Musica e Filosofia

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MUSICA E FILOSOFIA MUSICA E FILOSOFIA MUSICA E FILOSOFIA MUSICA E FILOSOFIA di Quirino Principe

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MUSICA E FILOSOFIAMUSICA E FILOSOFIAMUSICA E FILOSOFIAMUSICA E FILOSOFIA di Quirino Principe

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La filosofia è giudice di un'epoca;

brutto segno quando essa ne è invece l'espressione. HUGO von HOFMANNSTHAL

MUSICA E FILOSOFIA Parte prima

Il rapporto tra musica e filosofia, tra qualcosa che ogni uomo incontra tutti i giorni e molte volte al giorno dalle sue forme elementari alle più raffinate, e qualcosa che moltissimi uomini, la maggioranza, non incon-trano mai in tutta la loro vita, esiste sotto il segno di un paradosso. Nella cultura universale, musica e filoso-fia non si collocano in gradi di diverso rango all'interno della stessa scala gerarchica, ma occupano, ciascuna su una scala diversa e indipendente, il rango più alto. La filosofia non è una scienza particolare, tale da pe-netrare profondamente in un settore della realtà come disciplina specializzata: ad essa è sempre stato attri-buito il compito di unificare tutte le conoscenze, proponendosi come conoscenza suprema, e il suo linguag-gio specialistico, là dove appare, è motivato dalla necessità di concetti adatti all'unificazione del sapere. La musica, a sua volta, è un'arte diversa dalle altre: è un'arte-scienza (se ne ha un sommo esempio nell'ultima fase dell'opera di Johann Sebastian Bach), e in alterne epoche della cultura è stata riconosciuta come arte-sapienza. La collocazione di musica e filosofia, sapienze parallele, nella zona più alta dell'intelligenza, sa-rebbe la condizione ideale perchè l'una possa fondersi con l'altra, o almeno esserle di potente ausilio per il-luminare meglio la comprensione ultima e definitiva del reale. Questa intesa si è realizzata in brevi momenti della storia intellettuale, e in pochi uomini. L'armonia perfetta, il nodo indissolubile tra le due supreme for-me di sapienza, promessa di una conoscenza penetrante fino alle cose ultime e quasi sovrumana, sarebbe un paradiso dell'intelletto, ma il suo realizzarsi è stato effimero, e il suo equilibrio instabile. Nella storia della cultura, quasi sempre il rapporto tra filosofo e musicista è stato difficile, o almeno vissuto con freddezza da entrambe le parti; musica e filosofia, eccettuate rare e fuggevoli circostanze ideali, si sono ignorate, e come forme di conoscenza hanno mostrato la tendenza ad escludersi a vicenda. Questo fenomeno storico, nelle sue ragioni a volte palesi e più spesso nascoste, è un oggetto di discussione, e come tale lo offriamo ai lettori. Non c'è dubbio, tuttavia, che noi tendiamo a vederlo da un angolo ristretto e parziale, quello della nostra tradizione culturale, che non è l'unica, anche se cade spesso nella tentazione di credersi tale. La nostra tradizione, per una sua deformazione visiva, è eurocentrica ("Europa" significa, in senso estensivo, "Occidente") e modernocentrica. Esiste una sorta di razzismo metaforico che privilegia un determinato spazio e un determinato tempo. Con la parola "filosofia", la persona di media cultura uscita da studi liceali e universitari intende d'istinto la filosofia "classica" occidentale, non ha idee molto chiare sul pensiero che precede Platone e le grandi redazioni scritte, trascura la tradizione orale fondata assai prima di Socrate e della sofistica sull'intelletto simbolico e mitico, e, in senso opposto, si orienta con difficoltà sul pensiero odierno, quello del tardo Novecento; soprattutto, ignora nella generalità dei casi le filosofie non occidentali. Con singolare ma tutt'altro che casuale parallelismo, il pubblico di medie conoscenze musicali, frequentatore di concerti e magari educato alla musica come professione, si orienta con agio in un periodo ristretto della musica occidentale, dall'età barocca al primo Novecento, ma ha nozioni lacunose e incerte di musica antica e medievale, o di musica recente e oggi militante, e ignora per lo più la musica nata nelle grandi aree culturali diverse dall'Occidente. Così, quella che è detta con enfasi "cultura musicale" o "cultura filosofica" è in realtà una conoscenza maga-ri precisa e profonda, ma ritagliata come una piccola parte dal tutto, e ristretta a un settore del contesto in-terculturale e a una tranche cronologica; anche sulle ragioni di questa settorialità educativa, e sui problemi che essa genera, potrebbe aprirsi una lunga discussione. Ma poiché in un contesto organizzato e articolato la parte riproduce i caratteri del tutto e ci dà risposte eloquenti quando la analizziamo, è possibile osservare anche da un angolo ristretto alcuni comportamenti culturali che, allineati e accostati, appaiono stranamente contrastanti e danno la misura del difficile rapporto tra musica e filosofia. Ne enunciamo i tre principali, ri-feriti esclusivamente alla cultura d'Occidente. a) La nascita della filosofia e il sorgere delle teorie musicali sono eventi contemporanei e strettamente col-legati. Il periodo cui alludiamo è la civiltà ellenica matura che confluisce nella più ampia e composita civiltà ellenistica. E' una fase in cui tra musica e filosofia esiste un'intesa ideale, e spesso il filosofo e il musico o il teorico della musica si uniscono nella stessa persona: Pitagora, Platone, Aristotele, Filone d'Alessandria. Il legame, che ha per lo studioso moderno un fascino irresistibile, non può essere ridotto, come alcuni preten-dono, soltanto al suo appartenere a una fase "aurorale", in cui i rami della sapienza sono confusi e indistinti.

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Esso è motivato anche da una qualità di fondo, ossia dal carattere precristiano di quella cultura: anche su questa dichiarazione dovrebbe svilupparsi un dibattito. Il cristianesimo, che fu inizialmente avverso alla mu-sica e spinse talora la sua avversione fino all'odio, alla censura e alla persecuzione, intuendo la natura de-moniaca dell'arte musicale e considerando moralisticamente peccaminoso il suo altissimo edonismo, si trovò disarmato dinanzi alla realtà dei suoni organizzati in linguaggio, privo di strumenti culturali capaci di af-frontarla e di rielaborarla. Ciò avvenne anche perché il cristianesimo non riuscì a possedere una filosofia propria, e attinse paradossalmente, per propria difesa intellettuale, alla filosofia ellenica ed ellenistica precri-stiana, a Pitagora, a Platone, ad Aristotele, a Plotino, a Seneca. Di conseguenza, l'atteggiamento della "filo-sofia" cristiana di fronte alla musica si frantumò, scegliendo nella prima fase del cristianesimo intellettuale un'intelligente e colta subordinazione alle dottrine antiche (è il caso di Boezio), e allontanandosi con indiffe-renza dalla musica nella fase scolastica della filosofia medievale. Nella cultura europea del tardo medioevo, la dissociazione è quasi completa: Zarlino e Glareano sono lontani da Tommaso e Bonaventura. Filosofi scolastici da un lato, teorici del discanto o dell'ars nova dall'altro, operano in sfere diverse e non comunican-ti. b) la filosofia moderna nella sua linea "classica" (quella oggi studiata nelle scuole sui manuali, per intender-ci) si occupa della musica di rado, o con indifferenza, e tende a sottovalutarla. Cartesio è un'eccezione, ma Spinoza, Hume, Kant, Croce rientrano nella regola di una sostanziale estraneità. Hegel sembra dare molto spazio alla musica, ma soltanto per coartarne la definizione, subordinandola al proprio sistema concettuale. Non è un caso che i tre filosofi europei dominati dal fascino della musica, Schopenhauer, Kierkegaard, Nie-tzsche, siano stati odiati e respinti (come "non filosofi") dall'establishtnent filosofico professorale e universi-tario, soprattutto dagli eredi dello hegelismo. In parallelo, i massimi musicisti della tradizione classica e ro-mantica, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, ricambiarono i filosofi dei secoli XVIII e XIX con un atteggiamento di analoga estraneità. Certe più attente curiosità, come nei casi di Schumann o di Ma-hler, si limitarono alla sfera personale e a letture frammentarie. L'attenzione sistematica di Wagner per Schopenhauer è un caso isolato, una simmetria a specchio rispetto alla celebrazione della musica compiuta da quel filosofo. L'interesse del giovane Richard Strauss per Nietzsche si spense interamente in anni maturi. S'impone un giudizio d'insieme: non c'è quasi possibilità d'intesa tra la musica e la filosofia orientata (come appunto quella "classica") verso il cosiddetto "pensiero forte", ossia sistematico, articolato da cima a fondo in categorie onnicomprensive, tendenti a definire in maniera organica tutto il reale, la natura fisica e la sfera logica, la psiche e il mito, la politica e l'arte. c) La possibilità d'intesa è invece molto forte quando la musica entra in rapporto con il cosiddetto "pensiero debole", ossia elastico, non sistematico, prevalentemente analitico: con il fenomenologismo di Husserl, con Heidegger e la sua dottrina esistenziale-ontologica, con il marxismo eretico di Adorno, con l'indagine critica sulla cultura condotta da Ernst Bloch. A questo proposito, il legame tra Schönberg e Adorno è esemplare, ma lo è non meno quello tra Bergson, Debussy e Proust. I tre comportamenti descritti rivelano, nella loro contraddittorietà e mancanza di correlazione, immensi vuo-ti, come sempre accade quando si allinea una serie di constatazioni. E' ciò che tocca, in ogni romanzo giallo, al povero detective posto per la prima volta dinanzi al delitto. E' nostra ambizione compiere almeno il tenta-tivo di colmare quei vuoti, allargando doverosamente l'orizzonte nel tempo e nello spazio, e uscendo dalla visione eurocentrica e modernocentrica. Il tentativo esige però che si faccia luce su tre premesse. 1) I tre comportamenti che abbiamo colto scorrendo la storia dei rapporti tra musica e filosofia sono, appun-to, "storici", e sottintendono un divenire tormentato e pieno di conflitti intellettuali. Ma il divenire è una ca-ratteristica della cultura d'Occidente. Altre tradizioni, in cui la filosofia ha raggiunto altissimi enunciati e la musica un altissimo grado di elaborazione teorica, non hanno conosciuto simili trasformazioni, o le hanno subite in misura minima. In Occidente, ogni forma di cultura, e in particolare la filosofia e la musica di cui ci occupiamo, è stata arricchita e complicata da un'evoluzione il cui peso è immenso. Di conseguenza, è immensa l'importanza della componente storica e delle coordinate spazio-temporali che di volta in volta la definiscono. Nelle civiltà di origine extraeuropea l'evoluzione è stata, nell'ambito teorico, debole o inesisten-te. Ciò non è affatto il segno di un'inferiorità, bensì di una diversità (che in taluni casi può anche essere su-periorità) della quale dovremo tener conto con la massima attenzione. Per fare un esempio, il fatto che nella tradizione musicale dell'India moderna il sistema delle gamme e l'impiego degli strumenti sia quasi identico a quello delle età più antiche, che non ci sia stata un'evoluzione contrappuntistica, che non si sia sviluppato

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un organico orchestrale di tipo wagneriano, non indica "povertà", ma soltanto continuità e fedeltà all'origine: è il prezzo pagato al persistere in una vasta riconoscibilità e comunicabilità sociale della musica. Per la tra-dizione occidentale potrebbe valere il discorso opposto. 2) Quali tradizioni non occidentali dovremo esaminare? La filosofia, è stato detto, nasce dallo stupore di fronte al mondo, e come tale è un atteggiamento innato in ogni uomo. Ma al nostro discorso è utile esclusi-vamente il considerare quei casi in cui la filosofia diventa una disciplina autonoma, e in quanto "disciplina" può essere elaborata, ordinata, insegnata e trasmessa. Dobbiamo evitare ogni confusione tra filosofia da un lato e religione, cosmogonia, teologia, mitologia dall'altro. Le aree che ci interessano sono soprattutto l'E-stremo Oriente (Cina, Giappone), l'India, l'Islam, la tradizione ebraica, la quale tuttavia è intermedia tra le antiche culture del vicino Oriente e il mondo ellenistico e cristiano. Accanto a queste aree, e non in contra-sto con esse (tanto meno, in un rapporto di eminenza), l'Occidente, al quale però dev'essere riservato di ne-cessità maggiore spazio proprio a causa della sua continua diversificazione nel tempo e delle molteplici forme che esso, in nome dell'evoluzione che gli è propria, ha assunto nella storia. 3) Preliminare ad ogni considerazione parziale sarà la definizione dell'essenza che, nelle varie civiltà, defini-sce il rapporto tra musica e filosofia, e, prima ancora, sarà necessario capire in quali varie forme sia stata di-chiarata l'essenza della musica da un lato, della filosofia dall'altro. Il nostro prossimo intervento sarà quindi una ricognizione storica e interculturale in cui tenteremo di dise-gnare una mappa ordinata e il più possibile esauriente del rapporto musica-filosofia nelle sue varianti e combinazioni, così come le grandi aree culturali lo hanno intuito e voluto. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.1, gennaio 1990)

Une coscience musicale est toujours en situation; elle appartient à un

certain milieu, à une certaine époque, et se trouve informée par un certaine culture.

Ernest ANSERMET

LA MUSICA E LE IMMAGINI DEL MONDO Parte seconda

Disegnare a grandi linee una mappa delle civiltà musicali alla luce del rapporto tra musica e filosofia è un nostro impegno che avevamo promesso ai lettori. Apriamo la ricognizione con una frase custodita da Ernest Ansermet fra le mille pagine del suo libro capitale Les fondements de la musique dans la conscience humai-ne, ispirata a ragionevole relativismo storico. Con il suo senso del relativo, la frase non è propriamente cla-morosa, il suo rilievo è basso e non emoziona. Ma nell'esteso intreccio di pensiero che costituisce l'opera fi-losofico-musicale di Ansermet, essa è soltanto un presupposto dialettico alla scoperta del senso universale, non relativo, e persino a priori, presente nella musica. Quando interroghiamo la musica, continua Ansermet, essa ci richiama al suo atto d'esistenza, e poiché un atto non può essere compreso se non partiamo dal suo senso, è necessario intuire il rapporto tra la coscienza e il mondo dei suoni. Soltanto il carattere universale di questo significato che dobbiamo attribuire alla musica ci permette di capire la chiave di lettura di un'opera particolare. Questa qualità della musica, che s'impone come un sublime paradosso, rende quest'arte la più idonea a en-trare in rapporto con la filosofia. Esiste, nella natura dei due linguaggi, quasi uno scambio di ruoli. La filo-sofia è un linguaggio universale, e perde i suoi connotati se trae le proprie ragioni da fenomeni definiti nel tempo e nello spazio. La musica è anch'essa un linguaggio universale, ma trova la propria universalità sol-tanto nell'opera, o in un frammento, che nel tempo e nello spazio s'individualizza. Esiste però un terreno che permette a musica e filosofia di affiancarsi come due forme di suprema conoscenza del mondo, o addirittura di convergere. Quel terreno è la facoltà, propria ad entrambe, di rappresentare in termini simbolici le con-nessioni tra le realtà che costituiscono il mondo; la simbologia rende inevitabile l'uso delle immagini, le quali non sono il mondo, ma ad esso alludono per analogia. Nella musica, la realtà fisica del suono ha signi-ficato perché si articola e si delinea secondo rapporti di pausa e di durata, di simmetria o di asimmetria, di

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ritmo binario o ternario, regolare o irregolare, di superiorità o inferiorità nella gamma, di prolungamento o di suddivisione, di orizzontalità o di verticalità. Sono tutti criteri che consentono di vedere il mondo sub specie musicae. Nella filosofia, malgrado la necessità di formulazioni rigorosamente astrattive, la stessa terminologia non può sfuggire alle idee di trascendenza e immanenza, di connessione sillogistica; il rapporto di mimesi che alcune filosofie hanno definito tra il trascendente e l'immanente (per esempio, il platonismo: un rapporto eminentemente "visivo", costruito su immagini) è adombrato, nella musica, dai procedimenti d'imitazione (il canone, la fuga), l'angoscioso tema filosofico dell'uno e del molteplice si riflette in chiave analogica nella forma musicale del tema con variazioni. Paradossalmente, risulta anzi che il linguaggio della filosofia è più "visivo" di quello della musica; di conseguenza, le filosofie si sono assunte il compito, soprat-tutto agli esordi delle diverse civiltà, di tradurre in immagini la relazione tra la musica e il mondo. Nelle di-verse strategie di pensiero che hanno tentato di definire questo legame è il tono, il carattere e lo stile delle diverse civiltà nella loro integrale fisionomia. Nella mappa che illustra il nesso filosofia-musica così come diverse civiltà lo hanno interpretato, entrano in gioco tre fondamentali alternative: la prima è in relazione con l'idea a priori e con il principio di causalità, la seconda con l'analisi del linguaggio, la terza con la dialettica soggetto-oggetto. 1) La questione dell'assoluto a priori metafisico e della catena causale si presta all'alternativa: - (a) Il mondo è il modello della musica, l'exemplar secondo le cui forme essa si genera e prende forma; il mondo crea la musica ed è creato dalla musica. - (b) La musica, all'inverso, è il modello del mondo, l'archetipo di cui l'universo è imitazione; la musica crea il mondo, o almeno la sua esistenza precede il mondo. 2) Nella visione, sia essa mitica o prescientifica o scientifica, della struttura che regge le cose, due tendenze opposte si alternano o si escludono: - (a) E' possibile riconoscere caratteri formali comuni, quasi un comune scheletro portante, nella musica e nella realtà universale. - (b) Non esiste alcun carattere comune; anzi, strutturalmente la musica e l'universo sono l'una la negazione dell'altro, sicché la musica rappresenta una ra~ dicale antitesi nei confronti del mondo. 3) Il grande tema della possibile coincidenza tra pensiero ed essere, della soggettività come possibile spec-chio della realtà cosiddetta oggettiva, divenuto drammatico e destabilizzante con la "rivoluzione copernica-na" di Kant, è in verità presente, con il suo potenziale angoscioso, in diverse epoche e in diverse aree cultu-rali del pensiero filosofico. In un'accezione che sembra particolare e persino marginale agli occhi del "reali-smo ingenuo" dominante nella prima Scolastica, ma che si rivela essenziale e addirittura riassuntiva dell'in-tera relazione soggetto-oggetto nelle sue molteplici varianti, il problema è in sostanza se il linguaggio sia unicamente lo strumento conoscitivo che ci consente di decifrare la realtà, inesorabilmente intesa come "al-tro", oppure se non sia esso stesso la realtà. Nella filosofia occidentale, cui ci riferiamo non perché più im-portante ma perché a noi più immediatamente nota, la terribile questione è aperta scandalosamente dalla so-fistica, è adombrata dai nominalisti medievali, tende le sue reti insidiose a insospettabili filosofi di ortodossa tradizione cristiana (Anselmo d'Aosta e la sua prova "ontologica" dell'esistenza di Dio), si fa acuta e insana-bile, come sappiamo, nella dialettica trascendentale di Kant, dilaga irrefrenabile nel pensiero neopositivisti-co di Carnap, di Gödel e di Wittgenstein come nella più recente indagine analitica di Foucault. La musica è per essenza un linguaggio, e quindi entra nel gioco; fra le varianti interpretative, esiste quella secondo cui la musica non è un linguaggio, ma il linguaggio conoscitivo per eccellenza. Si delineano così due alternative fondamentali: - (a) La musica è oggetto di conoscenza metafisica, oppure, all'inverso, conoscenza ausiliaria e rivelatrice. - (b) La musica non è né oggetto né strumento di ausilio al sapere filosofico, ma è essa stessa filosofia: una sapienza suprema, che tutto risolve in sé. Nel rapporto musica-filosofia emergono così, in tre coppie di alternative, sei indirizzi fondamentali. In mo-do decisivo, segnando ciascuno una direzione che incide un segno incancellabile nelle diverse tradizioni e scuole di pensiero, essi collocano la musica in un ruolo centrale all'interno dello sforzo con cui le filosofie costruiscono ciascuna la propria visione del mondo o Weltanschauung. La nostra elementare analisi ha l'in-tento di mostrare come i sei indirizzi, variamente combinati, finiscano per aggregarsi in una serie di formule più complesse attraverso cui è possibile riconoscere le particolari vocazioni che hanno sospinto le diverse civiltà verso una definizione del rapporto musica-filosofia, sul rischioso terreno dell'immagine del mondo

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così come il pensiero filosofico tende a disegnarla. Il nostro schematismo è deliberato e vuol essere un'ipo-tesi classificatoria iniziale. La formula combinatoria individua fedelmente, crediamo, le grandi manifesta-zioni storiche della filosofia, nel tempo e nello spazio, ma le varianti, le sottovarianti e le sfumature sono in-numerevoli. Prima del nostro tentativo di classificazione, s'impone un'ultima premessa, che richiama al no-stro intervento precedente. Esaminare la filosofia occidentale, nel suo arco storico, a fianco delle grandi tra-dizioni filosofiche nate in altre aree di civiltà, significa paragonare termini eterogenei. Le filosofie orientali hanno nella storia uno sviluppo di debole rilievo; la loro sostanziale uniformità nel tempo è il prezzo pagato alla persistente forza delle loro premesse tradizionali, che hanno continuato a incidere nelle cose, nelle isti-tuzioni pubbliche e nel modo di vivere, con un mordente ormai non familiare all'Occidente, dove la più ac-centuata tendenza alla libertà della filosofia e delle arti, alla democrazia autentica, coincide con il "pensiero debole". Un esame diacronico di quelle civiltà filosofiche ce le rivela analoghe, per quanto riguarda la loro omogeneità e persistenza se non sotto altri aspetti, a ciò che la Scolastica medievale fu nell'Occidente cri-stiano, ma certo esse non potrebbero essere più lontane dalla ricchezza di posizioni autonome, articolate e spesso autentiche presenti nell'antico pensiero ellenico come nella filosofia europea dell'era moderna. La circostanza ineludibile ci suggerisce, nella mappa che segue, di considerare anche l'Occidente filosofico nel-la sua vocazione di fondo, nei suoi inizi, e piuttosto come tradizione che non come storia. Nella cultura filosofica dell'India classica, nata a fianco della letteratura religiosa induista, la musica non è soltanto il modello del mondo: ne è la creatrice, o piuttosto è lo strumento di cui Brahma si serve per trarre il mondo dalla non esistenza. Nulla tuttavia, in quella tradizione, lascia intendere che la musica sia essa stessa oggetto di creazione nel senso ebraico-cristiano: essa è preesistente ab aeterno. Ma se il mondo è inizial-mente modellato secondo archetipi musicali, questa fase aurorale cede il posto a un allontanamento progres-sivo dell'universo creato dalla sua fonte generatrice. La musica è il Bene e la Verità, mentre il mondo ne è l'antitesi, ed è quindi il Male. La via alla salvezza consiste essenzialmente nel negare il mondo, tendendo a-sceticamente alla condizione premondana, oggetto di speculazione metafisica: la pura musica preesistente. Il totale straniamento del mondo dalla musica originaria rende impossibile l'attribuire alla musica una funzione di sapienza interprete delle cose e dei loro nessi; nulla di simile alla sofia ellenica. Filosofia è il tendere del mondo a riconfluire nella musica, ma non può essere la musica stessa (formula 1-b/2-b/3-a [=0]). A proposi-to dell'alternativa (3-a), da noi data come uguale a zero, conviene osservare che nella civiltà filosofica del-l'India classica la musica è, come si indicava nella precedente distinzione analitica posta a premessa di que-sta classificazione, oggetto di conoscenza metafisica, ma soltanto nel senso che è la "conoscenza di una non conoscenza del mondo". Nelle civiltà dell'Estremo Oriente, e in particolare nella cultura cinese classica lucidamente analizzata in Occidente, nella sua filosofia, da Marcel Granet, e nella sua musica da Maurice Courant e Alain Daniélou, non ha alcuna evidenza l'idea di creazione in senso ontologico, e tanto meno in una prospettiva trascendente. La musica non è il modello del mondo, ma si modella su di esso secondo principi universali, che riproduco-no, anche in vista di una minuziosa educazione estetica da cui dipende (a un livello inferiore) l'educazione etica, le strutture e i nessi universali. Non soltanto esistono, tra la musica e il mondo, precisi caratteri comu-ni, oggetto di attenta analisi da parte dei teorici, ma in generale tutta la simbologia della musica e delle arti (altezza del suono, colore, sapore, modo musicale secondo cui intonare gli strumenti, foggia degli abiti, pun-ti cardinali cui orientarsi, ciclo stagionale, animali e vegetali) viene classificata secondo un'immensa tavola sinottica di corrispondenze e analogie. Le varie simbologie dividono l'universo in settori intellettuali: la mu-sica è un settore della sapienza suprema, ma non è la filosofia, anche se in una fase della cultura cinese clas-sica, che osserveremo da vicino in un prossimo intervento, essa aspirò a tale funzione (formula 1-a/2-a/3-a). Nella civiltà dell'antico Egitto, il mondo è creato da un dio mediante una risata intonata su sette note musi-cali: la musica, come appare da questo mito filosofico-matematico costantemente ripetuto nel Libro dei Morti, non è quindi la creatrice del mondo, ma ne è uno dei possibili modelli. La rarità di testi il cui senso possa convergere con questa sorta di cosmogonia musicale rende incerto il carattere universale del nostro giudizio. Ma la civiltà egizia, negativa e antivitalistica, dà alla sfera notturna e funebre una centralità che e-sclude la connessione strutturale tra le cose votate alla dissoluzione, le cui radici sono sprofondate nel miste-ro: soltanto la musica svela, in un atto di fede prossima all'autoannientamento dell'intelletto, l'ordine in cui collocare le essenze arcane, dalle viscere contenute nel canopo agli ideogrammi magici e salvifici. La musi-ca, che nella civiltà egizia occupa un posto più ampio a paragone con le altre culture dell'antico Oriente, è così anche la sintesi della sapienza suprema, in cui magia, medicina e scienza della scrittura confluiscono e si annodano (formula 1-b/2-b/3-b). Altissimo ruolo assegnato alla musica, forse il più alto fra le diverse grandi tradizioni; tenebrosa Weltanschauung.

