Moti di rivoluzione intorno alla morte estratto
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MOTI DI RIVOLUZIONE
INTORNO ALLA MORTE
DAVID VALENTINI
Domenica 12 Settembre
3
1.
La chiave nella toppa di casa indica che si sta tornando alla
normalità. Il portachiavi nella mano destra tintinna appena
all’urto con la porta color legno, mentre una mucca in
miniatura pezzata di viola e nero fissa la ragazza con occhi di
plastica. Sulla mucca dai colori ambigui si intravede un nome:
Sofia.
Gli occhi gialli di un gatto nero sulla copertina rovinata dei
Racconti del mistero accompagnano lo sguardo indagatore
della ragazza verso l’interno dell’appartamento. Alcune parti
della copertina sono usurate al punto da rivelare la pagina
sottostante piena di appunti e note personali, scritti in una bella
grafia femminile.
Dentro la casa regna un silenzio pesante, quel silenzio che
solo un appartamento vuoto può dare. Dall’interno proviene
una sensazione ovattata di finestre chiuse che, attutendo tutti i
rumori del mondo esterno, lasciano la vita fuori dai vetri e dalle
persiane. Neanche l’orologio in cucina produce alcun rumore e
il tempo sembra essersi fermato per un po’. Sofia però non è
del tutto convinta e rimane a metà tra il pianerottolo e
l’appartamento in attesa di un rumore qualunque, qualsiasi cosa
possa dar segno di un pericolo imminente.
Rimane lì sulla soglia per degli interminabili trenta secondi,
ma gli unici suoni provengono dalla tromba delle scale.
Qualcuno ha appena chiuso il pesante portone dell’androne.
Sofia si chiede dove siano finiti tutti e quale stella deve
ringraziare per questa fortunata assenza. Infine si dà un
contegno entrando in casa sua di soppiatto, come una ladra; se
si vedesse allo specchio in questo momento vedrebbe una
ragazzina in preda al terrore, con lo sguardo fisso, gli occhi
sgranati e acuti, come la gazzella all’erta in cerca del giaguaro.
Scialla, Sofia, qua non c’è nessuno, dice a se stessa. Ti è
andata bene, dai. L’hai sfangata!
Chiusa la porta dietro di sé, l’interno sembra ancora più
immobile. Un enorme gatto rosso sta dormendo nel salone
all’americana, silenzioso come solo i gatti sanno essere. Non la
degna di uno sguardo però annusa l’aria disgustato, quasi abbia
percepito il puzzo stantio di alcool emanare dai vestiti di lei. Il
silenzio viene interrotto da un gorgoglio proveniente dalle
budella di Sofia, la quale si spaventa di quel rumore così
invadente.
Calmati, Sofia, si dice tentando di farsi coraggio, è solo il
tuo corpo che sta sistemando il casino che hai combinato ieri
sera. Stupida, stupida, stupida Sofia! Il primo comandamento
di queste serate è: mai mischiare, salire sempre di gradazione
e non scendere mai. È una regola semplice come contare per
due!
La ragazza si avvicina al gatto e, grattandolo dietro le
orecchie, gli sussurra: «Bello James Poe mio, come sempre sei
il primo a venirmi a salutare». Subito il gatto inizia a fare le
fusa, pur conservando la sua forma di ciambella.
Poi, dopo aver gettato il giacchetto di pelle e il libro di Poe
sul tavolo in cucina, Sofia corre in bagno a gettare in lavatrice i
vestiti ancora pregni del sudore e dei succhi gastrici di qualcun
altro. Si toglie la maglietta, i calzini e i jeans, impregnati e
incrostati di macchie verdi.
Fortuna che il profumo allo zenzero e vaniglia ha coperto
il puzzo anche dentro lo zaino. Guarda che schifo qua dentro,
mi toccherà ricomprare il libro di greco. Vacca puttana, come
glielo spiego che ho dovuto buttare il libro perché era pieno di
vomito?
La lavatrice è quasi piena, per cui ne approfitta per metterla
in funzione. Non appena la macchina comincia a ronzare e a
riempirsi d’acqua, Sofia tira un sospiro di sollievo.
Restano solo un paio di cose da fare e poi filerà tutto
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liscio: innanzitutto, dare una pulita veloce allo zaino e disfarsi
delle bottiglie che sono rimaste dentro – vodka alla pesca e
Vov, vuote ma ancora gocciolanti. Disgustevoli, bleah!
Per lo zaino è necessaria una montagna di fazzoletti
bagnati, mentre le bottiglie le chiude per bene nell’armadio.
Poi ci penserò. Ma perché non le ho buttate prima di
entrare? Sono proprio rincoglionita oggi.
Mentre va avanti e indietro a piedi nudi per la casa vuota,
accende distrattamente il PC e mette su il caffè, poi si apre una
lattina di aranciata, giusto per mandar giù il sapore acidulo che
ogni tanto torna a farle visita dall’inferno. Di fatto ottiene
l’effetto opposto, perché il gas della lattina le fa venire
un’ondata velenosa in bocca.
Sofia corre in bagno per sputare il tutto nella tazza, mentre
il vortice della lavatrice sta pulendo i panni sporchi e la sua
coscienza allo stesso tempo. Fissando per un istante il vortice
dentro l’oblò, riesce quasi a percepire l’odore degli estranei
andar via dai suoi vestiti.
Fortuna che mi ero portata il cambio. Mai più senza, mai
più!
Solo adesso comincia a convincersi che il peggio è passato,
che alla fine la bravata della notte prima può passare
inosservata.
