiorita soprattutto negli anni Settanta (ved. ad esempio Glaser e Strauss, 1967; Filstead, 1970; Bogdan e Taylor, 1975; Schwartz e Jacobs, 1979; etc.).

I presupposti di questo filone si basano sull’idea che la realtà sia costruita social­ mente dagli attori (genericamente ‘soggetti agenti’, secondo la concettualizzazione sociologica), e che i metodi di ricerca debbano cercare di cogliere i modi in cui essi ren­ dono sensate le loro azioni. Ne sono corollari: il fatto che tale realtà venga costruita mentre la si verbalizza (vedasi anche Gadamer, 1972; Crespi, 1989; etc.) e il fatto che un’azione sia 'situata' e perciò comprensibile solo attraverso il suo contesto. Ne deriva che, per penetrare il mondo degli attori e della realtà sociale da essi costruita, occorre che i ricercatori utilizzino tecniche capaci di operare sul loro stesso piano comunicativo. Va da sé che questi metodi hanno un carattere qualitativo (utilizzando il linguaggio natu­ rale anziché notazioni numeriche o logiche); si basano sulla relazione diretta (come ad esempio nella in–depht interview) e spesso anche sulla condivisione dell’esperienza quo­ tidiana (come avviene ad esempio con il metodo dell’osservazione partecipante) con i soggetti che studiano; debbono adottare un massimo di flessibilità e un atteggiamento e­ splorativo. Perciò si può comprendere come essi diano luogo a strategie dai criteri difficilmente codificabili, spesso definiti o creati di volta in volta dal ricercatore; altrettan­ to spesso, però, si assiste anche al rifiuto di codificarle per non compromettere la loro efficacia relazionale (questo sembra essere l’atteggiamento, ad esempio, di Schwartz e Jakobs, 1979). Stesso discorso riguarda il problema dell’interpretazione dei materiali prodotti, che nominalmente tendono a rifuggire da standard predeterminati.

Si potrebbe dire che la fuga dal feticismo del metodo, di cui si accusano i cultori della ricerca quantitativa, si traduca spesso, nella cultura dei metodi qualitativi, in un fa­ stidio anti­metodologico.

Ciò permette certamente di far prevalere l’oggetto di analisi sulle procedure, ma a scapito della trasmissibilità e della controllabilità esterna della conoscenza. E questo ha forti ripercussioni sulla possibilità di comunicare la conoscenza scientifica prodotta, nei contesti di cui si diceva in apertura. Ciò giustifica pertanto la riluttanza da parte di molti ricercatori sperimentali ad accettare le conclusioni di ricerche di questo tipo e le accuse (velate o esplicite) di arbitrarietà rivolte nei loro confronti.

Conflitti e somiglianze

Fra i punti di vista degli esponenti di queste due tradizioni non vi sono solo diffe­ renze, ma anche una accesa conflittualità che si è centrata sulla diatriba metodi qualitativi vs. metodi quantitativi. Il singolare titolo Epistemologia della tolleranza dato dal socio­ logo italiano C. Cipolla (1997) ad una sua monumentale opera, ha appunto il senso di cercare delle mediazioni fra queste due tradizioni in conflitto.

Personalmente, al di là dell’uso consolidato della contrapposizione qualità– quantità, sono piuttosto scettico sul fatto l’uso dei numeri costituisca il vero discrimine fra questi due mondi.

8

Qualche esempio. La network–analysis (usata per studiare una quantità di feno­ meni, dal mercato alle relazioni di piccolo gruppo), che è erede della sociologia formale di G. Simmel (sociologo classico di tradizione comprendente), poggia oggi ampiamente sull’algebra delle matrici e sulla teoria dei grafi (vedasi ad esempio Chiesi, 1980). La content analysis, della quale ci si avvale per elaborare le informazioni di indagini qualita­ tive (compresi i risultati dei focus group) e che costituisce un’eredità della tradizione ermeneutica, è largamente basata su numeri (vedasi Krippendorf, 1983). Anche della ca­ se analysis (analisi di casi unici), che si usa nell’analisi organizzativa e che Boudon escludeva dalla portata della quantificazione, si preferisce oggi dire che essa costituisce un punto di incontro fra metodi qualitativi e quantitativi (Yin, 1994). Altre tecniche di­ chiaratamente qualitative come il Delphi (una tecnica per la produzione di consenso, che è stata usata, fra l'altro, in medicina per costruire i criteri diagnostici dell’IBS: ved.Thompson, Longstrath, Drossman, 1999; per gli aspetti metodologici vedasi Niero, 1994, 1999) e la conversation analysis usata nell’etnometodologia (una sociologia di matrice strettamente fenomenologica), prevedono ampiamente l’uso di numeri. L’elenco potrebbe continuare e anche essere visto dall’altro versante della barricata, dove trove­ remmo un ampio uso (e non potrebbe essere diversamente) di categorie qualitative che si spingono fin dentro i meandri della quantificazione e della costruzione delle variabili (si veda il dibattito sulla misurazione nelle scienze sociali: Galtung, 1965; Blalock, 1969; Perrone, 1977; Marradi, 1980, 1981, 1982).

Ma il ragionamento potrebbe essere spinto su un piano di maggior sistematicità chiedendosi se, al di là dei numeri, si possano tracciare delle differenze sistematiche fra queste tradizioni sul piano delle metodiche e delle tecniche usate.

Anche qui, come mostra Cardano (1994), le somiglianze sono molte e singolari. In genere, come si diceva sopra, i metodi quantitativi prevedono l’uso di una sequenza classica, quella della survey (la tipica ricerca con questionario) e più in generale dei me­ todi sperimentali usati in scienze non sociali, che consiste ne: a) la definizione dei concetti (ciò che si desidera analizzare); b) la formulazione delle ipotesi (congetture sulla spiegazione del perché un evento ha luogo); c) la scelta del metodo di verifica; d) la co­ struzione degli strumenti di analisi; e) la scelta del campione; d) la rilevazione dei dati; f) l’elaborazione dei dati; g) la loro interpretazione, verifica delle ipotesi e generalizzazione (si vedano, con scostamenti vari, i diversi manuali, dal Goode & Hatt, 1952, al Bailey, 1982). Secondo questa accezione della metodologia, la ricerca dovrebbe, in certo qual modo, essere preformulata (secondo le categorie del ricercatore); gli enunciati prodotti dovrebbero avere un carattere “pubblico” ed essere confermati attraverso dati empirici.

Per quanto riguarda i metodi qualitativi, una delle rare enunciazioni procedurali proviene da Glaser e Strauss (1967) nel loro lavoro sulla grounded theory. Per questi au­ tori, le fasi della ricerca non obbedirebbero ad una vera e propria scansione temporale (o potenzialmente tale), e alcune di esse potrebbero avere, se non un carattere di contempo­ raneità, certamente di reversibilità. Si potrebbe meglio parlare, pertanto, di 'criteri', che governano prescrizioni o opportunità di comportamento del ricercatore. La metodica può essere sintetizzata come segue: a) first–hand involvement, immersione immediata nel campo di indagine con l’innesco di relazioni in–process; b) individuazione di quelli che Blumer chiama sensitizing concepts, vale a dire delle preconcezioni di rilevanza lasche, che servono da guida al ricercatore e che lo possono aiutare nel primo impatto con il campo di indagine; c) codifica “saturazione”, che consiste nel confronto fra i concetti preformulati del ricercatore con il materiale via via raccolto; d) astrazione e accostamen­

9

to delle categorie rilevate, a forme affini (analytic memos); e) individuazione di ipotesi costruite su una (o due) teorie rilevanti che nascono dall’accostamento fra le diverse ca­ tegorie analizzate; f) generalizzazione e confronto con teorie precedenti (Cardano, 1994).

Le diversità nei linguaggi sembrano abbastanza evidenti, ma non è altrettanto evi­ dente che essi esprimano cose completamente diverse. P. Lazarsfeld, forse il sociologo che più ha contribuito alla costruzione della metodologia quantitativa, in un saggio di ap­ profondimento propone la seguente scansione: 1) rappresentazione figurata dei concetti (imagery); 2) scomposizione di ciascun concetto in più dimensioni; 3) scelta degli stru­ menti di rilevazione, gli indicatori; 4) ricomposizione delle misure in un singolo indice. Si può sfidare chiunque a non vedere somiglianze fra l’imagery proposta da questo autore e i sensitizing concepts della grounded theory. Il discorso potrebbe continuare per quanto riguarda la preformulazione della ricerca in termini di ragionamento ipotetico deduttivo, fino a concludere che il ricercatore qualitativo non si muove nel vuoto di ipotesi (come è stato mostrato da diversi lavori, ad esempio Cardano, cit.); d'altra parte il processo di co­ struzione delle ipotesi non avviene completamente all'inizio della ricerca quantitativa, ma la accompagna nel suo svolgersi; certamente nel primo caso vi è maggiore flessibilità, meno formalismo, ma alcuni processi logici sono simili fra i due tipi di metodo.

Le tecniche rappresentano un altro versante sul quale sarebbe possibile, se non trovare omogeneità, almeno ragionevolmente falsificare ipotesi di una loro totale diver­ genza. Sulle tecniche di trattamento dei dati vi è un’indubbia differenziazione fra qualità e quantità, che però non è così esiziale come sembra. Si è già detto, a questo proposito, dell’uso della quantificazione. Si può solo aggiungere che, per la sistematizzazione e il trattamento di dati qualitativi, anche chi considerasse eretico sposare la trattazione di La­ zarsfeld su Le funzioni dell’analisi qualitativa (1967), potrebbe trovare buoni spunti nei lavori di Huberman e Miles (1983, 1994), i quali pur adottando i canoni della grounded theory e della ricerca qualitativa in generale, propongono una sistematizzazione che comprende la costruzione di database con informazioni qualitative, la riduzione dei dati, la loro analisi relazionale. Ci troviamo di fronte, in questo caso, a tecniche governate in modo ragionato, che però tendenzialmente producono risultati simili a quelli delle più so­ fisticate tecniche statistiche, flow charts compresi. Stesso discorso si potrebbe fare per le tecniche informatizzate di elaborazione dei dati, da NVIVO al più quantitativo SPAD­T.

Ma indubbiamente, l’aspetto tecnico più evidente che separa i due approcci è quello relativo alla raccolta dei dati: per la survey, il questionario standardizzato (pure con le diverse versioni con o senza intervistatore); per i metodi qualitativi, un arcipelago di possibilità (osservazione partecipante, analisi della conversazione, intervista in profon­ dità, materiali biografici, immagini e, appunto, focus group). Qui le divergenze sono molto rilevanti, dato che costituiscono il terreno elettivo in cui l’azione ‘situata’ del ri­ cercatore si incontra con quella altrettanto ‘situata’ degli attori 'soggetti' di indagine. Ma si potrebbe sfatare l’idea che la discontinuità sia totale. Si pensi, ad esempio, ai problemi che nascono nella somministrazione dei questionari. Si preferisce ricordare Lazarsfeld più per l’analisi della struttura latente e per le sue applicazioni matematiche, che per il suo saggio sull’azione sociale o lo splendido articolo The Art of Asking Why, che parte da un’affermazione di premessa piuttosto 'comprendente' del tipo «una domanda non è mai la stessa se formulata a persone diverse»; questi aspetti relazionali che intercorrono nella delicata fase di somministrazione dei questionari, sulla presunta oggettività delle tecniche

10

di somministrazione, sono stati del resto sottolineati anche da contributi più recenti (ve­ dasi ad esempio Gobo, 1997; Diener, 1994).

Differenze epistemiche e conclusioni convergenti

L’aspetto sul quale le differenze fra queste due tradizioni sembrano inconciliabili è quello epistemico. Di questo si è visto in parte presentando i filoni di pensiero come due fazioni contrapposte. Questa contrapposizione prende oggi la forma della querelle fra costruzionismo e positivismo, che ripropone la tradizionale contrapposizione filosofi­ ca fra nominalismo e realismo.

Non si può qui certo riferirsi a questo dibattito, se non per flash, tenuto conto che esso non riguarda solo le scienze sociali ma le scienze in generale.

Si può sintetizzare dicendo che il costruzionismo vede la conoscenza scientifica come un costrutto del ricercatore. Con questo esso si contrappone a visioni di tipo reali­ stico, secondo le quali la conoscenza scientifica sarebbe prodotta da una realtà preesistente all’atto della ricerca. Per i sociologi, quest’ultimo punto di vista è incarnato dal positivismo classico, che può essere emblematizzato da una famosa frase di Dur­ kheim: «trattare i fatti sociali come se fossero cose» (Durkheim, 1972). Questo costituisce la clausola che porta a catalogare tutta la tradizione quantitativa e scientistica in genere come legata al positivismo durkheimiano, direttamente contrapposta a tutta la tradizione comprendente, incluse le sue riedizioni ermeneutiche più recenti (delle quali si è visto sopra).

Ritengo che l’operazione, peraltro molto frequente, sia piuttosto drastica e dub­ bia, se solo si allarga la prospettiva fuori da Durkheim (che mi sembra rappresentare un vero e proprio scheletro nell’armadio per i sociologi) o comunque al di fuori del positivi­ smo classico.

Il concetto base del costruzionismo deve molto alla sociologia e viene enfatizzato (si veda sopra) dalla sociologia fenomenologica secondo la quale, come si è visto, la real­ tà sociale sarebbe costruita dagli attori. Tuttavia, credo che esso dia luogo ad una filosofia trasversale che non si adatta a sancire una divisione fra mondi della quantità e qualità, e nemmeno a sostenere la tradizionale separazione fra tradizioni epistemiche so­ ciali che abbiamo visto sopra. L’idea di costrutto appare infatti anche in tradizioni non fenomenologiche. Cronbach e Meehl (1955), ad esempio, proposero il “costrutto” (un’entità ipotetica usata come framework per la validazione della conoscenza scientifi­ ca) come un criterio base della quantificazione psicometrica. Spostandosi fuori dalle scienze sociali, anche in tempi abbastanza lontani da noi, troviamo l’idea di logical con­ struction come riferita direttamente «ai numeri e alle loro proprietà» nei Principia Mathematica di Whitehtead e Russell (del 1910) e, a proposito del positivismo logico (di cui non sempre si hanno chiare le differenze rispetto al positivismo classico), I. Hacking (1999), un filosofo della scienza, osserva: «[...] il costruzionismo sociale (social con­ structionism) è profondamente radicato nel positivismo logico, che tanti costruzionisti dei giorni nostri dichiarano di detestare» (p. 43).

Per altri versi, tracce di realismo, come ammette C. Baraldi (1998), si trovano ampiamente nella tradizione della sociologia qualitativa, in cui «[...] il problema dell’interpretazione soggettiva viene associato a quello della conservazione dell’oggettività nel quadro di un metodo sociologico rigoroso» (p.35).

11

Il richiamo può essere buono, ad esempio per un saggio di Zoll (1997), un autore di stretta osservanza ermeneutica, il quale individua l’oggettività della conoscenza socio­ logica nel prodotto dell’interazione fra diverse interpretazioni soggettive.

Anche in questo caso, tuttavia, l’idea di oggettività è vista non tanto (o non ne­ cessariamente) come corrispondenza ad una realtà esterna, ma secondo un principio (che però è di derivazione empiristica–lockeiana) di oggettività intesa come concordanza fra le osservazioni di diversi osservatori. È questo che dà vita a ricerche diverse, ripetute, discusse, comunicate: il lavoro normale del dibattito scientifico in tutte le discipline spe­ rimentali.

Il riferimento a Zoll dimostra, tuttavia, che questo problema si sta ponendo con forza anche per i metodi ermeneutici. Nella cura di un volume collettaneo, Neresini (1997), lontano dal rinfocolare la storica polemica quantità–qualità, sottolinea la necessi­ tà di stabilire i criteri per accettare come validi gli asserti che si producono nei processi interpretativi dei fatti umani, fra i quali non esiste la sola interazione fra ricercatori e atto­ ri (osservati), ma anche quella con i destinatari della conoscenza prodotta (committenti, pubblico, scienziati, professionisti, etc.).

