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GIORDANO MONZIO COMPAGNONI

MUSICA PER LA LITURGIA

Osservazioni per un quadro di riferimento

Il 4 dicembre 1963 papa Paolo VI, nell'allocuzione di chiusura della II sessione conciliare si fa-ceva interprete della gioia di tutta la Chiesa per l’approvazione della costituzione Sacrosanctum concilium come risultato di un lungo cammino di rinnovamento iniziato oltre mezzo secolo prima.

In quell'atto il pontefice ravvisava non solo il giusto riconoscimento della priorità della liturgia quale espressione del primato di Dio e della preghiera, ma soprattutto la dichiarazione della sua preminenza in ordine all'educazione alla fede del popolo di Dio, all'unità della Chiesa e all'evange-lizzazione del mondo contemporaneo. Questi erano gli obiettivi che la revisione dei riti intendeva perseguire; ma ancor prima – dato che operari sequitur esse – il concilio si era prefisso di ripristina-re l'autentico volto della liturgia.

«Per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia» il concilio aveva indicato come fondamento la «appassionata e viva conoscenza della sacra Scrittura» (n. 24), men-tre ai fini della riforma e della revisione dei riti a fungere da guida era stata indicata l’originaria tradizione dei Padri quale criterio normativo («pristina sanctorum Patrum norma»: n. 50) per l'intelligenza e l’interpretazione della liturgia, criterio che si osserva puntualmente applicato già nel n. 7 della costituzione circa le diverse forme di presenza del Cristo nelle azioni liturgiche.

Non si trattava di una metodologia di lavoro innovativa: già i padri del concilio di Trento ave-vano dichiarato di non voler esporre nulla di nuovo, ma di enunciare la dottrina contenuta nei vangeli secondo la comprensione dei Padri, sottolineando in tal modo la congruenza – che oggi gli studi vanno sempre più mettendo in luce – fra i dati biblici e quelli patristici.

Le difficoltà di redazione del VI capitolo di Sacrosanctum concilium non avevano tuttavia reso possibile compiere esplicitamente questo percorso circa la musica sacra: da un lato, la essa fu ri-conosciuta come autentico patrimonio ecclesiale, del quale il concilio intendeva promuovere la preservazione e l’incremento; dall'altro, sulla scorta di Pio X, fu introdotto il principio ermeneuti-co che ne faceva parte necessaria ed integrante della liturgia, affidataria di un ministeriale munus in dominico servitio.

Se si osserva inoltre che con grande frequenza negli ultimi decenni la riflessione pare aver pri-vilegiato l'indagine sul come della musica sacra (forme, funzioni, repertorio, prassi...), in questa sede non sarà inutile – seguendo il metodo indicato dal concilio stesso – tentare di delineare, non noviter nec a nobis, qualche tratto della natura e dello statuto della musica nella liturgia, quale e-merge dalle fonti della Chiesa antica, soffermandoci in particolare su alcune testimonianze dei primi due secoli dell'era cristiana: gli anni in cui la giovane Chiesa iniziava a tracciare la propria strada, affrontando molteplici sfide poste dal contesto in cui era inserita.

Le competenze richieste per leggere in profondità tali fonti, come anche i problemi aperti o addirittura insolubili, sono molteplici: segno certo della complessità dei documenti che prende-remo in esame, ma anche severo monito per chi con imprudenza ha accettato di parlare in questa autorevole sede a operare precise scelte di metodo che siano rispettose della veneranda antichità di esse, e non ne inficino la comprensione.

Adotteremo pertanto un approccio storico, con le peculiarità e gli inevitabili limiti di tale pro-spettiva, ma con la consapevolezza che attingere alla Scrittura e alla sua recezione e interpreta-zione da parte della Chiesa delle origini e dei Padri non sia un fatto opzionale, che riveste un valo-re puramente archeologico o erudito, ma che consente di pervenire ad una intelligenza del dato, proficua per illuminare le indicazioni magisteriali e conciliari, come anche per orientare la prassi attuale.

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1. La musica cultuale cristiana

Fin dall'inizio, il canto fu uno dei tratti peculiari dei costumi cristiani: nella celebre lettera 10, 96 indirizzata a Traiano (111ex.-113in.), Plinio il Giovane rilevava come fra i principali elementi cul-tuali vi fossero carmina pronunciati a cori alterni in onore di Cristo. Sarà Tertulliano a chiarire che si trattava di veri e propri canti rituali: per i romani il carmen era la più antica forma di pro-sa/poesia; una sorta di discorso ritmato simile a una poesia libera, oppure a una prosa modulata, ricca di cadenze, con una scansione ordinata di cola sottolineata dalla corrispondenza simmetrica delle parole, tradizionalmente usata in proverbi, filastrocche, scongiuri, leggi, canti militari o trionfali, elogi... Anche le formule magiche e le preghiere erano carmina.

Le testimonianze superstiti di questi canti pongono tuttavia gravi problemi critici, legati più che a difficoltà di attribuzione all'uno o all'altro genere letterario, alla frammentarietà, all'ap-prossimatività delle datazioni, all'eterogeneità dei contenuti, all'incertezza circa la destinazione e la funzione delle formule, e soprattutto all'assenza di melodia. Con l'unica eccezione del celebre POxy. 1786, risalente alla II metà del III sec., di quelle «parole in musica» che sono i canti cristiani antichi ad oggi possediamo purtroppo solamente lo scheletro, cioè i testi, per di più non di rado giunti fino a noi in forma parziale.