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Pìù luminosa, ma certo meno emozionante, è l'immagine del mondo e del legame tra musica e filosofia in una tradizione che ci è più familiare, quella ebraica, ma in un settore percorso abitualmente non tanto dai credenti ortodossi quanto dagli specialisti di studi storico-filosofici. Si tratta, infatti, della prima vera scuola filosofica fiorita nella cultura ebraica sul terreno della rivelazione biblica, quella dell'ebreo ellenizzato Filo-ne di Alessandria (tra il I secolo a.C. e il I d.C.). Malgrado il vigoroso innesto del platonismo (Filone fu il "Platone giudaico", come lo definirono i Padri della Chiesa orientale), la radice ebraica conserva la sua forza determinante. Nella analisi allegorica che Filone fa della Bibbia, Dio crea il mondo usando la struttura della scala musicale dorica come modello, o "cartone" per il grande affresco, e ciò spiegherebbe la perfezione di quel "buon lavoro" dopo il quale Dio, il settimo giorno, si riposò. Ciò spiega anche i caratteri formali comu-ni alla struttura delle scale musicali e all'ordine dell'universo. Tuttavia, Filone attribuisce alla musica, in quanto arte umana, un carattere educativo, o di decorativo allietamento della vita: il pregiudizio moralistico e antiedonistico, tipico delle grandi tradizioni legate a una religione monoteistica, lascia il segno indelebile (formula 1-b/2-a/3-a). La civiltà islamica è quella che, almeno in una precisa e delimitata fase storica, meno si allontana in termini filosofici della vivacità e rapidità di sviluppo della filosofia occidentale. Dopo il X secolo, il fiorire di molte eresie in campo religioso favorì anche la nascita di scuole filosofiche diverse tra loro, e assai poco eterodos-se. Ma se vogliamo limitarci al tronco centrale del pensiero filosofico, che nel mondo islamico si proclamò come una via alla sapienza universale (all'ombra del Corano) tra il trionfo di Muhamad e la fine della dina-stia abbasside (cioè tra il VII e il X secolo), siamo colpiti da un paradosso apparente. In tutti i settori della società islamica, in quel periodo aureo, e a tutti i livelli, la musica è la privilegiata fra le arti: ricchezza di me o e, grande numero di musici compositori cui la tradizione letteraria attribuisce fama e agiatezza, alta consi-derazione in cui i professionisti di musica sono tenuti, varietà di strumenti musicali molto elaborati. A fronte di quel mondo di delizie sonore, una filosofia dominante che assegna un ruolo decisamente umile alla musi-ca: un mezzo di devozione, un'utile e dilettevole pedagogia, o una maniera raffinata di arricchire i piaceri dei sensi (e quali piaceri!). Nella cultura islamica, fatta eccezione per una celebre setta ereticale del Khora-san, la musica non è mai un elemento archetipico dell'universo, né la chiave per decifrare, in nome di linee strutturali comuni e universali, i segreti delle cose; non ha una parte decisiva nella magia: non è mai assunta al livello di linguaggio assoluto e di sapienza suprema (formula 1-a/2-0/3-0). Nella tradizione filosofica gre-co-ellenistica, che è l'asse centrale della nostra eredità, esiste già quella caratteristica dello spirito occidenta-le che è la varietà di orientamenti e la sostanziale laicità del pensiero. Sotto questo aspetto, come vedremo in successivi interventi, il legame tra musica e filosofia è diverso in Platone e nel suo immediato discepolo A-ristotele. La natura filosofica e sapienziale della musica è privilegiata lungo il segreto filo di pensiero che collega i pitagorici delle prime scuole al Platone, appunto, "pitagorico" (quello della Politeia e del Menone), ad alcune sette gnostiche del III e IV secolo d.C. Qui la visione del mondo è tale da innalzare la musica a somma realtà metafisica, universale ed eterna, di cui il mondo è ombra e mimesi: i rapporti tra i suoni sono archetipi delle cose, la cui struttura è su essi modellata, e la musica è rivelazione delle cose ultime (formula 1-b/2-a/3-b). La classificazione ha posto volutamente in ombra la dimensione diacronica, la quale, una volta illuminata in pieno, rivelerebbe come tra le diverse tradizioni sono esistite in alcune fasi storiche ora coincidenze, ora di-vergenze graduali da radici comuni, ora confluenze e sincretismi. Anche per esaminare più da vicino questi dettagli, tratteremo, nel nostro prossimo intervento, il rapporto musica-filosofia nell'ambito di tre tradizioni orientali poste a occidente, al centro e a oriente della "fertile mezzaluna": l'antico Egitto, il mondo ebraico, l'India classica. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.2, febbraio 1990)

Gli dèi, temendo la morte, si rifugiarono nei metri della poesia. Ma anche là li rintracciò la morte.

Allora gli dèi si rifugiarono nel suono, e il suono primordiale è la sillaba OM, l'immortale e senza paura.

Chandogya Upanishad, I, 4, 1-3

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MUSICA E FILOSOFIA NELLE VISIONI ORIGINARIE DEL MON DO Parte terza

Nella ricerca del nesso musica-filosofia, assumiamo come centro di una prima descrizione l'area di civiltà che, da occidente ad oriente, abbraccia l'antico Egitto, l'ebraismo dai primi scritti biblici alla diaspora, l'India classica. La cornice può sembrare arbitraria, e in parte lo è. Tra l'Egitto, la Palestina e la Mesopotamia esiste una continuità geografica, e persino etnica; l'India costituisce un altro spazio terreno, e le montagne più alte del pianeta sono la linea di separazione. Eppure, la tentazione di osservare insieme quei territori è forte, né mancano ragioni a darle conforto. L'Egitto da un lato, l'India dall'altro sono i limiti intellettuali e psicologici del mondo antico secondo la visione occidentale, e all'interno di quei limiti furono possibili sguardi conver-genti, nozioni precise e occasioni d'incontro: greci e romani conoscevano l'India, Alessandro di Macedonia la raggiunse e il suo nome deformato percorse il subcontinente indiano come quello di un minaccioso dè-mone. Anche oggi ne restano tracce. Al di là dell'India cominciava davvero un mondo favoloso e quasi irre-ale, della cui esistenza molti dubitavano. All'inverso, a occidente dell'Egitto la civiltà ellenistico-latina ve-deva terre la cui fase antica era poco interessante barbarie, e la cui esistenza reale s'identificava soltanto con la più tarda civilizzazione attuata da greci e romani. Tutto questo consente una visione d'insieme, e non mancano altre immagini unificanti. Una soprattutto appartiene a eventi successivi: l'area dal confine occi-dentale dell'Egitto al limite orientale dell'India è divenuta nel tempo il centro geografico della cultura isla-mica, chiuso entro due ali estreme, l'Africa settentrionale a ovest del Nilo e l'Asia sud-orientale a est del Bengala fino all'Indonesia. Così riusciamo ad avere la visione tutt'altro che omogenea ma almeno tale da ca-dere tutta insieme entro il cerchio della nostra lente. Esistono, al di là dello schema geografico, qualità co-muni ai tre luoghi di civiltà. La valle del Libro dei morti, la terra della Bibbiae la penisola consacrata dalla tradizione dei Veda fondarono tutte e tre una musica di prim'ordine e di prim'ordine fu il ruolo che la musica ebbe nelle tre culture. In tutte e tre si sviluppò un pensiero "forte" come visione del mondo, con un fonda-mento metafisico. Le difficoltà irrompono quando osserviamo le diversità, non tanto quelle che esistono in sé e che per noi non è facile individuare oggettivamente, quanto le diversità che appaiono a noi attraverso il diaframma del tempo e delle memorie nascoste. Sulla musica dell'antico Egitto la nostra conoscenza si ridu-ce a pochi frammenti, anche se il mistero si schiude in vividi lampi. L'antica musica ebraica dovrebbe esser-ci più nota poiché ad essa ci lega una tradizione intrecciata con la musica d'Occidente, ma proprio la media-zione ininterrotta è deformante. Abbiamo ampie e organiche notizie, invece, sul sistema musicale dell'India classica. Quanto al pensiero " forte" e altamente metafisico che nacque in varie forme nelle tre aree, esso dà prove antichissime e straordinarie nella valle del Nilo, ma la sua decifrazione è resa ardua dal linguaggio mitico che di quel pensiero è insieme la forza e il velame. Il popolo della Bibbia mostra un'irresistibile vo-cazione al filosofare, ma la sua tradizione antica, davidica, salomonica e profetica sente il peso del linguag-gio teologico che insiste sulla rivelazione divina e occulta in gran parte il vero nucleo filosofico; parados-salmente, quel nucleo viene alla luce nel momento in cui la tradizione biblica incontra la filosofia ellenisti-ca, di tradizione platonica e stoica, e con essa avvia un processo di fusione: il cui maestro è il giudeo elle-nizzato Filone d'Alessandria. In questo caso, gli epigoni ci spiegano meglio la natura delle prime fonti, e l'eccezione che l'ebraismo rappresenta nella storia della filosofia è addirittura confermata dagli esiti ulteriori: il talento filosofico di quell'anima e di quella cultura raggiunge il vertice nell'epoca moderna e secolarizzata, da Baruch Spinoza a Martiri Buber a Harmah Arendt. L'India classica, a sua volta (ecco un'altra diversità che colpisce), è al di fuori dell'Occidente il terreno che più di ogni altro ha prodotto una filosofia vasta, or-ganica e autonoma rispetto al mito e alla cosmogonia (la variante egizia) e rispetto alla teologia e all'etica (la variante ebraica): quindi, l'unico terreno di cultura in cui la parola "filosofia" abbia il significato di specula-zione assoluta proprio della civiltà ellenica, e, in prospettiva, dell'intera civiltà occidentale. Chi cerchi un "pensiero speculativo" nei documenti dell'antico Egitto (e per molti aspetti, in quelli dell'antica Mesopota-mia) difficilmente troverà nelle fonti scritte un "pensiero" in senso stretto. Pochi passi mostrano la disciplina e la forza raziocinante che siamo soliti associare alla filosofia come in Occidente la intendiamo. Nell'antico Medio Oriente, il pensiero è ammantato di immagini, e potremmo considerarlo contaminato dalla fantasia. Tuttavia, la differenza si attenua se ricordiamo che le origini del pensiero ellenico furono anch'esse intuitive, immediate e imaginistiche, più vicine alla poesia che alla scienza, e che proprio in Occidente l'ultima fase, reagendo a secoli di filosofia sistematica e rigorosamente logica, si è orientata verso una editazione assai più vissuta che non o oggettiva sul "sé" dell'uomo (Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Sartre, Husserl, Heideg-ger). La differenza fondamentale tra l'atteggiamento filosofico moderno e quello antico e mitico è la seguente: per

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l'uomo moderno dell'Occidente "scientifico" il mondo fenomenico è in primo luogo un quid; per l'antico e-gizio è un "Tu". Questo cancella la rigorosa distinzione tra soggetto e oggetto: durante le alluvioni, il fiume non rifluisce perché "si rifiuta" di rifluire, e l'uomo è costretto a identificarsi con le sue acque per capire le ragioni del rifiuto. Per l'antico egizio, filosofia era essenzialmente trovare le vie per legarsi alla natura nel contesto delle sue misteriose relazioni, all'universo nella sua totalità. I simboli illustri presenti nella scrittura geroglifica, che è tutt'uno con l'iconografia egizia, non sono segni, ma realtà attive. La notissima croce ansa-ta o ankh (ankh significa "vita" o "vivere" o "vivente" cara una ventina d'anni fa agli hippies che la ostenta-vano al collo manifestando velleità di primitivismo e di originarietà contro l'oggettivismo della tradizione occidentale, non era, per l'abitante dell'antico Egitto, un segno: era realtà e sovrappiù di forza vitale. Per lui, disegnare la croce ankh su una parete o scriverla su un papiro, non era "indicare" un concetto ma "essere" quel concetto. Era l'intensificare la propria vita, magari un garantire meglio la propria speranza d'immortali-tà. Era, quindi, un modo di fare della filosofia. Ora, fra i simboli fondamentali dell'antico Egitto c'è l'udjat, parola che significa "occhio del suono". Per collocare l'udjat (sormontata da un vigoroso sopracciglio, l'im-magine è quella di un occhio sagomato a testa di falco con un'iride rossa e una grossa pupilla; dalla palpebra inferiore si dirama il ricciolo della corona faraonica) nel suo ruolo metafisico, siamo costretti in prima lettu-ra a riconoscerne il mito. Seth, il dio del male, strappa un occhio a Horus, il dio-falco, il quale, privo del suo organo essenziale, cade in pezzi. Thot, che vuole restituire Horus alla vita, ne ricompone le membra, ma l'o-pera è inutile finché non sarà ritrovato l'occhio. Thot lo cerca pazientemente, e già dispera di trovarlo, quan-do è colpito da una musica misteriosa la cui fonte è irrintracciabile. Si accorge alla fine, guidato dal suono verso la sua origine, che la musica proviene dall'occhio, anzi, è l'occhio. Meglio: l'occhio di Horus è la fonte di tutta la musica esistente sulla terra. Thot raccoglie il prezioso organo, lo reinserisce nel corpo di Horus, il quale riprende a vivere. Disincarnando l'apologo dal suo rivestimento mitico, otteniamo una formula illumi-nante. Tutta la realtà è vivente, nel pensiero dell'antico Egitto, ma la musica è l'essenza segreta e intima del reale. Quando la musica è "al suo oosto naturale", cioè insita nell'essere vivente, non riusciamo a udirla, proprio perché essa è là dove dev'essere e l'armonia assoluta che essa garantisce fa sì che il suono non sia posto in evidenza. La musica che può essere ascoltata, la musica-suono, è quella sottratta all'organismo vi-vente e diffusa nel mondo. Di conseguenza, la musica è segno di trauma, di crisi e di provvisorio disordine, di eccitazione in cui lo spirito esce da se stesso, o addirittura di morte. Questo sottolinea le due funzioni primarie della pratica musicale nell'antico Egitto, la festa sfrenata e il rito funebre. Ma poiché, in quella strana civiltà che privilegiava la necropoli rispetto alla città dei vivi (posta la prima a occidente, la seconda a oriente del corso del Nilo; ma il palazzo del faraone, il sovrano-dio, era al centro della necropoli), il rito fu-nebre era il momento in cui più si affermava il richiamo alla vita e ai mezzi per goderla in pieno, la musica aveva il compito di ricordare continuamente l'esistenza del piano spirituale: era una specie di vita isolata in vitro. Un altro insegnamento che riceviamo dall'udjat rappresenta una delle caratteristiche più tipiche del-l'antica civiltà egizia, e che a noi appaiono più strane: l'occhio-suono rivendica alla musica-vita una facoltà visiva. La musica, nascosta nell'essere vivente e perciò inudibile, è nel vivente la parte che "vede" ne conse-gue una filosofica identificazione della musica con la visione. Un altro mito, importantissimo per il suo tema ma per noi moderni, a causa delle fonti poco decifrabili, e-nigmatico, è quello che descrive l'origine del mondo. Come nasce il mondo dal nulla? Che cosa esiste, se e-siste, prima del mondo? Fra le molte e svariate narrazioni mitiche, la prevalente e per molte generazioni in-vestita di un ruolo ufficiale nell'Egitto faraonico è quella che ancora una volta si riferisce al dio Thot. Essa rientra nell'archetipo, comune a molte cosmogonie, secondo cui tutto ha avuto inizio con la Parola. Il ri-chiamo a qualcosa di vicino a noi, di "nostro", è immediato: in principio erat Verbum. Se spogliamo la for-mula delle sue connotazioni teologiche, il significato puramente filosofico sopravvive e anzi emerge. Il con-cetto di Parola rende però soltanto parzialmente il senso originario, poiché, come osserva Marius Schneider, qui si tratta di qualcosa che geneticamente precede qualsiasi parola determinata e qualsiasi concetto logico. Qui si tratta di qualcosa di primario e di sovraconcettuale, indefinibile per il pensiero logico. Gli egizi, allu-dendo a questo elemento primigenio, parlavano di un "grido" o di una "risata" del dio Thot, e in alcune fonti si lascia intendere velatamente che lo scoppio di risa era stato intonato musicalmente, anche secondo diversi suoni. Prendendo alla lettera queste allusioni, si può indurre che gli egizi immaginassero un'origine del mondo prodotta dalla musica, o dal primo nucleo di essa. Un'importante pagina del Libro dei morti offre maggiori dettagli sulla nascita musicale dell'universo e sull'azione creatrice di Thot. Il dio crea il mondo bat-tendo le mani e accompagnando con questo battito di gioia (modello di ogni strumento a percussione) i suoi scoppi di risa (modelli, forse, del suono dell'arpa), i quali sono in magica successione numerica: sono sette, in toni crescenti. Dalle sette risate nascono altrettante realtà, divinizzate dagli egizi: la terra, il destino, la

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giustizia, l'anima, il giorno, la notte, l'intelletto. "Vedendo tutto ciò, il dio fu colpito da stupore, come dinan-zi a un nuovo essere più potente di lui, e abbassando il suo sguardo verso la terra proferì tre note musicali: IAO. Allora il dio che è padre di tutte le cose nacque dall'eco di quei tre suoni". IAO: la successione dei tre suoni è discendente, dall'acuto I all'intermedio A al più grave O. In tal modo, si disegna un moto contrario a quello ascendente dei sette scoppi di risa. Nelle istruzioni al Thot Tarot Deck, il terrificante mazzo di tarocchi da lui stesso dipinto e ispirato alla tradizione di Ermes Trismegistos (e quindi, alla lontana, all'esoterismo dell'antico Egitto), il satanista Aleister Crowley invitò gli adepti, sessant'anni fa, a iniziare il rito cartomantico recitando le magiche vocali IAO. Esaminando il mito di Thot artefice dell'uni-verso, e svestendolo ancora una volta della sua simbologia immaginistica sì da ridurlo per quanto è possibile a un nucleo concettuale, osserviamo come la musica racchiuda interamente il mondo come entità creata, an-ticipandolo e concludendolo: i moti contrari delle serie di suoni sottolineano la simmetria. Sopravvive un e-nigma: se Thot crea, chi è il dio padre di tutte le cose cui si allude allu fine? Unìpotesi è che egli sia Ptah (l'"immenso Fta" di Aida) e si dovrebbe ammettere in tal caso che il dio padre sia a sua volta oggetto di cre-azione da parte di Thot. L'incongruenza non sarebbe incontrasto con la mentalità pre-logica della cultura e-gizia. L'altra ipotesi è che il dio sia di nuovo lo stesso Thot, il quale, secondo una concezione speculare (an-ch'essa non estranea a quella cultura), creerebbe se stesso. In termini non metaforici: la musica creerebbe se stessa. Un esito teorico si rivela comunque: il mondo e l'uomo, essendo fatti dalla musica, sono fatti di mu-sica, di essa materiati, e mediante la musica in atto nelle occasioni terrene e quotidiane gli uomini imitano la divinità e rinnovano l'atto della creazione. Il numero sette, nella successione delle risate musicali di Thot, è tale da indurre suggestioni fin troppo facili, quando si parli di musica. In realtà, il sette degli egizi, come il sabaoth ebraico (il "settenario", struttura ar-chetipica dell'universo), è un modello simbolico e mistico, ideogramma numerico della perfezione. Come illustrò, per primo in Occidente, Antoine Court de Gébelin (Le monde primitif, analysé et comparé avec le monde moderne, Boudet, Paris 1775-1784) l'uso simbolico di quel numero discende dalla "formula del set-te" applicata dagli egizi alla musica come all'astronomia, all'alchimia come al calendario. Da quel poco che risulta alle nostre conoscenze, il sistema musicale in uso nell'antico Egitto non accoglieva scale di sette suo-ni. Le ricerche archeologiche hanno posto nelle nostre mani alcuni strumenti aerofoni, ma i tentativi d'indi-viduare i suoni che essi potevano emettere danno risultati incerti. Osservando la posizione delle dita sulle corde delle arpe egizie, così come c'e la presentano le sculture e le pitture murali o papiracee, Curt Sachs ha supposto un'accordatura pentatonica. Ciò sarebbe in armonia con un passo delle Antichità giudaiche di Fla-vio Giuseppe, il quale chiama l'arpa egizia organ on trigonon enarmonion, ciò che suggerirebbe una scala pentatonica senza semitoni. D'altra parte, la musica suonata in Egitto ma importata dall'Asia faceva uso di brevissimi intervalli, compreso il quarto di tono (ancora secondo Curt Sachs, Die Tonkunst der alten Ae-gypter, in "Archiv für Musikforschung", 11/ 1920, 9). Soltanto un dilettante spericolato o un battistrada sca-picollato oserebbe istituire un rapporto "filosofico" tra la meditazione dell'alta cultura egizia sull'origine del mondo e un sistema musicale, tra l'altro incerto nella sua vera realtà ai nostri occhi di uomini moderni. Ma se la scala per toni interi corrispondeva davvero a una vocazione dell'anima nazionale e dell'etnia, potremmo persino interpretarla come l'elemento di un linguaggio non interiorizzato, animoso nel volgersi verso l'altro e nel farlo proprio, disposto ad abbracciare il reale in una musica-visione, in un suono-occhio. La stessa lingua egizia, quale ci viene incontro dalle scritture geroglifiche, sottolinea il ruolo primario che l'arte musicale aveva nell'antica valle del Nilo. In un idioma monosillabico-agglutinante, i puri monosillabi sono gli elementi originari e primari, le fonti del pensiero e della parola. Tali sono tutti i termini principali riferiti all'arte dei suoni; hy (musica), henw (canto), teh (suonare). Agli oggetti primari, connessi con l'inizio delle cose, va attribuita una semantica soltanto in parte svelata: la zona di mistero persiste intatta. L'origine della musica è misteriosa come l'origine della filosofia. Il cono d'ombra che le nasconde è forse un fascio di luce troppo accecante, e su ciò che è al di là dello schermo o della cortina di nubi (o sulle insondabili profondità sotterranee, secondo una diversa prospettiva) può aprirsi con dovizia una discussione. Non dissimili arcani gravano sulle origini del pensiero, della scrittura e della musica nell'aurorale cultura ebraica. Ci è oscuro se sia esistita una riflessa e speculativa distinzione intellet-tuale tra i due strumenti musicale che nell'antica terra d'Israel rappresentarono una polarità, il corno d'ariete (sofar), guerresco, aggressivo e demoniaco nelle sue risonanze soprannaturali, e la nobile lira (kinnor) com-pagna della meditazione e ispiratrice di saggezza. Analoga è la nostra incertezza sulla natura propriamente filosofica del pensiero diffuso nelle Scritture storiche, didascaliche e profetiche della Torah. E' difficile de-finire "metafisica" l'immensa meditazione biblica; essa discende spesso dal livello metafisico a quello etico (ed è il suo lato più sgradevole) oppure si libra verso una zona superiore al pensiero stesso, inabissandosi in

