Mostra Massimo Luccioli

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Mostra di Massimo Luccioli

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MASSIMO LUCCIOLISpazio e tempo dell’evocazione

Dunarobba (TR) - Centro di Paleontologia vegetaleAprile | Maggio 2011

testiGiuseppe Chianella SINDACO DI DUNAROBBA (TR)

Mariano Apa

fotoVincenzo Quondam, Massimo LuccioliWalter Franzò per gentile concessione di Antonio Fancello

graficaAntonio Picardi

ringraziamentiNetta Vespignani, Daniele Sabbatini

Citta di Terni

Spazio e tempo dell’evOcazioneMASSIMO LUCCIOLI

Il catalogo che ho il piacere di presentare propone un artista Massimo Luccioli , scultore che opera a Tarquinia, terra etrusca, ed uno scultore che usa la terracotta e che proporrà le proprie opere nel centro di documentazione della Foresta Fossile di Dunarobba e nella Biblioteca comunale ad Avigliano Umbro. Il materiale usato nelle sue opere lega l’artista alla nostra terra , la foresta fossile infatti arriva a noi grazie all’argilla quel materiale che ha permesso la conservazione dei tronchi per milioni di anni e la presenza, nello stesso luogo, delle fornaci di laterizi attribuisce all’argilla un posto nella storia e nella memoria della nostra comunità, storia e memoria che ritroviamo quindi anche nella poetica di Luccioli.Questo materiale che ha permesso all’uomo dalla preistoria ai giorni nostri e nei diversi secoli di vivere attraverso oggetti direttamente da esso ricavati è un materiale “povero” fatto di terra, acqua e fuoco tre elementi essenziali nella vita dell’uomo su questa terra, e ci piace pensare che le mani di uno scultore modellino questi elementi e ci propongano appunto sentimenti ed emozioni.Altri artisti sono stati proposti nel centro di documentazione della Foresta Fossile con dinamiche rappresentative diverse con ricerche personali e sempre suggestive legate però in qualche modo alla Foresta Fossile. La scelta di proporre questo artista nella settimana della cultura sottolinea l’attenzione che l’amministrazione comunale dedica a questo settore e conferma Avigliano Umbro un luogo virtuoso e sensibile nel dibattito culturale più generale. L’altro aspetto di vitale importanza è la scelta della biblioteca come spazio dedicato anche a mostre e dibattiti e quindi luogo interattivo dove l’incontro, l’osservazione, la riflessione ed il confronto debbono esserne gli elementi dominanti della sua funzione. L’operazione culturale quindi non è mai fine a se stessa e contribuisce alla riappropriazione da parte delle comunità del territorio e della sua identità e diventa per certi aspetti anche strumento di governo dei territorio della sua valorizzazione e della sua consapevole fruizione. L’amministrazione comunale ha investito notevolmente nella cultura in questi anni, forse anche contro corrente, questa iniziativa è un ulteriore contributo prezioso e porgo un doveroso ringraziamento a tutti coloro che hanno collaborato alla sua realizzazione.

Il Sindaco Arch. Giuseppe Chianella

Spazio e tempo dell’evOcazione nell’Operadi MASSIMO LUCCIOLI

Mariano Apa

Non si danno natali per la burocrazia catastale. Si nasce per amministrazione divina. Cittadini dell’Universo, viaggiamo nel tempo e ritorniamo da dove siamo venuti,

tra vita e morte, tra risurrezioni e rinominamenti: neanche fossimo artisti - e beuysiani tutti artisti - capaci di rifondare i significati del reale nel duchampiano rade made. Che Luccioli sia etrusco, è dato da vedere a tutti. Non può che essere etrusco il suo sguardo interiorizzato così felicemente e drammaticamente e tristemente ed euforicamente “forte”: come nella fotografia di Vincenzo Quondam che riempie la copertina del bellissimo libretto della Thesan&Turan di Montepulciano, “Massimo Luccioli. Disegni”, benissimo curato da Roberto Savi nel 2008. Ed ecco, possiamo leggere di Massimo Luccioli la sua pittura e il suo disegno: “Non è sagomato chiaramente come quello che noi chiamiamo ‘disegno’. E’ un profilo fluttuante, in un’atmosfera in cui le forme prendono corpo tutt’a un tratto. L’artista etrusco sembra essere stato in grado di vedere le forme vive riempire a poco a poco la propria superficie a partire dal proprio centro più intimo. Le curve e i contorni delle sagome, infatti, suggeriscono il moto interno dell’intimo modellarsi della figura. Ma non c’è plasticità vera e propria: le figure sono proiettate su di una superficie piatta. Eppure sembrano possedere una muscolarità piena, quasi

