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OktoberFest Msac 2012 Presenza & Dialogo on-line Schede di sussidiazione msacchina a cura dell’Equipe Nazionale MSAC

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OktoberFest Msac 2012

Presenza & Dialogo on-line

Schede di sussidiazione msacchina a cura dell’Equipe Nazionale MSAC

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ANNO ASSOCIATIVO 2012/2013, “FALDONE” PRIMO

Per questo numero del P&D grazie a… Gioele Anni, Luca Cristiani, Pasqualina Cordella, Stefano Veluti

INDICE

- Introduzione: perchè questo oktoberfest!Il modello “all inclusive”«Un’immensa e sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà»

- Cambiando, l’ordine degli addendi…il risultato cambia!Culture in dialogoModello dell’integrazioneModello multiculturale

La terza via

- Orientamenti culturali: ius soli e ius sanguinisLa normativa italiana sulla cittadinanzaIus sanguinis o ius soli?

- Formazione specifica: lo straniero nella scuola italiana

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D.P.R. 394/1999: minori stranieri e istruzioneQualche idea pratica

- Primo annuncio: il dialogo interreligiosoChe cos’è il dialogo interreligiosoIl discorso della montagna del dialogo interreligioso (Raimon Panikkar)Spunti per attività

- Punti d’incontro e OktoberFest: proposte di attività1° fase: creiamo Movimento2° fase: in Movimento!3° fase: moto perpetuo…

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“È un vero pacifista chi è capace di cambiare opinione, perché solo così si può sperare di poter riappacificare avversari che sostenevano pareri diversi. È pacifista solo chi è capace di rimetterci, dando ragione al suo cosiddetto avversario e terminando una discussione diverso da come è entrato. È pacifista chi riesce a lodare almeno una volta il sostenitore di opinioni e di decisioni contro le quali egli è convinto in coscienza del proprio dovere di resistenza e opposizione. È pacifista chi tratta con pazienza e cortesia anche chi gli dà sui nervi. Siamo pacifisti solo quando non disprezziamo gli atteggiamenti e gli sforzi degli altri con grossolani e declassanti giudizi facili da evitare; quando abbandoniamo il nostro modo di pensare fatto di luoghi comuni; quando cerchiamo di scoprire, dietro le parole, il concetto sul quale siamo forse dello stesso parere. Siamo pacifisti solo se confrontiamo noi stessi con gli ideali degli altri, secondo le possibilità reali; quando non difendiamo il nostro prestigio sociale e combattiamo in modo leale e corretto, anche se questa correttezza dovesse diminuire le possibilità della nostra vittoria”.(Karl Rahner, La pace come impegno, 1968)

INTRODUZIONE: perchè questo oktoberfest

Il modello “all inclusive”

Il mondo del 2012 sembra fatto di tanti pacchetti preconfezionati, tutti costruiti su misura per il cittadino-consumatore. Ovunque siamo bombardati di proposte già complete di tutto quello che ci serve prima ancora che le esaminiamo: vacanze “tutto compreso”, proposte “tutto intorno a te”, servizi e offerte “all inclusive”. Che messaggio passa dietro queste campagne iper-intensive? Che ogni persona ha dei bisogni ben determinati, e a questi bisogni il negozio o l’agenzia di turno sa come rispondere. «Tutto quello di cui hai necessità, noi te lo diamo. A te, cittadino-consumatore, non serve cercare chissà dove ciò che più veramente ti soddisfa. Noi ti conosciamo. Fidati di noi, e non rimarrai deluso». La mentalità che regna, dunque, è quella del “tutto incluso”: all’uomo di oggi non deve mancare niente, e una quantità di organizzazioni diverse sono pronte ad accontentare questo suo desiderio di pienezza materiale.Perdonate l’attacco moraleggiante. Per sdrammatizzare un po’, ci affidiamo alle parole che il vescovo di Como, mons. Diego Coletti, rivolse ai giovani durante una catechesi a Madrid: «Dovete sapere che “Tutto intorno a te” è lo slogan dell’Inferno; quello del Paradiso, invece, è “Tutti intorno a Lui!”». E lo slogan della Terra, quale può essere? Alt, non andiamo troppo lontano a colpi di slogan. Ma è chiaro che oggi una domanda ci interroga: in che mondo viviamo? Viviamo in un mondo che cambia, viviamo in un mondo senza frontiere, viviamo in un “villaggio globale”, bla bla bla…ok, tutte queste cose sono vere (o almeno in parte), e le abbiamo già sentite mille volte. Il punto è: come guardiamo il mondo in cui viviamo?

Per spiegarci meglio: il modello dell’all inclusive ha senso solo per un certo tipo di abitante del mondo. Un abitante che goda di una certa agiatezza, che abbia determinati standard, che viva con ritmi prevedibili, che usufruisca di una quantità di bisogni ricorrenti. La mentalità all inclusive è fatta su misura per il cittadino medio occidentale, l’abitante maggioritario del “nostro” mondo più

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o meno agiato (sussulti economici a parte). Ma è un modello che non funziona. Non solo non funziona su larga scala, perché basta guardarci dopo le scarpe, a qualche centinaio di chilometri dalla costa più meridionale della nostra Italia, per capire che l’Africa è un mondo con modelli comportamentali completamente diversi; e che lo stesso si può dire per l’Asia, l’Oceania, le Americhe, insomma per ogni zona del globo popolata da nostri simili. È un modello che non funziona perché ormai anche dentro alle nostre terre ci rendiamo conto che esistono e convivono tanti modelli di vita differenti. L’all inclusive si adatta a noi, ma esclude qualcun altro: gente che non condivide la nostra storia, le nostre impostazioni culturali, i nostri stili di vita, ma che ormai ci abita a fianco e con cui spesso già dividiamo il presente, sicuramente poi dovremo costruire il futuro.

Facciamo un passo indietro: perché il modello dell’all inclusive ha largo successo? Perché guarda il mondo con le coordinate di una parte dei suoi abitanti, quella più agiata e storicamente dominante, e si propone di offrire a quella fetta di persone tutto ciò di cui ha bisogno. Il modello all inclusive, dunque, in realtà esclude: esclude tutti quelli che non guardano il mondo con le nostre stesse coordinate, i nostri stessi valori primari di riferimento. È un modello parziale, ed è un modello che vogliamo rifiutare proprio perché selettivo. Un mondo tutto calibrato sulle nostre aspettative, ma che non prenda in considerazione chi viene da culture differenti non può piacerci né come cittadini responsabili e neppure tantomeno come giovani cristiani. Ecco perché il nostro OktoberFest si chiama “Nessuno escluso”: perché vogliamo imparare a guardare il mondo non solo con le lenti della nostra cultura, ma confrontandoci con chi proviene da civiltà altre dalla nostra ed è cresciuto con usanze diverse. Non vogliamo solo parlare di accoglienza: vogliamo proprio prendere la nostra prospettiva di italiani, europei, occidentali e ribaltarla, provando ad aprirci a punti di vista nuovi e inattesi. Lo dobbiamo fare per due motivi: per prima cosa, perché conoscere e confrontarsi porta sempre un arricchimento personale, una capacità in più di aprire i propri orizzonti; in secondo luogo, perché non possiamo pensare a una vera integrazione con gli altri popoli pur mantenendo imperterriti il nostro stile di vita. Se vogliamo che nel futuro la convivenza tra popoli diventi una realtà importante, non ci possiamo limitare ad accettare i costumi altrui: dobbiamo proprio sforzarci di vedere il mondo da prospettive diverse, cambiare angolature, arricchire la nostra visuale. Solo così potremo uscire dalla bolla d’oro che include tutto per noi stessi, ma esclude gli altri; e fare in modo, a partire dal nostro piccolo, che il mondo diventi un luogo in cui nessuno può dirsi non valorizzato, isolato, insomma escluso.

