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N. 9-10Settembre-Ottobre

2006

LMS IN MISSIONEAlla scuola dei poveri

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SOMMARIO225 EDITORIALE– Ancora alla scuola dei poveri

di Pasquale Salvio

228 INVITO ALLA PAROLA– Educazione alla povertà

di don Tonino Bello

231 PALESTINA– La pace in Medio Oriente passa anche per l’Italia

di Maurizio Debanne

233 VITA LEGA◆ BOSNIA– Ljubija, così vicina eppure così lontana

di Fabio Amato

– La dolce fatica di esser sentinelle del mattinodi Paola Romanelli

– Bosnia 2006, da Presnace un bilancio in chiaroscurodi Cristiano Basso

◆ CUBA– Ritorno a Cuba: la LMS tra impedimenti e speranze

di Luca Capurro

◆ PERÙ– Le stelle di carta argentata

di Davide Bavera

◆ ROMANIA– Pensare la missione… a Sighet

di Andrea Zanni

– … E poi qualcuno ti chiamadi Francesco Salustri

mensile della lega missionaria studenti e del M.A.G.I.S.

N. 9-10 Settembre-Ottobre 2006

Direzione e Redazione: 00144 Roma –Via M. Massimo, 7 – Tel. 06.591.08.03– 54.396.228 – Fax 06.591.08.03 –Spedizione in Abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filialedi Roma – Registrazione del Tribunaledi Roma n. 647/88 del 19 dicembre1988 – Conto Corrente Postale34150003 intestato: LMS Roma.e-mail: [email protected]

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COMITATO DI REDAZIONE

Massimo Nevola S.I. (direttore),Michele Camaioni (redattore capo),Dario Amodeo, Laura Coltrinari,Francesca Romana Lenzi, GiulioCesare Massa S.I., Francesco Salonia,Francesco Salustri, Luigi Salvio,Pasquale Salvio.

Per abbonamenti versareun’offerta libera sulcc postale 34150003

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Associato alla Federazione StampaMissionaria Italiana

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Finito di stampare Ottobre 2006

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EDITORIALE

ANCORA ALLA SCUOLA DEI POVERI

Cos’è cambiato per me? E per noi?

Sighet (Romania), 31 luglio, S. Ignazio di Loyola, Camin de batrani (casa deglianziani): Teodor, 72 anni, l’avevamo lasciato venerdì, ammalato. Ora giace lìnella camera mortuaria, nel sottoscala, in quella cassa di legno grezzo, pove-ro, come lui. Il gruppo dei volontari della Lega Missionaria Studenti si alternaa pregare per lui, a “fargli compagnia” e poi ritorna nei corridoi di questastruttura antica e inadatta ad ospitare le storie di abbandono e di disperazio-ne, anche di giovani, che si consumano in giorni tutti uguali. La mattina se-guente, alla cerimonia religiosa nel cortile nessun parente sono presenti, colsacerdote greco-cattolico, pochi suoi compagni di crocifissione; i giovani dellaLega sono la sua corona di fiori. Tutto stride con le organizzazioni funerariedelle nostre città, strette in protocolli e procedure complesse e asettiche, doveil dolore e la speranza cercano, quasi con vergogna, i loro spazi. Chiodi e mar-tello per chiudere definitivamente la storia terrena di Teodor e portarlo al ci-mitero su un camion, di quelli del trasporto delle merci. Ma chi lo accompa-gna in quest’ultimo viaggio? È solo…. Tre dei volontari si fanno avanti, unomonta sul camion, gli altri due sulla Dacia scassata che ci è stata prestata pergli spostamenti. Si va fuori città, al “cimitero dei poveri”, cioè di coloro chenon possiedono 400 euro (una cifra immensa da queste parti per le persone“normali”, figurarsi per i poveri…) per pagarsi la tomba per venti anni in uncimitero anch’esso “normale”. Lasciamo la strada che, nella campagna, dovescorre la ferrovia col doppio scartamento, si fa prima viottolo poi sentierosterrato, fino ad arrivare alla discarica della spazzatura. Lì degrado, miseria,puzza: sono gli stessi che ancora porto, indelebili, nel cuore e nei sensi dopol’esperienza vissuta alla discarica – più grande, enormemente più grande – diTruijllo, in Perù, lo scorso anno, nell’altro campo della Lega. Un po’ più in al-to, il “cimitero”: un campo aperto, una fossa già pronta tra sterpaglie e fioribellissimi. Marianna ne raccoglie qualcuno e lo poggia sulla bara. È l’ultimogesto affettuoso per Teodor e, mentre guardo commosso questa diciannoven-ne di Milano alla sua prima esperienza missionaria (si sente impreparata, maio la vedo già così “forte”…), penso che oggi, giorno di S. Ignazio, festa per laCompagnia e la Famiglia Ignaziana, la Lms sta celebrando i Giubilei nel mo-do più conforme al carisma originario che la stessa 34ª Congregazione Gene-

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rale aveva evidenziato: la missione. In quella stessa giornata i giovani della Le-ga insieme a quelli di altre realtà ignaziane e non erano a Sighet, come inPerù e in Bosnia a vivere l’esperienza del farsi prossimo ai poveri nell’annun-cio del Vangelo. Sentono – anche coloro che sono in ricerca di fede e in crisi disenso esistenziale – che “la vicinanza ai poveri è una necessità per la Chiesa eper la Società, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica delVangelo: ‘Ai poveri è annunciata la Buona Novella’ (Mt 11,5)”, così come sot-tolinea il contributo degli Istituti Missionari al prossimo IV Convengo EcclesialeNazionale di Verona “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”. Docu-mento che, recependo il grido dei poveri, ribadisce ancora una volta che “unaChiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concreta-mente dalla parte dei poveri, non è più la Chiesa delle Beatitudini, la Chiesache segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumengentium: «Come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nellapersecuzione, così la Chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via percomunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù “pur essendo di na-tura divina... spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6-7) eper noi “da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8,9): così la Chiesa, quantun-que abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fattaper cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempiol’umiltà e l’abnegazione». E ricorda ancora che «missione e nuova evangeliz-zazione passano, anche per la Chiesa italiana, attraverso la scelta preferenzia-le dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella so-cietà e, se cristiani, nella Chiesa». Nei campi missionari siamo tornati ancora una volta alla scuola dei poveri, sia-mo tornati a fare tesoro delle loro “esperienze di Vita”, nonostante… Nono-stante i segni evidenti della esportazione dei nostri modelli economici che fan-no breccia nell’organizzazione sociale dei Paesi ove operiamo, concentrandosempre più la ricchezza in poche mani e producendo nuove povertà e miserie,in particolare tra i giovani. Abbiamo assaporato il senso del nostro limite edell’insuccesso di fronte al dramma della tossicodipendenza, dell’esclusione

sociale, della denutrizione e dellaprostituzione e abbiamo capito chela mancanza di strumenti mirati eprofessionali ci indica nel lavorarein rete un futuro possibile, per an-dare oltre i soli campi di formazio-ne, se possibile. Ma abbiamo speri-mentato ancora che è bello riscopri-re o assaporare per la prima volta inquelle realtà – ferme per alcuni ver-si alle nostre campagne povere delsecondo dopoguerra del secoloscorso – il gusto delle relazioni vere,

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delle piccole cose e di quelle essen-ziali, così assenti dalla nostra quoti-dianità ricca e consumista, senz’a-nima; e vivere l’accoglienza, il sorri-so, la gioia di un canto o di unadanza improvvisati, che si fannopoesia, la domenica fatta dei vestititradizionali, il senso della festa. Ab-biamo visti in “nostri” bambini e ra-gazzi rumeni crescere nelle tre ca-se-famiglia del Quadrifoglio, il con-solidamento della collaborazionecol CAEF in Perù e l’acqua portataall’orfanado di Campina de Moche, nuove prospettive d’impegno nascere inBosnia a Bania Luka, dove i nostri volontari hanno rivissuto il valore di amici-zie profonde e durature, e a Cuba, dopo la recente missione esplorativa. Neicampi Lms cerchiamo di “andare” rispettando culture, religioni, stili di vita,facendo esperienza concreta di azione, condivisione, comunità. Tutto sostenu-to dalla preghiera, perché non sia solo attivismo o volontariato, pur lodevole. L’incarnazione di Dio in Gesù nella storia con l’Annuncio della Buona Notiziaai poveri dà la chiave di volta del nuovo mondo possibile “costruito” sul fon-damento del fare esperienza di Dio nella nostra vita. Amare, condividere, servi-re Cristo nei poveri è possibile se si è conosciuto Lui. Bisogna “camminare”, enon da soli, darsi da fare, non solo pronunciare parole. Andare a scuola deipoveri significa anche entrare in crisi positiva con la propria esistenza, fare re-visione di vita e modificarne gli stili, elaborare e attuare economie e politichedi giustizia rispettose anche del creato, abbattere muri e costruire ponti didialogo interreligioso e interculturale (con il Medio Oriente e il Libano, che ciproiettano nel cuore del convegno nazionale di Napoli di dicembre), amare lalotta per il Bene e condannare la guerra, senza enfasi integriste e contrapposi-zioni egoistiche, ma nella logica costituente e liberante delle Beatitudini, quel-la dei figli del Padre Nostro, dei costruttori di Pace e di Giustizia, come e conGesù, Servo di Jhavè (Is, 42). Per essere costruttori del suo Regno, già ora, conla coscienza che le nostre ricchezze e i nostri limiti, goccia d’acqua nel Calicedel Sangue dei crocifissi di questo tempo con Lui sulla Croce, partecipano econtribuiscono anche alla gioia della Resurrezione. L’inizio terribile del terzo millennio sembra soffocare questa speranza. I pove-ri ci aiutano a ritrovarla. Ecco perché mi affido alle parole di don Tonino Bel-lo (vedi rubrica Invito alla Parola), per interrogarci sul senso della nostra espe-rienza missionaria in questo anno saveriano e per continuare – nelle nostrecomunità e chiese locali – con l’azione, la preghiera e lo studio a vivere nellafraternità il nostro si a Cristo povero e umiliato e a testimoniarlo nelle opere.

Pasquale Salvio

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N on è vero che si nasce poveri.Si può nascere poeti, ma nonpoveri. Poveri si diventa. Come

si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopouna trafila di studi, cioè. Dopo lunghefatiche ed estenuanti esercizi. Questadella povertà, insomma, è una carriera.E per giunta tra le più complesse. Sup-pone un noviziato severo. Richiede untirocinio difficile. Tanto difficile, che ilSignore Gesù si è voluto riservare diret-tamente l’insegnamento di questa disci-plina. Nella seconda lettera che SanPaolo scrisse ai cittadini di Corinto, alcapitolo ottavo, c è un passaggio fortis-simo: «Il Signore nostro Gesù Cristo,da ricco che era, si è fatto povero pervoi». È un testo splendido. Ha la caden-za di un diploma di laurea, conseguitoa pieni voti, incorniciato con cura, e ge-losamente custodito dal titolare, che sel’è portato con sé in tutte le trasferte co-me il documento più significativo dellasua identità: «Le volpi hanno le loro ta-ne, gli uccelli il nido; ma il figlio del-l’uomo non ha dove posare il capo». Sel’è portato perfino nella trasferta supre-ma della croce, come la più inequivoca-

bile tessera di riconoscimento della suapersona, se è vera quella intuizione diDante che, parlando della povertà delMaestro, afferma: «Ella con Cristo salsesulla croce». Non c’è che dire: il Signo-re Gesù ha fatto una brillante carriera.E ce l’ha voluta insegnare. Perché la po-vertà si insegna e si apprende. Alla po-vertà ci si educa e ci si allena. E, a me-no che uno non sia un talento naturale,l’apprendimento di essa esige regoleprecise, tempi molto lunghi, e, comun-que, tappe ben delineate. Proviamo adelinearne sommariamente tre.