turgida. E’ solo quando si arriva alla tarda Tomba del tifone che vediamo le figure modellate plasticamente, con luci e ombre, alla maniera pompeiana. Che meraviglia, quel vecchio mondo, in cui le cose non apparivano singolarmente, isolate alla mercé della luce solare, ma vive e splendenti, in contatto traslucido le une con le altre!”: sono pensieri scritti da David Herbert Lawrence nel suo “Etruscan Places”, pubblicato a Londra da Martin Secker nel 1932, e poi nel 1985 tradotto in italiano per la senese “nuova immagine”. Lo scrittore di “L’amante di Lady Chatterley” – del 1928 – diventa un cronista della pittura di Luccioli e leggendone questo brano, qui proposto, e poi rileggendo l’intero corpo dei suoi “scritti etruschi”, sembra proprio che lo scrittore abbia fatto visita nello Studio dell’artista in quel della sua Tarquinia – sua, intendendo di Lawrence come di Luccioli -. Non risulta chiaro “chi sia” contemporaneo “di chi”, se Luccioli di Lawrence o questi dell’altro. Nel flusso del tempo, lo sguardo infilza l’anima. E’ per questo che i filiformi Uomini di Giacometti, li si vedono in incamminano per le stanze del Museo Nazionale Tarquiniense - ora a dimostrarsi quale accademico Museo Archeologico Nazionale quasi si trattasse del romano Museo Nazionale di Villa Giulia o del fiorentino Archeologico: entrambi

riconvertiti in quel che era, ed è, l’austero Palazzo del Cardinal Giovanni Vitelleschi in quel di piazza Cavour, quì a Tarquinia -. Questo essere della realtà nelle realtà dei fenomeni e degli accadimenti, contemporaneo nello spazio dilatato del tempo, di là e al di sopra, e dentro, e fuori da ogni foglio di calendario, da ogni cronistoria di cronologia da “Dizionario Storico” in garzantina; ci autorizza a perderci e a vedere l’intimità di questa pittura, di questo di Luccioli praticare il disegnare del suo disegno. I grovigli dei segni, il pulsare magmatico e l’espandersi di una effervescenza da pullulamento tra cera di zucchero e sazietà di miele, dentro il rifrigerio tombale nella calura di un accecato agostano Sole zenitale, ci coinvolge e ci risucchia dentro l’immagine nostra come davanti ad uno specchio.Ciascuna di queste opere, in pittura di Massimo Luccioli, si dimostra essere l’autoritratto dell’artista per poter essere, quindi, il ritratto di ciascuno di noi che l’opera ci si spinge a vedere di innanzi, faccia a faccia. Vedere queste opere dipinte e disegnate – e disegnate perché sono dipinte e dipinte perché sono disegnate - è rileggerne l’anatomia della nostra anima, vedere svelati i nostri intimi pensieri e nostri sogni segreti: in questo senso la tomba è etrusca in quanto è luogo del luogo del viaggio che ci autorizza al ritornare in vita. E’ probabile che “Lost” – come questa pittura

di Luccioli - sia una invenzione etrusca. E questo disegnare e pitturare di Massimo Luccioli, si dimostrano essere una ben giustificata risposta alla domanda che si poneva Cardarelli – nel 1929 per il suo “Elegia etrusca”, nel “Sole a picco” - : “Che so io degli Etruschi?”.

Disincantato sguardo gettato sul mondo, Luccioli si prende tutta la terra per arginare il cielo. Il fuoco cuoce la terra e nomina ed organizza la materia. E la terracotta vive

di una propria anatomia. Si vive nella evocazione della terra lavorata dagli etruschi nella loro scienza e nella loro letteratura, proponendosi Luccioli con le sue opere di terracotta in una sorta di scultura che si esplicita quale “non-scultura”. Scultura di “non-scultura”, queste opere si realizzano per figurazione di “organicistica astrazione”. Propriamente questa scultura è una evocazione della tecnica e del procedimento operativo dei suoi antichi progenitori etruschi. E proviene dagli Etruschi quel voler da parte di Luccioli come praticare in terracotta la pittura parietale che adorna lo spazio delle opere realizzate che si permettono di esprimere – e a noi ci si permette, vedendo, di ascoltare - il loro raccontare. Imponendosi la sottigliezza del foglio di terracotta, l’artista desidera dimostrare della scultura la