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Che poi bravata un paio di palle. Vacca troia, ognuno ha i
suoi segreti, ma i genitori tendono a dimenticarsi cosa vuol
dire essere giovani. Sempre lì a dirti dove andare, dove non
andare. Con chi uscire, chi sono quelli pericolosi e quelli che
invece passerebbero la dogana senza problemi. Che non si
fuma, che non si beve. Che non si scopa.
Mentre è in bagno, Sofia ne approfitta per liberarsi la
vescica. Sente il piacere di una sana pisciata trattenuta per
troppo tempo, mentre ancora è immersa nei suoi pensieri.
Quello soprattutto, che nervoso che mi dà. Solo a me
rompono il cazzo in continuazione con questa storia, perché al
mio fratellone perfetto mai una volta li ho sentiti fare il
discorsetto, quasi che lui abbia il diritto di fare alle sorelle
degli altri quello che alla sua è vietato. Ipocrisia borghese del
cazzo. Sempre con ‘sta storia della verginità e che è impor-
tante perché è una virtù e che è un dono da conservare e
andate a fare in culo tutti quanti con ‘ste puttanate. Col mio
corpo ci faccio quello che mi pare, io. Come le femministe
degli anni settanta: l’utero è mio e me lo gestisco io! Mia
madre, poi, la più ipocrita di tutte. Lei che questi slogan li
cantava veramente ai tempi dell’università e ancora oggi si fa
chiamare avvocatessa invece di avvocato e usa il suo cognome
invece di quello di papà.
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Si lava al volo, mentre osserva il vortice della lavatrice che
pian piano sta portando via il segno di una colpa che tale non è.
Voler uscire, far tardi il Sabato sera, anche a diciassette
anni non dovrebbe essere una colpa. Che facciano i vecchi
dentro casa, loro, coi loro film d’annata e i loro party della
Domenica. Io voglio vivere la mia età. Non si torna indietro.
Si è giovani una volta sola, vero Giacomo mio? Cosa
resterà dopo?, pensa rivolgendosi all’ultimo dei libri che si era
portata appresso la sera prima, le poesie di Leopardi in
edizione economica. Il libro spunta dallo zaino appoggiato per
terra vicino alla cesta dei panni sporchi.
Mio fratello esce la sera da quando ha sedici anni, io
invece devo ancora inventarmi la vaccata che vado a dormire
da Camilla, l’unica di cui si fidano ancora. Come se non
sapessero, come se non lo facessero tutti. Come se mamma e
papà, proprio loro cresciuti negli anni settanta e ottanta, non
siano stati a loro volta giovani. Tutti fuggiamo di casa ogni
tanto, chi più chi meno. Tutti lasciamo il nido per volare
altrove, anche solamente per ubriacarci e dimenticare i litigi in
famiglia. Voliamo verso una casa sconosciuta, col telefono
oooops dimenticato sul letto per non essere disturbati. Non
facciamo gli ipocriti, su, santo Dio.
Si guarda intorno, poi fissa di nuovo l’oblò che ruota rapido
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e colorato.
Questa casa è la mia gabbia. D’oro, ma pur sempre
gabbia. Io amo e bramo case sconosciute, dove intimi estranei
ci possano leggere negli occhi la solitudine e magari ne
approfittano un po’ in cambio di una notte diversa, dove
sentirsi vivi e se stessi veramente. Dove esprimersi. Camilla ne
ha approfittato, io ne approfitto. Che c’è di male nel consolarsi
a vicenda?
Il ronzio forte della lavatrice e il suono di Windows che sta
avviando le sue lente operazioni svegliano la ragazza dai suoi
pensieri.
È arrivato il momento dell’ultima parte dell’operazione
pulizia: controllare l’account di Facebook ed eliminare
commenti e foto che gli idioti dei miei amici – che si dimen-
ticano sempre che io, a differenza loro, sono prigioniera in
casa e non sarei dovuta essere lì ieri – hanno sicuramente
pubblicato.
L’odore del caffè si spande nell’aria e le ricorda che anche
quello è pronto. Pronto a calmare un po’ gli intestini che si
stanno rivoltando contro un corpo che male assorbe, ancora, i
superalcolici.
Ancora in biancheria intima, Sofia guarda il contenuto
scuro della tazzina che, oltre al caffè, emana il dolce odore di
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miele d’acacia.
Bello, così nero e amaro da ricordarti che sei vivo, così
dolce e sensibile da innamorarsi e volerci scopare. Amante
fedele di molte interrogazioni e nottate brutte a casa di
Camilla. Mio infinito personale, annegherei in te tutti i giorni.
«Amore mio, tu oggi mi salvi per l’ennesima volta» confida
Sofia alla dolceamara bevanda, con un sorrisetto malizioso e
sfacciato, quasi complice. Poi va al PC soffiando sul caffè
bollente. La camera odora di pulito, di buono, di casa.
Un odore che in fondo sa di asettico, di macchina nuova.
Come quelle di Gabriele e di mio fratello, piena di ricordi e di
orgasmi la prima, così innocente la seconda. Odio l’odore di
macchina nuova, è privo di personalità e di storia. Sa di
ospedale, di corsia per malati terminali. Sa di nonna e di
Flavia. Soprattutto di Flavia. Flavia dopo, non prima, quando
stava sul letto con il sorriso della morte in faccia, di chi vuole
tranquillizzarti ma non ci riesce perché sembra un sorriso da
scheletro. O forse era solo un sorriso da narcotici e droghe, da
morfina sparata in vena giorno e notte, notte e giorno. Mi
manchi ancora, Faffi mia.
