n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente...

28
n.8

Transcript of n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente...

Page 1: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

n.8

Page 2: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

2

Page 3: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

3

Assieme a Herman Melville e a Mark Twain, Nathaniel Hawthorne è solita-mente considerato il padre fondatore della moderna letteratura america-

na. Come i suoi colleghi, anch’egli diede alle stampe per lo meno un libro «infer-nale», stando alle sue parole: idealmente riponiamo La lettera scarlatta a fianco di Moby Dick, un romanzo “formativo” che oltre al «sacro vincolo matrimoniale tra maschi» e agli effetti deleteri di una dieta a base di fagioli celebra la vita come dannazione eterna, e a Le Avventure di Huckleberry Finn, altro romanzetto “di-vertente” il cui protagonista ammette candidamente che sì, andrà all’inferno.

Hawthorne non era certo il tipo dello scrittore virile, né tantomeno bohémien, ci mancherebbe: visse fino a quarant’anni morbosamente coccolato da madre e sorelle, si sposò in età adulta con una pallida zitella ipocondriaca, tentò con scarsissimi risultati di vivere in una comunità trascendentalista – roba di hippies ante-litteram (vedi Il romanzo di Valgioiosa) – costringendosi infine a trascorrere una «penosa schiavitù» presso la dogana di Salem, MA, pesando sale e carbone.

Era però, questo poco ma sicuro, un uomo tormentato ed esacerbato (e magari pure impotente e predestinato), che concepiva la scrittura come ossessivo atto di espiazione, che ritraeva se stesso in un certo personaggio (Oberon) triste e ma-linconico, che esordì ricomprando tutte le copie del suo primo romanzo e dando loro fuoco nella convinzione che «gli scrittori sono poveri diavoli e perciò Satana li uncina a suo piacere».

Il fatto che i suoi antenati perseguitarono e mandarono al rogo una buona quo-ta di streghe deve aver pesato non poco sulla sua coscienza e anzitutto deve aver-gli instillato un paio di idee quantomeno malsane: che la dannazione eterna sia un destino plausibile (La casa dei sette abbaini) e che l’(oscena) essenza del reale risieda nell’indicibile o nell’inattingibile (Il velo nero del pastore o Il giovane buon Brown).

Oggi lo ricordiamo soprattutto per quel «testamento di un uomo spiritualmen-te suicida» che è La lettera scarlatta, in cui si racconta di una giovane donzella che per avere avuto un figlio al di fuori del matrimonio (e da un prete, per giunta) viene fisicamente taggata con la A di “adultera”, ritenuta demoniaca e per que-sto condannata a morire da peccatrice. Ovviamente Hawthorne è troppo pavido per raccontarci nel dettaglio la morbosità del suddetto patto faustiano: e infatti questo romanzo che ci insegna che l’inferno, in fin dei conti, esiste per davvero, oggi lo leggiamo superficialmente, senza prestare fede alle parole di biasimo per il genere umano – e per il sesso femminile in particolare – spese dal suo autore. Indi per cui mi prenderò io l’onere di esplicitare alle donne adultere che stessero leggendo queste righe le parole con cui Hawthorne condannò la sua corrotta eroi-na: «Io vi battezzo non nel nome del Padre, ma nel nome del Demonio». Amen.

The GodfatherNathaniel Hawthornedi FILIPPO PENACCHIO

Page 4: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

4

Sommario

Benvenuti a Finzioni numero otto. Si avvicina il primo compleanno del progetto di lettura creativa e, per festeg-giarlo, abbiamo preparato un numero bellissimo e un’of-ferta da far impallidire la renna di Babbo Natale, quella col naso rosso.

Torna il grande cinema su Finzioni, con Amici Miei (fonte inesauribile di idee e supercazzole) e Where the wild things are, tratto dal libro illustrato di Maurice Sen-dak e sceneggiato da Dave Eggers.

Inizia poi una rubrica, curata da Licia Ambu, dove fi-nalmente ci si mette nei panni del povero libraio che vende una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer-cavo un libro ma non ricordo né il titolo né l’autore.

Finzioni però non è solo intrattenimento culturale ai

Editorialemassimi livelli. Noi, infatti, pensiamo anche ai problemi di tutti i giorni come “cosa regalare per Natale a chi voglio bene?”

Semplice, regala Finzioni! Sei mesi di abbonamento da gennaio a giugno al costo di una stecca di carbone. Tutti quelli che aderiranno all’offerta, per non rimanere a mani vuote il 25, riceveranno via mail un pdf da stampa-re con la conferma del regalo, giusto giusto per metterla nella busta dove di solito la nonna mette i soldi, così la sorpresa sarà doppia!

Tutti i dettagli su finzionimagazine.it e finzioni.bi-gcartel.com.

La Redazione

La citazione del mese 5

Le vite ortogonali 6

Libri (quasi) mai letti 7

Letterature Involontarie 8

Nobel minori 10

Punizioni! 11

Biografie Edulcorate 12

Me lo copre il prezzo? 13

Le città letterarie 13

Oh, Scena! 14

Viaggi 15

La lettera che muore 16

Mattoni 17

L'angolo del cinematografo 18

Pillole di Scienza 19

I ferri del mestiere 20

La posta dei lettori 21

Metaletterari di carta 23

Ghost World 24

Iperboloser 25

Page 5: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

5

Cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'oc-chio e velocità di esecuzione.

Philippe Noiret alias Giorgio Perozzi, Amici miei.

Premessa: chi non ha mai visto Amici miei lo guardi, per ca-

rità di Dio, lo guardi!

Il Perozzi, ammirato dalla fan-tasia dell’amico Necchi e dalla sua - diciamolo - cacca, si interroga su cosa sia il genio. Non a caso proprio a lui viene affidato questo ragiona-mento, visto che il personaggio del goliardico giornalista rappresenta l’inizio e la fine del film, il suo nume tutelare. Il genio stesso, insomma.

Ma allora, cos’è il genio. Molti hanno provato a spiegarlo. Inizia-mo da quel nume tutelare di Har-lod Bloom che, nel suo didascalico libro Il genio, ne parla come senso d’eccellenza. E parla dell’eccellere come l’aspirazione allo straordi-nario e al trascendente. Mmmm, trascendente. Dunque al di là di se stessi, fuori da sé.

Ma Orazio, il poeta, diceva che il genio “è il dio della natura umana, il dio che abbiamo dentro di noi”.

Allora il genio è qualcosa che ab-biamo dentro e che per esprimersi ci trascende, cioè diventa oltre noi e, per questo, ci resiste nel tempo e nello spazio. L’opera di Leonardo da Vinci in effetti lo ha di certo supera-to in longevità. Per un tal Censorino poi (nato nel 238 d.C.) è anche l’an-gelo custode che protegge e mette sulla retta via.

Adesso la cosa si fa interessante: nella cultura araba, ove noi infe-deli tendiamo sempre ad associare il genio alla lampada, il jinn deriva dalla lingua aramaica e significa “nascondersi, occultarsi”. Dentro di noi evidentemente. E quando il jinn esce di solito è cattivo e dun-que, uccidendoci, ci sopravvive.

Romani, arabi, supercazzole e vecchi critici letterari ricalcano più o meno la stessa dinamica: il genio, qualunque cosa sia, è nascosto den-tro di noi ma esce fuori (trascende) e, buono o cattivo che sia, vive an-che dopo di noi. Non a caso Philip-

pe Noiret è morto tre anni fa ma la sua idea ci fa ancora da spunto.

Ed ecco che arriva il personag-gione: Dave Eggers. Nella sua Opera struggente di un formidabile genio ci sono due brani incredibili, uno da pagina 166 e l’altro a pagina 271, in cui Eggers, che si trova a essere, per tutto il libro, autore, narratore e personaggio, entra letteralmen-te con la sua voce fuori campo nei discorsi che i protagonisti, lui com-preso, stanno facendo nella narra-zione, redarguendoli - addirittura dice al suo fratellino che sta uscen-do troppo dal personaggio (!) - e quindi rimettendoli sulla retta via. Ecco il genio dei romani, degli arabi e di Monicelli. E’ dentro, nascosto, poi esce, trascende, è cattivo, re-darguisce e mette sulla retta via.

Dave Eggers è letteralmente il genio del suo libro e il libro è la sua lampada. Ecco, l’ho detto.

La citazione del meseIl genio & Opera struggente di un formi-dabile geniodi JACOPO CIRILLO

Page 6: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

6

Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome

di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cer-cò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esa-minare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze.

Alexei Ivanovich

Alexei è una pedina nelle mani delle donne. È proprio una donna che gli fa assaporare il suo errore: il gioco d’azzardo. Una dama france-se lo distruggerà quando sarà ricco e una vecchia sarà lì ad assillarlo con le giocate, ma Polina, la donna di cui si innamora, sarà la sua rovi-na dall’inizio alla fine.

Dostoevskij metterà Alexei in mezzo a ricconi senza scrupoli, dove finirà per credere che l’unico modo per ottenere il cuore di Polina sia diventare ricco. E ci riesce!, ma è tutto inutile, e Polina parte disprez-zandolo più di prima.

Alexei e Polina non si vedranno per molto tempo. Un giorno Alexei riceverà dei soldi da un amico per-ché possa farsi una carriera. Que-sto amico gli rivelerà che Polina lo ama e i sogni del giocatore, subito andranno a lei e al gioco d’azzar-do. Ancora convinto di poterla rag-giungere con i soldi, andrà fantasti-cando grandi vincite e altrettanto

Le vite ortogonaliKugelmass vs Alexei Ivanovichdi JACOPO DONATI

amore.

Kugelmass

Kugelmass è professore di lettere universitario. Ha due figli, una mo-glie-balenottera e una montagna di alimenti da pagare alla prima moglie. La vita ristagna monotona nel suo petto peloso e ha bisogno dir provare emozioni nuove. Cosa fareste se vi fosse data la possibilità di entrare in un romanzo a vostra scelta?

Woody Allen, che dirige Kugel-mass da dietro la pagina, sceglie la tresca con Emma Bovary. Quale miglior opzione di una storia lette-raria per non essere colti in flagran-te? Grazie a un tale di nome Persky, Kugelmass entra nel libro e si ab-bandona all’amore. Commette però commette l’errore di portare Emma fuori dal romanzo in cui non riusci-rà a rientrare. “O mi riporti nel ro-manzo o mi sposi!” e quella che era una semplice scappatella si tramuta in incubo. Un collega di Kugelmass lo riconosce e minaccia di dire tut-to alla moglie, ma tutto si rimette a posto e il professore di lettere impa-ra la lezione: non tradirà più.

