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Pierpaolo Bellucci
Pesaro 2008
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Pierpaolo Bellucci
Pesaro eucaristica
Guida
al Museo Diocesano
Pesaro 2008
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INDICE
• La Chiesa ha bisogno dell’arte
• Le radici della Chiesa pesarese
• Pesaro nell’Ottocento
• Il museo diocesano
1. Sala del sarcofago di San Decenzio
2. Sala dei mosaici
3. Sala dei reperti archeologici
4. Sala dell’Eucaristia
• La pisside eburnea
• Saletta del crocifisso ligneo
5. Sala della confraternita del Ss. Sacramento
• Le confraternite, un esempio di solidarismo laico
• Le confraternite a Pesaro
6. Sala di Gian Andrea Lazzarini e del ‘700 pesarese
• Le opere pittoriche del Lazzarini
7. Sala dei tessuti
8. Sala della scultura lignea
9. Sala degli argenti
10. Opere inserite successivamente
11. L’ultimo ritrovamento: la basilica di San Cristoforo ad Aquilam
• Santi e beati di Pesaro
• Glossario
• Bibliografia
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LA CHIESA HA BISOGNO DELL’ARTE
“Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa
deve rendere percettibile e affascinante il mondo dello spirito”. Questa affermazione,
tratta dalla lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, echeggia il pensiero di Paolo VI e
aiuta ad impostare il discorso sulle caratteristiche del Museo Diocesano. Giovanni
Paolo II aggiunge: “Cristo stesso ha usato le immagini nella sua predicazione, in
piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’Incarnazione, icona di Dio
invisibile”. Il patrimonio artistico rappresenta l’ostensione del tempo della Chiesa,
del progetto del Padre realizzato in Cristo. La Chiesa a sua volta ha bisogno dell’arte
e dei valori della tradizione cristiana per svolgere la missione evangelica. Uno storico
della teologia farebbe opera incompleta se non riservasse la dovuta attenzione alle
realizzazioni artistiche, che costituiscono non soltanto delle illustrazioni estetiche, ma
dei veri luoghi teologici”. Fino ad ieri, i musei ecclesiastici si consideravano poco più
di depositi. Il Concilio di Trento aveva affidato ai vescovi il compito di valorizzare il
contenuto delle opere come parte integrante del loro magistero e nel luogo deputato
a questo scopo: la Chiesa. Oggi invece la situazione è diversa, anzi quasi capovolta.
Mentre il turismo di massa rischia di trasformare le chiese in musei, sono i musei
stessi a riproporre i contenuti della fede attraverso l’arte ecclesiastica. Non sarebbe
esagerato affermare che per molti nostri contemporanei è ormai più sacro il museo,
con la sua evidente funzione sociale a funzione della collettività, che la cattedrale,
percepita comunemente come resto archeologico. Se all’inizio del terzo millennio
l’uomo è più aperto all’attività culturale che a quella cultuale, incontriamolo nei
musei, fin quando non sarà lui stesso a voler tornare in chiesa. Il compito dei musei
ecclesiastici può dunque essere la conservazione e la valorizzazione delle opere
generate nell’ambito dell’esperienza cristiana. Il museo ecclesiastico ha poi un
vantaggio particolare. A differenza del museo laico, dove la pala d’altare si trova
accanto al ritratto e al paesaggio, le opere raggruppate nei musei ecclesiali rientrano
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tutte in un unico sistema culturale, con il filo conduttore contestuale che è la liturgia
(il 90% degli oggetti esposti nei musei sono stati creati per uso liturgico). Ricostruire
questo contesti significa dare senso alle opere e nel contempo valorizzare al massimo
il loro contenuto di fede. Infine, sarebbe da ripensare lo stesso termine di “museo
ecclesiastico”. Il vocabolario definisce l’aggettivo “ecclesiastico” come qualcosa che
“concerne la chiesa o il clero, nell’aspetto organizzativo, istituzionale e gerarchico”, e
il museo così definito verrebbe ad essere un affare per preti e vescovi. Lo stesso
vocabolario contiene anche l’aggettivo “ecclesiale”, che si riferisce alla “Chiesa, nel
suo aspetto di comunità spirituale”. Allora, perché non ribattezzare il museo
ecclesiastico, “museo ecclesiale”, o meglio, “museo della comunità cristiana”?1
1 Tratto da un articolo di monsignor Raffaele Mazzoli, pubblicato sul settimanale diocesano
“Il Nuovo Amico” (settembre 2006)
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LE RADICI DELLA CHIESA PESARESE
La data di nascita della Chiesa di Pesaro è ravvisabile al IV secolo d.C. Non
sembrano credibili le ipotesi di una precoce cristianizzazione del territorio, risalente
all’età apostolica. La realtà diocesana era in gran parte coincidente con l’estensione
della colonia romana “Iulia Felix Pisaurum” (Umbria Transappenninica): solo un
confine è dubbio e difficilmente rintracciabile, per il resto la conservazione è
evidente. La limitazione tra diocesi pesarese e fanese correva lungo un tracciato
regolare, in coincidenza con la linea mediana del tratto di Flaminia che congiungeva
le due città, lungo il corso dell’attuale Fosso Sejore. All’altezza di Mombaroccio la
linea di demarcazione piegava e proseguiva con andamento meno uniforme lungo il
crinale più scosceso dell’entroterra, toccando Montegaudio e Farneto, fino a
comprendere l’area di Belvedere Fogliense. A quest’altezza si chiudeva il confine
settentrionale della diocesi medievale, in gran parte segnato dal corso del fiume
Tavollo, spartiacque tra la zona pesarese e riminese. La Chiesa pesarese condusse
una penetrazione capillare nelle campagne, attraverso la creazione di un fitto reticolo
di pievi, malgrado queste siano attestate nella documentazione d’archivio solo a
partire dal XII-XIII secolo. Si è ipotizzato che l’insediamento ecclesiastico nell’antico
agro-romano avesse ereditato l’ubicazione delle primitive ecclesiae (VI secolo), a loro
volta edificate su precedenti insediamenti romani e pre-romani, a fondovalle o lungo
percorsi stradali di mezzacosta. Su questo tracciato si vennero delineando due
tipologie plebane: pievi vallive lungo il corso del Foglia, come San Martino in Foglia,
Santa Maria di Limata, e pievi collinari, distribuite secondo un reticolo piuttosto
uniforme, probabilmente su siti già precedentemente frequentati, come San Vito di
Montebaroccio, Santa Maria di Montegaudio o San Lorenzo in Strada. La situazione
extraurbana offre un quadro di desolazione: durante la crisi della compagine
imperiale i distretti minori si sfaldarono, determinando un pesante stravolgimento
del reticolo amministrativo romano: le colonie fanese, riminese, urbinate poterono
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approfittarne, giovandosi di nuove annessioni, mentre Pisaurum rimase estranea al
fenomeno espansivo, subendo il peso della penetrazione delle città limitrofe, e
vedendo ridimensionata l’estensione del contado. Tra le labili tracce di carattere
archeologico-epigrafico, unica data certa nella storia cittadina è rappresentata dal 541
d.C., quando la civitas subì distruzioni ad opera delle truppe capeggiate da Vitige nel
corso della guerra greco-gotica (535-565): furono incendiate le case ed abbattute le
mura. Dopo la riconquista fu lo stesso Belisario (545) ad ordinare la ricostruzione
della cinta e delle porte: la celerità dell’intervento fu giustificata dall’esigenza di
proteggere un punto di rilevante interesse strategico: traspare la volontà di non
lasciar decadere questi centri costieri, utili per i traffici commerciali. Il brutale
susseguirsi di riconquiste e distruzioni si risolse nel 553 con la durevole occupazione
di Narsete a nome dell’imperatore di Bisanzio e l’annessione alla Pentacoli.
All’interno di questo quadro la presenza cristiana è difficilmente rintracciabile,
perché limitate sono le testimonianze a riguardo. Rilevata la carenza del corpus
epigrafico cittadino, non si trovano risposte migliori altrove, in quanto l’agiografia
dei primi santi cittadini non pone indicazioni circa la data di cristianizzazione di
Pisaurum. La vita di San Terenzio è stata redatta attorno al XIII secolo, mentre si
sanno dati più precisi su San Decenzio e San Germano, i quali sarebbero giunti a
Roma dalle regioni britanniche nel 296 d.C., dove ricevettero il battesimo e si
diressero a Pesaro, dove furono consacrati, rispettivamente, vescovo e diacono da un
evangelizzatore locale. Subirono il martirio per le conversioni operate, venendo
uccisi il 28 ottobre del 312 d.C.; ancor più fumosa è la leggenda che illustra le gesta di
Sant’Eracliano, il quale visse nella prima metà del IV secolo, fu vescovo a Pesaro ed
era conosciuto per essere erudito di sacra dottrina. Chi non indica Terenzio come
primo vescovo, fa il nome di Fiorenzo, nominato esclusivamente nella passio del
patrono, ma la cui effettiva esistenza non è certa di autenticità. Seguono sul soglio
episcopale Decenzio ed Eracliano. L’unico personaggio la cui esistenza può essere
accertata è Germano: nel 499-501 intervenne ai Sinodi Romani come vescovo
suffraganeo, e probabilmente si prodigò per sanare lo scisma di Costantinopoli. La
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storiografia locale pesarese individua nella chiesa di San Decenzio il primo luogo di
ritrovo della comunità cristiana, anche se interventi recenti fanno risalire alla zona
dell’attuale Cattedrale il primo insediamento della domus ecclesia, che si dovrebbe
trovare sotto l’attuale via Canonica, all’altezza del primo litostroto dei mosaici del
Duomo. Solo in seguito la comunità si sarebbe spostata nella zona suburbana, dopo
la distruzione della Cattedrale durante la guerra greco-gotica, per poi tornare al
termine delle invasioni.
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PESARO NELL’OTTOCENTO
La descrizione è volta a ricostruire l’immaginario della Pesaro ottocentesca, per
delineare i mutamenti che hanno profondamente cambiato la città negli ultimi 150
anni. La fonte sono le due guide di Pesaro scritte da Giuliano Vanzolini, nel 1864 e
nel 1883.
La città di Pesaro, sebbene costruita in piano, gode di un prospetto esteso e svariato,
in cui la forma differente delle colline rompe la monotonia della pianura. La figura
che presenta la città è un pentagono irregolare: il suo perimetro è di 1.5 km, ed è
circondata da mura alte e solide, guarnite di bastioni e cinte da un fosso largo, nel
quale s’introducono le acque del Foglia.
Le porte d’ingresso. Ha cinque porte, a cominciare da quella da cui si entra venendo
dalla stazione, attraverso la via ferrata, denominata Porta Cappuccina, dall’attiguo
convento dei Cappuccini, o Collina, perché dà sulla strada che porta ai colli vicini. La
seconda porta è detta Fanestra, perché conduce a Fano (sarebbe l’odierno piazzale
Matteotti, e via Cialdini era la strada che conduceva verso Fano, passando per il
borgo periferico di Muraglia). La terza è detta Porta Sale, perché lì vicino si conserva
il sale, ma è anche soprannominata Porta Marina, perché da lì si va al mare. La
quarta entrata è detta Porta del Porto, perché conduce al canale dove sono ancorate le
barche dei marinai. La quinta si chiama Porta Rimini (ancora esistente), e sorge
davanti al c.d. Ponte Vecchio che cavalca il fiume Foglia. Attraverso questa porta
s’imbocca la strada per Rimini. Sulla parte alta delle mura girava un’ampia strada
che nel 1830 fu ridotta a pubblico passaggio, con filari di alberi esotici che rendono
delizioso il luogo.
Le strade principali. Le vie interne sono discretamente ampie e ben selciate. Fra esse
primeggia via San Francesco, che partendo da Porta Fano attraversa piazza Maggiore
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(l’attuale piazza del Popolo), e dopo questa prende il nome di Corso, fiancheggiata
da edifici eleganti appartenuti per lo più a casate nobili. In fondo al Corso si trova
l’ospedale detto “dei mentecatti”, gli Orti Giuli e l’Osservatorio Meteorologico.
Un’altra arteria importante è via San Carlo (oggi via Passeri), che dalla piazza del
Trebbio (piazza Lazzarini) arrivano sino a Porta Rimini. Dal Trebbio parte via dei
Calzolai (via Branca), prosegue nella piazza e sfocia in via Rossini. Un’altra strada
parte quasi di fronte all’umile casa natale di Gioacchino Rossini, fiancheggia palazzo
Mazzolari, la piazza e il palazzo Mosca, l’antico palazzo Leonardi, continuando per
la montata della Ginevra arrivando nella zona del Ghetto grande, e termina in
vicinanza della caserma dei monaci. Altra via degna di nota l’odierna via Mazzini,
che dalla chiesa di San Giovanni arriva sino alla pescheria. Fuori dalla città, via Doria
va dalla barriera del porto sino alla dogana, in strada del porto. Quest’ultima, parte
dal bastione del Carmine sotto la torre dell’osservatorio, correndo lungo il canale per
quasi due km.
Le piazze. Tre sono le più frequentate. Quella del Trebbio è la più ampia, ornata di
una piccola fontana e fiancheggiata in parte dal teatro. La piazza Maggiore, di forma
quadrata, a cui fanno corona grandiosi edifici, ornata anch’essa da una fontana, da
cui sgorga acqua purissima. Piazza del Porto è la più piccola, e la fontana che ospita
utilizza l’acqua della fontana di piazza Maggiore.
Il porto. La larghezza del porto canale è 35 metri. Nel 1855 ci furono due piene, che
portarono l’acqua a strabordare, e l’accumulo dei detriti rese più difficile l’entrata nel
canale delle navi commerciali.
Geografia cittadina. Pesaro è posta alla latitudine di 43° 55’, e alla longitudine di 10°
34’. Nei punti più alti raggiunge l’altezza sul livello del mare di 15 metri, nei punti
più bassi di soli tre metri. Il piano antico era molto più basso, e se ne ha prova nei tre
pavimenti l’uno sovrapposto all’altro rinvenuti sotto il Duomo. La testimonianza più
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autorevole, a detta del Vanzolini, è però il tentativo del conte Paoli di scavare per 4.7
metri sotto Porta Fano, rinvenendo parte della Flaminia. I monti circostanti di
maggiore importanza sono il San Bartolo, alto 180 metri, e l’Ardizio: entrambi
appartengono a quella catena di colline che, costeggiando il mare dalla foce del
Musone, arrivano sino a Cattolica, per una lunghezza complessiva di 90 km. Nel
circondario, la serie di colline più alte cammina da Fosso Sejore verso l’Arzilla,
Novilara, Mombaroccio, Monteguadio, Montelevecchie, risalendo verso Tavullia,
Monteluro, Gabicce, Casteldimezzo e Fiorenzuola. Questa cerchia di colli chiude
Pesaro in una conca di rara bellezza. Un’altra catena abbraccia Candelara, Calibano
(Villa Fastiggi), Ginestreto, Sant’Angelo in Lizzola, Montelabbate, Santa Colomba,
l’Imperiale e Caprile.
Condizioni climatiche. Il clima è temperato e piuttosto umido (82% umidità media).
E’ raro che in estate il termometro superi 32°, e che in inverno scenda sotto i meno 6°,
anche se nel 1863 arrivò sino a meno 12°. Nel decennio 1853-63 la media annuale è
stata di 17°, suddivisa in 8° nella stagione invernale, 15° in primavera, 26° in estate e
18° in autunno. La quantità d’acqua caduta è di 86 cm all’anno, con 112 giorni di
pioggia o neve 178 di cielo sereno, con 75 giorni di tempo nuvoloso.
Le parrocchie. In città sono sei. Cattedrale, San Giacomo, San Michele Arcangelo, San
Cassiano, Santa Lucia, San Niccolò. All’esterno sono cinque: Trebbiantico, Santa
Maria dell’Imperiale o Fabbrecce, Beata Vergine di Loreto, San Pietro in Calibano e
Roncaglia.