Di questa produzione – specialmente di quella salmodica o innodica, che maggiormente si pre-sta ad essere analizzata – è comunque possibile mettere in luce qualche tratto distintivo.

1. Circa l'origine e la composizione dei testi, è noto come, per la preghiera, i cristiani facessero da un lato ricorso al salterio davidico, utilizzato sia in ebraico, sia nella versione aramaica dei Tar-gumim, sia ancora nel greco della LXX e, dal II sec., in latino. Continuando la tradizione giudaica, essi fecero però uso di altri salmi o canti idiotici (privati), appartenenti ad un repertorio più o me-no tradizionale ovvero di nuova fattura, come contributo talora spontaneo alla celebrazione (cfr. 1 Cor 14,26); prassi che ebbe notevole diffusione fino alla metà del IV sec., dando vita a testi prin-cipalmente rivolti a Dio o a Cristo e accomunati dal tono dossologico od eucologico.

2. Un ulteriore tratto distintivo comune è rappresentato dall'aspetto linguistico. I testi liturgici a noi pervenuti sono redatti indifferentemente in ebraico e in aramaico, in greco, in siriaco, e più tardi in latino, non paiono prediligere una determinata espressione: un pluralismo linguistico ri-scontrabile anche nella produzione apocrifa ed eterodossa, ed esplicitamente attestato da Origene («I greci pregano Dio in greco, i romani in latino, e così ciascuno nella propria lingua prega e can-ta a Dio come è in grado di farlo»). In Girolamo e in Giovanni Crisostomo si vedranno addirittura coesistere più espressioni linguistiche in una medesima celebrazione, tanto che nel IV sec. il plu-ralismo linguistico renderà necessario uno specifico ministero di traduzione – in continuità con la figura del meturgeman ebraico – svolto durante le liturgie sia per le letture e l'omelia, sia per istru-zioni circa il significato dei riti.

3. I testi innodici – sia quelli neotestamentari che i successivi, anche di provenienza eterodossa – sono inoltre accomunati dalla metodologia di composizione, che prevede una forma solitamente semplice, indipendente dalle regole della sticometria classica come pure dalla metrica semitica, e che dà luogo a una caratteristica struttura prosodica ritmico-tonica: il carmen di cui appunto par-lava Plinio il Giovane.

Tale opzione non pare casuale o frutto di una intenzione polemica nei confronti della cultura contemporanea: nelle fonti non si ha un esplicito rigetto o una sottovalutazione della forma poe-tica, ma ciò non toglie che nelle nuove composizioni cristiane essa sia stata trattata in un modo peculiare. Nei salmi e cantici, il passaggio dalla Vorlage ebraica ai Targumim, e poi alle versioni in greco e in siriaco aveva comportato la perdita della struttura tonale-accentuativa del verso ebrai-co a favore di forme non metriche, nonostante la tradizione poetica classica e l'isosillabismo del siriaco. A ciò si ispirarono le nuove composizioni innodiche, che furono così caratterizzate dal-l'andamento libero ed euritmico del testo.

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4. Infine, il carattere esclusivamente vocale del canto cristiano. Si tratta di un tema che, insie-me e attraverso la polemica contro gli strumenti musicali, emerge direttamente solo verso la fine del II secolo, con Clemente Alessandrino.

In proposito si è soliti rilevare come dal 70 d.C. gli ebrei avessero bandito ogni forma di musica strumentale nel culto in segno di lutto per la distruzione del Tempio, aggiungendo che nella litur-gia sinagogale ciò avrebbe favorito lo sviluppo di espressioni esclusivamente vocali. Contempra-neamente viene sottolineata anche la parallela ostilità della Chiesa, che avrebbe ereditato tale po-sizione dal giudaismo contemporaneo attraverso la mediazione di Paolo. È stata tuttavia rilevata la presenza di un filone di pensiero anti-strumentale antecedente alla distruzione del Tempio, che è stato legato sia a preoccupazioni antiidolatriche, sia alla progressiva spiritualizzazione del culto, sia ancora a motivazioni disciplinari e morali.

Come ha ampiamente documentato Johannes Quasten, nell'antichità intercorrevano stretti rapporti fra culto e strumenti musicali, impiegati sia per l'accompagnamento dei riti, sia come strumenti cultuali, in particolare nel caso dei rituali dionisiaci, cibelei e coribantici, a cui era at-tribuita una funzione catartica e terapeutica: come la malattia mentale era frutto di una posses-sione da parte di una data divinità, così la partecipazione al rito peculiare di quella divinità, consi-stente in musiche orgiastiche eseguite con strumenti musicali e danze, procurava – se la diagnosi era esatta – la regressione del male.

Queste pratiche religiose supponevano – come è attestato anche in 1 Cor 10,14-22 circa il pro-blema degli idolotiti – che ogni rito fosse dotato di una propria specifica efficacia per far entrare in comunione con la divinità retrostante. La partecipazione al rito permetteva di conseguire la comunione con gli dei, poiché esso in un certo senso operava simile sibi: di conseguenza anche i singoli elementi rituali godevano di un vero e proprio statuto teologico, ed perciò è plausibile la preclusione dell'uso di strumenti musicali.