Bastano poche settimane perché la lezione imparata svanisca. Ku-gelmass ci riprova ma qualcosa va storto. Una volta entrato nel libro il marchingegno prende fuoco e Per-sky muore. Kugelmass non si ritro-va nel romanzo che credeva ma in un manuale di spagnolo in cui fini-rà i suoi giorni inseguito dal verbo irregolare tener.

Cosa c’è di ortogonale tra la vita di Kugelmass e quella di Ivanovich? Una cosa li distingue nei loro errori: Alexei sogna di recuperare le per-dite alla roulette per essere accet-tato da Polina, mentre Kugelmass è guidato più dagli ormoni che dal cuore. Per Alexei l’errore, il gioco d’azzardo, è solo un mezzo, per l’al-tro è il fine. Meglio tenerlo a mente se non si vuole finire i propri giorni inseguiti da mostri ben peggiori di un verbo irregolare.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij - Il giocatore.

Woody Allen - Il caso Kugelmass in Effetti collaterali.

Page 7: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

7

Mi permetto, questa volta, una variazione sul tema:

la fenomenologia dei libri quasi mai letti. Il dove e il come stanno nel mondo. Perché capita, sapete, di iniziarli e non finirli, ma anche di incontrarli. E vederli lì, proprio come libri quasi mai letti, in molti casi, mi mette una grandissima tri-stezza.

Uno di questi casi capita qualche giorno fa, quando ho avuto modo di soffermarmi sull’elegante libre-ria di una laureatissima famiglia benestante. Mi piace osservare le librerie di tutte le case, curiosar-ci dentro, rapirne idee. Ma sono le suddette scansie che meritano tutto il mio spazio, questo mese.

Ebbene, davanti al design ultra moderno di questi discreti scaffali borghesi, la prima cosa che penso è: questa libreria è falsa. Nulla che sia fuori posto, nulla che non ci si aspetti, nulla che non si conosca già. L’insieme dei libri sta lì davanti a te a dirti: “ecco! Guardami e giu-dica”. Ogni volume è ordinato per casa editrice: ma non trapela l’amo-re fisico per il libro quanto piuttosto una mania estetica fine a se stessa. O all’armonia del salotto.

E poi si capisce, la bella libre-ria è anche una brava libreria. Ed ecco sciorinati e mescolati tutti i titoli della migliore o peggiore (non so), ma comunque più ovvia, tradizione letteraria: Il nome della rosa, Io uccido, Il giardino dei Finzi Contini, La mia Africa, Il codice da Vinci, La metamorfosi, Mille splen-

Libri (quasi) mai lettiFenomenologia dei libri quasi mai lettidi MARIA GIOVANNA ZICCARDI

didi soli, Paula, Via col vento, vari titoli di Grisham, molti cataloghi illustrati di Raffaello o Leonardo, la serie completa dell’enciclopedia della filosofia, una dozzina di li-bri della collana della Repubblica (libro+giornale, di qualche anno fa). Nessuna edizione economica, nemmeno di Feltrinelli. Nessun libro più vecchio di 10 anni. Nes-sun mattone, nessuna stramberia, nessuna biografia astrusa, nessun guizzo imprevisto. Nessun autore che non avesse venduto almeno un best seller. Niente che assomiglias-se al singhiozzante, naturale, ac-cumulo di una famiglia che studia, che guarda, che sceglie cosa leggere perché il piacere di leggere comin-cia proprio da questa scelta (eco-nomica, personale, intellettuale, stupida, morale, irrazionale, pre-giudicata, impregiudicata, spregiu-dicata). Una libreria, invece, senza aggettivi. Orfana di imprecisione. Una messa in scena, dove la scena è la perfezione che più si cerca e più sfugge. E stona. Possibile che anche i libri possano diventare artificio?

Libri quasi mai letti. Perché me-ritavano di non essere letti e non lo sono stati o perché meritavano di essere letti ma sono stati trasfor-mati in oggetti di arredo. Chiama-ti, in qualche modo, a fare status. E in effetti lo fanno: sterilizzati di qualsiasi fascino, non chiamano, non vibrano, ma veicolano un’idea assolutamente precisa. Quella ap-punto di un’esposizione che cerca approvazione, e non della tua bi-blioteca che sfogli e sfoggi anche, sì, ma con commozione, con entu-siasmo, o magari rammaricandoti che “è tutta lì”. Una libreria per gli invitati.

L’abbandono dei libri quasi mai letti è anche questo. E vorrei sotto-lineare il quasi. Perché una libre-ria congegnata in quel modo non segnala tanto un’assenza, quanto piuttosto un disinteresse. Un inte-resse che arriva fino a “lì”, perché comunque ha gli strumenti per ar-rivarci, ma non si spreca oltre. E a quel punto i libri vanno benissimo per fare bello (e bravo) il salotto.

Page 8: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

8

Le memorie si danno alle car-te, se si ha tempo e penna per

scriverne. Diventano best seller e in qualche modo si maiuscolano, scaffalano, scontrinano. Altre vol-te rimangono semplici diari e altre volte ancora - molte per la verità - fi-niscono nella spazzatura, scambia-te per qualcos’altro da tua madre o da una domestica d’improvvida latitudine. Ma sono sempre memo-rie, memorie che sanno di banana, di sangue mestruale, di marcio, di niente, di tutto, di quello che fini-sce nei cassonetti, insomma. Ci sono anche altre memorie, certo. Memorie date alle fiamme, arse su pire, fuochi, roghi, memorie di popoli che hanno voglia e fretta di essere altro, senza sapere – per al-tro - che non ce la faranno mai. C’è memoria da confidare, memoria da falsare, memoria da nascondere, memoria da esaltare. C’è memoria e, più spesso, non ce n’è. Non ce n’è, punto. Non c’è traccia di trac-cia né orma di orma, niente. Peti senza metano. E per come la vedo io, anche se svariati e saggi maestri in velluto a coste sono soliti dire il contrario, non è detto che sia sem-pre un male. Perché si può anche ricordare alla René Ferretti, cioè – fuor di metafora – ricordare ‘a caz-

zo di cane’ e a quel punto, quando il passato proprio e altrui è reso alla caricatura di se stesso, incancreni-to nella sintassi ebete di un pensie-ro sconcio e meschino, a quel punto – voglio dire – anche l’Alzheimer fa la sua porca figura nel carnet delle possibili alternative.

Ora: non serviva la quantistica per spiegarci che non si può mai dire il Vero, perché IL vero è sempre UN vero ed è l’osservatore che deci-de e bla bla bla. Serve però l’espe-rienza di uomini con le palle anco-rate al mondo per spiegarci che si può, e si può davvero, dire cose non false. La verità è inattingibile (gra-zie e Graziella) ma non per questo è d’obbligo la menzogna. Quando parlate del vostro passato, quan-do lo raccontate all’orecchio del povero stronzo che nella fila vi sta davanti (perché le generazioni, se non lo sapeste, sono ferme in coda aspettando che un impiegato dica loro chi sono), quando fate questo, insomma, nulla vi vieta di essere onesti. Mi sono informato, ho fatto una coda e un impiegato me l’ha detto: si può! E mi piace pensare che quel medico chirurgo di nome Alberto Burri, avendo visto i resti di Gibellina dopo il terremoto del

LetteratureinvolontarieLa memoria fra il cretto e la palude. Cose non false da dire in coda.di EDOARDO LUCATTI

Belice, abbia pensato qualcosa di simile. Gibellina è un paese sici-liano in provincia di Trapani, che il noto sisma del 1968 rase completa-mente al suolo, senza risparmiare nemmeno ciò che il caso, a volte, mantiene in piedi. Il terremoto, a Gibellina, è stato piuttosto preci-so. Ed è proprio di quella lutulenta precisione che Burri ha recato, one-stamente, memoria. Non l’ha fatto scrivendo un carme, scolpendo una stele, o innalzando un monumento, con cui un po’ – per forza – avrebbe mentito. No. Ha preso tonnellate, tonnellate e tonnellate di cemento e le ha colate sopra l’intera pianta del Paese, un unico blocco omogeneo spezzato solo dall’impianto via-rio originale, conservato e tutt’ora percorribile. Forse il Cretto di Burri non dice il vero, ma certamente dice cose non false. Visto dall’alto, forni-sce la prospettiva che un osservato-

Page 9: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

9

0

5

10

15

20

Verbosometro

Ritaglia il verbosometroe attaccalo sulla schiena

del tuo amico verboso

re irreale avrebbe avuto se durante il terremoto fosse stato sottoterra e avesse visto la stessa aprirsi. Vedi strade come faglie, spaccature, e le vedi dall’alto anche se sono il pano-rama impossibile di un uomo irre-ale che sottoterra, quando il sisma colpì Gibellina, non c’è mai stato. Non è la verità. Sono solo cose non false. Memorie oneste adese a opere d’arte il cui genio, nella grandezza che sconti se ci passi davanti, è an-nichilente.

Ai traumi che furono si aggiungo-no poi i traumi che potrebbero. La pianura bolognese, con i suoi 1.600 canali ormai incapaci di far defluire i carichi attuali di pioggia, potrebbe tornare a essere la palude che era. Così, da un momento all’altro. Ba-sterebbe solo che si verificasse una certa congiuntura metereologica, per altro in tendenziale avvicina-

mento, e nel giro di sei mesi chi vi scrive continuerebbe a farlo da una zattera o da una palafitta, punzec-chiando con un remo il cadavere galleggiante di Gianni Morandi. La memoria dell’acqua è un po’ diver-sa da quella del cemento. Ricorda-re con la testa sott’acqua, se mai vi fosse capitato, non è poi così male: ti senti nuovo, inedito, suscettibile di infinite nascite, sul punto di lan-ciare la palla del secolo nella più clamorosa delle partite di baseball, quando tutto il casino dello stadio si rapprende in un boato indistinto e ti fodera le orecchie di ovatta. E al-lora sei solo sblub e sbloab. O crack, ma allora sei tornato sulla terra che trema, a Gibellina. Sblub. Sblub e crack.

Cose non false.

Page 10: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

10

Verbosometro

L’eloquio deloquia: lo si parametri, dunque, in funzione di soglie di

verbosità che ne dipanino l’evolvere, l’involvere e

l’avvolvere.

Da 0 a 5 espressioni verbose.Latenza del verboso. Il singolare riluce nel pauperismo dei villici, ramingo dinoterio prosodico scampato all’impudente glaciarsi del dire.

Da 5 a 10 espressioni verbose.Brezza verbosa. Distendesi l’eloquio lungo plaghe d’orpelli musabili, muscovite di senso che rattiene la voce in gibigiana.

Da 10 a 15 espressioni verbose.Telluria verbosa. Ciacchero clivo del sema che incerona l’abisso a meta, liberando legioni d’una lutulenza che ‘l pudore tenea per ascosa.