Immersa in questi tristi pensieri, la ragazza va al PC
scrollando la testa per rimuovere il subitaneo ricordo di quella
fiamma spenta in fretta, di quel fiore spezzato dal cancro a
12
quattordici anni.
Tristezza in volto, stanca tristezza che ormai non porta più
neanche le lacrime. Mi manchi.
Apre Firefox e clicca sull’icona di Facebook; come tutte le
volte in cui non ha controllato il suo account per due o più
giorni, si ritrova la bacheca invasa di notifiche e messaggi.
«Tosto!» esclama. Idioti a parte, è sempre bello conoscere
facce nuove e parlare con menti stupende. Giovanni l’artista di
strada, che suona a piazza del Popolo per pochi spicci e
morirà a vent’anni come nelle canzoni di Faber. Marco, che
vuole scrivere il romanzo della sua vita. Vai, vai giovane
Kerouac, spacca il culo ai nostri Fabio Volo e ai nostri Ales-
sandro Baricco! Annalisa, stupenda Annalisa mia, che ha
scritto una poesia su di me, sui miei occhi tristi. Fossi lesbica
mi ti farei all’istante, ma così non è purtroppo. I miei baci per
te, però, li avrai sempre, sempre! Tutti voi, amori miei
impossibili, portatemi via di qui per un minuto, per una notte,
per una vita. Uno di voi, vi prego, mi porti via da qui.
Salvatemi da questo mondo di ipocriti e carte contabili e
discorsi sul lavoro.
Fratello mio, non finire come mamma e papà, ti prego. Non
fare del male a Giorgia, a quella povera stella. Non farlo più,
non come ieri. Idiota d’un fratellone! Non finire come mamma
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e papà. Quei due manco si guardano negli occhi quando si
svegliano. E se non guardi gli occhi, che cazzo guardi?
Si alza di nuovo per tornare in bagno, stavolta per qualcosa
di ben più grosso. Il caffè ha già fatto effetto sui suoi intestini
in rivolta. Lavandosi le mani dà per la prima volta un’occhiata
allo specchio. I capelli in origine biondo cenere, lunghi ma
tenuti raccolti in un poco elegante chignon parecchio disor-
dinato, sono diventati più chiari a causa del sole estivo e dello
shampoo alla camomilla. Si sofferma con malizia sul suo corpo
atletico e dalle gambe forti, tipico di chi gioca regolarmente a
calcio. La biancheria azzurra fa risaltare ancora di più il suo
corpo abbronzato dalle lunghe giornate al mare.
Sorride all’immagine dello specchio.
Fino a pochi anni fa qui c’era il corpo di una ragazzina,
piatto come una tavola. Oggi sono una donna e voglio vivere le
esperienze di una donna. Non importa quel che pensano i miei.
Ho smesso da un po’ di essere una bambina e ho uno specchio
qui che lo testimonia.
Sofia fissa il suo volto nello specchio.
Il trucco sta coprendo alla grande le occhiaie e i segni sul
collo, ma di sicuro una madre che copre la sua vecchiaia da
quando ha trent’anni si accorgerà di tutto. Per le occhiaie
pazienza, ma i segni devono sparire. A Febbraio una sciarpa
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avrebbe risolto tutto; anzi, sciarpa e maglione a collo alto. A
Settembre ci penseranno i capelli sciolti.
L’oro scende d’improvviso sulle spalle, illuminando in
modo diverso il volto giovane e bello.
Sofia torna al PC già pensando a cosa tirar fuori
dall’armadio per il pomeriggio, per la fase finale dell’opera-
zione pulizia. Scorre le richieste di amicizia, accettando i
quattro tizi conosciuti la sera prima. I messaggi li vedrà poi.
Passa alle notifiche, cinquanta. Nel menù rapido vede che
dodici sono richieste di partecipare a qualche gioco stupido,
ventitré sono risposte a post di gruppi musicali e il resto
riguarda, come immaginava, gli eventi della serata.
Si mette a cancellare le foto con i tag e i commenti sul suo
profilo, qualsiasi cosa insomma che possa svelare i misfatti
della sera precedente. La foto con la bottiglia di vodka in mano
(cancellata!), la foto in braccio a Stefano (cancellata!), la foto
del bacio con Camilla (un bacio innocente ma… cancellata!),
la foto con Tiziano steso per terra quasi in coma etilico e tutti
intorno a ridere (cancellata!). Rimangono pochi commenti
ancora da eliminare.
Poi, in modo totalmente casuale, nota un post sul suo
profilo che ha ricevuto quindici like e altri tre commenti.
Legge al volo il post senza pensarci troppo.
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Sulle prime pensa a uno scherzo di pessimo gusto, poi a
qualche moda temporanea di quelle stupide che passano su
Facebook ogni tanto. Scorre il commento, rileggendolo più
volte. Sul suo volto si formano increspature sempre più pro-
fonde e gli occhi si aprono sempre di più. Legge i commenti
successivi, tutti a conferma del primo, con il cuore che prende
a batterle in modo incontrollabile.
Ma che cazzo succede qui? Nessuno mi ha avvisata? No no
no no, impossibile. No, impossibile, non potevano chiamarmi,
porca vacca, il telefono l’avevo lasciato sul letto.
Con i vestiti puliti ancora in mano, Sofia è ferma in mezzo
alla stanza e respira ansando in modo convulso. Il corpo
ambrato e seminudo è percorso da brividi continui. La mente
vola, fa connessioni sconnesse, pensa a cose fatti eventi
persone.