Come si può vedere, si torna al punto da cui siamo partiti, che riguarda il proble­ ma di fondare le esigenze di costruzione della conoscenza su regole metodologiche (o, se si preferisce, criteri di scientificità) esplicitabili come via per permettere la comunicazione scientifica.

Questa introduzione è forse esorbitante per un compendio su una tecnica di uso pratico molto diffuso quale quella del focus group. Ma il fatto che essa sia oggi tanto u­ sata significa che il messaggio delle scienze sociali circa l'esigenza di conoscere meglio i modi con cui la gente dà significato alle cose e costruisce il senso delle proprie scelte, è recepito, è importante, e si sta rivelando utile molto oltre i confini della ricerca sociale.

È un'occasione da non sprecare per intellettualismo o per moralismo. Perché que­ sto avvenga occorre sforzarsi di produrre conoscenza dandole trasparenza e controllabilità: che si preferisca chiamare questo metodo, criteri di scientificità o criteri di qualità, come farà egregiamente Oprandi alla fine del suo saggio, è irrilevante.

Questo forse è il modo più adatto per mettere in guardia dalla apparente facilità con cui il focus group si presenta al profano; e anche dall'aura di creatività che sembra circondarlo.

Capisco che esplicitare i criteri e i metodi significa anche, come dicevo all'inizio, dover tollerare intrusioni nella nostra libertà e creatività. Non vedo tuttavia come valo­ rizzare conoscenze del tipo di quelle prodotte dai focus group in altro modo. Il pericolo dell'anti–metodologia, che significherebbe certamente meno formalismo ma anche più in­ comunicabilità nel mondo della ricerca interdisciplinare, è più che reale, e per spiegarmi cito una dedica che è anteposta all’edizione americana del volume di Schwartz e Jacobs sui metodi qualitativi, che suona così: «To Alicia, who needs no 'methods' to understand others». Se ne ho capito bene il suo senso, consiglierei l’eventuale lettore di ignorare questa dedica, anche perché, altrimenti, sono certo che non si prenderebbe la briga di leggere le quattrocento pagine del volume, che vengono dopo.

12

Introduzione

Il focus group è una tecnica qualitativa per la raccolta di informazioni. Essa si basa sull'assunto che l'interazione di gruppo favorisca l'emergere di infor­

mazioni originali. Il rinnovato interesse nei suoi confronti rientra in un movimento più generale di

rivalutazione delle tecniche qualitative nell’ambito delle scienze sociali. Sempre di più i ricercatori tendono a privilegiare tecniche interpretative capaci di andare in profondità, da usare in connubio o in alternativa ad approcci quantitativi in modo da superare i loro limiti (Lunt e Livingstone, 1996).Non si tratta di una tecnica nuova. La sua paternità vie­ ne, infatti, attribuita al sociologo americano R. Merton e fatta risalire al 1941 (Stewart, Shamdasani, 1990; Krueger, 1994). Fu in quell'anno che P. Lazarfeld invitò appunto R. Merton a partecipare ad uno studio sulla valutazione di alcuni programmi radiofonici da parte del pubblico. Alle persone coinvolte si chiedeva di ascoltare dei programmi radio­ fonici e di premere un bottone rosso o verde a seconda che ciò che sentivano suscitasse in loro reazioni negative o positive. Seguiva, quindi, una discussione di gruppo sui motivi di tali reazioni.

A partire da questa esperienza venne messa a punto una vera e propria tecnica denominata focussed interview (Merton, Fiske, Kendall, 1956).

Nei paragrafi che seguono, si cercherà di dare conto dello straordinario interesse suscitato dal focus group, fornendo una panoramica degli utilizzi cui si presta. Con que­ sto contributo si vuole anche fornire a quanti si accostano per la prima volta a questa tecnica alcuni elementi di riflessione per evitare che ne venga fatto un uso sconsiderato, nonché alcuni strumenti elementari per potersi avviare al delicato compito di organizzare e condurre una campagna di focus group o un focus group singolo.

Per utilizzare appieno le potenzialità di qualunque tecnica è necessario coglierne lo spirito e chiarire fin dall’inizio che cosa ci si possa aspettare e che cosa non ci si debba aspettare dalla sua applicazione. Il paragrafo che segue inizierà quindi con una rassegna delle definizioni che ne sono state date, delle sue applicazioni, dei contesti in cui utiliz­ zarla, dei suoi vantaggi e dei suoi svantaggi.

13

14

1. Aspetti preliminar i

1.1. Definizioni

Abramczyk (1995) definisce il focus group come «[...] una tecnica a base feno­ menologica per la raccolta di dati qualitativi in un contesto di gruppo». Tale definizione chiarisce immediatamente la natura delle informazioni che il focus group permette di rac­ cogliere: essi hanno a che fare con il perché dell’oggetto di studio piuttosto che con il quanto. In secondo luogo, la definizione introduce altri due elementi distintivi, e cioè che questi dati, per così dire, emergono dal gruppo e sono per quanto possibile 'naturali' ov­ vero hanno subito il minore condizionamento possibile da parte del ricercatore.

Altri autori preferiscono definire il focus group attraverso l’elencazione delle sue componenti. Per Krueger «i focus group tipicamente hanno sei caratteristiche. Queste ca­ ratteristiche sono legate agli ingredienti di un focus group: (1) un certo numero di persone, (2) riunite in una serie di gruppi, (3) che possiedono certe caratteristiche e (4) forniscono dati (5) di natura qualitativa (6) in una discussione centrata su un argomento» (Krueger 1994, p. 16).

Goldman (1962) preferisce invece parlare di interviste di gruppo in profondità (Group Depht Interview) e le definisce attraverso l’analisi del significato dei tre termini che ne compongono la denominazione. Un gruppo è costituito da «un certo numero di persone che interagiscono fra di loro e che hanno un comune interesse»; in profondità implica che si «cerchino informazioni più profonde di quelle solitamente accessibili a li­ vello delle relazioni interpersonali»; un’intervista implica la presenza di un moderatore che «si serve del gruppo come strumento per far emergere delle informazioni». Il termine focus nel titolo completo, infine, implica semplicemente che l'intervista è limitata a pochi argomenti.

Più recentemente, Kitzinger ha definito il focus group come «una forma di inter­ vista di gruppo che si basa (capitalises) sulla comunicazione fra partecipanti alla ricerca per generare dati». Questa definizione sottolinea il fatto che, pur trattandosi di un’intervista, i dati emergono dalla discussione di gruppo. Si tratta di un elemento talvol­ ta ignorato nelle applicazioni dei focus group alle ricerche di marketing. L’abilità dell’intervistatore (chiamato moderatore o facilitatore) sta infatti nel dare avvio ad una discussione fra i partecipanti al gruppo, dalla quale emergeranno le informazioni di cui ha bisogno. L’interazione è quindi un elemento chiave del focus group.

Alcuni autori considerano il focus group come una simulazione del processo di formazione delle rappresentazioni sociali, che si vanno delineando attraverso le conver­ sazioni quotidiane (Liebes e Katz, 1990). Discutendo con gli altri le persone hanno l’opportunità di farsi un’opinione riguardo un certo argomento in un modo molto pros­ simo al processo naturale di formazione delle opinioni. Nel corso delle interviste individuali, invece, le persone si suppongono avere fin dal principio una loro opinione sugli argomenti toccati.

15

1.2. Quando utilizzare il focus group

Il focus group è uno strumento, e come tutti gli strumenti, perché possa dare ri­ sultati soddisfacenti, va utilizzato per scopi appropriati. Ci si deve perciò assicurare che gli obiettivi della ricerca siano coerenti con le caratteristiche della tecnica. Volendo bana­ lizzare, non ci si può lamentare di come sia stato piantato un chiodo se per piantarlo si è utilizzata una pinza.

Quali sono dunque gli scopi per cui il focus group è appropriato e quali quelli per cui non lo è? Nella tavola 1 sono stati sintetizzati i principali scopi per cui è adeguato l’utilizzo dei focus group nonché gli scopi e le condizioni in cui è preferibile il ricorso ad altre tecniche.

Tav.1. Appropriatezza e inappropriatezza dei focus group

È appropriato ricorrere ai focus group: È inappropriato il ricorso ai focus group: Quando si vogliano raccogliere delle informazioni di carattere generale su un fenomeno nuovo o raro. Per effettuare studi esplorativi preliminari che pos­ sono dare indicazioni su come procedere nella ricerca o nell’intervento. Per conoscere il linguaggio con cui la gente parla di un certo argomento. Ciò può essere d’aiuto nel costruire questionari o altri strumenti da utilizzare in indagini di tipo quantitativo. Per formulare ipotesi di ricerca da sottoporre poi a verifica. Per stimolare la produzione di nuove idee. Per conoscere la prospettiva della popolazione sul­ l'oggetto di studio. Per diagnosticare i potenziali problemi di un servi­ zio, prodotto, programma o altro. Per studiare problemi sociali complessi. Nel caso in cui si sia creata una lontananza comu­ nicativa fra categorie sociali. Quando sia necessario recuperare il contatto con il modo di pensare e il linguaggio dei soggetti cui un pro­ gramma o un intervento si rivolge, come nel caso delle campagne di prevenzione. Per interpretare i risultati di indagini di tipo quan­ titativo. Quando si vogliano raccogliere informazioni da speciali popolazioni come bambini, anziani, o a­ nalfabeti.

Nel caso in cui l'ambiente sia carico di tensione e un aumento delle informazioni non farebbe che accrescerla. Bisogna ricordare che il focus group non è una tecnica per prendere decisioni, né per risolvere conflitti. Quando si abbia bisogno di proiezioni o stime sta­ tistiche. Né il numero di partecipanti ai focus group, né le modalità di campionamento sono tali da consentire di effettuare operazioni di questo tipo. 1

Quando oggetto di indagine sono le storie perso­ nali o non è possibile garantire la riservatezza di informazioni delicate. Per verificare ipotesi. In questo caso il ricorso ad un approccio quantitativo è d’obbligo, anche se un primo riscontro può venire dai focus group. Quando altre tecniche possono fornire risultati di qualità migliore o della stessa qualità a costi più contenuti.

1 Le circostanze elencate in questi due punti individuano le condizioni per l’applicazione di tec­ niche Delphi o derivate dal Delphi. Su questa tecnica ved. Niero 1993; 1999. Una discussione sulle differenze fra queste tecniche è riportata anche da Corrao, 2000.

16

1.3. Campi di utilizzo

Come si è visto, vi sono moltissime circostanze in cui è appropriato il ricorso ai focus group e molti sono gli ambiti in cui questa tecnica ha trovato applicazione.

Può essere utilizzata da sola o più spesso insieme a tecniche quantitative. Nel marketing i risultati dei focus group vengono direttamente utilizzati per predisporre campagne pubblicitarie, valutare il possibile impatto di uno spot, verificare quali sono i trend emergenti, valutare i criteri su cui si basano le scelte dei consumatori, per citare so­ lo alcuni esempi.

Il focus group trova applicazione anche nella raccolta delle informazioni necessa­ rie ad approntare strumenti di indagine quantitativa o per monitorare alcune sue fasi e risultati.

In fase preliminare: per identificare gli elementi costitutivi del problema in ogget­ to; per stabilire il linguaggio più appropriato al target dell’indagine; per identificare i punti critici o più controversi.

In fase di ricerca in atto: per verificare l’andamento della raccolta dei dati e stabi­ lire se sia il caso o meno di introdurre delle modifiche allo strumento utilizzato.

In fase di valutazione dei risultati raggiunti: per verificare se l’interpretazione dei dati effettuata dal ricercatore trovi conferma presso la popolazione oggetto di indagine; per capire il significato dei risultati; per stabilire se l’indagine sia stata esaustiva; per iden­ tificare i punti critici dello strumento approntato; per stabilire quali siano le conseguenze o le conclusioni che si possono trarre dai risultati dal punto di vista delle azioni da intra­ prendere; per stabilire quali possano essere le reazioni della popolazione target alle azioni programmate a partire dai dati raccolti.

Evidentemente questo elenco non esaurisce la gamma delle possibili applicazioni di questa tecnica. Essa è utilizzata e continua a venire utilizzata con profitto nell’ambito dell’educazione, della comunicazione, della valutazione, della pubblicità e delle scienze sociali in genere. Gli ultimi 10 anni hanno visto la sua diffusione anche in ambito medico: nella valutazione degli outcome sanitari; nella revisione dei criteri di qualità; nella defini­ zione di linee guida; nel trovare il linguaggio per parlare di prevenzione; nel marketing farmaceutico; negli studi di evidence based–medicine. Il suo uso è particolarmente rac­ comandato allo scopo di favorire l’adozione di prospettive centrate sul paziente, cliente o cittadino da parte dei servizi sanitari. Il College of Health (2001), a riguardo, elenca le seguenti finalità:

­ Incentivare e aiutare i servizi ad essere centrati sugli utenti; ­ Fornire informazioni agli utenti e ai professionisti del SSN in modo da permettere l’uso più efficace possibile del servizio;

­ Migliorare la qualità e la rispondenza dei servizi attraverso la ricerca e il monitoraggio degli utenti;

­ Addestrare i professionisti sulle tecniche di ricerca basate sul punto di vista degli utenti e sul loro coinvolgimento;

­ Rappresentare gli interessi di coloro che usano i servizi, presso i decisori delle politiche sanitarie.

17

18

2. Il disegno della campagna di focus group

2.1. La definizione del problema

La chiave del successo di un focus group risiede in primo luogo nella definizione chiara degli obiettivi della ricerca. Bisogna sapere quali sono le informazioni che si vo­ gliono ottenere. Per quanto ciò possa sembrare scontato, non lo si sarà mai ripetuto abbastanza. Il focus group è una tecnica che consente di affrontare pochi e ben definiti argomenti per volta. Per questo è indispensabile delimitare con chiarezza il proprio cam­ po di interesse. A questo scopo è utile che l'équipe di ricerca si ponga alcune domande di fondo. Krueger (1994, p.43) suggerisce che il gruppo di ricerca risponda per iscritto ad alcune domande fra cui.

­ quali sono le ragioni per cui si è deciso di procedere allo studio? ­ quali sono le informazioni importanti che si vogliono ottenere? ­ chi dovrà usare le informazioni? ­ come dovranno essere usate le informazioni?

La natura dell’oggetto della ricerca unitamente agli obiettivi informativi condizio­ nano e guidano molte delle scelte relative alla organizzazione dei focus group. Come si avrà modo di vedere successivamente, la natura della popolazione target è un altro po­ tente fattore che incide sulla composizione dei focus group e sul disegno campionario complessivo.

2.2. Strategie campionarie in una campagna di focus group 2

2.2.1. Quanti focus group ?

È raro che un singolo focus group sia sufficiente a dare una risposta a tutte le domande del gruppo di ricerca. Fra i casi particolarmente critici vi è quello in cui i parte­ cipanti potenziali al focus group siano tutti, per definizione, componenti della popolazione target, come ad esempio quando si abbia a che fare con un’équipe di lavoro, oppure con popolazioni poco numerose.

In generale è consigliabile comunque prevedere vari focus group, anche per il ca­ so in cui un focus group sia poco riuscito per la presenza di persone timide o di una figura dominante che abbia condizionato l’andamento della discussione.

2 Il contenuto di questo paragrafo è frutto di una riflessione comune originale della scrivente e di M.Niero.

19

La prima domanda che si deve porre il ricercatore è tuttavia: quanti focus group sono necessari per essere sicuri di non aver trascurato nessun aspetto della questione che si sta indagando?

Questa domanda implica il riferimento ad una campagna di focus group, vale a dire ad un pacchetto di focus group, in un numero tale da poter raggiungere gli obiettivi dello studio. Si tratta pertanto di costruire un disegno campionario sufficiente, ma basato su quali criteri? Si può parlare di campionamento?