Da 15 a 20 espressioni verbose. Verbocrazia. Tripudio fulgente della lingua: di fuètto s’agguizzano i nervi palatali; ne promana un sentire che mal s’addice al fucato anelito del frasaio e ben si predica, invece, d’un dire-miele la cui voce - per ovunque - si dissipa.

Più di 20 espressioni verbose.Verborrimìa. Il nulla s’attarda nel discorso e ne fa vano asfodelo.

tura patriarcale e maschilista della società viennese. Il sesso quindi di-venta una sorta di indicatore dello stato della società: se è onnipresen-te nelle forme più violente e malate, beh, evidentemente “c’è del marcio in Austria”…

Ne Le amanti (Sperling&Kupfer, 178 p., € 10,50) Jelinek ci racconta degli “oggetti Brigitte e Paula”, al-ternando capitoli che, per strade divise ma parallele, seguono la vita di due donne diverse ma uguali nel loro percorso: entrambe trascorro-no un’esistenza priva di prospettive per il futuro; entrambe affidano la propria felicità ad un uomo, ambi-scono al matrimonio per ragioni economiche e per realizzarsi so-cialmente in un ambiente, quello piccolo-borghese austriaco, che le vuole imprigionate nel ruolo di mogli-madri-casalinghe.

Il sesso violento, brutale, sia dal punto di vista fisico che psicologi-co, che ci viene raccontato nel ro-manzo, è vissuto come strumento nel rapporto di forza che si crea tra le due coppie di amanti: le donne lo usano per legare l’uomo a sé e as-sicurarsi un futuro; gli uomini per soggiogare la donna. In ogni caso che si presenti, è sempre quest’ul-tima a risultare vittima, prima dell’amante e poi, ancor peggio, di se stessa, non avendo la forza inte-riore, tanto meno l’appoggio ester-no, per reagire all’abuso di potere perpetrato ai suoi danni. “Se qual-cuno ha un destino, è un uomo. Se qualcuno riceve un destino, è una donna”

Ci si immagina i membri dell’ Accademia Svedese come una

commissione composta da vecchi professori austeri, dai rigorosi gusti letterari, cultori del purismo lingui-stico e un po’ propensi al politically correct, soprattutto se si tratta di assegnare l’onorificenza più ambita al mondo. Poi si scopre che la Jeli-nek ha vinto il Nobel per la lettera-tura nel 2004 e ci si deve ricredere: i vegliardi hanno decisamente il gusto della provocazione .

Innanzitutto Elfriede Jelinek è la donna più odiata dal governo au-striaco, e anche nel resto dell’Eu-ropa non se la cava niente male: sarà perché non perde occasione di criticare politica e società viennese sostenendo che l’unico lato inno-cente che l’Austria mostra al mon-do di sé è quello turistico, quello delle cartoline con Alpi innevate e piste da sci, dietro al quale però si nasconderebbe una realtà fatta di autoritarismo, “monocultura dei pareri”, disprezzo per arte e artisti; sarà perché inquina quelle imma-gini idilliache di verdi boschi e pla-cide vacche al pascolo, che tutti noi abbiamo in mente, ambientandoci sconcerie di ogni tipo.

L’arte della Jelinek, però, è lontana dall’essere pornografia, oscenità fine a se stessa. Semplicemente la scrittrice non si risparmia né sul piano linguistico, né su quello del contenuto quando si tratta di sca-vare nella quotidianità per metter-ne a nudo i meccanismi sociali più profondi: svelare ipocrisie, false convenzioni, smascherare la strut-

Nobel minori"Le amanti" di E. Jelinekdi VIVIANA LISANTI

Page 11: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

11

Punizioni!“Chi ha spostato il mio formaggio?”di Spencer Johnson di MICHELE MARCON

E così ho recuperato dalla libreria impolverata l’odiato libercolo, in primis per scrivere questo pez-zo per Punizioni!, ma anche per scoprire se col passare degli anni qualcosa è cambiato. La quarta di copertina recita: “Questo è un libro scritto per tutte le età, la storia si legge in un’ora, ma il suo messaggio dura tutta la vita”, perciò mi sono voluto fidare (… e per fortuna che si legge in un’ora, perché io, dopo quasi dieci anni, mi ero dimentica-to sia la storia che il messaggio e me lo sono riletto tutto!).

L’idea è, come detto, semplicissima. All’interno di un Labirinto vivono 2 Topolini e 2 Gnomi che passano le giornate alla ricerca del Formaggio. Il Formaggio è ovviamente quello che gli psicologi chiamano oggetto del desiderio, mentre i 4 personag-gi, mi duole dirlo, siamo noi, o me-glio, sono quattro attitudini com-portamentali aberranti.

Fortunatamente già nelle prime pagine mi sono imbattuto in una chicca sfiziosa che ha stimolato la mia curiosità: la narrazione si fa metanarrazione nel momento stes-so in cui il narratore confida che la storia che sta per narrare non è al-tro che una storiella ovvia e banale, ma che può nascondere un signifi-cato profondo. Mi son detto: “Stai a vedere che ci trovo qualcosa di profondo”.

A dire il vero non ho trovato molto

Questa punizione mi fu inflitta molto tempo fa, quando mio

padre, forse accortosi della mia ir-riducibile esitazione nell’affrontare la vita, o, molto più probabilmente, cominciando ad abbracciare la pro-spettiva che il proprio primogenito fosse lanciato verso una luminosa carriera manageriale, mi diede da leggere un piccolo libro che avreb-be dovuto, a parer suo, rappresen-tare lo strumento per prepararmi a diventare un “leader di me stesso” (cit.).

Spesso negli anni a seguire mi sono chiesto come mai non mi avesse dato da leggere i grandi romanzi di formazione come il Wilhelm Mei-ster, Il rosso e il nero o I turbamenti del giovane Törless, piuttosto che una favoletta costruita attorno ad una metafora alquanto sempliciot-ta tirata avanti a fatica da quattro personaggi che sembrano usciti di-rettamente dal mondo lobotomiz-zato e lobotomizzante de L’Albero Azzurro: Nasofino, Trottolino, Ten-tenna e Ridolino.

Ah, quasi dimenticavo, questo pic-colo libro si chiama Chi ha spostato il mio formaggio?, ed è stato scritto dallo stesso autore del leggendario (l’aggettivo non è mio) One Minute Manager. L’edizione italiana pre-senta un sottotitolo quanto mai edificante: cambiare se stessi in un mondo che cambia, in azienda, a casa, nella vita di tutti i giorni.

di più. Il vero problema è che per proseguire la lettura è necessario sorpassare uno scoglio quasi in-sormontabile: il libro è scritto male. Ma male forte. È imbalsamato, epi-dittico, posticcio e straziante. E se me n’ero accorto già a 16 anni, figu-ratevi ora!

Nonostante ciò ho tenuto duro e ho finito di leggerlo in meno di un’ora. Devo dire che, in fin dei conti, Chi ha rubato il mio formaggio? avreb-be pure una lezione molto impor-tante da insegnare, che potremmo riassumere così: se vuoi mangiare il tuo Formaggio devi imparare a cambiare. Bello, sì, ma… se solo non fosse scritto così male! Insom-ma, ho letto libri che avevano molto meno da dire, ma, dicendolo me-glio, mi sono rimasti impressi più a lungo. Le più grandi lezioni della mia vita (tralasciando gli scappel-lotti) le ho sempre apprese dai libri che ho amato, i libri scritti bene. L’adolescente, Dedalus, Il giovane Holden, e potrei citarne molti altri.

Ma ciò non toglie che un’oretta glie-la possiamo dedicare. Non si sa mai che se ne esca qualcosa di buono. In fondo, in questi 10 anni qualcosa è cambiato. Sono cambiato io. Ma-gari anche perché ho cominciato a mangiare il formaggio, che fino a qualche tempo fa proprio non pote-vo sopportare.

Page 12: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

12

al mentore. A John. Grazie a John “idolo” Fante. Pare che sulla cresta dell’onda, e, dimmi, cos’è che si vede dalla cresta, Hank?, ne hai cu-rato delle prefazioni o delle postfa-zioni e via dicendo. E insomma, che diventi Bukowski. Insomma che la tua vita da sfigato-folle-alcolizzato che, ti dirò, ha un po’ rotto il cazzo, diventa, d’un tratto, affascinante.

Cioè, originalità zero. Da James Dean a Fabrizio Corona, sempre la stessa solfa. Sigarette, vino, donne.

Sì, certo, tu ci hai messo del tuo. Le parole. Le poesie. I racconti. I romanzi. Hai scritto come un dan-nato. Roba che io ho letto. Roba che mi ha indotto a pensare. Roba che si avvicina alla mia incapacità cro-nica di concentrazione. Roba corta, roba breve, roba buona.

Sì. Il fatto che hai pubblicato con case editrici minuscole. Il fatto che sei figlio di immigrati. Il fatto che hai avuto un acne che neanche un nerd di quindici anni. Il fatto che hai bevuto un paio di oceani di vino. Il fatto che hai schiacciato con gusto donne obese. Il fatto che hai

“Presi la bottiglia e andai in ca-mera mia. Mi spogliai, tenni

le mutande e andai a letto. Era un gran casino. La gente si aggrappava ciecamente a tutto quello che tro-vava: comunismo, macrobiotica, zen, surf, ballo, ipnotismo, terapie di gruppo, orge, ciclismo, erbe aro-matiche, cattolicesimo, solleva-mento pesi, viaggi, solitudine, dieta vegetariana, India, pittura, scrittu-ra, scultura, composizione, direzio-ne d'orchestra, campeggio, yoga, copula, gioco d'azzardo, alcool, ozio, gelato di yogurt, Beethoven, Bach, Budda, Cristo, meditazione trascendentale, succo di carota, suicidio, vestiti fatti a mano, viag-gi aerei, New York City, e poi tutte queste cose sfumavano e non resta-va niente. La gente doveva trovare qualcosa da fare mentre aspettava di morire. Era bello avere una scel-ta. Io l'avevo fatta da un pezzo, la mia scelta. Alzai la bottiglia di vod-ka e la bevvi liscia. I russi sapevano il fatto loro”.

Questo è un sunto, amico. Io non è che ho 10.000 battute. Proprio no. Diciamo che veleggio, ti piace la parola veleggio?, tra le 2.000 e le 3.000 battute. Spazi inclusi. Questo è quanto. Quindi. Non mi metterò a elencare i tuoi titoli. I tuoi libri. Che noia, perdiana. Ma, facciamo, tipo, che improvvisiamo.

Sì, lo so. Lo so Henry Charles Bu-kowski che sei morto. Ma, come ho già specificato, potremmo fare finta che. Ok?