Il telefono in mano, di nuovo centro della vita, filo rosso di
connessione globale, sta chiamando per la quarta volta un
numero salvato semplicemente come “mamma”.
Poco prima ha preso il telefono dal letto e con immenso
terrore ha trovato venticinque chiamate senza risposta, quasi
tutte della madre. Cinque erano normali, anche dieci potevano
capitare. Una volta era arrivata fino a sedici, la prima volta che
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era andata a “dormire da Camilla”. Ma venticinque sono
inquietanti oltre ogni dire.
Sofia preme di nuovo il tasto verde di chiamata, col cuore
che in gola le impazzisce e le budella che si contorcono e
urlano di ansia e succhi gastrici. La testa scoppia di pensieri.
«Dai dai dai, dai cazzo, rispondi, rispondi, RISPONDI
PORCA VACCA!»
Il telefono squilla quattro, cinque volte, poi una voce rotta e
acutissima la inonda di parole. Dopo la terza parola Sofia
smette di ascoltare e comincia a fissare il poster di Scarface sul
muro e le foto di una vacanza al mare in famiglia di qualche
anno prima sul comodino. Quattro persone appaiono nella foto,
sorridenti e abbracciate tra loro.
Scossa dai brividi e dal terrore, Sofia inizia a tremare di
dolore, mugugnando un lungo e stonato aaaaaah. Sente male
al petto al punto da lasciarsi cadere a terra in posizione fetale.
Che cazzo è successo? Che cazzo è stato? Ma come… Che
dici, mamma? Non ti capisco, cazzo, NON TI CAPISCO!
17
18
2.
«Ma che cazzo è successo qua?» si chiede stupefatto e
contrariato il ragazzo in mezzo alla strada dal suo metro e
ottantacinque di altezza.
Con i capelli e la barba rossicci e vestito con i pantaloni del
pigiama e una canottiera della Roma sgualcita, è una strana
figura. Lo sguardo è rivolto alla sua Fiat Punto bianca, che
presenta un’evidente ammaccatura sopra la ruota destra. Manca
una buona porzione di vernice e il faro anteriore destro è
frantumato. La ruota è intatta ma il parafango è anch’esso
rovinato. Un’orribile rientranza evidenzia senza dubbio il fatto
che qualcuno o qualcosa ha colpito la macchina di recente.
All’interno, due grossi dadi di peluche bianchi penzolano dallo
specchietto retrovisore, inerti.
Il ragazzo è appoggiato sui talloni e col pollice traccia i
contorni dell’ammaccatura, ruminando tra sé e sé.
Ma quando è successo, porca troia schifosa? Zoccola
puttana lurida, lo sapevo che avrei dovuto comprare quel
fottuto box di merda, così evitavo rotture di cazzo come questa.
Ma da dove me li cago i soldi? E poi quando…? Dio, giuro su
Dio che se becco chi ha combinato questo casino lo ammazzo!
Il ragazzo si guarda intorno in cerca di un colpevole
invisibile.
È impossibile che mi sono venuti addosso mentre la
macchina stava parcheggiata, la parcheggio sempre così,
vicino a un muro, per evitare cazzi del genere. A ripararla
chissà quanto verrà, Dio… Troppo, sicuramente, anche se la
portassi da Manolo senza fare fattura.
Una voce fresca proveniente dalla finestra del secondo
piano del palazzo interrompe i pensieri del ragazzo. La piccola
figura femminile indossa un grembiule con il Colosseo
disegnato e macchiato di sugo fresco.
«Tesoro, vieni ché è pronto il pranzo! Stai ancora là sotto a
fissare la macchina?»
Il ragazzo si volta e grugnisce qualcosa in direzione di lei.
Perplesso e rabbioso, si alza in piedi di scatto, la testa ancora
immersa in pensieri negativi. Un’improvvisa vertigine lo
coglie, così si appoggia per qualche secondo al muro del
palazzo per riprendersi.
Dio… maledetta pressione… La sbornia di ieri si fa ancora
sentire. Qualche anno fa avrei sopportato meglio qualche shot.
Uff… cominciano a farsi sentire i ventisette anni, maledetto
me…
Prima di entrare nel portone, il ragazzo si gira un’ultima
volta verso la sua auto immersa nel sole estivo.
Mah. Chissà che cazzo è successo alla mia Bianca.
Fanculo, fanculo a tutti!
«Che muso lungo! Che hai, Massimo?» chiede la ragazza,
vedendolo rientrare con un’espressione truce in volto.
Entrambi si siedono a tavola, dove è poggiata una grande
ciotola di spaghetti al sugo. In basso, nella sua cuccia un
bassotto di nome Ronnie ronfa beato.
Massimo guarda stizzito la ciotola di pasta mentre accende
la TV. Il telegiornale è appena iniziato e le prime notizie a
scorrere sono quelle di politica interna. Il ministro degli interni
è stato accusato di corruzione e si difende duramente
dall’assalto dei giornalisti dicendo che è tutto un imbroglio
dell’opposizione.
Massimo si gratta la barba incolta di un giorno, i peli
rossicci già ispidi. Aspetta qualche secondo prima di formulare
una frase, poi dice: «Qualche stronzo mi ha sfasciato l’auto.
Fanculo! Ecco che è successo, Maria. Un fottuto stronzo mi ha
scassato la macchina e neanche si è fermato a lasciare un
biglietto di scuse.»
