n...Anna Tatangelo, a X Factor (mi prendo tutte le responsabilità: guardo X Factor perché...

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n.16 La citazione del mese 5 Le vite ortogonali 6 Mitomania 7 Il Finzionario 8 Trilogie 9 Oh, Scena 10 Pillole di scienza 11 Donne & Compressori 12 Eccezioni 13 Me lo copre il prezzo? 14 Interferenze 15 Scritto da un idiota 16 Corrispondenze notevoli 17 La lettera che muore 18 Megaviaggi! 19 Biografie edulcorate 20 La posta dei lettori 21 Interpretazioni non ufficiali 23 Ghost World 24 Iperboloser 25

Transcript of n...Anna Tatangelo, a X Factor (mi prendo tutte le responsabilità: guardo X Factor perché...

  • n.16

    La citazione del mese 5

    Le vite ortogonali 6

    Mitomania 7

    Il Finzionario 8

    Trilogie 9

    Oh, Scena 10

    Pillole di scienza 11

    Donne & Compressori 12

    Eccezioni 13

    Me lo copre il prezzo? 14

    Interferenze 15

    Scritto da un idiota 16

    Corrispondenze notevoli 17

    La lettera che muore 18

    Megaviaggi! 19

    Biografie edulcorate 20

    La posta dei lettori 21

    Interpretazioni non ufficiali 23

    Ghost World 24

    Iperboloser 25

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    Un luogo comune sui luoghi comuni è che i luoghi comuni, in quanto tali, sono sempre veri. E questo luogo comune è sempre vero, e instaura un sil-logismo infinito che fa ridere ma anche sbadigliare. I proverbi invece sono diffe-renti: la condizione di verità è molto meno influente nella loro formazione e sedi-mentazione (quando vedo il rosso di sera non mi viene proprio subito da sperare nel bel tempo l’indomani, e comunque Hume non sarebbe stato d’accordo perché intanto bisogna vedere se il sole sorge, poi magari ne riparliamo). Tuttavia mi pia-ce pensare che i proverbi non siano saggezze popolari stratificate e legittimate dal tempo e dunque diventate verità, ma piuttosto sproloqui di un folle che si sono, chissà come, catacresizzati, ingannando un po’ tutti con il loro innegabile, e pa-radossale, senno.

    Ecco, mi immagino questo folle che ridacchia dell’ingenuità di intere genera-zioni, e questo folle ha esattamente la faccia di Kahlil Gibran, profeta per aver scritto Il Profeta e folle per aver scritto Il folle. Il folle (The madman) è la prima opera in inglese di questo genio nato in Libano e trasferitosi in America, poi a Pa-rigi e poi di nuovo in America, ed è una raccolta di parabole intelligentissime che istituiscono proverbi che non sono mai stati depositati nella tradizione popolare. Una implicitazione di proverbi mai esplicitati attraverso la loro parafrasi e la cui esplicitazione è implicita nella parafrasi stessa (a-ha!).

    Come dire: un proverbio è spesso o sempre una frase ad effetto; le parabole di Gibran sono racconti che spiegano la frase senza però premetterla o rivelarla alla fine, lasciando il lettore con la frustrazione di questa consapevolezza – più intuitiva che razionale – combinata con la propria manifesta incapacità di creare davvero qualcosa che possa assomigliare, anche lontanamente, a un proverbio, nonostante la sua bella spiegazione sotto gli occhi.

    E le storie sono fantastiche: madre e figlia che, sonnambule, accusano l’una di aver rispettivamente sfiorito e calpestato la giovinezza dell’altra, si minaccia-no di morti orribili e, al canto del gallo, si risvegliano in vestaglia, nel giardino, tra mille convenevoli. Un cane che irride gli sciocchi gatti che pregano per una pioggia di topi, pascendosi nella consapevolezza che le preghiere fanno piovere solo ossi. Uno di due eremiti che vivono insieme da anni su una montagna va giù di testa e comincia a provocare l’altro che, da buon eremita, porge serenamente l’altra guancia, facendo infuriare ancora di più il compagno che si sente sfidato da questa ottusa pace dei sensi. E tantissime altre che, in comune, hanno un senso di intelligenza (sua) e impotenza (nostra) e una beffarda risata che risuona dalla notte dei tempi, vecchia come tutti i proverbi del mondo.

    The GodfatherKahlil Gibrandi JACOPO CIRILLO

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    Sommario

    Il primo mese del “nuovo” Finzioni è stato intenso e molto bello. Quasi 100 articoli/recensioni/sciocchezze/divertimenti vari pubblicati sul sito, oltre 10.000 lettori totali e ora, aggratis da scaricare per tutti, il nuovo nu-mero del magazine, con 4 pagine in più del solito e tante novità, che noi non abbiamo gli occhi per piagne, ma al-meno ce li abbiamo per leggere i libri.

    Dopo il triste saluto di Mattoni!, Filippo Pennacchio torna con Eccezioni, libri trascurabili da dimenticare su-bito dopo averli letti, quei buchi neri illeggibili che fanno paura all’uomo della strada ma non al lettore sgamato di Finzioni. Michela Capra inaugura invece Scritto da un idiota, cioè i grandi libri della letteratura - in questo caso le poesiuole del Carducci - spiegate da qualcuno che, per

    Editorialeusare un eufemismo, non ne ha colto pienamente lo spiri-to ma che, sotto sotto, sorprende per acume e schiettezza.

    Poi si parla, con molto piacere, di Gipi (Marina Pierri e il suo Ghost World) e di quel gran losco di Alfred Drey-fus che, con la sua dissipatezza, ha rovinato il buon Emi-le Zola che voleva solo spargere fiorellini per il mondo e ridere come i bambini. Il resto ve lo leggete da voi, che non vogliamo rovinarvi la sorpresa. Da queste pagine vogliamo solo cogliere l’occasione per ringraziarvi tutti ché, come dicono le rockstar, senza di voi noi non esiste-remmo. Non nel senso ontologico, si capisce, ma vallo a spiegare al Liga.

    La Redazione

    La citazione del mese 5

    Le vite ortogonali 6

    Mitomania 7

    Il Finzionario 8

    Trilogie 9

    Oh, Scena 10

    Pillole di scienza 11

    Donne & Compressori 12

    Eccezioni 13

    Me lo copre il prezzo? 14

    Interferenze 15

    Scritto da un idiota 16

    Corrispondenze notevoli 17

    La lettera che muore 18

    Megaviaggi! 19

    Biografie edulcorate 20

    La posta dei lettori 21

    Interpretazioni non ufficiali 23

    Ghost World 24

    Iperboloser 25

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    Lo scrittore non conta nell’atto di fruizione, giudi-zio e valorizzazione del libro: di più, egli dovreb-be essere esentato da questa dinamica a due tra testo e lettore. Quando l’autore produce un’opera, la proietta fuori da sé e la consegna all’enciclopedia mondiale, perdendo in quel momento ogni diritto di paternità bla bla bla.

    Jacopo Cirillo

    Uno dei più definibili indici di scarsa intelligenza, o al-meno di scarsa attitudine al con-fronto dialettico, credo sia confon-dere i piani del discorso. Quando, durante una conversazione, un interlocutore cerca di argomentare coerentemente una sua opinione mescolando piani diversi per natu-ra incommensurabili, avremo un buon indizio della sua inadeguata caratura polemica.

    Anna Tatangelo, a X Factor (mi prendo tutte le responsabilità: guardo X Factor perché assomiglia incredibilmente allo spirito del tempo pop declinato su twitter; e poi c’è Elio) fa sempre così: mette insieme il piano – aleatorio – della retorica della “grinta”, “emozione”, “tira fuori quello che hai dentro” con quello – pratico – che riguarda la performance artistica. Si capisce bene che le frasi “sei una persona vera” o “la tua musica mi arriva” sono incommensurabili alla va-lutazione professionale del saper stare davanti a un pubblico, oltre ad essere totalmente prive di senso, che significa: sei una persona vera? E la tua musica, dove mi arriva? I discorsi vanno tenuti separati, Rug-geri dice bene: “Anna, stiamo par-lando di due cose diverse”. E gli altri giudici se ne accorgono, odiandola

    all’unisono.

    Ecco, se Anna Tatangelo legges-se Lawrence Sterne, farebbe una fatica boia. Perché leggere il Tri-stram Shandy confondendo i piani del discorso rende la verbosissima (auto)citazione del mese una caga-ta pazzesca. Nel capitolo nove, un vero capolavoro, il narratore scrive una dedica molto compita a una “vossignoria” indefinita e prova a venderla al miglior offerente, an-noverandolo evidentemente tra i suoi lettori, precisando anche che la stessa dedica “è vergine, dal mo-mento che non è stata proposta ad anima viva” e che “alla prossima edizione avrò cura di eliminare questo capitolo” se qualche testa coronata accetterà di pagare poche ghinee.

    Le marche enunciative autoriali si sprecano in tutte le seicento pagi-ne, rendendo il Tristram Shandy un libro seminale (come dicono i gio-vani musicisti riferendosi ai King Crimson) e Sterne talmente avanti da essere quasi tornato indietro. Ma ecco che il lettore accorto non confonde i piani della narrazione e capisce bene che lo scrittore che auspica la vendita della sua dedica non è certo Sterne, che non aveva particolari problemi di danaro, ma

    un suo simulacro. E anche se Sterne fosse stato un poveraccio e avesse voluto mettersi nel libro, non avreb-be avuto nessuna importanza, per-ché non sarebbe stato lui ma, anco-ra, un personaggio omonimo.

    Questo perché la letteratura è monoplanare, e non è possibile en-trare in essa senza mettersi sul suo stesso piano e diventare una proie-zione narrativa di se stessi. Allora la letteratura, impedendo al lettore e all’autore di confondere i piani nar-rativi, rende più intelligenti.

    E Anna Tatangelo mi sta sulle balle.

    La citazione del mesedi JACOPO CIRILLO

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    Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cer-cò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esa-minare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze.

    Robert Cohn

    Robert Cohn faceva il pugile a Princeton e sembra che nessuno abbia una gran considerazione di lui. Hemingway ne parla in Fiesta e non è difficile capire perché tutti lo detestino: a volte smielato, spesso patetico, ancor più spesso infantile fino a livelli inimmaginabili, Ro-bert Cohn è lontanissimo dal mo-dello virile di Hemingway.