“Un’immensa e sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà”

Un’introduzione, si sa, è fatta per natura di tante parole. In questo faldone, poi, vorremmo provare a concretizzare le nostre belle e virtuose ambizioni in attività concrete, in spunti per le nostre scuole e i nostri circoli. Per farci aiutare in questo nostro obiettivo, ci affidiamo a un personaggio che ha vissuto l’intercultura nel modo più pragmatico possibile, facendone la bandiera della sua

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vita: Ryszard Kapuscinski. Se il nome, oltre a suonarvi complesso, magari vi è sconosciuto, nessun problema. Kapuscinski è uno dei più grandi giornalisti e reporter del ventesimo secolo, ma non ha mai cercato né desiderato la grande fama internazionale. Nato nel 1932 nell’allora Polonia Orientale (oggi sarebbe stato bielorusso), morto nel 2007 a Varsavia, Kapuscinski è stato reporter per tutta la vita. Da sempre però ha praticato un giornalismo puro, fatto di incontri da pari a pari con le popolazioni che incontrava. Non il giornalista europeo che gira il mondo da paladino di una cultura, ma l’uomo di mondo che ovunque si reca cerca di entrare in sintonia con la gente che incontra, prima ancora che di raccogliere informazioni per i suoi servizi.Vi invitiamo magari ad approfondire nei circoli la figura di questo giornalista: dal libro “Autoritratto di un reporter”, insieme di interviste rilasciate da Kapuscinski nel corso della sua vita, ci sono spunti per parlare di intercultura, ma anche di comunicazione, di fede, di politica… Comunque, torniamo al nostro OktoberFest. Di Kapuscinski è un pensiero che potrebbe riassumere la tesi di fondo di “Nessuno escluso!”:

«Più si conosce il mondo, più ci rendiamo conto della sua inconoscibilità e sconfinatezza: non tanto in senso spaziale, ma nel senso di una ricchezza culturale troppo vasta per poter essere conosciuta. (…) Oggi sappiamo che l'immensità e la ricchezza culturale del mondo sono infinite. Dopo oltre quarantacinque anni di continui viaggi, e pur conoscendo questa terra meglio di chi non ha viaggiato, sono convinto di non sapere ancora niente. La mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che la nostra mentalità è quanto mai eurocentrica e che l'Europa, o meglio una sua parte, non è il mondo intero. Che l'Europa è circondata da un'immensa e sempre crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà. La vita su un pianeta coperto da un crescente numero di interconnessioni deve possedere tale consapevolezza e adattarsi a una situazione globale radicalmente nuova».

Insomma, in questo faldone proveremo a riconoscere la nostra cultura eurocentrica, a capirne le basi, a cercare qualche via concreta per superarla o, per lo meno, non considerarla l’unica esistente. L’idea è quella di poter fare degli OktoberFest, in tutte le diocesi d’Italia, una vera festa interculturale. A tutti noi, cari msacchini, il compito di portare le belle parole di Kapuscinski nelle nostre scuole e nelle nostre vite. E, naturalmente, che nessuno resti escluso!

BIBLIOGRAFIA

- R. Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, a cura di Krystyna Straczek, Feltrinelli

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CAMBIANDO L'ORDINE DEGLI ADDENDI... IL RISULTATO CAMBIA!

Culture in dialogo

Parlare di dialogo tra le culture, di rapporti interculturali, di relazioni tra persone di origine differente è qualcosa di più complesso di quello che ci si può aspettare. Implica, oltre alla curiosità, alla buona volontà di incontrarsi e di accogliere, anche un certo atteggiamento personale, che non è indifferente alla qualità della relazione che istituiamo con l'altro. Si tratta di un atteggiamento di “non ingenuità” e di consapevolezza di ciò che entra in gioco nella relazione tra persone di culture differenti. Non basta essere “buoni e caritatevoli”, spesso non è nemmeno richiesto, ma è necessario essere consapevoli e con una chiara idea del significato dei nostri comportamenti.

Innanzitutto due premesse, per così dire, “filosofiche”: come abbiamo cercato di fare già finora in questa scheda, quando si parla di dialogo tra le culture, bisogna sempre tenere l'attenzione centrata sulla “persona”. Le culture che entrano in contatto non sono entità astratte, fatte di “valori” che hanno una formalizzazione precisa, e che si confrontano come se fossero due espressioni matematiche: 4+7 = 6+5. Il confronto e il dialogo avvengono sempre tra PERSONE che hanno culture differenti, che incarnano le loro culture. Si tratta di un dialogo tra le culture “incarnate”. La differenza fondamentale tra queste due concezioni del rapporto è che, mentre confrontando due culture partendo dai presupposti teorici, valoriali, dogmatici che ognuna porta con sé, è molto facile trovare incompatibilità assolute, nel dialogo concreto tra due persone che hanno un background culturale diverso, i contrasti sono meno insanabili e insuperabili.La seconda premessa “filosofica” riguarda il “concetto di uomo”. Quando si fanno ragionamenti ad ampio raggio, che riguardano “gli uomini”, cioè potenzialmente tutti gli uomini, si rischia di cadere in due “eccessi”: l'eccesso “universalista” e l'eccesso “particolarista”. Il primo pensa l'umanità sotto un concetto omogeneo, gli uomini come tutti uguali e aventi tutti gli stessi bisogni fondamentali. Il secondo pensa gli uomini come, appunto, particolari, dotati ognuno di caratteristiche sue proprie che li contraddistinguono dall'altro uomo. Come si può facilmente vedere, nessuna delle due posizioni è falsa, ma nemmeno nessuna delle due è più vera dell'altra, esclude l'altra. La posizione dell'uomo è “tra universale e particolare”, gli uomini hanno caratteristiche comuni, ma non possono essere omogeneizzati sotto lo stesso concetto regolatore, così come hanno particolarità, che però non li rende “isole tra altre isole”.Per dirla con una citazione di un filosofo italiano, Carmelo Vigna:

“Il multiculturalismo è sempre esistito. Oggi è un problema solo perché le culture rivendicano parità. Cosa che una volta (fino ai tempi del colonialismo), specialmente a noi europei, sembrava una pretesa assurda. Ma la parità culturale è una rivendicazione sempre sensata? Ad es.: si può dire che la cultura di una sperduta tribù dell’Amazzonia è pari alla sofisticata cultura newyorkese? Certo, si può dire, da alcuni viene detto e da tutti in qualche modo si deve dire; ma con una precisazione che spesso viene tralasciata e che rende incomprensibile difendere una vera parità. La precisazione a me par questa: la parità si può e si deve dire dell’umano che ci

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accomuna; si deve dire, in particolare, del buono o cattivo uso della nostra libertà. Nell’uso dell’umana libertà, infatti, non esiste progresso (morale) ‘continuo’, perché ogni essere umano ricomincia da capo una storia tutta sua. Insomma, quanto alla scelta del bene e del male nella vita, quanto alla dignità personale messa in gioco nelle relazioni tra noi, siamo tutti e sempre uguali. Ma lo stesso non si può dire dello sviluppo ‘civile’, senza negare l’evidenza”.

Il compito che ci diamo è dunque quello di comprendere l'altro, l'altra persona che incontriamo quotidianamente nella nostra città, nella nostra scuola, nella squadra di calcio, a scuola di danza, con la sua cultura differente dalla nostra.Ma chiediamoci ora: cosa significa “comprendere l'altro”?Sostanzialmente vuol dire avere con l'altra persona di cultura differente un rapporto secondo giustizia, che dunque rispetti la libertà e la dignità di chi abbiamo di fronte. Nella storia sono stati date tre risposte alla domanda che ci siamo fatti, associate a TRE MODELLI di rapporto tra culture: 1) il modello dell'INTEGRAZIONE2) il modello MULTICULTURALE3) il modello del DIALOGO INTERCULTURALE.