Io, a te, mi sono avvicinato grazie

scritto migliaia di poesie. Cazzo, ho pensato, questo mi garba. Questo ha stile.

E, in effetti.

Nel 1994, quando te ne sei andato, 74 anni ma ci pensi Hank?, io avevo dieci anni. Maledetto e inesorabile e ineluttabile tempo. Quante cose, quante, avrei voluto sapere. Sull’ur-genza in particolare. Su quella cosa che tu hai definito “urgenza”. L’urgenza di scrivere che, per dirla

come te, se non ce l’hai è inutile, è inutile battere sui tasti, è inutile sforzarsi. Meglio andare a lavora-re. A lavorare, come hai fatto tu. E il postino e il manovale e l’operaio e l’impiegato, tutti quei lavori che ti capitano tra capo e collo, con centi-naia di domande annesse.

Cioè, questo concetto del poeta fi-nalmente, dico io, non filosofo. Che tu con una poesia ci hai raccontato della scopata della sera prima. E con un’altra della giornata alle cor-se. E con un’altra del licenziamento alle pompe funebri. E con un’al-tra ci hai chiarito tuo padre. E con

Biografie EdulcorateHenry Charles Bukowskidi ANDREA MEREGALLI

Page 13: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

13

Me lo copre il prezzo?Sociologia del libraiodi LICIA AMBU

- Buongiorno, cercavo un libro, diceE fino qui, pensi- Però non mi ricordo né il titolo né l’autoreClassico

Innegabile, a volte capitano anche situazioni imbarazzanti, buffe o terribilmente infauste per la pa-zienza, ma sono in minoranza, va detto, il più delle volte è divertente, non sai mai cosa ne viene fuori e fi-nisce sempre che impari un sacco di cose. Un altro aspetto molto in-teressante è che i libri dicono tanto su chi li acquista. Certo la scelta di un titolo dipende da molti fattori: il momento storico (macro e micro), l’autore, il titolo, la copertina (come l’hanno capito gli editori…), la pub-blicità, il passaparola (la pubblici-tà micro in sostanza) e cose così. Proprio per questo forse, la cosa interessante è capire quale aspetto prevale sull’altro. Poi, con il tempo, nascono un sacco di legami lettera-ri, pettegolezzi culturali e confronti a prova di club del libro o neofiti te-

Lavorare in una libreria signifi-ca passare l’intera giornata tra

scaffali. Topos fascinoso, non c’è che dire, avvolto da quell’aura se-mantica per cui il libraio non può che essere un individuo felice. Una questione sociologica in pratica. In effetti è così per buona parte del tempo. Chi lavora in una libreria, con passione, crede nei coman-damenti della cultura per osmosi, sniffa l’odore delle pagine nuove e/o vecchie e ha tutte le nevrosi da comprovato o provetto biblio tos-sico. Il must è che si legge gratis e per lavoro. Ma è più complesso di così. Verrebbe quasi da dire che la mappatura strategica del mestiere include una sinergia ben più ampia di fattori: un mix tra prossemica, qualche nozione di carattere gene-rale e molto spirito d’avventura, tra le altre cose. In effetti si va a brac-cio, non si sa mai cosa aspettarsi, dalla richiesta di un libro nascono un sacco di considerazioni barra conversazioni interessanti, anche quando si parte da basi apparente-mente disastrose:

ste per ultime fatiche di penne più o meno eccelse.

Alle spalle di tutto ciò, lo sporco lavoro dietro le quinte: il riforni-mento, la vetrina con scenari da apriti cielo, l’organizzazione, i conti da far quadrare, gli scaffali da ri-mettere in ordine, il Natale, dover spiegare perché un libro prenotato da giorni non è ancora arrivato, che il fuori catalogo è una dura realtà ma esiste e che se un autore non ha ancora pubblicato un nuovo libro noi non sappiamo il perché esatta-mente come tutti gli altri adepti del suddetto. Dulcis in fundo qualche richiesta seriamente interessante, se non altro per l’eventuale possibi-lità di esaudirla:

- Buongiorno signorina.- Buongiorno a lei, mi dica- Oh, che bei libri. Devo fare un rega-lo per un anniversario di matrimo-nio… avete dei tovaglioli con scritto sopra 25 anni?- Perfetto

un’altra ci hai illuminato sull’amore, che è un cane che viene dall’inferno. E che queste poesie, di fuoco, forse, appunto, infernale, ne avanzano. E così i racconti. E così i romanzi.

Beh, oltre sessanta (60) libri. Io li tengo in camera e la sezione “Bukowski”, mi viene caldo solo a guardarla.

Anche qui, come faccio a citare. Lo so che ti ho già ab-

bondantemente citato. Ma a me citare piace di brutto, mi pare elegante ma, in realtà, è una pacchianata ma-stodontica. Cosa riportare, ora, Hank?

L’imbarazzo della scelta. L’inutilità, pure, probabilmen-te. O forse no.

“Agli scrittori piace soltanto la puzza dei propri stronzi”. Fantastico.

Page 14: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

14

terza botta è la più forte, e la fanno solo certi libri con certi lettori: io, io lettore, quando leggo la distra-zione di chi si sente scomparire dai titoli di coda o i capelli tagliati male sul davanzale o le madri “che se ne fregano che se ne fregano”, io capisco. Non mi identifico in Vasco Brondi. Lo ripeto: non mi identifico in Vasco Brondi, come non mi iden-tifico in Salinger né in Sheldon né in Shiva. Lo scrittore è una figura mitologica inventata dai critici, non ci interessa lo scrittore: ci interessa lo scritto. Capisco questo scritto, mi arriva la tempesta, capisco per-ché ci sono scritte quelle cose lì e capisco perché sono scritte in quel modo lì, con le ripetizioni ripetute e la citazione di A rose is a rose is a rose di Gertrute Stein (era Gertrude Stein, vero?). Sento che funziona. Gli credo.

“Secondo me, gli autori del nuovo cinema non muoiono abbastanza dentro le loro opere: vi si agitano, vi si contorcono, o meglio vi agoniz-zano, ma non vi muoiono: perciò le loro opere restano testimonianze di una sofferenza del fenomeno as-surdo del tempo". Ah, il fenomeno assurdo del tempo, aveva ragione Pasolini, come al solito, avete ra-gione tutti, e noi non siamo riusciti nemmeno a sederci dalla parte del torto: i posti erano tutti occupati, anche lì. Cellacci e ciellini ci scrivo-no lettere aperte per incoraggiarci a scoraggiarci, ad andarcene, a es-sere felici altrove: ce lo meritiamo, con tutti i soldi che hanno speso per mandarci a scuola. E noi chissà quando troveremo un vero lavoro, e

Testi che tra l'altro vorrebbero essere incitamenti a resistere spudorata-

mente e invece porcaputtana fanno venire da piangere.

Vasco Brondi scrive così: “e il nostro senno è in una bottiglia

di moretti accatastata sulla luna, l'anello resterà per poco sulla spiag-gia. quando a forza di ferirci siamo diventati cosanguinei. e tu risparmi sul riscaldamento e sulle arance. e mi distraggo mentre mi parli delle tue giornate perché non compaio più tra i titoli di coda. e mettevamo i capelli tagliati male sul davanzale perché alle rondini potevano tor-nare utili. rassicurare le madri, che se ne fregano che se ne fregano. Mi sa che troveremo una strada mi sa sara, come quando davanti al muro del pianto siamo caduti per terra dal ridere sommesso. come quando dentro piove e alla stazione di Me-stre sembra sempre di essere in un film che devono ancora fare”.

La prima botta sono le lettere mi-nuscole, e sara che ci spunta in mezzo come un fiore, o come un brufolo. La seconda è il citazioni-smo e il respiro stretto delle frasi: direi che sembra un po' il jump cut di Godard, ma mi sa che non c'entra niente. Passano i cavi della tensione tra un punto e il punto successivo, il senso appare dall'alto come una specie di tempesta elettrostatica, non c'è bisogno di capire tutto, ci sono solo dei luoghi poco comu-ni, luoghi scomunicati da andare a illuminare a petrolio finché non muoiono i canarini segnaletici. La

quando la finiremo di giustificarci con il solito Jeff Buckley: maybe I'm just too young / to keep good love from going wrong. Ci siamo passati tutti, ci stiamo passando tutti. Poi ogni tanto succede che qualcuno trovi il modo di raccontarla, di rac-contarci, e subito ci smarchiamo e diciamo che no, quelli non siamo noi, le etichette non ci piacciono, nemmeno quelle discografiche, e meno male che stanno finendo, questi cazzo di anni zero. Si può ac-cusare Vasco Brondi di non morire abbastanza dentro le sue opere, di fare il bello con le nostre disgrazie, ma poi lo guardi e non è bello, e non siamo belli nemmeno noi, è bella solo sara, e accusiamo il colpo, e basta.

Vasco Brondi l'ho visto a teatro e questa rubrica parla di testi teatra-li: il libro si chiama Cosa racconte-remo di questi cazzo di anni zero, il reading pure. Ho pensato che un libro con la parola “cazzo” nel ti-tolo potesse andare bene per Oh, Scena!, solo che Oh, Scena! parla di testi teatrali. Poi quel libro è diven-tato uno spettacolo teatrale, cioè un reading, in realtà fondamental-mente è un reading, c'è lui che legge mentre suona, e ogni tanto canta. Allora questa puntata s'intitola Oh, reading!, che probabilmente sarà il nuovo titolo di Oh, Scena!, o la seconda serie, o che ne so. Oh, rea-ding! si legge òrriding.

Oh, Scena!Oh, Reading!di SIMONE ROSSI

Page 15: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

15

Apro Wikipedia e cerco snob. Dal latino sine nobilitate,

designa «una categoria di persone che imitano i modi ed il modo di vivere di classi sociali superiori, atteggiandosi in maniera raffinata e altezzosa». Aspirare ad essere al-tro, come Firmino. Nel libro da om-brellone di Sam Savage il topo che sopravvive cibandosi di libri si sen-te un pervertito desiderando ses-sualmente le donne che vede sugli schermi del cinema. Guarda il pro-prio corpo di ratto e sogna di essere umano. La corsa all’oro, la lotteria milionaria, la gente che conta, i prestigiosi club di filantropi. Una cieca corsa al potere che evidenzia solo la pochezza di chi non si accorge di essere un pesce nell’acquario, perso in una estenuante ed infruttuosa corsa di topi. Sarebbe bastato ascoltare Rat race di Bob Mar-ley o leggere Charles Baude-laire, secondo il quale «questa vita è un ospedale dove ogni malato è ossessionato dalla brama di cambiar letto», ma-gari accanto ad uno che conta, un letto sì da malato, ma da malato prestigioso.