In generale, i criteri del campionamento qualitativo (di cui si vedrà meglio alla prossima sezione) sono molto diversi da quelli del campionamento quantitativo. Alcuni autori (Yin, 1999) negano che si possa parlare di campionamento qualitativo, proponen­ do invece il concetto di replication (replica). In effetti, il campionamento statistico ha scopi diversi da quello qualitativo. La differenza principale consiste forse nel fatto che il campionamento statistico ha lo scopo di stimare distribuzioni, mentre il campionamento qualitativo ha lo scopo di creare costrutti. Inoltre il campionamento quantitativo si regge sulla logica dell’equiprobabilità delle unità dell’universo di essere incluse nel campione, quello che viene chiamato criterio della casualità. Il campionamento qualitativo è invece purposeful (intenzionale) e avviene secondo criteri stabiliti dal ricercatore.

Ma vi sono anche dei criteri che sono simili, fra le due strategie. La conduzione di una campagna di focus group implica risorse in termini di costi

e di tempi. Ottimizzare l’informazione prodotta con il numero minore di focus group è un criterio generale di efficienza, e questo accomuna il campionamento qualitativo con quello statistico.

Divergenze, anche se apparentemente assonanti, fra campionamento qualitativo e quantitativo si trovano per quanto riguarda la variabilità. Nel campionamento statistico, la “varianza” di un parametro nell’universo, rappresenta la componente principale della logica campionaria. Maggiore è la varianza statistica di un parametro nell’universo, mag­ giore è l’errore di campionamento e maggiore il numero di casi da includere nel campione per tenere l’errore sotto controllo. Nel caso delle tecniche qualitative non si tratta di stimare un parametro, ma di includere i diversi concetti–opinioni–punti di vista. Tuttavia i costrutti che si raccolgono attraverso i focus group presentano una certa va­ riabilità, che per evitare confusioni, preferiremmo chiamare “varietà”. Se ripetendo un focus group due o tre volte, scaturiscono sempre le stesse cose, si può dire che vi è una bassa varietà di questi concetti. Ma se dopo tre focus group, continuano ad affiorare idee nuove e diverse, si può dire che esiste una varietà del costrutti elevata. Pertanto, maggio­ re è la varietà con cui si presentano i concetti o costrutti che si stanno indagando (naturalmente fatta salva la loro pertinenza), maggiore è il numero di casi da sondare.

Una delle differenze più importanti fra campionamento qualitativo e quantitativo, tuttavia è che l’errore nel caso del campionamento statistico può essere quantificato in anticipo e usato come criterio di decisione sulla dimensione da dare al campione, mentre nel campionamento qualitativo no (tuttavia, si ricordi che anche gli statistici debbono “stimare” la varianza a priori, per quantificare le dimensioni del campione, e che non sempre esistono strategie molto sistematiche per farlo). In entrambi i casi, cioè vi sono dei fattori imponderabili che possono diventare evidenti solo mentre si fa la ricerca, e in modo definitivo (in entrambi i casi) solo quando essa è terminata (vedasi ad esempio Corbetta, 1999).

20

Fig.1. Numerosità campionaria per la stima di una media di 82 mmHg di pressione dia­ stolica (DBP) in una popolazione di maschi italiani (sd stimata=mmHg 25). (nostra simulazione).

Fig.2. Numero di focus group per valore marginale dell’informazione (nostra simulazione)

area di convenienza

area di convenienza

21

Le figure 1 e 2 mostrano degli esempi delle due logiche. La prima si riferisce ad un e­ sempio virtuale in cui la curva delle dimensioni del campione è stata stabilita con parametri stimati utilizzando i calcoli canonici di stima dell’errore campionario. Nella fat­ tispecie si tratta di stimare i valori della pressione diastolica (DBP) in una popolazione di maschi di età definita. La media ottenuta dall’osservazione campionaria è di 82 mmHg; la deviazione standard stimata è di 22mmHg. L’errore di campionamento è in relazione alla numerosità del campione, e ha l’andamento che si vede alla fig.1. Più grande è il campio­ ne, minore è l’errore della stima.

Se la deviazione standard fosse più elevata, l’errore della stima sarebbe più eleva­ to a parità di numerosità del campione, e viceversa. Ciò che mostra la figura è che esiste un’area di convenienza, oltre la quale conviene non aumentare la numerosità del campio­ ne, dato che si otterrebbe una riduzione dell’errore troppo piccola, a fronte dei costi crescenti che l’inclusione di nuovi casi comporterebbe.

La fig.2, riferita ad un campionamento di tipo qualitativo, riporta un esempio al­ trettanto virtuale, che mostra la probabile curva dell’incremento informativo che ci si può aspettare aumentando il numero di focus group nel corso di una campagna (bit è un’unità di misura usata nella teoria dell’informazione, che qui va considerata a titolo puramente esemplificativo). Tuttavia mentre nel campionamento statistico l’errore calcolabile a prio­ ri mostrerebbe sempre la stessa curva (fatti salvi varianza, probabilità, etc.), nel campionamento qualitativo la forma della curva dell’incremento informativo (in termini ideali) non potrebbe che essere determinata empiricamente, a mano a mano che vengono completati i focus group.

Quello mostrato dalla figura 2, in ogni caso è un andamento tipico. È assoluta­ mente impensabile che in una campagna di 10 focus group la quantità di informazione aggiunta in ogni focus group sia costante. Ci si può attendere che il primo focus group accumuli un massimo di informazione, che diverrebbe molto inferiore nel secondo, e via via nel terzo, fino a che la quota informativa aggiunta tenda a divenire minima (come ap­ punto mostra la curva).

Per converso pertanto con l’incremento del numero di focus group l’area di so­ vrapposizione e di informazione ridondante tenderà ad espandersi. Anche qui esiste un’area di convenienza ed è quella in cui condurre ulteriori focus group comporterebbe l’aumento di tempi e costi senza però prospettare la probabilità di ricavare nuove infor­ mazioni.

Questa proprietà dell’informazione di divenire ridondante si chiama saturazione. Il concetto fu introdotto da Glaser e Strauss nel loro lavoro sulla grounded theory e uti­ lizzato successivamente da altri autori (vedasi Glaser e Strauss 1967; Bertaux, 1980; Niero 1999).

Si ha pertanto saturazione quando nuovi focus group non aggiungono informa­ zioni che non siano già emerse nei precedenti; quando l'incremento marginale di informazione è diventato molto basso, per cui sarebbe necessario un numero eccessivo di focus group per ottenere un piccolo incremento di informazione, conviene interrompere la campagna.

L'adozione del criterio della saturazione impone il monitoraggio continuo delle informazioni che si vanno raccogliendo in modo da riuscire a capire in tempi rapidi quan­ do, al di là delle modalità con cui i concetti vengono espressi, non c'è stato un reale incremento di conoscenza.

Per esperienza si consiglia un pacchetto minimo di 3 focus group dopo i quali vanno tirate le somme e prese delle decisioni. Va da sé che un solo focus group anche a titolo esplorativo non è sufficiente a predire quando avverrà la saturazione.

22

Questo criterio ha dei richiami, seppur lontani, a quello usato nel campionamento quantitativo. In quel caso l’incremento delle dimensioni del campione si interrompe quando il ricercatore decide che aumentarle non comporterebbe una riduzione apprezza­ bile dell’errore di campionamento (compatibilmente con i costi). Nelle figure 1–2 sono state indicate come “area di convenienza” le numerosità in corrispondenza alle quali è opportuno prendere la decisione di interrompere l’inclusione di casi o la campagna di fo­ cus group.

Ma quali sono le fonti di possibile varietà delle informazioni che si possono rac­ cogliere con i focus group ?

Sono sostanzialmente due: la complessità del tema e la varietà nei casi. Per tenere sotto controllo la varietà si possono pertanto adottare delle strategie

che sono diverse a seconda del fattore da cui essa dipende.

23

24

3. Disegno campionar io e ruolo della Interview Guide nella progettazio­ ne di una campagna di focus group

Il controllo della varietà dei costrutti attraverso il disegno della interview guide e l’individuazione di un congruo disegno campionario rappresentano due aspetti centrali per la progettazione di una campagna di focus group. In questo paragrafo si prenderan­ no in considerazione le principali soluzioni.

3.1 Controllo della varietà dei costrutti dovuta alla complessità del tema

La varietà generata dalla complessità del tema può essere affrontata decidendo fra due alternative.

La prima è quella di semplificare la interview guide (guida all’intervista) condu­ cendo una campagna di focus group omogenei; la seconda è quella di scomporre il tema complessivo in sotto–temi circoscritti in modo da renderli relativamente dominabili. Que­ sto può rendere necessario costruire più interview guide da somministrare nel corso di focus group paralleli.

I modelli di campagna di focus group che ne scaturiscono sono schematizzabili come segue (igA significa interview guide del tipo A; igA, igB, igC significa che la inter­ view guide è stata scomposta in tre parti, A, B, C; i numeri accanto gli acronimi fg (focus group) indicano invece la sequenza dei focus group ):

A) Sequenze di focus group con interview guide costante. La stessa interview guide vie­ ne usata per tutta la campagna, virtualmente senza variare o con variazioni minime. Teoricamente i focus group della campagna potrebbero avere luogo anche tutti nello stesso momento. Nel caso fossero invece dislocati nel tempo si possono operare delle ri­ duzioni della interview guide per i temi circa i quali si manifesti saturazione. Questo schema consente di ridurre i tempi della campagna:

igA­fg1 igA­fg2 igA­fg3 igA­fg4 igA­fgn

B) Sequenze di focus group con interview guide in serie o a spirale. La prima interview guide serve per costruirne una seconda più approfondita, e così via. È la strategia più flessibile, ma va da sé che in questo caso l’effettuazione di un focus group è condizione per effettuare il successivo:

igA­fg1 igB­fg2 igC­fg3 igD­fg4 igE­fgn

C) Sequenze parallele di focus group con interview guide diverse per ciascuna sequenza. È una composizione delle due strategie precedenti, per cui interview guide diverse ven­

25

gono articolate vengono secondo serie distinte di focus group. Questo schema cumula sia i vantaggi che gli svantaggi dei due precedenti.

igA­fg1 igA­fg2 igA­fg3 igA­fg4 igA­fgn igB­fg1 igB­fg2 igB­fg3 igB­fg4 igB­fgn igC­fg1 igC­fg2 igC­fg3 igC­fg4 igC­fgn

Questi modelli di campagna vanno considerati naturalmente come tipi ideali e la schematizzazione serve a metterne in risalto i criteri più evidenti. Il criterio della massima flessibilità va comunque tenuto presente con il presentarsi di evenienze nel corso della ri­ cerca.

3.2. Controllo della varietà dei costrutti dovuta ai casi

La varietà presente nelle individualità dei casi della popolazione target può invece essere controllata attraverso la stratificazione, vale a dire attraverso la suddivisione del campione in sottogruppi inserendo in ciascuno di essi dei casi con caratteristiche simili fra i casi che appartengono a ciascuno strato, e diverse da quelle dei casi inseriti negli al­ tri sottogruppi (anche questo criterio – massimizzare l’omogeneità “all’interno degli strati” e l’eterogeneità “fra” strati – è simile a quello per cui si adotta la stratificazione del campionamento statistico).

La varietà dovuta ai casi dipende dall'argomento che si sta affrontando. Se ad e­ sempio ci si sta occupando di verificare i cambiamenti di stile di vita che comporta per le persone l’avere una certa patologia, il numero dei focus group da organizzare sarà mag­ giore o minore a seconda di quanto questi stili di vita possano variare in termini di età, sesso e sintomatologia della popolazione colpita.

Ovviamente occorreranno meno casi se la patologia colpisce ad esempio per il 90% le donne o gli uomini di età compresa fra i 45 e i 65 anni mentre sarà maggiore se colpisce indifferentemente donne e uomini di qualunque età e condizione socio– economica.

In questo caso si può procedere attraverso uno schema del tipo che sopra è stato chiamato serie–parallelo, in cui condurre tante sequenze parallele quanti sono gli strati.

Al contrario dello schema visto sopra, in cui esplodere la interview guide signifi­ cava chiedere cose diverse per ogni sequenza parallela, in questo caso la interview guide dovrebbe essere grosso modo la stessa per ogni strato (con opportuni adattamenti) e questo potrebbe favorire l’uso del criterio di saturazione per ottimizzare l’accumulo delle informazioni. Naturalmente la interview guide può essere ridotta a mano a mano che si manifesta saturazione, in modo da rendere i focus group successivi sempre più efficienti.

Supponiamo, come nel seguente esempio di ricerca sanitaria, di decidere di strati­ ficare perché ci si aspetta che una certa patologia si presenti in modo consistentemente diverso fra maschi e femmine e/o in modo consistentemente diverso fra forme diverse manifestazioni di una stessa patologia 3 .

3 Gli esempi sono innumerevoli: le patologie bipolari in psichiatria; le forme D e C nell’IBS in gastroen­ terologia; le crisi generalizzate e parziali in neurologia per quanto riguarda l’epilessia; etc.

26

PATOLOGIA

FORMA X FORMA Y

MASCHI Strato A Strato B FEMMINE strato C Strato D

Nel caso dell’esempio si ottengono quattro strati (il simbolo S nei due esempi che seguono stanno per Strato; SA, B, C, D indicano lo strato). I modelli della campagna di fo­ cus group possono pertanto essere i seguenti:

A) Serie–parallelo per strato. Ogni strato dà luogo ad una sequenza di focus group pa­ ralleli, fino al raggiungimento della saturazione per ciascuno di essi. Lo schema consente di risparmiare tempo dato che si possono effettuare i focus group dei vari strati anche contemporaneamente. Vale anche qui tuttavia l’opportunità di ridurre la interview guide con il crescere della saturazione. Ciò permette di concentrarsi sugli aspetti apparsi meno in luce nei focus group precedenti:

SA­fg1 SA­fg2 SA­fg3 SA­fg4 SA­fgn SB­fg1 SB­fg2 SB­fg3 SB­fg4 SB­fgn SC­fg1 SC­fg2 SC­fg3 SC­fg4 SC­fgn

B) Strati in serie, parzialmente paralleli. Lo schema è uguale al precedente ma la sequen­ za di focus group può essere organizzata in modo da sfruttare meglio il criterio della saturazione mettendo in serie uno strato rispetto all’altro. Si passerà al secondo strato una volta raggiunta la saturazione nel primo (o una volta effettuati alcuni focus group del primo strato); si passerà poi ad un altro strato. Le informazioni emerse nel primo costi­ tuiranno un pool parte del quale tenderà a ripetersi nel secondo; dall’ultimo strato dovrebbero scaturire solo elementi specifici a quello strato. Se non sui tempi questo di­ segno consente di risparmiare sul numero di focus group.

SA­fg1 SA­fg2 SA­fg3 SA­fg4 SA­fgn SB­fg1 SB­fg2 SB­fg3 SC­fg1 SC­fg2

Questi modelli potranno risultare forse troppo schematici. Va detto tuttavia che i criteri che sono stati via via inseriti hanno cercato di rispondere al problema del controllo della varietà, legando il problema della varietà dovuta alla interview guide (vale a dire ai presupposti concettuali dell’analisi) a quella dovuta ai casi. Inoltre le similitudini con il campionamento statistico, offrono la possibilità, a chi ha dimestichezza con quest’ultimo, di usare delle chiavi di ricodifica una volta che ci si sposti nel campo della ricerca qualita­ tiva, che è spesso visto come governato da regole fumose e arbitrarie.

27

Occorre tuttavia dire anche che alla domanda a priori “quanti focus group ?” non si è risposto, e la discussione ha probabilmente chiarito che non è possibile fornire una risposta definitiva. Tuttavia quando visto mostra che è possibile prendere a priori (o dopo i primi test della campagna), delle decisioni su criteri ragionevoli.

Detto questo occorre anche dire che esistono diversi disegni applicabili alla ricer­ ca qualitativa, anche se non tutti utilizzabili o consigliabili per i focus group.

