Motivazione Della Sentenza Dal Medioevo Ad Oggi

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L’obbligo di motivazione della sentenza

Profilo storico dal medioevo ad oggi

a cura di Emanuele Petronio e Giorgio Santini

La motivazione della sentenza è la parte del provvedimento giurisdizionale in cui si

illustrano le ragioni che hanno indotto il giudice a prendere la decisione enunciata nella

parte finale (dispositivo) del provvedimento stesso. Attualmente la motivazione viene

percepita come un requisito necessario di forma e contenuto in quanto ritenuta, oltreché

requisito di carattere tecnico, anche una garanzia fondamentale dei cittadini nei confronti

della giustizia e di buona amministrazione della stessa.

Fondamentalmente la motivazione ha due funzioni principali:

1. Funzione endoprocessuale: è strettamente connessa con l’impugnazione della sentenza

poiché la conoscenza dei motivi della decisione agevola l’individuazione degli errori

commessi dal giudice o comunque degli aspetti criticabili della decisione stessa, quindi

rende più agevole l’individuazione dei motivi di impugnazione. Inoltre ciò è utile anche

al giudice dell’impugnazione, poiché gli facilita il compito di riesaminare la decisione

impugnata prendendo in considerazione le giustificazioni addotte dal giudice inferiore.

2. Funzione extraprocessuale: consente il controllo esterno sulle ragioni dei provvedimenti

giudiziali e ciò è espressione della concezione democratica del potere in un dimensione

costituzionale legata alla natura garantistica della motivazione.

Queste due funzioni principali non si pongono in alternativa una con l’altra ma si

completano a vicenda.

Attraverso la motivazione diviene possibile il controllo sulla sussistenza delle garanzie del

giusto processo; a ciò si aggiunge una funzione di legittimazione della decisione, in quanto

mostra che essa risponde ai criteri che guidano l’ordinamento, e una funzione di

razionalizzazione della giurisprudenza.

Per la maggior parte della dottrina la motivazione si identifica con una sorta di resoconto

del procedimento mentale (iter logico) seguito dal giudice per arrivare alla decisione,

mentre Michele Taruffo sottolinea che: “non interessa sapere come e quando il giudice ha

formulato il proprio convincimento, ma quali sono le ragioni che giustificano la decisione”

e che “interessano le argomentazioni che il giudice elabora e adduce per dimostrare che la

decisione è sorretta da buone ragioni”1 . Con queste parole si è inteso affermare la necessità

di una giustificazione razionale della decisione del giudice, ossia dello svolgimento di un 1 Intervento del Prof. Michele Taruffo nell’incontro di studio dei giorni 16, 17 e 18 dicembre 2004 presso la Corte dei conti.

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insieme di argomentazioni che facciano apparire la decisione come giustificata sulla base di

criteri e standards intersoggettivi di ragionamento.

Nella redazione della motivazione il giudice non ripercorre la formulazione e il controllo

delle ipotesi e in particolare non ridiscute le ipotesi di decisione scartate in quanto rivelatesi

infondate o errate: egli prende in considerazione l’ipotesi di decisione che ha ritenuto

fondata ed enuncia le ragioni per le quali essa dovrebbe considerarsi razionalmente e

giuridicamente valida.

In ossequio al principio di completezza della motivazione essa deve contenere la

giustificazione specifica della decisione di tutte le questioni di fatto e di diritto che

costituiscono l’oggetto della controversia, poiché solo a questa condizione si può dire che la

motivazione è idonea a rendere possibile il controllo sulle ragioni che fondano la validità e

l’accettabilità razionale della decisione.

Dunque la motivazione deve contenere sia la giustificazione interna sia quella esterna della

decisione. Per giustificazione interna si intende il nesso che fonda la decisione finale sulla

base del collegamento tra “fatto” e “diritto”. Tale collegamento viene definito come

sussunzione del fatto entro la norma, operazione da compiersi in base alla necessaria

corrispondenza tra la fattispecie concreta accertata e la fattispecie legale individuata tramite

la interpretazione della norma applicata.