Ho pranzato accanto a snob fi-lantropi o presunti tali. Io fuggivo peripatetico in cerca di sole, loro patetici e soli si studiavano a vicen-da. In tre ore di conversazione non ho mai sentito nominare un libro, un disco, un film, un quadro, un viaggio. Solo commenti su chi era in sala e su come abbinare camicia e gioielli. Questa cosa mi ha turbato tanto da farmi riprendere in mano I vagabondi del Dharma per rileg-gere il pensiero semplice e netto di Japhy: «hanno tutti gabinetti a mattonelle bianche e fanno sporchi stronzi grossi come quelli degli orsi di montagna, ma tutto vien spazza-to via in razionali fogne supercon-trollate e nessuno pensa più agli stronzi né si rende conto che la sua origine è merda e fetore e rifiuto del mare. Passano tutta la giornata a lavarsi le mani con saponi cremosi

che sognano in segreto di mangiare nel bagno». Meglio José Saramago: «come tutti i figli degli uomini, il figlio di Giuseppe e Maria nacque sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e sof-frendo in silenzio».

«Che cosa vieta di dire la verità ridendo?» si domanda Orazio nelle Satire. Viccavdo, ricco bambino di otto anni immaginato da Pulsa-tilla, con fare snob chiede a Babbo Natale di non ricevere più gli in-numerevoli regali e, se possibile,

di accettare i resi dei regali inutili. Gli si rivolge con una lettera dove scrive: «il pvoblema non é solo di natuva logistica; il dvamma é che con questi affavini, poi, sono in do-veve di giocavci pev non dave un dolove a chi me li ha vegalati. Visto che il tempo è quello che è, ho co-minciato a impovmi degli ovavi. La mattina mi costvingo a mezz’ova di pista. Tovnato da scuola ho due ove di puzzle» e così elencando il programma di giochi cui si sotto-pone quotidianamente con lo sta-canovismo degno di un precario. Problema che non tange il bambino povero de Il giocattolo del povero, citando nuovamente Lo Spleen di Parigi di Charles Baudelaire, che si diverte, invidiato da un bambi-no ricco che ignora un giocattolo nuovo e costoso, con un topo vivo chiuso in una scatola. Come dicevo prima, pesci in un acquario, giac-ché «i due ragazzi se la ridevano

fraternamente tra loro con i denti di una uguale bianchezza».

Insegna Epicuro che «l’avvez-zarsi a un regime di vita semplice e non ricercato sia è assolutamente salutare, sia rende l’uomo sollecito verso le necessarie occupazioni del vivere quotidiano, sia ci dispone meglio alle raffinatezze che di tanto in tanto ci toccano e ci rende impa-vidi di fronte alla sorte». Alla faccia dello snobismo e degli atteggia-menti di finta raffinatezza, e pure scritto in latino! Certo, gli snob di

cui sopra guarderanno il dito mentre gli si indica la luna, ma in fin dei conti se i denti brilla-no di una uguale bianchezza, mi dico sia meglio leggere un buon libro dimentichi della necessità di sembrare ciò che non si è. In fondo, citando ancora Epicuro, «non biso-gna fingere di filosofare, ma filosofare davvero; infatti non abbiamo bisogno di sembrare star bene, ma di stare bene per davvero».

Mi sono venuti in mente in que-sto articolo: Sam Savage - Firmino (Einaudi, 179 pp. 14,00 euro); Char-les Baudelaire - Lo Spleen di Parigi (Mondadori, 216 pp. 8 euro); Jack Kerouac - I vagabondi del Dharma (Mondadori, 272 pp. 8,50 euro); José Saramago - Il vangelo secondo Gesù Cristo (Einaudi, 410 pp. 12,50 euro); Orazio Quinto Flacco - Satire (Gar-zanti, 290 pp. 9,90 euro); Pulsatilla - Quest'anno ti ha detto male. Let-tere a Babbo Natale cestinate da lui medesimo e casualmente ritrovate. (Bompiani, 120 pp. 8,90 euro); Epi-curo - La felicità e il piacere (Barbe-ra, 59 pp. 6,90 euro)

ViaggiSnobdi ALESSANDRO POLLINI

Page 16: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

16

mette di postare segmenti testuali non più lunghi di 140 caratteri.

Ultimamente si sente parlare spes-so della sua applicazione alla “let-teratura” (con gli ormai famosi, per chi segue questa rubrica, empi diacritici). È convinzione comune che si possano scrivere romanzi in 140 caratteri. Certo, dicono gli in-tegrati, bisogna andarci coi piedi di piombo, ma il futuro della let-teratura è la brevità. Non c’è più tempo per spararsi dei pistolotti come la Recherche o come L’uomo senza qualità. E se non c’è tempo per leggerli, figuriamoci per scri-verli! Perciò proliferano concorsi per scrivere mini-romanzi su Twit-ter; se ne possono contare a deci-ne, centinaia, e l’entusiasmo è alle stelle, perché diventare romanziere sembra finalmente essere alla por-tata di tutti.

Ma a me piace soffermarmi a ri-flettere su come cambiano le cose e credo che piaccia anche a voi. Allora è giusto dire che questa cosa della brevità non è mica nuova. Un certo Hemingway agli inizi del ‘900 scrisse quello che fu definito il romanzo più breve del mondo: “Vendesi: scarpine per ne-onato, mai indossate”. A parte l’amarezza celata nel-le poche parole dello scrit-tore americano, possiamo ritrovare la stessa brevità in contesti più vicini alla nostra cultura: i proverbi e i detti popolari. Questo ri-torno al passato vuole forse dire che la letteratura sta

Bentornati a La lettera che muo-re, la rubrica di Finzioni che

ha tante domande e nemmeno una risposta, e che, proprio per questo motivo, è sempre al passo coi tem-pi.

La storia dell’umanità è segnata da invenzioni che hanno cambiato radicalmente i nostri rapporti col mondo e con gli altri. Pensate alla ruota, un mondo post-industriale senza di essa sarebbe oggi inconce-pibile. Pensate al preservativo, fino al 1960 era fatto col budello anima-le (bleah), ma ha sempre permesso di avere rapporti sessuali con fre-quenza e sicurezza. Oppure pensa-te alla carta, senza la quale per voi sarebbe impossibile leggere Finzio-ni. Nonostante ciò, all’epoca c’era molto scetticismo di fronte a questi oggetti geniali. Ve lo immaginate? “Infilare il mio pene nel budello di un maiale?! Non sia mai!” Oppure: “Scrivere su questi straccetti bian-chi? Meglio la pietra che è più solida e duratura”. In fin dei conti è prero-gativa dell’uomo essere diffidente di fronte alle novità. Poi, come sem-pre, è la storia a mettere l’ultima parola.

Oggi ci troviamo di fronte ad un al-tro di questi momenti epocali. C’è un’invenzione che potrebbe nuo-vamente cambiare il nostro modo di vedere le cose. E, vista la portata dell’avvenimento, l’argomento è più o meno sulla bocca di tutti. Sto par-lando dalla nuova alfabetizzazione veicolata dal web in generale, e, in particolare, vorrei fare riferimento a Twitter, social network che per-

diventando una cosa più popolare, quindi più aperta a tutti, quindi più giusta? Ben venga, ma io questo proprio non ve lo so dire. Però posso fare un’altra domanda.

Dove andremo a finire? Forse il ro-manzo diventerà una forma lette-raria polisintetica, un po’ come la lingua eschimese, per cui una sola parola esprime una moltitudine di relazioni, sia grammaticali che semantiche? Ve lo potete immagi-nare? Una parola, un romanzo. In-somma, uno scrive “casa”, e ha pra-ticamente scritto un libro, magari pure un best seller. Se l’opera è così aperta come si dice, poi spetterà al lettore ricostruire la storia sulla base delle proprie connessioni in-ferenziali. Casa: 5 milioni di copie vendute. Sarebbe incredibile, no? Non ci credete? Forse non ci credo più di tanto nemmeno io. Ma chi avrebbe mai pensato che l’uomo avrebbe messo piede sulla luna? E chi, quindici anni fa, si sarebbe po-tuto aspettare tutti i cambiamenti degli ultimi cinque anni?

Staremo a vedere. Io per sicurezza mi tengo in serbo un bel po’ di pa-role pronte a diventare best seller.

La lettera che muoreVerso la twitteratura?di MICHELE MARCON

Page 17: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

17

mestruatissima figlia-del-papi.

Come un po’ a tutti noi, anche a questo personaggio cui, suo mal-grado, spetta anzitutto il compito di ritrarre l’impoverimento sessua-le dell’uomo italiano, capita talvol-ta di giocare sporco sul lavoro, di mentire alla propria donna – per altro confinata (sempre fino a un mesetto fa) su una sedia a rotelle: allegria! –, di confessare all’amata avvocatessa la propria viscerale passione. Eppure, puntualmente, succede che chiunque – persino la domestica – ne biasimi le scelte, gli paventi un destino disgraziato, lo ponga di fronte a terribili decisioni. Addirittura la polizia, sospettando-lo a capo di una per altro innocua truffa, si mette a rompere i coglio-ni. Bella merda, insomma. E infat-ti questo personaggio la cui vita è diventata nient’altro che un’este-nuante sequela di ricatti morali, decide – come biasimarlo? – di fug-gire (a Cuba, per altro). Nell’ultima puntata, poco prima del definitivo addio, un bel primo piano del suo volto ci mostra un uomo distrutto – una «decalcomania attanziale», diciamo –, il cui sguardo arreso sembra dirci: «perché tutto questo? Sono solo un uomo».

Pierre, il protagonista di Pierre o delle ambiguità di Herman Mel-ville, è in fondo assai simile a un

Il lettore addentro, come il sotto-scritto, alla programmazione po-

meridiana di Canale 5, saprà bene che appena dopo Beautiful, ma su-bito prima di Uomini e Donne, va in onda Centovetrine, soap opera che racconta delle sorti – tragiche – di una dinastia imprenditoriale tori-nese, funestata da continue lotte intestine per la successione al verti-ce della holding, turbata da rivolgi-menti amorosi tra i suoi vari mem-bri, devastata da una sorte infausta e – esattamente come nei grandi ci-cli romanzeschi del XIX secolo – da un determinismo sociale dilagante.