Statistiche sugli abitanti. I 19.905 abitanti totali (città e contado), sono così suddivisi:
10.740 entro le mura, 1.807 al Porto, 833 nelle ville di Santa Maria delle Fabbrecce,
San Pietro in Calibano, Roncaglia, Santa Veneranda, Trebbiantico e Santa Marina,
6.525 in case sparse nel territorio. La densità, calcolata in miglia/quadrate, è di 250
abitanti. Le famiglie sono 2.525 in città e 1.784 nelle ville. In totale i nuclei sono 4.299.
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Si contano 3.957 capifamiglia, di cui 3.390 uomini e 567 donne. In totale ci sono 10.255
maschi e 9.650 femmine. I celibi maschi sono 6.238, le femmine 5.158 (11.396). i
coniugati sono 7.046, i vedovi 476 uomini e 987 donne. Parlano il francese in quattro,
l’inglese in due. I cattolici sono 19.685, gli atei due, gli ebrei 218. Abbiamo 5.736
under 15, 5.346 tra i 15 e i 30 anni, 7.206 tra i 30 e i 60 anni, 1.697 over 60, precisando
che il più anziano ha 94 anni. In 788 sanno leggere, in 4.782 leggere e scrivere, 14.335
sono analfabeti.
I mestieri. Abbiamo 71 agricoltori proprietari, quattro agenti commerciali, sette
armaioli, quattro arrotini, sette avvocati, 64 barbieri, quattro becchini, 130 bottegai,
278 calzolai, 55 camerieri, sei cantonieri, 20 cappellai, dieci carbonai, 63 carrettieri, sei
chirurghi, 15 ciabattini, 244 religiosi (preti, frati, monache), 16 cocchieri, 22 copisti, 18
cordai, 180 cucitrici, 40 cuochi, 14 droghieri, 116 fabbri, 82 facchini, 163 falegnami, 18
farmacisti, 42 fornai, un fotografo, 11 geometri, 105 garzoni campestri, 25 giardinieri,
1.298 giornalieri, 33 giovani di negozio, 11 illuminatori notturni, 32 impiegati
comunali, 23 ferrovieri, 17 infermieri, otto ingegneri, 108 lavandaie, 19 locandieri, 38
macellai, 11 maiolicai, 204 marinai, 13 medici, 360 mendicanti, 16 mondezzai, 141
muratori, 81 negozianti, nove notai, 121 ortolani, 38 osti, 134 pensionati, 108
pescatori, 35 pescivendoli, 64 insegnanti, 20 prostitute, 365 sarti (uomini e donne),
437 studenti, 7.065 disoccupati, 616 servi (uomini e donne), 620 soldati, 16 stallieri,
144 tessitrici.
Pesaro 20 anni dopo. Nel 1883 la popolazione sale a 21.150 abitanti (+ 1.245 rispetto
al 1864), di cui 11.123 in città, 2.057 al porto, 3.642 a Fabbrecce, 2.858 a Calibano e
1.470 a Trebbiantico. Le 14 parrocchie contano (tra parentesi il numero di anime):
Cattedrale (2.060), Sant’Arcangelo (1.235), San Giacomo (485), Santi Lucia e
Paterniano (1.126), San Nicolò (4.006), Santi Cassiano ed Eracliano (3.953), Santa
Maria di Loreto (690), San Giuliano in Trebbiantico (1.081), San Pietro in Calibano
(2.474), Santa Maria delle Fabbrecce (1.953), San Matteo di Roncaglia (879), Santa
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Maria in Cuspisano (748, di nuova erezione), Santo Stefano di Candelara (398, idem),
San Giovanni in Monteluro (62, idem). Nella guida viene fatto un bilancio sulla
situazione della città: “Per quanto si attiene all’importante rapporto sull’istruzione, le
tavole statistiche non offrono soddisfacenti risultati, poiché il numero degli alfabeti è
ancora alto (955 obbligati, 876 iscritti, 79 mancanti di cui 26 assenti ingiustificati, 76
ammende per irregolarità nella frequenza). L’accresciuto numero delle scuole
primarie, urbane e rurali, e la stretta applicazione delle ultime leggi che rendono
obbligatoria l’istruzione, fanno ben sperare che nella crescente generazione anche a
Pesaro l’analfabetismo divenga un’eccezione”. La città dispone di 25 scuole diurne,
serali e festive, 27 insegnanti e 1.520 iscritti (900 maschi e 620 femmine). Dal punto di
vista industriale, “sei filande a vapore lavorano tra i sei e gli otto mesi l’anno,
impiegando 850 operaie, mentre le 11 filande a fuoco diretto lavorano quattro mesi e
impiegano 170 operaie. Quattro officine meccaniche occupano 130 operai, tra cui
primeggia quella di casa Albani, che possiede anche una raffineria di zolfo e un
molino per produrre farina, impiegando in ognuna di queste due industrie, 25
operai. 16 fabbriche di fettucce impiegano 160 operaie, al soldo dell’imprenditore
Ottone Hoz. A seguire, uno stabilimento ortofrutticolo è posto fuori Porta Rimini, tre
fornaci di laterizi danno lavoro per sei mesi a 150 operai. Due stabilimenti
tipografici, tra cui quello della ditta Annesso Nobili, occupano 60 operai. Tre
litografie, tre fabbriche di ceramiche, una di sapone e candele, una di letti di ferro,
quattro fabbriche di paste delle quali una a vapore, due fabbriche d’acqua di Seltz e
una di birra, e per concludere, qualche opificio di minore importanza.
Turismo in città. Nella guida del Vanzolini si fa una proposta di giro turistico per la
città. “Da piazza Maggiore visitare il palazzo della Prefettura, il Municipio e
l’annessa chiesa di Sant’Ubaldo, seguitando per via San Francesco con l’omonima
chiesa e quella di San Rocco, palazzo Baldassini e la chiesa dei Servi. Passeggiando
sui bastioni delle mura, visitare la fortezza e le mura del Duomo. Arrivati nella
principale chiesa pesarese, si visiti casa Paoli, il Vescovado, il Seminario, la casa di
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Pandolfo Collenuccio, casa Rossini, palazzo Toschi Mosca, palazzo Reggiani (già
Gavardini), palazzo Vatielli dove è custodita una Madonna dipinta da Raffaello.
Tornati in piazza Maggiore, si scende per il Corso, dando uno sguardo a casa
Belenzoni, e girando a destra si risale verso piazza Mosca, con casa Vaccai. Passando
la volta della Ginevra, si visiti la chiesa dell’Annunziata, e scendendo per il vicolo
Perticari, osservare la casa di Giulio Perticari. Tornati nel Corso, osservare la casa
dove nacque Simone Cantarini, la chiesa del Nome di Dio e quella di Sant’Agostino,
il palazzo Bonamini, la chiesa di San Cassiano, la pescheria, la chiesa del Porto,
proseguendo fino al porto canale. Ritornando sulle proprie orme, si può imboccare
via Cassi con la chiesa dei Monaci, proseguendo per l’ospedale San Salvatore e la sua
chiesa, il Borgo, la chiesa della Purificazione, il manicomio, gli Orti Giuli e
l’osservatorio meteorologico. Ancora, sulla strada San Giovanni, proseguire fino al
tempio dei Frati Minori Riformati, e la vicina chiesa di San Francesco di Paola,
seguitando per via Almerici fino alla chiesa della Misericordia. Poi casa Antaldi, il
museo Passeri, la chiesa di Santa Lucia, il teatro Rossini, la chiesa dei Cappuccini
(quella vecchia, dedicata all’Immacolata Concezione), e attraversando il Trebbio e
salutata la casa del pittore Gian Andrea Lazzarini, la chiesa della Madonna delle
Galigherie, quella di Sant’Antonio, palazzo Cinelli (già Fronzi), San Giacomo,
palazzo Machirelli, la biblioteca Oliveriana, terminando con la chiesa della
Maddalena. Tornando indietro, da vedere la chiesa di San Giuseppe, e da qui,
tornando in via dei Calzolai, la chiesa di San Domenico, all’entrata di piazza
Maggiore.
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IL MUSEO DIOCESANO
Il museo diocesano testimonia l’operato della Chiesa pesarese nel tempo. Narra la
storia della comunità cristiana attraverso ciò che testimoniano le diverse
ritualizzazioni, le molteplici forme di pietà, le variegate congiunture sociali, le
specifiche situazioni ambientali. Presenta la bellezza di quanto è stato creato per il
culto e per la catechesi, per la cultura e per la carità. Il museo diocesano serve a
scoprire e rivivere le testimonianze di fede delle passate generazioni attraverso i
reperti sensibili, documenta le fragilità dei materiali, le calamità naturali, le avverse o
fortunate condizioni storiche, il mutare della sensibilità culturale, delle forme
liturgiche. L’istituzione museale assolve pertanto ad una funzione magistrale e
didattica, fornendo una prospettiva storica e un godimento estetico, evidenziando la
forza creativa dell’uomo congiunta alla fede dei credenti. Le collezioni si
compongono di reperti archeologici e di beni storico-artistici che, da strumenti di
culto, di pietà e di catechesi specifici della comunità cristiana, divengono patrimoni
in forza del loro contenuto culturale ed estetico, sottratti a rischi di custodia,
alienazione o degrado delle strutture di appartenenza. Il Museo ha sede nello spazio
sotterraneo di Palazzo Lazzarini. L’edificio, posto di fronte al Duomo, fu costruito
come Seminario a partire dal 1785 per volontà dei vescovi Barsanti prima e Luvini
poi, e per opera di due architetti: il pesarese Giannandrea Lazzarini (1710-1801), che
ne fu l’ideatore, ed il camerte Giovanni Antinori (1734-1792). Il palazzo fu inaugurato
nel 1788 e radicalmente ristrutturato nella pavimentazione e nell’impiantistica tra il
1905 e il 1930.
Il percorso museale inizia dalla sezione archeologica, divisa in tre sale.
1. Nella sala del sarcofago di San Decenzio è ricomposto quel piccolo museo che si
trovava nell’atrio del Vescovado, costituito nel 1775 dal vescovo De Simone con
reperti romani e paleo-cristiani provenienti dal c.d. ninfeo sacro pesarese. Elementi
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unificanti sono i due sarcofagi: quello proveniente dalla chiesa di San Decenzio,
attestazione dell’arte ravennate del VII secolo, e quello alto-medievale, della metà
dell’VIII secolo, detto “di Ginestreto”, dal luogo di provenienza.
2. Nella sala dei mosaici si ha modo di riflettere sul prezioso tappeto pavimentale.
3. Nella sala dei reperti archeologici sono esposti oggetti emersi negli scavi del 1990.
Prosegue nella sezione storico-artistica, suddivisa in sei sale:
1. La sala dell’Eucaristia documenta aspetti della liturgia: vi primeggia la pisside
eburnea, testimonianza bizantina ricavata da una zanna di elefante e collocabile
tra il IV e il VI secolo d.C., con raffigurati tre miracoli.
2. La sala della confraternita del Santissimo Sacramento testimonia l’operosità
dell’associazione laica, istituita nella Cattedrale di Pesaro nel 1550.
3. La sala del Lazzarini e del ‘700 pesarese mostra la ricchezza artistica del secolo,
ravvisabile nella preziosità degli oggetti esposti.
4. La sala dei tessuti contiene abiti liturgici caratterizzati dalla varietà dei motivi
decorativi.
5. La sala della scultura lignea contiene manufatti del XVII-XVIII secolo.
6. La sala degli argenti contiene arredi liturgici di argentieri del XIX secolo.
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1. SALA DEL SARCOFAGO DI S. DECENZIO
In questa sala si è idealmente ricomposto quel piccolo museo allestito nel 1775 dal
vescovo Gennaro Antonio De Simone nell’atrio del vescovado, costituito da reperti
romani e paleo-cristiani. Tra questi, da segnalare le epigrafi funerarie e alcuni
capitelli marmorei rilavorati in epoca medievale. Elementi unificanti della sala sono i
due sarcofagi, quello di San Decenzio, con motivi paleo-cristiani, e quello alto-
medievale.
Sarcofago con motivi paleo-cristiani (San Decenzio). Sarcofago in calcare con
coperchio a baule. La decorazione, dalla forte valenza simbolica, della fronte attuale
della cassa presenta al centro un clipeo con monogramma cristologico tra due palme
e due agnelli. Nella parte posteriore appare lo stesso monogramma tra pavoni
(simbolo di fecondità) e palme (martirio). Il coperchio bombato è decorato con tralci
di vite e grappoli d’uva (simboli del sangue di Cristo), che si dipanano tra due
cantari buccellati.
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Sarcofago alto-medievale. La cassa in calcare fu rinvenuta nel XVIII secolo in una
casa colonica di Ginestreto, dove era adoperata come abbeveratoio. La scoperta è
2 Sarcofago di San Decenzio.
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stata fatta da un’equipe d’archeologi, tra i quali Giambattista Passeri, Gian Andrea
Lazzarini e Annibale degli Abbati Olivieri. Questi scoprirono il sarcofago
intravedendo l’epigrafe sul bordo in alto, unica parte scoperta del sarcofago, visto
che il resto era coperto da muschio e sterpaglie (che ne hanno permesso la
conservazione). Trasferito in un primo tempo nella pieve di Ginestreto, fu poi
collocato nell’atrio del Vescovado. Il rilievo della fronte presenta la mano divina tra
due personaggi entro una cornice con epigrafe latina (versetto 16 del salmo 117). Nel
retro, il rilievo raffigura la scena interpretata come la liberazione di un ossesso.
3
3 Sarcofago alto-medievale.
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2. SALA DEI MOSAICI
Questa sala propone una riflessione sui due tappeti musivi conservati nel Duomo. I
due litostroti appartengono a periodi storici differenti: quello superiore risale al VI
secolo, quello sottostante (inferiore di circa 70 cm) è del IV secolo. Durante gli scavi
archeologici effettuati tra il 1990 e il 2003, è stato effettuato lo strappo d’alcune parti
del mosaico superiore, qui musealizzate per il pubblico.
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4 Una fotografia del tappeto musivo sotto il pavimento della Cattedrale di Pesaro. Si tratta
del litostroto del VI secolo d.C., mentre le fessure che si intravedono permettono la visione
del primo litostroto, risalente al IV secolo d.C.
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5
I mosaici. Durante il IV secolo si diffonde anche a Pesaro il cristianesimo, e vicino
alle mura, in prossimità di una delle quattro porte urbiche (quella posta in direzione
del mare), viene costruita la prima Basilica Cattedrale. La guerra goto-bizantina
scoppiò verso la metà del IV secolo per il dominio dell'Italia tra i Bizantini
dell'Impero Romano d'Oriente e la popolazione germanica dei Goti, e le Marche
furono un terreno di scontri perché avevano importanza strategica, collegate con
Roma che era la capitale religiosa, con Ravenna che era la capitale politica, con
Bisanzio, capitale dell'Impero, attraverso il porto di Ancona, e risultò devastante: a
Pesaro, in particolare, le case vennero bruciate, le mura demolite, la prima Basilica
Cattedrale distrutta. Alla fine venne ripristinato il potere di Bisanzio, dove era
imperatore Giustiniano. In seguito, uno degli strateghi di Giustiniano fece ricostruire
la Basilica Cattedrale, con grande ricchezza di mezzi. L'iscrizione dedicatoria posta
dopo l'ingresso ci consente di conoscere il suo nome: Giovanni, magister militum.
L'iscrizione completa è: "Con l'aiuto di Dio e con l'intercessione della Beata Vergine
5 Il plastico presenta il frammento del tappeto bizantino, mentre il pavimento inferiore è una
copia.