3.3. Altri disegni campionari

Le modalità di campionamento nella ricerca qualitativa non sono sempre al centro delle preoccupazioni dei saggi su questa materia. Tuttavia occorre segnalare che esiste una quantità di logiche che possono essere adottate, a seconda dello scopo della ricerca e a seconda delle opportunità.

Suggerimenti a proposito vengono ad esempio da Galtung (1965), Miles e Hu­ berman (1994), Marshall e Rossman (1999). Queste proposte individuano delle strategie per ciascuna delle quali si darà un breve commento. Dato che rispondono a logiche che a volte sono diverse, ma che spesso sono sovrapponibili, si cercherà di raggrupparle anche alla luce dei criteri usati nel paragrafo precedente.

Si potrebbe dire che esistono sei possibili raggruppamenti fra disegni di campio­ namento qualitativo.

A) Strategie adottate in conformità ad un costrutto iniziale. Questo gruppo di strategie riguarda la presenza di un framework teorico (che significa anche conoscenze precedenti sul tema di indagine). Questo consente di stabilire a priori delle ipotesi di varietà dei co­ strutti basando su queste i criteri di inclusione. Sotto questo profilo la letteratura propone strategie theory based, che poggiano cioè su un costrutto formulato dal ricerca­ tore. La strategia criterion oriented, che prevede uno o più criteri predefiniti per l’inclusione dei casi, ne può essere vista come la conseguenza operativa. All’interno di questo gruppo si può collocare la strategia confirming and discomfirming cases, che consiste nell’iniziare l’analisi con un costrutto abbastanza definito, costruendo poi dei successivi focus group in omogeneo o eterogeneo rispetto al primo in modo da chiarire quali siano le circostanze nelle quali il costrutto venga confermato, e quali siano le circo­ stanze nelle quali esso venga contraddetto.

B) Strategie che si basano sulla varietà prevedibile. Su questo piano i modi di inclusione e scelta dei casi danno luogo strategie che tendono ad includere la varietà come si pre­ senterà presumibilmente nella realtà analizzata e a questa categoria va ascritta una modalità chiamata random purposeful. Nel caso in cui esistano ragionevoli elementi per presumere che la varietà dei costrutti sia elevata, lo schema è lo stratified purposeful, che riporta a quanto già visto sull’uso della stratificazione nei focus group. Il termine purposeful (intenzionale) è usato per indicare che nel campionamento qualitativo un cri­ terio deve sempre essere fissato dal ricercatore, dato che non ha senso ottemperare al criterio della equiprobabilità nella inclusione dei casi come nella casualità statistica. Crite­ ri connessi a queste due strategie sono quelli che governano i modelli homogeneous e maximum variation, di cui la raccolta purpose random o stratification sono le conse­ guenze operative.

28

C) Strategie che accentuano la varietà. In questo gruppo vanno senz’altro collocate le strategie extreme e deviant case, che includono casi estremi (ad esempio le forme più gravi di malattie, o elementi organizzativi non tipici di un’azienda, o consumatori eccen­ trici, – a seconda delle applicazioni. A questo genere si può anche ascrivere la strategia Critical case, che riguarda la ricerca di casi che rappresentano situazioni di cambiamento o comunque problematiche all’interno dell’area in analisi. Nella progettazione di una campagna di focus group, l’inclusione del caso deviante si ha quando viene scelto un gruppo i cui componenti costituiscono gli antipodi rispetto ai casi considerati “normali”, come si è detto a proposito delle strategie confirming and discomfirming cases visti nel gruppo A. La strategia Intensity include invece casi che fanno parte della normalità, ma che, pur non potendo esser visti come “extreme” abbiano caratteristiche di intensità spiccata, in modo da fare risaltare i caratteri salienti della situazione in esame.

D) Strategie che accentuano la normalità. Fra queste strategie si possono includere le strategie Homogeneous di cui si è già parlato. Tuttavia l’inclusione di casi operata in modo da descrivere un fenomeno così come si presenta nella maggioranza dei casi, si può trovare nella strategia typical case.

E) Una strategia a parte è costituita dallo snowball (palla di neve). Questa strategia è na­ ta nella network analysis, dove assolve al compito di stabilire clusters (gruppi) di relazioni e confini di gruppi sociali non conosciuti. Essa consiste nell’individuare un pos­ sibile partecipante ad un focus group e chiedere a lui/lei di indicare delle persone che conosce e che rispondano al criterio di inclusione. Ma può essere adottata nei focus group. Nel leggere oltre, si vedrà tuttavia che è buona norma che i partecipanti ad un singolo focus group non si conoscano fra loro per i motivi che si vedrà, mentre il cam­ pionamento snowballing presume proprio questo. L’uso di questa strategia tuttavia si rende necessario quando la reperibilità dei casi sia difficile, perché facilita molto il compi­ to dei ricercatori. Occorrerebbe pertanto usare degli espedienti, come chiedere che ogni persona inclusa ne segnali non più di una, oppure di dislocare le persone che si conosco­ no in diversi focus group della campagna.

F) Vi sono altre strategie finalizzate alla massima flessibilità, che sono la strategia oppor­ tunistic, convenience e combination or mixed. Sono tre modi diversi di chiamare cose molto simili fra loro. La prima denominazione mette l’accento sul fatto che si cercano nuovi suggerimenti nel corso dell’analisi in–progress; si tendono a cogliere gli aspetti i­ nattesi per approfondirli via via. La seconda mette invece l’accento sul fatto che l’inclusione è fatta senza alcuno schema se non la raggiungibilità dei soggetti da parte del ricercatore, ma deve essere usata giocoforza quando i focus group vengono fatti su even­ tualità rare, per le quali anche il reperimento di soggetti adatti diventi difficile. La terza denominazione enfatizza l’uso di diverse fra le strategie viste sopra, a seconda delle esi­ genze e opportunità che si presentano nel corso della ricerca.

29

3.4. Il reclutamento dei partecipanti

Come si è visto vi sono diversi modi di scegliere i partecipanti a seconda della strategia campionaria scelta.

Una delle principali critiche che vengono mosse ai metodi qualitativi di raccolta delle informazioni è quello di non essere generalizzabili. Seppure alcuni autori, fra cui lo stesso Merton, raccomandino di adottare per quanto possibile il criterio della casualità nella selezione dei partecipanti (vale a dire con la logica dei disegni che nel paragrafo precedente sono stati classificati nel gruppo B), in genere si applicano tipi di campiona­ mento che appartengono ad altri tipi, al tipo F in particolare. Nonostante quest’ultimo gruppo di strategie possa sembrare poco sistematico, il loro uso, collegato anche con il manifestarsi di saturazione, può rendersi d’obbligo, quanto si abbiano sospetti, ad esem­ pio, che l’inclusione di casi secondo un criterio diverso da quello previsto dall’inizio dell’indagine possa rivelare cose non emerse prima.

In qualche caso si può ricorrere a delle liste esistenti oppure alla digitazione di numeri telefonici a caso. Più spesso tuttavia ci si rivolge a chi abbia diffusi contatti con il tipo di persone che si intendono coinvolgere (associazioni, istituzioni, gruppi informali, organizzazioni, soggetti significativi), chiedendo di fornire un certo numero di nominati­ vi.

Altre volte conviene reclutare persone attraverso annunci sui giornali. In ogni caso è il ricercatore a fissare i criteri di inclusione dei soggetti nel gruppo

(esempio x maschi, x femmine, x persone fra i 30 e i 50 anni, x persone fra i 51 e i 65 an­ ni, che abbiano fatto uso di un certo prodotto o utilizzato un certo servizio nell’ultimo anno etc.).

Tranne che in quest'ultimo caso è consigliabile sottoporre alle persone selezionate alcune domande di screening per verificare che posseggano effettivamente i requisiti ri­ chiesti, che siano disponibili a partecipare e che non si conoscano fra loro quando questo è richiesto. Quasi tutti gli autori suggeriscono di prevedere due persone più di quelle ri­ chieste e di fare una telefonata di conferma 24 ore prima della data fissata per il focus group ad evitare di trovarsi con numeri troppo bassi.

Per quanto riguarda la numerosità di un focus group si veda quanto alla sezione 4, dedicata all’organizzazione e conduzione di singoli focus group.

A seconda dei casi può essere utile confermare la partecipazione al focus group attraverso una lettera in cui siano indicati, gli scopi e gli argomenti dell'incontro, la data, il luogo e l'ora prevista.

In molti casi è opportuno prevedere un incentivo alla partecipazione. Non signifi­ ca necessariamente i partecipanti debbano essere pagati, ma si possono usare dei gadget o dei rimborsi spese perché le persone si presentino ai focus group malgrado i loro impe­ gni. Molti usano preparare un rinfresco, altri creare l'occasione per una cena. Tuttavia l'incentivo più importante è sempre costituito dall'interesse per ciò di cui si discuterà.

30

4. La interview guide

La costruzione della interview guide, come si è visto, è una delle fasi operative preliminari di una campagna di focus group ma è anche una fase strategica perché attra­ verso di esso si controlla la varietà dei costrutti che può emergere dai focus group. Vi sono inoltre delle questioni procedurali e di opportunità nello scegliere la interview gui­ de. Quando vi è un committente della ricerca, è spesso la interview guide l’elemento sul quale viene orientata la discussione, e su questa discussione fa perno tutto il disegno dell’indagine, la strategia di campionamento e anche la discussione del budget.

4.1. Strutturazione e direttività

Uno degli elementi caratterizzanti un focus group è il suo grado di strutturazione. Il grado di strutturazione di un focus group dipende dal margine di libertà che

viene lasciato ai partecipanti nella discussione. Un focus group è tanto meno strutturato quanto più le domande sono ampie e lasciano liberi i partecipanti di rispondere prenden­ do in considerazione la dimensione o l’aspetto che desiderano. Sono domande come: “...in che modo l’epilessia influisce sulla vostra vita?” “Che cosa avete pensato la pri­ ma volta che avete visto il programma x?”

In generale le questioni che vengono sollevate per prime sono quelle più impor­ tanti per i partecipanti o quelle che si ricordano di più. Questo non vale per gli argomenti delicati in cui alcune questioni potrebbero essere sollevate per mascherare o evitare di parlare dei problemi più scottanti. Bisogna che si stabilisca un equilibrio fra quello che è importante per il gruppo e quello che è importante per il ricercatore.

Una maggiore strutturazione delle domande si può ottenere, ad esempio, introdu­ cendo elementi o informazioni che portino i partecipanti a focalizzare la loro attenzione su un aspetto piuttosto che su altri. Tanto meno le domande sono strutturate tanto più i partecipanti tenderanno a fornire informazioni che sono di maggiore importanza e inte­ resse per loro.

Tuttavia spesso il ricercatore ha dei bisogni informativi piuttosto precisi, come ad esempio validare un questionario per una survey di popolazione. In questo caso il mode­ ratore assumerà un approccio più direttivo e strutturato.

Strutturazione e direttività sono due aspetti strettamente connessi. Più specifici sono i bisogni informativi del ricercatore, più le domande dovranno essere strutturate e lo stile del moderatore diventerà direttivo.

Non vi sono regole precise per stabilire il grado di strutturazione/direttività otti­ male. L’unico criterio da seguire resta quello di fare in modo che le domande non suggeriscano le risposte e lo stile non diventi inquisitorio. Bisogna evitare di fare doman­ de chiuse che implichino risposte sì/no o che suggeriscano, già nella formulazione, una scala di risposta precodificata, come ad esempio domande che contengano espressioni

31

del tipo: “ ...quante volte” , “ ...quanto spesso” , “ ...con che frequenza” , “ ...quanto im­ portante” , etc.

Quello che si vuole ottenere con un focus group sono informazioni sui punti di vista dei partecipanti, e non su come i partecipanti si conformano alla visione del ricerca­ tore sulla questione in oggetto. Si deve evitare di fare domande strutturate all’inizio della discussione, lasciandole piuttosto per la parte finale.

Non sempre, tuttavia, lo stile meno strutturato è quello più appropriato. Pure se gli aspetti più importanti per le persone coinvolte non sono sempre quelli più importanti per il ricercatore, a volte fornire una parola chiave o uno stimolo può servire a provocare risposte o riflessioni interessanti.

4.2. La Interview Guide

La costruzione della interview guide, anche da quanto si è visto sopra, rappresen­ ta un momento centrale della costruzione di un focus group o di una campagna di focus group. È il documento che si può fare circolare fra ricercatori e committenti, ed è lo sno­ do di tutte le considerazioni fatte sopra sul disegno della campagna di focus group.

La durata di un singolo focus group è in genere compresa fra un'ora e mezza e due ore e mezza. Riprendendo quanto detto in merito al disegno della campagna di fo­ cus group, è giocoforza che, se il tema è complesso, non possa essere affrontato nel suo insieme all'interno di un unico focus group, per cui si devono individuare dei sotto–temi che verranno affrontati in focus group separati. In questo caso si può immaginare di co­ struire una interview guide diversa per ciascuno dei sotto–temi che si vogliono affrontare e procedere ad una serie di focus group per ciascuno di essi.

Vi sono tuttavia due grandi categorie di scopi, pure se non mutualmente esclusivi, che aiutano ad individuare tipi diversi di interview guide: i) uno scopo esplorativo: quando non si conosca un argomento e si desideri raccogliere informazioni; ii) uno scopo di verifica: con questo termine non ci si riferisce alla conferma di ipotesi ti­ pica dei metodi sperimentali, ma più semplicemente al fatto che l'obiettivo del focus group è di sottoporre ai partecipanti un prodotto, un documento o un questionario, per avere le loro reazioni o per raccogliere le loro opinioni in merito.

Nel primo caso non è prudente costruire una interview guide dettagliata che indi­ vidui i temi e sotto–temi da affrontare o che preveda delle domande molto focalizzate.

Nel caso in cui il tema in oggetto sia poco conosciuto anche dal ricercatore, l'e­ splorazione andrebbe condotta a 360 gradi. In queste situazioni la strategia migliore consiste nel costruire un interview guide a spirale cominciando con focus group molto poco strutturati, con solo alcune domande molto generali che abbiano lo scopo di mette­ re a fuoco il problema, e di individuare le dimensioni principali in cui si scompone.

La interview guide dei focus group successivi andrà sempre più articolandosi, an­ dando ad indagare aspetti più definiti e arricchendosi di domande più strutturate, sulla base delle informazioni che vengono raccolte attraverso i precedenti.

Nonostante a volte possa essere progettata con cura, la costruzione della inter­ view guide si basa su un processo ad accumulo che può continuare fino quando si ritiene di avere raccolto informazioni sufficienti, oppure fino a quando si ritiene di avere identi­ ficato tutti gli aspetti di cui si compone un problema. In quest’ultima ipotesi, una volta

32

definita la interview guide definitiva, la si utilizza senza ulteriori modifiche fino al termine dei focus group.

Scelta dei partecipanti e costruzione della interview guide sono fasi che vanno svolte per certi versi, contemporaneamente in quanto per impostare le domande bisogna sapere a chi si rivolgono e, d'altra parte, la scelta delle persone da coinvolgere dipende anche dal tipo di argomenti che si intendono affrontare.

La interview guide non deve essere intesa come la versione verbale di un questio­ nario, ma propriamente come una guida che può essere modificata all’occorrenza dal moderatore in base all’andamento della discussione.

In generale una interview guide può comprendere fino a 10–12 domande delle quali quelle centrali non sono mai più di 4–5. È difficile specificare a priori qual è il nu­ mero ottimale di domande da inserire nella interview guide. In generale vale il criterio che tanto più il tema è complesso tanto meno sono le domande da inserire nella interview guide, in quanto la discussione di ogni singolo aspetto può esaurire buona parte del tem­ po a disposizione.

Nella costruzione di una interview guide non si deve mai perdere di vista qual è l'obiettivo della ricerca e quello che si vuole sapere sia che si usi il focus group per scopi esplorativi sia che lo si usi per scopi di verifica.