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E questa maledetta Domenica di riposo si è appena
trasformata in una dannatissima giornata di merda, porca
puttana infame. E dire che mi ero svegliato così bene!
«Ma quando è successo?» gli chiede Maria, incuriosita e
intimorita. La ciotola del parmigiano sospesa a mezz’aria,
proprio mentre sta per versare il formaggio sulla semplice pasta
al sugo, sembra bloccare la scena per un istante.
«E che cazzo ne so io? Ieri sera, stamattina, domani, che ne
so! So solo che adesso la mia Bianca ha un bozzo sopra la
ruota, la vernice graffiata e il faretto rotto!» le risponde
Massimo, sputando sugo e pezzi di pasta sul tavolo. La
poltiglia in bocca ruota in maniera ipnotica, mentre le parole
escono fuori in modo furioso. «Che cazzo di domande fai certe
volte! Se lo sapevo non stavo qua di certo, già ero andato a
rompergli il culo a quello stronzo. Porca boia, un’auto
praticamente nuova comprata da poco spaccandomi il culo a
quel meddonald di merda e già è mezza scassata!»
«Tesoro calmati, non c’è bisogno di urlare. Mica te l’ho
rotta io la macchina. Nel pomeriggio passiamo da Manolo e
vediamo che si può fare. Magari te la cavi con poco. Anzi,
facciamo così: per il tuo compleanno ti regalo la riparazione
della macchina, va bene?»
Con un sorriso gentile e patetico, Maria vede la rabbia del
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fidanzato spegnersi lentamente.
Massimo la guarda con aria beona. «Grazie, tesoro mio.
Come farei senza di te?»
Si allunga sul tavolo e le schiocca un bacio in fronte,
lasciandole un segno di pomodoro proprio sotto l’attaccatura
dei capelli. Lei si pulisce col tovagliolo, poi si imbroncia
teneramente. I due si guardano per qualche istante prima di
scambiarsi un sorriso.
Si voltano entrambi a guardare il telegiornale. Scorrono
immagini di repertorio con soldati in divisa che sparano verso
un punto imprecisato al di là dello schermo. Una mappa
politica mostra una zona di guerra in medio Oriente. Qualche
dato storico, un po’ di numeri di circostanza. E, come sempre,
gli uomini in giacca e cravatta che dichiarano che faranno di
tutto per evitare una nuova e sanguinosa guerra che
coinvolgerebbe milioni di innocenti e distruggerebbe il futuro
della pace.
Quanta retorica e quante puttanate vengono dette per
salvare i propri cazzi, eh cari figli di puttana, pensa Massimo.
Sono sicuro che proprio quegli uomini in giacca e cravatta che
stanno lì a parlare per cercare di evitare la guerra sono gli
stessi che la stanno causando.
Massimo esterna poi questo pensiero in tono rabbioso: «Sai
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tesoro, sono convinto che proprio quegli uomini in giacca e
cravatta che stavano lì a parlare per cercare di evitare la guerra
sono gli stessi che la stanno causando.»
Lei lo guarda e annuisce in silenzio. I due riprendono a
mangiare seguendo il TG. Dopo il servizio sulla guerra è di
nuovo il momento della corruzione nella politica.
Anche qui le classiche immagini, pensa Massimo. Posti
pubblici inaugurati e abbandonati, gente incravattata che si
stringe le mani, numeri e statistiche che mostrano quanti
milioni sono stati spesi e così via. Sempre la solita solfa. Quelli
si mangiano i miliardi e io devo campare dentro a un bilocale
di merda comprato a un’asta fallimentare, mangiare pasta di
merda e sentire queste cazzate da un televisore di merda che
neanche è ellecciddì. E ho pure la macchina sfasciata ora,
fanculo a tutti!
Massimo si rabbuia e Maria lo fissa con sguardo
interrogativo. Sta per chiedergli cosa non vada, quando lui
l’anticipa.
«Quelli si mangiano i miliardi e io devo campare dentro a
un bilocale di merda, ecco cosa mi fa rodere. E ci sono pure le
bollette di gas e luce da pagare, che sono pure aumentate per
‘sti maledetti stronzi e ora pure la cosa della macchina. Ma ti
pare giusto?»
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Lei lo guarda contrariata. «Pensavo ti piacesse casa nostra.»
«Ma a me piace vivere qui con te. Mi piace casa nostra,
perché è nostra! Mi piace trovarti qua quando torno a casa dal
lavoro e accarezzare Ronnie sulla testa. Mi piace pure quella
roba lì che hai comprato» dice indicando il cactus vicino la
finestra. «È bello, dà un tocco di esotico a questa casetta».
Si interrompe un secondo e si guarda intorno. Niente lava
lamp, niente bandiera della Roma, neanche il poster di
Terminator due. C’è ancora molto da lavorare qui.
Poi prosegue. «Quello che non sopporto è che ci deve stare
gente come noi che si fa il culo dalla mattina alla sera per avere
una casa piccola come questa e gente come quella» e indica la
TV, che proprio ora sta mostrando la villa di un imprenditore
infestata dalla guardia di finanza, «che si permette di non
pagare neanche una lira per quel mostro di casa. Ma ti pare
giusto?»
«Sì lo so tesoro, hai ragione, non è giusto. Ma che ci vuoi
fare?» replica lei.
«Una rivoluzione ci vorrebbe, ecco cosa. Far saltare il
parlamento, come in quel film dell’altra sera. Prendere a
fucilate i politici, come facevano i brigatisti qualche anno fa.