    Cohn avrà un ruolo primario quando il gruppo di amici arriverà a Pamplona per assistere alla fiesta, ma Hemingway, nei primissimi ca-pitoli, ci fornisce un dettaglio che lo inquadra alla perfezione: Cohn si era messo a leggere i libri di W. H. Hudson, in particolare un libro inti-tolato The Purple Land che narra le vicende amorose di un gentleman inglese. Una porcheria, insomma. Il problema nasce perché Cohn è un sognatore, e se tutti i sognatori sono un po’ insoddisfatti dalla pro-pria vita, i sognatori peggiori sono quelli che non riconoscono la realtà e si convincono del sogno.

    Le vite ortogonaliRobert Cohn vs Alexander Perchovdi JACOPO DONATI

    Cohn è così sicuro del frutto del-la propria immaginazione che non riesce a vedere quanto tutti lo di-sprezzino e quanto si renda ridicolo agli occhi della bella Bret, e finisce per rovinare la fiesta, la sua reputa-zione e la sua chance di felicità.

    Alexander Perchov

    Il sogno più grande di Alex era nascere in America, ma non si è avverato quando è nato in Ucraina. Ha studiato inglese all’università e perciò diventa il traduttore di Jona-than Safran Foer in Ogni cosa è illu-minata. Lui stesso ci descrive la sua vita passata nei club a spendere sol-di fino a tarda notte, circondato da un numero imprecisato di donne. Una sorta di gangster con l’hip-hop a tutto volume in macchina.

    Ma non è vero. L’unica cosa vera di ciò che racconta è il suo amore per gli Stati Uniti, e li ama tanto perché per lui non c’è luogo più di-

    stante dalla miseria ucraina. Mette da parte i suoi risparmi perché vuo-le superare l’oceano con suo fratel-lo e già sogna una casa enorme e un lusso che in Ucraina è impossibile immaginare.

    E alla fine, con ogni probabilità, dovrà sacrificare il proprio sogno. Non abiterà una casa di lusso, ma potrà comunque prendersi cura del proprio fratellino come desiderava realmente. La maschera che si era costruito cadrà, perché alla fine cade sempre.

    Mantenere un equilibrio tra so-gno e realtà è molto difficile e quasi sempre si finisce per sognare trop-po. Il sogno dovrebbe essere come un punto sull’orizzonte che si cerca di raggiungere, ma non è raro che per paura di non arrivare a desti-nazione si chiudano gli occhi, ci si immagini già arrivati, e si rinunci così definitivamente a realizzare il proprio desiderio.

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    ghe, ce l’ha fatta. Capire come ci è riuscita potrebbe essere utile anche a noi donne del XXI secolo. All’epo-ca gli ambiti in cui distinguersi non erano di certo tanti quanti quelli di oggi: analfabete ed escluse dal-la vita politica della città, le donne vedevano il proprio campo d’azione restringersi alle mura di casa, alla famiglia, al telaio e fuso. Alcesti non è ricordata però per essere la più abile tra le tessitrici dell’anti-chità (magari bastasse essere delle brave sartine per guadagnarsi un briciolo di credibilità !), quella era Penelope.

    Alcesti è quella che scelse di mo-rire al posto del marito Admeto.

    L’estremo sacrificio fu possi-bile per via di Apollo che, pazzo d’amore per Admeto al punto da volerlo sottrarre alla morte, ubria-cò le Moire ed ottenne che al posto dell’amato morisse qualcun altro. Admeto ebbe la faccia tosta di chie-dere in giro se c’era qualche cretino disposto allo scambio ma anche gli anziani genitori fecero spallucce. E così si offrì lei: la sposa e madre devota che attese l’arrivo di Tànato senza ripensamenti, chiese solo al marito di non risposarsi mai più e lui, affogando nelle sue lacrime di coccodrillo, promise di portare il lutto per tutta la vita.

    E’ una tragedia ma il finale è lie-to, forse. Eracle, che passato di li per caso era stato accolto benevol-

    Alcesti : Euripide Vs. YourcenarParte Seconda

    E’ PROPRIO SAGGIA PER ESSERE UNA DONNA!!

    Sembra che una donna rispet-to ad un uomo debba lavorare il doppio per essere considerata la metà. Io ambisco all’intero e quindi non mi ci metto neanche.

    Alcesti era considerata dai greci “la più nobile e saggia tra le don-ne”. Anzi era addirittura elogiata in quanto unica donna capace di spe-rimentare philia, una prerogativa maschile, un sentimento di affetto profondo che legava gli amici, i fra-telli, i compagni di battaglie. Sono affermazioni lusinghiere queste, come dire “è intelligente per essere una bionda”. C’è da andarci fiere in-somma se si riesce a conquistare la stima del pubblico maschile nono-stante si sia delle bambolone prive di logos, create quel funesto giorno in cui Zeus, per punire Prometeo, prese della fanghiglia, la modellò a somiglianza della più bella fra le dee e le inculcò l’inclinazione per la menzogna, l’inganno, la rapina. Venne fuori Pandora che per non tradire le aspettative appena scesa dall’Olimpo aprì un vaso e disper-se le peggiori disgrazie sulla faccia terra.

    Nonostante le pessime premesse legate alla sua natura di femmina, Alcesti si è distinta dalle sue colle-

    MitomaniaDove si parla delle matte storie inventate dagli antichi Greci e mutuate dai moderni. di VIVIANA LISANTI

    mente nonostante il grave lutto, per ringraziare Admeto dell’ospitalità strappò Alcesti alla morte e dopo averla resa irriconoscibile velando-la, la condusse al palazzo reale. Dis-se all’amico di aver con sé una serva ricevuta in premio ad una gara (!) e lo pregò di accoglierla. Admeto fece un po’ il ritrosetto poi però cedette. Eracle allora tolse il velo alla risor-ta, nel frattempo posseduta da un misterioso mutismo, e nello stupo-re generale la ricongiunse al suo sposo.

    Sul mutismo della rediviva si è tanto elucubrato. La mia persona-le teoria è che fosse sotto shock. Ma non per l’esperienza agli inferi quanto all’idea di essere tornata e dover convivere per il resto dei suoi giorni con un vigliacco che aveva tradito una promessa con la stessa facilità con cui l’aveva mandata a morire. E poi il silenzio doveva es-sere sembrato ad Euripide una con-clusione decisamente più elegante rispetto ad una sequela di insulti.

    continua

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    “grande residuo da cui ripescare le fonti di certezza e di identità” (Car-magnola), “grande e favoloso lago sotterraneo” (Dragosei), “mondo plenario da cui non è esclusa al-cuna significazione” (Bachelard). Ipertrofia, contenenza, atipicità: l’immaginario collettivo sarebbe insomma qualcosa di molto gros-so, dentro al quale siamo contenuti tutti noi e l’integrale dei discorsi, realizzati o soltanto possibili, che amiamo scambiarci come a scuola le figurine Panini. Questi discorsi, in particolare, non sarebbero che la “carrozzeria sensibile” di que-sto immaginario, suoi incolpevoli exempla che ne attestano, a mac-chia di leopardo, l’indefesso cam-peggiare, il disseminato ritorno per variazioni sull’unico, inconscio e indicibile tema.

    Io però preferisco Finzioni, pre-ferisco anzi le Finzioni, che non va-riano il tema di una certa scrittura ma impongono una prassi altra, la lettura come poiesi, gesto creativo e non parassitario, irriducibile allo scritto che le si vorrebbe offrire in pasto. Perché i libri, come una volta giustamente si diceva, sono anzi-tutto “le nostre letture”, ed è dun-que la lettura, semmai, ciò che li rende veramente scritti. Quando si legge in maniera creativa non si ri-entra in un certo immaginario pio-vuto dalla mansardanza di qualche penna ma si costruisce un imma-ginario parzialmente discosto nel quale ciò che si legge è costretto a rimettersi al lavoro, bullo incontra-sato delle scuole medie che passa alle superiori e all’improvviso non

    Ma l’immaginario colletti-vo? Vogliamo parlarne? Assolutamente no. Non c’è niente da dire sull’immaginario colletti-vo. Da un lato vi fanno già tedioso cenno tutti i boriosi doxànti che farciscono le grasse sacche della medialità di largo consumo, ansio-si di rappresentare con encomiabi-le distacco il circo equestre che li tiene a libro paga come scimmie di greve e larvale saccenza: esperti di serial killer, esperti di sesso, esperti di serial-killer erotomani e di amo-ri criminali. Praline appetitose che ben si spiegano non appena le si rinvii al magico bacino dell’imma-ginario collettivo. Ah, l’immagina-rio collettivo…

    Dall’altro lato, lato che scorre pa-rallelo al primo, dell’immaginario collettivo nulla si può dire perché sarebbe proprio l’immaginario col-lettivo, semmai, a dire qualcosa di noi, a descrivere al massimo grado di abluzione quella parte oscura di noi stessi che, non essendo noi “esperti” e non avendo una nostra proiezione on hair, non siamo pa-tentàti a verbalizzare. L’eforàtica televisiva che blinda l’immagina-rio collettivo ne diviene così, al contempo, il tramite per il quale ci sarebbe concesso di scoprire chi e cosa siamo, e soprattutto perché. La suggestione è tecnicamente am-niotica e capace, come tale, di resti-tuirci l’immagine di questo imma-ginario, la sua forma e il suo profilo inerziale: “lago in fondo alla valle” (Jung), “letto eterno delle strutture mentali” e “alba di ogni creazio-ne dello spirito umano” (Durand),

    è più nessuno e abbassa la cresta e ricomincia da capo – di bava pa-ziente – a tessere la sua tela. Non sappiamo che farcene dell’idea per cui l’immaginario collettivo ren-derebbe possibili i nostri discorsi. Sappiamo solo che i nostri discorsi schiudono nuovi e privati immagi-nari ogni volta che sferrano il loro assalto al fortino dell’istituzione letteraria. Nell’ospedale in cui pur-ghiamo le velleità dell’altrui inchio-stro non esiste l’ingresso principale dell’immaginario davanti al quale inchiodano le ambulanze. Esistono solo accessi laterali sui sozzi stipiti dei quali – come direbbe qualcu-no più faentino di me – gli “infer-mieri” oziano, fumano sigarette, commentano i culi che passano in strada e parlano di quanto manca alla fine del turno. Perché il lavo-ro, come la letteratura, è noioso. E l’unico modo per sopravvivere al suo immaginario collettivo è riven-dicare (e praticare!) il diritto a un immaginario personale, sconfina-tamente interstiziale, che il nostro discorso schiaffa su una faccia qua-lunque e su qualunque faccia.