Si trattava però di un principio bifronte, a cui si fece ricorso anche per interpretare l'uomo come organon della divinità e come strumento per la glorificazione di Dio, come si legge negli apo-logisti e in Clemente Alessandrino:

Il Logos di Dio, [...] suona a Dio per mezzo di questo strumento di molte voci, e canta con questo stru-mento che è l'uomo: «Giacché tu sei per me cetra e flauto e tempio»: cetra, per l'armonia; flauto, per lo spirito; tempio, per la ragione, affinché l'una risuoni, l'altro spiri, e l'ultima comprenda il Signore.

Ma qual era lo statuto della musica cultuale fra I e II secolo? Le fonti ci offrono in proposito un

quadro notevolmente omogeneo. 2. Le lettere agli efesini e ai colossesi

Secondo la maggior parte degli esegeti le lettere agli efesini e ai colossesi sono scritti deutero-paolini, redatti rispettivamente negli anni 80-90, ad opera di una scuola di tradizione paolina ap-partenente all’area di Efeso.

Studiando la relazione fra le due lettere si è notata la presenza di due passi (Col 3,16-17 // Ef 5,18-21) che è possibile leggere sinotticamente.

Considerati dal punto di vista strutturale, i due passi rivelano una sintetica descrizione del rito eucaristico – ben più antica di quella di Giustino –, composta da quattro elementi: la proclamazio-ne della parola di Cristo; l'insegnamento/esortazione; il canto; l'azione di grazie.

3. Come l’insegnamento/esortazione, così salmi, inni e cantici – che, nel testo, andranno consi-derati riferiti al successivo adontes anziché a lalountes, bensì, restituendo in tal modo ad Ef 5,19bcd la stessa struttura di Col 3,16def – si pone in continuità con l’annuncio/proclamazione dell'evange-lo, esattamente come si osserva nella liturgia ebraica e nei riti dei Terapeuti d’Egitto descritti da Filone Alessandrino.

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Nonostante ripetuti tentativi di comprendere il significato specifico della terminologia adotta-ta e di identificare/distinguere i generi di canto indicati nel passo, allo stato attuale della ricerca pare di dover pensare a una semplice formulazione pleroforica che istituisce una sorta di circola-rità fra di essi, come se definissero le varie forme espressive del cantare cristiano.

Questo canto rivolto a Dio – secondo il caratteristico dell’uso delle Chiese microasiatiche – è poi definito come pneumatikos, cioè come ispirato o prodotto dallo Spirito e, nel contempo, veicolo dello Spirito (cfr. 1 Cor 14,15).

Sullo sfondo di questa concezione vi è la dottrina paolina dell’inabitazione dello Spirito, di ma-trice veterotestamentaria: secondo la teologia deuteronomista (Dt 12,11), tempio e luogo di culto (1 Re 8,29ss) è quello in cui Dio fa abitare il suo nome per essere invocato: qui l’uomo celebra la li-turgia davanti a Dio, e qui Dio – che abita in cielo – garantisce la sua presenza: per questo il san-tuario, luogo dei sacrifici, è casa di preghiera. Paolo svilupperà questa teologia, facendovi succe-dere quella dello Spirito: «Poiché siete figli, Dio mandò lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, che dice “Abbà, Padre”». Il nuovo luogo di culto non è più un edificio, il tempio, ma il cuore dei fedeli, e la nuova liturgia consiste nel rivolgersi a Dio: con quel parlare modulato senza l'accom-pagnamento di strumenti musicali che Col ed Ef esprimono con i verbi adontes e psallontes o con quel grido cultuale che Paolo e Clemente Romano esprimeranno con il verbo krazo.

Un canto non solo pneumatico, ma altresì cordiale, perché deriva dal cuore; non formale né sen-timentale, ma consapevole; che proviene dal fondo dell’esistenza ed è radicato nel centro profon-do dell'essere umano che orienta alla conoscenza e alla decisione, là dove si determinano gli a-spetti fondamentali dell’esistenza, non ultima l'opzione di fede.

Infine un canto «riconoscente», cioè espressione di quella pienezza di gratitudine che trova la sua massima espressione – è il quarto elemento della celebrazione – nell'azione di grazie a Dio Pa-dre strettamente legata alla vita quotidiana intesa come atto di obbedienza e di culto a Dio, cioè come sacrificio spirituale (cfr. Rm 12,1). 3. La lettera ai corinzi di Clemente Romano

Di poco posteriore rispetto alle lettere ai colossesi e agli efesini è la lettera ai corinzi di Cle-mente, vescovo di Roma, la cui datazione tradizionale è posta a cavaliere degli anni 95-98. Un do-cumento che, insieme alla Didaché, è il più antico scritto cristiano extrabiblico a noi noto e che co-stituisce una esortazione/supplica mirante alla ricomposizione delle discordie interne della co-munità di Corinto. La tematica di fondo è pertanto quella dell'unità della Chiesa.

Il passo che ci interessa trova posto entro la riflessione circa il modo per conseguire i benefici e la benedizione divina (21-23), specie la risurrezione (24-28), e che consiste in una vita conforme alla volontà di Dio capace di coniugare fede e opere buone (33-36). Di questa adesione alla volontà divina gli angeli sono posti come esempio.