Per costruire una interview guide si possono adottare diverse strategie. Si può partire ad esempio da un'ipotesi del ricercatore sulle principali dimensioni del problema in oggetto. A questo scopo è importante avere un quadro delle conoscenze già acquisite su quel dato argomento.

Un’altra strategia consiste nel formulare le domande a partire da una precisa teo­ ria: ad esempio nelle ricerche sulla qualità della vita la scrivente ha fatto sovente ricorso alla griglia di bisogni della teoria di Murray o di Maslow (vedasi Murray, 1938; Maslow, 1954; McKenna, Hunt 1992); questa strategia può valere sia nel caso di focus group to­ talmente esplorativi che nel caso si desideri testare le reazioni ad un prodotto nelle condizioni di vita quotidiana dei partecipanti.

Nella costruzione della interview guide gli autori raccomandano in genere l’adozione di un approccio ad imbuto. Tale approccio prevede che le domande siano or­ dinate dalla più generale alla più specifica e secondariamente dalla più importante alla meno importante. Non sempre tuttavia c'è congruenza fra questi due criteri.

Spesso accade che le domande importanti siano più di una e che per ciascuna di esse si possa pensare a domande più specifiche. In questi casi conviene iniziare con una domanda generale su un aspetto importante e proseguire con domande più specifiche re­ lative a quell'aspetto per poi passare ad una altro aspetto con domande da quelle più generali a quelle più specifiche.

Occorre tuttavia ricordare che il termine focus si riferisce al fatto che la discus­ sione si concentra su poche questioni. Nel caso in cui le domande importanti fossero molte, conviene fare vari focus group. In alcuni casi non è tuttavia possibile immaginare una serie congruente e articolata di domande se si ha a che fare con un argomento di cui si conosce troppo poco. Conviene allora adottare l’approccio a spirale. Questo approc­ cio consiste nel predisporre una prima interview guide poco strutturata con solo poche domande generali che lascino aperte tutte le possibilità e diano modo alla discussione di spaziare in tutte le direzioni. Sulla base di quanto emerso dal primo focus group si può procedere ad articolare meglio la interview guide, individuando le principali dimensioni del problema e ponendo via via delle domande più mirate.

33

In alcuni casi si preferisce mantenere una struttura aperta della interview guide e continuare ad aggiornarla fino al termine della campagna di focus group. Lo svantaggio di questo approccio è che può risultare difficile confrontare fra loro i risultati ottenuti nei diversi focus group in quanto gli argomenti trattati possono non essere stati sempre gli stessi. Tuttavia, questo è spesso l'unico modo di procedere possibile se non si vuole ri­ schiare di ingabbiare una questione negli schemi mentali del ricercatore, soprattutto quando questi siano largamente carenti.

4.3. Il pilot test

Il tipo di linguaggio da usare dipende ovviamente dalla composizione del gruppo. È comunque buona regola utilizzare un linguaggio semplice che possa essere compreso da tutti e che non contenga elementi di ambiguità. È necessario assicurarsi che la com­ prensione delle domande sia univoca. Se una domanda è poco chiara o ambigua ottiene risposte vaghe e ambigue che non sono utili al ricercatore e che possono risultare fuor­ vianti. A questo proposito è consigliabile procedere ad un pilot test della interview guide una volta che sia stata stabilita in via definitiva.

Ci sono vari modi di procedere ad un pilot test della interview guide. Si può sottoporre la interview guide ad una persona che sia esperta del problema

in oggetto e che abbia nel contempo una certa esperienza di focus group, per verificare se tutti gli aspetti de problema sono stati affrontati e se le domande sono sufficientemen­ te ampie da stimolare la discussione oltre, naturalmente, ad essere chiare.

In alternativa si possono fare alcune interviste a persone che corrispondono alla tipologia dei partecipanti ai focus group per verificarne le reazioni, testare la compren­ sione e l’esaustività delle domande (chiedendo loro esplicitamente ad esempio: “ ...che cosa significa secondo lei questa frase/domanda?”).

Le persone su cui è stato effettuato il test non dovrebbero poi essere coinvolte nei focus group. Se se ne ha la possibilità si può fare un piccolo focus group di prova oppure utilizzare il primo dei focus group in programma come test della interview guide. Stewart e Shandasani (1990) suggeriscono di scartare i dati ottenuti da questo test di prova se la interview guide ne risultasse fortemente modificata.

34

5. Scenar io e attor i: par tecipanti, luogo, moderatore

Se nella sezione 2 e 3 si è parlato di elementi relativi alla organizzazione della campagna di focus group in questa e nelle seguenti sezioni si parlerà invece di singoli fo­ cus group.

Prevarranno pertanto aspetti di opportunità riguardanti come scegliere i parteci­ panti e il moderatore. Si continueranno in particolare riflessioni già avviate alla sezione 2, riguardante i disegni di campionamento, introducendo però degli elementi relativi alla di­ namica psico–sociale del gruppo focus group, di cui si parlerà più diffusamente nella sezione 5.

5.1. La numerosità di un focus group

Se nel parlare del campionamento non si è arrivati ad una conclusione univoca sul numero di focus group da condurre in una campagna, è più semplice rispondere alla do­ manda “quanti partecipanti per un focus group ?” .

Il numero di partecipanti che viene generalmente indicato in letteratura come ot­ timale è compreso fra 6 e 12. La scelta all’interno di questo range dipende naturalmente da vari fattori: dalla composizione del gruppo, dall'oggetto in discussione e dallo scopo dello studio.

Nelle ricerche di mercato i gruppi sono generalmente composti da 10–12 perso­ ne, ma nella maggior parte dei casi si preferisce ricorrere a gruppi più piccoli (6–9 partecipanti).

Il criterio della varietà tuttavia vale a anche qui. Gruppi con meno di 6 parteci­ panti producono meno idee di gruppi più grandi e la discussione può diventare poco interessante. Gruppi con più di 12 partecipanti sono invece difficili da gestire, le persone devono aspettare a lungo prima di poter esprimere la propria opinione o possono sentirsi frustrate per il fatto di non potersi esprimere su ogni aspetto.

Il crearsi di sottogruppi di due, tre persone che bisbigliano fra loro, rappresenta un segnale che il gruppo è troppo grande. Pur rimanendo all'interno del range consiglia­ to, vi sono comunque dei vantaggi e degli svantaggi nell'utilizzare gruppi più o meno grandi.

Gruppi più piccoli sono più facili da gestire, consentono maggiore varietà nella scelta del luogo dove tenere la riunione, permettono a tutti di esprimersi e di trattare ar­ gomenti complessi o delicati.

In gruppi più grandi le dinamiche di gruppo sono più vivaci, la varietà delle idee espresse è superiore, i costi dell'intero studio e della campagna sono minori perché mino­ re è il numero di focus group che si devono tenere.

Quando l'argomento in discussione è molto complesso o siano molte le cose da chiedere, il gruppo non dovrebbe superare le 7–8 unità.

35

Il ricercatore deciderà quindi caso per caso la numerosità del gruppo, in base all’oggetto della discussione e dalla tipologia di partecipanti. Un gruppo di bambini o di anziani dovrà necessariamente essere molto piccolo

5.2. La scelta dei partecipanti

La composizione del gruppo influisce sull'andamento della discussione e sul clima della riunione. In genere si raccomanda che i gruppi siano composti da persone con ca­ ratteristiche socio–demografiche omogenee (si veda quanto detto sopra sulla varietà e la stratificazione). Per caratteristiche socio–demografiche si intendono sesso, età, apparte­ nenza etnica, livello culturale e socio–economico.

Stewart e Shamdasani (1990) introducono, a questo riguardo, il concetto di com­ patibilità. Questo concetto dà l'idea che in questi gruppi debba comunque venir salvaguardato il principio della varietà (di cui si è parlato sopra). In generale persone che si riconoscono come simili sono più facilmente disposte ad esprimere le proprie opinioni senza tema di esporsi a reazioni e critiche: si capiscono perché parlano lo stesso linguag­ gio.

Poiché lo scopo dei focus group è quello di creare un clima di cordialità, questo è più facile che si instauri fra persone che condividono alcune caratteristiche. La varietà può essere assicurata organizzando più focus group differenti per composizione, ma o­ mogenei al loro interno.

Non è consigliabile mettere insieme nello stesso gruppo persone che non si cono­ scono e persone che si conoscono. Le persone che si conoscono finiscono per parlare fra di loro di argomenti estranei a quello al centro della discussione disturbando gli altri, è inevitabile che gli amici sostengano le idee reciproche creando fin dal principio una dispa­ rità all'interno del gruppo, che tendano a partecipare poco e non si sentano a loro volta liberi di esprimersi. Molti autori considerano essenziale che i focus group siano composti da persone estranee fra loro, a meno che la reciproca conoscenza non sia uno dei criteri esplicitamente adottati, come ad esempio, nel caso in cui si vogliano conoscere le opinio­ ni di gruppi familiari oppure di équipe di lavoro.

In questi casi è inevitabile coinvolgere persone che si conoscono. Anche in queste situazioni, il moderatore deve essere consapevole dei problemi aggiuntivi che pone la conduzione di un gruppo composto da persone che si conoscono.

È inevitabile includere nei focus group persone che si conoscono fra di loro nel caso si usi uno schema di campionamento di tipo snowball e questo problema è stato sol­ levato nel paragrafo 2.2.2. a proposito dei disegni campionari. In questo caso l’inclusione è per definizione condizionata alla conoscenza reciproca. Occorre in questo caso tenere conto del problema fin dal campionamento e raccomandare le persone di segnalarne altre ma una alla volta (ciascun componente dovrebbe, ad esempio essere raccomandato di se­ gnalare una sola persona, che non sia conosciuta dalle altre, in modo da evitare la formazione di cricche).

È invece assolutamente da evitare la presenza nello stesso gruppo di persone con un grado gerarchico differente. Nel caso dei dipendenti di un'azienda, la presenza del ca­ poreparto o del direttore inibisce la conversazione fra i sottoposti che diventa perciò molto artificiale. Il gruppo in questo caso riproduce al suo interno i rapporti di forza che esistono in azienda e tende a conformarsi alle idee della persona gerarchicamente supe­ riore. Anche nel caso in cui i focus group siano stati richiesti dalla direzione è necessario

36

che nessun membro della direzione sia presente alla discussione, nemmeno come osserva­ tore.

Lo stesso dicasi nel caso di disparità di status professionale. Nel caso in cui si vo­ glia conoscere il punto di vista dei pazienti rispetto all’impatto della loro malattia sulla qualità di vita è necessario evitare che pazienti e medici si trovino insieme nello stesso focus group. La presenza del medico curante indirizza immediatamente la discussione sui sintomi e spesso egli potrebbe venire chiamato a confermare le opinioni espresse.

Per quanto riguarda le variabili socio–demografiche, la presenza di grosse dispari­ tà fra i partecipanti rispetto a grado di istruzione, reddito, età portano a comunicare meno fra loro e ad innalzare barriere difensive.

In generale è buona norma operare con gruppi composti solo da maschi o solo da femmine piuttosto che con gruppi misti. Su questo punto, tuttavia l'accordo non è com­ pleto fra gli autori. Krueger è molto restrittivo su questo punto mentre altri autori lo sono meno. In generale vi è accordo sul fatto che i gruppi formati da persone dello stesso sesso sono più produttivi e le persone che vi partecipano tendono a conformarsi meno le une alle altre. In gruppi misti accade talvolta che gli uomini parlino per la controparte femminile e viceversa. Le opinioni in questi gruppi sono meno estreme e determinati ar­ gomenti vengono affrontati con imbarazzo e in modo non del tutto sincero. In generale la presenza contemporanea di maschi e femmine è da evitarsi quando si abbia a che fare con bambini e adolescenti e ogniqualvolta si abbia a che fare con un argomento che, senza es­ sere necessariamente delicato, possa presentare letture molto differenti da parte di maschi e femmine.

5.3. Il luogo

I focus group possono essere tenuti in una varietà di luoghi, che possono andare dalla casa all'ufficio.

Tuttavia certi elementi dell'ambiente in cui si tiene il focus group possono influire sullo svolgimento di una riunione.

Sono stati fatti numerosi studi sull'influenza dell'ambiente e della disposizione dei partecipanti sull'interazione di gruppo. In particolare si è notato che ambienti relativa­ mente contenuti favoriscono l'interazione rispetto ad ambienti ampi che finiscono per risultare dispersivi.

Una distanza conveniente fra le persone consente loro di sentirsi sufficientemente protette senza indurle a mettere in atto comportamenti difensivi quali la chiusura in se stesse o una comunicazione privilegiata con il moderatore.

La presenza di un tavolo elimina possibili elementi di disturbo e rafforza il senso di territorialità che dà sicurezza alle persone oltre a fornire loro un utile piano di appog­ gio. Un tavolo rotondo è l’ideale per un focus group. Esso permette il massimo contatto visivo reciproco e impedisce lo stabilirsi di gerarchie preconcette all'interno del gruppo sulla base della posizione occupata, come invece accade attorno ad un tavolo rettangola­ re. Inoltre, le persone che si trovano una di fronte all'altra tendono a comunicare di più fra loro che con gli altri membri del gruppo. La presenza di elementi decorativi nella stanza e alle pareti tende a distrarre l'attenzione dei partecipanti dall'oggetto della discus­ sione.

Se durante la riunione si prevede di mostrare qualcosa (un prodotto, un video, immagini o altro) è meglio tenere queste cose nascoste fino al momento di utilizzarle.

37

Nello scegliere il luogo in cui tenere il focus group ci si assicuri che si tratti di un luogo comodo da raggiungere per i partecipanti e che sia attrezzato, che consenta cioè la registrazione audio/video, con eventuale specchio unidirezionale.

Va da sé che il luogo deve essere riservato, non disturbato da rumori o da pas­ saggi di persone.

Per facilitare l'interazione è utile collocare dei cavalieri davanti a ciascuno dei partecipanti con il relativo nome di battesimo. Questo accorgimento consente, fra le altre cose, di stabilire a priori la disposizione dei partecipanti, nel caso in cui si abbia avuto modo di osservarne alcune caratteristiche (timidezza/espansività) durante la fase di socia­ lizzazione precedente l’inizio del focus group. A questo scopo alcuni autori suggeriscono di approntare un piccolo buffet (senza alcolici) in un angolo della stanza in cui si svolgerà il focus group per creare un’atmosfera accogliente nell’attesa che tutti i partecipanti siano arrivati.

5.4. Il moderatore.

Una delle domande che gli autori che si sono occupati di focus group si sono po­ sti, è se esista o meno il moderatore ideale, ovvero se vi siano delle caratteristiche che fanno di una persona un moderatore adatto a condurre qualsiasi focus group indipenden­ temente dalla composizione del gruppo e dall'argomento in discussione.

Molti autori hanno stilato delle liste di caratteristiche che un buon moderatore dovrebbe possedere, anche se la conclusione finale è, naturalmente, che il moderatore i­ deale non esiste.

Siccome il moderatore viene inevitabilmente identificato come un leader, molti autori hanno cercato di rifarsi agli studi sulla leadership di successo per identificare il moderatore ideale. Tuttavia, anche in questo caso, uno stile di leadership risulta efficace in certe situazioni e fallimentare in condizioni diverse.

Anche nel caso dei focus group ci sono troppi fattori fra loro interdipendenti che entrano in gioco.

In particolare rispetto alla scelta del moderatore, la composizione del gruppo e l'argomento della discussione sono elementi fondamentali. Per esempio un certo livello di competenza tecnica è richiesta nel caso di focus group che mirino a stimolare la creatività del gruppo in un settore di tipo tecnico.

Una specifica competenza è necessaria per acquisire credibilità rispetto al gruppo e per essere in grado di cogliere gli elementi di novità che sono presenti nelle idee che vengono proposte, e fare domande appropriate nel linguaggio che le persone riconosco­ no come il loro.

Volendo sintetizzare, possiamo dire che le caratteristiche che distinguono un mo­ deratore di successo sono di due tipi: di tipo personale, legate all'età, sesso, grado di istruzione, appartenenza etnica, background culturale; e di tipo situazionale, legate al­ l'argomento oggetto di ricerca, alla composizione del gruppo, alla durata del focus group, alla numerosità del gruppo.