    A chi bastano i “laghi” o i “letti eterni” in cui coricarsi ed essere contenuti, no, non diremo null’al-tro. Le nostre letture passeranno oltre a tutta velocità, un furgone rubato che sbanda e getta in strada frotte di cani randagi, il portello-ne lasciato aperto a sbatacchiare. Qualcosa da liberare, insomma, nella speranza che faccia più dan-ni possibile. Letture, dopotutto. E l’immaginario… Boh, fai prima a immaginartelo da solo.

    Il FinzionarioL’infermiere di Faenza e l’immaginario collettivo di EDOARDO LUCATTI

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    TrilogiePhilip Roth– Trilogia Americanadi STEFANO FANTI

    Ci si accosta con un certo ti-more reverenziale – che poi non è timore, ma più che altro for-za d’animo con gli occhiali spes-si - alle 1149 pagine (almeno nelle edizioni italiane che posseggo io) che compongono, sommando i tre volumi, la trilogia formata da Pa-storale Americana, Ho Sposato Un Comunista e La Macchia Umana, monumentale opera del beneme-rito Philip Roth. Finito l’ultimo, (il più bello? Forse) che neanche a farlo apposta, parlando di trilogia Americana, termina con la parola America, mi sono più volte chie-sto: come ho fatto? C’è chi direbbe “hai letto uno scrittore immorta-le!”, chi “tu sei pazzo”, più sempli-cemente, io, mi congratulo con me stesso per non aver mollato - cosa che tra l’altro mughinianamente aborro (l’abbandono dei libri) - an-che quando certe parti di PA erano leggerissimamente soporifere o quando, dopo un’overdose di Roth, non volevo altro che leggere un noir con molto sangue e poche parole. Ma tant’è, ce l’ho fatta, e ne sono molto felice dato che lo spaccato di Stati Uniti che prende vita dalle facciate dello scrittore eternamente candidato al Nobel, è quanto di più significativo e glacialmente profon-do possa offrire certa letteratura a stelle e strisce. Dico certa perché è bene distinguere Roth da Pynchon, tanto per fare un esempio che cita pesi massimi.

    Se il territorio è il centro, o me-glio, la tana dei tre romanzi, a spic-care come vero e proprio fulcro, sono gli eroi, o addirittura i miti, in

    una sorta di mitopoiesi dal basso che inquadra nelle espressioni di un uomo, la dinamica di una socie-tà. Parlo dello Svedese, parlo di Ira Rinn, parlo di Coleman Silk. Tutti e tre fanno parte di un insieme se-parato dalla vita (intesa come tutto) ma che, nella sua indipendenza, ne è inglobato.Le loro esistenze, più che il passare dei giorni, rappre-sentano la visione, arcaica a livello teorico ma quanto di più attuale, del superuomo, non possessore di poteri particolari, ma super perché inserito in una società a cui è estra-neo. Nathan Zuckerman, alter ego di Roth, è uno specchio che riflette (e assorbe) dagli “esempi umani” che narra la natura della vita adul-ta.

    Seymour Levov, ovvero Lo Sve-dese, non è altro che un Homer Simpson bello e di successo, pri-vo di comicità esplosiva ma con la stessa semplicità (che racchiude

    una profondità mitologica), la stes-sa visione unidirezionale della vita, lo stesso sforzo nel capire gli altri e rapportarli al sé, che quest’ulti-mo sia rappresentato da un divano e una birra o da una fabbrica di guanti.

    Roth ha davvero raccontato l’America in questi tre libri che do-vrebbero essere materiale didattico in tutto il mondo.

    …“Quando cominciarono a sa-lire, fianco a fianco, i gradini di le-gno della vecchia scala, gli sembrò di aver rimesso piede nella bocca del passato. Si sentì dire (mentre, simultaneamente, sentiva suo pa-dre dire):”…”Quando si soffre come soffriva lo Svedese, chiedergli di non farsi illudere dal sollievo di un momento, per dubbia che ne fosse la motivazione, sarebbe stato chie-dere troppo.”…

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    Non. Devo. Piangere.

    Allora c'è questo libro piccolo che va a capo spesso e quan-do non va a capo i monologhi sono lunghi due pagine ma due pagine è un attimo, sono pagine piccole.

    “Il primo morto ammazzato l'ho visto nel 1980. Tornavo a casa da scuola, a piedi, con a tracolla uno zaino di tela verde che conteneva: il sussidiario, una matita, un tempe-rino, un righello di legno, un qua-derno a quadri, uno a righe, il diario dei compiti, una gomma e l'interno blocco di figurine del mio compa-gno Corrado Risso. Io a Corrado Risso lo odio, infatti mi ero fottuto tutte le sue figurine ma non per ap-piccicarle nel mio album, che c'en-tra. M'ero grattàto tutte le sue figu-rine solo per farlo piangere. Sono uno onesto io. L'album va comple-tato o con le figurine trovate nel pacchetto o con quelle scambiate o con quelle vinte. Non si possono appiccicare nell'album le figurine arrubbàte. Non si fa. Il furto l'ave-vo compiuto come puro e semplice sfregio a Corrado Risso. Alto, gras-so, ricciolo e ricco sfondato, era il più forte della classe e ci picchiava sempre a tutti, ma non per il piace-re di picchiare in sé, no. L'avrei an-che giustificato se l'avesse fatto per questo. Invece no. Corrado Risso ci picchiava perché poteva farlo. Era un drogato di Potere. Godeva della paura che generava. A ricreazione, Dario Fazzese gli doveva conse-gnare sempre la sua Girella, Cor-rado Risso gliela scartava davanti e

    se la divorava in un unico boccone. Briciole cadevano dalla sua bocca. Ti odio, Corrado Risso. Meriti una punizione esemplare. Lo scontro fi-sico era però da escludersi a priori. Mi avrebbe macinato. Ma andava punito. Così gli fottèi dalla cartella tutte quante le figurine. Erano tan-tissime. Ci volevano quattro elastici per tenerle assieme. Si vede che era di famiglia ricca, Corrado Risso".

    Poi ogni tanto in questo libro ci sono degli spazi bianchi con in mezzo un asterisco appoggiato lì che sembra una mosca e io mi im-magino che quelli siano gli spazi della musica, le pause nella nar-razione in cui Davide Enia si beve mezza bottiglia d'acqua tutta in una botta e poi ne sputa un po' e poi ricomincia a leggere ad alta voce, o a dirlo a memoria: Davide, di suo, sarebbe un attore e autore e regista teatrale, e di solito in effetti recita e scrive e dirige cose di teatro, poi alla fine di ogni spettacolo torna fuori e dice Siccome che il teatro è morto noialtri siamo a disposizione per cresime, comunioni e matrimo-ni, grazie a tutti e Forza Palermo.

    Poi torna a casa o in albergo o dove minchia gli pare e scrive que-sta storia di un bambino di un cane di un padre con le mani (montagne) di una ragazza con le dita (gigli) di una pietra vulcanica che galleggia e si asciuga subito e sta alla base del verbo pomiciare e di un moscone invischiato nel sangue del cervello di un morto ammazzato per strada e il moscone non riesce più a volare.

    “La scarpa destra dello sbirro senza più sigaretta calpesta il la-ghetto di sangue e se ne rimane fer-ma lì. Adesso io lo so che lo sbirro è me che sta fissando. A Palermo, quando qualcuno ci guarda inten-samente, noi ce la sentiamo addos-so sulla pelle la sua taliàta. Così mi giro e lo talìo pure io. Ha occhi fred-di, lo sbirro. Pare mio padre. Ragaz-zino, mi dice indicando il morto. Era la prima volta che mi chiama-vano ragazzino. Mi piacque. Ragaz-zino, 'un ti preoccupare pi ìddu, era un pezz'i mmìerda”.

    Questo libro si chiama Mio padre non ha mai avuto un cane (:duepun-ti edizioni, Palermo). Non è un testo teatrale. Ce lo facisse diventare, Davidù.

    Corrado Risso ha una seconda identità, questo libro costa sei euro, la copertina è in merda di elefante: una di queste tre affermazioni è fal-sa.

    Volevo recensirlo senza scrivere il nome Giovanni Falcone e ce l'ave-vo quasi fatta.

    Oh, Scena!Ti Odio, Corrado Rissodi SIMONE ROSSI

  • 11

    da una muffetta. Pacco! Qui però si intravede l’occhio del genio: invece di buttare via tutto e bestemmiare capì che se la muffa ammazzava i batteri nella petri poteva ammaz-zarli in una ferita infetta. Da una finestra aperta alla penicellina il passo è stato quindi breve.

    Ma il migliore fu Charles Go-odyear. Aveva una moglie un po’ spaccamaroni Goodyear. E non na-vigava in buone acque. Fu arrestato per insolvenza Charles. La moglie non voleva che lui facesse quelle minchiate con le gomme e le plasti-che, una volta coi suoi esperimenti da bimbo, da piccolo chimico zoz-zone aveva incendiato la sala. Per cui se lo avesse visto un’altra volta fare i suoi giochini, chiaro come il vetro che prima lo picchiava, poi lo lasciava. Non necessariamente in quest’ordine. Un giorno la signora Goodyear fece una bella improvvi-sata a casa. Non vanno fatte le im-

    I chimici la chiamano Serendi-pity. Non è quel film romanti-cone di Peter Chelsom, ma si tratta di quei casi in cui la Fortuna bacia qualcuno e gli apre porte che altri-menti non avrebbe nemmeno visto visto, date le basse qualità di scien-ziato. Incredibilmente per questo concetto c’è un’ottima traduzione in quella bella lingua che è il dia-letto romagnolo. Si dice: bus de cul. Scientificamente.

    La storia della scienza è piena di questi fatti, che trasformano un in-capace o maldestro scienzatucolo in eroe dell’umanità.

    Fleming ad esempio. Faceva culture batteriche senza interesse alcuno, un giorno dimenticò la fi-nestra aperta del laboratorio, non aveva coperto bene le capsule petri in cui coltivava i batteri. Tornò a la-vorare e si accorse che erano tutti morti, che erano stati ammazzati

    provvisate: si sa che potreste trova-re il vostro coniuge con l’amante o a fare esperimenti di chimica. Nessu-na delle due cose è auspicabile.

    Charlie nascose l’intruglio di caucciù col quale pasticciava in for-no (caldo) dove stavano cucidando qualcosa. La cosa nel forno prese un brutto odore, la moglie lo sgamò e gli fece passare cinque brutti mi-nuti. Ma Charles scoprì la vulcaniz-zazione della gomma.