Il testo istituisce anzitutto un parallelismo fra i cori angelici e la comunità cristiana («conside-riamo tutta la moltitudine dei suoi angeli ... Anche noi ...») che deve essere spiegato.

Oggetto della attenta katanoesis dei corinzi debbono essere le moltitudini angeliche nella loro unanimità di comportamento, in particolare la leitourgia della volontà di Dio che gli angeli svolgo-no stando presso di lui: gli angeli sono ministri della volontà di Dio, e il servizio da essi reso alla sua volontà avviene mediante lo stare presso di lui (leitourgousin parestotes).

Il modello è quello della sebaoth Theology: gli angeli costituiscono la corte che circonda il trono di Dio, considerato come un re che regna dal suo palazzo (il tempio); gli angeli ne eseguono la vo-lontà e ne cantano senza posa le lodi. Per questo Dio è chiamato YHWH sebaoth. Nella rilettura a-pocalittica dell’attributo YHWH sebaoth – mediata dalla visione del tempio celeste di Ezechiele 40-48 e dal racconto sacerdotale della trasmissione divina a Mosè del modello (paradeigma) per la co-struzione del tempio (Es 24-25) –, il vero culto e la sua sede furono collocati in una dimensione metastorica o escatologica. Il Libro di Enoc non solo descrive Dio come abbiamo detto, afferma un

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parallelismo fra cielo e la terra: vi è un tempio celeste perfettamente corrispondente e tipo di quello terrestre, e la più perfetta liturgia celeste è il paradigma di quella terrestre (cfr. la liturgia angelica di Qumrân). Il III libro di Enoc specificherà inoltre come, nell’interpretazione dei mistici della Merkabah, l’elemento centrale di tale culto fosse la qedushah segno che – anche dopo la di-struzione del tempio di Gerusalemme – il culto proseguiva nel tempio celeste ad opera degli ange-li. L’idea di un tempio e di un culto metastorico funse pertanto da sistema ermeneutico della li-turgia terrestre: questa non era semplicemente corrispondente o simmetrica al culto prestato da-gli angeli, né fra le due vi era una mera concomitanza o coincidenza, ma un rapporto di conformi-tà o di similitudine, cioè di partecipazione ontologica.

È questo il significato più proprio da attribuire all’espressione «anche noi», che fonda il paral-lelismo: se il culto terrestre è immagine della liturgia angelica, tale immagine consiste specifica-mente nel comportamento dell’assemblea. In tal modo – come attesta anche la qedushah sinagoga-le – nella prima parte del brano, al typos costituito dallo stare-servire dei cori angelici di Dn 7,10 viene fatto corrispondere l’antitypos del concorde e consapevole radunarsi dei fedeli.

Clemente rilegge inoltre il radunarsi dell’assemblea in una prospettiva marcatamente eucari-stica, che richiama da vicino 1 Cor 11, d’altronde ben nota ai destinatari, come si evince dal lessico (omonoia, epi to auto, synago, syneidesis).

Nel prosieguo del testo, alla imago dell'inno angelico di Is 6,3 viene poi fatta corrispondere la veritas dell’invocazione dei fedeli riuniti per il culto: senza dimenticare che boao e krazo sono si-nonimi, al krazein degli angeli – che designa il rivolgersi ad alta voce a Dio nell’invocazione, nella preghiera e nella lode, non scevro di una valenza cultuale – corrisponde il boein pros ton Theon dell’assemblea, cioè quella forma elementare di preghiera che è il grido di implorazione e di sup-plica dei poveri e dei deboli.

Un grido che, come il canto pneumatikos di Col ed Ef, è voce dello Spirito che abita nel cuore dei credenti e per questo è unanimemente espresso dalla comunità come «da una sola bocca», espres-sione dell’unità del «noi» assembleare.

L'oggetto dell’invocazione – e perciò del grido/canto – è infine identificato e nel compimento delle «grandi e gloriose promesse» di Dio, cioè nei beni escatologici, dei quali si chiede che la co-munità sia resa partecipe. Clemente è infatti consapevole che questo è lo scopo (eis to) dell’azione liturgica: comunicare all’assemblea le promesse divine nell’oggi, essere sacramentum che rende i doni divini partecipabili dai fedeli. 4. Ignazio di Antiochia

Ignazio, secondo vescovo di Antiochia di Siria, condannato ad bestias nel circo fra il 105-110 e il 130-135, ha alcune brevi espressioni circa la musica cultuale nelle lettere agli efesini e ai romani, rispettivamente connessi ai motivi dell'unità della Chiesa e del martirio, ma sullo sfondo di una più generale concezione dell'eucaristia come sacramento di unità.

Ignazio è portatore della concezione arcaica (tipologica) della sacramentalità: la realtà eccle-siale è costituita da un duplice livello, quello visibile o carnale e quello invisibile o spirituale, che ne è il fondamento. Il modello ecclesiologico da lui descritto imita la relazione fra la Chiesa o gli apostoli e Cristo e, ancor prima, fra questi e il Padre. È Dio/Cristo il vescovo reale della Chiesa, di cui il vescovo visibile – ma il discorso è analogo circa il rapporto apostoli-presbiteri – è tipo o im-magine. Allo stesso modo, è Dio/Cristo stesso, circondato dagli apostoli, a presiedere l’eucaristia attraverso il ministero visibile dei vescovi e dei presbiteri.