Anche se, come si è detto, non esiste il moderatore ideale tuttavia, vi sono alcune regole che un moderatore dovrebbe seguire in ogni caso. Quello presentato alla tavola 2 è un elenco di tali regole, che rappresenta una sorta di sintesi di quelle proposte da vari autori.

Tav.2. Caratteristiche ideali del moderatore

38

Vademecum del buon moderatore:

­ non essere invadente

­ incoraggiare le persone a interagire fra oro

­ intervenire il meno possibile

­ saper ascoltare

­ essere genuinamente interessato a capire

­ non essere autoritario

­ avere rispetto per i partecipanti

­ essere neutrale

­ mantenere la discussione in tema

­ mantenere l'entusiasmo e l'interesse del gruppo

­ capire quando è il momento di passare ad un altro argomento

Alcuni autori includono anche il senso dell'umorismo nella lista delle caratteristi­ che che un buon moderatore "farebbe bene a possedere, per quanto possibile". Ogni moderatore ha un suo stile di conduzione prevalente. Krueger suggerisce di non sforzarsi di cambiare il proprio stile se questo ha dimostrato di funzionare in altre occasioni (fermo restando il rispetto delle regole auree qui sopra elencate).

La tavola 3 presenta alcune tipologie di moderatore. Ovviamente, modalità di conduzione diverse possono essere proficue in alcune situazioni, mentre sono meno ap­ propriate o sconsigliabili in altre. Per ogni modalità di conduzione positiva (a sinistra) si è individuato il corrispettivo negativo (a destra) che consiste nel porre un'enfasi esagerata sugli elementi che caratterizzano ciascuno stile. Con questo espediente si è voluto mette­ re in guardia soprattutto il moderatore inesperto dall'adottare in modo semplicistico uno stile di conduzione con il quale non abbia dimestichezza.

La figura del moderatore è un elemento fondamentale per la riuscita del focus group. La qualità dei dati dipende anche dal modo in cui è stata gestita la riunione.

Il moderatore può introdurre delle distorsioni (bias) nei dati sia in modo consa­ pevole che inconsapevole (Kennedy, 1976). I bias che il moderatore può introdurre sono riconducibili a fattori personali, al bisogno inconsapevole di compiacere il committente e al bisogno di coerenza.

I bias personali si possono attribuire alla tendenza del tutto umana che consiste nell’accogliere e rinforzare l'espressione di punti di vista simili ai propri. È una tendenza naturale quella di pensare che chi ha i nostri stessi punti di vista sia una persona intelli­ gente. Si tende a sopravvalutare l'accordo intorno a posizioni simili alle nostre.

39

Un altra fonte di bias consiste nel bisogno inconsapevole di compiacere il com­ mittente si esprime nella tendenza ad accogliere e rinforzare l'espressione di punti di vista che sono in sintonia con quelli dei committenti della ricerca.

Tav.3. Tipologie di moderatore

Positivo Esagerato L’ingenuo ­ sa o dà l’impressione di saperne meno dei par­

tecipanti ­ sollecita spiegazioni

Il finto tonto

L’esperto ­ fornisce informazioni tecniche ­ trasmette sicurezza

Il saccente

Il provocatore ­ è combattivo ­ provoca i partecipanti ­ li invita a giustificarsi

Lo sfacciato

L’arbitro ­ garantisce l’equilibrio ­ permette a tutti di esprimersi ­ assicura imparzialità e rispetto a tutti i parteci­ panti

Il vigile

Il simpatico ­ sdrammatizza ­ racconta aneddoti personali

Il comico

Lo scrittore ­ scrive appunti durante la discussione e li ap­ pende per discuterne

Lo scrivano

L’amichevole ­ crea un clima disteso ­ invita a confidarsi

Il compagnone

Il terapeuta ­ tende a raccogliere informazioni su motivazio­ ni psicologiche o sul perché uno pensa in un certo modo.

Lo psicanalista

È un processo spontaneo che ha come controparte il fenomeno della compliance che consiste nel desiderio dell'intervistato di compiacere il ricercatore facendo o dicendo quello che egli pensa che il ricercatore si aspetti. Non si tratta di una forma di piaggeria, ma di una sorta di identificazione nei desideri del committente che fa sì che si dia più spazio alle idee che vanno nella direzione voluta da chi sta portando avanti la ricerca.

Il bisogno di coerenza consiste nella tendenza ad accogliere e rinforzare l'espres­ sione di punti di vista internamente coerenti. Non sempre le persone sostengono idee

40

coerenti. Talvolta cambiano opinione nel corso di una riunione o sostengono in momenti diversi opinioni opposte, talvolta senza esserne consapevoli. Il bisogno di coerenza agi­ sce nel senso di incoraggiare chi esprime punti di vista internamente coerenti cercando in qualche modo di rendere marginali le opinioni di chi si contraddice.

Il moderatore introduce pertanto queste distorsioni attraverso comportamenti verbali o non verbali differenziati nei confronti di chi esprime opinioni favorevoli o con­ trarie alle proprie o a quelle del committente. Ci vuole un certo addestramento per riuscire a tenere sotto controllo soprattutto la mimica ma anche le espressioni spontanee di assenso/dissenso. Nella tavola 4 sono sintetizzati i comportamenti verbali e non che un moderatore deve evitare per non introdurre distorsioni nei dati che possono inficiare i ri­ sultati di uno o più focus group.

Tav.4. Comportamenti da evitare

COMPORTAMENTI DA EVITARE NEI CONFRONTI DI: Chi è favorevole Chi è contrario

COMPORTAMEN TI VERBALI

Fare commenti positivi (appun­ to, esatto, etc.)

Fare commenti negativi (non direi, non è proprio così, ma!, etc.)

Essere permissivi, lasciare am­ pio spazio a chi è favorevole

Ignorare chi ha una posizione con­ traria facendo finta di non vedere che avrebbe qualcosa da dire

Approfondire le opinioni favo­ revoli

Non andare a fondo di opinioni sfavorevoli

Permettere commenti favorevoli fuori contesto

Dire che "di questo si parlerà do­ po"

Essere incoraggianti rispetto a persone favorevoli che fanno fa­ tica ad esprimersi

Non avere la stessa pazienza con persone sfavorevoli che fanno fati­ ca ad esprimersi

Iniziare il giro delle domande da chi esprime opinioni favorevoli

Omettere i punti di vista minoritari nei riassunti

COMPORTAMEN TI NON VERBALI

Fare cenni di assenso con la te­ sta, sorridere

Fare cenni di dissenso con la testa

Girarsi verso chi è favorevole Mostrare indifferenza, avere un'aria perplessa Fare gesti di fastidio Girarsi dall'altra parte

Un ulteriore problema riguarda il numero di moderatori. Un focus group può es­ sere infatti condotto anche da più di un moderatore. In generale non ci sono controindicazioni alla presenza di due moderatori ad un focus group. Nel caso in cui la riunione sia condotta da due moderatori, tuttavia, ciascuno di essi deve interpretare un ruolo che è diverso da quello dell'altro in modo da evitare il crearsi di confusioni e so­ vrapposizioni.

Il ruolo dei due moderatori deve essere chiaro fin dall'inizio e i due devono dare l'impressione di essere perfettamente coordinati fra loro. In genere uno dei due modera­

41

tori conduce la discussione mentre il secondo moderatore può svolgere uno dei tre ruoli che seguono:

L'assistente. Si occupa di risolvere tutti gli aspetti tecnici legati alla registrazione della riunione (far partire il registratore, girare il nastro) o che possono interferire con la discussione (accogliere i ritardatari, far fronte a interruzioni). Prende appunti, osserva il comportamento non verbale dei partecipanti; verso il termine della riunione può aggiun­ gere qualche domanda di approfondimento; collabora all'analisi dei risultati.

L'esperto. Risponde a domande tecniche complesse senza introdurre distorsioni; verso il termine della riunione aggiunge qualche domanda di approfondimento. Può esse­ re utile quando l'argomento in discussione richieda delle spiegazioni di tipo tecnico. Come quando si discuta ad esempio di un determinato prodotto o progetto o siano ne­ cessarie chiarificazioni di carattere medico.

La controparte. Assume una posizione opposta a quella del primo moderatore per legittimare punti di vista diversi. Questa precisa scelta deve essere esplicita fin dall'i­ nizio della riunione, ad esempio, schierandosi da una parte della stanza o del tavolo. Viene utilizzato in ambito politico o sociale quando si vogliano conoscere le ragioni di differenti posizioni rispetto ad un determinato argomento. Esempi potrebbero essere co­ stituiti da discussioni inerenti le droghe leggere, la genetica o le politiche sull'immigrazione.

42

6. La dinamica e il suo controllo

6.1. Il comportamento dei partecipanti.

Il moderatore può aspettarsi che i partecipanti ai focus group siano per il 40% persone desiderose di esprimersi, per il 40% persone più introspettive ma disposte ad a­ prirsi se se ne presenta l’occasione, il rimanente 20% persone di persone molto timide apprensive che difficilmente intervengono (Kelleher, 1982).

Per quanto ogni gruppo sia diverso dall'altro e non si possa prevedere come si ar­ ticoleranno le dinamiche interne, anche nel breve tempo di una riunione, vi sono tuttavia situazioni ricorrenti alle quali si deve essere preparati a far fronte.

Ci sono tipologie di partecipanti la cui presenza può creare delle difficoltà alla di­ scussione del gruppo o contribuire all’instaurarsi di un clima sfavorevole all’interazione reciproca. Nel seguito sono indicate le più comuni di queste tipologie e sono sintetizzate alcune strategie che si possono utilizzare per cercare di neutralizzarne o contenerne l'in­ fluenza negativa.

L’esperto. La presenza di una persona con un’expertise molto più alta degli altri partecipanti sull’argomento in discussione frena la discussione. Per prevenire questa si­ tuazione è sufficiente fare un attento screening al momento di reclutare i partecipanti. Nel caso ci si trovi comunque in questa situazione si può cercare di utilizzare la sua ex­ pertise attribuendogli formalmente il ruolo del consulente, stando attenti che la guida del focus group resti saldamente nelle mani del moderatore.

Quello che si considera un esperto. Questo è il caso della persona che non è re­ almente esperta, ma che si considera tale per il fatto di esercitare un certo ruolo sociale o per aver partecipato ad altre riunioni simili. La presenza di una siffatta persona tende a intimidire il gruppo. In questo caso è importante sottolineare fin dall’inizio che si è inte­ ressati all’opinione di tutti. Se necessario si può intervenire interrompendolo a metà di una frase

Gli amici. Le persone che si conoscono fra loro tendono a legare poco con gli al­ tri partecipanti, rendono difficile la formazione del gruppo, disturbano parlando di altre cose fra loro, sbilanciano il gruppo creando una coalizione interna. Per evitare il presen­ tarsi di questo problema è importante fare un attento screening.

La persona ostile. Per vari motivi, che possono essere caratteriali oppure dovuti a fattori contingenti, come l’aver passato una brutta giornata oppure l’aver scoperto che la riunione non era quella che ci si aspettava, una persona può assumere un atteggiamento

43

ostile. Un tale atteggiamento fa sentire tutti a disagio e frena la discussione. Si può cerca­ re di individuare questa persona cercando di arginarla evitando di guardarla; se non è sufficiente si può fare un break durante la riunione e chiederle di moderarsi.

Il timido. Questo tipo di persona tende a contribuire poco alla discussione anche se ha delle cose da dire. Per cercare di stimolarne la partecipazione è importante fargli capire che i suoi commenti sono graditi e apprezzati. È buona regola farlo sedere giusto di fronte al moderatore e se necessario chiamarlo in causa direttamente.

Quello che parla sempre. Questo tipo di persona ostacola l’interazione. Se si è avuto modo di identificarlo prima che inizi la riunione lo si può collocare a uno dei lati del moderatore oppure si può ricorrere a tecniche diversive come distogliere gli occhi o mostrarsi annoiati.

Quello che non arriva mai al dunque. Questa persona fa perdere minuti preziosi alla discussione. Per cercare di arginarla si possono distogliere gli occhi da lei dopo circa 20/30 secondi che parla, si può evitare deliberatamente di guardarla e appena si inter­ rompe essere pronti ad introdurre una nuova domanda o a riproporre quella precedente per ulteriori commenti.

Qualunque sia la strategia che si decide di adottare con i “casi difficili”, bisogna sempre intervenire con garbo, perché un intervento poco opportuno o brusco, ancorché motivato, può raggelare il clima della discussione e inibire la spontaneità degli altri parte­ cipanti.

44

7. Raccolta e tr attamento dei mater iali

7.1. Come registrare le informazioni

Qualunque sia il livello approfondimento e di dettaglio che si intenda adottare nell'analisi di quanto emerso nel corso del focus group, è comunque utile registrare l'in­ tera seduta. A questo proposito le persone devono essere informate che si sta usando il registratore, ma non è opportuno ritornare sull'argomento durante la discussione.

Durante la riunione è comunque consigliabile prendere appunti che possono ser­ vire per fare delle sintesi o dei riepiloghi parziali o riprendere un'idea che era emersa.

Il moderatore singolo può: prendere appunti sul suo blocco mentre i partecipanti discutono, annotandosi anche comportamenti non verbali, oppure scrivere gli appunti di­ rettamente su un lucido direttamente proiettato tramite lavagna luminosa. In alternativa al lucido il moderatore può scrivere i suoi appunti su dei fogli e appenderli man mano che vengono completati.

La prima strategia permette al moderatore di scrivere molto meno, se non vuole perdere il filo della discussione; la seconda è più trasparente per i partecipanti che si fan­ no una chiara idea di che cosa il moderatore stia scrivendo.

Purtroppo, ciò allunga i tempi della discussione e ne limita la naturalezza in quan­ to i partecipanti, spontaneamente, aspettano che il moderatore abbia finito di scrivere prima di iniziare una nuova frase. Inoltre, quest'ultimo sistema presenta lo svantaggio che ciò che viene scritto in qualche modo premia chi ha esposto quell'idea, mentre le argo­ mentazioni che non vengono riportate per certi versi vengono esplicitamente considerate meno interessanti. Ciò può modificare l'andamento della discussione nel senso in cui il moderatore, magari in modo non intenzionale la sta indirizzando.

Ad esperienza di chi scrive può anche accadere che l’uso della lavagna luminosa crei un’atmosfera troppo “tecnica”, inadatta per la discussione di certi argomenti o per certi tipi di partecipanti.

D'altra parte questo sistema presenta il vantaggio di verificare immediatamente che ciò che si è ascoltato non sia stato frainteso e che sia espresso in un modo che i par­ tecipanti possono riconoscere come loro. Inoltre, molto importante, i lucidi di una lavagna luminosa creati durante la discussione permettono di rendere conto ai parteci­ panti del prodotto del loro lavoro; ritornare su argomenti per specificare; controllare il lavoro svolto dal gruppo.

La soluzione migliore, ove sia possibile, è che alla riunione siano presenti due moderatori, il compito di uno dei quali è, principalmente quello di prendere appunti senza distogliere l'attenzione di chi conduce da ciò che si sta dicendo e senza condizionare la discussione. Sarà il secondo moderatore che, verso la fine della riunione, avrà il compito di sintetizzare quanto emerso durante il focus group in modo da accertarsi di avere inter­

45

pretato bene quanto detto e da restituire ai partecipanti quanto emerso durante la discus­ sione.

7.2. L'analisi delle informazioni

La quantità e la complessità dell'elaborazione che è necessario operare dipende dallo scopo per cui sono stati condotti i focus group, dalla complessità del problema in esame e da una valutazione del rapporto costi/benefici che comporta il ricorso a tecniche più o meno complesse.

Non ha senso ricorrere ad analisi dettagliate e rigorose quando analisi più sempli­ ci possono ragionevolmente fornire risultati altrettanto soddisfacenti ai fini della ricerca.