Povertà come annuncio A chi vuole imparare la povertà, la pri-ma cosa da insegnare è che la ricchezzaè cosa buona. I beni della terra non so-no maledetti. Tutt’altro. Neppure i soldisono maledetti. Continuare a chiamarlisterco del diavolo significa perpetuareequivoci manichei che non giovanomolto all’ascetica, visto che anche i san-ti, di questo sterco, non hanno disde-gnato di insozzarsi le tasche. I beni del-la terra non giacciono sotto il segno del-la condanna. Per ciascuno di essi, come

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INVITO ALLA PAROLA

Educazione alla povertà*

L’educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chilo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la primabeatitudine.

* Testo tratto dal sito di Pax Christi www.paxchristi.it

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per tutte le cose splendide che nei giornidella creazione uscivano dalle mani diDio, si può mettere l’epigrafe: «Ed ecco,era cosa molto buona». Se la ricchezzadella terra è buona, però, c’è una cosaancora più buona: la ricchezza del Re-gno, di cui la prima è solo un pallidissi-mo segno. Ecco il punto. Ci vorrà faticaa farlo capire agli apprendisti. Ma è ilnodo di tutto il problema. Farsi poveronon deve significare disprezzo della ric-chezza, ma dichiarazione solenne, fattacon i gesti del paradosso e perciò con larinuncia, che il Signore è la ricchezzasuprema. Un po’ come rinunciare a spo-sarsi in vista del Regno non significa di-sprezzare il matrimonio, ma annuncia-re che c’è un amore più grande di quelloche germoglia tra due creature. Anzi, di-chiarare che questo piccolo amore è sta-to scelto da Dio come segno di quell’al-tro più grande. Sicché, chi non si sposasembra dire ai coniugi: «Splendida lavostra esperienza. Ma non è tutto. Essaè solo un segno. Perché c’è un’esperien-za di amore ancora più forte, di cui voiattualmente state vivendo solo un lonta-nissimo frammento, e che un giorno sa-

remo tutti chiamati a vivere in pienez-za». Analogamente, farsi povero signifi-ca accendere una freccia stradale perindicare ai viandanti distratti la dimen-sione simbolica della ricchezza, e farprendere coscienza a tutti della realtàsignificata che sta oltre. Significa, in ul-tima analisi, divenire parabola viventedella ulteriorità. In questo senso, la po-vertà, prima che rinuncia, è un annun-cio. È annuncio del Regno che verrà.

Povertà come rinuncia È la dimensione che, a prima vista, sem-bra accomunare la povertà cristiana aquella praticata da alcuni filosofi o damolte correnti religiose. Rinunciare allaricchezza per essere più liberi. In realtà,però, c’è una sostanziale differenza tra larinuncia cristiana e quella che, per in-tenderci, possiamo chiamare rinuncia fi-losofica. Questa interpreta i beni dellaterra come zavorra. Come palla al piedeche frena la speditezza del passo. Comecatena che, obbligandoti agli schemi del-la sorveglianza e alle cure ansiose dellacustodia, ti impedisce di volare. È la po-vertà di Diogene, celebrata in una serieinfinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi edi autocompiacimenti, di disprezzo e disaccenteria, di disgusti raffinati e di ariemagisteriali. La botte è meglio di un pa-lazzo, e il regalo più grande che il repossa fare è quello che si tolga davantiperché non impedisca la luce del sole.La rinuncia cristiana ai beni della terra,invece, pur essendo fatta in vista della li-bertà, non solleva la stessa libertà a valo-re assoluto e a idolo supremo dinanzi acui cadere in ginocchio. Il cristiano ri-nuncia ai beni per essere più libero diservire. Non per essere più libero disghignazzare: che è la forma più alluci-nante di potere. Ecco allora che si intro-duce nel discorso l’importantissima ca-

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tegoria del servizio, che deve essere te-nuta presente da chi vuole educarsi allapovertà. Spogliarsi per lavare i piedi, co-me fece Gesù che, prima di quel sacra-mentale pediluvio fatto con le sue maniagli apostoli, «depose le vesti».Chi vuolservire deve rinunciare al guardaroba.Chi desidera stare con gli ultimi, per sol-lecitarli a camminare alla sequela di Cri-sto, deve necessariamente alleggerirsidei “tir” delle sue stupide suppellettili.Chi vuoL fare entrare Cristo nella suacasa, deve abbandonare l’albero, comeZaccheo, e compiere quelle conversioniverticali che si concludono inesorabil-mente con la spoliazione a favore deipoveri. È la gioia, quindi, che connota larinuncia cristiana: non il riso. La testi-monianza, non l’ostentazione. Come av-venne per Francesco, innamorato pazzodi madonna Povertà. Come avvenne peri suoi seguaci, che sì spogliarono nonper disprezzo, ma per seguire meglio ilmaestro e la sua sposa: «O ignota ric-chezza, o ben verace! Scalzasi Egidio,scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì lasposa piace! ».

Povertà come denuncia Di fronte alle ingiustizie del mondo, al-la iniqua distribuzione delle ricchezze,alla diabolica intronizzazione del pro-fitto sul gradino più alto della scala deivalori, il cristiano non può tacere. Co-me non può tacere dinanzi ai modulidello spreco, del consumismo, dell’ac-caparramento ingordo, della dilapida-zione delle risorse ambientali. Comenon può tacere di fronte a certe egemo-nie economiche che schiavizzano i po-poli, che riducono al lastrico intere na-zioni, che provocano la morte per famedi cinquanta milioni di persone all’an-no, mentre per la corsa alle armi, conincredibile oscenità, si impiegano capi-

tali da capogiro. Ebbene, quale voce diprotesta il cristiano può levare per de-nunciare queste piovre che il Papa, nel-la Sollicitudo rei socialis, ha avuto il co-raggio di chiamare strutture di pecca-to? Quella della povertà!Anzitutto, la povertà intesa come condi-visione della propria ricchezza. È un’e-ducazione che bisogna compiere, tor-nando anche ai paradossi degli antichiPadri della Chiesa: «Se hai due tunichenell’armadio, una appartiene ai poveri».Non ci si può permettere i paradigmidell’opulenza, mentre i teleschermi tirovinano la digestione, esibendoti sottogli occhi i misteri dolorosi di tanti fra-telli crocifissi. Le carte patinate delle ri-viste, che riproducono le icone viventidelle nuove tragedie del Calvario, si ri-volgeranno un giorno contro di noi co-me documenti di accusa, se non avremospartito con gli altri le nostre ricchezze.La condivisione dei propri beni assu-merà, così, il tono della solidarietà cor-ta. Ma c’è anche una solidarietà lungache bisogna esprimere. Ed ecco la po-vertà intesa come condivisione dellasofferenza altrui. È la vera profezia, chesi fa protesta, stimolo, proposta, proget-to. Mai strumento per la crescita delproprio prestigio, o turpe occasione perscalate rampanti. Povertà che si fa mar-tirio: tanto più credibile, quanto più si èdisposti a pagare di persona. Come hafatto Gesù Cristo, che non ha stipendia-to dei salvatori, ma si è fatto lui stessosalvezza e, per farci ricchi, sì è fatto po-vero fino al lastrico dell’annientamento.L’educazione alla povertà è un mestieredifficile: per chi lo insegna e per chi loimpara. Forse è proprio per questo cheil Maestro ha voluto riservare ai poveri,ai veri poveri, la prima beatitudine.

Don Tonino Bello

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S pesso in Medio Oriente la fine diuna guerra può accendere le spe-ranze di una pace, anche se molto

lontana. Così il conflitto in Libano traIsraele e Hezbollah potrebbe paradossal-mente costringere le parti ad incammi-narsi verso nuove vie di dialogo. Forsesolo sentieri sterrati, se in molti si accon-tentassero di rispolverare la road map.Un tentativo per cercare di tornare aconfrontarsi lo hanno fatto giovani lea-der israeliani e palestinesi a Biella e Tori-no durante un seminario riservato orga-nizzato dal Centro Italiano per la Pace inMedio Oriente e due organizzazioni me-diorientali: il Peres Center di Tel Aviv e ilPanorama Center di Ramallah.La delegazione israeliana, guidata daDavid Zucker (ex membro della Knes-set e tra i cinque fondatori di PeaceNow), comprendeva membri di Kadi-ma, Labor e Meretz; la parte palestine-se, con a capo Sam’an Khouri (direttoreGenerale del Peace & Democracy Fo-rum e firmatario dell’Iniziativa di Gine-vra), era composta da rappresentanti divarie Ong ed espressione di diverse ten-denze aderenti all’OLP. Il clima è stato sereno, anche se non so-no mancate discussioni animate su al-cune questioni come il rilascio dei pri-

gionieri e lo status di Gerusalemme. Al-cuni dei partecipanti già si conoscevanoper aver preso parte in passato ad ini-ziative di questo tipo in Italia, in Gior-dania o a Cipro. E così al loro arrivo al-l’aeroporto di Malpensa non sono man-cati abbracci e saluti affettuosi. Piùcomplessi invece gli incontri per i dibat-titi: ciascuna delle due parti comunica-va non solo una posizione, ma ancheuna realtà di cui la controparte, a di-spetto della vicinanza geografica e dellecronache dei giornali, sembrava render-si conto solo in questa occasione. Così ipalestinesi hanno avuto la concreta per-cezione del terremoto politico avvenutoin Israele con la nascita di Kadima at-traverso l’esperienza di alcuni colleghiche, conosciuti in occasione di passatiseminari organizzati dal CIPMO comeappartenenti del Labour o dello Shinuio ancora del Likud, si presentavano al-l’attuale incontro come esponenti delpartito centrista di Ehud Olmert. Gliisraeliani, dal canto loro, percepivanosul volto dei palestinesi l’embargo inter-nazionale all’Anp dopo la vittoria di Ha-mas alle elezioni legislative dai raccontidei delegati palestinesi.Il senso di responsabilità dei parteci-panti è il merito sottolineato dagli os-

PALESTINA

La pace in Medio Orientepassa anche per l’Italia

A Biella e Torino giovani leader israeliani e palestinesi hanno preso parte alseminario riservato organizzato dal CIPMO