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un "Tu" impenetrabile e confondendosi con la formulazione teologica, Nella Bibbia, Dio è troppo presente perché una vera filosofia dell'uomo non ne esca soffocata. Perché si possa parlare di filosofia dovremmo ri-conoscere un linguaggio propriamente logico e astrattivo nella speculazione sulle realtà supreme, e invece il piano logico, nella Bibbia, si dissocia da quelle realtà e slitta in basso, là dove meno ne sentiamo l'urgenza: nella morale, che ne risulta coartata e irrigidita e diventa facilmente odioso moralismo. Soprattutto la ses-suofobia, nella Bibbia non ancora onnipresente come nel cristianesimo paolino o nel cattolicismo posttriden-tino ma già proterva, rende la morale biblica lontanissima dal solare costume egizio in materia sessuale: so-lare, stranamente, forse soltanto sotto quell'aspetto, nel contesto di una simbologia essenzialmente funeraria. Eppure, l'invisibile filosofia della cultura biblica è latente, e il suo talento è forte. Ce ne accorgiamo sco-prendo la novità che l'antico Israel, unico fra le civiltà dell'era precristiana nell'area mediterranea, aggiunse al dominio della filosofia: la meditazione sulla storia, sull'attesa degli eventi. L'Ellade e l'Egitto faraonico erano mondi privi d'interesse per l'interpretazione storica della realtà, culturalmente inadatti a storicizzare i concetti; fu invece questo il talento dei profeti biblici, ma anche gli autori del Pentateuco e dell'Ecclesiaste ne diedero prova. Il tempo, elemento irrazionale e non concettuale per la maggior parte degli intellettuali el-lenici ed ellenistici, diventa chiave precisa di lettura e strumento di verità nelle pagine della Bibbia. La stes-sa creazione, che in altre cosmogonie è un semplice atto, nel Genesi si configura come un "periodo" con le sue scansioni. Pochi secoli dopo la composizione del Pentateuco, nei libri profetici, i giorni della creazione già suggeriscono un'interpretazione allegorica, e tendono a rivelarsi come "epoche" la cui successione è ra-zionale, sorretta da una logica che ha sentore di filosofìca modernità. L'analisi secondo allegoria è un pro-getto compiuto nel momento in cui è storicamente possibile la fusione culturale tra la sapienza della Torah e il logos platonico, e ciò avviene nell'opera di Filone d'Alessandria, massimo rappresentante della filosofia ellenistico-giudaica, nato nella metropoli dell'Egitto greco-romano tra il 30 e il 20 a.C., morto verso il 40 d.C. poco dopo avere guidato una sfortunata ambasceria di ebrei alessandrini a Roma per invocare da Cali-gola una pofitica più umana verso l'etnia giudaica, e considerato il "Platone ebraico" dagli intellettuali suoi contemporanei. Ebbene, proprio quando la rivelazione mosaica viene illuminata dalla razionalità del logos, l'oggetto privilegiato di quell'operazione è il nesso tra la creazione e la musica. Il passo di cui parliamo è nel grande trattato filoniano De opificio mundi, 45-52. La creazione non è soltanto "buona", connotato etico che Filone non accentua troppo, ma è soprattutto tecnicamente perfetta. Perfetta come che cosa? Adottando un termine di paragone, il filosofo ricorre a un'analogia musicale, lasciando in-tendere che la musica è il paradigma di ogni perfezione: argomento squisitamente platonico, ma applicato a un concetto, la creazione dal nulla, estraneo a Platone, e tipicamente ebraico. L'osservazione rivelatrice si riferisce, nel commento filoniano del testo biblico, al quarto giorno della creazione. "Il quarto giorno, dopo avere creato la terra, Dio fece il cielo, dandogli ordine e bellezza come un auriga alle redini, come un pilota afferrato al timone. Egli guida tutte le cose nella direzione da lui voluta, secondo legge e giustizia, non a-vendo bisogno di altro: tutto infatti è possibile a Dio. Il cielo, creato il quarto giorno, fu ordinato a sua volta secondo quel numero perfetto, il quattro, che contiene i rapporti numerici delle consonanze musicali: gli in-tervalli di quarta, di quinta, di ottava, di doppia ottava. Nell'intervallo di quarta, il rapporto è di 1 1/3:1 (4:3), e quindi l'intervallo di quarta contiene altri due numeri perfetti, l'idea di 3 e l'idea di 7. Il 4, radice dell'inter-vallo di quarta, è il punto di partenza dei quattro elementi e delle quattro stagioni". Temi di tradizione pita-gorico-platonica, intimamente fusi con il racconto biblico; e più avanti (De op. m., 70) Filone fa propria l'i-dea platonica di un universo di sfere che produce "leggi di musica perfetta" (mousikés teléias nómous). Fino a questo punto, la ricerca di legami organici tra pensiero filosofico e pensiero musicale ci ha concesso soltanto lampi che solcano zone oscure. Il panorama che ci offre l'India classica è, al contrario, vasto e mae-stoso. La filosofia indiana, come ha scritto cinquant'anni fa lo studioso singalese Ananda Kentish Coomara-swami (1877-1947) in Am I My Brother's Keeper?, è l'unica filosofia che si proponga come pensiero ecu-menico, capace di accogliere in sé le filosofie di tutte le altre civiltà, così come, su un altro piano, la religio-ne islamica vanta se stessa come la più ecumenica fra le tradizioni religiose. Ugualmente ampio e onnicom-prensivo è l'apparato strumentale e il sistema musicale. In particolare, il celebre liuto a manico lungo, il si-tar, con le sue 7 corde di cui 5 per la melodia e 2 per il ritmo sembra alludere contemporaneamente all'uso di scale pentafoniche, alla maniera dell'estremo Oriente, e a scale eptafoniche come le nostre. Più vicino al-l'Occidente è il fondamento della teoria musicale. Gli svara ("suoni intonati") sono 7: shadja (Sa), rishaba (Ri), gandhara (Ga), madhyama (Ma), panchama (Pa), dhaivata (Dha), nishada (Ni). Nella tradizione, la teoria musicale indiana si fonda su tre scale (grama) fondamentali, che prendono il nome dalla nota iniziale: sagrama, magrama e gagrama. Poiché nella sagrama la successione delle note corrisponde, sia pure ap-prossimativamente (gli svara non hanno un'altezza assoluta), alla nostra scala diatonica di do maggiore, ne

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risulta che nella magrama e nella gagrama gli intervalli (shruti) si combinano in modi diversi, un po' come avviene nelle scale discendenti dell'antica musica greca o nei modi ascendendi del medioevo cristiano. Inol-tre, poiché le 7 note della gamma subiscono alterazioni mediante diesis (tivra) o bemolle (komal), si creano diversi "modi" (raga). Ogni grama e ogni raga hanno una loro connotazione etica o estetica, relativa a ten-sioni dell'animo e a disposizioni intellettuali. La gagrama, per esempio, è la "scala celeste". Il significato filosofico della musica, che nella tradizione dell'India classica è la decisiva chiave di lettura del mondo, appare in tutta la sua chiarezza dalla tavola delle connessioni tra gli svara e le realtà mondane, natu-rali e simboliche, concettuali e metafisiche, fisiche e astrologiche. In ogni giorno della settimana si rispec-chia un'era del mondo, un elemento costitutivo della natura, un connotato sessuale, un corpo celeste; e tutto, sesso e scansione temporale, sostanza terrestre e astro celeste, è riassunto con densità di significato (e con impegno ad agire secondo "quel" carattere e non secondo altri) in uno svara:

Il significato filosofico della musica appare soprattutto nei paesi in cui i testi della tradizione induista affrontano il tema supremo: le origini del mondo. Noi possiamo avvicinarci a questi enunciati, esposti in linguaggio sublime e con assoluta limpidezza concettuale, percorrendo due vie di accesso. Esiste, nella Brihadáranyaka Upanishad, una "narrazione etica". Prima del mondo, anzi,

prima dell'esistenza in quanto tale, esiste ciò che noi occidentali chiameremmo un ente ideale, una pura po-tenza non tuttavia irrazionale (come quella aristotelica) bensì luminosa e trasparente: il suono musicale. La musica delle origini ha in sé la potenzialità della parola assoluta, che però è ancora ineffabile (come, nell'e-soterismo ebraico dello Zohar, il linguaggio con cui Dio parla soltanto a se stesso): non è ancora linguaggio comunicabile. Questa musica cosmica è l'universo nella sua fase di immobile eternità prima del tempo. Poi-ché tale musica è perfetta, non scandita dal tempo che ancora non c'è, essa è inudibile, né d'altra parte alcu-no esiste che possa udirla. Quando, misteriosamente (ma può esistere un "quando" se ancora non esiste il tempo?), appare la paura nell'universo-musica, lo splendore e il suono si offuscano e nasce il linguaggio ar-ticolato, comunicabile e umano. Nel Samaveda, il tema è ripreso larvatamente: la paura che appare all'im-provviso nella sfera dell'essere è null'altro che il tempo, che si unisce con il suono primordiale: dalle nozze del suono e del tempo nasce la musica degli uomini, scandita, diffusa sulla terra e misurabile nella storia. Esiste poi la più celebre "narrazione metafisica", esposta nella Maitráyana Upanishad (VI, 3). In principio non esiste l'universo: esiste soltanto un buio universale pieno di suono, e questo suono primordiale è il più aperto, chiaro e diffuso. Perciò è condensato nella vocale A. In urla fase intermedia, la creazione prende avAo dalle mani di Bráhman (ma da dove esce Bráhman?). Una certa materia, ancora fluida e nebulosa, co-mincia a condensarsi, ad essere "visibile"; la sua visibilità paga un prezzo, ed è l'oscurarsi del suono, il quale diviene più cupo e meno brillante. La tradizione induista lo connota con U: sempre una vocale, ossia sempre una risonanza squillante, ma è la vocale più chiusa. Nella terza e ultima fase della creazione, il mondo si fa solido, la luce invade lo spazio, e all'inverso il suono si spegne, riducendosi a un brusìo, a un rumore: M. Ai suoni vocalici, nell'ideogramma alfabetico, subentra un suono consonantico. Così il mondo è creato, e l'eter-nità è offuscata dal tempo, peraltro necessario all'esistenza degli uomini. Le tre lettere AUM formano una sillaba sacra, che nella tradizione, contraendo le due vocali, diviene OM. Nel diagramma OM è la sintesi dell'universo nato dalla musica. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.3, marzo 1990) DUE TRADIZIONI MUSICALI TRA LORO OPPOSTE: L'ISLAMIC A E CINESE

Parte quarta Indugiamo ancora una volta, una sola, oltre i confini invisibili dell'Occidente. Entro quei confini, le nostre tentazioni eurocentriche ci abituano a considerare il pensiero filosofico occidentale la filosofia tout court, e

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la musica che ci è familiare la musica per eccellenza, quella che "fa storia". Esistono fondate ragioni per non considerare interamente false tali abitudini, e ne abbiamo già discusso: la ragione più vincolante è la storici-tà che connota la filosofia e la musica d'Occidente, in misura incomparabilmente maggiore rispetto ad altre tradizioni. Su tali tradizioni ci siamo soffermati brevemente per correggere gli eccessi in cui possono incor-rere quelle nostre convinzioni, e la loro pretesa di esclusività. Quest'ultima sosta è dedicata a due tradizioni musicali tra loro diversissime. Se le associamo in questa fase del nostro percorso, è proprio per il carattere esemplare della loro opposizione, che è un'autentica polarità di estremi. Ci riferiamo alla cultura islamica e a quella cinese classica, forse i due mondi culturali più dissimili sul pianeta. Come spesso accade, la loro opposizione di fondo si rovescia in opposizioni uguali e contrarie, ed emergono i consueti paradossi grazie ai quali, nella fisionomia delle diverse civiltà, gli estremi si tocca-no. La filosofia islamica, fiorita accanto a quella tutt'altra realtà che è la teologia islamica, accanto agli a-spetti sublimi della mistica e agli aspetti sgradevoli e talora odiosi della precettistica morale, tende all'asso-luto, all'aforisma dogmatico, alla metafisica elaborata in sistematiche e vertiginose costruzioni del pensiero. La filosofia cinese esclude ogni dogma, ogni assoluto, ed è tendenzialmente antimetafisica; è fondata su un complesso equilibrio in cui tutto si regge perché è relativo, e tale equilibrio di relazioni sostituisce la cosid-detta Verità. Al muslim, al "fedele" che crede nell'Islam, interessa la Verità in cui è riconoscibile la figura personale di Dio. All'intellettuale della Cina classica interessa piuttosto il Bene, o meglio (poiché anche la parola 'Bene" ha un sentore metafisico) il Giusto, la norma corretta e irreprensibile del vivere; interessa la società, lo Stato, secondo una gerarchia ragionevole in cui la legge è tanto più elegante quanto più è imper-sonale. Una celebre classificazione di Marcel Mauss, maestro di antropologia culturale, definisce la civiltà islamica (e l'indiana classica, ad essa affine almeno sotto questo aspetto) come una civiltà metafisica, distin-ta dalla civiltà etica della Cina tradizionale e dalla civiltà estetica del Giappone. Una più ampia classificazione è offerta dal musicologo e sinologo Maurice Courant: nella tradizione cinese, indiana ed ellenica il pensiero musicale è assunto a termine distintivo. I tre grandi ambiti di civiltà, osserva Courant, hanno in comune l'idea che la musica sia la rappresentazione percettibile dei rapporti che uniscono cielo e terra, e tutti gli elementi dell'universo tra loro. Ma l'antico pensiero musicale dei greci, alla luce della speculazione filosofica, tende a una configurazione del mondo entro sfere celesti, e la sua è una visione as-soluta e tuttavia non dogmatica, metafisico-scientifica. Il pensiero indiano, come quello islamico, mira al-l'essenza di Dio, in una visione metafisico-teologica. Il pensiero cinese mira all'ordine mondano, in una vi-sione etica, sociale, psicologica e politica. Ed ecco il capovolgimento dello schema, i piccoli e grandi para-dossi. Il primo rovesciamento è la fenomenologia della tradizione musicale coesistente alla tradizione filoso-fica e alla sua indole fondamentale. La filosofia islamica, pur nelle sue varie scuole, è essenzialmente dog-matica e assoluta, ma la musica islamica è quanto mai libera e mutevole nelle sue norme e varianti: un uni-verso variegato di possibilità inventive, con diversissimi sistemi, modi, scale, melodie. Noi occidentali as-similiamo, nella percezione, tutte queste varietà, e siamo sedotti soprattutto da un carattere della cosiddetta "scala orientale", la successione di un tono, un semitono e un tono e mezzo nel primo tetracordo, il conse-guente intervallo di un semitono tra il quarto e il quinto grado, e la successione di un semitono, un tono e mezzo e un altro semitono nel secondo tetracordo. Esempio: DO, RE, MI bemolle, FA diesis, SOL, LA be-molle, SI, DO. Ma questa scala dalla denominazione impropria e approssimativa, teorizzata da Louis-Albert Bourgault-Ducoudray (1840-1910) in età wagneriana (Trente mélodies populaires de la Grèce et de l'O-rient, 1876), è un modulo stilizzato e occidentalizzato. E' una scala che interpreta arbitrariamente la musica "orientale" e i suoi intervalli non temperati (come il semitono maggiore e il semitono minore, distanti di cir-ca un quarto di tono) secondo il nostro temperamentum aequabile, e il suo "orientalismo" è un effetto che tale appare agli orecchi di noi occidentali, poiché fu usato ripetutamente da compositori d'Occidente (Saint-Saens, Verdi in Aida, Richard Strauss in Salome, RimskijKorsakov, Balakirev, Ravel), e per noi sa di odali-sche e di danze del ventre. La scala di Bourgault-Ducoudray trova il suo corrispondente non già in un sup-posto comune denominatore delle scale usate nella musica islamica, bensì soltanto in uno dei maqam ("mo-di") arabo-egiziani, il nawa'thar, e in parte (per quanto riguarda il primo tetracordo) nel maqam detto nakriz. In realtà, la varietà dei modi e delle scale è, nella musica islamica, sovrabbondante e spesso coincide (ca-sualmente) con il sistema codificato in Occidente tra il XVII e il XVIII secolo. Noi tendiamo ad omologare quella varietà anche per un'ovvia illusione ottica, generata dalla distanza culturale e psicologica. Pensate alle stelle nel cielo, o almeno così siamo avvezzi a chiamarle: in realtà sono oggetti di natura difforme, nane bianche o giganti rosse, quasar o pulsar, radiostelle o pianeti spenti, e talora in un punto luminoso si nascon-de non una sola stella ma un gigantesco ammasso stellare, un'intera galassia. E' questione di maggiore o mi-nore lontananza. Alcune di quelle luci testimoniano di com'è ora l'astro, altre ci rivelano com'era la stella

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quattromila anni fa, o due miliardi di anni fa: una traccia di caos nel cosmo. Eppure, noi vediamo quelle luci come se fossero tutte sullo stesso piano, trapunte sull'illusoria volta del firmamento. Furono dette, un tempo, le "stelle fisse", e sappiamo che si allontanano costantemente l'una dall'altra, e naturalmente da noi, con ve-locità inconcepibile. Una similitudine più familiare: chi incontra popoli di altra etnia e di altro colore, con caratteri somatici che non sono i nostri, tende a dire che quegli individui tra loro "sono tutti uguali", e così dicono gli altri di noi. Alla varietà di sistemi nella musica islamica, entro una civiltà tendente al dogma e all'assoluto metafisico in filosofia, si oppone in termini inversi la musica cinese classica, che all'interno di un relativismo filosofico avverso ai dogmatismi e ai rigori tende a un sistema con poche varianti, abbastanza semplice e austero nella scelta delle possibilità inventive. Un secondo rovesciamento dello schema è generale, e investe il rapporto tra speculazione filosofica e prati-ca quotidiana. Il fedele islamico è intransigente nel dogma e nella fede, ma incline al rilassamento e alla tra-sgressione nelle scelte private; nella tradizione della Cina classica, priva di una religione vera e propria e guidata da norme etiche e sociali ispirate a tolleranza, l'uomo si assoggetta spontaneamente a una disciplina rigorosamente osservata. Queste opposizioni incrociate sono in equilibrio, e ciò motiva uno sguardo d'insieme. Ma un terzo paradosso nasce proprio da elementi davvero comuni. Il primo, importantissimo, è la tendenza di entrambe le tradizio-ni, l'islamica e la cinese, ad una filosofia estranea ai movimenti storici, incline a formulazioni astratte di na-tura logico-matematica: l'assoluto della filosofia islamica astrae dagli eventi i loro caratteri simbolici, così come il relativo della filosofia cinese. Nel rapporto con la filosofia, la tradizione musicale islamica e quella cinese devono fare i conti con simili astrazioni. L'altro elemento comune è l'associazione dei suoni e dei si-stemi musicali con un'organica simbologia naturalistica e psicologica, ancora una volta inquadrata, nell'uno e nell'altro ambito culturale, in un codice di luminose astrazioni. Conviene ribadire, in quest'ultima sosta su tradizioni non occidentali, quanto abbiamo detto nelle sommarie incursioni precedenti: è difficilissimo, se non impossibile, valutare l'incidenza del pensiero filosofico orien-tale sulle strutture della musica in atto, sull'invenzione melodica e sull'impiego degli strumenti. Due sono gli ostacoli: la povertà di connotazioni storiche in quelle tradizioni musicali, corrispondente a una tendenziale immutabilità del linguaggio musicale attraverso epoche successive; la debole possibilità, concessa a noi oc-cidentali, di percepire particolari contrassegni semantici e sfumature espressive in sistemi musicali che ci sono storicamente estranei. L'unico modo serio di intuire il rapporto è l'individuare il posto assegnato alla musica nella visione universale del mondo. Questo tipo di esame, molto più agevole, ci pone dinanzi a un ennesimo paradosso. Mentre la filosofia cinese classica non ha alcun rapporto storico con il pensiero d'Oc-cidente, la filosofia islamica nasce da fonti elleniche ed ellenistiche come da un'incubatrice. I contatti di na-tura storica sono innumerevoli: quello decisivo è costituito dall'annessione degli scritti pitagorici e aristote-lici alla cultura islamica dopo la conquista araba di Alessandria, capitale dell'Egitto ellenistico-romano-bizantino, ad opera di Amr Ibn al-Ass. Se teniamo conto della centralità di Aristotele e delle fonti pitagori-co-platoniche nel pensiero occidentale, la filosofia islamica ci appare, fra le altre extraeuropee, l'unica occi-dentalizzata nelle sue origini. D'altra parte, i suoi esiti sono quanto di più estraneo all'Occidente si possa immaginare, mentre la filosofia cinese, nella sua qualità costante, presenta molte analogie con le filosofie occidentali della fase più recente: per esempio, con la fenomenologia husserliana o con la linea del cosiddet-to "pensiero debole". L'innesto dell'aristotelismo nella religione coranica dà alla tradizione filosofica islamica un carattere irripe-tibile, ibrido e strano, nel quadro di una delicatissima coesistenza di misticismo e di ragione logico-scientifica. Nella rivelazione annunciata dal Corano, il tratto distintivo della natura divina è l'assoluta imper-sonalità del creatore. Allah è il principio supremo dell'universo, la chiave di volta del creato, il garante della stessa natura umana e dei suoi impulsi. Tutto, nell'islamismo, è di radice divina, anche l'erotismo più accen-tuato, anzi, ogni forma di edonismo. In nessun modo Allah può essere confuso con il Dio cristiano, e ne è prova, nella tradizione islamica, l'assenza del concetto di grazia, che in quella cristiana contrassegna i rap-porti dell'uomo con Dio come relazioni tra entità personali. Allah è dunque l'unica fonte di razionalità; anzi, è l'unica razionalità possibile. Ontologicamente, non esistono razionalità individuali, che gli esseri umani esercitino in piena autonomia; gli uomini pensano perché Dio li fa pensare, ed essi sono soggetti a lui anche in questo atto che la tradizione d'Occidente identifica con la suprema libertà e con la superiorità rispetto agli altri esseri (le roseau pensant di Pascal ... ). Per contrappeso, non c'è rapporto di superiorità e d'inferiorità tra l'uomo e gli altri esseri di natura; tutto l'universo è razionale, e, come l'uomo, è soggetto a Dio. Ed ecco una conseguenza decisiva. Chiunque compia un atto, s'illude di compierlo, ma in realtà è Dio stesso che lo

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compie, assoggettandolo alla propria suprema razionalità. Un uomo crede di pensare, ma è Dio che pensa per lui. Lo stesso vale per le arti; anche l'invenzione musicale, o l'abilità nel suonare uno strumento, è facol-tà individuale soltanto in apparenza, poiché Allah è il supremo artista e il supremo musico. L'arte musicale viene così continuamente "ripresa in mano" da Dio, e non ha luogo la decisiva contrapposizione arte-natura che domina la filosofia, l'estetica, la letteratura nell'Occidente moderno (gli esempi di Kant, Hegel, Leopar-di, Schopenhauer, Kierkegaard, Thomas Mann, nella loro molteplice diversità, testimoniano tutti tale domi-nio). Nel pensiero islamico, l'arte è un aspetto della natura, poiché entrambe sono opera di Allah. Il musico e teorico Ziryab (morto verso l'850 dell'era volgare) teorizzò un vasto sistema pedagogico intorno all'uso dello 'ud, il più illustre fra gli strumenti arabi a plettro, originariamente a quattro corde, cui lo stesso Ziryab ag-giunse una quinta. Le cinque corde emettono suoni a intervalli di quarta ascendente, e si chiamano bamm (LA), matlat (RE), matna (SOL), zir (DO), zir di Ziryab (FA). Ciascuna delle cinque corde, grazie alla di-versa collocazione delle dita, emette, oltre al suono fondamentale, un tetracordo in scala cromatica ascen-dente, ed è legata a un elemento cosmico e a un temperamento umano: il bamm alla terra e alla nera bile, il matlat all'acqua e alla flemma, il matna all'aria e al sangue, lo zir al fuoco e alla bile gialla, lo zir di Ziryab alla vita e all'anima. Ciò significa, evidentemente, che ogni musico il quale intoni uno strumento, canti o in-venti melodie, muove contemporaneamente gli elementi dell'universo, del corpo e dell'anima; facendo que-sto, egli si adatta ad essere a sua volta strumento nelle mani di Dio. Di conseguenza, nella tradizione islami-ca non esistono rigidi limiti all'invenzione musicale: i modi e le scale sono innumerevoli poiché sono "tutti leciti". Malgrado alcuni enunciati del Corano, severi verso l'arte musicale intesa come occasione di puro piacere, un raffinato edonismo domina in pratica la musica islamica. Quanto alle connessioni tra i suoni e gli elementi dell'universo, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco (è superfluo sottolineare la radice aristotelica di que-sta ideale articolazione), non può sfuggire la natura astratta di tali indicazioni; gli elementi sono meri ideo-grammi analogici, fissati in nome di una simbologia stilizzata, e non hanno alcun connotato "descrittivo" o imitativo, come avviene, sotto tutt'altro cielo, nella moderna musica occidentale. E' utile istituire un confronto tra simili connessioni che legano nella tradizione islamica la musica e l'univer-so, e le connessioni, se non analoghe, almeno omologhe che esistono nel pensiero cinese classico. Poiché la cultura cinese, nel corso dei millenni, non ha mai prodotto un testo "rivelato" paragonabile a quelli delle grandi religioni monoteistiche, ma soltanto una cosmogonia e una mitologia espresse in testi poetici (qual-cosa di non molto dissimile accade nella civiltà ellenica ed ellenistica), è arduo orientarsi fra la molteplicità delle scritture, che sono di natura letteraria e non teologica. Nel "paese del Centro" (Chung-Kuo, la denomi-nazione ufficiale della Cina) manca un testo "centrale". E' riconoscibile tuttavia una linea maestra, in cui la simbologia elementare ha formulazioni sostanzialmente univoche. Secondo la splendida sintesi offerta dal sinologo francese Marcel Granet (La pensée chinoise, La Renaissance du Livre, Paris 1934, e Albin Michel, Paris 1968), la serie degli elementi universali ha il suo enunciato capitale nella prima sezione del libro Hong fan, redatto durante il primo millennio avanti Cristo. L'universo è un sistema chiuso, e nessun mistero si na-sconde dietro le sue realtà fenomeniche, nessuna metafisica, poiché il pensiero cinese non si pone neppure il problema se esso sia stato "creato" da un ipotetico Dio; anzi, i concetti di "Dio"e di "creazione" sono inte-ramente elusi. L'unica realtà, e l'unico mistero, è l'intreccio di relazioni tra le realtà visibili e tangibili. L'uni-ca disciplina esoterica, l'unica mistica che la cultura cinese abbia elaborato (ed è stata un'elaborazione a li-vello vertiginoso) è la scienza dei numeri, culminante nel valore simbolico del 5 come sintesi universale. Ai quadrilateri cari all'Occidente (le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, i quattro venti, i quattro angoli del mondo, i quattro estremi della croce, i quattro evangelisti), in cui ciò che conta non è lo spazio interno al quadrilatero bensì i punti terminali, i vertici e gli spigoli, la Cina contrappone quadrilateri gravitanti intorno al proprio centro, resi significanti dal loro spazio interno, e trasformati, con l'aggiunta decisiva del punto centrale, in cinquine. Così, alle quattro stagioni si aggiunge, come quinto termine, il momento che stiamo vivendo ora; ai quattro punti cardinali si associa il centro dell'universo, che è il luogo in cui noi ci troviamo. Se non esiste un Dio che crei il mondo, si può dire che ogni elemento sia il creatore degli altri e del loro re-lativo equilibrio. Le due supreme forze che si contrappongono dialetticamente nel Tao, lo Yang maschile e affermativo, lo Yin femminile e negativo, riassumono e garantiscono il delicato sistema di pesi, contrappesi, sostegni, paralleli e divergenze. Il numero 5 regge, insieme con l'intero universo, il sistema musicale. Il sinologo Jean-Joseph-Marie Amiot (1718-1793) identificò il suono fondamentale teorizzato nel libro Yo-ki (composto all'epoca dell'imperato-reWu-Li, 147-87 a.C.), ossia il huang-chong o "suono regio", con il FA della musica occidentale. Secondo la consueta connessione tra musica e realtà mondana, il FA è detto kong (= palazzo imperiale, stirpe impe-riale). Con quattro progressioni di quinte a partire dal FA, si ottengono DO, SOL, RE, LA. Questi cinque