La prima e più semplice forma di resoconto del focus group consiste in un rias­ sunto descrittivo delle principali informazioni emerse. La sintesi narrativa è spesso una elaborazione sufficiente dei dati raccolti.

L'estrapolazione dei principali risultati emersi è spesso tutto quello che ci si at­ tende da uno o da una campagna di focus group. Elaborazioni più complesse richiedono tempi più lunghi e possono vanificare quello che è uno dei principali vantaggi di questa tecnica e cioè quello di produrre risultati utili in tempi brevi.

Questo tipo di elaborazione è certamente sufficiente nel caso in cui lo scopo dei focus group sia quello di diagnosticare problemi, di produrre idee nuove, di raccogliere frasi da inserire in successivi questionari, di raccogliere le opinioni dei partecipanti. Per produrre una sintesi narrativa dei risultati dei focus group ci si può basare sui soli appunti presi nel corso delle riunioni, oppure li si può integrare attraverso il riascolto della regi­ strazione delle riunioni.

È buona norma tuttavia, si decida o no di operare delle elaborazioni più comples­ se, di fare sempre una trascrizione integrale delle registrazioni, eventualmente integrate dagli appunti che possono essere utili per aggiungere dettagli rispetto ai comportamenti non verbali o più semplicemente per identificare chi ha detto che cosa o chiarire il senso delle frasi.

In alternativa alla sintesi narrativa possono essere applicate altre forme di elabo­ razione che vanno dalla codifica degli argomenti attraverso l'analisi del contenuto che può essere effettuata con l'ausilio o meno del computer.

La tecnica elementare del taglia–incolla (di cui le tecniche computerizzate costi­ tuiscono delle versioni sofisticate) è un metodo veloce per analizzare le trascrizioni di una serie di focus group che oltretutto fornisce risultati apprezzabili a costi contenuti. Essa prevede tre fasi: ­ lettura del testo per l'identificazione delle parti del testo rilevanti rispetto agli scopi del­ la ricerca; ­ costruzione di un sistema di classificazione del testo attraverso l'identificazione dei principali argomenti e questioni emersi. Ad ogni categoria si fa corrispondere un simbolo o un colore; ­ identificazione delle parti del testo che corrispondono alle categorie indicate segnandole con il simbolo o il colore corrispondente. Queste parti del testo possono essere singole frasi come interi brani di discussione.

A questo punto si riuniscono tutte le parti che corrispondono alla stessa catego­ ria. Si ottiene così un testo organizzato che può agilmente essere utilizzato per la stesura di un rapporto.

46

Ogni argomento identificato può essere fatto precedere da una breve introduzione e le parti di testo selezionate possono essere riportate a supporto dell'interpretazione for­ nita. Questa tecnica si presta a critiche di soggettività da parte dell'analista, nella selezione del testo considerato rilevante, nell'identificazione delle categorie, nell'attribu­ zione di parti del testo a determinate categorie, nell'interpretazione del loro significato.

Il ricorso a due o più analisti indipendenti che identifichino le categorie e attribui­ scano differenti parti del testo a differenti categorie certamente rende più attendibile il risultato dell'analisi. In alcuni casi si può ricorrere ad altre forme di analisi del contenuto da svolgersi con il supporto del calcolatore. Questi tipi di analisi sono di carattere più quantitativo anche se il risultato finale è sempre un risultato affidato all'interpretazione del ricercatore.

In generale l'analisi del contenuto prevede una identificazione chiara delle unità di analisi del testo che possono essere le singole parole o le frasi o discorsi o interazioni. Esse comportano un lungo lavoro di preparazione del testo che richiede che siano espli­ citati i soggetti impliciti di ogni frase e in molti casi anche la selezione di un campione di testo da analizzare in modo da rendere affrontabile il lavoro di analisi. Vengono in genere calcolate le frequenze con cui certe parole compaiono, e le associazioni che vengono fat­ te rispetto a certe parole o concetti.

Si può decidere di contare quante volte un certo oggetto o concetto è associato ad elementi positivi o negativi, quante volte compaiono elementi che esprimo reazioni emotive in un testo o in relazione all'oggetto dell'analisi e così via. Si tratta di un lavoro lungo che è stato spesso usato nell'analisi dei programmi di propaganda o di discorsi po­ litici o ancora dei messaggi pubblicitari. Come per ogni cosa è bene valutare quale sia il rapporto costi/benefici di una tale operazione. In moltissimi casi un livello di analisi meno dettagliato è sufficiente a corrispondere alle attese in termini di risultati e informazioni che si vogliono ottenere.

Tutti questi tipo di operazioni possono essere svolti anche tramite programmi computerizzati. Il più semplice consiste nel riportare le frasi scomposte in un foglio elet­ tronico tipo Excel, assegnando ad ognuna dei codici ed operando successivamente attraverso i comandi di ordinamento.

Esistono tuttavia anche programmi specifici, quali il Nud–ist, di cui è stata propo­ sta una versione recente denominata Nvivo (Richards, 1999), oltre al più tradizionale e meno versatile SPADT (Lébart, Morineau et al. 1989–94).

7.3. La stesura del rapporto

È sempre utile sintetizzare per iscritto i principali risultati emersi da uno o più focus group, eccetto nel caso estremo in cui il committente della ricerca non sia presente ai focus group e non ritenga sufficiente l'idea che si è fatto di quanto emerso.

La modalità standard di stesura di un rapporto per uno o una serie di focus group prevede che esso venga suddiviso in parti che corrispondono alle varie sezioni o doman­ de previste nella interview guide. Per ciascuna domanda dovrebbero essere sintetizzati i principali contenuti emersi. Per ciascuno di essi è utile inserire una o due frasi chiave che diano anche a chi non ha partecipato ai focus group l’idea delle risposte ottenute e co­ munichino i concetti nel linguaggio proprio dei partecipanti.

Questa sintesi dovrebbe essere introdotta da alcune righe di commento che ne forniscano anche la chiave di lettura. Questa modalità può non risultare adeguata nel ca­ so in cui si sia ricorsi a elaborazioni complesse dei dati emersi, nel qual caso il ricercatore

47

dovrà esporre il tipo di elaborazioni e modifiche a cui è stato sottoposto il testo dei fo­ cus group, le scelte che sono state fatte e l'interpretazione che viene fornita dei dati così come emergono dalle elaborazioni effettuate e che di solito hanno anche un carattere sta­ tistico oltre che concettuale (ad. esempio le donne tendono ad associarle alla parola X aggettivi positivi 3 volte più di quanto non facciano gli uomini, etc.).

48

8. Cr iter i di valutazione della qualità di un focus group e di una campa­ gna di focus group

8.1. Operare in vista della qualità

Sebbene siano numerosissimi, in questi anni, gli articoli apparsi in letteratura sull’utilizzo del focus group, nessuno di essi affronta in maniera sistematica il problema della valutazione della qualità dei dati ottenuti attraverso la sua applicazione.

Vari autori indicano le caratteristiche che un focus group deve avere per permet­ tere di ottenere dati qualità e/o mettono in guardia i ricercatori da errori nel disegno o nella conduzione dei focus group che potrebbero risultare in dati di scarsa qualità. Il con­ cetto di qualità dei dati di un focus group è lasciato all’interpretazione del lettore.

A differenza delle survey quantitative per cui vi sono delle procedure standard (ad esempio i criteri dell’American Psychological Association, che vengono aggiornati pe­ riodicamente) che permettono di verificare a posteriori la qualità dei dati raccolti e delle modalità di raccolta utilizzate, non è possibile applicare procedure simili per l’analisi dei dati qualitativi.

Gli obiettivi delle tecniche qualitative e quantitative di raccolta delle informazioni sono infatti molto diversi e su questo si è visto abbondantemente nella presentazione. Le prime mirano a capire il perché di un certo oggetto di studio mentre le seconde si con­ centrano sul quanto (Krueger, 1994). Nell’economia di una ricerca entrambe possono essere utili, tuttavia assolvono funzioni differenti che richiedono modalità proprie e diffe­ renziate di verifica.

Dato un certo obiettivo dei focus group, in questo contributo per dati di qualità si intendono: dati validi che soddisfino l’obiettivo della ricerca.

La validità è certamente l’obiettivo fondamentale che si prefiggono le tecniche qualitative. Come dicono Britten e Fisher: “ ...vi è una certa verità nel detto che i metodi qualitativi sono attendibili ma non validi e che i metodi qualitativi sono validi ma non attendibili” (Britten e Fisher, 1993).

Mentre la verifica dell’attendibilità dei dati è un fatto essenzialmente tecnico, la verifica della validità comporta delle definizioni concettuali e metodi di verifica indiretta della coerenza con determinate assunzioni.

Perciò i criteri di valutazione dei dati ottenuti attraverso un focus group sono ne­ cessariamente dei criteri indiretti che mirano a verificarne la coerenza con determinate assunzioni.

La prima assunzione, ampiamente condivisa, è che la qualità dei dati ottenuti sia condizionata dal modo in cui vengono organizzati e condotti i focus group. Perciò i cri­ teri di valutazione della bontà di un focus group o di una campagna di focus group

49

rappresentano degli elementi di valutazione indiretta della bontà dei dati che hanno per­ messo di raccogliere.

A questo scopo abbiamo individuato tre momenti chiave nella valutazione della qualità dei dati ottenuti attraverso uno o più focus group:

­ un momento di valutazione a–priori in cui si verifica che siano rispettati i criteri che sono alla base dell’organizzazione di un focus group. Gli elementi di verifica sono i se­ guenti:

­ L’esperienza del moderatore ­ L’accuratezza della interview guide ­ L’accuratezza del disegno campionario ­ Il numero di partecipanti ­ La tipologia dei partecipanti ­ Le motivazioni del partecipanti ­ La pertinenza dei partecipanti ­ La localizzazione e l’ambiente in cui si tiene il focus group.

­ un momento che è stato definito in–progress e che attiene al monitoraggio dell’andamento del focus group. In questa fase gli aspetti principali da prendere in con­ siderazione riguardano principalmente la conduzione del focus group e le dinamiche del gruppo.

­ Il clima del gruppo ­ Il controllo dei tempi ­ Il controllo della saturazione ­ Gli interventi dei partecipanti ­ La varietà delle idee emerse

­ un terzo momento di valutazione ex–post posteriori in cui si verifica l’adeguatezza delle interpretazioni rispetto ai dati raccolti, il raggiungimento degli obiettivi informativi inizia­ li, la verifica della completezza delle informazioni raccolte.

­ Varietà delle idee emerse ­ Saturazione ­ Innovatività delle idee emerse ­ Il rapporto di ricerca ­ Il controllo incrociato delle interpretazioni ­ L’implementazione dei risultati

La chiarezza con cui vengono indicati e giustificati i vari passaggi (definizione del problema, formulazione degli obiettivi informativi, preparazione della interview gui­ de, scelta dei partecipanti formulazione del disegno campionario del focus group, etc.) sono elementi chiave nella valutazione della qualità dei focus group.

Fornire ad altri la possibilità di verificare le conclusioni a cui si arriva e di vagliare la bontà del proprio disegno di ricerca è un imperativo al quale la ricerca qualitativa, al pari di quella quantitativa, non può sottrarsi anche, se i criteri di giudizio non possono essere gli stessi.

Anche se utili dal punto di vista teorico, come verifica del lavoro fatto, i criteri di valutazione a posteriori sono i meno utili per il ricercatore. Nel caso di un esito negativo infatti, essi forniscono un verdetto quando si sarebbero potuti prendere in tempo dei ri­

50

medi. Tuttavia sono utili per coloro che fruiscono di un prodotto di ricerca, per valutarne l’accuratezza e la portata.

Questa lista vuole rappresentare uno strumento di lavoro per il ricercatore che faccia uso dei focus group come modalità di raccolta di dati qualitativo.

51

CRITERI DI QUALITA’ PER LA VALUTAZIONE A PRIORI

ESPERIENZA DEL MODERATORE

Assicurarsi che il moderatore abbia ricevuto un training ade­ guato e che abbia una certa esperienza del ruolo che gli consenta di gestire situazioni ricorrenti ed evitare i principali bias.

ACCURATEZZA DELLA INTERVIEW GUIDE

Appurare che sia stata condotta una ricerca su quanto già noto sull’argomento (letteratura, esperti…). Verificare che le do­ mande non contengano suggerimenti e analizzino tutti gli aspetti dell’argomento in oggetto. La verifica della interview guide attraverso un pilot test depone a favore della sua bontà.

ACCURATEZZA DEL DISEGNO CAMPIONARIO

Verificare che sia stata definita con chiarezza la popolazione target. Assicurarsi che tutte le fonti di variabilità siano rappre­ sentate nel campione. Il disegno campionario nel suo insieme deve consentire il controllo della variabilità.

NUMERO DI PARTECIPANTI Il numero dei partecipanti dovrebbe essere compreso fra 6 e 12. Sebbene talvolta vengano tenuti focus group con meno di 6 partecipanti (mini focus group ) il numero di idee è funzione del numero dei partecipanti e le dinamiche sono meno vivaci in gruppi piccoli. Gruppi con più di 12 persone creano frustra­ zione e sono poco governabili.

TIPOLOGIA DEI PARTECIPANTI A meno che non sia esplicitamente previsto nel disegno della ricerca, ci si dovrebbe assicurare attraverso uno screening pre­ ventivo che i partecipanti siano estranei fra loro. I gruppi dovrebbero essere abbastanza omogenei al loro interno dal punto di vista delle caratteristiche socio–demografiche e della posizione o ruolo gerarchico occupato.

MOTIVAZIONE DEI PARTECIPANTI

I partecipanti al focus group non devono essere cooptati né sentirsi in qualche modo obbligati a partecipare. La motiva­ zione dei partecipanti ne favorisce la collaborazione. Se è previsto un incentivo questo non deve superare le 50–100 mila lire. Un incentivo troppo ricco deve far sospettare una forzatura nel reclutamento.

PERTINENZA DEI PARTECIPANTI

Verificare che la popolazione di riferimento sia stata definita con chiarezza. Evidentemente si possono raccogliere informa­ zioni solo da persone che le posseggono. È quindi necessario assicurarsi che le persone reclutate siano in grado di risponde­ re ai fabbisogni informativi del ricercatore.

LOCALIZZAZIONE E AMBIENTE I focus group hanno il vantaggio di poter essere organizzati in molti luoghi. Assicurarsi che l’ambiente in sui si deve tenere il focus group abbia alcune caratteristiche che possono facilitare l’interazione. Ovvero, una stanza relativamente piccola ed es­ senziale, non rumorosa e in cui sia garantita la privacy. La situazione ottimale è che le persone siano sedute attorno ad un tavolo rotondo.

52

CRITERI DI QUALITA’ PER LA VALUTAZIONE IN–PROGRESS

CLIMA DEL GRUPPO Poiché l’interazione è l’elemento chiave di questa tecnica, è importante riuscire a creare un clima di dialogo fra i parteci­ panti. Il numero degli scambi e la positività degli stessi garantisce la concentrazione dei partecipanti sull’obiettivo del­ la discussione. Un focus group in cui non vi sia interazione fra partecipanti rischia di trasformarsi in un’intervista ai singoli fatta in pubblico con gli ovvi svantaggi che ciò comporta.

CONTROLLO DEI TEMPI Verificare che tutti i punti presenti nella interview guide ven­ gano affrontati in ciascun focus group. seppure può accadere che la discussione prenda una piega inaspettata, in genere, la scaletta degli argomenti dovrebbe essere rispettata. Se alcuni punti non vengono discussi, le ragioni sono da imputarsi ad una interview guide troppo densa o a una scarsa abilità del moderatore. Nel primo caso si impone la necessità di scompor­ re il problema in parti da affrontarsi in separati focus group. il mancato rispetto dei tempi rende difficile l’utilizzo del crite­ rio della saturazione nella decisione di terminare la campagna dei focus group.