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servatori. «Peccato che in Israele solo isettantenni possano intraprendere ilprocesso di pace con i palestinesi», haconfessato il delegato di Kadima (exLikud). «Sono sicuro che, rispetto agliattuali leader, i giovani raggiungerebbe-ro molto più rapidamente una soluzio-ne», ha detto un esponente di Al Fatah.I partecipanti hanno così confermato leconvinzioni che sostengono il progettodel Cipmo sui giovani: la rilevanza degliyoung leader all’interno delle reciprochesocietà, non solo perché ne detterrannola leadership nel futuro, ma anche perla loro capacità di comunicare con legiovani generazioni, interpretandoneumori e aspirazioni. In qualche modo i delegati hanno raccol-to l’appello dei due capi delegazione.«Ogni persona – ha detto Zucker - che hameno di 70 anni ha creato solo danni allasituazione politica. Ogni leader deve di-ventare vecchio prima di capire che esi-ste una visione più lineare e più semplicedella realtà, è una tendenza dimostratadal corso della storia. Cosa facciamo qui?– continua Zucker - Meeting come que-sto, dal ‘67, ce ne sono stati a centinaia,di paper ne sono stati scritti un’infinità.Ma c’è una cosa impor-tante che possiamo fareed è il motivo per cui sia-mo qui. Concentrarci sul-l’aspetto umano. Nonraggiungeremo nessunaccordo, in questi giorni,ma ci conosceremo comeuomini, come persone,percepiremo la sofferen-za dell’altro».Questo invece l’invito for-mulato da Khouri: «L’at-tuale leadership e quellefuture devono trovareuna soluzione che vada

bene per entrambi i popoli, che sia uni-versale. Il passato dobbiamo lasciarlo al-le spalle. Dodici anni fa abbiamo intravi-sto una luce nel nostro futuro, un’era incui si credeva che il dialogo fosse possi-bile e anche la condivisione di informa-zioni da un’area all’altra; tale convinzio-ne ora, dopo anni di occupazione, sem-bra affievolita. Il problema si è intensifi-cato quando i due popoli hanno smessodi vedere la controparte come esseriumani».Il seminario non si è concluso con lafirma di un accordo di pace. Ma questonon era l’obiettivo del progetto. Il risul-tato più alto, hanno detto i partecipantiin cerchio l’ultima sera prima di parti-re, è di essere diventati amici. E sicco-me c’è ancora tanto da lavorare, i gio-vani israeliani e palestinesi si sono im-pegnati a portare avanti il lavoro insie-me in Medio Oriente, in Italia e ancheattraverso la realizzazione di un forumdi discussione sul Web.

Maurizio Debanne*

* Caporedattore di www.cipmo.org, sito delCentro Italiano per la Pace in Medio Oriente.

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Ljubija è un paesino che, a guardarlodall’alto di una cartina geografica,sembra molto più vicino di quanto nonlo sia realmente. Ho tracciato un cer-chio su una di queste cartine, puntan-do un compasso su casa mia ed apren-dolo fino a Ljubija: ne sono rimastefuori città come Cagliari, Genova, Bo-logna, Firenze. A guardarla invece dal-l’alto delle colline che la circondano,Ljubija è un posto incantevole: le suecase occupano in senso longitudinaleuna valle stretta tra due montagnoleverdissime. Dalla collina della chiesa cattolica, l’u-nica del paese, quasi non si riescono acogliere i segni della sua decadenza,come la rovina degli edifici, lo squallo-re della stazione degli autobus, il fanta-sma della miniera abbandonata che fi-no a qualche anno fa dava lavoro all’in-tero paese, la piscina svuotata e sudiciaall’interno della quale un tubo nero digomma getta in maniera grottesca ap-pena un filo d’acqua, l’ospedale dalquale è stato rubato tutto ciò che si po-teva rubare, financo le porte e i sanita-ri delle toilette, e dove le sale del pron-to soccorso sono state riconvertite daqualche paesano con pochi scrupoli installe abusive per i maiali.Eppure entrandovi all’interno, nono-stante i segni di questa decadenza di-ventino chiari e visibili, è come se labellezza naturale del posto ne abbia il

sopravvento, e l’occhio finisce per ca-dere sugli alberi verdi e altissimi cheornano i suoi viali piuttosto che sullesue palazzine cadenti. Questa sensa-zione di serenità sembra trasmettersianche alla gente che vi abita, e che al-meno nelle sere d’estate affolla le stra-de di bellissime ragazze, delicate nelportamento ed eleganti nella sempli-cità dei vestitini che indossano, cosìdiverse dalle loro pari età di Prijedor,che invece sfoggiano trucchi pesanti,microgonne trasparenti e scollature davelina.Sì, Prijedor, di cui Ljubija è una frazio-ne, sembra molto più distante della de-cina di chilometri che separa i due cen-tri, forse perché questa distanza si tra-duce in 5 marchi di autobus, un prezzoaltissimo per i paesani; rispetto all’an-no scorso il prezzo della benzina è au-mentato di tanto livellandosi a quellodel resto dell’Europa, gli spostamenti(e non parliamo poi delle automobili)sono diventati un lusso per pochi. Già,a Prijedor le cose vanno decisamentemeglio, la gente comincia a guadagna-re di più e a spendere di più, ce ne ac-corgiamo anche dal conto di PapaJoe’s, un ristorantino ricavato nelle saleeleganti di una costruzione in stile au-stroungarico e che fino all’anno scorsopoteva anche essere considerato econo-mico.Ma a Ljubija chi lavora è parte di una

VITA LEGA

BOSNIA

Ljubija, così vicina eppure così lontana

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esigua minoranza, il benessere dellecittà vicine e il conseguente innalzarsidei prezzi finisce paradossalmente perallungare la lista dei problemi. L’ammi-nistrazione di Prijedor sembra aver de-liberatamente deciso che non valga lapena sforzarsi per riportarvi benessere;forse Ljubija è ritenuta troppo fuorimano, forse la sua esistenza è ritenutagiustificata soltanto dalla presenza del-la miniera chiusa dai tempi della guer-ra, forse ci si aspetta che uno dopo l’al-tro tutti gli abitanti decidano di abban-donarla per spostarsi altrove. Josip hapiù di una volta affermato che l’unicacosa che proprio non manca in Bosniaè l’acqua; a Ljubija, che è circondatada fiumiciattoli, l’acqua scorre dai ru-binetti a partire dalle 5 del mattino e

per un paio d’ore al massimo. Lo stessoJosip, che quest’anno è venuto a Lju-bija per la prima volta, mi ha confessa-to che non immaginava di trovare tan-ta povertà in un posto così vicino aBanja Luka.Le attività svolte durante il campo dilavoro a Ljubija sono state principal-mente due: la oramai consueta anima-zione con i bambini del centro Omla-dinski, del quale è responsabile una ra-gazza di nome Sanela, e i lavori ma-nuali nelle case, che ci sono stati pro-posti dalla operatrice sociale Giulia.Le due attività, pur nella loro diversità,non sono tanto scorrelate l’una dall’al-tra; osservare una casa dall’internopermette di conoscere un po’ più dal-l’interno anche le persone che vi abita-

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Ljubija, vista dall’alto.

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no e questo aiuta senz’altro a relazio-narsi meglio con i bambini del centro;d’altra parte, lo stare a contatto con ibambini permette di essere menoestranei agli ambienti entro i quali citroviamo ad eseguire le attività manua-li. Personalmente ritengo sia stato utileche, al di là delle attitudini e delle pre-ferenze personali, tutti i partecipanti alcampo abbiano avuto l’occasione disperimentare entrambe le attività. Penso anche che quest’anno sia andatotutto sommato bene. Sono stati in tantii bambini ad affollare il centro duranteil nostro soggiorno e, al di là dei lavoriprogrammati all’inizio del campo susuggerimento di Sanela, come l’orga-nizzazione della “classica” caccia al te-soro o la costruzione di un teatrinomobile (pupazzi di stoffa e cartapestacompresi), è stato bello anche realizza-re le idee estemporanee che nascevanospesso proprio dai bambini. Comequando abbiamo organizzato un tor-

neo di calcetto dopoaver scoperto consorpresa che tantebambine preferisco-no il calcio alle bam-bole; il torneo le hafatte forse divertirepiù degli stessi ma-schietti. Oppure co-me quando le diffi-coltà incontrate nelfar entrare nel combiun tavolo da pingpong preso in presti-to a Presnace ci hasuggerito l’idea di la-sciare il tavolo dovesi trovava e di co-struirne uno nuovodirettamente a Lju-bija; le misure non

sono proprio quelle regolamentari eforse la pallina schizza in maniera unpo’ strana sulla superfice, ma rimane lasoddisfazione di aver trasformato convernice e pennello una tavola compratada un falegname nel tavolo da pingpong che vedete nella foto. La stessafoto testimonia come ci si sia dovutiarrangiare anche nella scelta della ma-drina che ha presenziato la cerimoniadi inaugurazione del tavolo: ci siamoconsolati pensando che rispetto a tantealtre madrine siliconate, la nostra eraalmeno molto più dotata.Anche i lavori manuali sono andati ab-bastanza bene; si lavorava spuntandouna lista di interventi proposti da Giu-lia; a dire la verità, prima di deciderese cominciare o meno un intervento,abbiamo sempre valutato sul posto sene valesse la pena o se fosse il caso dipassare all’intervento successivo. Puòessere che Giulia abbia stilato la listasu suggerimento di altre persone senza

La presentazione del nuovo tavolo da ping pong al centro giovanileOmladinski.

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conoscere direttamente le varie situa-zioni, ma sta di fatto che alcune delleabitazioni inserite nella lista non ne-cessitavano affatto di interventi; d’altraparte, per questo tipo di attività è ne-cessario avere un referente locale chesuggerisca in quale casa lavorare. Gra-zie anche all’aiuto generoso dei ragazzidel gruppo di Presnace, che sono venu-ti ben due volte numerosi a Ljubija (eche per due volte si sono dovuti sorbireun’ora di viaggio al ritorno nella stan-chezza e nella polvere dei loro abiti dilavoro), siamo riusciti a chiudere unbel po’ di interventi.Entrare nelle case dà la possibilità diosservare tante piccole cose, come ilfatto che si debba fronteggiare ineso-rabilmente ogni giorno la mancanza

dell’acqua dai rubinetti, o come il fat-to che tutte le cucine funzionino acorrente elettrica e non a gas, comedel resto si poteva intuire a pensarciun po’ sopra. Sembra quest’ultimo sol-tanto un particolare insignificante,ma non lo è pensando che, se l’eroga-zione della corrente subisce continueinterruzioni, capita anche molto spes-so di cominciare a cucinare e non es-sere in grado di terminare (tra l’altrosenza corrente non funzionano nean-che i telefoni cellulari, la rete mobilenon prevede l’uso di batterie di emer-genza).Ma ancora più interessante è osservarei meccanismi di reciproco aiuto tra vi-cini di casa, dove la proprietà di cia-scun bene è un fatto noto a tutti, e si

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Il teatrino costruito al centro giovanile Omladinski di Ljubija.