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suoni, posti in ordine scalare, danno la prima gamma pentafonica: FA (kong, palazzo), connesso con il mo-mento presente, con il centro dei punti cardinali, con la terra, con il colore giallo, con lo zucchero, con il cuore, con il rango di principe, con il serpente; SOL (shang, deliberazione), connesso con l'autunno, con l'o-vest, con il metallo, con il bianco, con il sapore piccante, con il fegato, con il rango di ministro, con la tigre; LA (kiao, corno e materiale lavorabile in genere), connesso con la primavera, con l'est, con il legno, con il colore azzurro, con il sapore acido, con la milza, con il popolo degli artigiani, con il drago; DO (chi, manife-stazione pubblica), connesso con l'estate, con il sud, con il fuoco, con il rosso, con l'amaro, con il polmone, con i servizi pubblici, con il falco; RE (yu, le ali), connesso con l'inverno, con il nord, con l'acqua, con il ne-ro, con il salato, con i reni, con i prodotti commerciabili, con la tartaruga. Una scala pentafonica può essere costruita su ciascun grado della scala basata sul kong, e si ottengono così cinque "modi", in ciascuno dei quali, naturalmente, gli intervalli si trovano in collocazione diversa: i cinque modi hanno i nomi delle note di partenza, kong, shang, kiao, chi, yu. Ogni musico, strumentista o inventore di melodie, si trova, all'interno dì questo sistema, in una condizione diametralmente opposta a quella del musico di tradizione islamica: egli si assume l'intera responsabilità della sua azione, e modifica ogni volta, cantando, suonando o inventando nuove musiche, l'ordine dell'universo. E' l'assoluto protagonista, e la sua iniziativa musicale è, in quel mo-mento, il centro di tutta la musica terrena, così come i suoi piedi poggiano sul culmine del cosmo. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.4, aprile 1990) IL FILOSOFO AL QUADRATO DEFINISCE LA MUSICA

Parte quinta La distinzione tra pensiero ed essere, cui la civiltà faustiana, la nostra, non saprebbe rinunciare se non a prezzo di un soffocamento intellettuale, del senso sgradevole di una distanza troppo ravvicinata e "corporea" con l'essere, è il discrimine che distingue la filosofia occidentale dalle altre tradizioni filosofiche. Nelle grandi scuole di pensiero radicate in Oriente, o nella meditazione intermedia, poetico-filosofica, dell'Africa pre-coloniale o dell'America pre-colombiana o dell'Oceania ancora di un secolo fa (illustrata quest'ultima, in Italia, dalla famosa antologia di Roberto Bazlen), il soggetto è a distanza ravvicinata con l'oggetto, la co-scienza individuale con la "cosa", con il mondo. In Oriente, nello Zen come nel buddismo ortodosso, nel brahamanismo come nello scintoismo, l'esperienza vissuta è essa stessa un procedimento di conoscenza filo-sofica; in Occidente, la metodologia filosofica sconsiglia vivamente di confondere i due atti conoscitivi. E' accaduto in Occidente, per quasi tre millenni (da quando, cioè, le influenze orientali più antiche s'illanguidi-rono nella civiltà dell'Ellade), che si potesse scrivere un tratto filosofico sull'amore senza amare in atto (ma-gari, con l'abito ecclesiatico indosso), o delineare i fondamenti di un'estetica senza essere artista e addirittura senza avere gusto per le cose d'arte, o discutere di musica in termini ontologici senza essere musicista e sen-za gradire particolarmente le bellezze della Tonkunst, note soltanto agli specialisti capaci di praticarla. Que-sto primato della teoresi significa anche impulso all'astrazione, ormai, dopo un'assuefazione di tremila anni, divenuto connotato genetico dell'uomo occidentale. Per combattere decisamente ogni ideologia dell'anti-eurocentrismo, non meno errata dell'ideologia sfrenatamente eurocentrica, diremo che la separazione tra pensiero ed essere sotto il segno dell'astrazione non è di per sé un male; è un segno connotativo, e ha garan-tito, guidata da intenti più che onorevoli e talora sublimi, la limpidezza del filosofare. Naturalmente, ha pa-gato un prezzo: da attività squisitamente umana, la filosofia è divenuta una "scienza" negata alla maggioran-za degli uomini, chiusa nel proprio linguaggio. In prospettiva, ciò prefigura il destino della musica occiden-tale più recente, che nella sua ricerca di idee chiare e distinte, di purezza teoretica, si è allontanata dal pub-blico che ascolta. Progressivamente, la condizione ancora originaria della filosofia occidentale in cui il filo-sofo partiva dal dato esistenziale (lo Stato, la povertà, la giustizia o ingiustizia, la morte di Socrate, l'indi-gnazione per quella morte, la triade di peste fame e guerra) per poi avventurarsi lungo il vertiginoso cammi-no dell'astrazione, si è "purificata" aggravando la separazione. Più pura, certo, la filosofia, ma inevitabile la domanda: se per conoscere l'essere mediante il pensiero non dobbiamo "sporcare" il dato di partenza, non dobbiamo prendere le mosse da un pensiero contaminato dall'essere, ciò che alla fine conosciamo che cos'è? Essere, o ancora e sempre pensiero? Ecco la celebre questione del noumeno e del fenomeno, dibattuta da Kant: se per conoscere la cosa in sé (das Ding an sich), ossia il noumeno (l'oggetto nella sua verità, così com'è in sé indipendentemente dal nostro pensarlo e dal suo essere pensato da noi), dobbiamo attivare un'o-perazione intellettuale, l'oggetto non è forse un phainomenon, ossia qualcosa che noi conosceremo sempre e

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soltanto attraverso una mediazione, il nostro pensiero, appunto? E poiché, per conoscere, noi non possedia-mo altro se non il pensiero, esiste un altro mezzo per conoscere quell'oggetto? Ma allora la parola "conosce-re" ha un senso? C'è da impazzire, e quando Kant parla in proposito di "disperazione della ragione" la frase va intesa in senso letterale: è probabile che l'impassibile filosofo di Königsberg soffrisse molto, interiormen-te. Insomma, nella filosofia occidentale avviene, qualcosa di mostruoso, che tranquillamente viene studiato e storicizzato su tutti i manuali. La vicenda è, lo abbiamo detto, progressiva. Pitagora, Parmenide, Platone, fa-cevano della filosofia partendo da eventi e da cose sotto gli occhi di tutti; quando si occupavano di matema-tica anche molto raffinata, parlano dei numeri come di psefoi (sassolini), poiché con i sassolini s'insegnava l'aritmetica a scuola e si facevano i conti della spesa al mercato di Atene o di Corinto; quando meditavano sulla musica e sulle leggi dell'armonia, partivano da una corda tesa, una vera corda materialissima. Il cam-mino della filosofia occidentale conduce gradualmente a una condizione di partenza in cui il filosofo prende le mosse dalla filosofia per fare della filosofia. Ebbene, proprio il più radicale di questi filosofi al quadrato, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, fu giudicato, con giusta nemesi, l'uccisore della sofia avviata nel mondo mediterraneo da ionici ed eleati. Con Hegel, è stato detto, si attua la "fine della filosofia", ed è come quando per togliere da un panno bianco tutte le mac-chie nella maniera più radicale si dissolve il tessuto nell'acido corrosivo. In modo parallelo, a Hegel, uomo di per sé refrattario al fascino diretto della musica, è dovuta una delle più belle, intense e profonde medita-zioni sull'arte dei suoni che mai filosofo abbia scritto. Nell'Estetica (1836-1838, postuma) c'è un'osservazio-ne preliminare e fondamentale sul fine dell'arte, che è triplice: l'imitazione della natura, il risveglio dell'ani-mo sospinto a grandi azioni, il "superiore fine sostanziale" che è la liberazione (ahimé, ahimé!) dalle passio-ni e dalle debolezze umane. La vocazione dell'Erlöser! E se qualcuno non volesse venire redento, purificato, spiritualizzato? Più avanti, Hegel affronta il "sistema delle arti", distinguendo tra un'arte simbolica, dedita ad elaborare la natura inorganica per farla diventare affine allo spirito (chi scrive si domanda, da una vita, che cosa sia lo spirito), e rappresentata soprattutto dall'architettura; un'arte classica, quella che nel tempio purificato del dio immette l'immagine del dio stesso, e fa muovere la natura inorganica, divenuta spirito, come appunto si muove lo spirito, e questo tipo di arte si concreta nella scultura; finalmente, un'arte roman-tica, quella in cui la natura divenuta spirito comincia a riflettere su se stessa e s'interiorizza, e tale categoria d'arte è molteplice e si articola in pittura, musica e poesia. Si riconosce, in questa classificazione, una traccia di alto stile, quella che deriva dal Laokoon di Lessing, ossia la distinzione tra le arti che vogliono simulta-neità per essere percepite (le arti visive, scultura pittura e architettura) e quelle che esigono la successione temporale per loro stessa fisionomia interna (la poesia, la musica, la danza). La visione di Lessing è modifi-cata da Hegel per quanto riguarda la pittura, associata piuttosto alla musica che non alla scultura. Ecco come Hegel medita sulla musica, sia pure attraverso le parole dei suoi studenti che, coordinati da Heinrich Gustav Hotho, raccolsero le lezioni del maestro a Heidelberg e a Berlino. "Il materiale della musi-ca, sebbene sia ancora sensibile, giunge ad una soggettività e particolarizzazione ancora più profonde [di quelle della pittura]. Il porre idealmente il sensibile da parte della musica va infatti cercato in questo: che es-sa supera l'indifferente coesistere esteriore dello spazio, la cui parvenza totale la pittura lascia ancora sussi-stere e a bella posta simula, e lo idealizza nell'individuale unità del punto. Ma il punto, che in quanto tale è negatività, è l'eliminazione in sé concreta ed attiva, entro la materialità, di tutto ciò che è movimento e vi-brazione del corpo materiale in se stesso, e nel suo rapporto con se stesso. Tale idealità iniziale della mate-ria, che non appare più come spaziale ma come idealità temporale, è il suono, il sensibile posto negativa-mente, la cui astratta visibilità si è mutata nell'udibilità; in quanto il suono scioglie l'ideale dal suo incate-namento nel materiale. Questa prima intimità ed animazione della materia offre ora il materiale per l'intimità e per l'anima dello spirito, ancora indeterminate, e fa risuonare e svanire nei suoi suoni l'animo insieme con l'intera scala dei suoi sentimenti e delle sue passioni. In tal modo, come la scultura è il centro tra l'architettu-ra e le arti della soggettività romantica, così la musica costituisce a sua volta il punto centrale delle arti ro-mantiche e forma il punto di passaggio tra l'astratta sensibilità spaziale della pittura e l'astratta spiritualità della poesia. La musica, in quanto opposizione di sentimento e interiorità, ha in se stessa, come l'architettu-ra, un rapporto intellettuale di quantità e nel contempo il fondamento di una salda regolarità dei suoni e della loro combinazione". La prosa è pessima, e assicuriamo i lettori che la traduzione italiana di Nicolao Merker è stilisticamente mi-gliore dell'originale, così come garantiamo che il modo di scrivere adottato dai discepoli di Hegel e da Ho-tho in particolare non è molto dissimile da quello del maestro: chi ha letto la Fenomenologia dello spirito lo sa bene. Eppure, con tutto il mal gusto nello scrivere, è una pagina essenziale nella storia dell'Occidente; una

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pagina che spiega quasi tutto quel che è accaduto, e ci fa balenare promettenti splendori misti a raggelanti, equivoche luminescenze. Ne affidiamo il commento alla prossima puntata. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.5, maggio 1990)

Un'atmosfera leggera e gradevole a respirarsi avvolgeva quel paese. Aure deliziose, spirando miti, agitavano la selva, sì che dai rami scossi veniva

una musica incantevole e ininterrotta, simile a quella dei flauti obliqui sonanti nella solitudine.

LUCIANO DI SAMOSATA , Storia vera, II, 5

Secondo il filosofema o mito greco, nell'identità dell'Unico si scatena una guerra, uno scisma, una divisione, e si polarizzano una tesi e un'antitesi.

In conseguenza di questo scisma, nel to theion la tesi diventa nomos, o legge, e l'antitesi diventa idea.

SAMUEL TAYLOR COLERIDGE , On the Prometheus of Aeschylus

DOV'E' LA MUSICA? Parte sesta

Già, la definizione di Hegel. E' legittimo, iniziando un esame dei rapporti tra musica e filosofia nel mondo occidentale, partire da una fase moderna, non "ingenua" e non autorale? Non era meglio, secondo una con-suetudine manualistica modellata sulle opere di Zeller, Gomperz, Höffding, nonché sugli stessi presupposti hegeliani, prendere le mosse dalle cosiddette origini? Siamo certi che non era meglio, poiché la suddetta consuetudine è condizionata dal pregiudizio storicistico ed è perciò innaturale. La storia della filosofia come istituto ufficiale (e tale può essere soltanto in chiave storicistica) è tale da non lasciare più intendere il senso autentico dell'atteggiamento filosofico. In particolare, la speculazione filosofica sulla musica e il reciproco chiarimento che alla filosofia è offerto dal pensiero musicale ne risultano ancor più oscurati. E' giusto sce-gliere come luogo d'avvio una fase del pensiero d'Occidente in cui la filosofia è più che mai occidentale, in cui più che altrove essa dichiara il proprio destino. Non si tratta di condurre l'esame a ritroso nel tempo, ma di scegliere piuttosto una visione circolare anziché rettilinea (la relatività generale, teorizzata da Einstein nel 1915, e le recenti configurazioni dello spazio universale, lasciano ancora posto a visualizzazioni rettilinee?), radiale anziché segmentata. Esiste un tracciato univoco del tempo? Nella definizione che Hegel dà della musica nelle Vorlesungen über die Aesthetik coesistono profondità e insipienza, acume e ottusità. Si tratta, sia chiaro, di un'insipienza e di un'ottusità "storiche", non da attribuirsi all'intelligenza del filosofo. Insipienza è in questo caso un "non sapere", o meglio un "non sapere più", un processo culturale inverso a ciò che è, nella sfera individuale, l'anamnesi platonica, e ottusità è il precipitare con un angolo troppo ampio, con un taglio troppo lungo e poco affilato, sulla superficie della realtà, trascu-rando il presupposto, poi illuminato da Hofmannsthal, secondo cui la profondità si nasconde in superficie. L'intelligenza della definizione hegeliana risplende nella nozione di musica come arte romantica per eccel-lenza: la musica è romantica non per essenza o per costituzione (il costruttivismo e la spazialità del Quattro-cento fiammingo, il nesso ars-scientia che domina in Bach, lo stesso antico sistema musicale ellenico ed el-lenistico lo escludono) bensì per vocazione e per destino, in quanto il punto d'incrocio con la filosofia ro-mantica dà all'arte musicale l'occasione per trarre da sé tutte le possibilità espressive e i mezzi di trasforma-zione semantica. Né si può negare che Hegel colpisca nel segno là dove egli indica nella musica un'idealità iniziale della materia (in ciò, Hegel paradossalmente non contraddice le dottrine estetiche del platonismo medievale) che appare come non più spaziale bensì temporale (la lezione di Lessing nel Laokoon dà frutti), per cui il suono muta nell'udibilità l'astratta visibilità, sciogliendo l'ideale dal suo incatenamento nel mate-riale. Ciò non riscatta la definizione hegeliana da due errori. Il primo, meno grave, e in apparenza gratifican-te per la sua teoretica sistematicità, è il considerare la musica come "il punto di passaggio" (ah, i transiti he-geliani in cui tutto sfuma e viene superato, aufgehoben!) tra l'astratta sensibilità spaziale della pittura e l'a-stratta spiritualità della poesia. La musica, in verità, ha in sé forze materiali,e astrattive, produttrici di spazio e contemplatrici attraverso il distendersi dell'animo nel tempo. Semmai, la musica possiede mezzi che sosti-

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tuiscono in maniera analogica o allusiva il linguaggio pittorico come quello poetico. Più grave è il secondo errore, che orienta culturalmente la musica verso la zona interiore dell'animo, e tendenzialmente la condanna a un'illegittima "purezza" incapace di tagliare in due la realtà, che per Hegel è soprattutto la Storia. Ecco il punto dolente. Prima di toccare il nervo scoperto, è utile uno sguardo alla definizione offerta da Kant là do-ve quest'ultimo si muove su analogo terreno (Kritik der Urtheilskraft, sez. I, libro II, 44 51-53): la musica parla "per mere sensazioni, senza concetti", e la sua natura, anzi, afferma Kant, la sua nobiltà è nell'essere l'"arte del bel gioco di sensazioni". Il giudizio parrebbe quasi opposto a quello di Hegel, ma guardando più a fondo è visibile in trasparenza l'elemento comune: la convinzione, storicamente radicata, secondo cui è im-possibile conoscere con il corpo, mentre di tale conoscenza corporea la musica è testimone nelle sue intime fibre. Per Hegel come per Kant, la musica è tale soltanto se è definita nella sfera del puro pensiero, ed è sottratta, nel suo ruolo artistico, al mondo sensibile, che essa traduce da fenomeno ad attività dell'io penso (Kant) op-pure supera, hebt auf (Hegel). Ma per Hegel il pensiero è l'idea, e l'idea si attua nella Storia. Il punto dolente della filosofia moderna occidentale non è il suo essere moderna, laica (anche chi scrive queste righe parte da premesse non teologiche, propriamente nihilistiche piuttosto che laiche), e l'aver dimenticato che il mondo, in quanto creazione, è allegoria; punctum dolens è l'angustia del terreno su cui si edifica. Attribuire alla Sto-ria, che è per definizione storia degli uomini su questo pianeta, l'universalità cui la filosofia per assunto aspi-ra - né potrebbe fare diversamente, ché altrimenti non sarebbe filosofia e si confonderebbe con altre disci-pline - è illusorio, e dovrebbe apparirci addirittura puerile. La Storia non è la realtà non perché siano errate le leggi dialettiche teorizzate dal pensiero moderno, ma perché la vera realtà, evidentemente, è altra: è il mi-sterioso universo in cui siamo frammento infinitesimo, e che ci atterrisce con la sua vaga immagine di am-massi galattici proiettati da un'indefinita espansione verso il nulla (che è probabilmente l'unica verità), oppu-re, secondo i cosmologi alla Fred Hoyle sostenitori dello "stato stazionario" nell'universo, mossi da energie inconcepibili e in equilibrio paurosamente instabile. In tale prospettiva, una teorizzazione radicale che rifiu-ti, com'è giusto, la riduzione della musica all'interiorità dell'uomo non può non collocare la musica, almeno come possibilità, al di fuori. Di questa radicale nozione, sia pure non dichiarata in termini filosofici, ci sem-brano partecipi alcuni compositori del nostro secolo, diversi nelle premesse intellettuali ma immuni dalle debolezze dello storicismo, dello psicologismo e dell'intimismo, da Paul Hindemith a Karlheinz Stockhau-sen, da Olivier Messiaen a più giovani musicisti italiani come Azio Corghi o Francesco Valdambrini, da Pierre Boulez a György Ligeti. La musica, in chiave non storicistica, dev'essere intesa ormai come "sonanza infinita" diffusa nel cosmo, in forme la cui universalità è per gli eredi dello storicismo moderno inimmagi-nabile e per chi riparte da zero può essere soltanto un postulato. La sonda spaziale Voyager 2, che nell'estate del 1981 transitò in vicinanza del pianeta Saturno e registrò suoni musicalmente intonati la cui fonte d'emis-sione erano gli anelli planetari, suscita in noi, con le tracce d'involontario platonismo presenti nel fenomeno, una sottile emozione. Opinioni personali, lo sappiamo, dóxai che dobbiamo filtrare a lungo prima di vederle tradotte in epistéme. Ma non c'è dubbio: la speculazione sulla musica va collocata definitivamente nell'ordine di problemi ineren-ti il continuum spazio-temporale, e sui rapporti tra tempo e spazio dev'essere giocata la partita intellettuale. A questo punto, la riflessione storica ridiventa legittima, ed è inevitabile polarizzarla tra due visioni filosofi-che non conciliabili, la tradizione platonica proiettata nell'aristotelismo e nella Scolastica, e la moderna tra-dizione che ha in Kant e in Hegel, proprio a proposito dello spazio-tempo, le due grandi svolte. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.6, giugno 1990)

Perchè tutti godono del ritmo, del canto, e in generale della musica? Non è forse perchè noi godiamo per natura dei moti conformi a natura?

Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati. ARISTOTELE , Problemi di musica, 921 a.