Tra i suoi protagonisti, Centovetrine annovera un giovane e bell’avvoca-to – interpretato da un attore a suo modo grandioso, una sorta di genio tragico letteralmente incapace di plasmare il proprio volto se non in un’unica, abbacchiatissima espres-sione – le cui giornate sono scandi-te da ritmi lavorativi pazzeschi e da ripetute simulazioni di trasporto amoroso per la frigidissima e pe-rennemente incazzata figlia del de-funto patriarca-ex-presidente della holding di cui sopra. È però, invero, profondamente innamorato di una giovane collega avvocatessa: una bionda acqua-e-sapone sessual-mente inservibile, irreprensibile in quanto a etica professionale, in-consapevole (fino a un mesetto fa) sorellastra della summenzionata,

attore di Centovetrine – ma anche, suvvia, a un provincialotto come il sottoscritto la cui Bildung, ahimè, si svolge in quel di Milano, a contat-to con coglioni micidiali che, dato che scrivono su Vice / frequentano presunte gallerie d’arte / conosco-no un sacco di “persone giuste”, quindi ridicole, si autoeleggono a crema intellettual-sarcazzo della città. Anche per Pierre, difatti, la vita è un’estenuante sequela di de-lusioni: si innamora di una donna che poi scopre essere sua sorella, viene cacciato di casa in tenera età, cerca inutilmente fortuna nel mercato editoriale, uccide, perché vi è costretto, un poveretto, in ul-timo viene condotto alle «Tombe», un carcere nel cui nome non c’è alcuna facile ironia. Manco a dirlo, la sua fine sarà tragica. Come per l’eroico avvocato di Centovetrine, il consorzio umano si rivela infine la più grossa delle delusioni esperibili su terra ferma: già il buon Ismaele (ma pure il capitano Achab), d’al-tronde, lo aveva intuito, compren-dendo come il mare aperto fornisse il rimedio più sicuro per gli umori malinconici e un rifugio dalle de-lusioni terrestri, ritrovandosi a sen-tenziare bene: «I quietly take to the ship».

Certo per noi lettori il problema risiede, ancora una volta, nelle dimensioni (o, come sempre, nel peso): certi dialoghi grotteschi con i redattori di Zero durano al mas-simo il tempo di una sigaretta e la visione di una puntata di Centove-trine, con pubblicità annessa, non richiede più di venti minuti, mentre i “mattoni”, per raccontarci quanto l’umanità, in genere, faccia cacare, impiegano un numero spropositato di pagine, richiedono pomeriggi in-teri di fedele dedizione, annoiano, alle volte, tantissimo: in due parole, a volerne dire meglio, somigliano più alla vita vissuta, la quale d’altra parte, si sa, è ben peggiore di una soap opera. Che tragedia.

Mattoni"Pierre o delle ambiguità" di Herman MelvillePeso: 4,05 kgdi FILIPPO PENNACCHIO

Page 18: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

18

Da noi è arrivato con il tito-lo Nel paese delle creature

selvagge e, a meno che non foste estremamente determinati a veder-lo e dunque l’abbiate fatto, la pro-grammazione nelle sale è stata così pressappochista da farlo passare del tutto inosservato. Esatto: dalla seconda settimana, è stato sposta-to al pomeriggio perché creduto un film per bambini; dalla terza, visto che neanche presso il pubblico gio-vanissimo tirava granché, l’hanno levato proprio di mezzo. Adesso vi state chiedendo come sia possibile. Ma come, il film di Spike Jonze ba-sato sul bestseller di Maurice Sen-dak Where The Wild Things Are, sce-neggiato niente meno che da Dave Eggers, realizzato interamente in analogico con veri pupazzi di pelo e stoffa? Quello attesissimo che aveva pure Wake Up degli Arcade Fire nel trailer? Proprio quello. E adesso vi spiego perché è successo, o, alme-no, vi do la mia versione.

WTWTA non è un film per adulti e non è un film per ragazzini. È un film destinato a chi conosce il li-bro, lo sceneggiatore, il regista, gli attori, la gente che ne ha creato la colonna sonora (Karen O degli Yeah Yeah Yeahs con un coretto stile An-toniano) e, dulcis in fundo, ha vo-glia di cooperare nella costruzione della storia. In una parola: è un film

L'angolo delcinematografo“Where The Wild Things Are” di Spike Jonzedi MARINA PIERRI

di nicchia. Molto di nicchia. E pure per quella nicchia, il primo tempo è una palla mai vista. Giuro: quando l’ho visto io, alle cinque del pome-riggio, i genitori che accompagna-vano i pargoli (muti) non hanno fatto che parlare ad alta voce tutto il tempo e almeno tre o quattro dopo i primi trenta minuti se ne sono an-dati. Non so dargli torto: Jonze, in effetti, commette una scorrettezza fondamentale. Per tutta la prima parte della pellicola, non scatena nessun sentimento per il piccolo protagonista che non sia antipatia o, peggio, incomprensione (insom-ma “buca” l’identificazione). Non si capisce chi sia questo piccolo scassamaroni, perché se la prenda con la madre e pianga tanto, perché guardi uno strano plastico con de-dica – quella del padre – con il muso lungo e, poi, per quale ragione si sposti nella terra dei mostri, questi strani, strani mostri, che non sono teneri, anzi, sono violenti, brutti, quasi spaventosi, mentre dicono e fanno cose senza senso.

Eppure, come si dice, la pazien-za premia: nella seconda parte di WTWTA tutto va al suo posto e quello che era un film noioso e scucito diventa un lavoro meravi-glioso sul dolore e la solitudine di un bambino che da poco ha perso il padre. Jonze ed Eggers, che hanno

trasformato un classico di fantasia in una specie di bizzarro lavoro sull’autismo infantile o almeno in un’esegesi della separazione, ri-escono – non senza difficoltà – a fare intuire, solo intuire l’antefatto grazie al potere dell’allegoria. Così, lentamente, emerge l’assiologia, il mondo di valori del piccolo Max. Il mostro Carol "è" suo padre: un pa-dre che, immaginiamo, è stato vio-lento e incontrollato, che ha scosso le fondamenta della famiglia con la sua impulsività e, in ultima analisi, per colpa della sua stessa insicurez-za. E una madre, KW, che custodi-sce il piccolo nella sua pancia e lo nasconde alle ire del maschio, ire che nascono dall’allontanamento, dalla sensazione di mancanza di controllo.

Il percorso di Max, che avviene tutto nella fantasia, è un percor-so di crescita che è superamento dell’identificazione sghemba con il padre. O qualcosa del genere. Fatto sta che, al suo ritorno, “la cena era ancora calda” e lui può finalmente essere sé stesso, un bambino, un semplice bambino che veglia sulla mamma e su cui la mamma veglia.

Page 19: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

19

Qualche anno fa una impor-tante rivista scientifica di

fisica chiese ai lettori di giudica-re l’esperimento più bello di tutti i tempi. Con italica soddisfazione l’esperimento più bello fu giudica-to “interferenza dell’elettrone sin-golo”. Già il titolo spacca! Questo esperimento, pensato nel 1920, fu realizzato dopo aver superato dif-ficoltà pratiche enormi per la pri-ma volta nel 1976 nei laboratori del CNR di Bologna. Olé!

Brevemente: prendiamo uno schermo con un paio di fori vicini rettangolari, stretti e lunghi (dop-pia fenditura) e pensiamo di avere dietro una pellicola in grado di re-gistrare cosa succede dietro allo schermo stesso. Se noi tiriamo tan-te palline sullo schermo solo quelle

con la giusta direzione potranno attraversare i buchi e, colpendo la pellicola, andranno a formare una coppia di strisce dietro alla fendi-tura stessa. Una pallina (particella) può passare a sinistra o a destra. Punto. Se invece è un’onda a colpire la fenditura avremo un fenomeno detto interferenza (pensiamo alle barriere di scogli al mare con le onde che le attravesano e tutte le figure geometriche che disegnano sull’acqua, ecco a voi l’interferen-za): le onde aggirano gli ostacoli, attraverseranno la fenditura e an-dranno a formare tantissime righe parallele dietro alla fenditura stes-sa colpendo lo schermo non solo dietro alle due fenditure, ma anche altrove.

Tipici comportamenti di onde e particelle, due categorie distinte e contrapposte. Però la meccanica quantistica ci dice che nell’infinita-mente piccolo queste due categorie si fondono, per dare vita a quello che viene definito un dualismo on-da-particella. Ovvero: le particelle subatomiche (es: elettroni) sono nel contempo onde e particelle. Un concetto non tanto più semplice da comprendere della natura contem-poraneamente umana e divina di Gesù, giusto per fare un esempio triviale. Bene, se noi prendiamo una fenditura piccolissima (di di-mensioni paragonabili a quelle de-gli atomi) e ci facciamo passare un elettrone alla volta otteniamo una figura sbalorditiva (lo sbalordimen-to compare dopo averla guardata per un po’). Gli elettroni sono par-

ticelle, vengono fatte passare uno alla volta attraverso la fenditura, e all’inizio si concentrano dietro alle due strisce, disengando dei punti nella nostra pellicola come delle palline nell’esperimento di sopra. Ma ben presto si vede che le palline non si concentrano solo die-tro alle fenditure, ma si distribuiscono a for-mare una figura di dif-frazione, come le onde. Un elettrone passa a destra o a sinistra della fenditura! E con cosa interferirebbe poi? Con se stesso!!! Onde o particelle? Entrambe le cose, che strippo! E

per la prima volta fu possibile vede-re il dualismo onda-particella.

È un po’ complicato, lo so. Ecco quindi un bell’invito a guardarvi un sito che spiega per bene l’espe-rimento (http://l-esperimento-piu-bello-della-fisica.bo.imm.cnr.it/).

Ma perché è stato giudicato il più bello? Dov’è l’estetica nella scien-za? Cominciamo con l’estetica di questo esperimento: la possibili-tà di vedere, sensorialmente, un concetto incredibilmente astrat-to, esprimibile chiaramente con complicate formule matematiche ma che, per sua natura, trascende l’esperienza sensoriale. E con que-sto esperimento è possibile tenere in mano una fotografia che contie-ne l’essenza della meccanica quan-

tistica. E anche abbastanza sem-plice da capire, nonostante i suoi risultati siano rivoluzionari. Ecco-ne la bellezza, un po’ come tenere in mano, per un credente, la prova della trinità. E non è poco.

Pillole di scienzaL’esperimento più bello (ed è italiano!)di FABIO PARIS

Page 20: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

20

I ferri del mestiere…a che fare con i libri?di AGNESE GUALDRINI

Motivo di prestigio per mol-ti dei nostri autori è esse-

re tradotti all’estero. Non appena vengono informati che un editore straniero è interessato al loro libro e che ci sono buone probabilità che venga tradotto una patina di orgoglio inizia ad avvolgere le loro voci. Lì per lì è una cosa che in ef-fetti dà una certa soddisfazione: io sono contenta perché ho fatto bene il mio lavoro (sono riuscita a vende-re il libro all’estero), la casa editrice è contenta perché guadagnerà un utile, l’autore è contento perché la sua opera sarà divulgata al di fuori dell’Italia. Si preparano i contratti, si mandano le reading copies agli editori, si monitora che i 18 mesi che devono decorrere dalla data di stipula del contratto all’effettiva pubblicazione non diventino 4 anni e via discorrendo.