Modello dell'integrazione

Il primo modello risponde ad una concezione dello Stato e della persona umana di matrice illuminista, in cui dominano le regole pubbliche, che devono essere il criterio assoluto di giudizio per tutti i comportamenti dei cittadini. Le differenze culturali rimangono un fatto relegato alla vita privata degli individui, che sono liberi di esprimersi secondo le proprie usanze, solo “nelle loro case”. Il Consiglio d'Europa, che ha redatto un documento in occasione dell'anno europeo (2008) dedicato proprio all’intercultura (vedi la bibliografia in fondo alla pagina), descrive coì questo modello:

“All’apogeo dello “Stato-nazione”, all’incirca fra il 1870 e il 1945, in Europa l’idea predominante era che tutti quelli che vivevano all’interno delle frontiere di uno Stato dovevano assimilarsi al modello di vita dominante , che serviva come base per la socializzazione delle generazioni future, in particolare tramite rituali nazionali, se non nazionalisti”.

Il problema di questo modello è che spesso le popolazioni in minoranza, si trovano schiacciati dalla cultura dominante, e spesso mostrano segni di insofferenza verso la cultura imposta.Un esempio di questa insofferenza sono sicuramente le rivolte del novembre 2005 nelle banlieue parigine. La Francia infatti è lo stato che più di tutti ha intrapreso politiche integrazioniste, e non è un caso se queste rivolte, provocate da un mix di insofferenza alla imposizione culturale e di esasperazione per la situazione di povertà delle periferie della città, sono avvenute proprio nella capitale francese.

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Modello multiculturale

Un modello alternativo a quello integrazionista “francese”, è quello multiculturalista “britannico”. Diffuso soprattutto in Gran Bretagna e negli USA, per motivazioni storiche, implica l'accettazione e la ratifica del fatto che su uno stesso territorio convivano più culture. È una co-presenza passiva di comunità diversamente connotate culturalmente. Il Consiglio d'Europa dice:“In quella che è diventata la parte occidentale dell’Europa divisa del dopoguerra, l’esperienza dell’immigrazione è stata associata a un nuovo concetto di ordine sociale conosciuto col nome di comunitarismo. Questo modello prevedeva il riconoscimento politico di ciò che era percepito come un sistema di valori diverso (quello delle comunità minoritarie), allo stesso titolo di quello della maggioranza di “accoglienza”. Sebbene si allontanasse dal modello dell’assimilazione, il comunitarismo ne condivideva spesso la stessa concezione schematica di una società ferma in una opposizione fra maggioranza e minoranza, distinguendosene unicamente in quanto prevedeva la separazione della minoranza piuttosto che la sua assimilazione alla maggioranza”.

Il problema fondamentale di questo modello è che la coabitazione di più culture non è sinonimo di interazione tra le culture. Per capirci, il rischio è che la società multiculturale sia sì composta da culture differenti sullo stesso territorio, ma organizzate a mo' di “ghetto”. Non c'è cooperazione, né dialogo, né addirittura contatto spesso, tra le persone. Questo tipo di società è quella della New York di inizio '900: Chinatown, Little Italy, Harlem: piccole cittadine all'interno di una stessa città, ognuna omogenea al suo interno, abitata da una comunità fortemente compatta e coesa, ma impermeabile a qualsiasi contatto con le altre componenti della città.Come riassunto della problematica, citiamo il Consiglio d'Europa che scrive:

“L’assimilazione, cioè l’unità senza diversità, comporterebbe una omogeneizzazione forzata e, dunque, una perdita di vitalità, mentre la diversità, se non è sottoposta ai principi di umanità comune e di solidarietà, rende impossibile il riconoscimento reciproco e l’inclusione sociale.Se dobbiamo costruire una identità comune, è necessario che essa si fondi sui valori di ospitalità verso gli altri e di rispetto della pari dignità di ogni persona, valori che hanno il dialogo e la comunicazione con gli altri come elementi a loro intrinseci”.

La terza via

Le esperienze precedenti sono segnate da una caratteristica che le accomuna: la mancanza di dialogo. Infatti nel modello integrazionista non c'è dialogo reale tra le culture, ma la sottomissione delle culture minoritarie a quella dominante; mentre nel modello multiculturale c'è coabitazione senza dialogo.Citiamo ancora l'UE, che dice:

I rischi dell’assenza di dialogo devono essere pienamente valutati nel loro complesso. L’assenza di dialogo contribuisce a sviluppare in larga misura un’immagine stereotipata dell’altro, instaura un clima di sfiducia reciproca, di tensione e di ansia, tratta le minoranze come capri espiatori e, più in generale, favorisce l’intolleranza e la discriminazione. La scomparsa del dialogo nelle società e fra una società e l’altra può, in alcuni casi, offrire un terreno favorevole alla nascita e allo sfruttamento dell’estremismo, se non addirittura del terrorismo. Il dialogo interculturale, anche a livello internazionale, è dunque indispensabile fra vicini.Chiudere la porta a un ambiente che presenta grandi diversità genera una sicurezza illusoria. Rinchiudersi nella

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tranquillità apparentemente rassicurante di una comunità esclusiva può condurre ad un conformismo soffocante. L’assenza di dialogo priva noi tutti di godere degli aspetti positivi delle nuove aperture culturali, necessarie per lo sviluppo personale e sociale in un contesto di globalizzazione. Comunità isolate e ripiegate su loro stesse creano un clima spesso ostile all’autonomia individuale e al libero esercizio dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.La mancanza di dialogo non tiene conto di ciò che l’eredità culturale e politica dell’Europa ci ha insegnato. I periodi pacifici e produttivi della storia europea sono sempre stati caratterizzati da una forte volontà di comunicare con i nostri vicini e di cooperare al di là delle frontiere. La mancanza di apertura verso gli altri troppo spesso ha generato catastrofi umane. Solo il dialogo ci permette di vivere nell’unità e nella diversità.

Esiste anche un altro modo di convivere tra persone di culture differenti. È dunque la via del dialogo tra le culture, un modo di convivere che non guarda soltanto all'esserci della relazione, ma anche alla sua qualità. Questa via non è una ricetta già pronta, ma è un compito che si rinnova ogni volta che si presenta la possibilità di un nuovo contatto tra culture.Questo approccio a persone di cultura differente, non richiede né di rinunciare alla propria cultura né alle proprie convinzioni. Come scrive Raimon Panikkar, teologo indiano e spagnolo, il dialogo interculturale richiede “fiducia, e non certezza”. Le culture non si escludono a vicenda (e gli uomini che le incarnano, quindi, non sono incompatibili tra loro).

Perché vi sia dialogo interculturale, sono necessarie delle condizioni, in mancanza delle quali mancano le basi perché le persone di culture differenti possano interagire in modo sereno.Innanzitutto è necessario che venga rispettata la pari dignità di tutte le persone, i diritti umani, il primato del diritto ed i principi democratici. Questi valori, in particolare il rispetto della libertà di espressione e delle altre libertà fondamentali, mettono il dialogo al riparo da qualsiasi forza prevaricatrice e basato più sulla forza delle argomentazioni piuttosto che sull’argomentazione della forza .Inoltre l’uguaglianza e il rispetto reciproco sono elementi costitutivi importanti del dialogo interculturale, indispensabili per superare gli ostacoli alla sua attuazione. Numerosi ostacoli impediscono il dialogo interculturale, alcuni dovuti alla difficoltà di comunicare in più lingue, altri legati al potere e alla politica: la discriminazione, la povertà e lo sfruttamento – che toccano in modo particolarmente duro i membri di gruppi svantaggiati e marginalizzati – sono barriere strutturali che impediscono il dialogo. Esistono inoltre gruppi e organizzazioni politiche che predicano l’“odio” dell’altro, dello “straniero” o di alcune identità religiose. Il razzismo, la xenofobia, l’intolleranza e tutte le altre forme di discriminazione rifiutano l’idea stessa del dialogo e rappresentano una costante sfida per esso.