1. Nella concezione di Ignazio è l'unità della Chiesa attorno al vescovo a garantire l'ecclesialità della celebrazione eucaristica. Si dà Chiesa solo attorno al vescovo e ai ministri, presbiteri e dia-coni: perciò solo l'eucaristia presieduta dal vescovo o da un suo incaricato è autentica, stabile, salda, sicura (bebaia), cioè edifica la Chiesa.

Conformemente all'insegnamento paolino (cfr. 1 Cor 11, 17-34), la celebrazione dell'eucaristia è

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comunitaria a causa dell’unità della comunità riunita, ma questo si dà solo nell'unità attorno al vescovo, che manifesta la invisibile episkopè di Dio. Comunitaria è pertanto quella preghiera «in-tonata» su Dio, vale a dire da lui ispirata e icona di lui, che è unità: una preghiera perciò «unani-me» e «consonante», cioè epifania dell'unità della comunità («nella vostra concordia [omonoia] e (nell') armonica agape [symphono agape] Gesù Cristo è cantato»; «essendo armonici [symphonoi] nella concordia [en omonoia] [...] cantiate al Padre ad una sola voce»).

La comunione ecclesiale – che è nota dinamica: «Uno ad uno diventate un coro», e si realizza nel-l'agape – è condizione e nel contempo finalità di quel «cantare al Padre per mezzo di Gesù Cristo» e «cantare Gesù Cristo» che è l'unanime celebrare («diventate un coro [choros ginesthe] affinché [...] cantiate [adete] al Padre ad una sola voce [en phone mia]»).

In forza di tale unità, prosegue Ignazio, la preghiera liturgica è utile (cioè salvifica), perché è partecipazione di Dio. Anzi, l'unità è condizione per conseguire stabilmente tale partecipazione («è dunque cosa utile che voi siate in una inconcussa unità, per essere anche sempre partecipi [metechete] di Dio»): essa ha quindi efficacia sacramentale, in quanto genera l’unità con Dio e la vita in Cristo.

Il lessico, che riflette la prassi liturgico-musicale dell'epoca, non riduce tuttavia il passo ad una semplice metafora: per Ignazio la realtà materiale del canto innalzato dalla Chiesa (gli esecutori, l'intonazione, la monodia, il testo e il relativo contenuto) è espressione tangibile della invisibile vita spirituale della comunità cristiana, autentico canto a Cristo, e perciò è rivelativo della natura della preghiera liturgica, segno e strumento dell'unità della Chiesa.

Nell'omonoia e agape si realizza l'evento del canto di Gesù Cristo. La verità di esso sarà pertanto costituita dalla qualità della vita della comunità che si esprime nel fuggire le divisioni, amare l'u-nità, imitare il Cristo imitatore del Padre. A sua volta, la concordia non può andare disgiunta da una celebrazione liturgica scevra da conflitti e contrapposizioni, vero telos della comunione («nel-la vostra concordia e (nell') armonica agape Gesù Cristo è cantato. E voi, uno ad uno, diventate un coro») e tangibile espressione dell'invisibile sintonia con Dio.

2. La seconda occasione in cui emerge il pensiero ignaziano sulla musica cultuale è costituita dalla riflessione sul valore teologico del martirio, visto come pienezza del discepolato.

Con tutta evidenza, il passo presuppone – entro una più generale visione sacrificale-cultuale della vita cristiana di ascedenza paolina – una concezione eucaristica-sacrificale del martirio. La comunità di Roma è pertanto invitata a predisporre, assecondandone il compimento e astenendo-si da inopportune manifestazioni di benevolenza, il sacrificio del martire per poter elevare a Dio Padre in Gesù Cristo il rendimento di grazie perché Ignazio è stato prescelto da Dio a svolgere un peculiare ruolo di natura eminentemente cultuale.

Insieme al martire, l'intera comunità è vista come consapevole beneficiaria dell'evento di sal-vezza che ivi si realizza: per questo la preghiera di ringraziamento – che a rigore dovrebbe spetta-re al martire, come nel martirio di Policarpo di Smirne – viene posta in bocca all'assemblea. Essa, divenuta coro che canta al Padre, trova nell'agape la propria sede naturale di espressione («dive-nuti coro nell'agape...»); d'altro canto, è l'agape a costituire i fedeli in coro, unità che costituisce il presupposto imprescindibile per un canto autentico.

Il fatto che Ignazio leghi strettamente l'espressione «diventare coro» alla celebrazione dell'eu-caristia si rifà alla prassi cultuale dei Terapeuti d'Egitto, descritta nel De vita contemplativa di Filo-ne Alessandrino. Questi ultimi leggevano fra l'altro in prospettiva pasquale i riti della grande festa delle «sette settimane», specie la veglia – consistente in inni eseguiti dai due gruppi in forma di-rettanea o a cori alterni insieme a danze, e che nel culmine della celebrazione divenivano un solo coro a voci alterne – era interpretata dai Terapeuti come mimema del canto inalzato da Mosè e Maria dopo il passaggio del mar Rosso (Es 15,1-21).