    In tempi più recenti ci si ricorda della Pzifer, che mentre studiava un farmaco per curare l’angina pectoris. Il farmaco testato non funzionava molto a dire il vero, anzi, faceva un po’ cagare. L’infar-to non lo curava ma gli scienziati si accorsero che ai pazienti cui veniva somministrato il farmaco avevano erezioni poderose. Dall’infarto al Viagra il passo è davvero breve. Fat bus de cul!

    Pillole di scienzaAmarcorddi FABIO PARIS

  • 12

    Sono le due del pomeriggio di un Lunedì di fine Settembre, uno di quegli inizi di settimana in cui di solito cambiano i palinsesti delle TV: noi falliti decadenti e pe-rennemente disoccupati usiamo i cambi di palinsesto per orientarci durante l'anno e per compiere divi-nazioni sul futuro come una sorta di deviazione postmoderna della tanto nobile quanto segreta arte degli antichi aruspici.

    Sto ancora dormendo dato che la sera prima l'ho fatta sporca, ho suonato fino a tardi, ho in bocca un giardino botanico con tan-to di pavoni, suona il telefono. “Hallo?Hallo? Alex? Sono il Barena, oggi pomeriggio ci si trova al bar che ti devo presentare l'amico mio di cui ti parlavo. Si, il promotore finanzia-rio, quello che aveva un lavoro da proporti. Alle quattro. Doccia e ca-micia obbligatorie”.

    Le mangrovie che ho sulla lingua mi impediscono di inventare una scusa e decido di alzarmi per fare colazione, anzi no, oggi la chiame-rò brunch proprio come la gente che conta, perchè sto per andare ad un colloquio con gente impor-tante, che fa cose importanti con i soldi degli altri. E poi è un brunch casereccio, un brunch tricolore, fatto per persone che rendono im-portante questa insulsa provincia e quindi mi mangio due cucchiaiate di caponata del giorno prima. Dopo aver scelto una camicia poco usa-ta, deducendone l'epoca dell'ulti-mo lavaggio contando i graffi della barba sul colletto come se dovessi

    misurare l'età di una quercia seco-lare, mi reco al luogo stabilito per l'appuntamento: un bar situato al limitare di un bosco appena dopo il benzinaio, sono in ritardo e in lon-tananza scorgo una sagoma, fiuto odore di Cynarotto (Cynar e Chi-notto) e impazienza.

    "Il Barena non c'è, ma mi ha par-lato di te: piacere sono Vincenti Se-bastiano, promotore finanziario” sarà l'unica frase di senso compiuto che ascolterò per il resto della gior-nata: era un cinghiale in un vesti-to dell'Oviesse. Non so se mi sono spiegato, ma quello era un cinghia-le vero, con le zanne, il fiato caldo e pestilenziale, setole ottime per farci gozziliardi di pennelli. Non riuscivo a fare altro che immagina-re quanti pennelli sarebbero potuti saltar fuori da quell'enorme bestia. Un cinghiale parlante in cravatta con una ventiquattrore piena di biglietti da visita e ritagli di giorna-le mi stava proponendo un lavoro che consisteva nel convincere dei poveracci ad investire dei soldi in un'azienda gestita da altri cinghia-li. I suo discorsi trasudavano di una

    retorica che era un misto di libri scritti da qualche mental coach per yuppies, metafore di sopravvivenza e crescita nella giungla della finan-za come il Mowgli di Kipling, fuga dalla città per ritirarsi in una Babi-lonia naturale e verdeggiante usan-do come libri di testo il Manuale delle Giovani Marmotte e i racconti da bar.

    Delirio fremente, la caponata colpisce forte al lobo temporale, svengo. Mi risveglio e sono alle corse dei cani organizzate dagli albanesi, realizzo che la caponata non può sortire questi effetti, ma Guerra Agli Umani di Wu Ming 2 (Einaudi Stile Libero, 318 pagine, undici euro) potrebbe essere il vero colpevole. Uno dei più sghembi ma strepitosi esempi di narrativa ita-liana sulla chimera della rinuncia totale della civiltà cittadina. Questo episodio di Donne&Compressori è a impatto ambientale zero, è total-mente vegetariano nella scelta del-le metafore. Tutto il ricavato sarà devoluto a favore dei cinghiali, af-finchè un giorno non ci conquistino con mutui a tasso variabile.

    Donne & CompressoriGreen Piecedi ALEX GROTTO

  • 13

    Dopo un anno, per niente glo-rioso, di Mattoni, cioè di libri pesantissimi e puntualmente illeggi-bili, inaugura qui Eccezioni, ovvero libri deformi, che non si sa bene da che parte prendere, spesso rifiutati dalla letteratura ufficiale perché, letteralmente, mostruosi all’eccesso; ma anche libri (per davvero) ma-ledetti, rimossi dall’inconscio (let-terario) collettivo, consegnati alle fiamme o dati per dispersi; e poi ano-malie narrative, buchi neri totali, weird-books naïf e opere concettua-li spesso sgradevoli o semplicemente illeggibili: insomma eccezioni, libri (ovviamente) trascurabili da dimen-ticare non appena letti.

    «Io ero solo e sconsolato. Le mie ingenti perdite al gioco e gravi de-lusioni amorose, per non parlare d’altro, mi avevano confinato nel villaggio e nella casa antica dei miei padri. Non avevo speranze: quelli non erano episodi eccezionali della mia vita, ma sue naturali figurazio-ni; una, la mia, impotenza profonda mi impediva ogni genere di lavoro; accarezzavo un folle disegno, mi attardavo a considerarne la possi-bile, la prossima, la ogni giorno più ineluttabile attuazione. Il mondo mi appariva senza senso e, per me almeno, senza avvenire: mi prepa-ravo, o almeno avrei voluto prepa-rarmi, a lasciarlo…».

    Inizia pressappoco così – in re-altà, l’incipit vero e proprio è una proiezione in medias res nello spa-

    zio sfinito dell’universo – uno dei racconti (o novelle) più belli della letteratura italiana tutta, cioè Can-croregina (1950) di Tommaso Lan-dolfi. Procediamo intanto, giusto per guastare la curiosità di chi, suo malgrado, volesse entrarvi, con un breve riassunto à la IBS: la notte del 23 marzo 19.., un personaggio anonimo, intimamente disperato, «weak and weary come nel Corvo» e tendenzialmente identificabile con Landolfi stesso – sappiamo in-fatti quest’ultimo, per dirne una, assiduo frequentatore del casinò di Sanremo – riceve la visita di un uomo – «per comodità» chiamato Filano – che, del tutto in sintonia con il tono vagamente surreale della cornice in cui è inserito, di-chiara di essere un «pazzo» appena fuggito «dal manicomio di…» e di avere costruito CANCROREGINA, un macchinario antidiluviano in grado di raggiungere la luna: ciò che intende fare, Filano, assieme al kafkiano (si fa per dire, meglio forse landolfiano) personaggio innomi-nato per non si sa bene quale mo-tivo. Sta di fatto che – acceleriamo un attimo – quest’ultimo accetta (la sua vita, piuttosto evidentemente, è una merda totale) di avventurarsi verso la luna assieme al buon Fila-no: con il quale tuttavia, una volta asceso dalla Terra, «oltre al cento-millesimo chilometro di altezza, o di elongazione», scazza a tal punto da scaraventarlo fuori dall’“astro-nave” consegnandolo così a una morte terribile; di lì in poi, sempre

    seguito, a distanza ravvicinatis-sima, dal «cadavere rasciugato, svuotato senza dubbio» di Filano, continuerà a viaggiare nel sempreu-guale spazio cosmico ammattendo, giorno dopo giorno, sempre più: al punto da prendere a conversare, as-surdamente, con CANCROREGINA stessa, tuttodì dandole della «male-detta baldracca» o della «puttanac-cia guercia» – ma lei, di rimando, «dal fegato, con voce di melma e caratello» obietterà: «con chi ti pare fornichi, io, che mi dai della bal-dracca?» –; cominciando a stendere «versi in tempo d’insonnia» dedica-ti a curiose animalparole mutanti: il porrovio, per esempio; e, infine, non poteva essere altrimenti, la-sciandosi morire.

    Affanculo HAL 9000, Stanley Ku-brick, e la fantascienza impegna-ta tutta, insomma: in anticipo su chiunque – e per primo il barbuto idolo qui sopra – abbia tentato di raccontare inesausti viaggi sidera-li, Tommaso Landolfi – dopo di lui, in Italia, solo Tommaso Pincio ha saputo de-scrivere lo spazio in ma-niera parimenti sfinita – ha creato un unicum a oggi insuperato – ciò che ne fa senza dubbio, mi si passi l’ossimoro, una paradigmatica ec-cezione –, e cioè un esemplare di fan-tascienza-senza-fantascienza lin-guisticamente avanti anni luce che, ditemi voi, chi mai a sessant’an-ni di distanza ricorda, celebra o, all’estremo, cita? Poco importa, direi: ciò che conta, d’altronde, «mi pare che sia, in tutte le maniere, meglio esser morti che vivi».

    EccezioniTommaso Landolfi - Cancroreginadi FILIPPO PENNACCHIO

  • 14

    Me lo copre il prezzo?Peter Pan e De Amicis. Percorsi iniziatici per l’infanzia (ovvero quando il nonno porta il nipote in libreria)di LICIA AMBU

    mente vorresti salvare dall'infausto destino il piccolo e il suo futuro di lettore. La letteratura per bambini, sterminata e meravigliosa, ti aiuta a cercare alternative. Con molta for-tuna compreranno due cose, una per far felice te una per aver ragione loro. Alla fine, secondo me, Cuore resterà illibato anche lui.

    Dilemma numero due: I libretti per bimbi piccoli sono da imbecilli. Situazione tipo:

    - Vorrei comprare un libro a mio

    nipote, avete qualcosa?- Sì certo. Quanti anni ha suo ni-

    pote?- Due, ma è molto sveglio. Qual-

    cosa sulla scienza? Qui è dura. In realtà tu non stai

    dando del ritardato mentale ad un bimbo che, tra le altre cose, non hai mai visto. Cerchi solo di dare idee e spunti per qualcosa di adatto, di-ciamo. Ecco questo, nel caso non lo sapeste, è gravissimo. E se le nonne o i nonni vi guardano schifati sen-za fuggire è già molto auspicabile come sforzo. Figurarsi se un nipo-te così intelligente già da piccolo, può interessarsi di libri che suona-no. Conclusione: il libro dei Perché adesso ha una fascia di lettura 0/10 anni. Questo accade sempre, dico sempre, dopo i primi trenta secondi di dialogo al reparto bambini.