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Maria, Giovanni, uomo illustre, stratega di rango consolare, originario della Provincia della
Misia, ha fatto costruire dalle fondamenta questa Basilica, con ogni devozione". Pochi sono i
resti della città romana: soprattutto epigrafi, reperti di pavimenti a mosaico di edifici
privati o pubblici, e un poderoso frammento della cinta muraria, costruita con
blocchi di pietra e laterizio. La città fu incendiata e rasa al suolo da Vitige nella
Guerra Gotica del 535. Al fermano Giambattista Carducci si deve lo scoprimento dei
mosaici superiori, che erano già noti agli studiosi locali fin dal ‘600, così come si
aveva notizia dell'esistenza del litostroto inferiore. Dopo la pubblicazione delle
tavole planimetriche del Carducci, nel 1867, ci furono dibattiti durati più di 30 anni,
finché, nei primi anni del ‘900, i mosaici vennero di nuovo ricoperti.
Simbolismo. Pesci e grappoli d'uva, in particolare, hanno un immediato riferimento
simbolico a Cristo e al vino eucaristico. I vari uccelli o animali sono generalmente
simboli delle anime alla fonte della verità. Successivamente si inseriscono nuove
figurazioni come l'uomo, il ghepardo che azzanna una gazzella, il centauro–
sagittario, pavoni, cervi, uccelli vampiri, un ghepardo con collare, una balena che
divora brandelli umani, con accanto un moncone e una testa, una nave che si collega
ad un episodio del ciclo dei romanzi di Troia, un cinghiale (personificazione della
lussuria), assalito da un grifone (simbolo di Cristo nella doppia natura umana e
divina), la sirena con coda biforcuta circondata da un bordo con intrecci.
Successivamente, sulla stesura originaria dei mosaici, vengono compiuti rifacimenti: i
più vasti risalgono al XII-XIII secolo, poco prima che la Cattedrale subisse radicali
trasformazioni architettoniche, e poderosi pilastri prendessero il posto delle colonne.
Vengono dunque sostituite parti dei pannelli geometrici del VI secolo, inserendo
nuove figurazioni (vedi paragrafo precedente). Più sotto, a circa 60 cm dal litostroto
superiore, c'è il pavimento inferiore: altrettanto vasto, forse segnato da tracce
d'incendio della guerra goto-bizantina, testimonianza delle prime figurazioni che la
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comunità cristiana pesarese ha espresso, ricollegando l'eredità della cultura romana
alle nuove esigenze spirituali.6
3. SALA DEI REPERTI ARCHEOLOGICI
I reperti esposti rappresentano un primo nucleo dei numerosi materiali recuperati
sotto il Duomo Pesaro. Essi hanno portato alla luce rinvenimenti di epoca romana
(come una piccola serie di bolli laterizi), medievale e rinascimentale (frammenti
ceramici).
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6 Fonte: www.arcidiocesipesaro.it 7 La vetrina con alcuni reperti, frutto dei lavori di scavo effettuati sotto il sagrato della
Cattedrale, tra il 1990 e il 2003.
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8 Vaso di epoca romana. 9 Capitello di epoca romana.
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10 Angioletto di epoca paleocristiana. 11 Bassorilievo con figura di santa. Probabilmente si tratta di S. Apollonia.
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4. SALA DELL’EUCARISTIA
Appena si entra nella sala dell’Eucaristia si riconosce uno splendido ostensorio, con a
fianco un tabernacolo dorato, e di fronte tre croci d’altare: si tratta di oggetti liturgici
appartenenti ad alcune parrocchie pesaresi, alcuni dei quali (come l’ostensorio)
ancora utilizzati per celebrazioni di un certo rilievo. Al centro della sala si trova la
pisside d’avorio, proveniente da un’officina di Ravenna. L’opera, ottenuta da una
zanna d’elefante e donata dall’imperatore Giustiniano a Massimiano, prima della sua
elezione a vescovo di Ravenna nel 546 d.C.: è un raro oggetto liturgico (tre esemplari
al mondo dello stesso valore), usato per portare l’Eucaristia al di fuori degli edifici
sacri, trova qualche analogia con le due pissidi eburnee conservate a Berlino e al
Louvre. Nella pisside sono raffigurati i tre miracoli della guarigione dell’emorroissa,
della figlia di Giairo e del cieco nato. I sacri eventi alludono al ritorno alla vita, e
corrispondono alla narrazione evangelica. La raffigurazione dei tre miracoli, in una
superficie così piccola, è caratterizzata da grande forza realistica, e da intensa
drammaticità.
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12 Pisside eburnea. Simboleggia la dedicazione del Museo Diocesano al tema dell’Eucaristia.
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La pisside eburnea. Provvista di coperchio, misura 7.5 cm d’altezza (con il coperchio
arriva a 8.8 cm) e 10.5-11 cm di diametro. Viene chiamata dagli archeologi
“artoforio”, ossia ciborio: vaso destinato, nel periodo paleo-cristiano, a contenere
specie eucaristiche. La pisside è adornata da tre miracoli compiuti durante la
predicazione di Gesù: la guarigione dell’emorroissa, del cieco nato e la resurrezione
della figlia di Giairo. I primi due episodi sono collegati fra loro. Da una parte una
corona d’alloro contenente una croce dai bordi profilati, dall’altra una colonna
baccellata che sorregge degli archetti, dividono le prime due scene dal miracolo della
guarigione del cieco nato. La rappresentazione di questo miracolo ritorna anche in
sarcofagi risalenti ai primi secoli dopo Cristo, ma con differente disposizione della
scena. Nella scena della guarigione del cieco nato viene rappresentato Gesù nell’atto
di benedire il cieco e di risanarlo, mentre questi avanza con l’aiuto di un grosso
bastone facendo con la destra un gesto di meraviglia per il miracolo compiuto. La
rappresentazione è inquadrata da due apostoli con la mano destra alzata in
atteggiamento di stupore ed un volume nella mano sinistra: essi fungono da
testimoni del miracolo. Non dovrebbe alludere alla guarigione del cieco di Betsaida
(Mc 8,22-26), né a quella del cieco della piscina di Siloe (Gv 9,1-41), che prevedono
l’imposizione delle mani sulla persona da guarire, bensì dovrebbe riferirsi alla
guarigione del cieco di Gerico (Lc 18,35-43). A differenza del miracolo della
guarigione dell’emorroissa, qui Gesù non tocca il malato ma lo illumina. Ci sono due
testimoni del miracolo: a sinistra San Paolo, con la barba appuntita e la fronte calva; a
destra San Pietro, per la barba arricciata e i capelli corti. I due episodi corrispondono
alla narrazione evangelica, che ritroviamo in Mt 9,18-26, Mc 5,21-43, Lc 8,10-56.
L’emorroissa s’inginocchia e tocca con la mano destra l’orlo della veste di Cristo,
mentre costui si avvicina alla fanciulla seduta sul letto. All’evento sono presenti i
genitori della fanciulla e i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Troviamo la
madre sulla destra in atto di avvicinarsi a Gesù con le mani velate, dietro al letto il
padre con un’espressione di dolore e intorno a Gesù ci sono i tre apostoli (a sinistra
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Giacomo e Giovanni, ai piedi del letto Pietro). Analizzando la pisside da un punto di
vista stilistico notiamo che le figure sono curate nell’intaglio, rispettando una certa
proporzione. I volti sono particolareggiati. Il più nobile è Gesù, il più espressivo
Pietro, il più austero Paolo e il più angosciato Giairo. La pisside può essere riferita ad
una committenza occidentale e forse ad un atelier operante a Ravenna. Non è da
escludere l’ipotesi secondo cui si siano trasferite lì alcune maestranze di
Costantinopoli.
Saletta del crocifisso ligneo. Oltrepassando la sala della pisside eburnea, si entra in
una saletta dove sono esposti oggetti attinenti al tema eucaristico, come il trono per
l’esposizione dell’Eucaristia, l’espositore, calici, pissidi, e un crocifisso ligneo del
‘300. Espositore: è di colore dorato; alto è il valore simbolico che trasmette: vi è
rappresentato, in altorilievo, un pellicano con i suoi piccoli. Il pellicano è un animale
sacro per la cristianità poiché, in mancanza di cibo, si lascia beccare la sua stessa
carne: è facile comprendere perché il cristianesimo l’abbia adottato come animale
sacro, poiché rappresenta Cristo che offre il suo corpo come nutrimento spirituale
per l’umanità. Crocifisso ligneo: è di colore rosso, e come molti crocifissi del basso
Medioevo non è intagliato nel legno ma dipinto. Di provenienza non identificata,
vede rappresentati ai lati la Madonna e San Giovanni evangelista, gli unici a
rimanere sotto la croce. In alto San Cristoforo, in basso Sant’Antonio Abate: la loro
presenza può essere riferita ai santi protettori della chiesa in cui era posto, oppure
alla devozione dell’artista.
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13 Crocifisso ligneo datato alla fine del Trecento. E’ opera di un tale soprannominato
“maestro del crocifisso di Pesaro”. E’ realizzato con tempera su tavola, e la provenienza non
è stata identificata.
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14 Tabernacolo di legno intagliato e dorato. Appartiene al tesoro del Capitolo della
Cattedrale.
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4. SALA DELLA CONFRATERNITA
DEL SANTISSIMO SACRAMENTO
La sala è dedicata alla confraternita del Ss. Sacramento, associazione laica tra le 15
esistenti a Pesaro, istituita nel 1550. La confraternita, che annovera fin dalle sue
origini quali propri custodi i duchi Guidobaldo II Della Rovere (1514-1574) e la sua
consorte, Vittoria Farnese, assolveva il compito precipuo di accompagnare il
sacerdote nell’amministrazione del viatico agli infermi, nell’assistere i confratelli
malati e nel seppellire i defunti. Aveva il suo oratorio nella chiesa attigua al sagrato
del Duomo, intitolata originariamente al Buon Gesù, dal nome della compagnia
proprietaria dell’edificio con la quale si era fusa nel 1568. A documentare la storia
dell’associazione sono qui esposti alcuni pregevoli manufatti, i quali, allontanati dal
luogo d’origine in seguito al declino della compagnia pesarese, culminato nella
sconsacrazione dell’oratorio avvenuta nel 1956, sono oggi valorizzati nel museo.
15 Croci d’altare del Settecento e Ottocento, tutte provenienti da botteghe marchigiane.
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L’arredo dei tre altari, con i relativi dipinti e la scultura del Cristo crocifisso che si
trovano nell’antica chiesa furono trasportati a San Lorenzo di Tavullia per
interessamento del parroco, Giuseppe Garattoni, dove sono ancora oggi visibili. Gli
oggetti esposti in questa sala documentano la storia dell’associazione: la tabella con i
nomi degli iscritti, l’insegna caratterizzata dall’iconografia del corpo e del sangue di
Cristo, raccolti dal calice, e la banda funebre per l’accompagnamento dei confratelli
defunti.
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16 Tabella con i nomi degli iscritti alla Confraternita del Ss. Sacramento. Risale all’epoca
dell’episcopato di monsignor Clemente Fares (1856-1896), il primo degli iscritti.
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17 Insegna della confraternita. Al centro una copia di dimensioni ridotte del “Mistero
dell’Eucaristia”.
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18 “Mistero dell’Eucaristia”, manufatto in legno scolpito, intagliato, dipinto e dorato.
Raffigura il calice contenente il corpo e il sangue di Cristo, simbolo della Confraternita del Ss.
Sacramento. 19 Statua lignea di San Francesco Saverio, datata 1730. Appartiene alla suddetta confraternita.
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LE CONFRATERNITE
UN ESEMPIO DI SOLIDARISMO LAICO
Entrare nel variegato universo delle confraternite significa acquisire la
consapevolezza di navigare all’interno di una galassia indefinibile nella sua
completezza, in quanto priva di precise coordinate spazio-temporali. Ogni nazione,
regione, città, sa di avere nel proprio trascorso storico un debito umano e culturale
con una o più confraternite. Per scoprire le origini e il significato delle confraternite
occorre risalire alle vicende delle prime comunità cristiane, narrate negli Atti degli
Apostoli. Esse, alla stessa maniera delle confraternite nate nel periodo tardo-
medievale, avevano le loro assemblee legiferate da statuti, con funzionari addetti chi
alla cassa, chi ad altre mansioni amministrative. Il fenomeno trova il suo humus
durante il Medioevo: è a partire dal secolo X che si ha notizia di queste aggregazioni.
Si ponevano come fine primario una serie di azioni caritative a vasto raggio: la difesa
dei deboli, il servizio ai sofferenti, la gestione degli ospedali, la sepoltura dei morti,
l’aiuto ai carcerati. Essendo questi poli di intervento già ben definiti ed operativi fin
dal XIII secolo, è comprensibile come le confraternite svolgessero un ruolo
accentratore non solo in ambito religioso, ma anche sotto il profilo politico. Sul piano
religioso, manifestano l’impegno del mondo laico nel suo tentativo di situarsi fra la
gerarchia costituita e il monachesimo emergente. In ambito civile, le Pie Unioni
materializzano quell’impulso partecipativo che molti cittadini avvertono impellente.
Sotto il profilo economico, le confraternite dispongono di patrimoni molto
consistenti, frutto di lasciti, cospicue donazioni, specifici investimenti. Infine, come
espressione della pietà popolare, possiedono un’enorme capacità di mobilitazione
dei sentimenti, riuscendo a calamitare la spiritualità dei singoli e dell’intera
comunità, sacralizzando determinati comportamenti e scandendo le fasi più
significative dell’esistenza. Se ne deduce abbastanza facilmente che il fastidio creato
dalle confraternite alle alte gerarchie ecclesiali ha portato abbastanza spesso a
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tentativi di frenaggio dell’attività delle stesse. Utili allo studio delle confraternite
sono:
• Statuti: rappresentano il punto di vista dei funzionari, dei vescovi e dei consiglieri
spirituali. Informano sui membri rappresentativi, sulle elezioni, sul codice
deontologico.
• Gli Atti delle Visite, le relazioni di vescovi e visitatori apostolici dopo le visite alle
parrocchie cui le confraternite erano annesse. Esistevano anche le c.d. “visitationes
ad limina”, inaugurate da papa Sisto V dopo il 1585: un resoconto che il vescovo
era invitato a fare ogni tre anni, dal quale doveva risultare lo stato della diocesi in
merito alla presenza delle congregazioni.
• I documenti d’archivio, prodotti dalle stesse confraternite, i quali risultano poco o
nulla esaminati, perché dispersi fra archivi di Stato, diocesani e privati. Si tratta di
verbali delle riunioni ufficiali, dai quali possiamo conoscere i problemi interni ad
un sodalizio, le decisioni prese, l’elenco delle attività programmate e delle spese
sostenute, l’accettazione o il rifiuto dei membri che chiedevano di entrare. Inoltre,
richieste di intervento assistenziale rivolte alla Pia Unione. Sono sopravvissuti
all’incuria del tempo anche gli elenchi alfabetici degli associati, mentre restano
pochi libri contabili.
L’inquadramento linguistico del vocabolo “confraternita” è caratterizzato da una
generale omologia che lo racchiude entro la cornice seguente: La Confraternita, detta
Pia Unione, Congregazione, Compagnia, Sodalizio, è un sistema associativo costituito da
laici, che si vincolano per operare con fini di culto e beneficenza.
Caratteristiche. I soci delle confraternite, a differenza dei partecipanti ad associazioni
monastiche (i vari Terz’Ordini), non assumono voti di alcun genere e non sono tenuti
a fare vita comune, ma si impegnano in pratiche cultuali e nell’esercizio di opere
caritative. In base al criterio delle finalità, una delle classificazioni riconosce due
modelli:
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• Confraternite di culto; si dividevano in confraternite festive, deputate
all’organizzazione della festa del santo patrono, e confraternite di gestione della
morte, che garantivano l’assistenza ai morti abbandonati nelle campagne o lungo
le strade (spettacolo non inconsueto nei secoli scorsi).
• Confraternite di beneficenza: hanno incontrato notevoli problemi di sopravvivenza,
in quanto pochi sodalizi hanno attuato una conversione secondo le disposizioni
regolanti l’attività caritativa.