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ha sempre il diritto di chiedere in pre-stito qualsiasi cosa, a patto di restituir-la in tempo. E perché no, è utile cono-scere anche gli aspetti negativi dellepersone, come la cattiveria usata daMira, occupante (non si può dire pa-drona) di una delle case in cui abbia-mo lavorato, nel dirci che Mico, che laprecedeva nella lista degli interventi,aveva cambiato idea e non voleva piùche lavorassimo a casa sua; ovviamen-te nessuno le ha creduto ma Mico daparte sua non si è fatto trovare a casanel giorno concordato, perché avevaun appuntamento galante a Prijedor; ealla fine Mira ha avuto comunque laprecedenza che sperava di ottenerecon una bugia. Quando Sanela ha sa-puto che eravamo andati a lavorare acasa di Mira e a casa di Mico, ci hadetto ironicamente che non avremmopotuto scegliere di meglio a Ljubija;d’altra parte le buone azioni si fannosempre e soltanto a fronte di una ne-cessità, senza mai condizionarle al giu-dizio sulla personalità del beneficiario:è fintroppo comodo fare del bene sol-tanto a persone simpatiche e buoned’animo.L’impressione conclusiva di questa miaseconda esperienza in un campo di la-voro in Bosnia è stata decisamente po-sitiva. Sono felice di aver avuto la pos-sibilità di conoscere questi luoghi, checominciano oramai a diventarmi fami-liari, come le persone che vi abitano econ le quali ci troviamo a lavorare, e –perché no? – come le facce delle altrepersone semplicemente incontrate perle strade del paese. Sono anche felicedi avere avuto la possibilità di lavoraree condividere spazi, riflessioni, pre-

ghiere con delle persone davvero spe-ciali. Rispetto all’anno scorso le perso-ne del gruppo di Ljubija sono cambiatetutte, ma ho ritrovato con tutti qualco-sa in comune, e questo qualcosa è diffi-cilmente definibile, ma sicuramentebello.Come l’anno scorso, penso che ci siaancora molto da fare a Ljubija, tantesono state le idee che non hanno trova-to il tempo o l’occasione di essere rea-lizzate durante le due settimane delcampo, settimane volate via in un bat-ter d’occhio. Sanela, tra tutte le preoc-cupazioni legate alla sua difficile situa-zione familiare, teme per i finanzia-menti della Caritas al centro Omladin-ski, che a detta sua dovrebbero termi-nare a dicembre (quando ne abbiamoparlato non era giunta ancora la noti-zia di un loro rinnovo). Continuare avenire a Ljubija non sarà certo deter-minante per le sorti future del centrogiovanile e ancor meno del paese: quel-lo che riusciamo a fare in un periodotanto breve è forse la milionesima par-te di quello che servirebbe, ma mi pia-ce pensare che, finquando qualcunonoterà per le strade di Ljubija il solitogruppi di “Taliani”, osservando di con-seguenza “si vede che è venuto agosto”,dopo un po’ si metterà a pensare:“Però, tutto sommato il posto in cuiabito è proprio bello, sono felice diquesto”. Tutto questo nell’attesa chevenga finalmente l’estate nella qualeLjubija non sia più la sede di un campodi lavoro, ma un posto di villeggiaturapieno di amici con cui passare qualchegiorno di vacanza.

Fabio Amato

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La dolce fatica di esser sentinelle del mattino

O gni istante a Ljubija è un nuovo capitolo che si apre allo scenario del cuore edella mente.

Tutto confluisce a formare l’immagine di una realtà complessa, spesso sfuggente,nella quale si fa fatica a capire qual è il giusto mezzo, l’esatta modalità di agire einteragire e, soprattutto, quale volto della nostra presenza vogliamo lasciare inchi ci osserva.La scelta per il primo anno di condividere l’esperienza fatta è il frutto di un ascoltoattento alla realtà vissuta, la fatica e la sofferenza di aver custodito nel cuore, permolto tempo, la sensazione di incompiuto, di tempo “sprecato” a fare animazione,con qualche sporadica attività manuale nelle case. Le difficoltà incontrate all’inter-no del gruppo, inoltre, hanno creato in chi scrive la sensazione che forse il tempotrascorso in Bosnia fosse carente di qualche cosa.Allo scetticismo personale si aggiungeva quello di chi mostrava forti dubbi, soprat-tutto nei confronti di una realtà – Ljubija – che non vive al “caldo” e rassicurante ri-paro di una solida comunità cattolica. Ho ascoltato tante parole, tante domande, hocolto in esse la sfiducia e qualche volta il disinteresse, nato non da una mancanzadi sensibilità, quanto dalla non piena conoscenza delle umane vicende che toccanoun luogo, un intero paese.Per scelta ho accolto il silenzio, ho lasciato che si posasse su tutto, che mettesse or-dine, o creasse un nuovo caos, un qualche cosa, insomma, capace di dare un voltoalla sofferenza taciuta, alla sfiducia personale e a quella ereditata da altri.In quel silenzio, una intera estate senza Ljubija, si è rivelata alla mente una dimen-sione nuova, confermata e consolidata nei quindici giorni di agosto oramai tra-scorsi.

Come per incanto si èdisvelato, in tutte lesituazioni vissute,dall’animazione al la-voro nelle case, il vol-to buono dell’esserepresenti, e al contem-po i tanti risvolti ne-gativi in termini dipercezione della no-stra presenza sul ter-ritorio.Perché ciò che più sirende complesso ètrovare il giusto passonell’incedere, la cor-retta velocità di mar-cia, che sia rispettosa

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del luogo che ci accoglie, ma soprattutto che sappia reggere e sostenere le piccoledelusioni, le amarezze.Entrando nelle case nulla sfugge, non il tentativo di avere ridipinta la casa, nono-stante le condizioni di chi ci vive siano buone; non l’atteggiamento di chi confondeil senso della nostra presenza e del nostro agire. Ed ancora, dinanzi a persone che ti fermano per strada chiedendoti spiegazioni inmerito al bidone di pittura lasciato ad alcuni anziché ad altri, e che nulla sanno néintendono sapere del perchè le scelte siano state fatte in un precisa direzione, di-nanzi ad atteggiamenti passivi o tesi a volersi approfittare della situazione, un ince-dere pacato e riflessivo, una costante autocritica, personale e all’interno del gruppo,rende il vissuto non sempre dissimile da ciò che si vive nel nostro paese ogni gior-no, ma soprattutto apre le porte ad una vera contestualizzazione dei fatti, deglieventi, alla storia di un Paese, al suo malessere.Oggi so che quell’apparente staticità operativa, quell’insieme di attività portateavanti nel tempo, hanno creato le basi di una nuova coscienza personale, e speroanche associativa, e soprattutto hanno reso testimonianza dell’importante ruoloche le relazioni umane, costruite negli anni, e con non pochi ostacoli, rivestono inqualsiasi attività.A distanza di sei anni, infatti, dal primo “sbarco” su Ljubija, l’invito nella nuova ca-sa di Sanela, il suo raccontarsi nella quotidianità problematica – come il confessareche la scelta di posticipare il dentista non nasceva dalla paura, bensì dalla mancan-za di soldi – ha restituito il senso profondo dell’essere nuove sentinelle del mattino,capaci di tessere nel dialogo e nell’ascolto, un modo autentico di essere cristiano

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pur senza il plauso di una comunità cristiana accogliente e rassicurante. Nella do-menica trascorsa ad ascoltare messa a Ljubija, l’essere figli di Dio e fratelli, uominidi speranza, ha reso possibile accettare, anche se con sofferenza spirituale, di essereignorati dal pastore di anime che celebrava messa.In quelle circostanze, come in altre che Olinda e Fabio hanno condiviso con me inquel fine settimana, accetti anche di essere invisibile. Di non essere cercato, accol-to, abbracciato; si resta in disparte, felici, però, di aver condiviso, in tante svariatesituazioni, l’amore di Cristo per i suoi figli.L’Amore supera l’amore, recita M. Quoist, e supera le nostre divisioni, i nazionalismi,i tentativi di rivendicare un credo religioso più forte di un altro. L’Amore che tuttosopporta, e che sa rinunciare, crocifisso, ad essere potente ai nostri occhi scettici, esi fa ultimo, deriso e schernito, è l’amore che impariamo a testimoniare ovunque.Di quell’Amore che sa farsi piccolo per entrare nei nostri cuori, noi siamo eredi ecoeredi, e in una “successione universale” di speranza e di amore ne siamo il voltosemplice, e un po’ imperfetto, con le parole, con i gesti e con il silenzio.Ljubija è il segno forte e visibile di tutto questo, e delle parole che qui riposano se-rene, riemerse da un lungo sonno e oggi cariche di speranza per un dialogo che toc-ca tutti i fratelli in un unico sincero abbraccio. Forse è proprio questo dialogo che ci viene chiesto di portare avanti, in una terrache non sa ancora dialogare ed entrare in relazione con tutte le comunità presentisul territorio. Forse è questo il significato autentico della nostra cristianità in unaterra bella e sofferente come la Bosnia.

Paola Romanelli

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D opo anni con tante estati passatein Bosnia nei campi della LMS,

un’altra estate ancora e poi un nuovoritorno a casa a fare i conti con ciò cheè stato, a raccogliere e fissare nella me-moria storie, persone, ricordi. Dopo an-ni ancora le solite domande nella testanei mesi precedenti la partenza; dubbiche ci ricorrono dentro e imbarazzo nelriuscire a trovare una risposta da dare,a noi stessi soprattutto, ma anche a chiparla con noi, vuole capire ed è tentatodal farsi coinvolgere. Cosa andremo afare in Bosnia e cosa abbiamo fatto inquesti anni? Dare una risposta non èsemplice. È semplice invece cadere indiscorsi banali e soddisfare in modosommario le curiosità altrui, ma con leparole spesso non si è in grado di ren-dere tutto il senso, la forza e l’impor-tanza dell’esperienza che viviamo. Eanche io non riuscirò a fare diversa-mente nelle righe seguenti.In tutti questi anni siamo stati manovaliper elevare muri di case e chiese, im-bianchini, abbiamo scavato fondamen-ta, portato gioco e compagnia per lagioia dei bambini, riparato tetti e solai,ma soprattutto costruito legami umanicon le persone e così, stringendo manidi ogni colore e fede religiosa, abbiamocercato di essere in quei luoghi buoniamici di tanti nostri fratelli. Un’esperien-za semplice, ma unica e fondamentale.Quest’anno, prima di partire, più dubbie difficoltà del solito: sono venuti amancare alcuni punti di riferimento, lenostre referenze si sono indebolite, ipartecipanti erano pochi. La Bosnia è“passata di moda” (nei giornali, nei ri-cordi delle persone, nella politica), can-cellata nella memoria dai media che