    - Buongiorno. Io devo fare un re-galo a mio nipotino che non legge. Vorrei che iniziasse.

    - Certo signora. Quanti anni ha?- Mio nipote ne ha sette. Ecco pen-

    savo al libro Cuore.

    Mia nonna ha cercato di far-mi leggere Senza famiglia per almeno cinque anni consecu-tivi. Alla fine ho mentito per farla felice, le mie due copie (vista la re-cidiva si è impegnata) sono ancora lì, illibate. Quando un nonno com-pra libri per un nipote si scatenano almeno due problematiche diverse:

    Dilemma numero uno: Mio nipo-te non legge.

    Si sa, i nonni vogliono il meglio e a loro Cuore è piaciuto talmente (sì, questa possibilità pare essere esistita) che non vedono perché i loro adorati nipoti debbano farne a meno. Quando dico Cuore, intendo proprio Cuore, non un Salgari, i mo-schettieri o Peter Pan (e chi è? No, roba troppo vecchia), proprio Cuo-re. Devono iniziare a leggere quin-di De Amicis va comprato. Se poi continueranno a non leggere dopo un così bel libro, allora proprio non c'è nulla da fare. Il che, da un cer-to punto di vista, è appunto vero. Quando succede questo, frequenza media di una volta al mese, vieni colpito nell'orgoglio, immediata-

    Comunque non intacca la so-pravvivenza della specie, è mol-to peggio, per esempio, quando i nonni portano i nipoti in libreria e vogliono convincerli a mollare il li-bro che loro hanno scelto da soli per quello che i grandi hanno decretato il migliore. Altra storia anche que-sta. Bisogna lottare su due fronti.

    - Allora signora regaliamo que-

    sto?- Va beh, proviamo. Cuore tanto

    ce l'ho a casa. A posto.

  • 15

    certamente le Danaidi colpevoli di un peccato contro la legge di na-tura, ma del padre padrone che le dirige alle spalle tace. E dovettero pensare così in tanti, se ritroviamo le poverette, incapaci di affrancarsi dal potere paterno, nell’aldilà, con-dannate a portare acqua in giare bucate.

    È questo punto che m’incuriosi-sce: è la presenza di questi vasi bu-cati che perdono acqua. Le donne, nell’oltretomba, stanno certo com-piendo un rito di fertilità, irrigando i campi con le loro giare, ma i vasi si trasfigurano nella mia mente in al-tre immagini: Poseidon che buca la roccia di Lerna e zampilla acqua, gli spilloni che bucano i cuori dei ma-schi e zampilla sangue, le Danaidi che, dopo aver ucciso i mariti, ne staccano la testa dal corpo, fanno i funerali al loro tronco decapitato e seppelliscono le teste proprio a Ler-na, nell’acqua... (così ce lo racconta Apollodoro, nella sua Biblioteca di miti greci).

    Mi viene in mente la ricostruzio-ne di due riti aztechi: il primo è il più noto, strappare il cuore del ne-mico vinto, come le Danaidi buca-no il cuore del maschio abbattuto. Il secondo interferisce meglio con il quadro notturno del rito di morte delle figlie obbedienti: gli Aztechi usavano frustare, sino a ucciderli, i prigionieri, attaccati a una sorta di cornice sospesa, di modo che il loro sangue, cadendo a terra, la rendes-

    Parte seconda

    Le Danaidi, ninfe crudeli e innocenti: ricordate? Sono giunte dall’Egitto ad Argo, una ter-ra dove per una maledizione divina nessun fiume scorre. Sono arrivate fuggendo l’amore. La notte delle nozze hanno ucciso con degli spil-loni i mariti, su ordine del padre, tingendo di rosso i letti bianchi.

    Acqua e sangue, amore negato o concesso: dove portano queste idee? Prima dell’arrivo dei cugini affamati, il padre-padrone, giunto ad Argo, aveva mandato le figlie a cercar delle fonti. Succede che una di esse, Amimone, si lasci un po’ andare: Poseidon in persona la di-fende dalle voglie d’un satiro e cer-to all’amore di un dio è sciocco re-sistere, poi se questi non ha Era per moglie... L’amore libera l’energia soffocata, placa la sete, fa sgorgare l’acqua: col suo tridente Poseidon buca una roccia e nasce la fonte di Lerna: teniamola a mente, rivedre-mo il luogo, alla fine della storia.

    Il legame tra le Danaidi, l’acqua, l’amore e la fertilità è ovvio, non ha bisogno di essere spiegato. Eschilo lo dichiara nel frammento della tra-gedia perduta Le Danaidi, dedicata a Ipermestra, che salva lo sposo e che la dea consacra come giu-sta: l’acqua è il simbolo dell’amore produttivo di vita; quando la vita si riconcilierà all’amore, dal cielo pioverà sulla terra. Eschilo riteneva

    se fertile e producesse magicamen-te l’altro liquido prezioso, l’acqua; un’altra forma di sacrificio collega-to alla fertilizzazione della terra era la decapitazione... Sangue, acqua, crani, giare bucate...

    Un vaso di basilico custodito gelosamente. Che c’entra? Non lo so, ma fa capolino anche questo ricordo : «Quale esso fu lo malo cristiano/ che mi furò la grasta?...» cantava un’altra donna vittima del potere maschile, Lisabetta da Mes-sina (bellissima novella narrata dal Boccaccio nel Decameron). Perché, Lisabetta, piangi per un vaso ru-bato, sino a morirne? Quale tesoro custodiva? «Il mio amato. Me l’han-no ucciso i fratelli». Oddio, che hai fatto, Lisabetta! Di notte, con precisione, senza svenevolezze da femmina, hai spiccato la testa ama-ta dal suo cadavere, l’hai nascosta nel vaso, l’hai innaffiata delle tue lacrime e questa testa venerata ha germinato. Come i vasi bucati del-le Danaidi, strumento di fertilità. E se questi vasi altro non fossero che i teschi dei mariti seppelliti a Ler-na? E se le Danaidi fossero antiche sacerdotesse dell’acqua, che ucci-dono gli uomini in un rito macabro, per fecondare di sangue maschile la terra arida e trasformare il san-gue in acqua? Da allora Argo, dice il mito, non ebbe più sete...

    Qui sto tralignando e mi fermo. Ma è stato, almeno per me, un giro-vagare divertente.

    InterferenzeDonne che uccidono gli uomini:le Danaidi, sangue per avere acquadi CRISTINA FARNETI

  • 16

    ti. Poi, scherzi, a occuparsi pure di politica, se andavi a lezione da lui, (perché faceva il prof., uno di quelli severi pare) ti raccontava la qua-lunque! Spaziava dalle storie dei greci e romani, alla Toscana, al re, Garibaldi, Mazzini e compagnia. Sapeva di ogni, un po’ come parla-re con un grande, tipo quelli in Rai che stanno a tirare fuori la storia ogni due per tre e da lì non li schio-di. Però alla fine c’hanno ragione, ci rimani pure a sentirli parlare. Cioè sanno di tutto e non puoi dire che hanno torno, però forse c’hanno ragione anche i poveri cristi che di-cono che sono pesanti, voglio dire, dopo un po’: due coglioni!

    La mia compagna di classe sec-chia diceva che la parola giusta per Carducci è “boria”, io già quando parla difficile non la capisco, poi ‘sto termine mi pare una parolac-

    Praticamente quando leggi una poesia che non è tanto bella, ma parla di cose serie (tipo amore, patria, nazione, morte), al-lora sai che non è che puoi proprio parlarne male davanti a tutti. È il caso di Carducci, mi pare. Questo è il classico poeta che ti doveva pia-cere per forza fino più o meno a cin-quant’anni fa e mò non è che trovi tutta ‘sta gente che gli va contro. Giudicare bene certe poesie, che sono quelle che mio padre o mio nonno con la quinta elementare ancora si ricordano a memoria, è obbligatorio.

    Insieme al Foscolo, Carducci è considerato tipo un padre della patria e ha pure vinto il Nobel, cioè non è una cosa da poco. Come si fa a dire schifezze sul primo italiano che ha preso il grande premio? Poi era uno che ti sparava dentro il la-tino come niente, se uno ti tira fuori robe latine sull’unghia, così come se niente fosse, dico che forse qual-cosa doveva pure sapere. Non so se mi spiego. Ma c’è un sacco di gen-te che non lo considera, ma voglio dire, cosa vuoi di più? Ha scritto una marea di libri, un casino di ver-si, ‘sti titoli mezzi in latino e ancora ti credi che te puoi scrivere meglio di lui? Sì poi dicono pure che già quelli della sue età lo criticavano perché scriveva come uno col palo in quel posto, ma ti dico, ma per-ché allora quelle robe non le hanno scritte loro.

    Facile parlare e criticare, bra-vi ‘sti critici, infatti loro mica me lo ricordo come si chiamavano. Sì forse Sapegno, ma solo perché si chiamava Natalino che è un nome che ti rimane impresso. Comunque il Carducci sì che lo conoscono tut-

    cia. Comunque diceva pure lei che qualcosa di importante il Carducci l’ha fatta, dice, “a livello sociale”. Sarà, ma la “Nebbia agli irti colli” non mi pare né brutta, né pallosa, né che non si capisce, ci hanno fatto pure la canzone. E mò chi se la scor-da più?

    Dedico la menzione carducciana alla memoria dell’unico maestro che riconosco e ho riconosciuto tra i miei professori universitari, Ser-gio Cigada. In un’aula con trecento anime, durante una lezione, colpì la ventunenne me stessa dicendo che Carducci “avrà scritto sì e no due, al massimo tre, poesie decenti nella sua vita”. Aggrottò anche le soprac-ciglia ricordando la vittoria del No-bel, poi chiuse la parentesi amena: lui insegnava, come non farà più nessun altro, la vera letteratura.

    Scritto da un idiotadi MICHELA CAPRA

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    CorrispondenzenotevoliA Mozart piace la caccadi GRETA TRAVAGLIATI

    peto colpito.”

    Certo non si sa cosa ne pensasse davvero la cuginetta, che non di-sdiceva la compagnia dei preti e che ebbe poi una figlia illegittima con un canonico di Augusta.

    Ciò che emerge nella lettura delle epistole di Mozart con la cugina, è una certa ridondanza delle temati-che inerenti alla defecazione. Se ne può di certo dedurre che Wolfang fosse uomo concreto e di sane abi-tudini: “Prima di scriverle devo an-dare in quel posticino…ah…fatta. Ora mi sento sollevato! Ora mi sono tolto un peso dal cuore – adesso posso tornare ad ingozzarmi!” (let-tera 3/12/1877)

    Era di certo qualcuno che teneva molto agli affetti ed alle amicizie: “a tutti i buoni amici ed amiche di entrambi, un culo pieno di ossequi” (stessa lettera).