Gli associati impegnavano una parte cospicua dei loro averi per far fronte alle spese,
con la promessa di avere garantito un posto in Paradiso. Non era necessario
diventare membro della confraternita per assicurarsi la vita eterna. Bastava
sottoscrivere un lascito a favore della Compagnia: in questo modo, dall’esterno, si
sostenevano le iniziative. Ogni confraternita, per ritagliarsi una sua immagine,
assumeva un proprio habitus particolare, ossia tutto un corredo che i suoi soci
indossavano nelle cerimonie ufficiali. La divisa era importante per ogni confraternita,
al punto che i nuovi entrati avevano un mese di tempo per farsela cucire: doveva
essere di un determinato tessuto e colore, con disegni sul petto, e doveva essere
portata in un certo modo. Altrimenti si incorreva in una sanzione pagabile alla
compagnia.
Obblighi religiosi
1. Riunione settimanale per lodare il Signore.
2. Partecipazione alle Quarantore quaresimali.
3. Vespro serale.
4. Digiuno nelle vigilie comandate e confessione mensile.
5. Pellegrinaggio triennale alla Madonna di Loreto, con confessione e comunione.
6. Elemosina alla Compagnia.
7. Partecipazione alle processioni della confraternita.
8. Seppellire i morti, e contribuire a livello economico per la detta opera.
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Le confraternite oggi. Dopo le vicissitudini legislative sulla natura giuridica delle
confraternite, che hanno interessato il tramonto dell’Ottocento e tutto il Novecento, si
è giunti nel 2000 ad un decreto della Cei che vara lo Statuto della confederazione
delle confraternite delle diocesi d’Italia, che costituisce un importante traguardo.
Saremmo perciò fuoristrada se pensassimo alle confraternite come a qualcosa
d’estinto: oggi hanno trovato una nuova dimensione giurisprudenziale, ma esistono
con le finalità di un tempo. A livello locale, risale al 1949 un decreto del vescovo
Bonaventura Porta che notifica la soppressione di tutte le confraternite.
LE CONFRATERNITE A PESARO
Già da tempo le confraternite formavano un sostegno operativo alle strutture
ecclesiali tradizionali. Le più antiche Compagnie operanti in città erano quelle
dell’Annunziata, della Misericordia, di Sant’Andrea, di Sant’Antonio, del Buon Gesù,
che avevano formato nel 1465 l’ospedale dell’Unione, mentre in precedenza si erano
denominate Compagnia del San Salvatore. Tra la fine del ‘500 e i primi del ‘600, si
aggiungevano altre confraternite annesse alle varie parrocchie, come quelle della
Carità e del Ss. Sacramento (contigue alla Cattedrale), quella di S. Maria della Scala,
di San Donino (annessa alla parrocchia di San Nicolò), dei Crociferi (presso S.
Spirito), di San Rocco, della Carità, della Ss. Concezione, di San Giuseppe, di Santa
Maria del Ben Morire, trasferita nel 1714 presso la chiesa del Suffragio.
La confraternita del Nome di Dio. Citiamo (in lingua corrente) la prima pagina del
manoscritto n° 2 del “Libro della Creazione della Chiesa”, dove viene raccontata la
nascita della Confraternita del Nome di Dio. “Il 6 febbraio 1573 nella chiesa parrocchiale
di S. Martino in Pesaro, è stata istituita la venerabile compagnia del SS. Nome di Dio. Alcuni
devoti, ispirati dallo Spirito Santo, si sono radunati in questa chiesa per esercitare con
maggiore devozione e progresso spirituale, le opere salutari. Il principale intento di questi
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confratelli è recitare l’Ufficio della Beata Vergine in tutte le feste e le vigilie dell’anno. Inoltre,
avendo saputo che in Spagna è stata istituita una Confraternita intitolata al Nome di Dio,
volta ad estinguere il pessimo vizio della bestemmia, piacque a loro di dare questo nome anche
alla loro Confraternita”. Padre Miniato Fiorentino si poneva come guida dei confratelli,
i quali: “cresciuto il fervore delle opere buone, aggiunsero alla recita dell’Ufficio della Beata
Vergine, anche l’incarico di seppellire i morti, soprattutto poveri. Decisero di vestire un abito
nero e deliberarono di vestire con tale abito anche tutti i poveri morti che andavano a
seppellire. Nel 1576, con licenza del vescovo Simonetta, fu concesso ai confratelli di chiedere
fondi per le loro attività: cominciarono dunque a seppellire quei poveri che. Portavano la bara
a spalla, e alcuni di loro seguivano il feretro facendo luce con le torce. Facevano poi celebrare
una messa di Requiem per queste anime. Questa carità veniva osservata anche nei confronti
dei poveri giustiziati”. Era tempo di provvedere ad una sede più adatta, in quanto San
Martino non faceva più al caso loro. Il 5 giugno 1577 fu posta la prima pietra in un
sito di proprietà di Giacomo Pavoli, previo accordo con i frati agostiniani. La
costruzione, ad opera del capomastro Guglielmo Francia, fu completata in breve
tempo, e comprendeva la sagrestia e la canonica dove abitava il cappellano. Fu
costituita ufficialmente nel 1578: il primo protettore della Confraternita fu il
marchese Raniero del Monte, padre di Guidubaldo. Seguivano le cariche di preposto
(controllo delle elemosine), sottopreposto (amministratore della banca), camerlengo
(cancelliere) e sindaci (incaricati di occuparsi delle liti). Importante fu l’operato di
papa Paolo V: ordinò l’unione di più confraternite, per evitare la dispersione dei
fedeli, cosicché i confratelli si aggregarono alla confraternita del Nome di Dio di
Roma.
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20 L’interno della chiesa del Nome di Dio.
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21 “Circoncisione” di Federico Barocci. I confratelli del Nome di Dio iniziarono la decorazione
della chiesa nel 1581, commissionando a Barocci il quadro per l’altare maggiore che doveva
raffigurare la circoncisione di Gesù, evento collegato alla festa più solenne per la compagnia,
quella del 1° gennaio. Solo nel 1590 il quadro veniva consegnato. Quello che possiamo
ammirare oggi è solo una copia dell’originale, leggermente più piccola. Il dipinto originale,
depredato dalle truppe di Napoleone Bonaparte, è conservato al Louvre. Tratto da: Grazia
Calegari, Scene dal Seicento: i confratelli e la chiesa del Nome di Dio a Pesaro.
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La confraternita dell’Annunziata. Fu istituita dal Beato Cecco e dalla Beata
Michelina nel 1347, venendo denominata confraternita “dei flagellati”: avevano il
mandato di seppellire i morti poveri. La Beata Michelina la dotò della propria casa,
nel quartiere San Nicolò, ed il vescovo Homodeo (1346-1353) le diede l’approvazione.
Il 19 aprile 1584 fu aggregata all’Arciconfraternita della “SS. Annunziata” di Roma.
Fu una delle cinque confraternite che presero il nome di “Confraternita dell’Unione”
destinate a provvedere alla cura e al mantenimento dell’ospedale San Salvatore: era
regolata e si governava a norma di capitoli, ovvero di adunanze dei confratelli dove
si prendevano le decisioni più importanti. La sede e la chiesa di riferimento erano
quelle attuali, con facciata su via dell’Annunziata e retro al fianco sinistro del Palazzo
Mosca. Nel 1782 venne soppressa dal vescovo Barsanti in esecuzione della bolla di
Pio VI. Ripristinata nel 1786, le fu assegnata la chiesa di San Rocco, ove ritornò nel
1814 alla caduta del Governo Italico napoleonico che l’aveva sciolta nei primi anni
dell’Ottocento. La chiesa dell’Annunziata, appartenente alla Confraternita, venne
concessa bel 1782 alla famiglia Mosca: una volta estinto il detto casato, ritornò nelle
mani della diocesi.
La confraternita del SS. Sacramento. Fu costituita il 22 aprile 1550, seguita poi da
tante altre aventi lo stesso titolo, sorte in diocesi grazie alla divulgazione delle
indulgenze concesse da papa Paolo V all’Arciconfraternita di S. Maria sopra Minerva
in Roma. Sua prima sede fu la cappella del Ss. Sacramento in Duomo: nel 1568
accettò di unirsi alla confraternita del Buon Gesù, per cui il numero di aderenti arrivò
alle 230 unità del 1618. Nel 1612 venne decisa la sistemazione dell’urna di San
Terenzio nella cappella del Ss. Sacramento, e la Confraternita, dovendo trovare altro
luogo dove porre la propria sede, decise la costruzione della chiesa del SS.
Sacramento, alla sinistra della Cattedrale, lungo l’ex Decumano. Con l’avvento dei
francesi prima e dell’unità d’Italia poi, questa confraternita non corse alcun rischio di
estinzione, proprio per il suo carattere devozionale. Fu soppressa nel 1949 dal
vescovo Porta. Nel 1957 fu presentata istanza alla Soprintendenza alle Gallerie per le
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Marche, affinché venisse concessa facoltà di trasferire gli altari, le pale e gli altri
oggetti di culto, nella chiesa di San Lorenzo in Tavullia, in ripristino ai danni subiti
col passaggio del fronte.
La confraternita della Carità. Il 1° luglio 1572, sotto la denominazione di
“Compagnia ristretta del Santissimo Rosario”, venne eretto nella chiesa di S.
Leonardo (detta Santa Maria Nuova) in via dei Calzolai (oggi via Branca) un collegio
diretto da un Padre Domenicano. Primo Rettore venne nominato Ettore Almerici,
gentiluomo pesarese. Essendo sorti pesanti attriti tra i domenicani e i confratelli, nel
1574 quest’ultimi decisero di separarsi, assumendo il nome di Collegio della Carità. Il
primo padre spirituale fu Paolo Battista Romano della Compagnia di Gesù. I
confratelli vestirono la nuova divisa per la prima volta nel 1576. Dal 1579 si
occuparono non solo del rosario, ma anche del soccorso ai prigionieri e ai poveri e
s’impegnarono ad istruire i fanciulli nel catechismo. Quando la parrocchia San
Leonardo fu soppressa, tutta l’area fu assegnata alla Cattedrale. La chiesa rimase alla
confraternita con l’obbligo di celebrare ogni anno la festa di S. Leonardo. La
compagnia ne prese possesso nel 1589, essendo vescovo di Pesaro Benedetti,
confratello di questa unione. La chiesa era di stile gotico ed aveva un proprio
campanile. Nel 1620, abbattuta la chiesa per l’ampliamento del Palazzo Ducale, il
collegio della Carità prese sede nella chiesa della SS. Annunziata.
La confraternita di Sant’Andrea apostolo. Era una delle cinque confraternite
conglobate nella c.d. Unione, per garantire una maggiore efficienza dell’ospedale San
Salvatore. Non si sa quando venne istituita, ma certamente è molto antica (è
ipotizzabile che risalga all’XI-XII secolo). Ebbe sede lungo la via allora denominata
dei Fondachi, oggi Corso XI Settembre, poco prima dell’attuale sede della Banca
dell’Adriatico. Qui, fin da tempi remoti, ebbe sede un oratorio detto la “Scola”, dove
ebbe vita questa compagnia. Nel 1536 venne riordinata dal vescovo, poi cardinale,
Giacomo Simonetta (1528-1537). Nel 1714 la chiesa, ormai consunta, fu demolita e poi
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rifabbricata con il rinnovo di tutte le attrezzature (spesa 14.000 scudi). Sul fronte della
chiesa era stata posta la statua di Sant’Andrea. Verso la fine del ‘700, per
deterioramento dell’edificio, la confraternita fu trasferita nella chiesa (oggi detta di
Sant’Andrea) poco oltre l’arco della Ginevra, lasciata libera dai confratelli della
misericordia. Questa chiesa venne demolita nel 1811, e i marinai del porto
acquistarono la statua del santo, collocandola sul sagrato della loro chiesa, intitolata a
S. Maria della Scala o del Porto. Nel 1812 i confratelli stesero un nuovo statuto, in
quanto erano andati perduti quelli precedenti, e non si sapeva più quali fossero le
funzioni di questa pia unione. Rimasta in vita solo come ente giuridico, fu soppressa
dal vescovo Porta nel 1949.
La confraternita della Misericordia. Nacque prima del 1300, anche se alcuni storici
riportano la data di costituzione al 1362. Ebbe sede nella chiesetta posta accanto al
Volto della Ginevra, che prese il nome di Misericordia Vecchia (oggi detta di
Sant’Andrea), dopo che nel 1602 questa compagnia si costruì una nuova chiesa
nell’attuale via Mazza. Nel 1777 durante il capitolo che sancì l’elezione a priore del
canonico Saverio Marini, venne deciso che l’attenzione prioritaria dei confratelli
dovesse andare al servizio nelle singole parrocchie, in particolare riguardo
all’insegnamento del catechismo. Per questo motivo, tale compagnia venne detta
“della dottrina cristiana”. Oltre a ciò, la confraternita avrebbe dovuto provvedere
anche all’organizzazione di momenti di sollievo e di svago per i fanciulli. Ad ogni
parrocchia vennero assegnati quattro confratelli e due consorelle: tutto questo
impegno non avrebbe esonerato la pia unione da tutti gli altri obblighi delle altre
confraternite: proprio per la gravosità degli incarichi, gli aspiranti confratelli
avrebbero dovuto esibire un certificato di idoneità redatto dal rispettivo parroco. Nel
periodo cisalpino la confraternita rimase in letargo: in seguito al periodo napoleonico
sorsero alcuni dissapori tra i confratelli, che tornarono assieme nel 1841. Nel 1860 i
beni vennero indemaniati in seguito all’arrivo delle truppe unitarie. Trasferita dalla
chiesa di via Mazza a quella di San Giacomo, venne dichiarata estinta nel 1953, ad
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opera del vescovo Borromeo: la chiesa venne venduta dalla diocesi per far fronte a
gravi necessità economiche. Demolita, sorsero negozi e abitazioni.
La congregazione di S. Antonio Abate. Risulta in atto dal 1388 (ma probabilmente è
d’istituzione precedente), con la denominazione di Unione di S. Antonio Abate. Fu
una delle cinque confraternite dell’Unione del S. Salvatore. Nel 1467 la Confraternita
costruì una nuova chiesa, detta di S. Antonio Nuovo, che fungeva da Oratorio o Scola
come allora veniva chiamata, contigua alle mura cittadine a sinistra della strada
verso Porta Collina, oltre l’arco di S. Antonio. In tale occasione la confraternita
ottenne il permesso di aprire una porta che desse sull’esterno della cinta muraria, per
garantire un migliore afflusso di fedeli nei giorni festivi. In seguito questa chiesa
enne arricchita di opere pittoriche, attribuite, tra gli altri, al Luffoli e al Veronese.
Ingente era il patrimonio di oggetti liturgici e arredi sacri, e nel 1688 venne compiute
le in dorature del soffitto. Nel 1747 la fraternità fu decorata del titolo di
“Congregazione Apostolica di S. Antonio Abate”, con lo speciale incarico di
correttrice della bestemmia. Nel 1713, in detta chiesa, era stata eretta la Pia Unione
della Buona Morta, poi aggregata all’Ordine di S. Antonio Abate: nel giorno 17
gennaio aveva il privilegio di benedire le bestie. La chiesa, rimasta aperta al culto, fu
distrutta nel 1944 durante un bombardamento aereo delle forze alleate. Nel 1947 i
confratelli rimisero l’autorità nelle mani del vescovo Porta: quanto salvato dalle
ruberie degli sciacalli, fu assegnato dal vescovo Borromeo ad altri edifici di culto per
l’erezione di nuove parrocchie nei quartieri cittadini.