Per rendere effettive queste condizioni, e quindi il dialogo interculturale, il Consiglio d'Europa suggerisce alcune piste di lavoro per i governi e tutti gli organismi sociali (quindi anche al MSAC!):

- garantire, oltre alla parità delle opportunità, la parità effettiva del godimento dei diritti, cioè aiuti di diverso tipo a persone e gruppi sociali, che pur avendo un diritto garantito, non possono goderne per limiti di vario genere (“Non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti eguali tra diseguali”, dicevano i ragazzi di Barbiana in Lettera ad una Professoressa);

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- promuovere la partecipazione di tutti alla vita sociale e politica, che grazie all'impegno condiviso per il bene comune, crea occasioni di confronto e di dialogo;- promuovere una scuola e un sistema educativo che, attraverso un insegnamento delle lingue che mantenga l'equilibrio tra lingue della maggioranza e lingue della minoranza, un insegnamento della storia che evidenzi le vicende di dialogo caratteristiche in tutte le epoche storiche, e un invito alla cittadinanza consapevole, insegni l'apertura all'altro.

Infine, l'Europa chiede anche l'apporto delle associazioni giovanili, come il MSAC, per le loro specificità, che sono importanti strumenti di educazione al dialogo interculturale:

Le organizzazioni giovanili, le associazioni sportive e le comunità religiose sono in una posizione particolarmente favorevole per promuovere il dialogo interculturale in un contesto di educazione non formale. Oltre alla famiglia, la scuola e il posto di lavoro, i gruppi giovanili e i centri comunitari contribuiscono a costruire la coesione sociale. Grazie alla grande varietà di programmi, alla natura aperta e libera delle loro attività e all’impegno dei loro membri, queste organizzazioni riescono spesso con maggiore successo a creare una partecipazione attiva da parte di persone provenienti da minoranze e ad offrire reali possibilità di dialogo. Organizzazioni della società civile e non governative attive sono una componente indispensabile delle democrazie pluraliste, favoriscono una partecipazione viva alle cose pubbliche e una cittadinanza democratica responsabile, nel rispetto dei diritti umani e della parità fra donne e uomini.

BIBLIOGRAFIA

- AA. VV., Multiculturalismo e interculturalità. L'etica in questione. (a cura di C. Vigna e E. Bonan), Vita e Pensiero.- Raimon Panikkar, Pace e interculturalità, Jaka Book.- Consiglio d'Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale. “Vivere insieme in pari dignità”, (opuscolo programmatico reperibile dall'indirizzo: www.coe.int/t/dg4/intercultural/Source/Pub_White_Paper/WhitePaper_ID_ItalianVersion.pdf)- AA.VV., L'immigrazione e la sfida dell'interculturalià – Tamtam Democratico, n° 3. (rivista di formazione politica del Partito Democratico reperibile dal sito www.tamtamdemocratico.it)- G. Sartori, Multiculturalismo e cattivo vicinato, editoriale Corriere della Sera del 21 febbraio 2010 (reperibile su www.corriere.it)- G. Sartori, Il Melting Pot non è la fine del mondo, articolo Corriere della Sera dell'8 gennaio 2002 (reperibile su archiviostorico.corriere.it)

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ORIENTAMENTI CULTURALI: IUS SOLI E IUS SANGUINIS

Come abbiamo rapidamente visto, insomma, l’accoglienza nei singoli Stati è regolata anche da differenti linee di pensiero, che possono tradursi in modelli legislativi alternativi. Allo straniero che prende residenza in una nuova nazione viene offerta dopo un dato periodo la cittadinanza, ovvero per dirla molto alla buona la possibilità di diventare membro attivo della vita lavorativa, politica e sociale del nuovo Paese. In questa scheda andremo a porre lo sguardo sull’Italia: dapprima prenderemo atto dei meccanismi che consentono a uno straniero di diventare cittadino italiano; poi ci addentreremo nel dibattito su ius sanguinis e ius soli, che spesso trova spazio sui giornali e nelle trasmissioni televisive e che riguarda da vicino noi giovani e soprattutto i giovani delle prossime generazioni, l’asse portante dell’Italia che verrà.

La normativa italiana sulla cittadinanzaInnanzitutto, le norme di cittadinanza italiane. Premettiamo che il testo di riferimento è la legge 5 febbraio 1992, n.91, cui rimandiamo (magari con l’aiuto di un esperto) per eventuali approfondimenti sul tema della cittadinanza. Qui ci limiteremo a segnalarne le linee guida fondamentali, che ci saranno utili per introdurre il tema della cittadinanza iure sanguinis o iure soli per i nuovi nati. Intanto, l’art.1 è già molto chiaro: è cittadino italiano per diritto di nascita

a) il figlio di padre o di madre cittadini;

b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.

Insomma, si è italiani alla nascita se figli di almeno un genitore con cittadinanza italiana (non importa se il luogo di nascita sia l’Italia o qualsiasi altro Stato), o se nati sul suolo italiano da genitori ignoti o privi per qualche ragione della cittadinanza di alcuno Stato (può accadere per ragioni politiche, ad esempio). La cittadinanza italiana si trasmette di padre in figlio senza limiti di generazione, a patto che nessuno degli avi abbia mai rinunciato alla cittadinanza. Inoltre, sono cittadini italiani il minore straniero adottato da cittadino italiano (art. 3) e, secondo l’art. 4

lo straniero o l'apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, se:

a) presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana;

b) assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana;

c) al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana.

Per quanto riguarda invece il figlio di stranieri nato sul suolo italiano, il comma 2 dell’art. 4 precisa che

lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data.

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Questi i casi relativi ai nuovi nati o comunque ai minorenni, dunque alla fascia d’età che occupa od occuperà nei prossimi anni le nostre scuole. Per completezza, ricaviamo dalla legge 91/92 anche qualche direttiva sugli stranieri giunti in Italia già maggiorenni.

Secondo l’art. 5, comma 1, « Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all'estero» e, comma 2, « I termini di cui al comma 1 sono ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi ». Dunque il matrimonio con cittadino italiano garantisce al coniuge la cittadinanza, dopo due o tre anni a seconda che la residenza sia in Italia o all’estero; l’eventuale nascita di figli dimezza i tempi del procedimento.Secondo l’art.9, comma 1, la cittadinanza italiana viene concessa:

d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;

e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;

f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.

Insomma, uno straniero che giunga in Italia riceverà la cittadinanza dopo quattro anni di residenza se è cittadino UE, dopo cinque se apolide, dopo ben dieci se extracomunitario.

Ius sanguinis o ius soli?Esplicitata la necessaria premessa legislativa – per quanto sottolineando solo i punti principali della legge 91/92 – proviamo a capire meglio il discorso su ius sanguinis e ius soli. Chi non mastica pane e diritto però vorrà probabilmente capire che cosa significhino le definizioni latine. Magari chi sta frequentando un liceo ha qualche possibilità in più: ius significa “diritto”, mentre sanguinis e soli significano letteralmente “del sangue” e “della terra”. La diatriba riguarda i nuovi nati: in alcuni Stati essi hanno la cittadinanza “per diritto di sangue”, ovvero perché i genitori, i nonni o persino gli avi sono o erano cittadini di quel determinato Stato; dunque possono essere cittadini dello Stato dei loro genitori o avi, pur essendo nati fisicamente in altra nazione. In altri Stati si è invece cittadini già alla nascita “per diritto della terra”: se sono nato in uno Stato, magari anche se da genitori di altra nazionalità, acquisisco direttamente la cittadinanza dello Stato di nascita.

Ecco come il sito del Ministero dell’Interno definisce la differenza tra ius sanguinis e ius soli:Lo "ius soli" fa riferimento alla nascita sul "suolo", sul territorio dello Stato e si contrappone, nel novero dei mezzi di acquisto del diritto di cittadinanza, allo "ius sanguinis", imperniato invece sull'elemento della discendenza o della filiazione. Per i paesi che applicano lo ius soli è cittadino originario chi nasce sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori.