MUSICA E SPAZIO Parte settima

Ci siamo domandati, nella precedente puntata di queste indagine, dove sia la musica. Né puerilità né sempli-ficazione: la domanda va presa alla lettera. Anche i filosofi più radicati in una visione metafisica del reale

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non possono evitare un dato immediato della coscienza: la musica avrà pure la sua fonte in un sopramondo o in un antimondo, o esisterà magari una musica-archetipo sulla quale la musica sensibile è modellata, ma la musica dell'uomo, fatta dall'uomo e per l'uomo, è hic et nunc, in questo mondo dell'esperienza materiale presente ai sensi che sembra proprio essere l'unico mondo assegnato al pensare e all'operare umano. Esiste uno spazio corporeo, e la musica è in questo spazio. Ma che cos'è lo spazio? Si potrebbe scrivere una storia della filosofia indagando fra le risposte date a questa domanda. Il passo aristotelico in exergo è la visione di un filosofo "antico", ma formalmente è al centro del-la filosofia, è il punto d'arrivo di un percorso già lungo secondo le ragioni della logica, non secondo le ra-gioni del tempo storico e rettilineo, dal momento che due secoli - quanti ne corrono dalle formule orfiche al maggior discepolo di Platone - sono di fronte alla realtà cosmica assolutamente nulla quanto sarebbero nulla diecimila anni. La musica, sottintende Aristotele, è movimento la cui misura è il tempo, e il movimento "conforme a natura" non può attuarsi se non nello spazio fisico. Detto questo, quasi tutte le idee sono state pensate, quasi tutti i giochi sono fatti. Si è detto che gli autentici percorsi del pensiero, circolari e non rettili-nei, male si adattano alla rappresentazione storicistica della filosofia secondo il prima e il poi, in cui il post hoc è per diseducativa abitudine scambiato per un propter hoc. La connessione logica tra diverse definizioni dello spazio segue spesso un itinerario rovesciato rispetto a quell'astrazione che è il tempo rettilineo e stori-co, ed è sorprendente ma indubbio che proprio l'Occidente, intriso di storicità, abbia sviluppato un pensiero in cui molte formule trovano compimento in enunciati più antichi. Fra le visioni che legano lo spazio alla natura della musica, la più complessa e onnicomprensiva è nella filosofia occidentale quella esposta da Pla-tone nel finale della Politeia; le speculazioni medievali, soprattutto quelle di Tommaso d'Aquino o della scuola di Chartres, sono dell'enunciazione platonica più premesse che postille. A sua volta, per quanto sem-bri irriverente il dirlo, l'analisi critica di Kant sembra preparare il terreno all'estetica dell'aquinate o di Char-tres, poiché, malgrado la drastica dissimiglianza di linguaggio e di forma mentis, sgombra il campo da pro-blemi preliminari. Una celebre antinomia kantiana coinvolge direttamente la concezione della musica. Se lo spazio, pure im-menso, è finito, la musica è una realtà d'incalcolabile ampiezza e di inconcepibili possibilità, ma delimitata; una gigantesca architettura di suoni entro confini forse inavvicinabili ma certi. Se lo spazio è infinito, anche la musica è infinita. Com'è noto, gli oppositori di Kant hanno sempre addebitato un errore al filosofo del cri-ticismo: lo spazio kantiano è forma a priori dell'intuizione sensibile, ed è teorizzato come un "prirna" rispet-to alle cose intuite dall'esperienza. Il razionalismo contemporaneo alla Kritik der reinen Vernunft, e più tar-di, con particolare irritazione polemica, il neotomismo, hanno osservato ripetutamente che non esiste uno spazio vuoto di oggetti, poiché soltanto gli oggetti esistenti generano, con il loro esistere, i rapporti di di-stanza e di volume, e quindi lo spazio è un "poi", un'astrazione che compendia in un termine le relazioni tra le cose sensibili. Otto anni dopo la prima edizione del grande libro kantiano, Johann Schulz, predicatore alla Corte del re di Prussia e professore ordinario di matematica all'Università di Königsberg, pubblicò la sua Pröfung der kantischen Kritik der reinen Vernunft (Hartung, Königsberg 1789), in cui commentava la defi-nizione di Kant: "Lo spazio è il sentimento esteriore (äußere Empfindung) dell'esser-fuori-l'una-dall'altra (Äußereinanderseyn) delle sostanze". Schulz osservò: "Sarebbe superfluo ricordare per l'ennesima volta che la rappresentazione dell'esser-fuori-l'una-dall'altra presuppone già la rappresentazione dello spazio. Eccoci dinanzi a un circolo vizioso. E aggiungo: quale senso esteriore ci fornisce questo 'sentimento', come lo chiama Kant? Per ogni tipo di sentimenti o sensazioni di ciò che è esterno a noi è chiamato in causa un par-ticolare organo di senso. Ma lo spazio è completamente diverso da tutte le sensazioni che noi riceviamo me-diante i nostri cinque sensi. Esso, in quanto puro spazio indipendente dagli oggetti che in esso si collocano, non si può vedere, né udire, né toccare, né assaporare, né odorare" (pp. 153-154). Quindi, secondo gli orientamenti antikantiani, inclini a una concezione finita della realtà spaziale, lo spazio di per sé non genera suono, né rapporti misurabili tra i suoni. Sono le cose sensibili che, generando lo spazio con il loro proprio ed effettivo esistere, generano anche il suono, le distanze, i rapporti tra grandezze, le mi-sure. Negli enunciati, in verità, Kant non risolve l'antinomia finito-infinito, e lascia problematica la decisio-ne. Ma è indubbio che date le conseguenze culturali tutte indirizzate verso l'infinito, secondo il corso del pensiero romantico, malgrado l'apparente equilibrio antinomico mantenuto da Kant, la tesi di uno spazio in-finito è la più destabilizzante e nuova, la più insidiosa per la concezione teologica tradizionale. La visione dell'infinito favorisce la centralità dell'Io-penso kantiano e della Ichheit fichtiana che in gran parte ne deriva; è la strada che conduce all'Idea autocreatrice di Hegel, e ne sono coinvolti il soggettivismo di Jean Paul, l'es muß sein beethoveniano e la coppia schumanniana Eusebius-Florestan.

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Nello spazio finito, scelto come tesi di battaglia soprattutto dall'opposizione cattolica a Kant, la musica pre-dilige i contorni formali, la fedeltà alla "forma" e al "genere", la struttura matematica, le leggi "razionali" dell'armonia. Supporre lo spazio infinito significa privilegiare inevitabilmente lo spazio interiore, non misu-rabile ed estensibile ad libitum, e la musica più espressiva che non formale, in cui ogni composizione tende a farsi forma e genere a sé. La grande controversia che nel secolo XIX anima il fiero dissenso di un Han-slick contro Berlioz, Liszt e Wagner ha le sue radici anche nel mondo con cui storicamente viene frantumata l'antinomia kantiana finito-infinito. La vivacità della controversia nel campo dell'estetica musicale è parallela all'asprezza della polemica contro l'infinito kantiano, che dagli anni in cui la Kritik der reinen Vernunft sommuove il pensiero occidentale si protende fino al decennio in cui muore Schumann. La durezza degli attacchi è sospinta dalla coscienza, talo-ra inconfessata, che Kant non teorizza ex nihilo, ma rappresenta il punto d'arrivo di una grandiosa offensiva, scandita da potenti scosse: lsaac Newton (1642-1724), Philosophiae naturalis principia mathematica (1687); Leonhard Euler (1707-1783), Mechanica (1736); Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), Theo-ria philosophiae naturalis, 1763. E' un'offensiva di radice laica che tende ad escludere il tema di una crea-zione divina del mondo dal novero dei problemi propriamente filosofici e scientifici (è giusto osservare, tut-tavia, che il tema si riaffaccia oggi nei punti cruciali di molte laicissime tesi cosmologiche a proposito del big bang come "evento-singolarità" dell'universo), e di conseguenza mira a dare dello spazio un'interpreta-zione matematica, indipendente dall'esistenza di oggetti, siano essi creati o non creati. E' inevitabile che l'in-dole matematica di tale analisi, in Newton come in Euler, favorisca la tesi di uno spazio infinito. L'atteggiamento filosofico di altri uomini di scienza, implicante una visione teologica e creazionistica, è tan-to più intransigente quanto più agguerrita è l'offensiva laica, né si può negare il suo sottile rigore. Nel secolo XIX, il prete cattolico Bernhard Bolzano (Praga, 5 ottobre 1781 - ivi, 18 dicembre 1848), figura di straordi-naria altezza intellettuale, sviluppa una critica all'idea kantiana d'infinito nella Wissenschaftslehre (1837) e nei postumi Paradoxen des Unendlichen (1851). La matematica è per Kant il campo d'esemplificazione privilegiato, in cui si attua più che altrove il punto di forza che egli attribuisce alla ragione, la sintesi a priori, che garantisce, in quanto a priori, trascendentalità rispetto all'esperienza e quindi verità, e aggiunge, in quanto sintesi, nuove conoscenze. Kant definisce 5 + 7 = 12 un giudizio cui alla nozione del soggetto, 5 + 7, si aggiunge una nozione tutta nuova, 12, non pensata prima. Bolzano obietta che per ottenere dalla somma di due numeri un terzo numero è sufficiente un'aggiun-zione progressiva del tipo 7 + 1, 8 + 1, 9 + 1, ecc.: un'operazione "pre-pensata", analitica, implicita come procedimento a priori nel formarsi della serie dei numeri naturali. Ma la critica di Bolzano è fondata su un fraintendimento: Kant vuole evidenziare non il rapporto interno tra gli elementi dell'operazione, bensì il processo mentale compiuto nell'operazione. Così Kant compie un tormentoso sforzo di assegnare alla ragione, malgrado i suoi ferrei limiti di azione in un mondo fenomenico e non noumenico della percezione sensibile e la sua impossibilità di cogliere in quan-to ragion pura la cosa in sé e di assumere come oggetto di scienza le idee della metafisica tradizionale, un ruolo che le consenta di creare nuove conoscenze e nuovi oggetti del pensiero; la "tragedia della ragione", ossia l'inattingibilità della cosa in sé o noumeno, non impedisce a questo strumento dell'Io penso di utilizza-re le infinite possibilita presenti nello spazio infinito e nel tempo infinito. Bolzano, nella cui concezione cat-tolica spazio e tempo sono finiti (soltanto Dio è infinito, né gli oggetti creati possono avere i caratteri d'infi-nità e di eternità propri del creatore), esclude che la ragione possa creare: può trovare il già esistente, e illu-minarlo soltanto rivelandone la forma. La conseguente concezione della musica trova il suo alveo nella cornice culturale disegnata dalla forte op-posizione tra le tesi di fondo. Kant, che non esita a darci un'interpretazione tutta interiorizzata della musica, insiste nel legare il gusto musicale all'Empfindung. La vita emotiva e sentimentale allarga nello spazio inte-riore inesauribili possibilità alla musica, ma sempre in quella dimensione. Questa collocazione della musica è riduttiva, eppure coltiva, rendendolo fertile, il terreno da cui nascono, tra l'altro, quegli esempi di musica mozartiana in cui la libertà formale fa leva sull'intensità dell'Empfindung: momenti supremi, le misure intro-duttive del Dissonanzenquartett in do maggiore KV 465 (1785), o il Rondò in la minore KV 511 (1787). A Kant, assai più che non a Hegel, fa riferimento il linguaggio musicale romantico, e alla concezione kantiana dello spazio interiore sono consanguinei gli indirizzi di ricerca verso zone "intermedie" dell'armonia: la scomposizione cromatica degli intervalli, l'evento repentino di accordi alterati, l'improvvisa espansione o contrazione del discorso musicale. Paradossalmente, il filosofo moderno il cui pensiero ha avuto gli esiti più critici nei confronti della tradizio-ne rende finalmente chiara l'estetica musicale prevalente nel medioevo cristiano. La rende chiara nelle sue

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motivazioni più profonde rivelando i suoi argumenta ex silentio. Il collocare la musica esclusivamente nel-l'interiorità dell'Empfindung, errore riduttivo, isola il problema che i maggiori filosofi della Scolastica non affrontano, o affrontano con reticenza, eppure presuppongono secondo le loro intuibili inclinazioni culturali: la necessità di negare l'interiorità della musica, assegnando al canto e al suono degli strumenti unicamente lo spazio esterno e nella compagine della natura mondana, entro la cui cornice essi devono essere giudicati. Ma poiché quello spazio, secondo gli Scolastici, è l'unico che possa controllare i pericolosi turbamenti prodotti nell'animo della musica, e poiché è un'allegoria del creatore in quanto sua creatura, è inevitabile, nel discor-so degli Scolastici, un'intenzionalità metafisica. E' ciò che esamineremo nella prossima riflessione. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.7, luglio 1990)

Die Sonne tönt, nach alter Weise,

in Brudersphären Wettgesang...

Il sole suona, all'antica maniera, nel canto a gara di sfere sorelle...

Johann Wolfgang GOETHE, Faust

BELLEZZA E SPAZIALITA' DELLA MUSICA Parte ottava

Essenziale alla filosofia non è soltanto la sostanza concettuale delle cose e del loro confluire nel mondo; è anche la cadenza con cui quelle sostanze sono pre-pensate. Abbiamo visto come nel pensiero di Kant ciò che distingue soprattutto la cosmologia di quel filosofo da quella tradizionale sia il concetto spazio-temporale: spazio e tempo come realtà trascendentali e a priori, concepibili persino come vuoti contenitori universali da riempire di cose e di eventi. La più drastica alternativa a tale immagine mentale è la filosofia cristiana del medioevo maturo, a partire dalla fase tarda del rinascimento carolingio. Le tendenze della Sco-lastica in campo cosmologico hanno in comune, nella loro diversità anche aspra, il presupposto che lo spa-zio esista soltanto a posteriori, non "dopo" gli enti estesi ma "poiché" tali enti esistono, che il tempo esista solo "poiché" esistono eventi con moti e successioni misurabili. La teoresi filosofica, i cui enunciati possiedono una possibilità ab aeterno e non dipendono da occasioni sto-riche, obbliga al rigore della logica e non ammette casualità. Ma le apparizioni de facto di tale teoresi lungo l'orizzonte storico ci abitua (si direbbe, per contrappeso) ai casi e ai paradossi. Non ci si stupisca se le teorie cosmologiche oggi più ardite e innovatrici si adattano piuttosto ai presupposti della Scolastica che non a quelli kantiani. Le ipotesi sulla nascita e sull'espansione dell'universo, nate da premesse einsteiniane, teoriz-zate ambiziosamente da Ralph Alpher, Hans Albrecht Bethe e George Gamow (la cosiddetta "teoria alfa-beta-gamma") e oggi criticamente sviluppate da Stephen Hawking, presentano il big bang come una "singo-larità" assoluta sull'orizzonte degli eventi: al di fuori di quell'orizzonte non esistono né spazio né tempo, e essi "cominciano ad esistere" (più correttamente, "esistono" tout court) soltanto "entro" quell'orizzonte, os-sia in coincidenza con la variazione decisiva da un universo di temperatura e densità infinite e di dimensioni zero (inconcepibile, non visualizzabile, e d'altra parte neppure identificabile con il "nulla", poiché il nulla non ha né densità né temperatura) a un universo in espansione incipiente, di densità e temperatura in pro-gressiva diminuzione (Hawking suppone che un secondo dopo il big bang la temperatura dell'universo sia già scesa a "soli" 10 miliardi di gradi centigradi) e di dimensioni crescenti in proporzione inversa. I black holes (buchi neri) presenterebbero, come mostruose anomalie, le identiche condizioni di ciò che "era" (si può usare davvero il tempo passato nell'uso linguistico) l'universo "prirna" del big bang (ma non si può dire "prima", non esistendo il tempo al di fuori dell'universo dalle dimensioni diverse da zero). Questo urtare di-sperato della ragione contro i concetti incrociati di spazio, tempo, essere, e nulla è, nella collocazione del problema, praticamente identico al modo in cui lo stesso problema è posto da Tommaso d'Aquino nella Summa contra gentiles, libro III, capitoli 1-38: il mondo non può essere stato creato "nel" tempo, in un "quando", "prima" di qualcosa, poiché il tempo incomincia ad esistere "con" il mondo, e da quell'esistenza ha avvio il prima e il poi. La creazione (il big bang?), ossia il rapporto ontologico di dipendenza tra Dio e il mondo, va intesa come aggancio metafisico, non come novità cronologicamente individuabile, poiché in

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Dio non possono esistere novità né variazioni né capricci. La creazione è ab aeterno, in quanto, essendo Dio necessario, anche il suo rapporto con il mondo è necessario. Al di fuori delle cose create, né spazio né tempo sussistono. Nel momento stesso in cui vogliamo salvare la purezza scientifica del problema cosmologico, fondiamo il diritto d'intervento della filosofia. Le conclusioni cui giungono oggi i cosmologi si appellano esclusivamente a ipotesi matematicamente fondate e a osservazioni sperimentali (lo spostamento verso il rosso dello spettro stellare, la velocità di allontanamento reciproco delle galassie, l'esistenza dei buchi neri), e dinanzi alla "singolarità" del big bang o a quella inversa e ipotizzata del futuro big crunch (la grande con-trazione che riporterebbe l'universo a dimensioni zero e a densità e temperatura infinite, ossia la fine del tempo e dello spazio) nessuno scienziato degno di questo nome deve domandarsi: "Perché?". La questione diverebbe immediatamente ontologica, e anzi l'ipotesi del big bang e dell'inverso big crunch è l'esatto confi-ne tra l'ordine scientifico e l'ordine ontologico dei problemi. La filosofia ha il diritto di meditare su qualsiasi oggetto, ma ha il dovere di attenersi a un solo metodo, il proprio ed esclusivo. Al di là di questo limite, si di-cono colossali sciocchezze. La terrificante parabola che parte da un mistero che è quasi nulla ma non è nul-la, ed è comunque al limite del nulla, procede verso l'espansione di uno spazio inconcepibile, si arresta, re-trocede verso una non meno inconcepibile contrazione, ritorna al misterioso quasi nulla, ossia, in due parole, dal big bang al big crunch, potrebbe essere vista, senza offendere l'intelligenza di nessuno, come la mano di Dio che, nell'arco di 20 o 30 miliardi di anni, si apre lentamente e lentamente si chiude a pugno. Ma è chiaro che ciò è soltanto una metafora, o un sogno, di cui lo stesso Dio potrebbe sorridere. Questo è il punto preciso in cui s'innesta il nostro tema specifico. In una concezione secondo cui al di fuori di spazio e tempo non esiste nulla, neppure (per rendere omaggio alla rivoluzione copernicana di Kant) en-tro le possibilità della nostra ragione, dov'è la musica? Esiste, si pensa, una realtà potenziale della musica indipendente dall'esistenza del genere umano, indipendente dalla storia e della civiltà, poiché i rapporti logi-ci su cui la musica si fonda sarebbero pur sempre in atto, né siamo noi uomini "storici" a determinarli. Ma al di fuori del mondo come realtà ontologica? Al di fuori dell'orizzonte degli eventi? Una risposta audacissima è offerta dalla tradizione ellenica, e precisamene da Platone; ne parleremo ampiamente. Platone ci abbaglia con la realtà di una musica universale ed eterna indipendente dall'esistenza dello spazio-tempo; ciò è possi-bile esclusivamente perché il filosofo ateniese esclude il problema della creazione, e comunque di un inizio del mondo, di qualcosa che, sia pure in termini molto diversi, potrebbe coincidere con il big bang. Certo, Platone affronta il problema con temerità vittoriosa. La filosofia cristiana medievale, in particolare la Scola-stica, elude la questione, ed eludendola dà implicitamente una risposta negativa: no, la musica esiste soltanto se esiste lo spazio, e anch'essa è creata. Questa è la differenza radicale tra la fase precristiana e la fase cri-stiana più matura di una tradizione sostanzialmente unitaria e ininterrotta, posta in crisi soltanto dal pensiero moderno a partire dall'età rinascimentale. Prima di scendere ad alcuni esempi, diremo che la meditazione sulla natura ontologica della musica sviluppata dalle filosofie della Scolastica si riassume in una formula: nello spazio creato, la musica compendia e rappresenta nella forma più nobile e splendente la bellezza, che di quello spazio è uno dei connotati salienti, insieme con la verità, con la bontà e con l'unità connaturata. E' stato soprattutto Edouard De Bruyne (Etudès d'esthétique médiévale, De Tempel, Bruges 1946, vol. II, pp. 273 ss.) colui che ha dato un ordine alla selva di tendenze e di enunciati dispersi sull'argomento dai filo-sofi medievali. Naturalmente, l'ordine sistematico dato da De Bruyne è, proprio in quanto sistematico, sog-gettivo, e lo dobbiamo verificare richiamandoci alla lettura diretta degli autori in cui egli con immensa dot-trina s'immerge. I maestri di Chartres vedono il mondo come kosmos, ossia come ordine e bellezza, ordo exornatus, in contrapposizione a un caos primigenio, quale il mondo sarebbe se si riducesse a pura materia, non avendo la materia "prima", ossia non connotata da qualità alcuna, forma, per cui, a maggior ragione, sa-rebbe priva di qualsiasi bellezza. La bellezza deriva dal principio ideale, dalla presenza di idee nella materia, e d'altra parte le idee non sarebbero "bellezza" se non s'incarnassero nella materia che cade sotto i nostri sensi. Ciò deriva dal presupposto cristiano secondo cui soltanto il mondo materiale è soggetto a giudizio e-stetico, oltre che a giudizio etico e logico. Il mondo spirituale tollera soltanto queste ultime due specie di giudizio, come vuole la concezione cristiana della Scolastica. Si giunge così all'inaccettabile ma interessante e persino feconda conseguenza: le arti, compresa la musica, hanno un senso unicamente attraverso la mate-ria, in ossequio alla bella formula di Suger de Saint-Denis: "Mens hebes ad verum per materialia surgit ". Notiamo, per inciso, smentendo parzialmente (ma non sostanzialmente) una nostra precedente osservazione, che su questo punto la concezione cosmologica della Scolastica è opposta a quella dei cosmologi oggi all'a-vanguardia: per alcuni di essi (Stephen Hawking, i suoi discepoli Julian Luttrel e Jonathan Halliwell), la na-scita e l'espansione dell'universo dopo il big bang è il passaggio progressivo dall'ordine al disordine, ossia alla dispersione di energia prima concentrata, per cui, paradossalmente, la stessa musica sarebbe disordine,

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mentre l'ordine coinciderebbe con il silenzio. Nelle filosofie cristiane medievali, il transito dal nulla all'esse-re del mondo è, in quanto essere, ordine e quindi bellezza, kosmos. I maestri di Chartres spiegano la fine dell'exornatio come l'imprimersi di idee divine sulla materia. Questa "impronta divina", tema ricorrente nell'estetica medievale in Occidente, spicca già mille anni prima nell'ope-ra di Filone d'Alessandria. Essa è l'ornamento del mondo, e come tale non rimane un accidens, quell'orna-mento che nella concezione artistica di Adolf Loos sarà definito "crimine". E' necessaria. La necessità della bellezza è un punto di forza dell'estetica medievale cristiana, e riscatta molti punti deboli. Uno studioso in-glese di semantica, Angus Fletcher, ha sottolineato un altro tema ricorrente nell'estetica medievale. L'inda-gine è sviluppata nel bellissimo saggio Allegory: The Theory of a Symbolic Mode, Cornell University Press, Ithaca 1964. Del libro esiste una traduzione, oggi quasi introvabile, di Roberta Rambelli (Allegoria; teoria di un modo simbolico, Lerici, Roma 1968; in particolare, le pp. 116-120). Fletcher pone in rilievo il fatto che l'exornatio derivi da un ordine gerarchico, il cui segno più rappresentativo è l'armonia musicale. Un'ar-monia fondata su precise gerarchie di suoni è, com'è noto, il carattere primario della concezione armonica medievale, destinato a indebolirsi progressivamente e infine radicalmente nelle concezioni moderne del lin-guaggio musicale, fino alla Wiener Schule. Alla visione gerarchica è legato il sistema dei modi medievali e il concetto di consonanza che gli si affianca. Su questa base concettuale si delineano due idee importanti, la cui esposizione documentata si trova, ancora una volta, in De Bruyne. La prima idea: l'armonia musicale distingue il caos connesso con la pura materia in forme definite. Ciò è all'origine dell'estetica musicale di Bernardo Silvestre e di Alano di Lilla. Bernard de Tours o Bernardus Sylvestris, vissuto nel secolo XII, era amico di Thierry di Chartres, fratello minore del più celebre Bernardo di Chartres, l'uomo dal luminoso aforisma: "Noi siamo nani sulle spalle di giganti". Proprio a Bernardo di Chartres fu per lungo tempo falsamente attribuito il trattato De mundi universitate, che è invece di Bernardo di Tours o Silvestre. L'opera, in prosa e in versi intercalati, nel I libro presenta la natura che lacrimante si rivolge a Noys (= Nous, l'illustre termine della filosofia presocratica e platonica in-terpretato cristianamente come "divina provvidenza") lamentandosi del caos confuso e indecifrabile in cui si contorce la materia prima (l'aristotelica prote hyle, ma hyle significa anche sylva, la "selva" dantesca, da cui l'appellativo di "Sylvestris" dato a Bernardo di Tours). La natura supplica Noys di introdurre nel mondo l'ordine, la bellezza e i significati, e le suggerisce, come strumento primario, l'armonia musicale. Dal De mundi universitate deriva quasi certamente l'estetica musicale di Alano di Lilla (Alain de Lille, Alanus ab Insulis), nato a Lille tra il 1114 e il 1128, morto a Citeaux il 12 luglio 1202. Alano, forse allievo di Bernardo di Clairvaux, ultima guida di Dante nel Paradiso, e di Thierry di Chartres, fu magister e infine rettore del-l'Università di Parigi, ed espose le proprie idee, quasi esattamente conformi a quelle di Bernardo Silvestre, nell'Anticlaudianus sive de officiis viri in omnibus virtutibus perfecti carmen hexametrum libri IX (Basilea 1536, prima edizione a stampa). La musica è argomento dei libri III, cap. 5, e VII, cap. 2 e 6. La seconda i-dea fondamentale sottolineata da De Bruyne è formulata, fra gli altri, da Guillaume de Conches: ogni forma impressa da Dio nella materia pone l'essere creato in condizione di essere uguale a se stesso. Questa convin-zione esercita una forte influenza sull'idea di un significato assoluto di ciascun suono musicale, irripetibile e non trasponibile, sui significati attribuiti ai suoni entro i diversi modi autentici o plagali e sul sistema moda-le nel suo insieme. Com'è noto il temperatum aequabile e la nascita del sistema tonale indeboliscono molto questa concezione di assolutezza. Tuttavia, l'estetica medievale presenta proprio in tema di exornatio una drammatica ambivalenza. Fortissima è dopo il X secolo la polemica della Chiesa contro l'ornamento rappresentato dall'arte, inutile lusso del mondo. "Noi che abbiamo detto addio alle cose mondane", scrive Bernardo di Clairvaux nell'Apologia ad Guillelmum, "guardiamo alle dolcezze della musica come a sterco". Agghiacciante enunciato, che tra l'altro, nel momento stesso in cui lascia indifferente ogni spirito irreligioso e non cristiano, manda in frantumi l'es-senza della preghiera e del rito ecclesiastico. Chiunque abbia letto Dante ricorda con simpatia la squisita fi-gura di Bernardo, ma simili dichiarazioni rappresentano, per noi che scriviamo, un sintomo di ciò che più odiamo sulla terra: il rigorismo, lo spirito di rinuncia, il moralismo, il pauperismo dello spirito, il populismo intellettuale, l'integralismo religioso, insomma, il cristianesimo cattivo e odioso, quello di Paolo di Tarso, fustigatore e sessuofobo, in contrapposizione al critianesimo sublime, quello di Francesco d'Assisi, mai ses-suofobo, mai censuratore della bellezza, pieno d'appassionato amore per la materia. A conforto dello studioso, e a nostro sconforto, osserviamo che questo atteggiamento savonaroliano e kho-meinista è, nella cultura medioevale, asistematico (allora si diceva: "eretico"). Anzi, nel cristianesimo di quei secoli era tendenziale il valutare come eresia il pauperismo, talora anche a sproposito; affermiamo reci-samente che lo spirito francescano non è pauperista, poiché non reca tracce di populismo o di spirito autofu-

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stigatorio. Quindi, è un atteggiamento deviante e minoritario. Nel cristianesimo integralista di oggi, esso è maggioritario, per non dire della spaventosa ignoranza vuoi filosofica vuoi artistica vuoi universale che do-mina la cultura cattolica odierna (in Italia in misura più accentuata), in contrasto con lo splendore culturale del pensiero cristiano e della Chiesa cattolica nel medioevo. Segno tangibile di tale diversità è la musica ri-pugnante, viscida, da festival di San Remo in versione particolarmente triviale, che si ascolta oggi nelle chiese cattoliche (ne è radice l'odio sfrenato per la bellezza, per la nobiltà e per i pregi intellettuali), raffron-tata con l'altissima tradizione musicale di cui, grazie al lascito cristiano medievale, siamo eredi. Perciò, non è strano che contro il disprezzo per l'exornatio abbia condotto una vittoriosa battaglia il maggio-re fra i filosofi del medioevo cristiano, il più sistematico ed enciclopedico: Tommaso d'Aquino. La specula-zione tomistica in campo estetico si fonda sull'idea di proportio, legata all'assioma secondo cui il bello è tra-scendentale: ogni cosa è proporzionata per il fatto che è. La proportio ideale, matematica, s'incarna nella proportio sensibile, che Tommaso modella con decisione sulla sua forma più tipica ed eloquente, la propor-tio musicale. Una lunga controversia, destinata a rinascere, è intorno al 1270 decisa con provvisorio trionfo dal celebre passo: "Homo delectatur secundum alios sensus... propter convenientiam sensibilium... sicut cul delectatur homo in sono bene harmonizato". (Summa theologica, Secunda secundae, 141, 4 ad 3) Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.8-9, agosto/settembre 1990)

Non è la non-musica che forma il musicista,

bensì la Musica; la musica che rientra nell'ambito sensibile è sempre prodotta dalla Musica che la precede.