La compagnia di S. Maria della Scala o del Porto. Pare sia stata eretta al principio
del secolo XVI: si sa infatti che nel 1523 papa Clemente VII avesse concesso alla
confraternita la libertà di servirsi della chiesa del Porto. Nel 1589 vennero stampati e
approvati dal vescovo Benedetti gli statuti, che andarono perduti nel 1692 per una
grande inondazione che colpì la zona del Porto. Nel 1740 i nuovi statuti vennero
approvati dal vescovo Canali: soppressa nel 1809 ad opera del Regno Italico, patì
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anche la requisizione dei beni. Nel 1814 venne ricostituita, e nel 1822 iniziarono i
lavori di demolizione della vecchia chiesa, e la successiva costruzione del nuovo
edificio di culto. Nel 1890 la confraternita, considerata istituzione di pubblica
beneficenza, venne conglobata alla Congregazione di Carità, ma nel 1939, grazie al
Concordato Lateranense, la compagnia ritornò sotto l’amministrazione diocesana. La
diocesi nel 1940 trasferì i beni alla parrocchia di S. Maria del Porto.
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5. SALA DI GIAN ANDREA LAZZARINI
E DEL ‘700 PESARESE
Il ‘700 ha avuto tre protagonisti noti a livello non solo locale: Annibale Olivieri, Gian
Andrea Lazzarini e Giambattista Passeri. In particolare, il Lazzarini è un tipico
rappresentante dell’eclettismo del secolo e ha operato in svariate attività, con
impronte sempre rilevanti. Nato a Pesaro nel 1710, nel corso degli studi romani
assorbì lo stile classico, evidente nelle tre pale d’altare, eseguite dal 1744 al 1748,
custodite nella chiesa della Maddalena. E’ stato il progettista nel 1788 del Palazzo del
Seminario. Per questo edificio il Lazzarini ha eseguito quattro dipinti visibili al
museo: “Madonna e i Santi”, “San Luigi Gonzaga comunicato da San Carlo”, “San Nicola e
Santa Caterina d’Alessandria” e “SS. Trinità”. In questa sala da segnalare la presenza
del coperchio dorato commissionato al Lazzarini per coprire l’urna di San Terenzio,
in seguito ai lavori di recupero dei resti mortali del santo pesarese. Nel coperchio è
raffigurato a modo di bassorilievo, l’immagine di San Terenzio giacente.
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22 San Terenzio giacente, coperchio dorato. 23 Reliquiari a busto. Quello a destra rappresenta S. Agata. 24 Reliquiario ad armadio, con al centro una statuetta di San Pietro.
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Gian Andrea Lazzarini. Un interessante campo d’indagine è la vita culturale
pesarese alla metà del ‘700. Nelle Marche i riflessi dei fermenti rivoluzionari
arrivano attutiti dall’ambiente ostile a qualsiasi novità. Sarà l’ingresso delle truppe
francesi nel 1793 a scuotere il torpore di questa provincia pontificia. Giambattista
Passeri, Annibale Olivieri e Gian Andrea Lazzarini ne sono i personaggi più
autorevoli, seppur diversi per temperamento e attitudini. L’importanza dell’abate
Passeri (morto nel 1780) è non solo culturale, ma anche politica, pur se ricopre la sua
carica pubblica con atteggiamento schivo. Annibale Olivieri (morto nel 1789) è
storico locale ed erudito di fama, animatore delle attività culturali cittadine,
segretario della Colonia Isaurica che è centro di confluenza degli intellettuali locali. Il
canonico Gian Andrea Lazzarini, il più giovane dei tre, è attivissimo nel lasciare
l’impronta del suo gusto progettando palazzi e chiese della città, raffigurando in
quadri e affreschi le sue predilezioni artistiche, religiose e storiche, istituendo la
gioventù pesarese nel catechismo e nelle Belle Arti senza chiedere compenso,
incrementando anche le attività artigiane, come una fabbrica di maioliche sorta nel
1764. Le difficoltà economiche pesanti in quegli anni, gravati dalla rovinosa carestia
del 1764, aggiunte ai contrasti burocratici con Roma, erano mali ormai cronici nella
Legazione di Urbino come in tutto lo Stato Pontificio, fin dal 1631, anno di
devoluzione del suddetto territorio alla Santa Sede. Basta confrontare le risultanze di
due visite (1747 e 1750) del card. Stoppani, a cui si deve la costruzione del porto di
Pesaro, per notare come nella Legazione vigesse l’assoluto immobilismo. Stoppani si
lamentava di come risultassero del tutto disattese le ordinanze che aveva emanato. Il
card. Doria tentò in seguito di mettere ordine con saggezza nel groviglio dei decreti
locali e delle costituzioni pontificie, attuando le intenzioni riformatrici di Pio VI. La
politica illuminata del Doria sembra riflettersi anche nell’aumento della popolazione
di Pesaro, che passa dagli 8.948 abitanti del 1770, ai 10.134 del 1788, ai 10.567 del
1792. La crisi economica pare non disturbare l’operato del Lazzarini: nato da famiglia
povera il 19 novembre 1710, nel palazzo che ancora esiste in Piazza Lazzarini e che
reca sulla facciata una lapide commemorativa. Il padre, Carlo, muore quando il
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primogenito ha appena 17 anni: a lui resta il compito di provvedere alla madre e ai
fratelli. Nel 1734 è ordinato sacerdote, ma già si dedica ampiamente allo studio delle
scienze. Piccolo di statura, semplice di costumi, di poche parole con tutti tranne che
con gli amici con i quali sa essere allegro e scherzoso. La pittura resterà per tutta la
sua vita un’attività complementare, alla quale si dedicherà solo qualche ora al giorno.
Il suo maestro fu il valdese Francesco Mancini, ma il pesarese si rifece anche a
Raffaello, Poussin, Correggio, Tiziano, Veronese, Cantarini e Barocci. Il decennio
1749-1759 è ricco di spostamenti (Cesena, Faenza, Forlì, San Leo, Macerata). Nel 1759
torna a Roma, dove resta un anno prima di rientrare nella città natale: dal 1760
comincia l’attività a fianco dell’Olivieri e del Passeri. E’ del 1763 la progettazione del
portale della chiesa del Nome di Dio e il palazzo Mazzolari. Nel 1777 diventa
canonico della Cattedrale, l’anno seguente esegue per il coro del Duomo la Madonna
con Bambino, disegna la figura giacente di San Terenzio e lavora al restauro della
chiesa di San Decenzio, che assumerà l’aspetto attuale nel 1787. Nel 1788 inizia la
ricostruzione del Seminario condotto poi a termine dall’architetto pontificio Antinori.
A cavallo degli anni ’90 esegue le tele del Seminario e della chiesa dell’Eremo di
Monte Giove. Tra il 1794 e il 1796 dipinge ancora: Pesaro pagana, La Madonna, San
Giuseppe e il Bambino presso la culla, Pesaro cristiana, due Riposi in Egitto e una
Madonna con Bambino. Mancano pochi anni alla morte, giunta il 7 settembre 1801,
dopo lunga malattia.
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25 Bozzetto dell’edificio del seminario, in via Rossini, ora Palazzo Lazzarini, sede del museo
diocesano. Costruito tra il 1785 e il 1788, sotto l’episcopato di Giuseppe Maria Luvini (1785-
1790). Il Lazzarini ne fu l’ideatore e il progettista, mentre la revisione fu affidata a Giovanni
Antinori di Camerino (1734-1792), già architetto pontificio, in servizio a Roma e a Lisbona. La
collaborazione fra i due fu molto stretta, ed i lavori di restauro del 1905 hanno reso
impossibile la distinzione delle due mani. Nel 1905 è stata rifatta la facciata e l’atrio, donando
nuova freschezza all’intero edificio, che appare comunque più severo nei lineamenti rispetto
a Palazzo Olivieri, sede del liceo musicale, e Palazzo Mazzolari, anch’esso in via Rossini.
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LE OPERE PITTORICHE DEL LAZZARINI
1. San Francesco Saverio
Tela ovale. Riportabile ai primi anni dell’esperienza romana (1734-40), per l’impianto
tradizionalmente classicistico.
2. La Maddalena e le Marie visitanti il Sepolcro
E’ la prima delle tre pale, destinate all’altare maggiore, per la chiesa di Santa Maria
Maddalena. Fu eseguita a Roma, durante il primo soggiorno presso mons. Fantuzzi,
e consegnata alle suore della Maddalena nel 1744. Esistono documenti e notizie
relativi alla commissione e al pagamento del quadro, il cui prezzo fu fissato in 125
scudi papali.
3. San Benedetto che accoglie i santi Placido e Mauro
Era collocata all’altare di destra della chiesa della Maddalena. Consegnata nel 1746
per 250 scudi.
4. Riposo in Egitto 1 (tela 225x415)
Proviene dall’altare di sinistra della chiesa di Santa Maria Maddalena, dove fu
collocata nel 1748, dopo un pagamento di 250 scudi.
5. Riposo in Egitto 2 (tela 120x169)
E’ la replica, retrosegnata, firmata e datata 1753, del quadro consegnato alle monache
di S. Maria Maddalena nel 1748. Fu commissionata al Lazzarini dal cardinale Spinelli
che, ricevuta l’opera, riscontrò in essa difetti di composizione, di disegno e di
colorito. Il Lazzarini tentò di giustificarsi in una lettera, ma il cardinale respinse il
quadro che venne poi acquistato dall’Olivieri. Appare evidente, soprattutto nei
particolari fisici, una caduta di tono rispetto all’originale, anche se il paesaggio
rimane di qualità.
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6. Riposo in Egitto 3 (tela 74x102)
Oltre a quanto già detto nella nota al quadro precedente, è il caso di suggerire un
accostamento tra questo Riposo solitario e quello aulico di S. Maria Maddalena. Nel
vasto, disteso, dolcissimo paesaggio qui si posa l’intimità domestica di Maria che sta
per allattare lo scalpitante Bambino, e di Giuseppe che interroga, l’angioletto sui
rami.
7. Arcangelo Raffaele con Tobia
Quadro di piccolo formato (60x90). Ancora un momento del Lazzarini in fase di
transizione, prima dell’insabbiamento in schemi manieristici, arcaici o tardo barocchi.
8. Santissima Trinità
Proviene dalla chiesa della SS. Trinità all’Ospedale, ora demolita, che sorgeva
all’angolo di via Mazzini con via Cairoli, e risale al 1759, in un periodo che precede
un invito a Roma del cardinale Fantuzzi. E’ un’insolita iconografia, che somma le
rappresentazioni della deposizione, del peccato originale e della Trinità, essendo
destinata all’altare maggiore della chiesa così nominata.
9. Battesimo di Gesù
Commissionato dal Fantuzzi nel 1766, si hanno controverse notizie sulla destinazione
alla Cattedrale di Urbino. Secondo alcuni documenti fu donato dal Fantuzzi al
Monastero di San Bartolo di Urbino; per Bonamini non pervenne mai al Fantuzzi e fu
venduto dagli eredi al marchese Antaldi, e poi passò alla Cattedrale di Urbino.
10. Copia dell’affresco proveniente da San Decenzio
Eseguita nel 1777, l’anno della nomina a Canonico della Cattedrale. Riproduce
l’affresco, rinvenuto nel 1752 nella cripta di San Decenzio, rappresentante San
Germano, San Decenzio, San Terenzio in abiti vescovili e l’imperatore Costantino
Pogonato.
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11. Madonna con Bambino
Anche quest’opera risale al periodo che segue la nomina a Canonico.
12. San Luigi Gonzaga comunicato da San Carlo
Affiorano qui ricordi anche romani: il miracolo di San Gregorio di Andrea Sacchi
nella Cappella Clementina di San Pietro. Il paesaggio è su tonalità fredde.
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26 Copia dell’affresco proveniente dalla chiesa di San Decenzio (1777). Da sinistra: San
Germano diacono, San Decenzio vescovo, San Terenzio vescovo, e l’imperatore d’Oriente
Costantino Pogonato (IX secolo d.C.).
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27 “Madonna con Bambino”, post 1777. 28 “San Francesco Saverio”, 1734-1740, proveniente dalla chiesa di San Giacomo.
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29 “San Luigi Gonzaga comunicato da San Carlo Borromeo”, 1788. 30 “San Nicola e Santa Caterina d’Alessandria”, post 1788.
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7. SALA DEI TESSUTI
In questa sala sono esposti alcuni paramenti rappresentativi del patrimonio tessile
diocesano, per motivi decorativi e per tipologia, afferenti ai secoli XVIII e XIX. Tra gli
abiti liturgici esteriori propri della dignità episcopale e presbiterale, sono ravvisabili
la pianeta o casula, indossata durante la celebrazione della Santa Messa, reintrodotta
nell’uso dal Concilio Vaticano II (1964), e i diversi indumenti propri di ciascun grado
sacerdotale. Riconosciamo il manipolo, insegna liturgica del suddiacono (oggi non
più in uso), la stola, propria del diacono e del sacerdote. Al centro della sala sono
esposte la mitra, il pastorale, l’anello e la croce pettorale proprie del vescovo. Il
piviale, pregevole esempio di manifattura francese, fonde motivi decorativi a fiori e
melagrane. I paramenti esposti offrono una varietà di motivi decorativi, caratterizzati
da fluttuanti decori floreali, denominati bizzarre. Possiamo notare che i tessuti
liturgici settecenteschi sono caratterizzati da un’esuberanza di motivi floreali, mentre
quelli del primo ‘800 s’ispirano alla sobrietà neoclassica.
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31 Mitra di manifattura francese, intarsiata di pietre preziose (XIX secolo). Appartenente al
Capitolo della Cattedrale.
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32 Piviale di manifattura francese, verde con fiori e melagrane (prima metà del XVIII secolo).
Appartenente al Capitolo della Cattedrale. 33 Velo omerale (XIX secolo).
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8. SALA DELLA SCULTURA LIGNEA
Sono raccolte alcune sculture risalenti ai secoli XVII e XVIII. Raffigurano Santi e
Madonne col Bambino, in prevalenza del tipo della Madonna di Loreto, la cui
devozione è attestata continuativamente nella diocesi pesarese e in tutte le Marche.
Le sculture della Madonna lauretana esposte riprendono i moduli dell’effigie
venerata nel Santuario marchigiano raffigurante la Madonna, vestita della dalmatica,
coronata con il triregno, con il Bambino benedicente in braccio che regge il globo
crocifero. Di medesimo soggetto è anche la Vergine di Loreto scolpita mentre siede
sul tetto della Santa Casa, purtroppo perduta, a ricordo della traslazione dell’edificio
a Loreto, avvenuta nel 1294. Il Cristo deposto, lungo più di due metri, dalle lunghe
chiome ondulate e il volto sofferente, era originariamente un crocifisso, così come è
emerso durante i lavori di restauro, e confermato dalla posizione sovrapposta dei
piedi.
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34 “Madonna con Bambino” in terracotta dipinta e dorata (XVII secolo).
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35 “Madonna con Bambino”, si tratta di uno dei primi manufatti in legno raffiguranti la
Madonna di Loreto, ancora di carnagione rossiccia, come era in origine, prima che gli
interventi di restauro non gli dessero il colorito scuro, che la ha caratterizzata fino ad oggi.
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36 Cristo deposto (XVI secolo), ritrovato nel 2004 da don Gino Rossini.
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9. SALA DEGLI ARGENTI
Alla produzione di argentieri romani e marchigiani attivi nel corso del XIX secolo è
dedicata questa sala. Le botteghe ottocentesche continuano, almeno fino agli anni ’70
del secolo, a realizzare manufatti che attestano la vitalità della committenza
ecclesiastica pesarese. Gli oggetti esposti documentano una produzione aggiornata
sugli indirizzi del gusto neoclassico, anche europeo - si pensi allo stile Impero fiorito
alla corte di Napoleone Bonaparte – rivisitato con grande linearità stilistica e
improntato al recupero di motivi decorativi di derivazione greco-romana, festoni e
ghirlande, palmette, ovoli, rosette, foglie d’acanto, greca. Tra gli oggetti liturgici dei
quali si è persa familiarità, anche in seguito agli aggiornamenti del rito, menzioniamo
il purificatoio, il vaso che conteneva l’acqua in cui il sacerdote lavava le dita ogni
volta che toccava l’Eucaristia al di fuori della Messa. La palmatoria, cosiddetta
perché originariamente retta da un accolito nel palmo della mano durante le
cerimonie religiose, è nota con il nome di bugia pontificale (dal francese bougie =
candela). E’ insegna onorifica propria del vescovo e degli alti prelati, confermata
dall’incisione sul manico dell’arme dell’Ordinario diocesano, che la utilizzava per
illuminare i libri nelle celebrazioni.