CONTROLLO DELLA SATURAZIONE

È un criterio che si può applicare solo quando siano previsti diversi focus group. può essere effettuato sia al termine del numero minimo di focus group stabiliti per tenere sotto con­ trollo la variabilità della popolazione che in progress, dopo ciascun focus group. Il controllo continuo della saturazione deve fornire una guida al moderatore per concentrarsi su que­ gli aspetti che non risultano del tutto esauriti.

INTERVENTI DEI PARTECIPANTI

Deve essere cura del moderatore far sì che tutti i partecipanti abbiano avuto modo di intervenire su tutti i punti della discus­ sione. Nella rilettura delle registrazioni si dovrà verificare che alcuni soggetti non siano rimasti esclusi (con potenziale perdi­ ta di informazioni preziose).

VARIETA’ DELLE IDEE EMERSE Il numero e la gamma delle idee emerse rappresentano un in­ dice del buon funzionamento del gruppo e del fatto che non si è limitata la discussione a pochi aspetti. una categorizzazione delle dimensioni e sottodimensioni a cui si appartengono le idee emerse dovrebbe essere fatta dopo ogni focus group. oni­ torare la varietà delle idee che vengono espresse consente al ricercatore di introdurre gli appropriati correttivi alla inter­ view guide o di introdurre modifiche nella conduzione del focus group.

53

CRITERI DI QUALITA’ A–POSTERIORI

VARIETA’ DELLE IDEE EMERSE Non esiste un criterio oggettivo per stabilire se un certo nu­ mero di idee sia da considerarsi soddisfacente oppure no. certamente la loro varietà è indice di vivacità dei gruppi. Il fatto che le idee coprano vari aspetti del problema o si con­ centrino su pochi aspetti ci fornisce una chiave di lettura sulla più o meno buona conduzione dei gruppi.

SATURAZIONE Una volta che sia stata tenuta sotto controllo la variabilità della popolazione rispetto all’argomento, una campagna di focus group termina quando non emergono più concetti nuo­ vi. Questo dovrebbe essere l’unico criterio per stabilire quando sia il caso di interrompere i focus group. nel caso in cui sia stata effettuata una stratificazione del campione, bi­ sognerà verificare che la saturazione abbia interessato tutti gli strati ed eventualmente concentrarsi solo su quelli in cui non è completa.

INNOVATIVITA’ DELLE IDEE EMERSE

I focus group non vengono condotti per produrre idee di cui si è già a conoscenza. Se la varietà delle idee è un indice del buon funzionamento del gruppo, l’innovatività delle stesse, il loro valore aggiunto, ci informa sulla buona organizzazione del focus group e in particolare della interview guide. Se non emergono idee nuove si rende necessario ripensare le do­ mande e l’impostazione della interview guide o verificare di nuovo la pertinenza delle persone reclutate.

RAPPORTO DI RICERCA Il rapporto deve essere stilato in modo tale che il lettore pos­ sa distinguere fra i fatti e le interpretazioni. A questo proposito è opportuno riportare ampi brani delle conversa­ zioni a supporto delle interpretazioni fornite. Per ogni punto dovrebbero essere riportati tutti i punti di vista, senza trascu­ rare quelli minoritari. Sarebbe auspicabile che il rapporto fosse scritto indipendentemente da due ricercatori, e succes­ sivamente comparato.

CONTROLLO INCROCIATO DELLE INTERPRETAZIONI

Certamente questo è uno dei criteri di qualità più importanti della ricerca qualitativa in genere. Se due ricercatori indi­ pendenti a partire dagli stessi dati giungono alle stesse conclusioni si può ragionevolmente concludere che non vi sia stata distorsione o misinterpretazione. Evidentemente la qualità dei dati è fondamentale. La correttezza delle interpre­ tazioni non ci dice nulla sulla verità di una conclusione se i dati a partire dai quali erano viziati o incompleti.

IMPLEMENTAZIONE DEI RISULTATI

La prova del fuoco di un focus group o di una campagna di focus group sta nella sua ricaduta pratica. Se i focus group sono stati organizzati per costruire un questionario, i risultati della validazione del questionario rappresentano una verifica indiretta della bontà dei dati raccolti, sempre che la scelta degli item sia stata effettuata coerentemente con quanto e­ merso nei focus group. Lo stesso dicasi, ad esempio, per i risultati di una campagna pubblicitaria.

54

8.2. Complementi

Si è iniziato questo libretto parlando dei casi in cui fare o non fare il focus group e in cer­ te situazioni si è consigliato di ricorrere ad altre tecniche. Vi è tuttavia una serie di casi in cui i focus group sarebbero indicati, ma in cui una serie di circostanze rendono difficile la loro applicazione. Fra queste circostanze si possono elencare le seguenti:

­ casi di problematiche delicate. Alcune persone non discutono serenamente in gruppo perché temono giudizi morali (la decisione di partecipare ad un focus group da parte di persone, a volte è piuttosto travagliata);

­ casi in cui si ha l’impressione che le persone non dicano tutto quello che pensano per la paura (giustificata o ingiustificata) di controlli o ritorsioni, ad esempio dipendenti di aziende o istituzioni, o di degenti negli ospedali;

­ casi nei quali il numero di focus group è limitato per motivi di budget, in cui tuttavia si ha l’impressione che la saturazione non sia stata raggiunta.

In questi casi, è bene disporre di un controllo, che potrebbe, ad esempio essere effettuato attraverso interviste individuali. Tuttavia in questo caso, è difficile utilizzare in pieno quanto emerso dai focus group ef­ fettuati durante la campagna e si rischia di utilizzare una tecnica che, tutto sommato, è eterogenea rispetto alla procedura precedente. Corrao (2000) propone la tecnica RD, che potrebbe essere utile in casi come quelli elen­ cati sopra. La tecnica RD consiste nel riportare le fasi salienti dei focus group su nastro, o in trascri­ zioni ragionate, in modo da sottoporle ad un intervistato individualmente, invitandolo a reagire a quanto emerge dalla discussione. Questa tecnica ha il vantaggio di permettere all’intervistato di inserirsi direttamente nel dibattito del focus group, cogliendone la dinamica, evitando ridondanze rispetto a cose già emerse e fornendo opinioni potenzialmente nuove. Questa ci sembra un’estensione opportuna, perché è intrinseca alla tecnica del focus group, mantenendo una elevata omogeneità rispetto ai contenuti e rispetto alla tecnica stessa. Essa permette ad esempio di utilizzare il materiale emerso, nella elaborazione del materiale raccolto attraverso i focus group. Altre tecniche di gruppo (brain­storming, Delphi, NGT) introdurrebbe infatti delle com­ ponenti eterogenee. Il loro uso va naturalmente raccomandato, a patto che la loro logica sia consistente con il processo nel quale vengono utilizzati e a patto che i materiali rac­ colti per queste diverse via abbiano funzioni distinte e specifiche.

55

56

BIBLIOGRAFIA

Abramczyk LW. Gruppi focali come strumento di ricerca e valutazione. In Vecchiato T (a cura di) La valutazione dei servizi sociali e sanitari. Padova; Fondazione Zancan, 1995.

Bailey KD. Metodi della ricerca sociale. Bologna;. Il Mulino 1985. Baraldi C. L’orientamento epistemologico della ricerca empirica. In Cipolla C (a cura di), Il ciclo meto­

dologico della ricerca sociale. Milano; Angeli, 1999. Bertaux D. L’approche biographique: sa validité methodologique et ses potentialités. Cahiers Interna­

tionaux de Sociologie, 1980; LXLX (4):197–225. Bertaux D (a cura di). Biography and Society. London: Sage, 1981. Bertrand JT, Brown JE, Ward VM. Thecniques for Analyzing focus group Data. Evaluation Review

1992;16(2):198–209. Blalock HMJ. Statistica per la ricerca sociale. Bologna; Il Mulino, 1969. Bogdan R, Taylor SJ. Introduction to qualitative Research Methods. New York; Wiley 1975. Boissevain J, Mitchell JC(a cura di). Network Analysis: Studies in Human Interaction, L'Aia e Parigi;

Mouton, 1973. Britten N, Fisher B. Qualitative Research and General Practice (editorial). British Journal of Medical

Practice, 1993;43:270–1. Cardano F. Il sociologo e le sue muse: qualità e quantità nella ricerca sociologica", in Rassegna italiana

di sociologia, 1991;2:181–223. Chiesi AM. L'analisi dei reticoli sociali: un'introduzione alle tecniche. Rassegna italiana di sociologia,

1980; XXI, 2: Cipolla C. Epistemologia della tolleranza. Milano; Angeli, 1997. Coleman J.S. Social Theory, Social Research and the Theory of Action. In American Journal of Sociol­

ogy, 1986; 6:1309–35. College of Health. Focus Group. Training in Consumer Audit/Research Techniques.The College of He­

alth, London 2001. Corrao S. Il focus group. Angeli, Milano, 2000. Corbetta P. Metodologia e tecniche della ricerca sociale. Bologna: Il Mulino, 1999. Diener E. Assessing subjective well–being. Social Indicators Research 1994; 31: 103–157. Durkheim E. Le regole del metodo sociologico. Milano; Comunità, 1972. Filstead WJ. Qualitative Methodology: Firsthand Involvement with the Social World. Chicago: Marck­

ham, 1970. Gadamer HG. Verità e metodo. Milano; Fabbri, 1972. Galtung J. Theory and Methods of Social Research. New York; Columbia Univ. Press, 1965. Gasperoni G, Marradi A. Metodo e tecniche nelle scienze sociali. Enciclopedia delle scienze sociali.

Roma; Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996. Glaser B, Strauss AL. The Discovery of Grounded Theory: Strategies of Qualitative Research; Chicago;

Aldine, 1967. Gobo G. Dalle domande alle risposte. Il contributo delle scienze cognitive alla tecnica del questionario.

In Neresini (a cura di), op cit. Goldman E. The Group Depht Interview: Principles and Practice. Englewood Cliffs NJ; Prentice Hall,

1962. Goode W, Hatt P. Metodologia della ricerca sociale. Bologna. Il Mulino, 1962. Greenlagh T, Taylor P. Papers that go beyond numbers: qualitative research. British Medical Journal

1997; 315:740–743. Hacking I. The Social Construction of What? Cambridge Mass.; Harvard University Press, 1999. Hempel CG. The functions of general laws in history. Journal of Philosophy, 1942: 39:

57

Hempel CG. La formazione del concetti e delle teorie nella scienza empirica. Milano; Feltrinelli, 1961. Huberman AM., Miles MB. Drawing Valid Meaning from Qualitative Data. Quality and Quantity,

1983; 17:281–339

Jedlowski P. Il mondo in questione. Roma; Carocci 1999. Jick TD. Mixing Qualitative and Quantitative Methods: The Triangulation in Action”, in Van Maanen

J.(a cura di) Qualitative Methodology, Sage, New York.1983:135–148. Kelleher J. Find out what your customers really want. Inc 1982; 4(1):88–91. Kennedy F. The focused intervies and moderator bias. Marketing Review1976; 31:19–21. Kitzinger J. Introducing focus group s, in Mays N, Pope C. (a cura di) Qualitative Research in Health

Care. London: British Medical Journal Publishing Group, 1996:36–45 Krippendorf K. Analisi del contenuto: Introduzione metodologica. Torino; ERI, 1983. Krueger RA. focus group s. A Practical Guide for Applied Research. London–Beverly Hill Sage, 1994. Lallement M. Le idee della sociologia. Roma; Dedalo, 1996. Leonardi F. Contro l’analisi qualitativa. In Sociologia e ricerca sociale 1991; 35:3–29. Lazarsfeld PF. Metodologia della ricerca sociologica, Bologna: Il Mulino, 1965. Lazarsfeld PF.Dai concetti agli indici empirici" in R.Boudon e P.F.Lazarsfeld, op. cit. 1965. Lazarsfeld PF. The Art of Asking Why. In P.Lazarsfeld, Qualitative Analysis, Boston; Allyn & Bacon,

1972. Lebart L, Morineau A, Becue M, Haeusler L. SPADT–T Version 1.5. Système Portable pour l'Analyse

des Données Textuelles. Saint–Mandé; CISIA, 1989, 94. Liebes T, Katz E. The export of meaning. Oxford; Oxford University Press, 1990. Lunt P, Livingstone S. Rethinking the focus group in media and communication re–search. Journal of

communication, 1996; XLV(2):79–98. Marradi A. Concetti e metodi per la ricerca sociale. Firenze; Giuntina, 1982. Marradi A. Misurazione e scale: qualche riflessione e una proposta", in Quaderni di sociologia, 1980–

81;4: Mays N, Pope C. (a cura di) Qualitative Research in Health Care. London: British Medical Journal Pub­

lishing Group, 1996. Marshall C, Rossman GB. Designing Qualitative Research. London 1999: Sage. Maslow A.H. Motivation and Personality. New York: Harper and Row, 1954. Murray HA. Explorations in personality. New York: Oxford University Press, 1938. McClintock AJ., Brannon JC., Maynard–Moody H. Applying the Logic of Sample Survey to Qualitative

Case Studies: The Case Cluster Method”, in Van Maanen D.(a cura di) Qualitative Methodol­ ogy, Sage, New York 1983: pp 149–177.

McKenna S, Hunt S. Conceptual and methodological advances in quality of life measurement: depres­ sion and the QLDS. The British Journal of Medical Economics 1992; 4: 51–61.

Merton RK, Fiske M, Kendall PL. The Focussed Interview. New York; Free Press, 1956. Merton RK., Lazarsfeld P. Studi sulla propaganda radiofonica e cimenatografica, in Merton RK (a cura

di), Teoria e struttura sociale. Free Press 1957, Glencoe Ill.:817–847. Miles MB, Huberman AM. Qualitative Data Analysis: An Expanded Sourcebook Thousand Oaks CA;

Sage, 1994. Morgan DL. focus group as Qualitative Research. London: Sage, 1993 Morgan DL. Successful focus group. Advancing the State of the Art. London: sage, 1993 Nadel SF. Lineamenti di antropologia sociale. Roma–Bari; Laterza, 1972. Neresini F. (a cura di). Interpretazione e ricerca sociologica. Urbino; Quattroventi, 1997. Niero M. Metodologia e tecnica delle ricerca sociale per il servizio sociale. Roma: Carocci, 1999. Niero M. Paradigmi e metodi di ricerca sociale. Vicenza: Nuovo Progetto, 1993. Oprandi N, Niero M. Quality assessment criteria for focus group campaigns. Quality of Life Newsletter

2000; 24: 15–16. Perrone L. Metodi quantitativi della ricerca sociale. Milano; Feltrinelli, 1977. Popper K. Congetture e confutazioni. Bologna: Il Mulino, 1969. Richards L. Introduction to Nvivo: a workshop handbook. Bundoora (Victoria); Qualitative Solition and

Research Pty, 1999. Ricolfi L (a cura di). La ricerca qualitativa. Roma; NIS, 1997. Statera G. La conoscenza sociologica. Napoli; Liguori, 1977.

58

Schwartz H, Jacobs J. Qualitative Sociology. London. The Free Press, 1979. Shutz A. Saggi sociologici. Torino; UTET, 1979. Stewart DW, Shamdasani PN. focus group. Theory and Practice. New York. Sage, 1990. Thompson WG, Longstreth GF, Drossman DA et al. Functional Bowel Disease and functional abdomi­

nal pain. Gut 1999; 45 (suppl II): 43–7. Toulmin SE. Human Understanding. Princeton NJ, 1972; Von Wright GH. Spiegazione e comprensione. Bologna. Il Mulino, 1977. Weber M. Il metodo delle scienze storico sociali. Torino. Einaudi, 1958. Wilson TP. Metodi qualitativi contro metodi quantitativi nella ricerca sociale.In Sociolgia e ricerca so­

ciale 1989;29:3–33 Wright–Mills C. L’immaginazione sociologica. Bologna. Il Mulino 1959 Yin G. Case Analysis, Beverly Hills; Sage Publications, 1994. Zoll R. Introduzione all’interpretazione ermeneutica collettiva. In Neresini, op. cit.

59