PLOTINO , Enneadi, V, 8, 1 LA MUSICA AL VERTICE DEL MONDO

Parte nona Nella storia del pensiero musicale assunto in termini filosofici, Platone spicca come un caso d'emergenza, e chi lo affronta corre l'alea non senza turbamento o quasi con timorosa emozione. Parliamo d'emergenza in due significati distinti. In primo luogo, il pensiero platonico rappresenta, nei confronti della musica, un pun-to di altissimo e difficile equilibrio. Esso si colloca in una zona intermedia tra l'indagine propriamente scien-tifica ("fisica", secondo il termine usato in quell'ambito culturale) attivata dai teorici della musica, Aristote-le, Archita, Aristosseno, Ctesibio, e la visione ontologica cara alla tarda filosofia pagana e alla prima filoso-fia cristiana. L'immagine che Platone dà della musica non è di natura ontologica, ma piuttosto d'indole meta-fisica. Questa formula distintiva presuppone la necessità di definire termini che spesso si confondono, gene-rando rovinose incomprensioni. L'ontologia è la meditazione sull'essere di cui abbiamo coscienza, la metafi-sica è la coscienza dell'essere che a noi manca. Alla domanda "che cos'è la musica?", Platone preferisce l'al-tra, "dov'è e com'è la musica che non è qui e dalla quale tuttavia la musica che è qui deriva e dipende?". Sot-to quest'angolo visuale, Platone, che appare spesso lo specimen e il modello riassuntivo dell'antica filosofia della musica, è invece piuttosto un'eccezione, un caso emergente, e il suo valore di assoluto termine di rife-rimento deriva dalla sua eccezionalità inattingibile. Infatti, malgrado l'onnipresenza di Platone nella specu-lazione antica e medievale sulla musica e gli innumerevoli passi testuali in cui egli è citato nel corso dei se-coli, la maggior parte dei musicografi pagani e cristiani, da Aristosseno a Zarlino, da Boezio a Glareano, sceglie la via o dell'analisi tecnica o della definizione ontologica. Parliamo di emergenza anche in un secondo significato, che ci riguarda direttamente. Addentrarsi nei testi platonici è un cammino da iniziati, è lo schiudere una porta dopo l'altra, il togliere lentamene leggeri veli sovrapposti, è finalmente l'aprire una cortina che si crede ultima, oltre la quale si spera con tremante emo-zione di vedere la statua ormai svelata di Iside, e l'accorgersi con sacro terrore che oltre lo schermo c'è un altro diaframma. Ci vengono meno, allora, gli istanti necessari a quel gesto che potrebbe essere ultimo, poi-ché il tempo ci sfugge, sottraendoci la nostra vita individuale e il nostro individuale impegno nella filosofia. Nella sua classica monografia (Platon, Presses Universitaires de France, Paris 1968, seconda edizione che amplia la prima edita da Alcan, Paris 1935; trad. it. di Francesca Calabi, Platone, Cisalpino-Goliardica, Mi-lano 1988), Léon Robin ha descritto nella conclusione un simile stato d'animo: "Un aspetto del pensiero di Platone è l'inquietudine che incessantemente lo stimola. Sempre in cerca della verità, è veramente 'filosofo'

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nel senso stretto del termine, e ciò, come afferma con fiera probità il Fedro, 278 cd, perché in questo atteg-giamento è la nobiltà della condizione umana. Si rinuncia cioè al postulato iniziale secondo cui vi è una dot-trina platonica che certo comporta un'evoluzione ma il cui orientamento generale non è tuttavia cambiato? Rinunciarvi sarebbe ammettere che può esserci ancora filosofia là dove il pensiero fluttua capricciosamente, senza sforzo di sistematizzazione, senza aspirazione verso una intelligibilità sempre più ricca. Come dire che la ricerca delle idee chiare e distinte potrà un giorno fissarsi senza speranza di un progresso ulteriore? Sarebbe accettare per il pensiero un'inerzia mortale" (trad. cit., pp. 228-229, con mie correzioni). Il passo di Robin illumina il carattere metafisico della ricerca platonica. Per l'oritologo, l'attività filosofica è un'osservazione che esige tranquillità: l'oggetto studiato è messo a fuoco lentamente, visto e osservato da fermo, sottoposto a una lente d'ingrandimento, fino a quando la totalità della forma e della materia si fa elo-quente e sembra dire di se stessa: "Io sono così, in verità". E' un atteggiamento di natura scientifica, quasi da laboratorio. Il metafisico corre continuamente il rischio di avventure, è soggetto a drammatici traumi, af-fronta svolte e colpi di scena, il suo problema non è tanto di vedere meglio il visibile ma di vedere per la prima volta l'invisibile, o togliendo pericolosamente uno schermo da altri dichiarato inviolabile o addirittura intuendo all'improvviso, secondo una celebre favola narrata da Platone stesso, che finora si sono gettati sguardi dalla parte sbagliata, e che è urgente voltare le spalle al fondo della caverna guardando dalla parte opposta, verso la luce che filtra dall'apertura. Il metafisico ha una vita interiore d'indole romanzesca, e No-valis la rappresentò magicamente nel romanzo iniziatico Die Lehrlinge zu Sais, in cui Hyazinth viola i co-mandamenti del maestro, fugge nel deserto, entra in piena notte nel tempio sacro a Iside, accede con tremore al vestibolo, scosta dopo mille esitazioni il velo, e scopre la statua della dea che però si anima, e l'amata Ro-senbliitchen gli viene incontro. Platoniè l'ammaestramento delle incantevoli forme simboliche: verità (Iside) e bellezza (Rosenblütchen) sono tutt'uno, ma la Verità ultima sfugge sempre per un soffio. Per quanto ci ri-guarda, lo accettiamo con sollievo. Veli, schermi, nubi mistiche in cui la filosofia apre un varco all'estasi, limpide sfere celesti in cui gli arcani si mantengono eterni, cristalli iperuranici che racchiudono la Verità incorruttibile: nel suo nucleo, la supre-ma verità dei suoni. L'avventura del metafisico ha la forma di un itinerario, di una navigazione intellettuale guidata dal nous. Con questa parola ellenica, liquida come l'acqua, vibrante come la corda di una forminx, frusciante come il vento, Platone indica l'intelligenza universale e pura. La parola ha un rilievo di alta origi-ne e di prezioso suggello in tutta la tradizione, prima del filosofo ateniese (Omero, Eraclito) e dopo di lui (gli stoici, i neoplatonici). Ma occorre distinguere, per non tradire l'eccezionalità di Platone. Il maestro dei neoplatonici e lume della tarda cultura pagana, il greco-egizio Plotino, accoglie la navigazione platonica come una religione rivelata, ma la sua rotta è diversa e solitaria. La sua verità è interiore, il suo oggetto è l'anima, e il nous è inteso da lui in senso psicologico, etico e religioso, come la guida della ascesi morale volta alla purificazione, alla sfera psichica in sé chiusa e separata dal mondo esterno. Penetrando nelle pie-ghe della psiche, sempre al limite dell'estasi (come narra il suo discepolo Porfirio), Plotino spingeva l'incuria della propria persona ai più repellenti estremi: orrendamente sudicio, quasi cieco per il troppo leggere e scrivere, eppure ricercato dai medici, dai letterati, dai senatori e dalle dame eleganti che affollavano il cena-colo di sodales da lui fondato a Roma. La qualità estetica del mondo esterno, materiale, sociale, gli era in-differente, così come egli non avrebbe saputo dire se l'Uno, l'ente supremo al vertice dell'architettura filoso-fica plotiniana, abbia in sé bellezza. La bellezza va cercata "dentro", nello spirito. E' l'idea che domina lo splendido trattato VIII della quinta Enneade, intitolato Della bellezza intelligibile (Perì toù noetoù kallous), parzialmente tradotto da Goethe che lo ammirò. Plotino, che con il disprezzo del proprio corpo e del mondo corporeo si avvicina al carattere del fachirismo induista, interpretava con quest'animo, nel suo trattato, anche la dicotomia di musica e non-musica (amousia) da noi citata in exergo: musica e non-musica sono condizio-ni interiori, possibilità latenti nell'animo, ed emergenti soltanto nella coscienza di un musicista ispirato. Nel-la visione platonica, esse sono presenti nello spazio sovramondano, ed esistono con assoluta e metafisica oggettività. La Musica-Verità è meta della navigazione intellettuale, e il mare che dev'essere solcato è al dì fuori: il problema non è tanto il sondarlo, ma il rintracciarlo. A tale luminosa oggettività corrisponde, in Pla-tone, l'attenta cura del mondo sociale esterno, della propria persona, del decoro e dello splendore visibile: il mondo, nel pensiero platonico, è armonia imperfetta, pallida immagine di un'armonia di idee iperuraniche, e fili saldi e sottili legano le bellezze della sfera naturale alla Bellezza delle sfere celesti, laddove nei testi di Plotino la materia è accusata di degradazione irrimediabile, addirittura di nullità. L'unicità di Platone è il suo talento nell'enunciare idee di natura radicalmente metafisica (soltanto la cultura scientifica, renitente al concetto di ontologia, potrebbe dire: "di natura visionaria") mediante immagini, rac-conti quasi fiabeschi, miti accesi da ciò che Vico chiamò "corposa fantasia". La teorizzazione della sublime

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ed eterna musica posta al vertice del mondo. Riserviamo alla prossima puntata un commentario di carattere musicologico; qui ci limitiamo ad enunciare la celebre invenzione mitica che si trova alla fine della Repub-blica. Il racconto è solenne e misterioso, come il gran finale di un'ardua composizione corale e sinfonica. Il senso di mistero è ispirato da due motivi. Il primo è la stessa immensità del grande dialogo, articolato in 10 lunghi libri, ciascuno dei quali è più ampio di uno qualsiasi dei dialoghi più "vissuti" e narrativi: Critone, Fedone, Simposio. E' un'anomalia che la Repubblica (o Politeia, come suona il titolo in greco) condivide nel corpus platonico soltanto con le Leggi (o Nomoi), i cui tre lunghissimi libri quasi superano per vastità il dia-logo di cui parliamo. Il fatto che Platone abbia posto la propria massima riflessione sulla musica proprio alla fine del suo maggiore monumento letterario, dopo averla promessa, suggerita, anticipata con la debita suspense in altri dialoghi, orchestrandola finalmente con la grandiosità di un inno in un testo in cui la ten-sione diviene massima, come avviene nell'ultimo canto del Paradiso dantesco o nel finale del goethiano Faust, non lascia dubbi sull'importanza del mito e sul significato altissimo che il filosofo gli attribuisce. Il secondo motivo di mistero è la collocazione del mito di Er nella zona più interna della sfera esoterica, lungo l'itinerario intellettuale che l'autore chiama "la seconda navigazione". La denominazione, e la successiva de-finizione, si trovano in un passo del Fedone (99 b-d) in cui Socrate spiega a Cebete quale causa tenga insie-me tutte le forze dell'universo. Nel linguaggio dell'antica arte marinara, "prima navigazione" era quella che si compiva spinti dalla forza del vento, mentre "seconda navigazione" era quella che si intraprendeva quan-do, caduto il vento, si poneva mano ai remi. Nel linguaggio platonico, la prima navigazione simboleggia la ricerca da lui compiuta sulla scia dei filosofi naturalisti (Talete, Democrito), spinto cioè dal vento della filo-sofia applicata alla physis, che presto si fa ingannevole e sospinge fuori rotta. La seconda navigazione sim-boleggia l'apporto personale di Platone, ossia la ricerca compiuta con le sue sole e proprie forze: quella che, trovando la giusta rotta, porta alla scoperta del soprasensibile e delle idee. L'essenza della musica, nella filo-sofia di Platone, rientra in questo dominio. Si aggiunga che la meditazione sulla musica e le premesse del mito di Er traggono radice da quei testi esoterici e non scritti, da quell'insegnamento orale confidato da Pla-tone a pochi eletti fra i discepoli, che è difficile ma non impossibile ricostruire per congettura, e su cui Gio-vanni Reale, in un libro pionieristico (Per una rilettura e una nuova interpretazione di Platone, CUSL, Mi-lano 1984), ha fondato un'inedita immagine del filosofo e del suo pensiero. Il mito di Er è esposto a conclusione del decimo libro della Repubblica, alla chiusa dell'intero dialogo e di un'intera fondamentale fase del suo lavoro intellettuale (614 a - 621 c). Conversando con Glaucone, Socrate esordisce: "Ti riferirò il racconto di un valoroso, Er figlio di Arménio, panfilo di nazionalità. Una volta ac-cadde che costui morì in guerra. Furono raccolti, dopo dieci giormi, i corpi dei caduti tutti già disfatti. Egli invece fu raccolto intatto. Lo portarono a casa, ed erano sul punto di seppellirlo. Fu posto sulla pira. Passa-rono dodici giorni ed egli, che ancora giaceva sulla pira, ritornò in vita. Rianimato, riferì ciò che aveva visto di là". "Di là", ekei, misteriosa parola che ci promette e insieme ci fa temere rivelazioni inaudite. Questo il raccon-to di Er. L'anima era appena uscita dal corpo, ed egli s'incamminò con le altre anime di soldati morti tra quattro voragini, due sulla terra e due opposte in cielo. In mezzo c'erano giudici che riconoscevano i giusti e gli ingiusti. Le anime sostarono in quel luogo per sette giorni, assistendo a quel Giudizio Finale. "L'ottavo giorno, tutte si levarono, poiché si doveva procedere. Dopo quattro giorni di viaggio, giunsero in un luogo dove si poteva vedere una linea di luce, diritta, attraversare il cielo e la terra. Essa proveniva dall'alto. Pare-va una colonna ed era trascolorante, simile all'arcobaleno: più luminosa, tuttavia, e più pura". Dopo un giorno di cammino, le anime raggiunsero la colonna di luce, la quale tiene avvinto insieme l'uni-verso con catene. L'universo è un'immensa sfera che contiene tante sfere concentriche. Ai due poli sono sal-date le due estremità di un fuso. E' il fuso di Necessità, per opera del quale si compiono tutti i movimenti e rivolgimenti della sfera. Al centro, tra le due estremità, è il cercine del fusaiolo, cuore della sfera universale. In realtà, si tratta di diversi fusaioli concentrici e di varia grandezza, l'uno dentro l'altro, otto in tutto. Visto il cercine dall'alto, si vedono gli orli circolari degli otto fusaioli concentrici; essi hanno uno spessore variabile. Al centro dell'ottavo fusaiolo, il più interno, s'inserisce l'asta del fuso. Ed ora, attenzione: l'intero edificio mitico-musicale si regge proprio sul diverso spessore degli orli concentrici, che offrono all'occhio le diverse superfici estese di altrettante corone circolari. Lasciamo parlare Platone. " Il primo fusaiolo, il più esterno, presenta l'orlo circolare con la massima superficie estensiva; il sesto per collocazione interna è il secondo in ordine di estensione della superficie dell'orlo; terza per estensione è la superficie del quarto, quarta quella dell'ottavo, quinta quella del settimo, sesta quella del quinto, settima quella del terzo, ottava e quindi la meno estesa quella del secondo. L'orlo del fusaiolo più grande è di diversi colori, quello del settimo è luminosissimo, il colore dell'ottavo è il riflesso del settimo, quelli del secondo e

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del quinto sono molto simili, più fulvi dei precedenti, il terzo ha un colore candidissimo, il quarto un colore rossastro, il sesto è bianco ma meno luminoso del terzo. "L'intero fuso, e quindi l'intero cercine di Necessità nel suo insieme si volge con velocità uniforme, ma i set-te cerchi interni girano con moto contrario a quello del primo e più esterno, e perciò anche con moto contra-rio a quello dell'intero fuso e dell'intero universo. In particolare, l'ottavo cerchio, fra i sette interni, è il più veloce; seguono, in ordine di velocità, il settimo, il sesto e il quinto alla pari, poi nell'ordine il quarto, il ter-zo e il secondo. Il fuso giace sulle ginocchia di necessità, e una Sirena sta su ciascuno dei cerchi, portata in giro con il moto di ciascun cerchio. Ciascuna Sirena emette un'unica voce: la sua nota. Otto esse sono, e ne risulta un unico accordo". Er viene giudicato da Clotò, Lachesi e Atropo, le tre Parche, e ritorna in vita, recando con sé il segreto che nella prossima puntata tenteremo di decifrare. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.10, ottobre 1990)

Il primo consiglio di Circe è di non lasciarsi irretire dalle

Sirene, dalla loro voce che imprigiona con gli incantesimi... Io solo posso udirla.

Odissea, XII, 158-160 CELESTI SIRENE NELLE OTTO SFERE PLANETARIE

Parte decima

Nella puntata precedente avevo promesso un commentario al mito di Er, l'enigmatico testo che conclude la Politeia di Platone. Svelare fino alle radici quanto di misterioso è in quelle pagine non è possibile, e uno schermo ci separerà sempre dalla conoscenza del significato ultimo, poiché siamo di fronte a un testo ispira-to da inafferrabili origini di pensiero, quasi una scrittura rivelata. E' lecito però il tentativo di ricomporre in sistema alcuni termini di natura musicale. Tutto quello che dirò è arbitrario, se non soggettivo, e si presta a discussioni interpretative: è un'indagine su indizi, non su prove, e sappiamo quanto la verità processuale possa essere diversa dalla verità delle cose. E' insidioso camminare sul filo di lana, sul ponte di nubi; nel ri-schio, mi conforta la delimitata premessa da cui muovo. Le ipotesi avanzate sono sostenute da nomi autore-voli, anzi, dai più autorevoli; quasi nessuna è mia. Cerco di ordinarle e di offrirne una sintesi. Di mio, aggiungo soltanto qualche corollario, qualche chiosa ai margini. Il fine della decifrazione è, in apparenza, elementare. Come definire i suoni cantati dalle otto sirene e fusi in un accordo universale? E' importante non tanto immaginare l'effetto d'insieme di quell'accordo arcano, quanto fissare con la più alta probabilità la natura individuale di quei suoni e i rapporti analitici che tra essi intercorrono. La realtà veduta e udita da Er è la realtà suprema, e il rapporto tra quei suoni sarebbe perciò il modello universale di ogni musica terrena. Gli otto cerchi da cui le sirene irradiano il loro fascino ruotano intorno al fuso di Necessità, e la loro musica è quindi necessaria e assoluta in termini filosofici: è un'essen-za, non un fenomeno. Come sappiamo, gli otto cerchi sono sfere planetarie. Nella fase culturale della filosofia ellenica in cui Pla-tone opera, la successione dei corpi celesti a partire dalla Terra non coincide ancora con il noto schema ari-stotelico-tolemaico ripreso poeticamente dalla Commedia dantesca, ossia Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, stelle fisse. In Platone, la sequenza è lievemente diversa: Luna, Sole, Venere, Mer-curio, Marte, Giove, Saturno, stelle. Sull'accertata ma problematica corrispondenza tra gli astri e il canto delle sirene, l'esposizione più densa e profonda è la sintesi compiuta dal musicologo alsaziano Marius Schneider (1903-1983) nel saggio "Die musikalischen Grundlagen der Sphärenharmonie", in Acta Musico-logica, 1/2 (1960), pp. 136-151, riedito nell'edizione italiana originale degli scritti di Schneider (Il significa-to della musica, a cura di Elémire Zolla, Rusconi, Milano 1970) con il titolo Musica e metafisica: l'armonia delle sfere (pp. 205-227). Come osserva Schneider in apertura, da quando lo svedese Carl Allan Moberg (1896-1978) enumerò i tentativi, sempre rinnovati dall'antichità fino al secolo XVII, di identificare i suoni dell'armonie di sfere con determinate note (Sfärenas Harmoni, 1937), sulla questione cadde un lungo silen-zio, preoccupato e sospettoso. Lo svizzero Jacques Samuel Handschin (1886-1955), nel libro Der Toncha-

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rakter (1948), volle spazzare via il proposito e l'intera concezione che esso sottintende, liquidando tutto il discorso sui pianeti sonanti come un'idea fissa dei neopitagorici e negando importanza al celebre passo fina-le della Politeia e al mito di Er, da Handschin considerato mera poesia e teologia espressa mediante simboli. Schneider ribatte che il mito di Er è la conclusione (quindi, un luogo di significato conclusivo, non divaga-torio e assolutamente serio) di un'opera, la Politeia, fra le più severe e teoretiche di Platone. L'ancorare il si-stema visivo-uditivo al fuso di Necessità, aggiungo, ha un suo peso decisivo nell'ambito di tutta l'opera di Platone e di tutta la linea matematico-metafisica (eleati, pitagorici, prima Accademia, neopitagorici) presen-te nella filosofia ellenica ed ellenistica. Handschin, continua Schneider, riducendo la concezione dei pianeti sonanti a una indebita "scientificazione" di un modo di pensare puramente poetico, confermava soltanto il suo illegittimo rifiuto di ogni pensiero analogico. Così egli si escludeva dalla comprensione del pensiero ar-caico e delle filosofie musicali degli Egizi e degli Indiani, alle quali anche noi, in questa rivista, abbiamo dedicato alcune riflessioni: per esempio, l'idea di creazione del mondo mediante suoni. Chi nega, ad un tempo, il valore musicologico e filosofico del mito di Er, sembra ignorare che nei Moralia di Plutarco sono indicate più volte varie (fin troppo varie, e contraddittorie!) serie di suoni musicali in corri-spondenza con la serie dei corpi celesti. Lo studioso viennese Erich Moritz von Hornbostel (1877-1935) ten-tò senza successo di risolvere le contraddizioni plutarchiane, insidiose per troppa abbondanza. Ma non è questo che conta, mi permetto di osservare. Ciò che conta è la direzione individuabile negli scritti filosofici di Plutarco, e dichiarata apertamente dal filosofo neopitagorico: le fonti della teoresi musicale, per Plutarco come per lo stesso Platone, sono orientali, ossia egizie, babilonesi, iraniche, indiane, e si arriva persino alla Cina (anche se quest'ultima tappa non è dimostrata ma soltanto molto probabile attraverso mediazioni). Sappiamo così, finalmente, dove cercare il bandolo, anche se non è certo che troveremo quello giusto; sap-piamo in quale ambito estendere le inchieste e i raffronti. Trattandosi di un sistema musicale-planetario, s'impone un terzo elemento paradigmatico che funge da mediazione, e la cui nomenclatura è particolarmente ricca in ambito orientale: l'elemento simbolico riferito a una sostanza naturale come il fuoco, l'acqua e via dicendo. Così, trasversale ai tre assi paradigmatici (note musicali, corpi celesti, sostanze naturali) si creano tante possibili terne sintagmatiche, suono-sostanza-astro. Com'è noto, il luogo per eccellenza, offerto a chi voglia indagare la composizione di simili terne, è la cultura cinese classica. Questo ci permetterebbe di risolvere almeno un'incognita dell'equazione, ossia di rispondere che è legittima una corrispondenza. Alla soluzione della seconda incognita, ossia quali siano le singole corrispondenze, concorre un altro fondamentale ambito di cultura, l'India classica, una delle radici nascoste del pensiero el-lenico ed ellenistico. In particolare, il Sangita Ratnakara, il grande trattato di musica del filosofo indo-iranico Sarngadeva (secolo XIII), che nell'India di settecento anni or sono fondò per la prima volta una compiuta teoria musicale. In quel libro, citato anche da Marius Schneider, viene costruito uno zodiaco musi-cale in cui ad ogni segno zodiacale corrisponde un suono ben definito su una scala. Ormai il meccanismo inquirente può essere attivato. Per meglio procedere poi sul terreno del testo platoni-co, gettiamo uno sguardo a quelle lontane radici di sapienza, e cominciamo con la corrispondenza esistente nella Cina classica tra i pianeti e le sostanze naturali. Il libro Yoki afferma: "La musica è l'armonia del cielo con la terra, e prende dal cielo la sua virtù efficace". Nei nomi stessi degli astri tale armonia è implicita. Mercurio, che lo Yo-ki connette con il suono SI, è in cinese sciue-scin, "astro dell'acqua". Venere (SOL) è gin-scin, "astro d'oro e dell'aria". Marte (FA) è huo-scin, "astro del fuoco". Saturno (LA) è tu-scin, "astro della terra". C'è poi, nella simbologia cinese classica, un quinto elemento (cinque è l'onnipresente numero cinese, anche nei gradi della scala pentafonica): Giove (DO) è mu-scin, "astro del legno". Gli studi di Mar-cel Courant e il saggio memorabile di Marius Schneider, El origen musical de los animales sìmbolos (Insti-tuto espanol de Musicologia, Barcelona 1946; trad. it. di Gaetano Chiappini, Gli animali simbolici e la loro origine musicale, Rusconi, Milano 1986, pp. 122-132) hanno messo in luce una quarta serie paradigmatica in corrispondenza parallela con le prime tre: i colori simbolici, giallo per l'aria (SOL), rosso per il fuoco (FA), azzurro per l'acqua (SI), verde per la terra (LA). Si realizzano così le seguenti linee sintagmatiche:

Questo, per la soluzione della prima incognita. Ma le media-zioni tra Oriente e Occidente modificano le corrispondenze, e Sarngadeva rappresenta una fonte più "vicina" a Plutarco e a Platone. Nel Sangita Ratnakara, Toro, Leone e Pesci corri-spondono rispettivamente a MI, FA, SI. Se ipotizziamo una relazione con i dodici suoni di una scala cromatica secondo

il temperamento equabile, dovremmo riuscire a porre le dodici costellazioni zodiacali con i dodici suoni. Ma

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come, in quale ordine? Non certo seguendo l'ordine mensile delle dodici costellazioni e tenendo conto della successione dei gradi di una scala cromatica. Non ne verrebbe fuori nulla di sensato. Schneider, nel saggio citato in principio, esco-gita una felice soluzione, raggruppando le dodici costellazioni in quattro segni cardinali, quattro segni fissi e quattro segni mobili, come vogliono le buone norme astrologiche. In questo modo, completando il fram-mento o "torso" lasciato da Sarngadeva, il conto torna perfettamente, e in un unico modo possibile:

A questa prima ipotesi, Schneider aggiunge una seconda, immaginando che ogni pianeta abbia lo stesso suono del segno zodiacale in cui il pianeta stesso ha la sua "casa" principale:

Su queste basi interculturali, Schneider ricostruisce l'albero planetario, che ci permette una plausibile lettura del passo platonico alla fine della Poli-teia. Riproduco sostanzialmente l'immagine disegnata da Schneider, ma aggiungo, dopo la zona di Saturno, quella delle stelle fisse, ormai teorizzata da tempo negli anni in cui Platone era operante in Atene, e destina-

ta a rimanere nella tradizione classica e cristiana. Il "suono" di questo cielo, secondo Nicomaco e Plutarco, non è diverso da quello di Saturno in Capricorno: MI bemolle. Si osservi come ciascuno dei cinque pianeti veri e propri (visibili a occhio nudo e quindi noti alle astronomie antiche, alla cinese come all'indiana, alla babilonese come alla celtica, all'egizia come all'ellenica) sia al centro di una zona di tensione tra due suoni distinti: la lieve sfumatura di un semitono in Mercurio e Giove, un tono in Venere, una terza maggiore in Saturno, l'asprezza di un tritono o diabolus in musica (inevitabile!) nel demoniaco Marte, combattuto tra il velenoso Scorpione e il cornuto Ariete. Sole e Luna corrispondono ciascuno a un unico suono, e c'è tra essi (ossia tra RE bemolle e FA) un intervallo di terza maggiore. Osservo anche ciò che né Schneider né altri hanno mai notato: che il MI bemolle delle stelle fisse è nella strategia intervallare esattamente intermedio tra RE bemolle e FA, sicché possiamo considerare il cielo stellato, quel cielo che tanto affascinava Kant, come l'elemento di mediazione tra la Luna e il Sole. Mi sono permesso, a tal fine, di aggiungere le due curve tratteggiate allo schema di Scluieider. Se ora ricordiamo che nel mito platonico di Er i cerchi celesti, dal più piccolo al più ampio per quanto riguarda il raggio (non per quanto ri-guarda lo spessore degli anelli al bordo), sono nell'ordine Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno, stelle fisse, possiamo im-maginare o ricostruire mentalmente la symphonia o accordo universa-le. Restano al di fuori del quadro i tre pianeti "moderni", non visibili ad

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occhio nudo e scoperti dagli astronomi occidentali tra il secolo XVII e il XX: Urano, Nettuno e Plutone. Proprio non possiamo immaginare i loro suoni, tali da associarsi in un lontano e tenue accordo alla sympho-nia universale udita per prodigio da Er? La cultura occidentale non ci soccorre più: all'epoca di Galilei, ai tempi di Herschel, scopritore di Urano, di Leverrier (Nettuno) e di Lowell (Plutone), la simbologia planeta-ria e musicale non era più una realtà viva. Ancora una volta, in modo laterale, ci soccorre la cultura orienta-le. I nomi che i cinesi danno ai tre pianeti seguono a loro volta, per acculturazione, concetti di tipo occiden-tale. Urano è tien-wan-scin, "astro signore del cielo", come insegna la mitologia greco-romana; Nettuno è hai-wan-scin, "astro signore del mare"; Plutone è min-wan scin, "astro signore degli inferi". Molto deluden-te. Tuttavia, il musicologo tedesco Hans Kayser (1891-1964), studioso di Paracelso e di Böhme e appassio-nato orientalista, nel suo libro Akroasis die Lehre von der Harmonik der Welt (Basel 1946), ci rivela che per comune accordo dell'astrologia occidentale moderna e di quella cinese Urano (Toro) suona MI, Nettuno (Vergine) suona LA, Plutone (Leone) suona FA. Ecco il remoto accordo FA-LA-MI, una quadriade di set-tima senza la dominante, arcana e malinconica. E Proxima Centauri? E Aldebaran? E Antares? E Algol, la stella-diavolo? Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.11, novembre 1990)

Nel canto e nell'accordo lirico di tutta la gamma dei sentimenti si riversano

la volontà e la pura intuizione, mirabilmente l'una all'altra miste. Di tutta questa disposizione d'animo, così mista e divisa, l'espressione è il canto puro.

Arthur SCHOPENHAUER , Die Welt als Wille und Vortellung, I, 3, 28 ALLE RADICI DEL GRANDE ACCORDO UNIVERSALE

Parte undicesima La filosofia musicale di Platone, definita in termini supremi nella forma di un mito, è una delle più vitali e durevoli nella storia del pensiero, una delle più resistenti alla corrosione del tempo. Protesa come un ponte su epoche e fasi culturali in fuga, sopravvive in condizioni diversissime da quella in cui nasce. Tale persi-stenza ha molte cause, ma la più forte è una causa negativa, un argumentum ex silentio: per la metafisica musicale della Politeia, inarcarsi sulla storia d'Occidente senza quasi essere scalfita dal logorio di duemila anni - quanti ne intercorrono tra il terzo secolo a.C. e il XVI I secolo dell'era volgare - significa trarre forza dalle innumerevoli postille, anche da quelle più critiche, e riconoscerle sempre iuxta propria principia, poi-ché sino alla piena maturità del pensiero illuministico nessuna visione della musica parte da premesse radi-calmente diverse da quelle di Platone. La musica di sfere, che nel mito di Er si colloca al di là della storia umana e dei fenomeni, in una zona ultramondana e incorruttibile, indica un limite estremo e l'audacia di una provocazione assoluta; l'unica alternativa a tale visione non può essere se non una visione in cui la radice, l'origine e il modello universale della musica siano collocati all'estremo opposto, nell'assoluto dentro anzi-ché nell'assoluto fuori. Se l'essenza della musica, come dichiara Platone riassumendo tutta la linea di pensie-ro ellenico che lo precede a partire dai pitagorici, è metafisico, non naturalistica, ciò che poteva corrodere quell'interpretazione era soltanto il riconoscere l'origine della musica nella psiche, il più addentro possibile nell'interiorità, e possibilmente nei recessi psichici più profondi e segreti: un'interpretazione fisiologica, o biologica, o sociale, non sarebbe bastata (e infatti non bastò) a togliere attualità al finale della Politeia. Questo nostro assumere la categoria psicologica di giudizio come l'unico vero oppositum alla categoria me-tafisica dovrebbe essere chiaro in sé; possiamo illustrarlo meglio con un'analogia riferita alla tradizione reli-giosa dell'Occidente cristiano. Che esistano non uno ma due cristianesimi dovrebbe essere noto, e soltanto un ipocrita opportunismo intellettuale impedisce di ammetterlo. Esiste un cristianesimo estetico-metafisico-visivo, che affronta il mistero con gli occhi dell'intelletto e con la fantasia poetica; è una forma di libertà, d'intelligenza e di leggerezza dell'anima. Esiste un cristianesimo etico-psicologico-precettistico, che affronta il reale con un moralistico codice di comandamenti e di divieti; è stato, per l'Occidente, oppressione, oscuri-tà, peso. Il primo ha le sue radici vigorose nel pensiero precristiano ("pagano", se vogliamo usare questo ag-gettivo improprio), nei pitagorici e in Platone, nella dottrina del logos e degli archetipi; è proiettato verso il mondo esterno e la natura, ama la natura, gli animali e le piante (in tal senso, ha persino una sua connota-zione ecologica), non disprezza il piacere, non penalizza la sessualità, è affascinato dalla bellezza; è ricono-

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scibile in rari momenti della tradizione cristiana, e neppure tanto "ortodossi", in Origene, negli gnostici, in Francesco d'Assisi; i suoi rappresentanti sono una minoranza. Il secondo ha le sue radici tristi e malate in Paolo di Tarso, e, ancora risalendo, nei testi più cupi, moralistici e colpevolizzanti sparsi nell'Antico Testa-mento (chiedo scusa: mi si dice che tra poco "Nuovo" e "Antico Testamemo" saranno termini aboliti da una più aggiornata e ahimé più piatta terminologia); dà frutti in interiore homine, quasi una polizia dell'anima, alla ricerca di sussulti d'orgoglio e di tracce dei vizi capitali (alcuni dei quali noi giudichiamo virtù, come la superbia e l'ira); disprezza la natura, gli animali e le piante, ritenuti "inferiori" all'uomo, odia la sessualità, perseguita ogni forma di edonismo, privilegia la bruttezza da esso giustificata come "umiltà"; è riconoscibile negli Atti degli Apostoli (nel raccapricciante episodio di Anania), nelle letture paoline, negli agostiniani co-nati di "povertà" intellettuale, nell'eresia anabattista, nella struttura stessa della gerarchia ecclesiastica e nel-la fisionomia punitiva della morale cattolica; oggi, nei cosiddetti movimenti ecclesiali; i suoi rappresentanti sono, nella tradizione cristiana, la strabocchevole maggioranza. Il primo è il germe da cui è nata ogni forma d'arte cristiana, e quindi ogni bellezza fiorita sulla terra sotto il segno del cristianesimo. In particolare, quel germe ha permesso alla musica di rinascere con fatica ma con gloria nei primi secoli del cristianesimo occi-dentale, dopo che l'azione persecutoria della Chiesa vittoriosa nelle istituzioni aveva posto al bando della comunità la musica, arte peccaminosa e pagana, regno di bellezza, fonte di alto piacere fisico e intellettuale, e perciò rea di edonismo. Quella forma "platonica" di cristianesimo, perdente nella realtà storica, ci ha dona-to il Graduale triplex e la Missa de angelis, la scuola di Notre-Dame e il discanto, Guillaume de Machaut e Johannes Okeghem, Guillaume Dufay e Gilles Binchois, gli organi Antegnati e la Matthäus-Passion. La se-conda, vincente forma di cristianesimo ha tenuto per alcuni secoli la musica in quarantena, e si è espressa attraverso i teologi che, nel Quattrocento, reagivano contro la polifonia dei fiamminghi con argomenti del genere: "Questa concinnitas di voci diverse, a parte il pericoloso individualismo che si annida in ogni prete-sa di diversità, solletica i sensi provocando piacere, anzi, è d'irresistibile attrattiva: ergo, è peccato". Oggi invece questo cristianesimo istituzionale sembra colto da una frenesia musicale, e si esprime mediante mi-riadi di canti del tipo "Dov'è carità e amore, qui c'è Dio": sintassi perfetta, musica adeguata. Quanto alla di-versità, rileggiamo la Commedia dantesca: "Diverse voci fanno dolci note" (Paradiso, VI, 124), dove il dis-simile e perciò attraente è necessario all'essenza della beatitudine celeste, antitesi del peccato. E' superfluo precisare a quale dei due cristianesimi appartenga il cristiano Dante Alighieri, difensore dei filosofi eretici Sigieri di Brabante e Gioachino da Fiore, affettuoso biografo dell'antiecclesiastico Francesco d'Assisi. Su-perfluo è anche segnalare l'inconfondibile ispirazione platonica, guida alla filosofia della musica che Dante poeticamente enuncia. Troppo lunga, l'esposizione di questa analogia? Lunga, può darsi; troppo, niente affatto. Infatti era più che un'analogia; piuttosto, il sommario per una monografia ampia, quasi onnicomprensiva e non scritta, nodo centrale delle croci e delizie d'Occidente, di cui le opposte concezioni della musica costituiscono un capitolo particolare. Se poi quel che è stato detto nelle righe precedenti sia poco oggettivo o troppo ispirato da animus polemico e fazioso, è da discutere. Lo proponiamo, infatti, come oggetto di discussione ai volonte-rosi e non superciliosi. Nel nostro caso, per giunta, essere faziosi o tendenziosi o partigiani non sarebbe un gran male. Abbiamo denunciato un nemico mortale, il nemico storico della libertà, della giustizia e dell'in-telligenza, ma soprattutto il nemico capitale di tre cose più importanti dell'intelligenza, della libertà e della giustizia: il nemico del piacere, della felicità e della bellezza. Siamo convinti che un simile nemico vada combattuto con armi non cavalleresche, ma distruttive; se è possibile, con tecniche d'annientamento. Anche su questo, e sulle applicazioni intellettuali di questa formula, si potrebbe discutere. Molti secoli fa è avvenu-to che sia stata posta in forse la legittimità della musica, la sua stessa presenza nella civiltà; la persecuzione potrebbe sempre ripetersi, poiché la storia è imprevedibile, e nessuna vittoria è acquisita per sempre. Una difesa postuma è troppo facile, ma non lo è una difesa atemporale, in assoluto. Ecco perché abbiamo dato spazio all'analogia. Ci sembra che la moderna filosofia della musica, là dove essa cerca le radici di quest'arte in interiore homine piuttosto che nell'immutabile sfera sopramondana, sia una versione secolarizzata del cristianesimo paolino e moralistico. Poiché ogni posizione estrema genera para-dossi, almeno in un aspetto le due concezioni della musica, quella metafisica e quella psicologica, si affian-cano. Tanto la prima, culminante nell'eredità pitagorica presente in Platone, quanto la seconda, avviata si-stematicamente da Kant con la Kritik der Urtheilskraft, riducono a ben poco il valore filosofico della musica diffusa in natura e del suo germe nascosto negli eventi mondani. La musica è dono cosmico o impulso inte-riore: è stato più difficile e meno frequente riconoscerla come parte del mondo naturale. La musica germina-ta dall'Io, ossia il pensiero di Kant e dei filosofi romantici sulla musica, sarà oggetto di nostre future rifles-sioni, e l'indagine non sarà breve né sommaria. Ora però siamo attratti da un altro terreno, e ci prepariamo a

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sorvolarlo. Il presupposto di un'origine della musica nel mondo naturale non è storicizzabile come una fase pura e semplice del pensiero, tra l'uno e l'altro estremo, tra Platone e Kant. Esso coesiste stabilmente con il platonismo precristiano e con quello cristiano. Si trova, per esempio, proprio in un dialogo platonico, il Ti-meo, in funzione dominante. Ciò significa che in Platone il Timeo e la Politeia sono due maniere diverse di concepire la musica come realtà universale: al vertice del mondo, oppure nella compagine del mondo, nelle sue venature, nei suoi meandri, nelle sue creature. Le due dottrine sono solidali in un punto, e ciò crea un secondo paradosso, ossia un affiancamento tutto diverso dal precedente: per l'una e per l'altra, la musica ha sede primaria nell'oggetto, non nel soggetto pensante. L'affinità è di prim'ordine, eppure non è né più né meno importante della drastica differenza in cui subito inciampiamo. Nel finale della Politeia, l'armonia è tutta raccolta e custodita nel sopramondo, intorno al fuso di Necessità; il mondo sublunare è disarmonico per definizione, e può soltanto tendere verso un'imperfetta mimesi dell'armonia. Nel Timeo, l'armonia uni-versale è armonia del mondo, e lo stesso sistema della natura offre gli strumenti e i nessi perché l'armonia possa prodursi e persistere. Questa diversità, su cui si glissa, non potrebbe avere contorni più netti. Ecco irrompere nei problemi affrontati dalla filosofia della musica il grande tema trattato in un celebre libro da un filosofo che fu anche sommo filologo, Leo Spitzer (Vienna 1887 - Forte dei Marmi 1960). Il libro è Classical and Christian Ideas of World Harmony (edited by Anna Granville Hatcher, John Hopkins Press, Baltimore 1963), pubblicato più di vent'anni fa in lingua italiana (trad. di Valentina Poggi, L'armonia del mondo: storia semantica di un'idea, Il Mulino, Bologna 1967). Il saggio di Spitzer, cui stranamente ricorro-no di rado i filosofi, è in realtà un insostituibile strumento preliminare che si offre, come geniale repertorio già rielaborato ad alto livello speculativo, alla riflessione filosofica, imponendole l'obbligo di un'attenzione linguistica e filologica poco radicata nella tradizione, soprattutto italiana. Prima di accedere, nelle prossime puntate, ad alcuni importanti connotati del nesso musica-natura o musica-mondo, è necessario definire in termini essenziali il tema così come Spitzer lo individua. Spitzer, filologo austriaco di nascita e di scuola (allievo del grande romanista Wilhelm Mayer-Lübke), filo-sofo di radice ebraica mitteleuropea, intellettuale enciclopedico e tale da rappresentare, come Ernst Robert Curtius ed Erich Auerbach, l'essenza della cultura occidentale e la sua summa di ellenicità, latinità precri-stiana, latinità bassa e medievale, cristianità romanza, cultura francese, italiana, inglese, germanica, tradi-zione artistica, musicale, estetica, filosofica, illuminò le proprie inesauribili conoscenze e il mirabile edificio mentale con cui le organizzò usando la vivida lanterna della linguistica, intesa anche come glottologia e stu-dio delle etimologie; disciplina, quest'ultima, che nei padri della Chiesa, nei poeti provenzali e stilnovisti, in Dante stesso, aveva rappresentato un impegno di autentica natura filosofica. Di somma importanza è proprio il dato linguistico da cui Spitzer parte. Il libro, pubblicato postumo, nacque da corsi accademici tenuti in lin-gua inglese in un'università americana, la John Hopkins, e in lingua inglese fu redatto dalla curatrice, ma la lingua in cui esso fu "pensato" è il tedesco. E' significativo che l'idea di armonia del mondo sia sottoposta da Spitzer all'analisi linguistica preliminare attraverso un termine tedesco che non è, in corrispondenza con quello inglese o italiano o francese, Weltharmonie, bensì Stimmung: una parola ricca di significato musicale, e legata strettamente alla musica mediante la radice Stimme, "voce", nelle più svariate accezioni, da "voce cantante" a "voce di uno straniero" a "voce orchestrale individuabile nella partitura" a "parte strumentale" edita separatamente dalla partitura d'insieme. Presa a sé, la parola tedesca Stimmung è intraducibile. Ciò non vuol dire che frasi come "in guter (schlechter) Stimmung sein" non si possano tradurre con "étre en bonne (mauvaise) humeur" o "essere di buon (cattivo) umore", o che "Stimmung hervorrufen" non possa corri-spondere esattamente a "creare un'atmosfera". Manca però nelle principali lingue d'Occidente un termine che, come Stimmung, esprima l'unità dei sentimenti avvertiti da un uomo dinanzi a ciò che lo circonda (un altro uomo, il paesaggio, la natura nel suo insieme) e sappia fondere il dato oggettivo (naturale, fattuale) e quello soggettivo (psicologico) in armoniosa unità. Il filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881), con la sua frase tratta dal Journal e spesso citata, "le paysage est un état d'áme", rivela, tramite l'uso francese di due parole, "état" e "áme", in luogo di una sola, Stimmung, il fondamentale dualismo imposto dalla sua lingua romanza. L'anima tedesca, panteistica per vocazione, tende a superare il dualismo. Un francese non può dire 'Thumeur d'un paysage" né "mori atmosphère", mentre il tedesco può dire "die Stimmung einer Landschaft" o "'meine Stimmung". Soltanto in tedesco il rapporto del soggetto con l'oggetto, dell'uomo con il mondo può alludere con esatta analogia a un accordo musicale, a un insieme sinfonico. Naturalmente, questa unicità d'uso è esclusiva dello strumento linguistico tedesco, non della sensibilità o delle idee di tradizione germanica. In tal senso, Stimmung esprime un modo d'essere squisitamente europeo, occidentale in senso lato. Un cinese, erede di raffinatissime sottigliezze intellettuali, non potrebbe mai co-gliere nel profondo il vero verso di Verlaine, "Il pleure dans mon coeur", né la musica associata da Debussy

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a quel verso nelle Ariettes oubliées. Se Stimmung allude a qualcosa di musicale, si tratta di musica come noi in Occidente la pensiamo, e la parola sottintende una filosofia della musica quale soltanto in Occidente è in-telligibile. Nelle prossime occasioni del nostro discorso, esamineremo le situazioni culturali di rilievo in cui la filosofia ha visto il mondo, non il sopramondo, investito direttamente dal grande accordo universale di cui la musica, con radici propriamente mondane e naturali, è modello. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.12, dicembre 1990)

Man weicht der Welt nicht sicherer aus als durch die

Kunst, und man verknüpft sich nicht sicherer mit ihr als durch die Kunst.

Non c'è via più sicura per evadere dal mondo, che l'arte, non c'è legame con il mondo più sicuro dell'arte.