“consumano” le tragedie nel giro di po-che ore, dalla realtà di altre numerosenuove guerre, il cui susseguirsi incal-zante le rende ormai parte della norma-le quotidianità, in una società che viveimmersa in paure e bisogni artificiali.Nonostante questo, abbiamo provatoanche stavolta a rivolgere l’invito aviaggiare con noi per portare anche apersone e culture lontane la solidarietàe l’amicizia gratuita e sincera che si ri-serva a dei fratelli. Non sapevamo sesaremmo stati una volta di più in gradodi fare un buon lavoro, nè se sarebbestata un’esperienza formativa nello “sti-le” della LMS, ma più forti di questidubbi erano il desiderio di tornare e ri-vedere luoghi e persone, e rivivere an-cora una volta quelle emozioni; l’espe-rienza ci ha insegnato che l’importanteè avere voglia di partire e partire, poispesso le cose vengono da sè.Nei nostri campi la provvidenza si in-contra con il desiderio di conoscenza,curiosità, apertura verso il prossimo deipartecipanti: con questi elementi fonda-mentali, ogni anno riusciamo a formareun gruppo di persone motivate, ricetta(magica?) sostanziosa che sconfigge ladiffidenza, la paura e amplifica l’entusia-smo e le emozioni. Se ripenso all’estateappena passata, posso però dire che avolte le ricette riescono un po’ meno be-ne. Quest’anno a Presnace e nella suachiesa ha regnato una sconfortante de-solazione: il parroco non c’è più ed è so-stituito da un altro prete che svolge nu-merose mansioni e si reca nella parroc-chia solo per le messe festive; l’asilo èchiuso per la mancanza di famiglie ebambini da mandarvi. Terminati tutti ilavori di costruzione, regnavano un si-

Bosnia 2006, da Presnace un bilancio in chiaroscuro

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lenzio e una calma irreali per chi nelpassato aveva visto ogni giorno muover-si intorno a quel luogo una piccola co-munità indaffarata: la chiesa di SantaTeresa, ricostruita con il lavoro freneticodi tanti uomini (e con il nostro piccolocontributo), che voleva (e vorrebbe) es-sere il fulcro di una comunità di personeche rivendica il diritto ad esistere e vive-re in pace nel proprio territorio, control’odio e la barbarie di chi li aveva schiac-ciati con la violenza, è lì, cattedrale neldeserto delle coscienze, a testimoniareche la guerra continua e il denaro è nul-la contro il dolore del ricordo e le feriteancora aperte. Insieme a queste, per noialtre difficoltà che hanno reso tutto me-no scontato: chi ci aveva domandato ditornare (la Caritas di Banja Luka e i rap-presentanti della curia vescovile) non ciha rinnovato le richieste, nè ci ha propo-sto alcun tipo di servizio alternativo oattività utile alla comunità; è mancatoun gesuita ad accompagnarci e ciò hareso più rari (e per me meno “intensi”) imomenti di condivisione e riflessioneper il gruppo (il problema dell’assenzadella spiritualità igna-ziana è da affrontareseriamente per glieventuali futuri viaggidel “Progetto Bo-snia”). Ma aldilà ditutto questo, la cosache personalmente ri-cordo con più ama-rezza è stata l’assenzadi alcun contatto conla comunità di Pre-snace: in due settima-ne siamo riusciti soloin sporadiche occasio-ni a intrattenerci conle persone e per il re-sto è sembrato che la

nostra presenza sia passata del tuttoinosservata. Il nostro lavoro è fatto dipiccole cose e proprio per questo i luo-ghi dove lo svolgiamo e le persone concui e per cui lo facciamo, sono esse stes-se il senso del nostro operare; consape-voli della limitatezza dei nostri mezzi, ilnostro lavoro non consiste sempre soloin un semplice intervento materiale, maè l’occasione per avvicinare le personeed entrare in confidenza con loro: parla-re e ascoltare, un po’ di attenzione econsiderazione sono doni importanti epreziosi per chi vive nelle difficoltà.Come sempre facciamo, anche l’organiz-zazione del campo 2006 ha richiesto im-pegno ed è stata effettuata con attenzio-ne: durante l’anno ci siamo più volte in-contrati di persona e sentiti per telefonocon i nostri referenti a Banja Luka; sonostati mobilitati mezzi economici e perso-ne. Ci piace portare il nostro aiuto dovedavvero la nostra presenza è gradita enecessaria, perchè vogliamo partecipareattivamente alla vita dei luoghi in cuisiamo ospiti. Non è necessario fare tantastrada e venire fino in Bosnia se davvero

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si è animati da spirito di carità: il disa-gio e la povertà abitano anche nelle no-stre città e si tratta solo di avere il corag-gio di vedere e organizzarsi per agire.Ma è anche vero che chi decide di parti-re con noi, constata che non si tratta diuna vacanza alla ricerca di avventure daraccontare agli amici, ma di un’esperien-za di vita che mira a scuotere la coscien-za nel profondo. La Bosnia non è pernoi un gioco con il quale gratifichiamo ilnostro ego; la nostra storia parla diun’associazione impegnata sul campo indiverse parti del mondo, per i più poveri,

ma soprattutto insieme aipiù poveri e le cose fattein Bosnia e altri luoghi“difficili”, i segni lasciatiche durano negli anni, cifanno da presentazioneovunque andiamo, conun impegno che si rinno-va continuamente e sem-pre più profondo. Sequalcuno invece avessepensato ad un gioco, allo-ra possiamo dire che que-st’anno ci hanno lasciatoa giocare da soli e cheun’estate passata in que-sto modo è un’occasionepersa, per noi e per loro. In mezzo a queste po-chezze che ingrigisconoun po’ i miei ricordi, vo-glio concludere parlandodegli amici sinceri cheanche quest’estate ab-biamo reincontrato egrazie ai quali tuttoquello che abbiamo fattoe faremo avrà sempre unsenso bellissimo: Josip“Giuseppe”, il mio chi-tarrista preferito; Hairo

e la sua famiglia musulmana a Saraje-vo; Don Luka, motore instancabile diiniziative e idee. A questi amici e aicompagni di viaggio vecchi e nuovi, cuipenso ogni volta che guardo le foto cheamo di più, con cui magari non mi ri-vedo quasi mai, a quelli che stanno be-ne e soprattutto a quelli che attraversa-no un periodo difficile, a tutti loro de-dico l’ultimo pensiero di questa pagina:grazie di tutto, in bocca al lupo e arri-vederci a presto.

Cristiano Basso

Presnace, parrocchia di Santa Teresina di Lisieux.

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I colori sbiaditi dei palazzi dallemura un tempo sgargianti1 fannoda cornice alle chevrolet che im-

pazzano a La Habana, splendida capi-tale cubana, simbolo dell’isola caraibi-ca che negli ultimi cinquantanni ha sa-puto essere un esempio unico al mondodi antitesi all’imperialismo, statuniten-se in primis, non mancando tuttavia diconservare al suo interno una lunga se-rie di forti contraddizioni.I soldati cubani controllano ogni metrodi L’Habana, giorno e notte, dal male-con al capitolio passando da L’Habanavieja e per la bodeguita del medio2, distrada subito dopo aver passato la plazade la catedral3 ove sorge la cattedrale,fondata dai gesuiti e splendida nellasua pianta quadrata, dalla decentrataplaza de la revolucion con il volto del

Che su quello che era il ministero da luicondotto e il memoriale di Josè Martì4,fino al vedado ove sorgono, a poca di-stanza uno dall’altro, l’hotel nacional el’hotel Habana Libre5.Il primo Gennaio 1959 Fidel Castro pro-nunciava da Santiago de Cuba un solen-ne discorso, in cui proclamava la vitto-ria dei ribelli da lui guidati su FulgencioBatista6 e l’avvio di una nuova era, chesarebbe stata caratterizzata da un co-munismo di massa che avrebbe dovutooffrire gratuitamente ai cittadini tuttociò di cui la gente aveva bisogno: istru-zione, cibo e assistenza medica.Non si può dire che a Cuba manchinoquesti beni primari: l’istruzione, fino al-l’università è a carico dello stato e negliultimi 40 anni è notevolmente cresciutoil numero di laureati; i medici che lavo-

rano nelle struttureospedaliere sono tra imigliori in circolazio-ne e sono oggetto dinumerose proposte dilavoro7 da paesi stra-nieri; il cibo, pur inquantità minime einadeguate, viene for-nito in dosi personaliai residenti dotati dilibreta8.Uno degli aspetti peg-giori dell’economiacubana è rappresen-tato dalla doppia mo-neta: mentre la popo-lazione locale è retri-

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CUBA

Ritorno a Cuba: la Lms tra impedimenti e speranze

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buita e paga nei normali esercizi com-merciali in pesos cubani, gli stranieri(oltre che la stessa popolazione localeper determinati generi di consumo, co-me la birra e il sapone) pagano in pesosconvertibili, meglio noti come CUC, chehanno di fatto surclassato il dollaro,onnipresente e richiestissimo in passa-to e oggi non più accettato, sia nell’uti-lizzo che nella quotazione di cambioche ottiene.9

La polizia imperversa, come detto, sullestrade cubane, concentrandosi princi-palmente nella capitale e nelle spiaggeaffollate di turisti.10

Rispetto all’era di Batista, in cui dilaga-va una prostituzione diffusa, integratain un meccanismo di riciclaggio di de-naro sporco e traffici illeciti, oggi la si-tuazione, pur non essendo ancora de-bellata a causa anche di tanti connazio-nali che offrono tutto il peggio di sè in“vacanze” a sfondo sessuale, la situazio-ne sembra migliorata.Nelle spiagge, così come in città, è pre-sente un militare ogni poche decine di

metri, solerte nel richiedere i documen-ti a ogni ragazza o donna che si trovi inpresenza di uno straniero; tale control-lo formale, se da una parte disincentivaapprocci manifestamente disinibiti,dall’altra circoscrive il fenomeno allecasas particulares, ove è possibile affit-tare una stanza in altre case, rispettoagli hotel ove vige un divieto di condur-re ragazze da fuori.L’allegria della gente è unica, totale, con-tagiosa e dirompente, esempio di inte-grazione totale e riuscita tra popoli e raz-ze profondamente diverse che hanno bensaputo integrarsi, da sempre. La chiesacattolica sta poco alla volta riprendendopotere, pur limitata e controllata dal par-tito comunista, che sembra offrire spira-gli di apertura e sprazzi di libertà pursotto la sua ala accentratrice.Venendo all’obiettivo della ricognizionea Cuba da parte del nostro gruppo inrappresentanza della Lega MissionariaStudenti, bisogna fare un passo indie-tro: allo scoppio furente della guerra ci-vile11 in Sri Lanka, ove la LMS dall’esta-te del 2005 presta servizio nell’ambitodi un piano triennale di aiuto gestitodal MAGIS con il supporto sul luogodei gesuiti, anche italiani, dell’isola.Essendo dunque venuta meno la possi-bilità di realizzare il campo estivo, ana-logamente a quanto era successo l’esta-te precedente, avevo profilato a Massi-mo Nevola la possibilità di sentire unsacerdote genovese che da sette mesiera stato trasferito a Cuba, in un villag-gio, Santo Domingo,vicino a S. Clara.La nostra ricognizione ci ha portato a vi-sitare le città di Cienfuegos, Trinidad,Santa Clara, Matanzas, Cardenas e Vara-dero, arrivando e rientrando all’Habana.Il villaggio di Santo Domingo, ove pre-sta servizio don Marino, pur avendolovistitato solo tre giorni in compagnia,

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fra gli altri, di Luigino, è quello chemaggiormente mi ha impressionato perl’arretratezza diffusa: dalle case fati-scenti alla povertà di risorse, al numeroelevato di bambini, presso i quali i ra-gazzi della parrocchia di don Marinosvolgono opera di evangelizzazione, alcontesto di case, strade e colori in tinteopache, decisamente più sbiadite rispet-to ai colori dominanti nella capitale, chericordano la prima Sighetu Marmatieivista nel 1998, un tuffo al cuore…La situazione di un possibile interventoda parte dei volontari della LMS non èfacile: a don Marino, così come a (qua-si) tutti non è infatti consentito aprireun conto corrente a proprio nome, cosìda poter raccogliere donazioni e fondi;inoltre anche altri generi di aiuto devo-no prima essere dichiarati anche ai su-periori del centro missioni di Genova.A questo punto abbiamo avuto altricontatti, il più convincente dei qualisembra essere nella città di Cardenas,città del gesuita Juanito, ove già Massi-mo a nome della LMS aveva fatto unaconsistente donazione nel corso dellasua ultima visita all’ospedale, dove la-vora la zia di Juan e in cui sembranopotersi soddisfare le prerogative neces-sarie all’apertura, eventuale, di un nuo-vo fronte. Vedremo.