Questo background non è puramente estrinseco dato che, alle soglie dell'età costantiniana, Eu-sebio di Cesarea affermava in area asiana la sussistenza di pratiche pasquali riconducibili ai Tera-peuti alessandrini, contatti recentemente messi in luce studiando le relazioni fra liturgia alessan-drina e antiochena. È probabilmente in Asia minore che nel II sec. la paleoanafora si contamina con i temi della pasqua-passione mutuati dal genere autoctono delle omelie pasquali (cfr. l'anafo-

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ra di Ippolito). Istituendo un nesso fra l'assemblea che nell'agape diviene un solo coro e il rendi-mento di grazie innalzato dal coro durante l'agape in memoria del martire, Ignazio pare collocarsi nitidamente entro la linea pasquale-sacrificale di comprensione dell'eucaristia che va ad intrec-ciarsi con il tema dell'unità della Chiesa e della sua efficacia sacramentale, significata e realizzata dalla preghiera liturgica, di cui gli inni costituiscono una specie di analogatum princeps. 5. Giustino

Fino ad oggi, la più antica attestazione della struttura celebrativa dell’eucaristia era quella of-ferta da Giustino nell’Apologia prima, opera che pubblicamente intendeva fornire all’imperatore Antonino Pio una presentazione autentica della vita e degli insegnamenti dei cristiani, e che per-ciò rappresenta una importante testimonianza delle dottrine e delle consuetudini da essi comu-nemente accettate nella prima metà del II secolo, ivi compresi i riti liturgici.

In essa, Giustino presenta una doppia descrizione del rito eucaristico: quello post-battesimale (65) e quello domenicale (67), che mostrano una concorde successione di elementi rituali (raduno; lettura evangelica e profetica; omelia; preghiera comune; bacio di pace; presentazione del pane, vino e acqua; preghiera di lode e azione di grazie con acclamazione conclusiva (Amen); distribuzione dell’eucaristia) che, rispetto alla meno articolata descrizione fornita da Col ed Ef, mostra come – a 60-70 anni di distan-za – il canto di salmi, inni e cantici come modalità di attuazione della proclamazione/annuncio dell'evangelo si fosse trasformato nella preghiera comune (koinas euchas); elemento che, fra l'al-tro, consente di precisare il valore dell'innodia postlezionale negli ultimi decenni del I sec.

A questi testi se ne devono affiancare altri complementari, il più importante dei quali ai nostri fini è la descrizione del culto praticato dai cristiani (13) e del modo che essi hanno di rendere gra-zie al Creatore.

Dopo avere asserito che, per essere onorato, Dio non necessita di sacrifici cruenti, di libagioni o di offerte di incenso né della combustione dei doni da lui ricevuti per il sostentamento degli uo-mini, Giustino afferma che, con tutta l’intensità possibile, i cristiani lo lodano «con parola di pre-ghiera e di azione di grazie» su ciò che hanno ricevuto. L’espressione «parola di preghiera e di a-zione di grazie», si ritrova anche nel capitolo 66, e designa il rendimento di grazie di Gesù sul pa-ne e sul calice, che la Chiesa ha ricevuto da Gesù mediante gli apostoli e che a sua volta eleva, e grazie al quale pane e vino vengono eucaristizzati.

A questa prima descrizione del sacrificio cristiano fa immediatamente seguito una seconda, che elenca tre elementi costitutivi del rito: in quell’atto (ekeino), dice Giustino, i cristiani rendono grazie a Dio mediante «i proferimenti [pompas] di parola», l’innalzamento di inni di lode per esse-re stati creati, per tutti i beni atti a procurare forza all’uomo, per la diversa qualità delle specie e per il succedersi delle stagioni, e infine con l’elevazione di suppliche per essere nell’incorruttibilità mediante la fede in lui.

Il testo non presenta tutta la chiarezza auspicabile: da un lato, la menzione della proclamazio-ne della «parola» non appare sufficientemente esplicita, potendo l'espressione di Giustino desi-gnare le parole del rendimento di Grazie di Gesù sul pane e sul calice ovvero la proclamazione delle Scritture; dall'altro è solo probabile che i due elementi successivi (inni di lode e suppliche) si riferiscano alla preghiera eucaristica anziché alla preghiera comune dopo l’omelia, come è de-scritta nel capitolo 65 dell’Apologia I.

In ogni caso, sia che Giustino faccia riferimento ad una anafora strutturata in una pluralità di eucaristie, sia che abbia in mentre altri elementi strutturali della celebrazione eucaristica, ciò che qui mette conto rilevare è non solo come l'elemento innico fosse considerato parte integrante del culto «diverso» celebrato dai cristiani, ma soprattutto che mediante esso la comunità celebrante diveniva lo strumento di lode e di rendimento di grazie per tutti i benefici ricevuti.

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Conclusioni

Al termine della disamina di alcune fonti – certo non sufficientemente esaustiva e dettagliata come si sarebbe dovuto – quale quadro di riferimento tratto dalla norma patrum è possibile deline-are per la musica liturgica?

1. La musica cristiana è originale: non respinge né accoglie acriticamente i dati sia della tradi-zione che della cultura contemporanea, ma è sapientemente aperta e libera nei confronti di en-trambi; non rinuncia a dar vita al nuovo pur senza preclusioni nei confronti delle espressioni tra-dizionali.