Erano comunisti ma facevano comunque bene. Questi si
arricchiscono alle spalle nostre, si fregano tutto e poi pensano
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che la gente sta lì a bersi le loro puttanate!»
Massimo punta di nuovo la TV, che ora sta trasmettendo un
servizio sulle nozze di qualche vip. Vestiti e macchine
lussuose, sfilate di moda su tappeti rossi e flash inondano la
stanza.
«Ecco, ecco cosa intendo! Ti fanno vedere quegli stronzi
che si fottono i miliardi, i nostri soldi che ci sudiamo
spaccandoci il… le ossa al lavoro e poi ci mettono questi altri
stronzi, che sono pure peggio. Passano il tempo a fare festini, si
scopano le minorenni e poi fanno i santoni in TV. Io li
impiccherei tutti, ci vorrebbe davvero una rivoluzione.
Qualcuno che viene qui, li prende uno per uno e li spara in
testa!»
Poi tace di nuovo, stavolta perché ha finito le parole.
Guarda il piatto e lo spinge via mezzo vuoto.
«Mi è passata la fame. Fanculo!»
Maria pone la sua mano su quella del fidanzato e la batte
dolcemente. Il suo sguardo è dolce e comprensivo, ma non
accondiscendente.
I due guardano il servizio sul matrimonio dell’anno fino
alla fine, in silenzio. L’immagine torna sulla conduttrice vestita
di blu.
«Voglio trovare un altro lavoro, amore mio» dice Massimo.
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«Qualcosa di bello e stabile, così potremo vivere meglio. Farò
qualche concorso al ministero, uno qualunque. O chiederò a
papà se ha qualche impiccio tra le mani. Tanto per avere un
impiego più sicuro. Cambierò la nostra situazione, lo
prometto.»
Maria guarda il fidanzato con uno sguardo colmo d’amore.
Non è la sua forza o il fatto che mi faccia tanti regali. Sono
queste frasi che me lo fanno amare così tanto dopo sette anni.
Da quando lui ne aveva venti e io diciotto. Ero proprio una
bambina quando ci siamo conosciuti.
Si erano conosciuti durante un’autogestione a scuola,
quando Massimo era al quarto anno del liceo scientifico e
Maria al secondo, ma si erano piaciuti solo dopo che lui se
n’era andato, dopo la maturità. Un giorno Massimo era tornato
a prendere il fratello minore e, di colpo, come se si fossero visti
solo allora per la prima volta, era scoccata la scintilla. Si erano
presentati di nuovo, dimentichi di averlo già fatto due anni
prima, si erano piaciuti ed erano usciti. Due settimane dopo
stavano insieme. Due anni dopo si erano fidanzati
ufficialmente presentandosi alle famiglie.
Maria si guarda intorno. Fissa il tavolo e l’orologio,
entrambi firmati Ikea come la maggior parte della mobilia.
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Non è male la situazione, non così negativa come la vede
lui. Questo un po’ mi butta giù, perché vuol dire che lui non è
contento di come vanno le cose. Ma vuole anche dire che è
disposto a fare il possibile per migliorarle e che quindi ci tiene
ancora a me, anche dopo tutti questi anni.
Ora Maria immagina un futuro con un figlio. Leonardo se è
maschio, Marika se è femmina.
Tre anni fa se n’era parlato, ma la situazione non
permetteva loro di andare fino in fondo. Lui continuava a
passare da un lavoro part-time all’altro, ed era da poco
approdato al Mc.. Io avevo appena mollato l’università. Dove
saremmo potuti andare? Da nessuna parte. Se ripenso a quel
periodo provo ancora tanti rimorsi. Ma adesso è diverso.
Adesso si può fare!
Maria si riprende dai suoi pensieri sentendo che Massimo
sta ancora parlando.
«… Sì, mio cugino forse potrebbe farmi entrare in banca da
lui. Devo riscrivere il corricolo, metterci qualche cavolata in
più, così magari mi prendono. Ci metto che dopo il diploma ho
fatto un corso di contabilità o qualcosa del genere, anche se
non c’ho l’attestato. Poi che ho lavorato per due anni da
futlocher e al colsenter e che oggi gestisco il meddonald in via
Tiburtina. Vedi che mi prendono, mi faccio dare una spinta da
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Gianni. Quanto prenderà uno che lavora in banca? Almeno due
o tremila al mese, no? In più straordinari, tredicesima, eccetera.
Meglio del meddonald sicuro è, no? Così possiamo anche--»
Sta per aggiungere qualcos’altro quando, con ancora la
frase da dire sulla lingua, d’improvviso si interrompe. Le sue
mani sono intrecciate a quelle di Maria, per darsi forza e per
darla a lei. Ma la sua faccia è voltata a sinistra, verso la TV, gli
occhi spalancati d’incredulità, la bocca aperta a formare una
grande O. Anche Maria si gira, cercando di capire cosa abbia
attirato così tanto l’interesse del fidanzato. Il servizio è
confuso, con le riprese fatte da un telefonino in piena notte o da
qualche telecamera che si muove qua e là e Maria non riesce a
capire bene di cosa si parla, interessata com’è stata ad ascoltare
il discorso di Massimo.
In sottofondo c’è una canzone. Maria cerca di concentrarsi
per capire quale sia.
È quella che usano sempre per qualche avvenimento
tragico, su Scrubs: Nana nanna nannannà… I want have stay
up with you of night, had I no how to save a life. Sì, ecco, è
quella dei Fray sicuro. La mettono sempre su Scrubs quando il
dottor Cox o JD perdono un paziente. Vuol dire che il servizio
è su qualcosa di triste.