Fin qui, con tutti che sono felici e contenti, sembra tutto chiaro e semplice. In realtà, come in tutte le cose, l’idillio dura poco e improvvi-samente iniziano a spuntare mille insidie.

Una delle prime trappole (e una delle più irritanti) consiste nella preparazione dei moduli delle tas-se. Uno pensa di lavorare in una casa editrice e di avere a che fare tutto il giorno con i libri (e tutti quando dici che lavori in una casa editrice ti ammirano e pensano a quanto sei fortunato, sì proprio tu, che tutto il giorno hai a che fare con i libri). In realtà il più delle volte fi-nisce che i libri te li porti a casa la sera perché la maggior parte del

tempo in casa editrice la passi a fare altro. Oltre alle e-mail, alle schede libro, e a rispondere al telefono, in questo altro rientrano gli odiosi moduli delle tasse. Non che ci vo-glia la scala per farli, ma sono di una noia mortale e in più c’è sempre qualcosa che non va bene. La Corea li vuole fronte/retro, la Polonia ha solo le voci in polacco senza tra-duzioni in inglese, la Grecia invece di un foglio a4 normale usa delle specie di lenzuoli, la Francia ha dei moduli tutti suoi (figuriamoci, sono francesi), gli USA richiedono pas-sword e username, codici PIN PUK (e io francamente non ho ancora ben capito a cosa corrispondano tutti questi codici. Li inserisco e ba-sta sperando ogni volta che sia tutto corretto perché il sol pensiero di ve-dermi recapitare lo stesso tax form da rifare perché errato mi provoca un certo malessere …e certe volte è accaduto). Può poi capitare che gli editori che si dicono interessati e che sono lì, pronti a firmare, per una qualche ragione cambino idea: il libro non lo vogliono più tradur-re. Ora, la cosa in sé non ha nulla di drammatico. Certo dispiace, ma ce ne facciamo presto una ragione. La situazione diventa però una vera tragedia agli occhi dell’autore che, ormai con la voce canterina e gli occhi illuminati, vede la sua gioia sbriciolarsi improvvisamente. Non si capacita del rifiuto, in alcuni casi si offre di occuparsi lui della tradu-zione, che ha giusto un amico croa-to che tradurrebbe molto volentieri il libro a costo zero. In questi casi si rassicura l’autore, spiegandogli che sono cose che succedono, che

ci saranno altri editori interessati (e mentre lo dici sai già che hai parlato troppo presto e che da quel momen-to in poi non avrai pace…finché un altro editore non si convincerà dav-vero a comprare i diritti del libro in questione).

Anche quando arrivano final-mente le copie tradotte in casa edi-trice (e la trafila pare conclusa) le insidie sono ancora in agguato. A parte il fatto che a volte il copyright è sbagliato (e se uno volesse potreb-be montare una querelle burocrati-ca di non poco conto), in alcuni casi arrivano davvero dei libri assurdi: tipo l’edizione portoghese della storia del diritto con una coper-tina rosa big babol, o un’edizione francese di un libro divertente se-minarrativo che pare l’agenda della banca.

Un po’ stupita, un po’ divertita, già ti prepari al commento dell’au-tore. Ascolti e prendi nota. Nel mi-gliore dei casi riesci a dire la tua. Sai che fa parte del gioco.

Page 21: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

21

La Posta dei Lettori di Matteo Bettolidi MATTEO BETTOLI

Caro Bettoli, le scrivo da Wa-negooga, Hawaii. Ebbene

sì, pure qua in mezzo al Pacifico leggiamo Finzioni. Leggiamo... insomma, io lo leggo. Ogni tanto. Perché ci scrive pure il nipote di un mio caro amico d'infanzia, che mi ha detto “dai fagli sto piacere, che sennò Jacopo mi si scoraggia”. Non è malaccio. Abito alle Hawaii dagli anni 60: a chi mi diceva “don't give up on your dreams, buddy” ho replicato “ci mancherebbe” e sono venuto a trafficare gemme prezio-se in questo paradiso. Chi me lo faceva fare di stare nella bassa pa-dana? Ma veniamo al motivo della lettera. E' uscita da poco una bio-grafia di J.F.Kroninger sulla vita di Markessen, consigliere di una buona metà del presidentame de-mocratico post-kennedista. Ed un capitolo è interamente dedicato a Morandi, Gianni Morandi.

SpiritoLibero68, Wanegooga

Markessen, una vita a cento all'ora (13 euri su edizio-

ni Jerry P Roman) è l'incendiario volume voluto da William Clinton alla fine del suo secondo mandato presidenziale per celebrare l'amico e collaboratore Markessen, il cui nome di battesimo -come per i cal-ciatori brasiliani- è sempre passato in secondo piano. Lei accennava a Markessen e Gianni Morandi, un connubio improbabile nato per caso quando, durante una visita diplomatica nel belpaese del Presi-dente Lyndon B. Johnson nel 1965, il consigliere venne a contatto con la Morandi-mania italiana. Fu amore. Ciò che sbalordisce è che da

quel viaggio in poi Markessen co-minciò zitto-zitto ad inserire versi delle canzoni del Gianni nazionale in numerosi discorsi presidenziali, slogan elettorali ed interventi nelle università. Un pazzo, o un burlo-ne. Se Johnson nel 1968 davanti al Congresso dichiarava qualcosa che in inglese assomigliava pericolo-samente a “il soldato americano non suona la chitarra ma uno stru-mento che sempre fa la stessa nota rattatatà” (cfr. C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rol-ling Stones, 1966), appare ancora più inquietante che Jimmy Carter nel 1977, parlando della questione petroldollari, dichiarasse davanti ad una platea di accademici asso-pita “fatevi mandare dalla mamma a prendere un gallone di benza”. Corrispondenze morandiane di questo tipo, nelle partecipazioni di Markessen, sono frequentissime. Neanche William Clinton fu rispar-miato: in un suo discorso seguente alla bufera causata dalla Monicona Lewinsky, dichiarò “non ho barato né bluffato mai, e questa sera ho messo a nudo la mia anima. ho per-so tutto ma ho ritrovato me... uno su mille ce la fa”.

•Arrivare alla bellezza inte-

riore è più facile in presenza di una decenza esteriore. Questo il titolo che il celebre professore di Estetica Ludwig Roiterski ha dato alla sua opera manifesto dell'idra-tantismo estone. Ludwig Roiter-ski ha aperto la diga e spianato la

strada per un botto di correnti che mettono i puntini sulle “i” e fre-nano gli entusiasmi degli aspetto-noncontisti. L'aspetto conta, dice Roiterski, e “deve saper contare almeno fino a 5” (cit.) pena la mar-ginalizzazione in un mondo di idratati. Ed è qui la caratteristica forse più interessante dell'idratan-tismo roiterskiano: chi non si idra-ta è destinato a perdere dal punto di vista sociale, lavorativo e spiri-tuale. “Poche storie” dice Roiterski “in ascensore, quando sono faccia a faccia con sconosciuti, voglio ve-dere visi idratati”. Tangente al di-scorso spirituale, l'idea che l'idra-tazione innalzi. Che ne pensa?

Gastone Fortunato,Costantinopoli

Non disprezzo chi consiglia una buona crema idratante.

Roiterski quando dice che Arrivare alla bellezza interiore è più facile in presenza di una decenza esteriore scoperchia il vaso del Pandoro pro-prio ora che è Natale. E lo fa in co-scienza. Perchè l'aspettononconti-smo non riscalda più i cuori di chi è sempre in cerca di nuove baggiana-te a cui dedicarsi? Scelte sbagliate della dirigenza, per così dire. Lisan-dra Rosk, celebre autrice di Trasan-datezza e di Tutti si ricordano solo dell'Elvis grasso, ha scatenato l'ira di molti perbenisti mangiando -prima del ballo delle debuttanti di Toronto- il pollo con le mani, mani che ha successivamente strisciato sulla tovaglia e con cui ha infine stretto affettuosamente il faccione della première dame canadese Liza Alcindor. Resta il dubbio che dietro

Page 22: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

22

l'idratantismo ci siano le industrie cosmetiche e che Roiterski non sia altro che un burattino di glicerina. Mi sembra *un po' una forzatura* dire poi che l'idratantismo innalzi verso più alte forme di conoscenza: a una storia del genere ci può crede-re giusto quel fritto di Tom Cruise e quella sciroccata di sua moglie.

•Caro Bettoli, ho appena fi-

nito di leggere Non posso credere che pure lei avesse uno strippo talmente consistente da risultare fatalmente non ignorabi-le, volume agreste che rispolvera la fascinazione per i titoli lunghi di Lina Wertmüller per proporci una sag(r)a sui lupi mannari con fattezze da adolescenti che ci stan-no dentro un casino. Con questa sag(r)a le edizioni Maringa hanno fatto il botto e hanno scoperto un nervo già scoperto di suo: i vampiri hanno rotto i coglioni, ARIDATE-CE i lupi mannari pelosoni. Magari in una location contadina, perchè no. L'intuizione di Caspare Mas-

simo Caselli, guardiano di museo con la passione per la scrittura, ha colto nel segno e oramai l'Italia è celebre in tutto il mondo per le sue novelle sui lupi mannari contadi-ni. Io mi sento partecipe di questo evento e ne sono entusiasta, era ora che all'impero Romano e al Ri-nascimento facessimo seguire un po' di popolarità fondata sui lupi mannari con le fattezze di adole-scenti bellocci.