2. Senza rinunciare alla propria identità cristiana né a operare scelte tecniche che la differen-zino dal contesto, è tuttavia espressione pluralista delle Chiese entro cui matura e da cui scaturi-sce: a livello linguistico, culturale, teologico, tecnico-formale.

3. È una musica strettamente radicata nella Scrittura, di cui è prolungamento e risonanza – un «modo» – entro la celebrazione.

4. In quanto riverbero della fede dei credenti che, raggiunti dalla Parola di Dio, esultano nello Spirito rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo, il canto è espressione del «noi» ec-clesiale manifestato dall'assemblea, strumento di lode a Dio con la parola e con la vita.

5. È pertanto in stretto rapporto con la qualità spirituale cristiana del vissuto dei fedeli e con la vita delle Chiese – che sono l'autentica lode a Dio - e non è solo genericamente «religiosa» o «spi-rituale».

6. La sua sede naturale è l'eucaristia – evento fondante dell'identità cristiana – tanto che que-st'ultima appare attratta nell'orizzonte del canto. In questo contesto, esso diviene segno e stru-mento dell'unità della comunità cristiana, la esprime e contribuisce a costruirla.

7. Ancor più, il canto e la musica sono atti autenticamente cultuali: entro la celebrazione non costituiscono delle – per quanto di rilevante valore – mere espressioni artistiche, bensì corri-spondono tipologicamente alla liturgia angelica, che ne è il modello e di cui partecipano la realtà e i valori.

Molti secoli ci separano dalle prime tracce di riflessione sulla musica per la liturgia cristiana, e

tutto lascerebbe supporre – considerando la quantità e la rilevanza dei fenomeni storici, culturali, ecclesiali intercorsi – che fra queste e il magistero più recente, quello dell'ultimo secolo, vi sia uno iato incolmabile. Eppure un filo d'oro c'è, e pare consistere proprio nel tema della connaturalità fra musica sacra e liturgia, cioè del nesso ontologico che le unisce (la partecipazione della natura e dei caratteri), radicato nell'interpretazione figurale della liturgia proprio della Chiesa antica.

Il motu proprio Tra le sollecitudini di Pio X (1903), che in materia di musica sacra aveva intenti fondativi e insieme normativi, si fondava su una concezione di vera arte come partecipazione di un'idea fondante, e soprattutto di Dio, principio e causa della bellezza: di tutto ciò la vera opera d'arte è adeguata ed efficace manifestazione. Quando la vera arte si pone a servizio del culto e de-dica a Dio quanto vi sia di più eccellente e degno di lui, nasce l'arte sacra. In questo senso essa – a differenza di quella profana – gode di uno statuto ministeriale: perché non è mera ars gratia artis, bensì arte plasmata e innervata dall'orientamento divino e dalla destinazione liturgica.

Nel pensiero del pontefice il canto e dalla musica sacra costituivano il paradigma per tutte le arti: non solo erano a servizio della liturgia, ma ne costituivano parte integrante (lat. necessaria), cioè vi erano ontologicamente connessi; perciò ne partecipavano i fini – la glorificazione di Dio e la santificazione dei fedeli – e le notae: la santità e la bontà delle forme (cioè la congruenza tra fini e qualità/modalità espressive), l'universalità (cioè il radicamento delle legittime diversità entro una koinè di riferimento).

Questo quadro avrebbe costituito l'inderogabile punto di riferimento di tutti i successivi inter-venti magisteriali fino al Vaticano II e oltre, per verità non sempre all'altezza del loro capostipite.

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Così, ad esempio, già la costituzione apostolica Divini cultus sanctitatem, promulgata da Pio XI nel 1928 in occasione del 25° anniversario del motu proprio di Pio X – pur intendendo porsi nel sol-co di esso, e raffinandone la dimensione disciplinare – segnava in realtà una regressione. Infatti, nonostante reputasse che la liturgia era alimento primario della fede, che arte e musica erano a servizio della liturgia, e che proprio per questo dovevano essere oggetto di accurata regolamenta-zione, le arti appaiono deprivate del nesso ontologico con la liturgia, e ridotte ad una mera fun-zione decorativa e strumentale («è di grande rilevanza – si dice – che quanto è ornamento della liturgia sia disciplinato dalle norme e dai precetti della Chiesa, perché le arti, com'è doveroso, servano veramente come nobilissime serve, al divin culto»).

I rapporti fra musica e liturgia non appaiono ben risolti neppure nell’enciclica Musicae sacrae disciplina (1955), pubblicata a suggello del 50° del motu proprio e della beatificazione di papa Sarto, avvenute l'anno precedente. Il documento, che beneficia dei nuovi apporti ecclesiologici e teolo-gico-liturgici di Mystici corporis e di Mediator Dei, rilegge il rapporto musica-liturgia nel più ampio quadro quadro delle relazioni arte-culto con un linguaggio più marcatamente scolastico, ma so-stanzialmente affine a quello di Pio X, e culmina nel definire la musica sacra «sacrae liturgiae quasi administra» (n. 13). Lo specifico rapporto fra musica e liturgia pare tuttavia risolto in ter-mini di semplice contiguità («la musica sacra, [...] è più vicina al culto divino che le altre arti bel-le» [n. 13]) o di funzionalità ornamentale («per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci» [n. 14]; «nulla può compiere di più alto e di più sublime dell'ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni [...] e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro»; «gli uffici che la stessa musica sacra compie quando accompagna ed abbellisce le altre cerimonie liturgiche» [n. 15]).