    Amava la geografia: “beh, un pa-ese o qualcosa del genere; ecco, era una roba come Tribsterillo dove la merda fa zampillo, oppure Bur-mesquica, dove i buchi del culo storti vanno in gita. Insomma, per farla corta, era un posto qualun-que.”(28/02/1778). Così come non mancavano le dimostrazioni d’af-fetto nei confronti della cugina: “le porgerò io stesso i miei complimen-ti di persona, le chiuderò il culo con della cera buona, le sue mani bace-

    Lo scrittore cui dedichiamo il pezzo di questo mese amava infinitamente le righe, ma vi infi-lava piuttosto note che parole. Tut-tavia a volte gli capitava di scrivere, come capita a tutti, e quando lo fa-ceva il discorso suonava piuttosto come una melodia, irriverente e sarcastica come la sua musica.

    Wolfgang Amadeus Mozart – da qui in poi solo Wolfgang, o Mozart, onde evitare spiacevoli rimem-branze circa il nasuto conduttore tv- scrive lettere alla cugina Maria Thekla a circa 20 anni, in un perio-do abbastanza tormentato – quello in cui abbandona i legami profes-sionali e le protezioni per iniziare a lavorare come libero compositore.

    “Carissima cuginotta, non essere leprotta” incalza Wolfgang, rimpro-verando la cugina di essersi molto offesa per una sua prolungata as-senza, “il signor prelato imperiale non mi ha lasciato andare, ma non lo posso odiare, sarebbe contro la legge di Dio e la natura umana, e chi non ci crede è una putt....”

    Benché non in maniera esplicita, sono già palesi le incomprensio-ni tra Mozart e l’entourage che lo protegge, arcivescovo compreso. In una lettera del 1977, il prelato innominato riceve ingiurie poco decorose: “Mi dispiace molto che il signor prelato in insalato sia nuo-vamente stato da un colpo e da un

    rò, con lo schioppo didietro spare-rò, l’abbraccerò, un clistere davanti e dietro le farò...” (23/12/1878) E via dicendo.

    La moglie e la famiglia di Mozart si opposero alla pubblicazione delle lettere, trovandole immo-rali. Juliane Vogel nel commento all’opera sostiene che “l’unilatera-lità sia dell’interpretazione psicoa-nalitica che di quella musicale ap-pare palese.” A noi sembrano sole ulteriore dimostrazione del genio di Wolfgang. Che, incompreso dai suoi compatrioti, morì di stenti e fu sepolto in una fossa comune. E concludiamo con un suo caloroso e dignitoso saluto:

    Il suo obbedientissimo umilissimo lacché

    Il mio culo viennese non è

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    mente... grezzi? Ommioddio! Riu-sciranno a capire quello che voglio dire veramente?”. Ecco perché oltre a scrivere bene aveva anche molti lettori (e li ha tutt’ora). Ecco perché, mentre di là c’era Dickens, di qua avevamo Francesco Mastriani (e , con tutto il rispetto, voglio vedere chi di voi ha letto un libro di Ma-striani!).

    Anche un “grezzo” potrà capire che in fin dei conti sono proprio i fenomeni di massa a farsi porta-voce del progresso culturale. E la televisione in questo senso si è data da fare: proprio grazie alle serie tv ha preso in mano il peso della narrazione portando avanti sia la tradizione della letteratura di ge-nere (vedi C.S.I., Dawson’s Creek, eccetera), sia la sperimentazione (vedi Lost). Le serie tv a stelle e stri-sce (ahimè, noi italiani ancora una volta stiamo indietro a guardare...) stanno ridefinendo il panorama della cultura narrativa popolare.

    Spero di farmi portavoce di qual-cuno dicendo che siamo narrativa-mente onnivori. Leggere un libro però non è sem-pre così sempli-ce, a volte non c’è tempo, a volte è troppo noioso... ma per fortuna che c’è la televi-sione! Ora posso ben dirlo: facile, calda, immedia-ta, niente di me-

    Qualche tempo fa ho compra-to un libro che non ho mai letto: Tutto quello che fa male ti fa bene di Steven Johnson, nel quale si spiega perché la televisione, i vide-ogiochi e il cinema ci rendono in-telligenti. Ovviamente, non disde-gnando la possibilità di diventare più intelligente, ho mollato subito il libro e ho acceso la televisione. Al-trettanto ovviamente non sono di-ventato più intelligente, ma in com-penso mi è tornata in mente la frase di uno studioso di cui non ricordo il nome: “Le serie tv sono i feuilleton del 21esimo secolo”.

    Roba vecchia, lo so, ma credo comunque che sia un’affermazio-ne sempre valida. Insomma, oggi tutti parlano di Web, Social Media, eccetera. Ma non dobbiamo dimen-ticarci che fino a qualche tempo fa la televisione era l’argomento prin-cipe del dibattito letterario. Ah, la cara vecchia televisione... Un sacco di “anglo-scrittori” ci hanno rac-contato quanto la scatola magica abbia influenzato il loro modo di scrivere.

    Dico “anglo” perché, si sa, i no-stri compatrioti sono sempre stati dei gran ritardatari. Ma non è mica colpa loro, poverini. Qui da noi c’è sempre stato un certo snobismo, e mentre di là si parlava già di cultu-ra di massa, di qua si faceva ancora differenza tra letteratura e paralet-teratura (detto fra noi, che parano-ie!). Insomma, Dickens di certo non diceva cose del tipo “ma l’eccesso di pathos del mio ultimo romanzo non attirerà troppi lettori cultural-

    glio quando si ha poco tempo e tan-ta voglia d’intrattenimento. Mentre al lettore viene chiesto di racco-gliere degli stimoli disseminati nel testo e lavorare d’immaginazione (che fatica!), lo spettatore può stare bellamente spaparanzato sul diva-no a vedere immagini già date (che comodità!). Ma insomma, dopo una giornata di lavoro, una cena insod-disfacente, una (conseguente) liti-gata con la morosa, una sconfitta in coppa della propria squadra del cuore, una (conseguente) litigata con la morosa... beh, chi di noi ha ancora la forza di immaginare?

    Produttori, magnati, uomini di mondo: dateci le serie tv, l’unico sollievo che ci resta a fine giornata. Dateci la cultura popolare, la cultu-ra di massa, chiamatela anche pa-racultura se volete. Vogliamo storie sempre nuove per diventare sempre più intelligenti. E quando gli apoca-littici torneranno all’assalto dicen-do, per ipotesi, che la tv ci fa venire il cancro.

    La lettera che muoreLa tv ci rende intelligenti (?)di MICHELE MARCON

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    L’argomento di questo artico-lo è come sempre finalizzato a raccontare i fatti miei. Ero a cena a Finisterre quando Justine (e detta così sembro un figo della madonna) mi racconta una barzelletta molto in voga in Germania: «Un topolino e un coccodrillo si incontrano al buio. Il coccodrillo inizia a tastare il topolino: “Hai il pelo morbido, le orecchie piccoline, il naso lungo. Devi essere un topo!” Tocca quin-di al topo: “Hai la bocca grande, la coda lunga, le gambe corte. Devi es-sere un Italiano!”». Inutile dire che ho riso tantissimo sia per la barzel-letta che per le ingenti quantità di vino bevute. È interessante notare come in poche parole una battu-ta possa descrivere i nostri pregi e difetti, per quanto l’avere una coda lunga faccia passare in secondo piano qualunque critica. L’Italiano medio non ha del resto ancora su-perato la fase di onnipotenza legata alle dimensioni del proprio pene, con grande gioia di Freud e compa-gnia bella.

    Scomodiamo allora Sigmound Freud, che nel saggio Il motto di spi-rito e la sua relazione con l’inconscio sostiene che alla base dell’umori-smo vi sia lo sfogo di pulsioni re-presse e che ciò che fa realmente ridere di una battuta non è ciò che viene detto, bensì ciò che è sottin-teso. Freud però doveva essere uno di quelli che spiegano le barzellette interrompendo ogni momento di ilarità, per cui non ho intenzione di citarlo oltre, per quanto il fatto che spiegasse le barzellette me lo sia inventato ora e non sappia asso-

    lutamente nulla di come fosse Sig-mound con gli amici.

    Robin Tapley nell’articolo "Just Joking!” The Ethics of Humor affer-ma che la battuta è «un altro modo per trasmettere una credenza nella comunità. Il fatto che si reputi vera una certa credenza non importa.» Non so chi sia Robin Tapley e in questo mo-mento ho pro-blemi con la linea adsl, per cui non posso neppure infor-marmi e fare il figo, ma è una i n t e r e s s a n t e citazione in un libro degno di attenzione: South Park e la filosofia.

    Peccato che Sinesio non sia riuscito a tra-smettere alla comunità una credenza che mi sarebbe tornata molto utile. Afferma infatti nell’Elo-gio della cal-vizie che «se è vero, come è vero, che l’uo-mo è fra tutte le creature la più divina, fra gli uomini che hanno avuto la

    fortuna di perdere i capelli, l’indivi-duo completamente calvo è in asso-luto l’essere più divino sulla terra.» Bella Sinesio!

    illustrazione:GIUDITTA MATTEUCCI

    Megaviaggi!Umorism’di ALESSANDRO POLLINI

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    poi I-come-Italiani, popolo di santi poeti navigatori (ah!) e non lettori, a loro, anche a loro Scrittori 2.0 (suv-via) gli frega come di una moneti-na bronzina da 5 centesimini che sbuca da quel cespuglino lì, proprio da quello, sì, della terzina in rima ABAB del loro collega Scrittore 2.0, che è meglio la mia, di rima terzina; carina la tua borsa, la mia è più co-stosa, carina la tua ragazza, la mia è più maiala.