La giustificazione esterna riguarda, invece, la scelta delle premesse di fatto e di diritto dalla

cui connessione deriva logicamente la decisione finale.

Il principio dell’obbligo di motivazione è oggi costituzionalizzato in Italia (art. 111 comma

6: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”), anche se esso assume

una diversa portata nei tre rami principali dell’ordinamento. Per il processo civile la legge

prevede per la sentenza la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione,

mentre per l’ordinanza dispone che essa sia succintamente motivata, per il decreto la

motivazione è invece necessaria soltanto nei casi prescritti dalla legge (art 132 c.p.c.). Nel

processo penale le sentenze e le ordinanze devono essere motivate a pena di nullità, mentre

i decreti devono esserlo solo nei casi in cui la motivazione è espressamente prescritta dalla

legge (art 125 c.p.p. terzo comma).

Nell’ambito del processo amministrativo la legge n. 205 del 2000, modificando la legge n.

1034 del 1971, ha introdotto, in via generale (art 26), l’istituto della decisione in forma

semplificata, da adottarsi sia a seguito dell’udienza di merito, sia all’esito della camera di

consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, ovvero fissata d’ufficio a seguito

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dell’esame istruttorio, nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza, irricevibilità,

inammissibilità e improcedibilità del ricorso.

Il legislatore, nell’introdurre l’istituto ha dato indicazioni specifiche sul contenuto della

motivazione e per la prima volta, non si è limitato a disporre che la motivazione fosse

concisa, ma ha indicato che “la motivazione della sentenza può consistere in un sintetico

riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un

precedente conforme”. L’introduzione in via generale dell’istituto della decisione in forma

semplificata, con la quale il legislatore, ampliando l’area dei poteri discrezionali del giudice

amministrativo nel processo, sollecita un impegno del giudice stesso per l’accelerazione dei

giudizi, non è soltanto uno strumento volto a far fronte all’emergenza del grande arretrato

che pesa sulla giustizia amministrativa, tale istituto mira anche a recuperare essenza,

struttura e contenuto propri dell’atto di decisione collegiale.

La motivazione in forma semplificata è apprezzabile in quanto importa uno stile

tendenzialmente uniforme, essenziale, privo di obiter dicta, che risponde all’esigenza di

concisione sempre raccomandata dal legislatore.

Relativamente alla giustizia tributaria l’articolo 36 del Dlgs n. 546 del 1992, concernente il

contenuto della sentenza, prevede, al secondo comma, che la stessa debba contenere:

l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori se vi sono; la

concisa esposizione dello svolgimento del processo; le richieste delle parti; la succinta

esposizione dei motivi in fatto e diritto; il dispositivo.

Dalla disposizione normativa e, in particolare, dalla lettura dei punti 2 e 4, emerge che la

motivazione della sentenza costituisce un requisito necessario per la sua validità.

Più specificatamente, l’elemento, oltre a costituire attuazione del principio costituzionale

(articolo 111) secondo cui “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”,

consente di dimostrare che è stato rispettato il diritto di difesa delle parti processuali,

nonché di valutare la ratio decidendi della pronuncia e, eventualmente, di impugnarla, ove

si rinvengano vizi in ordine alla ricostruzione logica seguita dal giudice.

Per la Cassazione, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice di merito

non solo deve indicare il procedimento logico posto alla base della decisione adottata, ma

deve, altresì, menzionare, “attraverso adeguata critica”, tutti gli altri rilievi e circostanze

che risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata2.

2 La pronuncia concerne una controversia originata da un avviso di accertamento (accertamento sintetico, ex articolo 38,

comma 4, Dpr 600/73) impugnato, con successo, dal contribuente in Commissione tributaria provinciale, la cui decisione

era confermata dalla Commissione tributaria regionale, che respingeva l’appello dell’ufficio per “l’imprecisione e

l’inadeguatezza” dell’atto con cui si determinavano fonti di reddito sottratte a tassazione. Le ragioni alla base del