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37 Completo liturgico appartenente ai vescovi Clemente Fares (1856-1896; foto in alto) e
Francesco Canali (1839-1846; foto in basso). In alto, da sinistra: navicella, palmatorie, pisside.
In basso, da sinistra: piatto, due brocche, ampolline.
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10. OPERE INSERITE SUCCESSIVAMENTE
Il santissimo crocifisso di Casteldimezzo (foto), la pala d’altare con Madonna in
trono e Santi e la tela di Gian Giacomo Pandolfi raffigurante la Madonna con
Bambino e i santi Isidoro e Domenico, sono tre opere artistiche collocate nelle sale del
museo diocesano durante la stagione estiva 2008. La storica dell’arte Grazia Calegari
ha sottolineato l’importanza delle tre opere, elencandone le caratteristiche storiche e
pittoriche. Il crocifisso di Casteldimezzo è attribuito a due artisti, Antonio De
Bonvesin e Jacobello del Fiore viventi all’inizio del secolo XV. La leggenda narra che
sia giunto nella spiaggia della Vallugola, quale relitto del naufragio di una nave
veneta: dopo la ripulitura, fu posto nella chiesa di Casteldimezzo.
A questa chiesa appartiene anche la pala d’altare con Madonna in trono e i santi
Apollinare e Cristoforo, di autore sconosciuto. La tela risale all’inizio del XVI secolo,
ed è stata forse ordinata dagli Sforza in una bottega d’artisti di Cotignola. L’ultima
opera, la tela di Gian Giacomo Pandolfi, dipinta intorno al 1630, raffigura la
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Madonna con Bambino e i santi Isidoro e Domenico. Il quadro è stato ritrovato nella
chiesa di Serra, nel comune di Sant’Angelo in Lizzola, dedicata proprio a
Sant’Isidoro, patrono degli agricoltori. 38
Infine, merita una menzione la statua lignea di San Francesco di Paola, collocata nella
sala della scultura lignea, risalente al XVII-XVIII secolo: si tratta di un manufatto di
discreto valore, molto simile al San Francesco Saverio facente parte dell’eredità della
confraternita del Santissimo Sacramento.
Tre nuove opere al Museo diocesano
(intervento completo di Grazia Calegari, pronunciato in occasione
dell’inaugurazione delle opere restaurate, avvenuta alla fine di giugno 2008)
E' stato davvero un evento, parola ormai abusata ma in questo caso sacrosanta. Al
Museo diocesano sono entrate tre opere, una del Quattrocento, una del Cinquecento,
una del Seicento, di grande importanza storica, artistica e religiosa: il crocifisso ligneo
e la tavola con Madonna col Bambino e santi di Casteldimezzo, la tela raffigurante la
Madonna col Bambino e santi, ritrovata nella Collegiata di San Michele a Sant'Angelo
in Lizzola. La vitalità di un museo sta nel promuovere incontri, nell'arricchire le
conoscenze, nel collegare i significati delle opere del territorio alla vasta, smisurata
rete nazionale. La specifica singolarità del museo diocesano consiste nell'animare la
serietà di questi rapporti con le emozioni forti provenienti da opere per secoli amate
da generazioni di persone, collegate a loro dal culto e dalla devozione quotidiana, e
radicate davvero nella storia sociale. Il crocifisso di Casteldimezzo ha una lunga
storia fatta di leggende e di miracoli, oltre che un'origine artistica di tutto rispetto. Si
racconta che sia venuto dal mare, spedito da Venezia in una cassa approdata sulla
riva di Vallugola, si devono alla sua presenza infinite storie miracolose, di fatti
38 Informazioni tratte da “Il Nuovo Amico” n° 25 del 6 luglio 2008, nell’articolo firmato da Rita
Luccardini.
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dolorosi pubblici e privati, si festeggia il lunedì di Pasqua con sentiti pellegrinaggi
condivisi anche dalla Romagna. Ci vorrebbe davvero un incontro solo su questo
argomento, tante sono le angolazioni di un rapporto così ricco, complesso,
stratificato, oggi quasi tangibile al museo diocesano con la presenza del Crocifisso
scolpito da Antonio di Bonvesin e dipinto dal più famoso Jacobello del Fiore, forse
verso la fine del primo decennio del Quattrocento. I rapporti tra Venezia e le Marche
erano, come si sa, strettissimi: in particolare nella zona di Pesaro, dove Jacobello ha
eseguito altre importanti opere, due delle quali ancora visibili. Sono il trittico oggi nel
santuario delle Grazie e il polittico della Beata Michelina ai musei civici. Quanto alla
tavola di Casteldimezzo, anch'essa poco nota nonostante la qualità che dimostra, si
tratta di un'opera eseguita verso il 1510 da un pittore di Cotignola, città di origine
degli Sforza. Dovrebbe trattarsi di Francesco Zaganelli, anche se non sono mancate
attribuzioni al più giovane Girolamo Marchesi, anch'egli di Cotignola. I due santi che
affiancano la Madonna col Bambino, seduta in un raffinato trono sopra l'angelo
musicante, sono legati alla storia del territorio: Apollinare primo vescovo di
Ravenna, al quale la chiesa del castello era dedicata, e Cristoforo col Bambino Gesù
sulle spalle, che richiama la scomparsa pieve di San Cristoforo ad Aquilam a
Colombarone, da cui dipendevano le parrocchiali di Casteldimezzo, Fiorenzuola e
Gabicce. Per la tavola i rimandi, a parte l'attribuzione, sono affascinanti e molteplici,
e si ricollegano anche a Ravenna e ai passati rapporti tra Pesaro e la capitale
dell'Impero d'Occidente, di cui esistono segni incredibili e purtroppo non visibili nei
mosaici del VI secolo della Cattedrale di Pesaro. Alle due opere nate per
Casteldimezzo, borgo sul mare abitato da pescatori, si aggiunge infine la tela del
Pandolfi nata per la chiesa rurale, oggi diroccata, di Sant'Isidoro in Serra a
Sant'Angelo in Lizzola. Un quadro del Seicento, nato per la comunità degli
agricoltori, posto in un piccolo edificio in mezzo alla campagna piena di alberi e di
coltivazioni. L'autore è Giovan Giacomo Pandolfi che firma il suo quadro, dato per
perso e ritrovato anni fa nella cantina della Collegiata, restituito alla conoscenza dal
parroco don Enrico Giorgini, che ne ha segnalato alla Diocesi l'urgente necessità di
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restauro. Il Lions Club Pesaro ha con intelligente disponibilità raccolto l'invito, e il
quadro è stato recuperato per opera di Letizia Bruscoli e restituito alla comunità. Si
tratta di una delle numerose opere del pittore pesarese (circa ottanta tra Pesaro, le
Marche e Rieti), e sicuramente precede l'attività finale del Pandolfi alla chiesa del
Nome di Dio, avvenuta tra il 1634 e il 1636. I due santi legati da sguardi e gesti alla
Madonna col Bambino e angeli, sono Isidoro agricoltore, protettore dei raccolti e
degli agricoltori, e Domenico di Guzman fondatore dell'ordine dei predicatori. Un
altro spaccato di vita seicentesca, col realismo tipico del pittore che rappresenta gli
attrezzi da contadino di Isidoro con la stessa intensità dell'aria dietro le colline
azzurre, e della tenerezza degli angioletti bambini. Il senso della vita e della
speranza, nelle tre opere entrate al museo diocesano: a cosa serve entrare nei Musei
se non si tocca con mano questa appartenenza comune tra noi e il passato, questa
circolazione di affetti, davvero senza limiti né confini?
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I SANTI E BEATI DI PESARO
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SAN TERENZIO. Patrono di Pesaro, la sua festa si celebra il 24 settembre. Esiste una
tradizione antica, la cui fonte è una passio, che narra la vita e il martirio del santo,
giunta a noi attraverso un antico codice, ora perduto. La frammentarietà delle
testimonianze, dovuta anche alla sistematica opera di distruzione degli archivi
pesaresi nei secoli XV e XVI, non contribuisce a fare luce completa su questo santo.
Secondo l'opinione comune Terenzio era originario della Pannonia (Ungheria),
conquistata dai Romani nel 7 d.C. A causa delle feroci persecuzioni anticristiane
scatenate dall'Imperatore Decio, sarebbe stato costretto a spostarsi in diversi luoghi
fino a raggiungere l'Italia e la nostra regione, dove, divenuto vescovo di Pesaro,
avrebbe dedicato la sua attività al servizio, morendo martire il 24 settembre del 247.
L'Olivieri supporta tale tesi con un documento iconografico: si tratta di un affresco
39 L’abside della Cattedrale di Pesaro. Si riconoscono le vetrate con i maggiori santi pesarese,
realizzate nel 1950 da Alessandro Galluzzi.
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risalente al VI-VII secolo, scoperto nel 1752 dal Lazzarini nella cripta della Basilica di
San Decenzio. In tale affresco si riconosce san Terenzio raffigurato in abiti sacri e con
il "pallio", tipico segno vescovile. La rappresentazione di un San Terenzio dedito
all'arte militare (come si può vedere nella vetrata del Gallucci esposta al Museo
Diocesano) deriva probabilmente da due visioni che si sarebbero verificate, la prima
in un anno imprecisato, la seconda il 9 giugno 1799, ai tempi della Repubblica
Cisalpina, mentre Pesaro era assediata dalle truppe francesi: in entrambe un
guerriero a cavallo, con un elmo in testa, camminava sulle mura della città in atto di
proteggerla, seguito da una matrona, che dispensava le munizioni. Si racconta che la
seconda visione atterrisse tanto i francesi da indurli ad abbandonare l'assedio, che
non avrebbe provocato tra i pesaresi altro che un morto e pochi feriti. Fu per questo
che il santo venne proclamato patrono della città (20 marzo 1802). La tipologia del
martire come guerriero s’impose su tutte le altre; ciò, tuttavia, non costituisce una
prova che San Terenzio sia stato un soldato, perché la sua militanza potrebbe essere
interpretata in senso simbolico e spirituale. Avvolti nel mistero sono anche la morte e
il luogo della sepoltura. Secondo la passio San Terenzio sarebbe morto martire il 24
settembre del 247 nei pressi dell'Abbazia di San Tommaso in Foglia, dove il suo
corpo sarebbe stato gettato in un invaso di acque, denominate "acque cattive": ciò
sarebbe avvalorato dall'esistenza in quei posti di una polla perenne di acque
solforose, che ancora oggi non solo zampilla persino nei periodi di grandi siccità, ma
risorge tenacemente ogni volta che si tenti di deviarla o coprirla. Il corpo di San
Terenzio sarebbe poi stato prelevato da una certa Teodosia che l'avrebbe trasportato
e sepolto nella zona di Villa Caprile, denominata da sempre "Valle di San Terenzio".
Esso venne di nuovo traslato, in epoca indeterminata, nell'antica cripta dell'attuale
chiesa del Cimitero. Infine, verso la metà del sec. VI, le reliquie furono trasportate dal
vescovo Felice nella nuova Cattedrale (l'attuale), costruita sulle rovine di un antico
edificio pagano. Il corpo di San Terenzio venne deposto nel 1447 dal vescovo
Benedetti sopra l'altare maggiore in un' urna di legno. Attualmente una nuova urna,
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aperta sul davanti per dare visibilità al corpo (con abiti donati nel 1817 dal conte
Vatielli) si trova in una Cappella della Cattedrale, inaugurata nel 1909.
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40 Il corpo di San Terenzio, conservato nell’omonima cappella della Cattedrale. 41 “San Terenzio”, quadreria Bonaventura Porta (vescovo di Pesaro dal 1917 al 1953).
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SANTI DECENZIO E GERMANO. La loro festa si celebra il 29 ottobre. I due fratelli,
Decenzio Vescovo e Germano Diacono, sono gli unici (oltre a San Terenzio) di cui ci
rimane memoria tra i tanti martiri che anche a Pesaro suggellarono col sangue la loro
fede. Originari della Britannia e convertiti alla fede cristiana nel 296 a Roma, giunsero
a Pesaro dopo essersi miracolosamente liberati dal carcere in cui erano rinchiusi.
Ordinati ministri del Signore, fecero opera di evangelizzazione, scatenando l’odio dei
pagani, che li uccisero a colpi di bastone nella notte del 28 ottobre 312, proprio nel
tempo in cui l’imperatore Costantino entrava vittorioso in Roma, dopo aver sconfitto
Massenzio sul Ponte Milvio. I corpi dei due martiri, gettati dagli uccisori in mare,
vennero risospinti lungo il corso del Genica poco lontano da Pesaro, dove furono
ritrovati e sepolti da alcuni fedeli. In quel luogo venne costruita la prima basilica
dedicata a Decenzio e Germano. Nel 1625 nella cripta della Basilica fu ritrovato il
sarcofago di marmo del VII secolo, con i resti dei due Santi fratelli collocati dentro
una cassa rivestita di seta, di circa un metro. Si dubita tuttavia che le reliquie siano
ancora nel vecchio sarcofago. Quando esso fu successivamente rinvenuto, nel 1913,
infatti, il coperchio era rotto da un lato e, nella ricognizione fatta da mons. Tei,
furono trovate solo quattro cassettine di legno di dimensioni diverse, piene di
frammenti di ossa e in parte anche di terriccio.
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SANT’ERACLIANO. La sua festa si celebra il 9 dicembre. Scarse sono le notizie sulla
vita di Sant’Eracliano, pastore della Chiesa pesarese dal 321 al 359 d.C. Erano anni
drammatici per la Chiesa, lacerata dai primi saccheggi barbarici e dal diffondersi di
dottrine ereticali che costituirono una forza disgregante al suo interno, tanto più che
si verificarono quando erano terminate le persecuzioni da parte del potere imperiale,
grazie all’editto del 313. Sant’Eracliano visse questi contrasti difendendo con
fermezza la fede cattolica, particolarmente nei confronti dell'eresia ariana, generata
dal prete alessandrino Ario, che negava la natura divina di Cristo. La coraggiosa
difesa della fede gli costò la vita, che morì in carcere. La morte avvenne il 9 dicembre.
A Sant’Eracliano fu intitolata l'attuale Cattedrale di Pesaro, dove un tempo era
custodito il corpo, oggi perduto. Ne è rimasta solo una reliquia, ora conservata nella
chiesa parrocchiale dei Santi Cassiano ed Eracliano.
BEATO CECCO ZANFERDINI. La sua festa si celebra il 27 ottobre. Primo terziario
francescano di cui si abbia notizia, Cecco, figlio di Zanferdino, nacque a Pesaro verso
il 1270 da ricca famiglia. Rimasto privo di entrambi i genitori, donò i suoi beni ai
42 Chiesa di San Decenzio: la navata centrale, con il presbiterio sullo sfondo.
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poveri e, sentendosi attratto dalla Regola che San Francesco aveva dettato nel 1221
per i laici, entrò nel 1300 nel Terz’Ordine Francescano, dedicandosi alla vita eremitica
in un piccolo “romitorio” sul Monte Granaro (oggi Monte Ardizio), costruito da frate
Pietro Crisci da Foligno, con il quale inizialmente Cecco trascorse i suoi giorni in
penitenza e preghiera. Quando frate Pietro venne richiamato nella sua città, Cecco si
dedicò alla raccolta di elemosine, non solo per sostenere ospedali, restaurare chiese o
donare la dote a giovani orfane, ma anche per costruire romitori dedicati alla
Vergine. Il primo di questi, eretto tra il 1319 e il 1323 sulle sponde del fiume Metauro
poco lontano da Fano, venne intitolato alla “Madonna di Ponte Metauro”. Un altro,
costruito sulla costa del Monte Accio (ora San Bartolo), di fronte all’attuale Convento
delle Suore dell’Ordine Serve di Maria, fu dimora del Beato per tanto tempo. Nel
1347 fondò, con la Beata Michelina, la confraternita “della Ss. Annunziata” con lo
scopo di servire gli infermi negli ospedali e di seppellire i morti. Fece testamento
spirituale lasciando suggerimenti ai suoi discepoli, e spirò il 5 agosto 1350 nell’eremo
di Monte Granaro. Il suo corpo rimase per un po’ di tempo nella chiesetta campestre;
poi fu trasportato in Cattedrale, dove fu deposto, in un primo momento, sotto l’altare
maggiore della Vergine, quindi, dopo varie traslazioni, nell’attuale cappella dei
vescovi. Il culto del Beato venne confermato dalla Santa Sede nel 1859.