Johann Wolfgang GOETHE MUSICA E MODELLI INTERIORI

Parte dodicesima

Platone e Kant sono i due filosofi più rappresentativi e decisivi nel pensiero occidentale. Inevitabilmente, la visione della musica che emerge dalla filosofia critica kantiana è la più chiara antitesi alla visione platonica. Se i limiti dell’io, come coscienza ma anche come realtà fisica, sono il diaframma tra il soggetto e il mondo oggettivo esterno, il modello della musica, che in Platone si dichiara tutto esteriore ed anzi il più esteriore possibile, in un cielo metafisico che l’esperienza non può conquistare ma da cui è continuamente diretta, di-viene, dopo un lungo percorso che abbiamo indicato nella puntata precedente, tutto interiore nel pensiero di Immanuel Kant. Almeno per un istante, questa asserzione sembra smentita dalle parole che aprono la pagina conclusiva della Kritik der praktischen Vernunft (1788): “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo dinanzi a me e le connetto immediatamente con la coscienza del mio esistere”. Le parole farebbero supporre che in Kant persista o addirittura si rafforzi la funzione archetipica del cosmo, ossia dell’universo planetario finalistica-mente ordinato la cui visione concludeva la Politeia platonica. Si ha l’illusione che Kant voglia indicare, tra il cielo stellato e la legge morale, un rapporto di modello e mimesi, il che già di per sé implicherebbe un tributo alla filosofia platonica. Diverrebbe postulato, in tal ca-so, l’archetipo supremo delle due realtà rette da immutabile armonia, e tale archetipo, per definizione, sa-rebbe trascendente, non soggetto all’esperienza e quindi metafisico. L’illusione si dissolve non appena rinviamo questa pagina conclusiva all’insieme della Kritik der prakti-schen Vernunft e agli altri scritti critici di Kant. Leggiamo, nella prefazione alla Kritik der Urtheilskraft, che la natura, di cui il cielo stellato fa parte, è un “complesso di fenomeni la cui forma è data a priori”, e sap-piamo che l’a priori kantiano ha sede nell’io penso, non al di fuori di esso. Analogamente, la forma è non già il carattere oggettivo di qualcosa che sia determinato (come nella metafisica di Aristotele), bensì la “de-terminazione del determinabile” (Kritik der reinen Vernunft, § 266), e quindi un atto dell’io penso. La stessa determinabilità su cui opera la determinazione da parte dell’io è un modo di pensare, non un oggetto nel senso aristotelico della parola. Nel pensiero di Kant si compie la sostituzione dell’ontologia con la gnoseo-logia come problema centrale. Da questo riepilogo di nozioni vulgate risulta sufficientemente chiara la col-locazione assegnata alla musica, in termini espliciti o impliciti, dopo l’immenso lavoro filosofico compiuto da Kant. Tramontata l’oggettività dell’idea di natura, i suoni e la loro possibilità di organizzarsi in sistema tendono a divenire non più “naturali”, ma “razionali”, traendo con sé una conseguenza non inevitabile negli enunciati individuali dei filosofi postkantiani ma sempre possibile in teoria: che l’universo dei suoni, inteso come fenomeno esterno all’io, sia “non razionale” o addirittura “irrazionale”, e che di conseguenza l’arte sia “razionale” quando, restìa a catturare i suoni così come sono, li teorizza, li programma e li produce. E’ su-

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perfluo notare quanta influenza tutto ciò ha avuto sulla fabbricazione degli strumenti musicali nei due secoli che ci separano da Kant. Appena più necessario è ricordare come la nascita del temperamentum aequabile, con l’ottava divisa in do-dici semitoni, ossia in dodici intervalli perfettamente uguali determinabili, rispetto al suono di base, da radi-ci dodicesime di potenze di 2 in grado crescente o decrescente, sia non casualmente coeva al fiorire del ra-zionalismo filosofico. Ma l’attività legislatrice e decisionale dell’io-ragione ha agito sulla crisi della modali-tà, in cui scale “naturali” avevano ciascuna una propria fisionomia, e ha favorito il sistema tonale, in cui al-l’interno di ciascuna tonalità si riproducono per analogia i medesimi rapporti intervallari tra suono e suono. Il sistema modale è una realtà di natura che pone problemi spesso formidabili e insormontabili al pensiero musicale; è là, oggettivo, e costringe i musici a complicate operazioni di raccordo, così come obbliga gli strumentisti a trovare una faticosa intesa tra strumenti diversi. Coloro che accordano le proprie mirabili macchine produttrici di suoni intonati non le accordano soltanto “tra loro”, “l’una con le altre”: le pongono anche d’accordo con la natura stessa. Ciò vale a mantenere stabile la tradizione, concedendo lievi e graduali varianti. Il sistema tonale è un frutto del pensiero; è l’io-penso-in-musica che si riconosce di volta in volta nelle sue creature teoriche, in ciascuna delle quali ha impresso il suo marchio di fabbrica che le rende simi-lari l’una all’altra. Il sistema tonale è qui, non là; grazie alla teorizzazione del temperamentum aequabile, rende agevole a priori l’accordo fra gli strumenti, e apre nuove immense possibilità combinatorie. Tutto ciò vale a destabilizzare rapidamente la tradizione, le varianti diventano capovolgimenti o, in senso etimologico, rivoluzioni. Di questi fondamenti teoretici, che gli appartengono di diritto, l’artista romantico è talora inconsapevole, anche quando li porta all’estremo. Il punto di partenza per intendere i diversissimi aspetti del romanticismo musicale è il carattere che unifica tanta diversità: la coscienza dell’artista legislatore assoluto, e quindi inte-ramente responsabile della propria opera. Questo genera nell’artista romantico una moralità “non moralisti-ca” ma “poetica”, nel senso etimologico di “’produttiva” o “creatrice”. All’artista che può e deve seguire soltanto la via segnata dalla natura, subentra l’artista che traccia una via e la via inversa, che erige un edifi-cio ma anche la sua immagine speculare, che è insieme, in una parola, Dio creatore e Satana distruttore. Il pietista e austero Kant non poteva prevedere che da lui sarebbe nato questo gioco pericoloso. A nessuno sfugge che il motto apposto da Beethoven al Finale del Quartetto in fa maggiore op.135 (“Muß es sein? Es muß sein!”) ha in sé lo spirito vivo dell’imperativo categorico definito da Kant nella Kritik derpraktischen Vernunft: “ich muß”, fratello speculare del “du mußt” goethiano nel Faust. Ma questa è un’eco culturale immediatamente percepita. Ad Arnold Schönberg siamo grati per una fulminea analisi ulteriore: “Muß es sein? “ corrisponde a Sol, Mi inferiore e La inferiore, ossia all’inversione del retrogrado rispetto al prece-dente inciso di tre note. La via che va all'insù può essere la stessa, diceva Eraclito, che la via all'ingiù, ma la prospettiva è comunque diversa, e la soggettività radicale dell'io-penso non può trascurare le prospettive, il sopra e il sotto, la destra e la sinistra, mentre l'oggettività del cosmo potrebbe farne a meno. Si noti: inver-sioni, specularità, mascheramenti, sono il pane quotidiano nella musica dei secoli prekantiani: della tradi-zione polifonica rinascimentale, dalle forme musicali barocche, dello stile contrappuntistico più arduo. In Beethoven, l'inversione delle linee viene dichiarata con intransigenza più che con eleganza; è orizzontale con figurazioni affiancate, e si svolge nel tempo, non verticale con figurazioni sovrapposte e aggettante nel-lo spazio. Anche questo suggerisce un primato dell'io-penso, ragione-soggetto che trova i propri modelli nell'interiorità dove il reale è essenzialmente tempo (Sein und Zeit, se anticipiamo la formula di un filosofo più recente), non nel mondo esterno dove il reale è, o ci appare, soprattutto spazio. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XV n.1, gennaio 1991)

L'essere non ha mai e in nessun modo un suo uguale.

L'essere è unico rispetto a ogni ente. Martin HEIDEGGER , Grundbegriffe, II, 8

MUSICA, FILOSOFIA E I DILEMMI PRESENTI Parte tredicesima

E' noto un pensiero di Ludwig Wittgenstein databile al 1941: "Per un compositore, il contrappunto potrebbe essere un problema straordinariamente difficile. E cioè questo: in quale rapporto devo pormi con il contrap-

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punto, io, con le mie inclinazioni? Potrebbe trovare così un rapporto convenzionale e sentire tuttavia benis-simo che non è il suo, che non è chiaro quale significato il contrappunto debba avere per lui". Domanda decisiva. Il riferimento al contrappunto è quel che in retorica si chiama sineddoche: la parte per il tutto, e il tutto è naturalmente la musica, e più in generale l'arte. Il filosofo austriaco fa leva proprio sull'a-spetto del comporre musicale in cui più risalta l'inventio, l'artificio ex novo, imprevedibile e frutto di lavoro, di opus, diversamente dal momento dell'ispirazione che sembra immergersi nella realtà preesistente, cattu-rarne il nucleo e lasciarsi trasportare dalle sue onde in sintonia. Techne, ars e scientia insieme, non enthou-siasmos. I corollari alla domanda di Wittgenstein sono dunque: (a) l'invenzione musicale è realtà? (b) Se è realtà, fa parte del reale in senso univoco o è un'altra realtà che prima non esisteva? (c) Se per (b) vale la seconda ipotesi, le due realtà sono di ugual natura o esiste una differenza essenziale (un tempo si sarebbe detto: "ontologica") tra esse? Risposte, se non sufficienti, almeno molto indicative sono offerte da altre pagine delle Vermischte Bemer-kungen di Wittgenstein. In particolare, da un pensiero del 1938 sulle analogie tra musica e architettura. In esso l'autore del Tractatus logico-philosophicus, dalla cui personalità prendiamo le mosse poiché egli è for-se il filosofo del Novecento che più ha parlato di musica, dichiara apertamente una delle sue fonti fonda-mentali: Arthur Schopenhauer, il filosofo che più ha parlato di musica nell'Ottocento. L'annotazione di Wit-tgenstein avverte: 'Confronta l'osservazione di Schopenhauer sulla musica universale come accompagna-mento a un testo particolare". Il passo schopenhaueriano è il § 52, Zur Metaphysik der Musik (come alcuni editori, se non l'autore, lo hanno intitolato) nella seconda parte dell'opera maggiore, Die Welt als Wille und Vorstellung. Ne riferiamo l'itinerario, sollecitando i lettori a un dibattito sugli argomenti trattati, sia a propo-sito di questo paragrafo schopenhaueriano, sia per quanto riguarda tutto ciò che diremo in questa nostra pun-tata. Si tratta del discorso fondamentale di Schopenhauer sul linguaggio musicale, fra innumerevoli altri passi di questo e di altri scritti in cui egli ne parla. La grande trattazione è preceduta, in ordine, da quelle sul-l'architettura, sulla scultura, sulla pittura e sulla poesia (a nessuno sfugge che questa vasta sezione del libro maestro di Schopenhauer è il controcanto critico alla parallela trattazione svolta nell'Aesthetik di Hegel), e già in quelle pagine precedenti emergeva un'opinione di fondo, valevole per le arti in generale: "La materia, in quanto tale, non può essere rappresentata da un'idea" (§ 43, inizio), in quanto l'idea è svincolata dal prin-cipio di causalità cui è soggetta la materia nel suo comportarsi. La musica è esaminata da Schopenhauer do-po le altre arti poiché essa "è staccata da tutte le altre. In essa non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo [è vero, questo? sarebbe bello discuterne, N.d.R.]; eppure essa è una così grande e sublime arte, così potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, così appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo [ ... ] Dal nostro punto di vista, dunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, che si ri-ferisce alla più interiore essenza del mondo e del nostro io, rispetto alla quale le relazioni di numeri in cui la musica si lascia scomporre stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come la rappresentazione sta al rappresentato, come l'immagine sta all'originale, lo deduciamo per analogia dalle altre arti, alle quali tutte appartiene que-sto carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella della musica, solo che quest'ultima è più forte, più necessaria, più infallibile". Che cosa significa "la musica rappresenta il mondo"? Rilanciamo la domanda ai lettori bene intenzionati a discuterne, già prima di procedere con le risposte di Schopenhauer. "Nei suoni più gravi dell'armonia, del basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi della volontà che si sta interamente oggettivando, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare nati dal-le vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonare di questo suonano subito an-ch'essi, lievemente. E' legge dell'armonia accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti che insieme con essa già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti (i suoi sons harmoniques). E' un fatto analogo a quello per cui tutti i corpi e organismi della natura devono essere considerati come sviluppati gra-datamente dalla massa del pianeta". La volontà oggettivata e rappresentata dalla musica si esprime, continua Schopenhauer, nel "peregrinar lontano dal tono fondamentale, per mille vie, non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima e ai gradi eccedenti". Il rapporto della musica con la realtà si traduce, secondo Schopenhauer, in una formula perfetta nell'enunciato: "i con-cetti sono gli universalia post rem, mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re". Da questo fondamento di pensiero sono formulabili tre questioni centrali, già adombrate dal citato pen-siero di Wittgenstein:

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1) Il compositore di musica aggiunge realtà alla realtà? 2) Se è così, da dove egli trae questa nuova realtà? 3) Se è così, la nuova realtà aggiunta come si intreccia, si organizza e si fonde con la realtà preesistente? In riferimento ai dilemmi che il compositore contemporaneo incontra, le tre questioni possono tradursi in questi termini: (a) Qual è il rapporto del compositore con i mezzi compositivi tradizionali? Va inteso come perenne ripen-samento o come invenzione di nuovi linguaggi? (b) Risorge l'antico problema: dov'è l'essenza della musica, il suo nucleo ontologico? Nel mondo o fuori del mondo? E di conseguenza, il mondo è una realtà unitaria o duplice? (c) La musica ha una fisionomia oggettiva o il suo codice di significati è relativo? Alla discussione potreb-bero giovare due enunciati filosofici, che scegliamo da due versanti culturali diversi: ancora Wittgenstein, ovvero il neopositivismo logico, e il pensiero di un filosofo cattolico del Novecento, Jean Guitton. Li sotto-poniamo all'attenzione dei lettori. Ludwig Wittgenstein, ancora da Vermischte Bemerkungen, 1931: "Le composizioni musicali devono avere carattere del tutto diverso e produrre un'impressione di genere del tutto diverso a seconda che siano compo-ste al pianoforte, suonando il pianoforte, oppure pensate con la penna, oppure ancora composte solamente con l'orecchio interno. Io credo proprio che Bruckner abbia composto con l'orecchio interno e immaginando l'orchestra che suona, Brahms con la penna". Jean Guitton, Un siècle, une vie, 1988. A proposito di Henri Bergson e di alcune sue considerazioni su una sonata di Beethoven: "Quando egli [Bergson] conosceva a fondo una sonata, affermava che chi è in grado di possederne una nella mente, nota per nota, la può godere tutta intera da cima a fondo. Si ha allora un'intui-zione d'insieme che può essere istantanea, eppure il pezzo impiega quasi un'ora d'orologio a svilupparsi. Certe frasi musicali di Beethoven sarebbero potute essere diverse. Erano affidate alla libertà. Vi propongo questa immagine per illustrare quale sia il rapporto che si ha sempre tra l'eternità e la libertà. E' un problema che non so risolvere, e che sarà risolto interamente soltanto in Dio". Così si aggiunge, ai dilemmi già esposti, un quarto, che nella valutazione della musica in fieri, e quindi nel-l'apprezzamento della musica che per ciascun uomo è, di volta in volta, "contemporanea", assume forza e urgenza particolarmente tormentose. La musica che è ed è stata, doveva essere? Dato il mondo, poteva Mo-zart non essere? Anche noi, come Bergson (e come Guitton che lo cita), non sappiamo rispondere, e sarem-mo felici se qualcuno lo facesse per noi. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XV n.2, febbraio 1991)

I Quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini

della casa editrice come le patate in cantina. Tutte le opere hanno questo carattere di "cosa"...

Ma che cosa sarebbero senza di esso? Martin HEIDEGGER , Holzwege, I, 1

MUSICA SENZA FILOSOFIA

Parte quattordicesima e ultima Filosofi come Martin Heidegger e Theodor Wiesengrund Adorno sono stati e sono lontanissimi tra loro, non soltanto per le vicende umane e le scelte che li fissano nella nostra memoria a un'immagine e talvolta a un demerito, fonte di rovinose conseguenze, ma soprattutto per l'angolo visuale dal quale ciascuno di essi si è riconosciuto in una propria origine. Senza dubbio, se i filosofi si dedicassero ad osservare gli esiti del loro pensiero, anziché scavare continuamente nel proprio terreno, il panorama apparirebbe più ordinato e omo-geneo. Si dice spesso che è l'eterogenità del moderno che rende caotico l'orientamento intellettuale, ma la vera fonte di tale eterogeneità è piuttosto il passato. Eppure, un'acutissima frustrazione vissuta con disincanto che è spesso sconsolato senso di sconfitta acco-muna Heidegger e Adorno, e con loro un'intera generazione di maestri. La frustrazione è lo stato soggettivo lasciato nelle coscienze filosofiche da un volitante paradosso, uccello di malaugurio della nostra epoca. An-zi, da una catena di paradossi. Il pensiero moderno, irrobustito dalla scienza, si è teso nello sforzo immane

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di oggettivare il mondo. Nella sua fase culminante, al colmo del suo progetto di rafforzare al massimo grado lo strumento di tale oggettivazione, cioè l'Io pensante, la ragione, la Vernunft kantiana, ha dovuto ammettere che l'irrobustimento del pensiero pensante era divenuto ipertrofia del soggetto-pensiero, troppo vigoroso e corazzato per non schiacciare inevitabilmente il mondo, ridotto a un fantasma. Il mondo era divenuto pen-siero, l'oggetto era stato interamente assorbito dall'Io penso, il noumeno sfuggiva dietro il fenomeno poiché il vero noumeno era il soggetto teso a distinguere tra fenomeno e noumeno. Tutto il mondo era divenuto fe-nomenico, quindi soggettivo. Ma poiché lo sforzo oggettivante era inarrestabile, l'oggettivazione, al di là degli intenti, si era attuata, ed è ingigantita negli ultimi due secoli; solo che le verità non si erano oggettivate in realtà, bensì in "cose", ingombranti testimoni di un divorzio tra io e mondo. Verità suprema, l'arte; tanto più dolorosa la sua reificazione. Ancora più dolorosa la reificazione della musica, fra le arti la più libera, per qualità e definizione, dal rischio d'identificarsi con una merce o con un relitto dei tempi. Le opere dei pittori e degli architetti "appartengono" in quanto tali a qualcuno, o a una collettività (spesso, ahimé, allo Stato). La Primavera di Botticelli è quel quadro, non è un universale, ed è agli Uffizi e non altrove. Non è un universale, anche se significati universali vi si nascondono. La cattedrale di Chartres è quella e non altra, e il tempo la logora materialmente; una volta distrutta, sarebbe distrutta per sempre. La poesia non dipende dalla sopravvivenza di un oggetto materiale, ma la possibile scomparsa del suo veicolo linguistico e del suo codice semantico ne vanificherebbe l'esistenza. Sarebbe anch'essa una di-struzione. La musica, per natura, sembra indipendente da ogni materia collocata hic et nunc nello spazio e nel tempo, è un'idea capace d'incarnarsi in eterno in un'esecuzione, o anche in una rievocazione puramente mentale. Tuttavia, anch'essa è divenuta "cosa". E' soggetta allo scambio di favori, al mercato, all'industria che la riproduce e la contrassegna con una graduatoria di pregio, persino con un cartellino di prezzo. E' usata come lenocinio attraente per vendere meglio una merce. Nell'era della riproducibilità tecnica, secondo la ge-niale analisi-denuncia di Walter Benjamin, anche la musica subisce logorìo e degrado. Qui s'inserisce un altro paradosso. La reificazione della musica (dell'arte) è l'umiliazione del musicista com-positore (dell'artista), soprattutto del musicista di oggi rispetto a quello di ieri. Ma la reificazione è divenuta un processo inevitabìle nel momento in cui l'artista si è fatto avanti con prepotenza irrompendo nell'opera d'arte. Ogni opera d'arte, ogni musica ha materialmente e storicamente un autore, ma la realtà integrale di una musica (di un'opera d'arte) è il suo essere nel mondo, non il mero evento della sua nascita. Sono esistite fasi in cui l'opera è più importante del suo autore, invisibile nell'alone che essa irradia, e in cui l'arte in quan-to universale possibilità e nodo di possibili realizzati o non realizzati è più importante dell'opera "già fatta". L'artista si nasconde dietro la propria creatura, si avvolge nel proprio sistema universale di norme e di po-tenzialità: o plasas efanisen è l'immortale frase di Aristotele: "è proprio dell'artista scomparire" per dar luo-go all'arte che lo trascende. Nell'arco di tempo che vede l'artista, non più "mastro" ma "Maestro", assumere individualità traboccante, l'opera d'arte si individualizza, assume concretezza ma tende a farsi "cosa". Il momento in cui essa ridiventa più importante del suo autore (i Girasoli di Vari Gogh valgono oggi agli oc-chi dei nostri contemporanei incomparabilmente più di quanto i contemporanei del pittore non valutassero lui, pover'uomo impresentabile in società) è la sua vendetta; ma un'amara vendetta, che fissa l'opera e la rende schiava. Decisivo, infatti, non è di quanto l'opera sia valutata più del suo autore, ma che ad essa sia in-flitta una valutazione quantitativa. Sulla reificazione della musica convengono dunque filosofi diversissimi come Heidegger, Benjamin, Merle-au-Ponty e Adorno. E' Adorno colui che più ha battuto su questo chiodo, e tentando di capire il suo stato d'animo vogliamo concludere questa nostra serie di note sul rapporto tra musica e filosofia. L'atto filosofico e quello artistico sono inassimilabili e spesso ostili, tanto da escludersi dinanzi a verità estreme; un tratto es-si hanno in comune, ed è la libertà dalla dialettica storica cui soggiace l'atto economico, politico e giuridico, ma anche l'atto etico, la cui relatività è fuori discussione. La filosofia di Adorno è pensiero debole, tanto cri-tico e analitico da porre in discussione le stesse categorie della scepsi, e segue l'esistente, descrivendolo a posteriori, per catturarlo meglio e per frantumarlo. Così il pensiero debole ha una sua amara unità, e poco o nulla è in esso determinante la cosiddetta evoluzione delle idee. Ascoltando le parole di Adorno possiamo seguire un percorso a ritroso, indifferente al prima e al poi, e partire dai suoi testi più tardi per approdare a quelli del periodo di mezzo. La Negative Dialektik, scritta tra il 1959 e il 1966, nega in primo luogo la con-dizione attuale del mondo e apre la visione su ciò che non è, sull'utopia. La condizione denunciata è anche la condizione attuale dell'arte e in particolare della musica, fra le arti la prediletta da Adorno, musicista e com-positore in proprio. Il libro negherebbe così anche la musica a noi contemporanea e la legittimità di chi la produce, così come negherebbe la filosofia di oggi e dichiarerebbe impossibile essere filosofi oggi. La nega-zione ha un palese sapore marxiano. Eppure, Adorno rivendica la filosofia contro la condanna di Marx poi-

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ché "è stato mancato il momento della sua realizzazione", la rivoluzione non c'è stata o è abortita, e quindi il pensiero filosofico deve continuare ad opporre alla malsana totalità dell'esistente il suo gesto dimesso e in-sieme deciso, impotente e insieme suggestivo. In questa prospettiva, il musicista (l'artista) deve rifiutare qualsiasi integrazione nel sistema economico, pubblicitario, professionale, poiché una sua omogeneizzazio-ne avrebbe in sé la stessa logica di Auschwitz: la negazione di ogni significato individuale, fino all'elimina-zione fisica dell'individuo. Nella Aesthetische Theorie uscita postuma nel 1970, un anno dopo la morte del-l'autore, Adorno sviluppa i temi precedenti in una generale visione delle arti in cui la musica ha, come sem-pre in lui, la funzione più rappresentativa e riassuntiva, trattandosi di un caso estremo. Non esiste storia del-le arti come evoluzione, ma un insieme di nodi e di fratture. I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità della musica moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale. L'e-splosione è una delle invarianti della musica moderna. La musica di oggi è un mito rivolto contro se stesso; "nell'atemporalità del mito, l'attimo che spezza la continuità temporale trova la sua catastrofe". La nostra po-stilla a questa frase di Adorno è: ciò che rende terribile il rapporto odierno tra musica e pubblico è la neces-sità della musica di oggi, l'unica sua possibile autenticità. La musica, continua Adorno, è il modello strutturale del nostro tempo. "Il rapporto della musica con il tem-po musicale inteso in senso formale si determina unicamente nella relazione che con esso ha il concreto ac-cadere musicale". Ma oggi la musica si ribella contro l'ordinamento temporale voluto dalla tradizione. Ne deriva che oggi la musica, se vuol essere nuova, dev'essere senza eccezioni un atto violento. Di tale atto vio-lento, Adorno ha vissuto in pieno l'esperienza come compositore in prima persona. La sua scelta di vita e di pensiero contro il "sistema musicale" costruito dalla tradizione e identificato con l'esistente come categoria filosofica lo attrasse per consonanza naturale verso il radicalismo della Wiener Schule, ma il riconoscimento del nominalismo astratto connaturato nella tecnica di composizione con dodici suoni (Zwölftontechnik) lo ha reso a sua volta un "eretico rispetto a ciò che la Wiener Schule aveva eretto ad ortodossia", come ha scritto Clytus Gottwald, che di Adorno fu stretto amico, a proposito dei Frauenchöre di lui. Nel mondo d'oggi, la reificazione della musica fa sì che sia "cosa" qualsiasi aggregato di suoni, qualsiasi sistema, quindi anche una serie costruita secondo la Zwölftontechnik. La forma, quale che essa sia, è già un apparato consolatorio; essa va fatta esplodere. Altrimenti (ed è questa l'idea fondamentale circolante nella Philosophie der neuen Musik, del 1949) ogni possibile autenticità rischia di essere sacrificata al suo altare. Il dilemma adorniano è tra la distruzione dell'autenticità nella musica (quindi, la sua fatale traduzione in "cosa") e la distruzione del-l'esistente (quindi, la cancellazione di ogni possibilità "storica" per la musica d'oggi). Mai come nella secon-da metà del nostro secolo, in fondo più "tradizionale" nei prodotti musicali che non la prima metà, la filoso-fia si è allontanata da qualsiasi funzione giustificativa nei confronti della musica, e la musica, di conseguen-za, non ha oggi una filosofia cui riferirsi. In questa fin-de-siècle la musica non ha alcuna intenzione di rea-lizzare la profezia di Adorno il possibile e addirittura prossimo avvento di una lunga era senza musica - ed appare anzi inventiva e fertile, così come la filosofia mostra una grande forza amalgamatrice nei confronti della cultura e della società. Il vuoto filosofico della musica d'oggi deriva, piuttosto, dal fatto che la filosofia ha "sospeso il giudizio" sulla musica, e questa epoché trattiene o rallenta i nostri passi. Il territorio della mu-sica è vasto, ma dove sono i segnali indicatori? 0 se ve ne sono, somigliano fin troppo a quelli delle auto-strade intersecate da raccordi anulari, dove l'eccesso di zelo semiotico indica, ad un tempo, troppo e nulla. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XV n.3, marzo 1991)