Come abbiamo visto, la legge italiana predilige lo ius sanguinis: i bambini che nascono fuori dal suolo italiano ma da almeno un genitore italiano, sono a loro volta cittadini italiani; i bambini nati invece da genitori stranieri ma su suolo italiano mantengono la cittadinanza originaria, e non possono acquisire quella italiana almeno fino al compimento della maggiore età.

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Spesso si sente dibattere della legittimità dello ius sanguinis al giorno d’oggi, quando l’Italia è Paese di fortissima immigrazione. I sostenitori dello ius soli infatti sostengono che i bambini nati in Italia da genitori stranieri, ormai, sono già dai primi anni di vita italiani a tutti gli effetti: frequentano le scuole italiane, parlano la nostra lingua (e spesso anche con le accentazioni tipiche delle varie regioni d’Italia), trascorrono il tempo libero giocando a pallone o con le bambole insieme ai nostri fratelli più piccoli. Che senso ha dunque non riconoscerli come cittadini fino alla maggiore età, obbligandoli a fastidiose pratiche burocratiche, alla continua richiesta di permessi di soggiorno, come se fossero bambini e ragazzi “in prestito” sul nostro suolo? Anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha posto ripetutamente il tema dello ius soli all’attenzione pubblica. Soprattutto, fece scalpore una sua uscita nel novembre 2011, quando a pochi giorni dalla costituzione del governo Monti affermò con coraggio: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un'autentica follia, un'assurdità. I bambini hanno questa aspirazione». Proviamo ora a indicare tre motivi per cui la presente situazione legislativa ci sembra attualmente poco consona:

1) È illogico che un ragazzo nato e cresciuto in Italia non possa avere la cittadinanza italiana, mentre un ragazzo nato e cresciuto in un altro Stato, ma che riceve dalle generazioni precedenti la cittadinanza italiana, sia invece cittadino pur magari non conoscendo la nostra lingua, la nostra storia, la nostra cultura.

2) La grandissima parte degli stranieri che emigrano in Italia con la famiglia, lo fa per motivi di lavoro. Dunque essi producono per il nostro Paese e ne pagano i contributi regolarmente. Ormai nella maggioranza dei casi le migrazioni sono, se non assolutamente definitive, comunque di lungo o lunghissimo periodo. Abbiamo già detto di come i figli di immigrati assimilino fin da piccoli usi e costumi della nostra cultura (per chi volesse un’ulteriore prova, si consiglia il trailer del documentario 18 IUS SOLI, che abbiamo condiviso anche al campo durante il pomeriggio dedicato all’intercultura; disponibile al sito www.18-ius-soli.com). Perché un padre e una madre che lavorano alle stesse condizioni dei cittadini italiani e con la prospettiva di acquisire loro stessi la cittadinanza, non dovrebbero vedere riconosciuto come italiano almeno il loro figlio nato in Italia, che studia e vive come un qualsiasi coetaneo italiano?

3) Nella formula che riguarda la cittadinanza a 18 anni per i nati in Italia da genitori stranieri, si dice che il minore deve risiedere nel nostro Paese «legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età». Il D.P.R. 572 del 12 ottobre 1993, che mette in atto la legge 91/92, specifica al comma 3 dell’art. 3 questo «senza interruzione»: «l'interessato deve aver risieduto legalmente in Italia senza interruzioni nell'ultimo biennio antecedente il conseguimento della maggiore età e sino alla data della dichiarazione di volontà» (ovvero il momento in cui il ragazzo ora maggiorenne annuncia di voler acquisire la cittadinanza

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italiana). In sostanza, un nostro amico nordafricano che a 18 anni voglia diventare cittadino italiano non può uscire dall’Italia per due anni prima del diciottesimo compleanno, e per il tempo successivo fino all’espletamento di tutte le formalità burocratiche. Un’ulteriore misura restrittiva dal sapore decisamente antico.

In realtà allo studio del nostro Parlamento ci sono già delle proposte di legge per modificare la legge sulla cittadinanza. La più condivisa, in particolare è la proposta a firma Sarubbi – Granata, del 30 luglio 2009. Tuttavia, al momento non si sono verificate le condizioni perché la proposta potesse essere discussa in Parlamento. Nel futuro, speriamo che ci sia spazio e tempo per una seria riflessione sull’argomento; nel frattempo, da studenti e da msacchini, non possiamo che tenerci aggiornati sulla condizione legale dei nostri coetanei stranieri.

SITOGRAFIA:

http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1992-02-05;91

http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:1993-10-12;572!vig

http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/cittadinanza/Ius_soli.html

PROPOSTE DI LETTURA:

Nel mare ci sono i coccodrilli – Fabio Geda

La città dei ragazzi – Eraldo Affinati

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FORMAZIONE SPECIFICA: L’ALUNNO STRANIERO NELLA SCUOLA ITALIANA

Anche questa è una scheda di carattere soprattutto legislativo. Ci può servire anche per prendere familiarità con codici e decreti: se anche l’approccio può non essere facile, comunque il linguaggio delle leggi è più chiaro di quello che sembra; e soprattutto, è affascinante provare a cogliere dietro ogni disegno di legge – quando studiato con buon senso, ben inteso – il tentativo di armonizzare situazioni che si sviluppano man mano che la vita dello Stato si evolve insieme con i principi ancora ben saldi su cui la nostra Costituzione poggia da quel lontano 1 gennaio 1948.

D.P.R. 394/1999: minori stranieri e istruzione

Questo Decreto del Presidente della Repubblica contiene le norme di attuazione del decreto legislativo 286/1998, che riguarda «disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero». In particolare, gli articoli dal 45 al 48 contengono le «Disposizioni in materia di istruzione». Quello che ci tocca più da vicino è il 45, che parla di diritto allo studio per gli alunni stranieri.

L’articolo 45 specifica subito che il minore straniero ha il diritto e il dovere di andare a scuola: indipendentemente dalla regolarità o meno della sua posizione, può iscriversi a scuola in qualsiasi momento dell’anno e deve ottemperare all’obbligo scolastico proprio come i ragazzi italiani. Di norma un alunno straniero viene iscritto alla classe corrispondente alla sua età, ma il collegio dei docenti può optare per una classe inferiore o superiore in base al livello d’istruzione ottenuto dall’alunno nel Paese di provenienza. Importante la specifica del comma 4: «Il collegio dei docenti definisce, in relazione al livello di competenza dei singoli alunni stranieri il necessario adattamento dei programmi di insegnamento; allo scopo possono essere adottati specifici interventi individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l'apprendimento della lingua italiana». Chiaramente non è possibile studiare in una scuola statale italiana senza conoscere la nostra lingua, ed è per questo che lo studente straniero ha diritto a un insegnamento personalizzato per apprendere quanto prima la lingua e rimanere al passo con i programmi.

Vediamo rapidamente gli altri tre articoli, dedicati soprattutto alle università: l’articolo 46 è dedicato all’accesso degli stranieri: ogni anno gli atenei italiani sono tenuti a riservare un numero di posti prestabilito a studenti stranieri, che potranno mantenere il permesso di soggiorno per motivi di studio superando di anno in anno gli esami del proprio corso. L’articolo 47 riguarda l’abilitazione all’esercizio della professione: un visto speciale può essere rilasciato agli studenti stranieri che si siano laureati in un corso, e debbano successivamente svolgere l’esame di Stato per poter praticare la professione corrispondente. L’articolo 48, infine, si occupa del riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, la cui competenza è attribuita direttamente alle università

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stesse.