Danilo Mannaro, Bellinzona

Non so, effettivamente è difficile rimanere impassibili e tenere a bada l'eccitazione mentre l'Italia sale sul tetto del mondo grazie ai lupi man-nari. Caspare Massimo Caselli ha capito che una combinazione tra lupi mannari e adolescenti poteva funzionare ed ha deciso di provare, costruendo una storia improbabile su un diciottenne sfigato, Luciano, che scopre che la diciottenne che sembra finalmente starci in realtà è una lupa mannara. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, la storia non si incanala sui binari del racconto fantastico alla Salgari o alla Verne (averne di scrittori come

Verne) quindi qua niente tesori, cacce al lupo o buchi nei vulcani che arrivi fino al centro del mondo. Come al solito si svolta nel mocci-smo esasperato di un diciottenne già sfigato di suo che si scontra con l'irsutismo mannaro della diciot-tenne di cui si è innamorato. La location contadina sembra messa lì apposta per vendere casolari lucani agli americani post-reaganiani e le battute crasse si sprecano (“è vero che tira più un pelo di +-+- che un carro di buoi, ma la mia vita è sem-pre stata guidata dai carri di buoi”, dice Luciano sconfortato ma anche un po' orgoglioso). Insomma: gli in-gredienti ci sono tutti e sarebbero di ottima qualità (i lupi mannari, i carri di buoi, le turbe tardoadole-scenziali, l'irsutismo) ma la storia è esile e non ci convince. Però tutto il mondo ci guarda, grazie ai lupi mannari. E non è poco.

scrivete a:[email protected]

Page 23: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

23

Metaletterari di cartaI sessanta centimetri di Perecdi LICIA AMBU

C’è il sole. Fanno trentacinque gradi e vogliamo, all’unani-

mità, andare in vacanza. A livello spirituale in modo prepotente, tra l’altro. Ovvero, non ci va di fare niente. Possiamo andare al mare. O al fiume. Insomma, da qualche parte, in qualche spazio. Appunto. Lo spazio. Entità. Luogo. Uno spa-zio vicino, che so, il litorale o il lago a un’ora da casa. Spazi che esistono in quanto abitati. (Esisterebbero lo stesso, ma questo è un altro di-scorso…) Per esempio, dice Perec (Specie di spazi, Bollati boringhieri 1989, pp.111): le città, le campagne o un giardino pubblico, sono spa-zi vicini. E vivere è passare da uno spazio all’altro, continua. Soprav-vivere al caldo è passare dalla città ad altro spazio, dico. E mi porto un libro: uno spazio occupato da paro-le. Spazio scritto. In sé e per sé nulla di sconosciuto. Lo spazio, diamine, che si può dire? Invece no! Metti che per caso ti porti proprio il libro di Perec, ad esempio. Un soggetto che per una quisquilia del genere è capace che ti genera l’universo. In quella specie di superlativo attimo che compone la sua creazione: ti prende, ti sbatte davanti ad una pa-gina e tira fuori lo scibile.

Lo spazio inventario e quel-lo inventato, dice, comincia

sulla carta. Eccolo a rispolverare vecchie letture come il Petit La-rousse Illustré, una roba che in 60 cm quadrati ci racchiudeva 65 ter-mini geografici, ricorda. Cioè, tu apri la pagina di questo volume e strabordano oasi, ruscelli, sorgenti, foce estuario. Bastano semplici pa-

role e arrivano deserti, isole, anche l’arcipelago, perdinci! Diamoci il tempo di coordinare le riflessioni metafisiche, perché poi è l’ora di Borges. Poteva mai mancare in un momento così Borges? Quell’Ale-ph (Feltrinelli 2003, pp.188), che è tutti i luoghi? E full optional anche: da ogni prospettiva! Metaluogo per la memoria ciclica e cumula-tiva, un alfabeto con dentro tutto, dice Perec, scrive Perec, quindi è un po’ come se dicesse (no?). L’abc del mondo. Il mondo in un abc. In 60 cm quadrati (vedi sopra). Gui-da sempre Perec e tu, nel mentre,

puoi scrivere le tue annotazioni a margine del suddetto libro, occu-pandone spazio libero, (ulteriori specifiche in merito, alcune pagine dopo) o leggere Perec che scrive di Borges mentre guardi un fiume che è disegnato, solcato, scritto nel Pe-tit Larousse, che Perec ha letto e poi citato appena vicino Borges. Rovi-ne circolari. Un’infinità a portata potenziale. Borges e Perec… senza parole. Horror vacui, dannazione!

Page 24: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

24

Se leggete questa paginetta al-meno di tanto in tanto, saprete che mi piace cominciare la rubrica con una riflessione sul titolo della gra-phic novel che ho appena letto. Beh, non ci vuole un genio per capire che l’inglese è una lingua speciale, mi-steriosa, capace di mantenere il suo fascino discreto nonostante tutto il mondo ormai la usi, la maltratti e la spiattelli. Personalmente, sono attratta dalle locuzioni: a volte mi sembra che all’italiano manchi la stessa forza di catacresi, lo stesso slancio nel congelare i concetti in una, o due sole, semplici parole.

È ovviamente il caso di Exit Wounds, che designa un av-venimento preciso e piuttosto prolisso a spiegarsi: è la manie-ra inglese di descrivere la ferita provocata dall’uscita del pro-iettile, che è molto più ampia di quella in cui entra; la pallottola, infatti, si deforma nella carne e, attraversandola, crea uno squar-cio più ampio di quello da cui è penetrata. Complicato, no? Ep-pure quando lo si vede scritto sulla copertina del libro d’esor-dio dell’israeliana Rutu Modan (tradotto in italiano Unknown/Sconosciuto ed edito dalla mitica Coconino, come la maggior parte delle graphic novel di cui leggete qui) sembra semplicissimo.

Il titolo, così come deve essere, riassume il racconto: un uomo muore – forse - ma la notizia della

Graphic Novel“Exit Wounds”di Rutu Modandi MARINA PIERRI

sua morte è la meno dolorosa delle molte altre che seguiranno e che, pure, verranno tanto inseguite. Il romanzo, non a caso, è un romanzo di viaggio: Numi cerca Koby, figlio dell’uomo che ha amato e che po-trebbe essere defunto in un attenta-to, nonostante sia coetanea dell’uno e inevitabilmente molto più gio-vane dell’altro; i due finiscono per

conoscersi, in maniera complessa e ritrosa, con rabbia e nostalgia da entrambe le parti, mentre scopro-no un’intimità casuale e scomoda. I protagonisti hanno in comune un fantasma che resta sempre tale: il padre, Gabriel, non lo vedremo mai e non sapremo mai cos’avrebbe vo-luto da dire, se mai qualcosa ci fos-se stato. Ma come succede nei film di Hitchcock, o in certi court drama in cui non si sa mai cos’è successo veramente, a rincorrersi sono le as-senze e le mancanze. Solo queste, in Exit Wounds contano e solo da queste la storia si sviluppa. Nel loro percorso alla ricerca dell’introvabi-le, Numi e Koby sono impegnati in una caccia al tesoro speciale: quella dei ricordi reciproci. E dai loro ri-cordi – ancora, assenze – il lettore indovina la fisionomia morale di un uomo che non c’è, mai, per nessu-no.

Page 25: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

25

Ci sono due modi per raccon-tare storie: la noiosa veri-

tà e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una cari-catura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accen-to su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assim-metria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria te-sta. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinami-ca: è divertente e fa lavorare il cer-vello. Fa ridere e fa pensare.

Ci sono poi due ruoli che si al-

William Henry Harrison, nono presidente degli Stati

Uniti d’America, un predestinato. Suo padre era uno dei firmatari del-la Dichiarazione d’Indipendenza, lui, arruolatosi nell’esercito a soli 18 anni per le guerre contro gli india-ni, diventò generale a 24 anni, poi Segretario per i Territori del Nord Ovest a 25 e Vice Governatore poco dopo. A questo punto, il giovane Will comincia a montarsi un po’ la testa: senatore, ambasciatore in Co-lombia, cancelliere. E poi, nel 1840, decide di concorrere alle elezioni presidenziali, inventando il “popu-lismo”.

Si presentò come il rappresen-tante degli uomini duri, schernen-

IperboloserWilliam Henry Harrison

di JACOPO CIRILLO

ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia succes-so quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa.

Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tira-re acqua al loro mulino, si raccon-tano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti ogget-tivi. Trovano la verità dentro di sé,

non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.

E la verità soggettiva è infinita-mente più interessante: come di-ceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di an-noiarvi ancora di più), con sogget-tivo non si intende un attributo re-lativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me.

In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Wal-ter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.

do durante i comizi il rivale Martin Van Buren e dandogli dell’effemmi-nato perché si lavava in una vasca da bagno, cosa che, notoriamente, gli uomini duri aborrono. Fu un successo stratosferico, Harrison vinse in scioltezza, ma qui comin-ciarono i problemi. Infatti, nono-stante le sue promesse, lui non era più da tempo un uomo duro: viveva in un villone, si faceva il bagno in vasche grandi come barche, fonti attendibili dicono che fu lui a in-ventare la manicure maschile.

Il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, il 4 marzo 1841, il cie-lo era leggermente rannuvolato e spirava un’antipatica brezzolina da ponente. Tutti i suoi assistenti gli

dicevano: ma presidente su, si co-pra un po’, è così cagionevole e qua mi sa che viene a piovere. Ma Bill, altero, si proclamò "l'uomo della capanna di tronchi e del sidro forte" ("Log cabin and hard cider candida-te") e tenne il discorso – diventato famoso come il più lungo discorso di insediamento della storia ameri-cana – in camicetta e basta.

Le nuvolette si trasformarono in nuvoloni, la brezzolina in uragano e, com’è come non è, William Han-ry Harrison si beccò una polmonite fulminante che se lo portò via nel giro di un mese. Insegnando a tutti una lezione importante: se vuoi fare lo sburo e non lo sei, lascia stare che tanto alla fine ti sgamano.

Page 26: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

26

Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semioti-ca, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fonda-tore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge.

Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiun-to traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno con-cesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.

Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo conti-nuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guar-dare il mondo le sembra a testa in giù.

Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupan-dosi di robe politiche. Ultimamente lavora a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione *lobbista*.

Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a

leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il po-sto a nuove manie.

Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in una casa editrice con un non ben definito ruolo di gia-no bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valuta-zione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere, i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violente-mente stonata.

Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e stu-dia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna cono-scenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.

Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-rante. Performer di incauta protervia, aruspice della si-gnificazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.

Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presen-ta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’au-tenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare

Contributi da:

n. 8 / Dicembre 2009

[email protected]

www.finzionimagazine.it

Page 27: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

27

uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamen-te dalla nascita.

Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo in-ternazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali.

Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in acce-zione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’invia-to da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie.

Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe perso-nale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, fre-quenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leg-gendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse-guenza, alle volte si annoia tantissimo.

Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non legge nella mente delle persone. Da quando ha inizia-to a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed é bellissimo.

Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del por-

tale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane.

Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La luna è gi-rata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si chiama Chom-sky, ma non si vedono da un po’.

Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte, Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca ed un centro di gravità permanente a forma di pera.

Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Di-derot e ha una curiosa passione per i campi non affini. Amante dei miti greci e della musica barocca, è un som-mo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del non voler dire nulla.

Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barca-mena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa che la matematica sia alla base del declino della civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.

Finzioni è disponibile

solo su abbonamento.

Abbonati o richiedi gli arretrati su

http://finzioni.bigcartel.com

Page 28: n · una copia di Benni a fronte di centociquanta Dan Brown e che, troppo spesso, si sente rivolgere richieste come Cer- ... casi, mi mette una grandissima tri-stezza. Uno di questi

www.finzionimagazine.it