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La Suprema corte, nell’accogliere il ricorso, ha chiarito che una sentenza deve ritenersi

insufficientemente motivata se il giudice non indica gli elementi dai quali ha tratto il

proprio convincimento. Per i giudici di legittimità il “difetto” si riscontra “ove il giudice

non indichi gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento, ovvero il criterio

logico e la ratio decidendi che lo ha guidato”.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione sussiste, quindi, ogniqualvolta il giudice non

delinei il percorso logico seguito, “descrivendo il legame tra gli elementi interni

determinati che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata”,

così come quando non esclude, “attraverso adeguata critica, la rilevanza di ogni elemento

esterno al percorso logico seguito, di natura materiale, logica o processuale, e

astrattamente idoneo a delineare conseguenze divergenti dall’adottata decisione” (ex

multis Cassazione, sentenza n. 11198/1997).

Al livello sovranazionale l’art.6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non

indica espressamente l’obbligo di motivazione delle sentenze tra le garanzie fondamentali

del giusto processo, ma la Corte di Strasburgo, anche in decisioni recenti, ha costantemente

interpretato tale norma estendendo il catalogo delle garanzie ivi previste sino a

ricomprendervi l’obbligo di motivazione.

Profilo storico

Oggi avvertito come garanzia imprescindibile del processo, l’obbligo di motivazione delle

sentenza è una conquista relativamente recente.

Dall’analisi delle istituzioni medievali si evince che per svariate ragioni le sentenze non

venivano motivate. La motivazione era ritenuta infatti in alcuni casi un dispendio inutile di

energie, mentre in altri un pericolo per l’autorità della sentenza, in quanto indicando le

ragioni del provvedimento ci si sarebbe esposti a cause di impugnazione e si riteneva poi

che il compito del giudice fosse quello di decidere e non di argomentare, compito invece

proprio di consulenti e avvocati. A ciò si aggiunge che esplicitando le ragioni per cui si

propende per una tesi piuttosto che per un'altra si creano vincoli per il futuro e che il

sistema delle prove legali non lasciava troppo spazio alla discrezionalità del giudice.

Questa avversione verso la motivazione degli atti giudiziari trova la sua causa di maggiore

rilievo in una “persistenza tenace della convinzione che l’amministrazione della giustizia

provvedimento dei giudici di legittimità, intervenuto in seguito al ricorso dell’Amministrazione, con cui si denunciava

l’insufficiente motivazione della sentenza di secondo grado, fanno perno sulla normativa di cui all’art. 36 del d.lgs n. 546

del 1992.

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fosse la più alta espressione della sovranità, di un potere sacro e mitizzato, sovrastante i

sudditi”3: pertanto non si ravvisava la necessità di rendere ostensive le ragioni del decidere.

Successivamente il giudice comunale per le sue sentenze si basa sui “consilia” degli esperti

di diritto (professori e pratici locali); essi si dividono in “iudicialis” che, in quanto

espressivi di potere decidente, non sono motivati e “pro parte” invece largamente motivati,

perché devono aiutare a decidere in contraddittorio, anzi sono ipotesi di possibili

motivazioni della sentenza.

Nel mondo comunale la motivazione della sentenza non si sviluppa sia perché il giudice ha

una struttura monocratica e non è, quindi, avvertito il bisogno di argomentare con altri

membri del collegio, sia perché altrimenti essa avrebbe acquisito i caratteri della trattazione

dottrinale, assumendo dimensioni eccessive senza portare a risultati apprezzabili. Si

preferiva non turbare il predominio dei dottori locali e fare esercitare ai giudici stranieri il

ruolo di mediatori.

Un punto di rottura si ha nel 1502 con l’istituzione della Rota Fiorentina , tribunale centrale

formato da giudici dotti: la novità sta nel fatto che i giudici in molte situazioni legalmente

previste ebbero l’obbligo di motivare le proprie decisioni. La delibera istitutiva del

tribunale rotale prevedeva infatti che nei casi in cui non fossero unanimemente d’accordo i

giudici erano tenuti a “scrivere et notare brevemente i meriti, et effecti di tale causa et i

motivi delle loro opinioni, et ragioni, che gli movessino ad così giudicare a piè della detta

sententia”.