Vedendo l’espressione sgomenta di Massimo, Maria decide
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di concentrarsi sulle parole della voce che sta narrando la
vicenda.
“… dunque tragica casualità o beffa del destino? È sempre
normale in questi casi chiedersi se le sorti dei due giovani si
siano assurdamente intrecciate o se invece i due incidenti non
nascondano altro che il pericolo delle autostrade italiane e,
probabilmente, una fin troppo nota abitudine dei giovani di
bere troppo o stare al telefonino a mandarsi messaggini mentre
si guida.
“Resta il fatto che in due giorni consecutivi ben due ragazzi
di Roma hanno perso la vita a causa di un incidente stradale.
L’auto di Samuele Baldini, una Ford Fiesta grigia, è stata
speronata sul grande raccordo anulare, il tratto di superstrada
che circonda la capitale, Venerdì notte durante l’immissione
dalla via Tuscolana da un pirata della strada di origine
albanese, che in seguito è stato arrestato. Sulle dinamiche
dell’incidente che ha coinvolto Daniele Baldi, invece, ancora
non si hanno certezze, ma sarebbe avvenuto proprio stanotte
verso le tre, a detta di testimoni oculari, poco dopo l’uscita per
la Cristoforo Colombo, la grande strada che collega Roma col
litorale di Ostia.
“Ma le coincidenze non finiscono qui. Infatti entrambi i
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ragazzi avevano ventidue anni, entrambi erano di Roma ed
entrambi erano alla guida di una macchina targata Ford,
sebbene i modelli fossero diversi. Samuele Baldini e Daniele
Baldi, con nomi così simili, sono dunque legati da una vicenda
che ancora non è chiara nei suoi aspetti e nei suoi sviluppi. Le
autorità ci daranno conferma, nei prossimi giorni, di quali
fossero le condizioni dei due giovani prima dell’incidente, così
da poter confermare o escludere l’ipotesi dell’ebbrezza o
dell’uso di stupefacenti. Intanto i funerali di Samuele sono
previsti per Martedì mattina, mentre quelli di Daniele
avverranno probabilmente Mercoledì dopo l’autopsia e i
successivi accertamenti. Altro elemento, questo, che lega le
vite di due ragazzi nel fiore degli anni e delle loro famiglie,
coinvolte entrambe indirettamente in questa faccenda.”
Qualche secondo a effetto, poi arriva la battuta finale, con
le parole commosse della speaker a sottolineare le immagini di
locali strapieni di giovani intenti a ballare a ritmo sincopato:
“Ancora una volta la strada e, forse, l’alcool uccidono;
ancora una volta due ragazzi, pieni di progetti e di speranze,
perdono la vita per colpa di un tragico destino.”
Le parole della cronista lasciano posto al finale della
canzone e a un’immagine composta dalle foto dei due ragazzi:
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uno in divisa da calcio, l’altro in giacca e camicia a una festa di
compleanno.
Massimo imposta la TV sul muto e nella stanza cala il
silenzio. Continua a fissare incredulo lo schermo, sul quale ora
scorrono altre immagini. Gli occhi sgranati, la mandibola
penzolante. Le mani gelide e sudate. La presa su quelle di
Maria è così forte che lei caccia un urlo sommesso. Lui si
riprende e la fissa, incerto.
«Che hai, tesoro? Che ti prende?» chiede Maria.
Massimo non risponde subito. Soltanto dopo circa trenta
secondi di silenzio, in cui solo il russare di Ronnie è appena
udibile dall’altra parte della casa, bofonchia qualcosa. Poi
strascica delle parole, infine mette in piedi una frase.
«Quel ragazzo, il secondo, come si chiamava?»
«Quale ragazzo?»
«Quello dell’incidente. Il secondo.»
«Perché ti interessa? Lo conoscevi?» chiede lei. Possibile
che fosse un suo amico? No, Massimo si sarebbe ricordato
sicuramente il nome, non l’avrebbe chiesto a me. Che cosa…?
Maria si sforza di ricordare. «Sì, ecco. Daniele, mi pare. Lo
conoscevi? Era un tuo amico?»
«Daniele… » ripete lui. «Daniele… possibile?»
«Possibile che cosa?» sbotta Maria con impazienza. «Che
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cosa è possibile, Massimo? Cavolo, vuoi parlare?»
«Samuele, il primo, ha avuto l’incidente… Venerdì notte,
mi pare, no? Io Venerdì no-notte ero qua con te, giusto?
Abbiamo cenato insieme, poi ci siamo visti il film, quello su…
la fine del mondo, l’invasione a-aliena lì, come si chiamava?»
«Indipendence Day» suggerisce Maria. «Ma che c’entra
questo?»
«Sì giusto, dunque sì ero con te. Ma ieri notte, ieri ero
andato con Paolo e Manuel e gli altri. Porca troia, ieri… ieri…
ecco sì, ecco. Sì, così si spiegherebbe…» farfuglia Massimo
senza finire la frase. Continua a fissare il piatto lasciato a metà,
poi si mette le mani bianche tra i capelli rossi.
Maria lo fissa interdetta. «Di che diamine stai parlando,
Massimo? Mi vuoi spiegare che t’è preso? Sei impazzito tutto
d’un botto?»
Massimo la fissa con sguardo di paura e rabbia, sulle labbra
una punta neanche troppo velata di tristezza.