Prego affinché la provvidenza divina,quella delle tre case in Romania, grazie al-la quale esistiamo, illumini i nostri passi,le nostre scelte e le nostre vite. Sempre.

Luca Capurro

NOTE

1 Un esempio su tutti è quello costituito dalla città diTrinidad, splendido borgo spagnolo conservato nel suosplendore di case dai colori sgargianti e patrimonio tu-telato dall’UNESCO.2 Storico locale, ormai prettamente turistico, ove era dicasa Ernest Hemingway, cui si attribuisce il merito di

aver creato il leggendario mojito.3 Che forma insieme a plaza s. Francesc d’Assis, plaza dearmas, e plaza vieja il quadrilatero di piazze da cui ini-ziò l’espansione dell’antica città. 4 È il primo dei riferimenti nazionali, pur straniero poi-ché di genitori spagnoli, analogamente a Maximo Go-mez ed Ernesto Guevara de la Serna. Jose Martì, di pro-fessione avvocato, incarna nei suoi scritti, nel suo pen-siero e nelle sue gesta il patriottismo nazionale cubano.5 Uno dei simboli della città in quanto in precedenzahotel della catena alberghiera Hilton e confiscato dal re-gime castrista.6 Batista, coadiuvato dagli USA, governò a Cuba fino al-la fine del 1958. Il periodo del suo governo fu caratteriz-zato dalla corruzione, il contrabbando, il gioco d’azzar-do e una prostituzione dilagante. Sottovalutò inizial-mente l’offensiva dei barbudos, i ribelli guidati da Ca-stro, dopo che questi fallirono pochi anni prima l’assal-to alla caserma Moncada. In tale occasione la maggiorparte di essi perse la vita; lo stesso Castro, processato,pronunciò in sua difesa il celebre sermone: «La storiami assolverà», in cui legittimava quanto da lui compiu-to. Riuscì infine a scappare in Messico, dove conobbeErnesto Guevara de la Serna. Da qui organizzò la spedi-zione sul mitico Granma, piccola imbarcazione, allavolta di Cuba.7 Per evitare la crescente emigrazione di medici cubani,formati completamente a spese dello stato, il governocubano ha disposto una legge secondo la quale un me-dico che termina gli studi non può emigrare prima diaver compiuto un minimo di 5 anni di servizio in strut-ture cubane.8 Analogamente a quanto accadeva in Russia prima del-la perestrojka o da noi in tempo di guerra, nella libretavengono scritti e scalati i quantitativi di generi alimen-tari che periodicamente spettano ai cittadini cubani: ledosi sono insufficienti al sostentamento.9 Per avere un’idea: 1 euro corrisponde a 24 pesos cuba-ni; il CUC vale poco meno dell’euro, circa 0,80. Il CUC,che vale più del dollaro, è secondo solo a poche monete,come la sterlina e l’euro e rappresenta una delle tantecontraddizioni nella vita cubana quotidiana.10 I turisti rappresentano oggi una risorsa indispensabileal mantenimento del Paese e ciò fa sì che i controlli deimilitari sulle ragazze locali, atti a ridurre la prostituzio-ne, non siano di solito previsti per “gli accompagnato-ri”, mentre vengono chieste le generalità alle ragazze.11 Un chiaro esempio di come le tensioni tra tamil e cin-galesi non si fossero stemperate, al di là della mediazio-ne norvegese, lo avevamo già avuto a Natale, quando unparlamentare tamil fu ucciso a Batticaloa, zona tamil,al momento della comunione durante la messa di mez-zanotte.

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«Allora quest’anno che cosa facciamo invacanza? Quali cime vogliamo conqui-stare?».«No, ragazzi, quest’anno non ci sono...vado in Perù!» Così è cominciato questo viaggio, rinun-ciando alle mie vacanze “alpinistiche”con gli amici per camminare verso un’al-tra cima, quella della solidarietà, quelladella vicinanza con il prossimo e dellacrescita umana. Mi sono unito a un grup-po di una trentina di volontari e siamopartiti. Destinazione Campiña de Moche,Trujillo, nel Nord del Perù, sulla costa, inuna zona desertica, dove vivere è com-plesso per una grande quantità di proble-mi di carattere igienico sanitario, econo-mico, sociale... L’accoglienza al CAEF(Centro de Atenciòn y Educaciòn a la Fa-miglia), associazione onlus che assisteminori vittime di violenza familiare, èstata incredibilmente calorosa e affettuo-

sa. Sembrava di tornare a casa, dove tuttigli amici più cari ti stanno aspettando daanni solo per abbracciarti, per dirti quan-to vali. Era quasi imbarazzante piombarenella loro casa e sentire tutto quell’amorenei nostri confronti. Lì vivono circa tren-ta bambini, provenienti da situazioni fa-miliari difficili, seguiti da alcuni educato-ri che fanno loro anche un po’ da mam-ma e papà. Noi italiani abbiamo cercatodi rendere a poco a poco più vivibile quel-la abitazione, sistemando finestre, dipin-gendo muri, alzando i muri di cinta perdifendersi dai continui furti. Un mattonedopo l’altro, ogni volta che arrivava il ca-rico, passava nelle mani di ciascuno dinoi, volontari e bambini più grandi, inuna lunga catena che creava una bellaimmagine simbolica dell’aiuto che stiamocercando di portare. Funziona solo se cisiamo tutti, funziona perché ciascuno fala sua parte, e funziona solo se anche i

bambini sono pronti a pren-dere il mattone, a raccogliereil piccolo tassello di aiuto chestiamo portando loro permetterlo a frutto, per impara-re, per diventare grandi e in-dipendenti. Abbiamo anchelavorato per rendere più age-vole, con l’installazione dipompe, lo smaltimento delleacque di scarico e ancora stia-mo lavorando per far sì chequeste vengano adeguata-mente purificate e non costi-tuiscano pericolo per gli abi-tanti di Campiña. Stiamo se-

PERÙ

Le stelle di carta argentata

Il Centro de Atenciòn y Educaciòn a la Famiglia (CAEF).

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guendo i lavori, che si spera presto possa-no consentire a questi bambini di averedai rubinetti acqua potabile. Su questomi ha molto colpito vedere già finanziatoe in parte realizzato un progetto per unacquedotto che trae l’acqua da una sor-gente (e io che l’ho vista dico che ci vuoledel coraggio a chiamarla così) altamentecontaminata, dove l’acqua sgorga in pros-simità di allevamenti e campi coltivati. Leanalisi chimiche effettuate rivelavanochiaramente la non potabilità dell’acquae anche l’impossibilità di renderla potabi-le con metodi standard: mi chiedo comesia possibile che questo progetto siaugualmente stato finanziato e sia partitoil cantiere. Non ho una risposta, ma mirendo conto che trovare acqua potabile inquella zona è estremamente difficile el’acqua è forse il bene più importante dicui abbiamo bisogno per vivere. Biso-gnerà agire in questo senso per poter tro-vare la soluzione migliore a questo graveproblema! Ma oltre a questi lavori con-creti, importantissimi, l’aspetto fonda-mentale della nostra presenza al CAEF èstato stare insieme con i bambini, lasciar-si accogliere e dare loro l’affetto che con-tinuamente chiedono. Sono estremamen-te affettuosi ed attenti, sono curiosi e vo-gliono sapere tutto e fanno un sacco didomande, perché per loro siamo impor-tanti, vogliono conoscerci, ricordarsi dinoi. Mi sono accorto giorno dopo giornoche mi volevano proprio bene, mi sorri-devano sempre, mi cercavano in ogniistante, mentre lavoravo, mentre riposa-vo... Mi saltavano addosso in quattro ocinque per volta e più di una volta nellafoga, nell’impeto di abbracciarmi mi han-no fatto cadere per terra, tanta è l’energiache ci mettono! Fanno di tutto per con-quistarsi un abbraccio, per farsi sollevaree “vincere” un viaggio in spalla di corsa, oun ballo, o farsi alzare fino a toccare con

le mani le stelle di carta argentata appic-cicate sul soffitto dell’ingresso del CAEF.Su ciascuna di queste stelle c’è un nome,il nome di uno dei bambini che vive lì...Kevin, Osber, Cynthia, Janeth, Smith,Wilfredo... E giocando con loro, ho vistoquanto siano assai più obbedienti e lealidi molti bambini italiani. Credo che que-sto sia il segno dell’ottimo lavoro deglieducatori cui sono affidati.Un momentoa mio giudizio “chiave” dell’esperienzache abbiamo vissuto è stata un’attivitàproposta durante la trasferta in monta-gna con tutti i bambini. Durante questaattività, la psicologa che ha condotto ilgruppo ha cercato di mettere in contattoanimatori e bambini con le proprie emo-zioni profonde, con l’affetto e l’amore.Ciascun animatore infatti cullava e pro-teggeva coccolandolo un bambino. Que-sto era un fortissimo scambio di emozio-ni e le lacrime sgorgate dagli occhi dimolti di questi bambini e anche di alcunianimatori, in silenzio, sommesse, quasiper non voler disturbare, mi hanno rive-lato quanto questo amore familiare nonsia scontato, quanto sia un dono preziosoe di valore, e quanto ne abbiano e ne ab-biamo bisogno! Un altro momento magi-co è stato vederli mettere in scena per noiil musical “Forza venite gente!”: hannoprovato e riprovato per impararlo, facen-do esasperare chi cercava disperatamentedi coordinarli. Bellissimi i loro sguardimentre recitavano, tutti avvolti nei loronuovi costumi di scena, sguardi pieni diemozione per voler fare bene, per farcivedere che sono bravi! Ma quello che hovisto del Perù non è soltanto il CAEF, nonsono soltanto questi bambini. Un valoreconsiderevole dell’esperienza che ho vis-suto è stato quello di consentire di calarsiil più possibile nella realtà del luogo, cer-cando di conoscerla, comprenderla, avvi-cinandosi un pochino, assaggiandone ap-