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43 La tomba del Beato Cecco, conservata nella cappella dei vescovi della Cattedrale.
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BEATA MICHELINA METELLI. La sua festa si celebra il 19 giugno. Nacque nel
1300 a Pesaro da una nobile famiglia, originaria di Farneto. Dopo aver sposato un
nobile Malatesta, rimase vedova a 20 anni e non volle più risposarsi. Un incontro
fondamentale per la sua vita fu quello con Soriana, una pellegrina che aveva ospitato
in casa e che la colpì tanto con la sua bontà, religiosità e distacco dalle cose del
mondo, da indurla a riavvicinarsi alla fede, dalla quale si era allontanata. Dopo
l’evento doloroso della morte del figlio, rimasta sola, decise di diventare terziaria
francescana, dispensando le sue ricchezze ai poveri. Nel 1347, insieme al Beato
Cecco, fondò la confraternita dell’Annunziata, alla quale donò la sua casa nel
quartiere di San Nicolò, con lo scopo di assistere gli infermi e seppellire i morti. Si
ammalò gravemente e spirò il 19 giugno 1356. La salma venne trasportata in corteo
dalla casa in cui abitava (in un vicolo di fronte alla chiesa di San Cassiano oggi
denominato via Michelina Metelli) fino alla chiesa di San Francesco (attuale
Santuario della Beata Vergine delle Grazie). Della sua vita si narra che un giorno,
mentre ritornava da un pellegrinaggio in Palestina, riuscì con un’intensa preghiera a
placare il mare burrascoso, che rischiava di far naufragare il suo vascello. Il culto
della Beata Michelina fu approvato da papa Clemente XII nel 1737. Il quadro situato
nel Santuario della Madonna delle Grazie, sopra l’altare della Beata, è opera del
pesarese Consoli, ed è copia del dipinto “L’estasi della Beata Michelina” del Barocci
(1606), rubato da Napoleone e successivamente collocato alla Pinacoteca Vaticana.
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44 A sinistra, la “Beata Michelina” di Federico Barocci. A destra, la cappella della beata, nel
santuario della Beata Vergine delle Grazie, 45 Il reliquiario della Beata Michelina conservato nel museo diocesano.
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BEATO SANTE BRANCORSINI. La sua festa si celebra il 14 agosto. Nacque nel
1343 a Montefabbri, da famiglia agiata. Fu inviato a studiare Diritto ad Urbino, ma,
terminati gli studi, sentì di non essere portato per la carriera forense, e ritornò al
proprio paese. Un drammatico avvenimento doveva sconvolgere la sua vita: mentre
tentava di separare due amici in una rissa, ferì alla coscia uno dei due contendenti,
che poco dopo morì per infezione. L’angoscia provocatagli da quell’omicidio,
seppure involontario, gli fece comprendere che solo offrendo totalmente la sua vita a
Dio avrebbe potuto trovare pace e perdono. Nel 1362, Giansante decise di entrare nel
vicino convento dei Frati Minori di Santa Maria di Scotaneto, dove chiese di essere
accolto come “fratello laico”, con il nome di fra Sante. Visse dedito al servizio ai
poveri e agli infermi, sottoponendosi ad una serie di punizioni corporali, fino a
chiedere ed ottenere dal Signore di avere la stessa piaga e gli stessi dolori sofferti
dall’amico ucciso. La piaga inguaribile e le mortificazioni affievolirono sempre più il
suo fisico, finché nella notte tra il 14 e il 15 agosto, nella festa della Madonna Assunta
del 1394, chiuse la sua vita terrena. Al momento della morte sul campanile del
46 Sacco e cilicio della Beata Michelina Metelli, conservato al museo diocesano.
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convento brillò una luce misteriosa e al mattino una folla di fedeli si recò a rendere
omaggio al fraticello, già ritenuto santo. Fu necessario chiamare le guardie per
evitare che il corpo, divenuto bello e profumato da pallido e macilento che era,
venisse danneggiato per ricavarne delle reliquie. Fu sepolto nella fossa comune dei
frati nonostante il parere contrario del popolo: quando nel 1395 si vide sul terreno
fiorire un giglio che aveva le radici nel cuore del beato, il suo corpo venne tumulato
in una tomba scavata nel muro della chiesa del convento, a sinistra dell’ingresso. Nel
1769 le spoglie di “fra Sante” furono collocate sotto l’altare di una cappella a lui
dedicata, in fondo alla navata minore della chiesa. A questa traslazione seguì
l’approvazione del culto per opera di Clemente IV (1770).
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47 “Il Beato Sante benedice i bambini e guarisc i malati”, tela posta al centro della cappella del
beato, nell’omonimo santuario di Mombaroccio.
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BEATA SERAFINA SFORZA. La sua festa si celebra il 9 settembre. Il nome
originario era Sveva da Montefeltro, nata a Pesaro nel 1434, dal duca Guidantonio e
da Caterina Colonna, nipote di papa Martino V. Rimasta orfana di entrambi i genitori
ad 11 anni, fu trasferita a Roma. Lì rimase fino a 14 anni, quando andò sposa ad
Alessandro Sforza, signore di Pesaro (1447), assumendo il nome di Serafina Sforza e
reggendo la Signoria di Pesaro, dal momento che il marito era costantemente fuori
città, essendo occupato in impegni militari al soldo di altre signorie. Nel 1457
Alessandro si stabilì a Pesaro, e non solo ospitò a corte le sue amanti, ma costrinse la
moglie a maltrattamenti, tentativi di avvelenamento e percosse, fino a ripudiarla con
calunnia di adulterio, facendola relegare in convento. Sveva nel 1460 accettò la vita
monastica ed entrò nel monastero del Corpus Domini di Pesaro, vivendo un calvario
di estremo dolore. Solo nel 1468, Alessandro Sforza, scosso dall’esempio di vita della
sposa, si convertì e restituì a Sveva tutta la dote, affinché potesse utilizzarla per opere
di carità e per le necessità del monastero, che dirigeva in qualità di badessa. Venerata
subito dopo la morte, avvenuta l’8 settembre 1478, grazie ai miracoli ottenuti per sua
intercessione, nel 1754 Sveva fu proclamata beata da Benedetto XIV, che la dichiarò
anche “Protettrice Secondaria” della città di Pesaro. Il corpo, tuttora incorrotto, si
trova nella cappella della Cattedrale, assieme a quello della Beata Felice Meda e del
Beato Cecco.
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BEATA FELICE MEDA. La sua festa si celebra il 30 settembre. La Beata Felice
nacque a Milano nel 1378 dalla nobile famiglia Meda. Rimasta orfana, distribuì il suo
patrimonio in opere di beneficenza e scelse la vita religiosa, entrando nel Monastero
delle Clarisse di Sant’Orsola a Milano, dove nel 1425 fu eletta badessa. Nel 1439 le
venne ordinato, per suggerimento di San Bernardino da Siena (che gli donò il
crocifisso ligneo esposto nella cappella dei vescovi, in Cattedrale), vicario generale
dei Frati Minori, di venire a Pesaro con sette consorelle, per essere badessa di un
nuovo monastero, chiamato del “Corpus Domini”. Felice obbedì e s’impose subito
per la sua modestia, perché, pur trovando ad accoglierla a Cattolica una delegazione
in carrozza, volle entrare in città a piedi, suscitando ammirazione tra la folla.
Governò per cinque anni il nuovo monastero, che lo stesso Galeazzo provvide ad
arredare interamente in seguito alla guarigione miracolosa della figlia Elisabetta. Nel
1444, all’età di 66 anni, la badessa morì tra il compianto generale.
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48 Il “Crocifisso” della Beata Serafina, donatogli da San Bernardino da Siena.
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BEATO PIETRO GIACOMO. La sua festa si celebra il 23 giugno. Nato a Pesaro nel
1447, si sentì chiamato alla vita monastica e scelse di entrare tra gli Agostiniani nel
convento di Valmanente, primo chiostro cittadino, risalente al 1238. Laureatosi in
teologia, insegnò a Perugia, Bologna e Firenze. Dopo aver lasciato la scuola per
obbedienza, andò a predicare. Nel 1492 fu eletto Ministro Provinciale del Piceno.
Scaduti i tre anni di mandato, preferì ritornare nella solitudine di Valmanente. Morì
nel 1496. Il titolo di Beato gli venne riconosciuto nel 1849 da Pio IX.
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BEATO PIETRO GUALCERANO. La sua festa si celebra il 2 maggio. Originario
della diocesi di Barcellona, in Spagna, non sappiamo quando sia venuto in Italia.
Sembra che, intorno al 1365, si fermasse in prossimità della chiesa di San Bartolomeo
sul Monte Accio (oggi San Bartolo), che allora era denominato “Monte degli Eremiti”,
perché molti vi costruivano le loro “celle” e i loro “romitori” (vedi il Beato Cecco).
49 Il corpo incorrotto del Beato Pietro Giacomo, conservato nella chiesa di San Nicola in
Valmanente, a pochi chilometri dal centro di Pesaro.
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Ricordato come uno dei 12 fondatori dell’Ordine Girolamita, Pietro Gualcerano
istituì proprio sul San Bartolo, nel 1380, un cenobio di cui fu posto a capo per la vita
esemplare. In tale carica morì nel 1418. Venne sepolto nella chiesa di San Bartolo, in
una tomba di marmo vicina all’ingresso, sulla sinistra, dove si vedono due teschi,
uno dello stesso Pietro e l’altro del compagno Giovanni da Valenza, morto anch’egli
nel romitorio del San Bartolo in concetto di santità nel 1400. Tutt’ora il 2 maggio di
ogni anno tante famiglie salgono sul colle San Bartolo per far benedire i propri
bambini, in quanto il Beato Pietro è stato eletto patrono delle famiglie della diocesi.
BEATO GIAMBATTISTA LUCARELLI. Nacque nel 1540 nel Castello di
Montelevecchie, ora Belvedere Fogliense. A 13 anni entrò nel Convento di San
Francesco a Mondaino, dove ricevette l’abito dei Frati Minori Conventuali. Compiuti
gli studi, fu ordinato sacerdote. In occasione della battaglia di Lepanto (1571) fu
mandato dal pontefice San Pio V con la flotta cristiana come confessore del Duca di
Urbino. Desideroso di una vita più mortificata, andò in Spagna, dove si unì agli
Alcantarini. Da lì cominciò la sua vita di missionario e viaggiatore, durata dal 1576 al
1587. Morì in concetto di santità, e nel 1604 iniziò il processo di beatificazione. La
tomba è irreperibile.
BEATO MARCO SCALABRINI. La sua festa si celebra il 25 settembre. Nativo di
Mocogno (Modena), può essere considerato pesarese perché visse a lungo e morì a
Pesaro. Nato prima della metà del secolo XV, entrò nel convento dei Domenicani di
Modena. Avendo ricevuto l’incarico di predicare, viaggiò in molte parti d’Italia.
Pesaro lo accolse a partire dal 1481, nel vecchio convento dei Domenicani, che lo ebbe
come priore, tanto che molti, ritenendolo già santo, ricorrevano a lui. Si narra che
abbia risuscitato un bambino per l’insistenza della madre, una certa Ludovica,
moglie di un medico di Pesaro, alla quale però il Beato aveva predetto che lo avrebbe
perso comunque in tenera età (il bambino morì a 14 anni). Morì a Pesaro il 21
settembre 1498, come ricordava una lapide in lingua latina collocata nell’ex chiesa di
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San Domenico, dove il Beato fu sepolto nel 1510. Dopo la soppressione del convento
di San Domenico le reliquie di fra Marco furono traslate nella chiesa di San
Francesco, e poi nella cappella di San Terenzio in Cattedrale, ove rimasero fino alla
restituzione a Modena.
BEATO PAOLO BIGONI. Servo di Maria e fondatore del Convento di Santa Maria
di Montegranaro. Nato a Chiari (Brescia), è vissuto gran parte della sua vita a Pesaro,
dove giunse per predicare. Fu priore del convento di Montegranaro, provinciale della
Marca Anconetana (1471), vicario generale (1479). Chiamato a reggere la diocesi di
Pesaro come vescovo, rifiutò l’incarico per vivere in semplicità. Alla sua morte,
avvenuta nel 1503 (era ultracentenario), fu seppellito in terra.
BEATO TOMMASO VITALI. Nato ad Endenna (Bergamo) nel 1425, entrò nella
comunità dei Servi di Maria. Quando venne ordinato sacerdote, gli fu affidato
l’incarico della predicazione, attività nella quale mostrò un parlare sobrio ed
essenziale. Venuto a Pesaro, si stabilì nell’Eremo di Santa Maria di Montegranaro,
fondato dal Beato Paolo Bigoni, e già luogo di vita e morte del Beato Cecco. Qui morì
il 21 dicembre 1490. Molti miracoli, avvenuti per sua intercessione, resero rinomato
questo umile religioso, venerato a Pesaro e Bergamo. Il suo corpo, custodito nella
chiesetta di Montegranaro fino al 1650, fu successivamente collocato nella chiesa di
San Francesco sotto l’altare dedicato ai Sette Fondatori dell’Ordine dei Servi di
Maria.
BEATO UGOLINO MALATESTA. Eremita vissuto a Pesaro tra il XIII e XIV secolo,
dottore e scrittore contro l’eresia dei Fraticelli. Secondo la tradizione, si sarebbe
ritirato a vita penitente in un piccolo terreno isolato sul fiume Foglia, poi detto “Selva
della Madonna”. Qui sorgeva fino al 1716 una chiesetta dove era venerata una statua
lignea della Madonna con Bambino, detta “Madonna della Misericordia”, della quale
si crede sia stato scultore lo stesso Ugolino. La statua, dopo la demolizione della
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chiesetta per ordine del vescovo Spada, fu trasferita nella chiesa di San Donato di
Belvedere Fogliense, dove è ancora custodita. Sotto l’altare maggiore della stessa
chiesa sono conservate anche le reliquie, rinvenute nel 1643.
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L’ULTIMO RITROVAMENTO
LA BASILICA DI SAN CRISTOFORO AD AQUILAM
(da www.archeopesaro.it)
COLOMBARONE - Corre l’anno 743 dopo Cristo, e il papa Zaccaria parte da Roma
lungo la via Flaminia alla volta di Ravenna per incontrare il comandante militare dei
bizantini d’Italia, l’esarca Eutiche, e discutere della pericolosa situazione politica e
militare del momento, che vede i Longobardi avanzare inesorabilmente verso
Ravenna. I due prestigiosi personaggi prima di recarsi insieme nella capitale
bizantina si incontrano a cinquanta miglia dalla città, nella basilica di San Cristoforo
ad Aquilam. Questo racconta una fonte medievale, il Liber Pontificalis, ma nei secoli
successivi della basilica si perde memoria.
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Le ricerche e gli scavi
Nel Settecento, l’erudito pesarese Annibale degli Abbati Olivieri (1709-1789)
identifica l’antico edificio grazie a ricerche d’archivio e scavi e lo posiziona
prendendo come riferimento una “chiesola” ancora esistente. Dopo la sua morte
tutto viene di nuovo dimenticato e la stessa è demolita nel 1858. Nel 1980 ripartono
gli studi, con l’identificazione del luogo delle ricerche settecentesche e l’avvio degli
scavi. Venticinque anni di ricerche archeologiche hanno permesso non soltanto di
riportare alla luce i resti di epoca bizantina, ma anche di scoprire una storia lunga
molti secoli, fatta di una ricca villa, di una basilica e di una pieve: in tutto sedici secoli
di archeologia, dal III al XIX, si svelano ai nostri occhi a Colombarone.