Le motivazioni dovevano essere rese esplicite per ragioni di trasparenza del processo non

solo nei confronti delle parti ma anche del pubblico che poteva consultarle. La necessità di

motivare era un dato nuovo che derogava al diritto comune e che rimase una istituzione

specifica di ius proprium fiorentino. Certo non si può dimenticare che a Bologna già

cinquant’anni prima si era prevista la motivazione, ma questa normativa era stato presto

accantonata e comunque aveva avuto una portata più ristretta. La motivazione della

sentenza aveva in questo caso una funzione extraprocessuale più che endoprocessuale,

essendo intesa come elemento garantistico e di controllo.

I Medici sulla via del principato mantengono l’istituto della motivazione rotale mentre altre

Rote con obbligo di motivazione fanno la loro comparsa nei primi decenni del 1500 a

Siena, Perugia, Bologna, Lucca e poi nella seconda metà del secolo in alcune città dello

Stato Pontificio come Macerata e Ferrara. In questi ultimi casi la motivazione assume i

3 Cfr. M. Ascheri “Tribunali, giuristi, istituzioni” pag. 26.

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connotati di una concessione di tipo politico ai ceti privilegiati, i soli realmente interessati

alle cause di maggior valore.

Presso queste Rote la motivazione si presenta perciò come uno strumento utilizzato per

allargare il consenso alle istituzioni centrali dello Stato e per controllare l’operato dei

giudici. Presso la Rota Romana invece la sentenza finale non era motivata ma preceduta da

una “decisio”, che non solo non è una sentenza ma neppure una motivazione attuale, quanto

piuttosto una motivazione meramente possibile, un progetto di motivazione, al fine di

consentire al Tribunale di ritornare sulle proprie decisioni evitando un appello vero e

proprio. Con la successiva svalutazione del diritto dei consilia i giudici acquisiscono un

credibilità prima sconosciuta, mentre lo studio del diritto subisce una progressiva

regionalizzazione. In questo modo si responsabilizzano i giudici: con la motivazione il

potere politico può attenuare la propria responsabilità nei confronti delle disfunzioni

dell’apparato giudiziario, vantando di aver fatto il possibile per responsabilizzare l’operato

dei giudici a cui vanno imputati gli attentati alle esigenze di giustizia.

La questione giuridica intorno alla necessità di motivare le sentenze trova un suo

significativo interlocutore nella figura di Bernardo Tanucci, ministro a Napoli, dapprima

durante il regno di Carlo di Borbone, poi di Ferdinando IV.

Con il Dispaccio Reale del 23 settembre 1774 si stabilirono l’obbligo di motivazione delle

sentenze e il divieto di interpretatio, e si introdusse il riferimento al legislatore. Tanucci con

questo provvedimento voleva rendere più celere ed efficace l’amministrazione della

giustizia e secondo Filangieri anche assicurare il dominio della legge e scongiurare

l’arbitrio nella amministrazione della giustizia. Gaetano Filangieri coglie a pieno

l’oggettiva portata della riforma tanucciana in quanto mette in evidenza che con l’obbligo

di motivazione si sottopone il giudice al controllo diffuso dell’opinione pubblica

rendendolo responsabile nei confronti della collettività, facendo così emergere la funzione

extraprocessuale e democratica della motivazione.

Il Dispaccio stabiliva inoltre la pubblicazione e la stampa delle sentenze motivate, e la

nullità delle sentenze non pubblicate.

La riforma tanucciana fu apertamente avversata dalla magistratura ed afflitta da difficoltà

tecniche nella sua applicazione pratica, tanto da venir abrogata nel 1791.

Nel 1790 la legislazione rivoluzionaria francese pone fine ai sistemi giudiziari dell’Ancien

Regime ponendo le basi per la concezione moderna del processo giudiziario e della

funzione del giudice. La legge francese del 16-24 agosto dell’anno sopra citato viene

convenzionalmente indicata come l’origine moderna dell’obbligo di motivare le sentenze

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perché è principalmente da essa che traggono ispirazione tutte le codificazioni processuali

successive. Nei codici ottocenteschi, e conseguentemente anche in quelli del ‘900 l’obbligo

di motivazione diventa una costante.

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