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pena, per così dire, il sapore. Così ho vi-sto tanta povertà, gente che vive sullastrada, bambini che scavano tra i rifiutidi una enorme discarica dall’odore soffo-cante per cercare qualcosa che si possarivendere. Avvicinandomi alla zona delladiscarica, mi ha colpito la frase scritta sudiversi muri: agua para todos! Sicura-mente si tratta di un messaggio di propa-ganda politica, ma mi ha fatto rifletterecome lì non sia scontato avere l’acqua,che di fatto costituisce forse il primo ditutti i bisogni dell’uomo. Lì non è ovvioavere l’acqua, e non è ovvio che sia pertutti! L’autobus che ci sta portando alladiscarica si inoltra in una stradina di ter-ra battuta, attorno a noi vediamo distesedi baracche cadenti, a stento riconosco inesse delle abitazioni. Qui vivono i lavora-tori della discarica. Improvvisamente en-trano dai finestrini sciami di mosche emoscerini e contemporaneamente unodore acre. Subito i vetri vengono chiusi,quasi per tentare di lasciare fuori quelladura realtà che stiamo vedendo, ma checi va stretta, che ci fa male, che non sap-piamo accettare. Non la comprendo finoin fondo, e forse, in fondo al cuore, provoanche un senso di colpa perché mi rendoconto che parte di tutto ciò dipende an-che dalle mie scelte di tutti igiorni, dal mio tenore di vitacosì elevato. Questi pensieristanno ancora faticando achiarirsi nella mia mente, mavengono soffocato dall’olezzodei rifiuti, e dal proromperedi immagini che anestetizza-no il mio cervello. Chiudere ifinestrini non serve, questarealtà esiste, che ci piaccia ono e dobbiamo renderceneconto! Siamo in cima ad unapiccola zona più elevata, l’au-tobus si ferma e vediamo le

persone nella discarica alzare lo sguardo:ci osservano, ci scrutano da lontano.Scendiamo. O meglio: nessuno di noisembra deciso a farlo, c’è un certo timorereverenziale, ci guardiamo attoniti. Pocoa poco ci decidiamo, ma tutto avviene nelpiù assoluto silenzio, siamo raccolti, qua-si come se stessimo entrando in un tem-pio del Signore. Forse proprio oggi, nel li-mite, nella miseria, nella debolezza, nellapovertà estrema possiamo incontrare ilSignore. Forse proprio in loro si manife-sta il Suo amore, umile, bisognoso e nu-do. Siamo stupiti e sconvolti e a poco apoco i bambini, le donne, gli uomini checi notano si avvicinano: sono curiosi. Per-ché mai noi eravamo lì in quel luogo as-surdo e inconcepibile? Già, questa èun’ottima domanda! Quello che possia-mo fare al CAEF è fin troppo chiaro, ab-biamo un compito e un ruolo. Ma qui co-sa crediamo di poter fare? Saremo capacidi mettere in atto qualcosa dopo quelloche stiamo vedendo? O è solo come anda-re allo zoo? Cosa stiamo cercando? Perun momento ho provato l’orrenda e ma-cabra sensazione di essere qui per vedere,per riempirmi egoisticamente di fortiemozioni. Poi tutto finisce. No! Tuttoquesto può e deve andare più in fondo e

La discarica di Trujillo.

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non solo lasciare un segno in ciascuno dinoi, ma per permetterci a nostra volta diessere testimoni di questo orrore. Testi-moni che dimostrano nei fatti che è pos-sibile vivere con uno stile più sobrio, piùessenziale, cercando di ridurre la freneti-ca corsa alla produzione e al consumoche fa girare un’economia di pochi e con-danna alla tragedia la maggior parte deipopoli della terra! Mentre si avvicinano ibambini della discarica ci sorridono e cisalutano, timidi ma intraprendenti prova-no a prenderci per mano e qualcuno dinoi gliela tende. Sono profondamentecommosso. Con gli adulti riusciamo an-che a scambiare qualche parola. Uno diloro, completamente avvolto in stracciper difendersi dalla polvere alzata dalvento e dall’odore nauseante, ci raccontache avrebbe potuto lavorare come ope-raio, ma chiedevano orari impossibili dilavoro, compresa la domenica. Così nonavrebbe potuto mai stare con la famigliae mai andare alla Messa. Ecco perché la-vorare in questo inferno tanto duro eumiliante: abbiamo sentito in lui la veradignità di uomo che dà valore a ciò chefa, parole di un uomo che ha rinunciato aun lavoro migliore per poter dedicare deltempo alla famiglia ed alla sua fede. Vedouna ragazza del nostro gruppo, in dispar-te, che piange. Se ne sta lì, ferma, impie-trita, si guarda intorno e non riesce direcon parole quello che sente, forse rabbia,dolore o semplicemente compassione edesprime così, con le sue lacrime, questoforte sentimento. Poco più in là un altroragazzo si inginocchia davanti a duebambini, parla con loro, li prende permano e con l’altra gli scompiglia i capelli.È una scena dolcissima. Io resto più in-dietro, non ho il coraggio di avvicinarmidi più a tutto questo, il mio cuore michiede tempo, mi chiede di interiorizzarequello che sto vedendo. È ora di ripartire,

ma riesce difficile andare via e con lestesse resistenze che ci impedivano discendere, in silenzio poco a poco risalia-mo sull’autobus e salutiamo i bambiniche ricambiano i sorrisi. Oltre a questa,che credo sia stata l’esperienza più dura,con cui abbiamo toccato per un attimol’estrema povertà del mondo, ho vistomolte altre cose. Ho visto immense dunedi sabbia battute dal vento con agglome-rati di baracche abbarbicate nel deserto,quasi a nascondersi alla vista, indegne diessere abitate. Ho visto e sentito su di mesguardi invidiosi, curiosi, indagatori forseper capire cosa ci consente di essere cosìbenestanti, cosa abbiamo in più. Ho vistofotografie di bambini che vengono sfrut-tati per lavori duri, umilianti, ingiusti ocui viene fatta violenza di ogni tipo. Hoascoltato testimonianze legate al periododel terrorismo, non ancora del tuttoscomparso. Ho visto ragazzini rubarenon appena possibile, rapidi e silenziosi.Ho visto bambini chiedere da mangiare,non soldi, da mangiare per la fame, quel-la vera, che noi mai abbiamo provato. Hovisto bere acqua sporca e maleodorante.Ho visto lavarsi in una fogna a cielo aper-to. Ho visto città brulicanti di taxi e dicombi (pulmini pubblici) su cui si viaggiastipati fino a che c’è spazio, che suonanocon clacson di ogni tipo e si inseguono, sirincorrono e intasano immancabilmenteogni incrocio! E lungo le affollatissimevie del centro ho visto foreste di cartellonipubblicitari inneggianti agli standard divita del primo mondo, che addiritturaraffigurano come modelli da imitare per-sone dalla carnagione bianca, bionde congli occhi azzurri. Le multinazionali vo-gliono creare un senso di necessità diimitazione, di emulazione di qualcosa dicui in realtà non c’è bisogno. Ma ho an-che visto sorrisi, speranza, giochi. Ho vi-sto anche successi del lavoro di missione

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al CAEF e a Nuevo Chao. Ho visto perso-ne dirci grazie in mille modi, organizzan-do feste per noi, sorridendoci, stringen-doci la mano o semplicemente mostran-doci la loro gioia per averci lì con loro. Eho anche visto l’Oceano Pacifico e ci hofatto il bagno: che freddo! Ho visto piantedi dimensioni spropositate, con foglie chepotrebbero farci da ombrello per quattropersone e altre con foglie che potremmousare come coperte! Ho visto sfuggire ra-pidi i colibrì ed ho intravisto dietro unacortina di nubi l’Huascaran, la vetta piùalta del Perù, con i suoi 6.768 metri! Mi èdifficile dire come sono stato. Direi chesono stato bene! Mi sono sentito accoltoin questa realtà, quasi come se facessiparte di una grande famiglia. Vivevo conloro e con loro condividevo praticamentetutto, ed è così che si entra in contattoper davvero. Capivo quali erano alcunedelle loro difficoltà concrete perché eranole stesse che io dovevo affrontare: docciafredda, acqua scarsa, cibo sufficiente, maassai poco vario, terra e polvere dapper-tutto, insetti di ogni tipo e persino piccoliscorpioni nel sacco a pelo. Ho condivisocon loro anche lo stare male per le condi-zioni igieniche non ottimali. Ne avrei fat-

to volentieri a meno ed ancheora vorrei guarire presto, ep-pure credo che anche questoci aiuti a capire quanto davve-ro abbiano bisogno di noi, delnostro aiuto concreto, poichéle condizioni in cui vivononon sono salubri, per nulla! Ea volte non sembra se ne ren-dano conto, o pare non dianoparticolare importanza a que-sti aspetti di carattere igieni-co. Giustamente la priorità èl’educazione, il rapporto uma-no, la crescita sana dei bam-bini. Tuttavia anche rendere

salubre il luogo in cui vivono credo sia unaspetto fondamentale. Quello che non hopotuto condividere sono le situazioni divita dura, cruda, sofferente da cui pro-vengono i bambini, le loro emozioni, leloro storie. Ma forse anche grazie a que-sto ho potuto più facilmente testimoniarela possibilità di un affetto reale e sinceroche possono sperimentare e a loro voltadonare a chi incontreranno nella loro vi-ta. Sentire i loro racconti, vederli correr-mi in continuazione incontro per farsiabbracciare, per farsi sollevare il più inalto possibile per toccare le stelle di cartaargentata appiccicate al soffitto, giocarecon loro, tutto ciò mi ha commossoprofondamente più di una volta. Pensan-do alla mia vita mi sono sentito in colpaper tutto il superfluo che ho, che abbia-mo e cui non sappiamo rinunciare! Pertutte le volte che inutilmente mi lamentodelle mie piccole difficoltà. Vedendo quel-le assurdità di vita disumana, come la di-scarica, mi sono sentito piccolo e fragilenei confronti di queste persone coraggio-se e forti che sanno cosa è la vera dignitàdell’uomo. Mi sono anche arrabbiato perla diversità della loro cultura, che spessoli porta a non comprendere l’importanza

Festa alla scuola di Nuevo Chao.