In tempi recenti, il nostro Ministero dell’Istruzione ha dovuto esprimersi su una questione legata al riconoscimento del titolo di studio degli alunni stranieri. Molti ragazzi in età di scuola superiore, infatti, arrivano in Italia senza possedere un titolo di studio equivalente alla nostra licenza media. Tuttavia, sarebbe assurdo inserire un ragazzo straniero di 14, 15 o 16 anni in una prima media. Su questo tema quindi il M.I.U.R. ha voluto pronunciarsi con una circolare datata 27 gennaio 2012, che aveva il seguente oggetto: studenti con cittadinanza non italiana iscritti a classi di istituti di istruzione secondaria di secondo grado. Esami di Stato.La circolare riprende il comma 2 dell’articolo 45 appena visto, secondo cui i ragazzi stranieri ancora in età dell’obbligo devono essere inseriti nella classe anagraficamente corrispondente, salvo diverse disposizioni del collegio docenti. Quando invece a fare domanda sono studenti almeno sedicenni, la circolare decreta che «il consiglio di classe può consentire l’iscrizione di giovani provenienti dall’estero, i quali provino, anche mediante l’eventuale esperimento nelle materie e prove indicate dallo stesso consiglio di classe, sulla base dei titoli di studio conseguiti in scuole estere aventi riconoscimento legale, di possedere adeguata preparazione sull’intero programma prescritto per l’idoneità alla classe cui aspirano». In sostanza, l’alunno straniero può essere ammesso alla classe selezionata dal collegio dei docenti superando un test ad hoc; l’importante è che dimostri di avere le competenze necessarie per frequentare quella classe, anche se non possiede la licenza media italiana o comunque un titolo di studio ad essa direttamente equiparabile. Spesso invece si verificavano casi di confusione, in cui i dirigenti scolastici, non sapendo bene come comportarsi nei confronti degli alunni stranieri, pretendevano da parte loro lo svolgimento, presso i Centri territoriali permanenti o presso i Centri provinciali per gli adulti, degli esami di Stato conclusivi del primo ciclo d’istruzione. Una prassi comune che il ministro Profumo ha voluto abolire, equiparando così lo studente straniero che entri nel sistema di istruzione secondaria a uno studente cittadino italiano, fermo restando il superamento del test proposto dal collegio dei docenti.

SITOGRAFIA:

http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:1999-08-31;394 http://www.istruzione.it/web/istruzione/prot330_12

QUALCHE IDEA PRATICA

Avete mai sentito parlare di “sussidiarietà interna”? Il sito atuttascuola.it la definisce così: «La sussidiarietà è un principio in base al quale vale la pena di valorizzare i soggetti che operano nella società, piuttosto che demandare la gestione di tutto alle istituzioni statali. In questo modo i soggetti che operano, aiutano lo Stato (da qui il termine sussidiarietà), a realizzare il bene comune. Essi cioè lavorano non solo nel proprio interesse, ma anche nell'interesse comune, nel momento in

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cui costruiscono realtà sociali utili a tutti». Quando la sussidiarietà diventa qualcosa di grande, che muove risorse ingenti, lo Stato si fa da parte e affida a terzi lo svolgimento di determinati compiti: «Lo Stato riconosce che non può intervenire direttamente in tutte le situazioni, e sovvenziona e incentiva l'intervento di vari enti ed associazioni non statali».Dove vogliamo arrivare? Semplicemente, anche noi, nel nostro piccolo di msacchini, possiamo fare qualcosa di “sussidiarietà interna”. Creare dei cineforum in cui si vedono film storici della nostra cultura; mettere a disposizione un pomeriggio alla settimana per aiutare i ragazzi stranieri nei compiti; pensare dei mini-corsi di italiano... Dove c’è necessità, il MSAC può intervenire anche per dare una mano alle istituzioni e ai professori, che non sempre riescono a tenere il passo con il numero sempre crescente di ragazzi stranieri che abitano le nostre scuole. Il tutto sempre mantenendo lo spirito non di chi insegna qualcosa a qualcun’altro, ma di chi si mette a fianco per percorrere un pezzo di strada insieme. Che dite, si può fare?

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PRIMO ANNUNCIO: IL DIALOGO INTERRELIGIOSO

Che cos’è il dialogo interreligioso

La religione non è una componente secondaria della cultura dei popoli. Facendo esempi un po’ banali, ma che rendono l’idea, come è possibile pensare la cultura dei popoli americani, i cosiddetti “indiani”, senza tener conto di tutta la ritualità ad essi associata, dei culti totemici e della loro religione animista? Oppure, ancora, come non pensare immediatamente alla miriade di divinità “indù”, mentre si guardano immagini, foto o video provenienti dall’India? Parlando di dialogo interculturale, non si può prescindere dal parlare di “dialogo interreligioso” . Anche solo pensando alla situazione nostra attuale, come è possibile pensare al confronto tra la nostra cultura occidentale, e quella detta, appunto, “islamica”, proveniente dal nord-Africa, senza considerare il confronto tra le religioni? Certo, spesso il confronto religioso, o meglio, lo “scontro” religioso, viene sfruttato in modo meschino per attizzare gli odi tra le popolazioni e le etnie; tuttavia è sbagliato ridurre il confronto tra le religioni, ad una guerra tra fazioni rivali.Ma cosa significa “dialogo interreligioso”? Rispondere non è facile, perché questa questione, come tutte le questioni “umane”, non hanno mai risposte certe e definizioni esatte. Per avere un orientamento generale, guardiamo cosa dicono i documenti ufficiali della Chiesa. Nella dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, che riguarda appunto il rapporto tra la religione cattolica e le altre religioni, viene affermato:

“La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in essi”.La Chiesa invita dunque ad un interesse che sa comprendere le ragioni dell’altro, ma che nemmeno dimentichi le proprie origini e la propria verità, e valorizza al massimo tutti i possibili punti di contatto tra le religioni, affermando che sono “raggi di verità”. Questa posizione di apertura e dialogo è spesso molto problematica. A volte le differenze e le divisioni religiose vengono utilizzate da gruppi che assoggettano le parole della religione ai propri interessi (un esempio: da una parte in Africa del nord, gruppi fondamentalisti tentano di prendere il potere, mentre in Europa, soprattutto al nord, si creano movimenti xenofobi che riferendosi a questi gruppi integralisti promuovono campagne anti islamiche).

Uno dei “traguardi” più importanti del dialogo interreligioso sono stati gli incontri 19

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internazionali di preghiera per la pace (il primo incontro storico fu il 27 ottobre 1986 ad Assisi), al quale parteciparono rappresentanti di tutte le più importanti religioni del mondo. La pace viene infatti riconosciuta da tutte le religioni come un dono prezioso, e per questo ogni rappresentante in quella occasione si prende l’impegno di promuoverla e di pregare per essa. Questo può essere un bell’esempio di dialogo, che ruota attorno all’individuazione di un “valore” condiviso tra tutte le differenti professioni di fede.

Grazie al suggerimento virtuale di un prete cattolico con una storia personale molto particolare, Raimon Panikkar, vogliamo addentrarci ancora di più nella realtà del “dialogo”. Il nostro personaggio infatti nacque nel 1918 da madre spagnola cattolica e padre indiano di religione indù. Crebbe in Spagna, si formò attraverso la cultura europea, si laureò in filosofia, teologia e chimica, e venne ordinato sacerdote cattolico. Verso i 35 anni fece un viaggio in India, durante il quale riscoprì le sue origini indù. Da questo viaggio cominciò un percorso di vita e spirituale teso a trovare il Cristo nelle religioni che la storia gli aveva fatto incontrare. Dirà: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindú e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”. Un personaggio da approfondire, insomma, l’incarnazione vivente del dialogo interreligioso!

In un suo libro, propone un “Discorso della montagna del dialogo interreligioso”, una sorta di decalogo dedicato al dialogo tra le religioni, che possiamo leggere come indicazione per affrontare il confronto con altre religioni:

Il discorso della montagna del dialogo interreligioso (Raimon Panikkar)

Quando entri in un dialogo intrareligioso, non pensare prima ciò che tu devi credere.

Quando tu dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi costituiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fa come gli uccelli del cielo che cantano e volano e non difendono la loro musica e la loro bellezza.

Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come una esperienza rivelativa, come tu guarderesti – o ti piacerebbe guardare – i gigli dei campi.

Quando intraprendi un dialogo intrareligioso cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio, prima di rimuovere la pagliuzza dall’occhio del tuo vicino.

Beato te quando non ti senti autosufficiente mentre sei in dialogo.

Beato te quando credi all’altro perché tu credi in Me.

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Beato te quando affronti incomprensioni da parte della tua comunità o di altri a causa della tua fedeltà alla verità.

Beato te quando non attenui le tue convinzioni e tuttavia non le presenti come assolute.

Guai a voi, teologi ed accademici, quando trascurate ciò che gli altri dicono perché lo considerate imbarazzante o non sufficientemente "scientifico".

Guai a voi, praticanti delle religioni, quando non ascoltate il grido dei piccoli.

Guai a voi autorità religiose, perché impedite il cambiamento e la (ri)conversione.

Guai a voi, gente religiosa, perché monopolizzate la religione e soffocate lo Spirito che soffia dove vuole e come vuole.

(da Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice)

Un concetto interessante di questo “discorso” è l’aggettivo “INTRARELIGIOSO”, usato anche per il titolo dell’opera. Con questo, Panikkar afferma che perché ci sia dialogo “tra” (inter-) le religioni, è necessario un dialogo “dentro” (intra-) la religione stessa. Significa che prima di intraprendere un dialogo, è necessario preparare il proprio animo al dialogo. L’autore stesso, in una intervista, spiega:

"Dialogo intrareligioso vuol dire che bisogna scoprire in se stessi il terreno in cui l'induista, il musulmano, l'ebreo e l'ateo possono trovare un posto. Se non apro il mio cuore, se non vedo che l'altro non è altro ma parte di me, non potrò mai dialogare con lui".

Questa affermazione, segnata sicuramente dalla esperienza di vita di chi l’ha scritta, ci indica però un passo necessario per un autentico dialogo.

Attraverso i nostri gruppi diocesani MSAC non intendiamo sicuramente intavolare grandi discussioni dottrinali intorno ai rapporti tra le religioni, e nemmeno riappacificare il Papa con il capo della Chiesa ortodossa, ma semplicemente riflettere, a partire dalle nostre realtà scolastiche e di classe, sul significato di trovarsi a contatto con persone che non sono indifferenti alla religione, ma che professano una fede diversa dalla nostra.

QUALCHE IDEA PRATICA

1) Si potrebbe approfondire il tema in un incontro con il responsabile diocesano per il dialogo interreligioso, presente in ogni diocesi, che, oltre a un approfondimento o una riflessione

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spirituale, potrebbe offrire una presentazione delle caratteristiche specifiche della presenza di altre religioni rispetta a quella cattolica territorio.

2) Una idea potrebbe essere quella di un incontro tra ragazzi studenti appartenenti a religioni differenti, destinato a scoprire e a discutere uno o più valori che accomunano tutte le religioni (ad esempio, “la pace”, “il culto tradizionale”, “l’amore”…).

BIBLIOGRAFIA

- Dichiarazione conciliare sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane “Nostra aetate” (presente online su www.vatican.va)- Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, 1988.- Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, (in Culture e religioni in dialogo, 2009)- sito della Comunità di Sant’Egidio (www.santegidio.org)- sito http://www.gianfrancobertagni.it/autori/raimonpanikkar.htm (numerosi articoli di Raimon Panikkar).

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PUNTI D’INCONTRO E OKTOBERFEST: PROPOSTE DI ATTIVITÀ

Preparare una attività “interculturale” non sarà un’impresa facile, ma ne varrà sicuramente la pena! L’idea che abbiamo in mente per questo Oktoberfest MSAC è quella di “INCONTRO”. Una festa, un momento di riflessione, un pomeriggio, in cui si incontrano persone con storie differenti, con idee religiose diverse, con tradizioni e culture diverse. Questo può prendere diverse forme, a seconda dei desideri e delle necessità dei partecipanti.

Perché questo incontro “esca col buco” (come non sempre succede con le ciambelle), è assolutamente importante una fase: la preparazione! Innanzitutto bisogna attivarsi per tempo: già al campo nazionale di Nardò abbiamo dedicato un pomeriggio ai temi dell’OFM, per iniziare a entrare nell’ottica dell’intercultura e per cominciare a pensare alle modalità migliori per trattare questi temi. Tornati ora a casa, è importante mettersi il prima possibile all’opera!

L’idea centrale dell’incontro è che esso non deve essere basato su una differenza di “livelli”, di “gradi di sviluppo”. Non ci sono gruppi di persone che possono solo ricevere, e altri che hanno il compito di dare. Ogni gruppo etnico-culturale porta con sé la ricchezza della propria tradizione, delle proprie abilità, dei propri suoni e delle proprie immagini. Quello che vogliamo succeda nell’incontro è uno “scambio”, un donarsi vicendevolmente la propria ricchezza, le proprie bellezze, per inaugurare un tempo di convivenza e reciproca ospitalità.

La scuola può essere uno straordinario luogo dove sperimentare e dove creare questo incontro. Nella scuola ci si confronta, ma soprattutto si è in uno stato di “disposizione all’apprendimento”, di “apertura”. Questo luogo è probabilmente il migliore nel quale costruire una società fondata sul dialogo tra le persone e le culture. Da qui vogliamo partire per questo percorso, proponendo all’interno delle scuole il nostro incontro interculturale.

Ogni scuola ha delle particolarità, così come ogni territorio ha una realtà sociale differente. È importante considerare queste particolarità nella preparazione della festa, per non proporre un evento che resti insignificante, o che venga interpretato malamente dalla città e dalle persone.

FASI

L’OFM non dovrebbe essere un incontro che resta isolato, ma qualcosa che si sviluppa nel tempo, che porta frutti. Proponiamo quindi tre fasi per l’OFM 2012: la prima sarà di “preparazione” e di “sensibilizzazione” all’evento e soprattutto alla tematica; la seconda sarà l’incontro vero e proprio; la terza fase saranno i “risultati” dell’incontro, cioè tutte le iniziative o esperienze che continueranno nel tempo.

1° FASE: CREIAMO MOVIMENTO

Un buon (e assolutamente necessario) inizio potrebbe essere quello di contattare associazioni e movimenti che si occupano dei temi dell’intercultura, dell’integrazione e

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dell’accoglienza, e le istituzioni cittadine o provinciali dedite a queste tematiche. Di associazioni di questo genere ce ne sono a bizzeffe, per lo più locali. Basta cercare nei luoghi giusti per trovare!

Innanzitutto si potrebbero contattare le istituzioni cittadine o provinciali. Dalle pagine web della città o della provincia, dovrebbe essere facile trovare i contatti degli assessori alle Politiche Sociali (così chiamati, o con nomi simili), che si occupano della tematica multiculturale. Oltre a suggerirvi persone che possono intervenire nel vostro incontro, pubblicizzare e anche addirittura patrocinare il vostro OFM, possono anche darvi i nomi delle associazioni più significative del territorio che si occupano di intercultura.

Questo passaggio preliminare è fondamentale, perché permette di stabilire contatti con persone che si occupano in modo serio dell’argomento, o che sono parte in causa. Questa accortezza può rendere l’OFM 2012 qualcosa di molto bello nella storia del gruppo MSAC, della scuola e della città!

Un’azione per “preparare” la festa, e per sensibilizzare la popolazione studentesca e non riguardo al tema, può essere il classico volantinaggio. Può essere utile, nel caso si organizzi una festa con altre culture, fare volantinaggio anche nelle zone dove le persone di determinate culture sono maggiormente presenti!