Entro il medesimo quadro si muoverà anche la minuziosa istruzione De musica sacra et sacra li-turgia del 1958 che, pur ribadendo genericamente nel proemio la stretta relazione intercorrente fra musica sacra e culto divino (v. nn. 21, 104) e affermando che essa «rende manifesta la magnifi-cenza dei divini misteri» (n. 24), fin dal titolo pare in realtà semplicemente giustapporre i due e-lementi: il canto è un mezzo per la partecipazione esterna dei fedeli (n. 22), la cui bellezza adorna i riti (n. 26) e favorisce la devozione dei fedeli (n. 24).

A pochi anni di distanza, la costituzione conciliare Sacrosanctum concilium avrebbe posto un nuovo punto fermo: non interessata ad una trattazione dottrinale ma al piano pastorale, per far sì che i fedeli passassero dalla recezione devota alla partecipazione attiva, consapevole e pia per ritus et preces (n. 48), procedette non per singoli punti di riforma, ma ad una riforma completa della li-turgia fondata su altiora principia di natura teologica.

Per quanto riguarda i temi della sacramentalità della musica e del canto liturgico, essi coinvol-gono una pluralità di piani, che una rapida ricognizione può solo enumerare: – quello estetico generale della relazione fra arti liberali, intese quale mimesis di Dio creatore, e la

bellezza divina, come pure il ministerium e la destinazione cultuale delle opere d'arte, non e-sclusa la musica (nn. 122, 127);

– quello cristologico, che contempla Cristo come vero cantore dell'inno di lode al Padre; colui che non solo mediante l'incarnazione ha introdotto in terra l'inno di lode elevato nei cieli, ma che soprattutto associa a sé in questo la Chiesa, che ne diviene in tal modo una continuazione (nn. 83-84), chiamata a conservarlo ed arricchirlo. Per questo nella Chiesa che «prega e loda» vi è la presenza di Cristo (n. 7);

– quello ecclesiologico, che nelle azioni liturgiche – di cui canto e musica sono parte necessaria e integralis (n. 112) – vede una manifestazione dell'intero corpo ecclesiale (n. 26), e nell'aspetto rituale (canto incluso) l'espressione della fede del popolo di Dio (n. 59) e della preghiera della Chiesa (n. 112);

– quello liturgico, che considera non solo la dimensione rituale come introduzione all'intelligenza del mistero della fede (per ritus et preces id bene intelligentes), ma soprattutto come mediazione che rende i fedeli partecipi (cioè stabilisce una relazione ontologica) dell'azione sacra (n. 48), la cui efficacia salvifica si esplica, seppur in modo non esclusivo, mediante la forma rituale (n. 49):

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per questo il canto e la risposta dell'assemblea costituiscono un medium che, orientando verso Dio, ottengono ai fedeli la grazia (n. 33). Identica sensibilità si ravvisa nell'istruzione applicativa Musicam sacram (1967), ad esempio a

proposito del canto come migliore manifestazione del mistero della liturgia e della sua natura ec-clesiale, nonché come prefigurazione della liturgia celeste (n. 5), ec come espressione della pietà, della fede e dell'unità dell'assemblea (n. 16, 37).

Ultimo in ordine di tempo, il chirografo stilato da papa Giovanni Paolo II di f.m. in occasione del centenario del motu proprio di Pio X, che rappresenta una autorevole sintesi e attualizzazione non solo dei caposaldi del magistero del XX secolo, ma anche del proprio vasto magistero perso-nale, contrassegnato da non pochi e non trascurabili interventi in materia musicale.

La cifra più autentica del documento pare consistere nella certezza della capacità posseduta dalla musica di farsi eco della parola di Dio e voce della Chiesa che celebra; «di esprimere adegua-tamente il Mistero colto nella pienezza di fede della Chiesa» (n. 4; cfr. anche n. 7), di interpretare la natura e il contenuto dei riti liturgici (n. 5), e insieme di essere «un vincolo di unità e un'e-spressione gioiosa della comunità orante» (n. 11) e della sua fede, «come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell'intervento salvifico di Dio» (Lettera agli artisti, 4 aprile 1999).

Una consapevolezza che perciò invita a spingersi oltre le notae indicate da papa Sarto, incorag-giando la serena ricerca di nuovi linguaggi (nn. 7, 10), senza rinunciare alla creatività né esimersi da un sapiente discernimento (nn. 6, 7), attento alla qualità delle espressioni musicali (n. 4), all'i-doneità e alla pertinenza liturgica delle composizioni (n. 5), emendando forme superficiali o posi-zioni elitarie (n. 6) che in ultima analisi vadano a detrimento dell'ecclesialità.

Come ha ricordato il pontefice, «è necessario che il "cantare nella liturgia" scaturisca dal senti-re cum Ecclesia. Solo così l'unione con Dio e la capacità artistica si fondono in una felice sintesi nel-la quale i due elementi – il canto e la lode – pervadono l'intera liturgia» (Discorso al PIMS, 19 gen-naio 2001).