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di alcune precauzioni, di alcune attenzio-ni. Importanza per la loro salute e sicu-rezza! Anche con il gruppo dei volontarici sono stati momenti belli di scambio, diconfronto su quanto stavamo vivendo equindi di crescita, ma anche momenti didisaccordo, di litigio, per il lavoro, per iturni dei servizi. Ho visto alcuni non sa-per rinunciare a certe comodità e abitudi-ni e vivere in alcuni momenti il campo dilavoro come fosse una vacanza... Sonocose che in un mese di campo accadono,ma che fanno riflettere sul nostro sapereessere coerenti di fatto con quello chevorremmo testimoniare. Inizialmentequesti momenti mi infastidivano, ma poiho riflettuto e ho capito che ciascuno habisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi,siamo tutti diversi e volersi bene vuoleproprio dire amare e rispettare l’altro nel-le sue diversità e specialmente nei suoi li-miti. Cosa ho portato a casa? Sicuramen-te un po’ di batteri peruviani che mi stan-no tenendo ancora compagnia. Oltre aquelli ho con me tanti ricordi, il cuore diquesti bambini che ci vogliono davverobene e che sono la speranza per un futuromigliore in quel Paese. Le parole dei loroeducatori, più con i piedi per terra, piùconsapevoli dei problemi, ma anche loroassai più inclini alla fiducia rispetto a noieuropei. Nel mio bagaglio del ritorno c’ètanto, tantissimo: molti abbracci, moltisguardi, molti giochi insieme, e un saccodi cose che ancora devo scoprire, perchéme le hanno messe nello zaino di notte,di nascosto, mentre dormivo... Affetto,amore, dolcezza, comprensione, matura-zione, crescita nella conoscenza e nellarelazione. No, non c’è fretta, le scoprirò apoco a poco... Voglio gustarmi tutti i lorodoni uno per uno, senza lasciarne andaresprecata neppure una goccia! E poi hoportato con me la consapevolezza che an-cora molto, moltissimo c’è da fare. Il

campo in Perù c’è tutti gli anni ormai dacinque anni nel mese di agosto. Là di la-voro ce n’è sempre tanto, ogni volta siscoprono nuove realtà di bisogno e perfortuna si vedono anche risultati. C’è bi-sogno di stare con i bambini, di mostrareloro che ci siamo, che li pensiamo, chenon li abbandoneremo. C’è bisogno di la-vori pratici per rendere più accogliente evivibile la loro casa: il CAEF. Ora, mentrescrivo, stanno proseguendo i lavori, ini-ziati da qualche settimana, di costruzionedel secondo piano, per dare loro più spa-zi, più locali. Ho anche capito che tuttoquesto, tutta l’esperienza acquista un si-gnificato profondo e vero solo se qualco-sa cambierà nella nostra vita di tutti igiorni. Ad esempio se sapremo cambiareil nostro stile di vita, se sapremo abbassa-re il livello delle nostre comodità, del no-stro consumismo e spreco sfrenato, dellanostra corsa frenetica al progresso, sullatesta dell’80% della popolazione del mon-do che costringiamo a vivere in una po-vertà sempre più grave. Oppure se ci ac-corgeremo che anche dietro casa nostraci sono situazioni di povertà, di sfrutta-mento, di violenza e se anche per loroavremo il coraggio di fare qualcosa, dimetterci in gioco, di amare anche questoprossimo più vicino a noi. Grazie a tutticoloro che mi hanno aiutato a renderepossibile questo viaggio di missione e diaiuto, ma anche di crescita e arricchi-mento personale, grazie a tutti coloro chemi sono stati vicini durante questa espe-rienza, sia come compagni di viaggio, siacome amici che da casa leggevano i mieiracconti e attendevano con impazienza lenotizie per conoscere l’evolversi della si-tuazione. E grazie a tutti voi che avete let-to questa mia piccola testimonianza. Spe-ro susciti in voi curiosità, domande, dub-bi e riflessioni propositive.

Davide Bavera

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L a prima volta che sono venuto aSighet ho pensato che i bambi-ni avessero lo stesso sguardo

dei cani. Uno sguardo randagio.Una sensazione che non ho più scordato. Non so cosa significhi missione. Non ho mai usato questa parola pen-sando a Sighet, la mia Sighet.Dico mia perchè diversa da tutte le al-tre, diversa dalla Sighet di tutti gli altri,diversa dalla vera Sighet, che forse nonesiste.Questa Sighet è ciò che più si avvicina,per me, alla parola missione.E, prima di tutto, questa Sighet è qual-cosa che lacera dentro, che distruggetante certezze piccole e grandi che sedi-mentiamo nel nostro vivere quotidiano,tante illusioni sulle quali inesorabil-mente ci costruiamo, crescendo storti. Missione è dunque violenza.Violenza verso se stessi, per partorirel’Uomo Nuovo. Missione diventa quindi gli occhi di Da-ni, quando gli dici di tornare a casa,perchè è tardi e tutti vanno a dormire, elui ti risponde, sorridendo mestamente,senza rabbia verso la bestia che sei, for-se compassione per la tua ingenuità,sussurrando: “Quale casa?”Missione la pachidermica memoria de-gli ospiti del Camin de batrani, che ti ri-

cordano per averti visto una volta sola,e tu ti accorgi che nella loro vita tuttauguale tu sei stato lo straordinario, equesta loro memoria diventa responsa-bilità tua, e comunque responsabilitàsempre troppo grande. Missione comprendere visceralmenteche non puoi fare tanto, e questo pocolo devi dannatamente fare, che dovrairendere conto di tutto, anche di questo. Missione il capire il significato delle pa-role struttura di peccato, quando vedi leinfermiere di Batrani picchiare gli ospi-ti, e poi ti rendi conto, dopo la tua rab-bia di paladino della giustizia, che giu-stizia per loro non c’è, e fare una lavorodi merda per un centinaio d’euro al me-se frustrerebbe chiunque, e in questocontesto tutti sono vittime.Missione il capire che se le tue parolenon arrivano a chi ti ascolta, se le tueproposte e i tuoi consigli non vengonoaccolti, probabilmente sei tu a non ave-re il giusto linguaggio, e stai gettandosugli altri la tua responsabilità di nonsaper parlare. Missione comprendere, come Miloud,come Don Milani, come Cristo, che percapirsi davvero bisogna avere lo stessolinguaggio, e dotare gli altri degli stru-menti per capirti. Missione il relativizzarsi, il comprende-re (poco) sereno che non hai capito

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ROMANIA

Pensare la missione… a Sighet

Se non possiamo salvare il mondo ci salveremo almeno l’anima.

Don Milani

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niente, e quindi giù a testa bassa a ten-tare di ricostruirti nelle macerie, senzafretta, tanto comunque sbaglierai e do-vrai buttare giù tutto di nuovo... Missione per me è aver toccato il cuoredel mondo. Aver sfiorato, cercato, anelato, graffiatoil senso delle cose, che noi chiamiamoLogos, Principio, Cristo. Il Logos che si è fatto carne, e venne adabitare in mezzo a noi.Missione è leggere un Senso nel soffittoperenne di Johann. Leggere la Croce nelle ossa urlanti diCarmen. Leggere la Resurrezione nel sorriso diMongo, negli occhi e nel faccione diMaria.È cambiare il proprio sguardo perchè ti

sono stati donati occhi nuovi. Cercare di utilizzare questi nuovi occhianche a casa, quando l’abbondanza el’inerzia soffocano l’Essenziale.E sentire che non ci riesci tanto bene.E che forse non sei così forte e figo co-munque da starci, in Romania. E che stare qui è più comodo.E sentirti un po’ merda perchè tuttoquesto è dannatamente vero. E, comunque, sapere che il mondo, perfortuna, non lo devi salvare tu, e che c’èQualcuno che si occupa delle faccendeimportanti. E a te è solo chiesto di provarci, sempree comunque. E sapere che, in fondo, questo lo saifare.

Andrea Zanni

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Si entra tutti insieme, al camin de ba-trani, altrimenti i malati si agitano.Che poi proprio malati non sono, alcu-ni. Tra gli handicappati infatti si trovaanche qualcuno che è solo vecchio,quasi la vecchiaia fosse una malattia. Epoi, una volta entrati, ci si organizza.Non perché ci sia grande bisogno di or-ganizzazione, nel far ridere Gaga,quanto perché l’impatto va dosato, concura. Non si può certo pensare di en-trare al camin de batrani così, comefosse un ospedale qualsiasi, o una nor-male casa di cura. E questo ti vienedetto, all’inizio.Ma entrarci è diverso. Ognuno ha ilsuo tempo per mettersi in moto, e faremergere le qualità migliori in un po-sto sempre più arido d’amore. Dopoun po’ ci si abitua, dopo che Gaga s’èfatta un ballo divertentissimo in giar-dino, dopo che l’infermiere t’ha battu-to a ping–pong, e puoi rientrare a ve-

dere qualche altra stanza. Perché quelposto, quella casa, ha un’architetturatutta sua. Tutta incatenata, che ti pre-senta una stanza dentro l’altra, e te nenasconde qualche altra. Così scopri illetto di Carmen, che ospita un corposofferente, che ospita lacrime, cheospita pianti e grida di dolore. Allorati fermi lì, lì davanti, ad aspettare dicapire. Rimane infatti la cosa più difficile, ca-pire. Capire se è vero, quello che vedi.Capire se esiste una cura, per la suamalattia che chiamano “malnutrizio-ne”, con la solita approssimazione cli-nica del posto. Capire soprattutto per-ché sei lì, proprio lì, e ti si chiede solodi stare lì. Anche solo a guardare. Capi-re se è vita. Che è la cosa più difficile.Che è la cosa che si scontra con tutti icastelli religiosi che ti eri costruito. Edora, dopo aver professato la sacralitàdel dono della vita, ti chiedi se sia vita,

quella di Carmen.Quella di una donnache vive nel proprioletto, poggiata sulleproprie piaghe, chemangia due cucchiaidi minestra annac-quata, che beve ognigiorno le proprie la-crime.È difficile capire, rac-contare e descrivereanche approssimati-vamente la realtà diSighet. Capace di in-trecciare il problemadegli orfanotrofi conil problema dei varicamin de batrani. Ca-

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… E poi qualcuno ti chiama

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pace di far passare sottovoce il proble-ma dell’alcolismo e di nascondere ilproblema dei bambini di strada. Capa-ce di coinvolgerti, di farti innamorare eallo stesso tempo di sfumare nell’obliodei più vicini impegni che ognuno dinoi ha in Italia. Perché sono così, ibambini. I bambini della scuola, i bam-bini nell’orfanotrofio, i bambini che,orfani, vivono in strada: tutti chiedonosolo di essere bambini. Chiedono digiocare, chiedono di essere considerati,e chiedono affetto. Così quell’abbraccio che hai ricevutoquando sei stato alla casa de copii nonte lo dimentichi più. Quello sguardoche innocente ti dice che non ha fattoi compiti, perché il giorno prima halavorato con il padre, rimane dentro

di te. E ti dimostra sempre più analiti-camente la differenza con il tuo, dimondo. Dove un malato ha una cartel-la clinica. Dove un bambino, quandonon studia, è perché non ne ha voglia. Perchè il paragone è inevitabile, e pro-prio questo grossolano paragone tra l’I-talia e la Romania, tra noi e loro, tra ilricco e il povero ti lascia quasi spiazza-to. E non sai chi ha ragione, se è troppoil nostro o se è poco il loro. Ma c’è unnetto taglio che divide questi due gran-di schemi, che dentro di noi continua-no a combattere come ci chiamasseroad una scelta.Ed ogni volta che torni, ritrovi sempregli stessi occhi che pregano per te, eche ti chiamano.

Francesco Salustri

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