La villa tardo-antica
L’area circostante vede già in età romana un alto numero di fattorie e un piccolo
villaggio posto lungo la via Flaminia, strada che rappresenta il più importante asse di
collegamento tra Roma e il nord dell’Italia. Ma è verso la fine del III secolo dopo
Cristo che nasce una lussuosa villa, la residenza di campagna di un ricco possidente
terriero o di un funzionario statale. Sono tuttora visibili molti dei mosaici databili tra
IV e VI secolo, anche se in parte compromessi dagli interventi successivi. La pianta
della villa prevede un ingresso articolato attorno ad un cortile porticato, seguito dal
settore principale che ha come punti di maggiore interesse due sale da banchetto e da
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cerimonie. Sono inoltre stati individuati un settore termale, alcune stanze di carattere
residenziale e un grande quartiere decentrato, ancora in corso di scavo.
La Basilica di San Cristoforo ad Aquilam
Nel VI secolo alcuni settori della villa vengono abbandonati, mentre il settore di
rappresentanza viene trasformato in chiesa cristiana. La sala da banchetti più grande
diventa l’aula di culto con abside, affiancata da una torre campanaria. Attorno nasce
un’area cimiteriale. Nei secoli successivi (VII-X) la chiesa viene più volte modificata,
assumendo dimensioni notevoli. Alla fine del Medioevo (XII secolo) la chiesa più
antica viene abbandonata e al suo posto costruita la “chiesola” ancora esistente ai
tempi delle ricerche settecentesche, ma di cui è stato recuperato ed è oggi visibile
soltanto un breve tratto di muro perimetrale.
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GLOSSARIO
• ACQUAMANILE: recipiente per la lavanda delle mani.
• AMBONE: luogo rialzato tra l’altare e l’assemblea, destinato alla proclamazione
delle letture.
• AMITTO: panno di lino o cotone che il sacerdote pone sulle spalle prima di
indossare il camice.
• AMPOLLINE: piccoli vasi che contengono il vino e l’acqua per la Messa: possono
essere a fiaschetta, a brocca e a boccale.
• ANCONA: pittura su tavola a soggetto religioso, generalmente rettangolare,
terminante ad angolo acuto.
• ANTIFONARIO: raccolta di canti da eseguirsi durante la Messa.
• ASPERSORIO: utilizzato per il rito dell’aspersione.
• BACOLO: parte terminale, a forma di ricciolo, del bastone pastorale.
• BADALONE: grande leggio collocato nella zona absidale al centro del coro.
• BALDACCHINO FISSO: sovrastruttura in marmo alla sommità di edicole,
nicchie o tabernacoli.
• BALDACCHINO PROCESSIONALE: drappo in tessuto sostenuto da quattro
aste che forma un’edicola portatile, utilizzato per le processioni.
• BORSA O BUSTA: custodia piatta per contenere il corporale, formata da due
quadrati rigidi decorati. Si usava appoggiata sul calice.
• BOSSOLO: vasetto o scatolina utilizzata per contenere il sale del rito del
battesimo o per conservare le ostie consacrate; talvolta per bossolo s’intende
anche la guaina in cuoio in cui s’inserisce l’estremità inferiore della croce
processionale.
• BROCCA E BACILE: coppia formata da un piatto fondo e da recipiente con
beccuccio, utilizzati nelle liturgie solenni per la lavanda delle mani.
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• BROCCATO: tessuto di seta nel quale su un fondo di raso figurano disegni di
trama di seta, argento, oro e ciniglia.
• BUSSOLOTTO PER LE VOTAZIONI: contenitore a forma di vaso utilizzato
dalle confraternite per raccogliere i voti.
• CALICE: composto da una coppa, in oro o argento dorato, sostenuta da uno stelo
e provvista di base, viene usato per la consacrazione del vino durante la
celebrazione eucaristica.
• CANDELABRO: grande candeliere a più bracci, o anche ad una sola fiamma,
quando sia di grandi dimensioni e pertanto non processionale.
• CANDELIERE: porta candela ad una sola fiamma per le processioni, o talvolta
anche a più fiamme e collocato sull’altare ma di piccole dimensioni.
• CAPOCIELO: baldacchino semplice in legno o tessuto sospeso sopra l’altare
maggiore.
• CAPSELLA: contenitore per reliquie e grani d’incenso.
• CARTAGLORIA: ciascuna delle tre tabelle che contenevano le parti invariabili
della Messa: venivano appoggiate sull’altare.
• CARTIGLIO: disegnato o scolpito, disteso o arrotolato, simboleggia una
pergamena o un rotolo su cui sono riportati passi biblici o iscrizioni.
• CASULA o PIANETA: veste liturgica del sacerdote.
• CATAFALCO: barella di legno con gambe o stanghe, utilizzata per trasportare i
morti alla sepoltura e per l’esposizione dei defunti.
• CATTEDRA: seggio del vescovo o del papa per la celebrazione dei riti. Dal
termine deriva cattedrale che indica la chiesa episcopale della diocesi.
• CIBORIO: struttura architettonica su colonne per la conservazione
dell’Eucaristia.
• CINGOLO: cintura del sacerdote parato per celebrare.
• COLORI LITURGICI: in rapporto ai tempi liturgici sono prescritti per i
paramenti diversi colori: bianco per Natale, Pasqua e feste del Signore, della
Madonna e santi non martiri; rosso per domenica delle Palme, Venerdì Santo,
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Pentecoste, feste degli apostoli e dei martiri; verde per il tempo ordinario; violaceo
per Avvento e Quaresima; rosaceo, utilizzato soltanto in alcune domeniche del
tempo di Avvento e Quaresima; nero, non più utilizzato dalla liturgia, veniva
usato per le liturgie dei defunti; l’oro può essere usato al posto del bianco, rosso e
verde, l’argento al posto del bianco.
• CONOPEO: copertura in tessuto per coprire la pisside contenente le ostie
consacrate.
• CORPORALE: piccolo quadrato di lino bianco che il sacerdote stende sull’altare
per deporvi il calice, la patena o l’ostensorio contenenti le specie eucaristiche.
• CORTINA: tenda posta come sipario davanti ad immagini sacre particolarmente
venerate per nasconderle alla vista dei fedeli.
• COTTA: veste corta e con ampie maniche usata dal clero con funzione ordinaria.
• CROCE ASTILE: sorretta da una lunga asta, è portatile e viene utilizzata per
aprire le processioni. Ha due lati figurati: in uno è raffigurato Cristo, nell’altro i
simboli evangelici.
• CROCE D’ALTARE: croce posta su piedistallo e appoggiata sull’altare, con
Cristo in rilievo.
• CROCE PENITENZIALE: croce decorata con strumenti della Passione e
utilizzata nella Settimana Santa.
• CROCE PETTORALE: pendente a forma di croce, portato dal vescovo.
• CROCE PROCESSIONALE: croce di notevoli dimensioni e con il Cristo in
rilievo, viene utilizzata nelle liturgie solenni, specie della Settimana Santa.
• DALMATICA: veste liturgica indossata dai diaconi sopra la stola che si porta
sulla spalla.
• DAMASCO: tessuto di seta caratterizzato dal contrasto tra il disegno lucido,
ottenuto dall’intreccio di raso per effetto di ordito, e il fondo opaco dato
dall’intreccio di raso per effetto della trama.
• DITTICO: coppia di tavolette rettangolari incernierate, spesso d’avorio o di
legno.
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• DOSSALE: ripiano decorativo posto sopra l’altare realizzato in vari materiali,
argento, stoffa ed oro.
• ENCOLPIO: custodia per reliquia a volte con iscrizioni incise da portare al collo.
• ESPOSITORIO: basamento per l’esposizione eucaristica, atta a sostenere
l’ostensorio. Può essere usato anche per i reliquiari.
• EVANGELIARIO: libro contenente il testo dei vangeli e utilizzato per la
proclamazione durante la liturgia.
• EULOGIA: fiaschetta devozionale in terracotta che i pellegrini riportavano dalla
Terra Santa.
• EXULTET: antichi rotoli di pergamena manoscritti, larghi da 20 cm a 5 metri,
recanti il testo per la benedizione del cero pasquale, illustrata con miniature
dipinte in senso inverso al testo, che iniziava con la parola latina exultet. Venivano
letti ai fedeli dall’alto dell’ambone.
• EX VOTO: oggetti realizzati e offerti per sciogliere una promessa in seguito ad
una grazia ricevuta.
• FALDISTORIO: sedile senza braccioli, ma con appendici sporgenti. Usato dal
vescovo per le celebrazioni solenni.
• FERCOLO: portantina con cui sono portate in processione le immagini sacre o le
reliquie.
• FUSCIACCO: parato composto da una striscia di tessuto distesa su di un
supporto, formante una specie di baldacchino intorno al Cristo dei crocifissi
processionali.
• GONFALONE: stendardo rigido portatile, sostenuto da un’asta. Vi si trova
raffigurata l’immagine del titolare della parrocchia, chiesa e confraternita.
• GRADUALE: raccolta dei brani, tratti dal libro dei salmi o dai vangeli, che nella
Messa seguono l’epistola e precedono il Vangelo.
• INCUNABOLO: libro stampato a caratteri mobili prima del 1501, quando la
tecnica della tipografia era appena nata. Sono detti anche quattrocentine.
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• INSEGNA: contrassegno ligneo o metallico con l’emblema della confraternita,
issata su di un’asta e usata nelle processioni.
• LANTERNA: lume portatile, in legno o metallo chiuso da vetri, issato su di
un’asta e usato nelle processioni.
• LEZIONARIO: libro contenente i passi liturgici utilizzati nella liturgia.
• MANIPOLO: striscia di stoffa leggermente divergente alle estremità che si usava
fissare sull’avambraccio sinistro del sacerdote.
• MANTELLINA: serviva a coprire le immagini sacre, in particolare quelle della
Madonna.
• MANUTERGIO: fazzoletto usato dal sacerdote per asciugarsi le mani durante la
Messa.
• MARIEGOLA: termine veneziano per indicare la carta costituzionale di una
corporazione.
• MAZZA: asta lignea con intagliato l’emblema della confraternita o il protettore
del sodalizio.
• MESSALE: libro contenente testi e rubriche per le liturgie e le celebrazioni
dell’anno.
• MITRA o MITRIA: copricapo episcopale composto da due falde appuntite usato
durante le celebrazioni.
• NAVICELLA: recipiente metallico per contenere l’incenso. Il nome deriva dalla
forma della coppa che poggia su un sostegno o base. E’ in coppia con il turibolo.
• OMBRELLINO: piccolo baldacchino a forma d’ombrello in tessuto prezioso
spesso dotate di frange e di un’asta ricurva.
• OSTENSORIO: teca di varie forme utilizzata per l’esposizione e l’adorazione
eucaristica.
• PACE: tavoletta di varia forma e materiale raffigurante un’immagine sacra,
solitamente il Cristo Risorto, utilizzata per la preghiera personale o presentata al
bacio dei fedeli per il perdono o la pacificazione.
• PALA D’ALTARE: dipinto collocato sopra l’altare.
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• PALIOTTO: rivestimento anteriore dell’altare sotto la mensa. Può essere
realizzato in cuoio o stoffa, secondo i colori liturgici, in legno o marmo, con temi
figurativi eucaristici.
• PALMATORIA: portacandele circolare, schiacciato e dotato di manico. Detto
popolarmente bugia, era utilizzato per la lettura del messale.
• PASTORALE: bastone con parte terminale ricurva a spirale, simbolo del ruolo di
pastore del vescovo, utilizzato nelle celebrazioni solenni.
• PATENA: piccolo piatto tondo d’oro o d’argento su cui il sacerdote posa l’ostia
più grande durante la celebrazione della Messa.
• PISSIDE: coppa con coperchio di metallo, in cui si conservano le particole.
• PIVIALE: mantello aperto davanti e lungo fino ai piedi, indossato dal sacerdote
per le funzioni al di fuori della chiesa.
• PONTIFICALE: libro liturgico con le formule e le cerimonie delle funzioni
riservate al vescovo.
• PREDELLA: tavoletta rettangolare dipinta e divisa in più riquadri, che costituisce
la base di un polittico o di una pala d’altare.
• PURIFICATOIO: riquadro di lino o cotone usato per asciugare calice, labbra e
dita.
• RELIQUIARIO: custodia per le reliquie. Può avere varie forme: a capsula, a
castone, ad ostensorio, a pisside, a dittico, a polittico, a borsa, ad urna,
monumentale.
• SALTERIO: l’insieme dei salmi; può indicare anche il libro della liturgia delle
ore.
• SCAPOLARE: doppia immagine benedetta che viene appesa al colle con fettucce.
• SECCHIELLO: piccola acquasantiera portatile a forme di vaso con manico.
Utilizzata in coppia con l’aspersorio.
• SINOPIA: disegno preparatorio di un affresco realizzato in ocra di colore rosso.
• SMOCCOLATOIO: forbice che serviva per tagliare la parte carbonizzata del
lucignolo.
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• SPEGNITOIO: piccolo utensile a forma di campana usato per spegnere le
candele.
• STAUROTECA: reliquiario a forma di croce o rettangolare con frammenti della
“Vera Croce”.
• STENDARDO: drappo rettangolare decorato sospeso su di un’asta per le
processioni.
• STOLA: paramento liturgico per vescovi, sacerdoti e diaconi, costituita da una
striscia di tessuto del colore del tempo liturgico prescritto.
• TABELLA: tabella lignea in cui inserire le targhette con i nomi dei confratelli.
• TECA: scatola metallica per conservare la lunetta eucaristica, ovvero il supporto
che regge la particola nell’ostensorio.
• TRACCOLA: strumento costituito da una cassa armonica lignea con lamelle
flessibili e ruote dentate mossa da una manovella, usato il Venerdì e il Sabato
Santo al posto delle campane.
• TURIBOLO: piccolo braciere per l’incenso a forma di vaso retto da tre catenelle
più una per sollevare il coperchio.
• VASETTI PER OLI SANTI: tre vasi usati per la custodia degli oli santi.
• VELO DA CALICE: quadrato di stoffa che serve per coprire il calice: segue i
colori liturgici.
• VELO OMERALE: paramento indossato come uno scialle, col quale prendere
l’ostensorio.
• ZUCCHETTO: copricapo distintivo dell’ordine episcopale.
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BIBLIOGRAFIA
• Aldo Amatori, Dante Simoncelli, La Chiesa pesarese dalle origini ai nostri
giorni, Herald, Pesaro 2003.
• Antonio Brancati, La confraternita e la chiesa dell’Annunziata di Pesaro,
Fondazione Cassa di Risparmio, Pesaro 2005.
• Arcidiocesi di Pesaro, I mosaici del duomo di Pesaro, Pesaro 2005.
• Bonita Cleri, Claudio Giardini, L’arte conquistata, Artioli editore, Pesaro
2003.
• Gian Andrea Lazzarini, catalogo della mostra a cura di Raffaele Mazzoli,
Nando Cecini e Grazia Calegari, Pesaro 1974.
• Giuliano Vanzolini, Guida di Pesaro, edizioni 1864 e 1883; in Biblioteca
Oliveriana.
• Sara Benvenuti, San Terenzio patrono di Pesaro, Walter Stafoggia editore,
Pesaro 2004.
• Grazia Calegari, Scene dal Seicento: i confratelli e la chiesa del Nome di Dio a
Pesaro.
• www.archeopesaro.it
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LAVORO SVOLTO NELL’ARCO DI 14 MESI, DA MAGGIO 2007 A LUGLIO 2008
LE FOTOGRAFIE SONO STATE SCATTATE DALL’AUTORE