«Io… forse eh, non lo so. Non so se è così. Ieri se-sera
siamo andati a quel pub a Ostia a festeggiare l’addio al celibato
di Cristian e ho preso il raccordo per tornare a casa. Ma-magari
no, magari non…» e s’interrompe di nuovo.
«Massimo? Mi stai spaventando… pensi che… pensi che
sarebbe potuto capitare a te?»
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«No, no… cioè forse sì, non… non lo so. Però ecco, ieri
avevo di-discusso con Paolo, m’aveva fatto incazzare perché se
n’era uscito che la Roma quest’anno non avrebbe combinato
niente come al solito. Sono uscito dal pub per tornare a casa
che ero furioso, tutte le volte se ne esce così e mi fa incazzare.
Avevo la musica alta, avevo bevuto… no-non ricordo bene,
non lo so. A un certo punto mi è parso pure di essermi
addormentato al volante, credo che--»
Uno schiaffo gli vola in faccia, stampando una mano rossa
sulla sua guancia. Massimo si tocca la guancia arrossata, gli
occhi già colmi di lacrime. Guarda inebetito, stordito, pieno di
dolore. Lo sguardo di Maria si specchia in quello di Massimo.
Le labbra di Maria tremano. «Stronzo! Stronzo! BRUTTO
STRONZO! Ti pare che guidi ubriaco, ti pare che torni in
macchina e ti addormenti! Mi fai prendere un colpo, brutto
stronzo! Ma che cavolo c’hai in quella testa vuota, che ti passa
per il cervello, dico io! E io che sto qui tranquilla a dormire e
tu che torni e ti addormenti al volante. “Tranquilla, tesoro,
andrà tutto bene, andiamo solo a festeggiare l’addio alla libertà
di Christian”, mi hai detto ieri con quel tono da bambinone che
avevi. Tranquilla un corno! VAFFANCULO MASSIMO, sei
uno stronzo inaffidabile!»
Si alza in piedi di scatto. Si alza anche Massimo, ma poi è
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costretto a ricadere sulla sedia a peso morto.
Per un intero minuto si sentono solo i singhiozzi strozzati di
Maria. Massimo ha la testa ancora fra le mani. Poi parla,
finalmente. La voce è un filo sottile.
«Maria… non ca-capisci, vero? Non capisci quello che ti
sto dicendo, vero? Sì va bene, ero stanco e ti ho fatta p-
preoccupare. Scusami, davvero. Ma non è questo il punto.»
Nel dire questo si toglie le mani dal viso e fissa risoluto la
fidanzata, che ora si è seduta di nuovo e lo guarda con la faccia
gonfia.
«E qual è il punto, amore?» chiede Maria con voce tenera.
«Scusami per le parolacce di prima. Però dimmelo. Qual è il
punto? Dimmelo, perché mi stai uccidendo.»
Un pugno invisibile colpisce Massimo in pieno volto. Per
un istante i suoi occhi si aprono come fari, poi abbassa lo
sguardo e fissa di nuovo il piatto ormai freddo davanti a sé.
«Il punto è questo, amore» dice poi, la voce infine calma di
chi ha realizzato una verità fondamentale. «È proprio questo.
Non capisci? La macchina abbozzata, il mal di testa di stanotte.
Ora torna tutto. Cazzo, Maria, ieri ero sul raccordo verso le tre
e tornavo da Ostia, stavo tornando qui da te!». Pronuncia
quest’ultima frase urlandole in faccia il proprio dolore, proteso
verso di lei.
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Lei lo osserva con sguardo indagatore, ma non riesce a
cogliere la verità che Massimo le sta sbattendo davanti.
Lui prosegue. «Come me lo sono fatto quel bozzo sulla
macchina? La musica in macchina era alta, ero distratto,
evidentemente non me ne sono accorto di quel che stava
succedendo. Dio, Dio, Dio… è morto, Dio…»
Massimo continua a ripetere “Dio, è morto” per un minuto
intero, poi inizia a scuotersi dalle budella.
La musica era alta ieri sera, avevo bevuto troppo. Mi
pare… sono crollato al volante, credo, sì, un paio di volte. E…
mi sono svegliato una di quelle volte, e solo ora riesco a capire
perché, cazzo, perché! Ecco, ecco sì! Ecco come mi sono
sfasciato la macchina. Non è successo qua sotto casa, non
poteva succedere qua sotto casa, cazzo, non poteva!
È ovvio. È così ovvio… quel ragazzo di cui parlavano al
tiggì, quel… Daniele, l’ho ammazzato io guidando ubriaco.
Dio mio. Dio mio che cazzo ho combinato… Dio mio, Dio mio.
Mi arresteranno, verranno qui e mi arresteranno, mi
porteranno via tutto, mi sbatteranno in galera e butteranno la
chiave.
Massimo alza lo sguardo verso la TV ancora accesa.
Scorrono divertite le immagini mute di una pubblicità sulle
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patatine che vede protagonista un porno attore.
Massimo si guarda le mani. Sono strette a pugno e rosse di
sangue per la circolazione bloccata. Con uno scatto le lascia
libere e subito iniziano a riprendere il colorito originario.
Massimo fissa la fidanzata con occhi assenti.
Ma a che cazzo stai pensando, Massimo? A che cazzo
pensi? Dio mio, hai ammazzato una persona. Che cazzo
facciamo adesso?
Nel silenzio rotto dal singhiozzare strozzato dei due
fidanzati, l’orologio batte due colpi leggeri. Ronnie, tornato nel
cantuccio della sua cuccia, fissa i padroni con sguardo
perplesso.
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