Invece che il classico volantino, nel caso si voglia fare una azione in stile “guerrilla marketing” (vedi Wikipedia e Youtube, e materiale sul sito del Msac riguardante la “promozione” per spiegazioni), si possono distribuire per la città fogliettini e piccoli depliant con spunti letterari o visivi relativi al tema. Questo è solo un esempio, ma le idee per la “guerrilla msacching” possono essere infinite… Spazio alla fantasia!

Per introdurre il tema nelle scuole della città o della provincia, oltre al volantino, potrebbe essere interessante fare un sondaggio tra le varie classi, sul “livello di interculturalità” tra gli studenti. Come viene concepito il rapporto tra culture? Cosa significa “intercultura”, per gli studenti? Quali esperienze di questo tipo vengono vissute dagli studenti? Quanto incidono le differenze culturali nei rapporti tra le persone? Questi e altri possono essere gli argomenti di una piccola indagine tra gli studenti, che poi potrà venir presentata durante l’OFM.

2° FASE: IN MOVIMENTO!

Di seguito ci sono varie opzioni che, come in un piano telefonico, possono essere attivate a proprio piacimento e secondo le proprie necessità durante l’incontro.

opzione “cinema” Cineforum: visione di film, preceduta da una piccola introduzione all’argomento, e seguita da gruppi di discussione. Sono molti i film che parlano di rapporto tra culture. Alcuni titoli interessanti potrebbero essere questi:

- COSA PIOVE DAL CIELO? (2012), un film di Sebastian Borenstzein.

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Trama: Profondamente segnato dall'esperienza militare nella guerra delle Falkland, Roberto è oggi un uomo dal carattere schivo e introverso, che a fatica manda avanti a Buenos Aires il proprio negozio di ferramenta. L'unico svago è quello di collezionare la sera a casa ritagli di giornale che raccontano storie strane. Del tutto casualmente un giorno incontra per strada un giovane cinese, Jun, arrivato in Argentina per incontrare uno zio, unico parente ancora vivo. Roberto lo porta nella sua casa. Il percorso per superare la naturale chiusura mentale di Roberto non sarà facile, e ricco di momenti soprprendenti.

- ALMANYA - LA MIA FAMIGLIA VA IN GERMANIA (2011), un film di Yasemin Sanderell.

Trama: Ormai nonno, Huseyin una sera comunica alla famiglia riunita comunica di aver acquistato una casa in Turchia. A proprie spose, invita tutti a compiere il viaggio a ritroso dalla Germania, cove vivono, al Paese delle origini. All'arrivo, mentre su un pullman si dirigono verso il luogo stabilito, Gabi, la nipote adolescente, racconta a quello più piccolo, le vicende di Huseyin da quando giovane turco decise di trasferirsi in Germania in cerca di lavoro. Scorrono trenta anni di storia, la moglie, i figli, la prima casa, le difficoltà, il raggiungimento di una certa tranquillità. Finale con colpo di scena!

- SOGNANDO BECKHAM (2002), un film di Gurinder Chadha.

Trama: A Londra la diciottenne Jess ha in camera da letto i manifesti del calciatore Beckham. Il calcio è la sua grande passione, e quando, notata al parco dalla coetanea Jules (una giovanissima Keira Knightley), viene invitata ad aggregarsi ad una squadra femminile, lei accetta subito. Da quel momento però comincia un periodo difficile fatto di fughe, scuse, sotterfugi. Jess é figlia di indiani trapiantati a Londra i quali non vogliono saperne di pallone e la esortano a pensare all'università e a qualche fidanzato da scegliere tra i ragazzi indiani locali. Per la ragazza inizierà una storia complessa ma profonda e avvincente.

opzione “mercato”: Un luogo e tanti stand, tante bancarelle in stile “mercato del giovedì”, in cui ai partecipanti all’incontro vengono offerti i “frutti” delle varie culture. Qualche idea? Stand di cucina tradizionale locale, africana, rumena, indiana; oppure di musica di vario genere; di scrittura, cinese, giapponese, araba; stand artistici o di letteratura straniera, di poesia; uno stand del the giapponese, e chi più ne ha più ne metta! La regola fondamentale di questo mercato è che ogni bancarella deve portare qualcosa in dono agli altri, che ogni cultura, in quanto è ricca di frutti da poter condividere, deve diffondere tra tutti i presenti le proprie particolarità.

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opzione “cultura”: Si può organizzare una mostra, che in modo didascalico mostri i tratti essenziali e qualche particolarità delle differenti culture a cui appartengono i ragazzi di una determinata scuola, città o provincia. Ovviamente, perché questa mostra abbia valore, è necessario che venga fatta proprio in collaborazione con gli studenti che appartengono a queste differenti culture. La mostra può includere informazioni sulla cucina, sull’arte, sulla letterature, sulla musica, sulla lingua, sugli usi e i costumi, sui proverbi (ecc. ecc.) di una cultura.

opzione “festa”: L’opzione più “esuberante”. Una festa multietnica con musica, balli, cibo proveniente da tutto il mondo! L’incontro può essere organizzato all’aperto, e oltre ad uno stand con cibo etnico, possono essere proposte musiche tradizionali straniere, possono essere creati “angoli letterari” in cui esporre opere d’arte o oggetti d’artigianato estero, o addirittura si potrebbe proporre una piccola pièce teatrale tradizionale. La festa può essere anche una bella occasione per eventuali associazioni di migranti, di farsi conoscere, e di far conoscere la propria cultura.

opzione “sport”: Lo sport, si sa, unisce. Come contorno dell’incontro, potrebbe essere organizzato un momento “sportivo”, anche prendendo spunto dalle tradizioni sportive dei differenti paesi presenti. Non dappertutto lo sport più praticato è il calcio! Ci sono poi miriadi di giochi “non agonistici” che possono essere imparati da altri paesi.

opzione “musica”: I più portati nel canto o nella pratica di uno strumento musicale possono affiancare i propri strumenti e la propria voce a quella di altri strumenti e voci più “esotiche”, oppure cimentarsi nel suonare musiche provenienti da altre tradizioni.

3° FASE: MOTO PERPETUO…

Come si diceva poco fa, l’incontro non deve essere soltanto un evento sporadico, isolato, senza alcun seguito. Questo tema in particolare va vissuto il più possibile nella quotidianità, affinché abbia un ritorno nella vita di ognuno. Il dialogo e il confronto con altre culture deve diventare prassi quotidiana, non questione di eventi particolari. Qui di seguito sono elencate alcune idee…

Per i gruppi MSAC che collaborano con il giornalino della scuola, o che ne producono uno da sé, inserire una rubrica fissa, che ogni volta presenti le caratteristiche delle differenti culture. Una rubrica interculturale in cui inserire storie, leggende, abitudini, interviste, racconti, ricette, canzoni e poesie da tutto il mondo.

Proporre alla scuola un ciclo di incontri (magari cercando anche di inserirlo nel POF della scuola) durante tutto l’anno, in cui, attraverso laboratori, film, testimonianze e dialoghi con esperti, approfondire l’argomento “intercultura e società multietnica”. Il coinvolgimento di altre associazioni (sia studentesche, sia relative alla tematiche interculturale) può essere un importante valore aggiunto al ciclo di incontri.

Organizzare uno o più “Laboratori di lingua base”, al pomeriggio nei locali scolastici, in cui studenti insegnano ad altri coetanei le nozioni base di una lingua. Questa iniziativa può avere un

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taglio più “sociale” – cioè può venir organizzata da studenti italiani che organizzano, per altri ragazzi della stessa età o per adulti appena arrivati in Italia, dei “corsi” o delle “ripetizioni” di italiano; oppure è possibile anche ribaltare i ruoli, e organizzare laboratori in cui studenti di altre nazionalità insegnano ai presenti le nozioni base della loro lingua (es. laboratorio di lingua cinese, o di scrittura araba…).

Creare una band di musica “interetnica”, con un repertorio musicale preso dalle varie tradizioni del mondo, con componenti, se possibile, che suonano strumenti tipici e popolari. Una specie di “School of Ethno”, per capirci!

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