    Trattasi di concetto delicato, di cultura prettamente mediterranea, filo peninsulare. La rivoluzione di questi anni informatici ha portato a un’agguerritissima generazione di digitatori: sms, e-mail, blog, so-cial network, portali, siti, concorsi: pigiare sui tasti, tasto destro sino-nimi, tasto sinistro seleziona, con-teggio parole, strumenti, salva con nome, pubblica. Ma non leggo qua-si niente di non mio, grazie, a meno che tu non abbia letto qualcosa di mio e che tu non mi abbia mandato una mail di stima, apprezzo molto il tuo sillogismo sfumato, tipo, allora sì, allora è un altro paio-di-mani-che. Ed è un peccato, un peccatis-simo, lo Scrittore 2.0 è una moltitu-dine, è la vera controcultura degli anni zero, non solo porno, anche ritmo, anche lett(erat)ura, anche bella roba, e dopo i porno, certo, ma dopo, di contorno, semmai. Che lo Scrittore 2.0 è bravo, molto bravo, molto più bravo, conosce gente e partecipa a cose, diffonde, scambia,

    Internet è un contenitore vuoto. (relatore anonimo, in occasione di una recente conferenza stampa di

    cui mi hanno riferito).

    La metà degli italiani scrive / l’altra metà non legge.

    (Ernest Hemingway)

    Lo Scrittore 2.0, bando alle ciance, non ha un’identità precisa; allo Scrittore 2.0 non servo-no barba, caviglie e occhiali troppo grossi, basta, ehm, un computer. Che accende, giornalmente, e a cui affida: poesie, saggi, sceneggiature, pareri, racconti, emozioni, recen-sioni, pagelle, articoli, cronache, editoriali, romanzi, pamphlet; il tutto regolarmente infiocchettato, il tutto come fossero cioccolatini già scartati ma rincartati e da ri-scartare, (non dobbiamo inventare niente, hanno già inventato tutto) [cit., Giovanni Marino, professore di Educazione Tecnica delle me-die]. Bisogna, giustappunto, che qualcuno lo affermi, che qualcuno lo scriva, io, perdio, lo farò, e-affer-mo-e-scrivo che stiamo assistendo alla talentuosa parata degli Scritto-ri 2.0, gomiti alti, libri aperti, facce un po’ così, parole come mosche gonfie di verde sulla cacca, infini-te parole, infiniti pensieri, e quella grande meretrice della internet che ci stana tutti; sì, wow, bello, l’arte, la creatività, lo stile, come scrive bene Fabio! [cit., Beppe Bergomi], però

    BiografieEdulcorateLo Scrittore 2.0di ANDREA MEREGALLI

    regala, fa rete, fa rete, perdiana, il concetto manifesto della nostra ge-nerazione: fa-re re-te. C’è gente che mette la punteggiatura nelle mail, sì, è così, e se mi arriva una mail con la punteggiatura, con il pun-to alla fine, con le virgole e con lo spazio dopo le virgole, mi diffonde cultura grammaticale, se un ‘ami-co’ condivide uno scritto, un libro, il nuovo numero di Finzioni Maga-zine, io ne vengo a conoscenza, e dentro c’è della roba che, magari, ignoravo, se scrivo un romanzo sul-la figura ambiguamente androgina di Lady Oscar, lo posso fare leggere a un numero imprecisabile di per-sone, grazie a quella rompi cazzo di internet; che, certo, c’è da perderci del tempo, da soffiare via la forfora dalla giacca, da infilarsi nel retto la spocchia da cattedra, c’è, soprat-tutto, da prendersi un po’ meno sul serio, però, perdiana, gli Scrittori 2.0, la cultura 2.0 è già (da un pez-zo) sbarcata. E mi scuserete se que-sta biografia edulcorata, insomma, va beh.

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    La Posta dei Lettori di Matteo Bettolidi MATTEO BETTOLI

    Caro Commendatore, Clepto-mania! ha scombussolato i delicati equilibri esistenti tra case editoriali e casi umani. Non era mai successo che un editore con-siderasse possibile ed addirittura caldeggiasse il furto di un proprio volume, così, per diventare un po' la casa editrice che piace agli hip-ster. Se l'uscita di Steal this album! degli armeni & ameni System Of A Down non aveva significativamen-te incrementato il numero di furti di dischi del gruppo (aveva già preso piede la deriva de “i dischi li comprano solo i nerd”), Cleptoma-nia! di Karin Koss (ed. Mass, 124 euri, oppure gratis se lo arubba-te (sic, ndr)) a 'sto giro è andato a ruba da bòno. Poco giova parlarne (non l'ha letto praticamente nes-suno, e chi l'ha fatto si è chiuso in un silenzio imbarazzato), molto giova la sua esposizione sullo scaf-fale più bello della propria casetta. I più smaliziati si accorgeranno della sua presenza, ed incrocian-do lo sguardo col padrone di casa sbotteranno in un “no cazzo, dim-mi che l'hai veramente arubbato!”.

    Sissimone, Portlando

    Sissimone, voglio credere che l'utilizzo del verbo “arubba-re” risponda ad una precisa scelta stilistica. Mi piace. Ma veniamo a noi: la Mass pubblicando il libro di Koss ha compiuto un'interessante operazione di marketing, lasciando la patata bollente nelle mani dei po-chissimi librai in carne ed ossa ri-masti, librai laboriosi che le copie le pagano e poi se le vedono arubbate. D'altra parte, il prezzo scoraggia

    dall'acquisto ufficiale tutti tranne i più entusiasti e fifoni. Un'analisi se-rissima effettuata dagli stessi son-daggisti del Presidente del Milan ha confermato che l'85% delle copie in circolazione non sono state pagate. L'assalto ad un furgone portavalori pieno di copie ha immesso nel mer-cato nero (www.ebay.com/merca-tonero) migliaia di copie arubbate con violenza, non con scaltrezza. Questi furti non ci piacciono e sono anni luce dal significato profondo che Koss voleva dare alla sua opera.

    Caro Bettoli, ho tanto viag-giato per lavoro, sono in-fatti un capoccia di un'importan-te ditta di sanitari. Dici sanitari e tutti pensano subito ai water, ma è riduttivo e fuorviante: esistono infatti, a titolo esemplificativo, anche i bidè (perlomeno in Italia). Stringendo accordi e stringendo mani con persone dell'ambien-te, mi sono reso conto di operare in un mondo che tutti unisce, dal maniscalco al re. Ma veniamo alla ragione della mia lettera. Nel mio lavoro non sono tutte rose e fiori, che al massimo troviamo in ver-sione spray con pratico diffusore nelle nostre stanze da bagno. C'è la fatica, e il perdere di vista l'obiet-tivo. Mi ha aiutato il libro di San-dy Canneto, Compagni di viaggio spiacevoli, ed. Gallipoli, 14 euri.

    Carlo, Tropicana

    Caro Carlo, le edizioni Galli-poli si sono guadagnate un seguito fedele attraverso la pub-blicazione di volumi carezzevoli, taglienti ma pieni di umanità. An-che in questo Compagni di viaggio spiacevoli, scritto da un dottorando a 800 euri al mese ma firmato dal Professore Straordinario di Socio-logia dello spazio e dell'ambiente, Pregiatissimo Sandy Canneto, c'è il solito mix di brutalità e dolcezza. Certamente rimarchevole lo scor-rettissimo attacco all'adipe (“Volo interno tra le due città peruviane di Catos e Druda. Aeromobile di costruzione sovietica, strettissi-ma, forse per invalidi di guerra, mi manca il posto per almeno due arti. Devo andare in bagno, ma accanto a me c'è un uomo che ha bisogno di utilizzare la prolunga per la cin-tura di sicurezza e che mi inibisce dall'andare. La vedo male. Ma in lui riconosco la mia stessa ingordigia di umano golosone”). Significativa anche la descrizione del viaggio, in una macchina noleggiata, che il giovane protagonista si trova a dover fare con il presidente ottua-genario dell'associazione “Viva il dialetto e le tradizioni”. Nevermind dei Nirvana inesorabilmente bloc-cato in repeat per scelta dell'auto-radio, volume nocivo, rapporti che si deteriorano e incomunicabilità generazionale.

    Caro Bettoli, spesso ho pen-sato di compiere brutte

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    azioni, ma fino a qualche tempo fa non ne avevo mai avuto il coraggio perchè sono un pavido. Avevo bi-sogno di un pretesto che ho trova-to nella vergatura di un volume: Le azioni spregevoli di una brutta per-sona. Le edizioni Correra hanno colto il potenziale del libro, capace a sentir loro “di spingere migliaia di repressi a fare cose malvagie, a buttarle giù in prosa o in versi e a renderle commerciabili pure negli autogrill”. Ho lanciato un trench (sic, ndr)? Se andassi all'isola dei famosi, sarei nel gruppo dei famosi o degli illustri sconosciuti?

    Martino Rejuco, Monte Lupo

    Sicuramente dei famosi. Basta molto meno. Ora nel meri-to del libro da lei orgogliosamen-te scritto e da Correra pubblicato senza vergogna ho poco da dire. Tra tutte le ragioni per scrivere un libro, quella di creare un elemen-to probatorio che individui senza dubbio alcuno l'incapacità di inten-dere e volere o assicuri perlomeno le attenuanti generiche, bè non è affatto tra le peggiori. Pregevoli le note introduttive, con piacevo-li digressioni storiche sulle azioni malvagie del passato (Nerone che incendia Roma e suona & si sbron-za, Zidane che testa la resistenza di Materazzi, Hansel & Gretel che

    -anche se siamo uomini e non be-stie- infilano una povera vecchia strega in un forno). Purtroppo le azioni compiute e descritte dall'au-tore non sono empie e tantomeno perfide: sono idiote. Il nostro Mar-tino Rejuco tutti i giovedì mattina si reca in via dei Fori Imperiali e spo-sta le multe delle auto in contrav-venzione su autovetture innocenti (non la marca “Innocenti”, quella è fallita da tempo) causando momen-ti di apprensione tra gli autisti probi ed un'ignara serenità tra quelli col-pevoli. Immagino gli sghignazzi. Si faccia vedere.

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    Peyton Place by Grace Meta-lious è un capolavoro lettera-rio. Vorrei poter dire un “indiscusso capolavoro letterario”, ma questo non è possibile.

    Il primogenito della numerosa stirpe dei bestseller internazionali risale al 1956 e da allora non ha mai smesso di essere bistrattato dalla critica e/o comprato per le ragioni sbagliate. Scritta da una casalinga di provincia, morta trentaduenne di cirrosi epatica, l’opera prima di Grace sulla carta non ha gli esat-ti presupposti per essere letta con interesse dalla classe intellettuale. I contenuti sorprendentemente li-beri per l’epoca, tuttora mostruo-samente moderni, sono anche loro i peggiori alleati di una lettura atten-ta e accurata da parte del consuma-tore medio. È stato principalmente il passaparola tra vicini di casa ri-masti shoccati dal racconto della Metalious, che ha fatto superare di un pezzo la quota 10 milioni al libro che molti parrucconi, e oggi anche hipster, amano odiare.

    Peyton Place (tradotto I peccati di Peyton Place, l’ultima edizione ita-liana risale al 2006 con l’operazione di rispolvero per il cinquantesimo da parte di Einaudi, che forse spera-va di cavalcare l’onda degli scenari à la Wistiria Lane) non è il papà di tutte le soap e di tutte le serie, ma è un signor romanzo corale da far en-trare dalla porta principale nel pa-lazzo della letteratura americana. In genere i detrattori si attaccano subito allo stile: un “è scritto male” è d’obbligo, abbinato alla loro ini-

    ziale smorfia di disgusto. Certo te-soro, se per te Baricco è un grande scrittore. Le frasi brevi, il soggetto-verbo-complemento-punto non è scrivere male, ma è il fulcro dello scrivere all’americana, questo deve essere chiaro e condiviso con la buona pace di chi pensa che ci sia sotto dell’altro. Che poi piaccia o meno, è davvero un altro discorso (è superfluo appuntare che in gene-re trovo antipatica la gente a cui il sopraddetto stile non piace in nome di una gratuita fanfara di suborna-zioni e aggettivi?)

    Passiamo alla ciccia: il contenu-to. Dico subito che c’è uno stupro incestuoso, che c’è una vedova con-

    solata e che c’è una madre morbosa e che c’è una relazione barely legal. Queste vicende, è vero, sembrano seguite con la stradycam a distan-za minima ma, giovani, correva l’anno 1956 e le scriveva una donna che usciva di casa solo per il merca-to. Grace ritrae con una freddezza forzata, che freme per tentare di non scoppiare in ardore, desiderio, rabbia, con una sensibiltà che fa rabbrividire solo nel provare a con-cepirla. Grace traccia due linee di matita e questo basta per illustrarci i pori dell’inserviente della scuola, le stoffe del negozio MacKenzie, l’odore di birra nelle cantine. È un capolavoro che mi permette a di-stanza di otto anni dalla mia prima lettura di ricordarmi esattamente intere scene e, perdonate l’ingenu-ità, di emozionarmi ancora.

    Nel romanzo c’è anche un ca-meo: il sempiterno dottor Gregory House si traveste da Mathew Swan, medico del paese. Certo non si oc-cupa di casi rari, ma l’etica e il mo-dus operandi è il medesimo. Legge-re per credere.

    Interpretazioninon ufficialidi MICHELA CAPRA

  • 24

    Vi è mai capitato di voler vede-re tantissimo un film o leg-gere un libro ma ritardare la cosa il più possibile? Di avere quasi paura di confrontarvi con quella… cosa, perché sapete che sarà un’emo-zione molto intensa? Ecco. È per questo che con una passione per le graphic novel e ben 29 (quasi 30) anni suonati non mi sono mai mes-sa a leggere Gipi. Per anni mi è stato detto che era straordinario e io ci ho sempre creduto. Però, non ho mai comprato un suo libro. Fino a oggi. Giorno in cui ho deciso di co-minciare con La mia vita disegnata male. Non con il pluripremiato Ap-punti di guerra, come avrebbe in ef-fetti voluto la logica, ma con il libro

    Ghost WorldLa mia vita disegnata male, di Gipidi MARINA PIERRI

    autobiografico dell’autore. Non so, forse ho ricercato una presenta-zione immaginaria e univoca tipo: ciao Gipi, io sono Marina.

    Il libro, per certi versi assai su-perficiali, mi ha ricordato Caro Dia-rio di Moretti. Parte con un medico e si chiude con un medico e, come nella storia di Nanni, in LMVDM il protagonista si sobbarca una via crucis tra presunti professionisti per capire l’origine del male (“una cosa seria ma pure guaribile” che resta senza nome). Il male però non è una metafora per niente, è solo un male. E non c’è mai bisogno di in-terpretare troppo quel che succede a Gipi, perché a) gli psicologi non

    gli piacciono per niente e b) fa un lavoro egregio su se stesso, introdu-cendo il lettore, a ritmo serrato, nel suo punto di vista su alcune delle circostanze che lo hanno “fatto” in un certo modo.

    Syd Field, maestro di sceneggia-tura un filo troppo determinista, sostiene che lo scrittore debba im-maginare gli avvenimenti salienti che hanno segnato il protagonista di una storia, anche se il film non ne mostra nessuno: eventi che, in ogni caso, hanno influenzato il suo modo di camminare, di vestire, di parlare etc, etc. Ora, mi sembra che ne LMVDM Gipi si tratti come un personaggio a tutto tondo e faccia più o meno la stessa cosa, facendo penetrare il lettore, carne e ossa, nei suoi ricordi. Con sincerità (posi-tivamente) imbarazzante. Non c’è, però, taglio chirurgico nei racconti, né eccessiva emotività: il racconto è un 8 e ½ a fumetti, un’indagine sul passato che risulta vibrante, se non pacifica. Ed è proprio nell’as-senza di una risoluzione finale, o di un’equazione che metta a tacere ogni dubbio, che LMVDM entra nel pantheon delle autobiografie più belle di sempre. Perché la vita con-tinua, come si dice.

  • 25

    Ci sono due modi per raccon-tare storie: la noiosa veri-tà e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una cari-catura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accen-to su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assim-metria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria te-sta. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinami-ca: è divertente e fa lavorare il cer-vello. Fa ridere e fa pensare.

    Ci sono poi due ruoli che si al-

    Alfred Dreyfus era un gran lo-sco. Ma roba tipo che da gio-vane andava nelle sale giochi più malfamate e faceva finta di giocare a biliardino ma in realtà si scambia-va sguardi torvi e occhiatacce con tutti i brutti ceffi che, appena entra-va, si facevano il gomitino dicendo: ma quant’è losco Dreyfus?! Emile Zola invece era un puro di cuore: passava le giornate saltellando nei giardini pubblici di Parigi con un cestino di vimini pieno di fiori che spargeva in giro canticchiando fi-lastrocche per bambini e ridendo senza alcun apparente motivo.

    Dreyfus, grazie a una partita truccata a flipper, riuscì a diventa-re Capitano dello Stato Maggiore di

    IperboloserAlfred Dreyfusdi JACOPO CIRILLO

    ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia succes-so quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa.

    Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tira-re acqua al loro mulino, si raccon-tano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti ogget-tivi. Trovano la verità dentro di sé,

    non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.

    E la verità soggettiva è infinita-mente più interessante: come di-ceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di an-noiarvi ancora di più), con sogget-tivo non si intende un attributo re-lativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me.

    In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Wal-ter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.

    Francia e, nel 1894, quando i rap-porti con la Prussia erano ancora tesi, fu condannato dal tribunale militare con accusa di altro tradi-mento in quanto estensore di una lettera indirizzata ad un ufficiale tedesco in cui venivano rivelate importanti informazioni militari francesi. Quando l’affaire Dreyfus divenne pubblico, un po’ tutti pen-sarono: va bè, Alfred è talmente lo-sco che non mi sorprenderei se dav-vero ci avesse tradito. Eh, in effetti non è che fai il losco per tutta la vita e poi non ti sgamano.

    Ma Emile Zola non ci stava: per lui tutti erano buoni e amanti dei fiorellini, dunque iniziò a battersi per Dreyfus, arrivando a scrive-

    re il famoso J’Accuse sul giornale L’Aurore in cui, accecato dall’indi-gnazione, accusava un po’ tutti di antisemitismo, razzismo e nazio-nalismo cieco. Alla fine della fiera Alfred se la cavò con cinque anni d’esilio nell’Isola del Diavolo che, a dispetto del nome, era un paradiso tropicale e Zola morì nel 1902, mor-te provocata da una manomissione della sua canna fumaria ad opera di personaggi legati all'Affaire.

    Ancora adesso, se andate nella sala giochi Metropolis di Parigi, c’è un cartello col faccione di Dreyfus con su scritto: io non posso entrare.

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    Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semioti-ca, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fonda-tore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge.

    Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiun-to traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno con-cesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.

    Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo conti-nuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guar-dare il mondo le sembra a testa in giù.

    Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamici-tà. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 te-levisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre pae-si è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.

    Michel Capra, She lives on Love Street, lingers long on Love Street… Nata in provincia di Varese nell'aprile 1983, ha trascorso gran parte dell'infanzia sulle spiag-gie liguri. Ha frequentato il liceo linguistico, dove ha iniziato a conoscere e amare la letteratura americana. Alla facoltà di Lettere Moderne ha incontrato la lettera-tura francese, innamorandosi della sua poesia. Laurea-

    ta in Filologia Romanza, è appassionata lettrice di ogni forma di scrittura medievale. Compone racconti sin da piccina e vive immersa nel verde insieme al marito e ai suoi tre gatti.

    Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il po-sto a nuove manie.

    Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora vive nella bu-colica provincia alessandrina. Scribacchino per varie testate online e non, si occupa principalmente di mu-sica, letteratura ed ambiente. Soffre di una grave di-pendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy Hickey con Randy Marsh. Ama, tra le altre cose, fanta-scienza, horror e grindcore.

    Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sba-gliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissi-mo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi.

    Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e stu-dia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna cono-scenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare

    Contributi da:

    n. 16 / Ottobre 2010

    [email protected]

    www.finzionimagazine.it

  • 27

    una laurea a detta di molti “inutile”.

    Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-rante. Performer di incauta protervia, aruspice della si-gnificazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.

    Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presen-ta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’au-tenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamen-te dalla nascita.

    Giuditta Matteucci è romagnola ma le sarebbe pia-ciuto nascere in un piccolo paese molto impronuncia-bile degli Stati Uniti per poter crescere dondolandosi su una veranda suonando tristi canzoni d'amore folk. Pper consolarsi da questa mancata locazione geografica mantiene solidamente il fuso orario dell'Ohio. malata di narcolessia e di allucinazioni diurne fatica a contestua-lizzarsi nella vita quotidiana e quando ci riesce proba-bilmente sta ridendo. Fondamentalmente si occupa di comunicazione. disegna con la penna perchè è povera. Vi vuole bene.

    Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo in-ternazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali.

    Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare

    che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in acce-zione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’invia-to da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto di nanotecnologie.

    Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe perso-nale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, fre-quenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leg-gendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse-guenza, alle volte si annoia tantissimo.

    Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la fi-glia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi.

    Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del por-tale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane.

    Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Il suo primo libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il suo secondo libro si chiama sbriciolu(na)glio per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi risponde a caso. Il suo gatto invece si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet: tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso, sono suhttp://simonerossi.tumblr.com.

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