sua realtà di essere pergamena, di prodursi scultura in quanto foglio su cui – e attraverso cui - si scrive e si dipinge. L’artista di Tarquinia vuole ricordarci il procedimento dello scrivere in quanto procedimento propriamente artistico.La sua scultura ci conduce alla convinzione del poter giungere a mostrare del segno la sostanza della pittura che si costituisce solidità spazio temporale, in quanto proprio è scultura. Ma essendo scultura “di pittura” e di pittura che imita la scrittura, questa scultura si rivela quale sostanza di pittura. Dal punto di vista della realtà critico estetica la sua opera di scultura altera la concezione tradizionale del proprio essere, ridisegnando la propria identità nell’ambito di una nuova definizione culturale che giunge a potersi dimostrare scultura in quanto “non-scultura”. Tale condizione di scultura che si mostra come “non scultura”, da parte di Luccioli si dimostra essere una sua partecipata dichiarazione critico estetica alla realtà culturale delle avanguardie così come si sono configurate nei decenni trascorsi, a riposare dal di dentro della storia nelle poetiche che decise dall’Informale sono state convertite al Concettualismo.Luccioli si ispira ai Maestri del superamento dell’ideologico tradizionalismo per poter giungere all’affermazione della poesia e del pensiero dei Valori Primordiali come realtà della visione del

Profeta. Dalla Raphael e Manzù a Leoncillo e Burri infine a Manzoni e Lo Savio e poi Judd e LeWitt, si disegna un periplo di territorio artistico per cui da Roma si risale a Spoleto e, infine, tra Milano e New York si ritorna, via Città di Castello, a Spoleto e a Tarquinia e, dunque, a Roma: che è Spoleto la cittadina longobarda simmetricamente disposta rispetto alla etrusca Tarquinia, convergendo nella punta del triangolo deciso in Roma, come se spazio e tempo debbano convergere nella eternità – visualizzata nella “Immortalità” di Gino De Deminicis – in una disposizione di una geografia dell’arte, per dirla con Bruno Toscano, in cui con il disposto parallelo tra Tarquinia e Spoleto a convergere in Roma, si rincorrono i luoghi di una avanguardia che hanno reso reale ed emozionante l’avventura del linguaggio praticato. Ermeneuticamente astraendo dagli intonaci della sua Tarquinia scaglie di corteccia dal muro dei suoi segreti edifici, l’artista ricrea atmosfere e magnetismi cromatici in cui il tempo sconta calendari salmodiando nenie da giaculatoria pontificale. Massimo Luccioli persegue con coerenza un suo severo, caldo e poetico linguaggio dell’astrazione. In un costituitosi alfabeto dell’astrazione, ecco che nelle sue opere vengono a vivere tutte le possibilità di una grammatica dell’immaginario. Le sue pastose astrazioni sono campi magnetici con cui descrive stati d’animo

e spazi siderali che solo i poeti possono vedere. Entrando e uscendo e rientrando, dall’interno e verso l’intonaco affrescato in un antro di caverna, Luccioli diventa un viaggiatore nel tempo nella dimensione propria dei suoi lavori disposti su cartone e su tela e in terracotta.Con la terracotta Luccioli ripete la propria convinta parlata. Dalla carta alla terracotta, Luccioli edifica la astrazione dello spazio per poter dire tutto il dicibile della fenomenologia di questo nostro esserci. Pittura di scultura e scultura di pittura, per via di intendimenti che realizzano una scultura in quanto “non-scultura”. Queste opere sono costituite da umanissima pasta di terra con cui comunicare l’emozione dell’immagine, in un saper dialogare che è volontà dell’aprirsi alla verità della storia. Riesce Massimo Luccioli a definire la propria immagine di scultura per via della specificità della sua propria pittura. La terracotta sembra come che giunga a riempire il corpo della spazialità dei pastelli e delle cere e ad imprimere sapore di esistenza al corpo offerto di una scultura che ribadisce, che la pratica della qualificazione critico artistica della pittura evocata è tutta da leggersi all’interno della pratica della scultura che desidera confermare, nel suo essere scultura, la propria qualificazione critico artistica di mostrarsi “non-scultura”.

Il poter affrontare la tridimensionalità schiacciata del bassissimo altorilievo – dove l’artista prende anche ad incidere, a graffiare scrivendo alfabeti misteriosi -, favorisce il relazionato dittico tra tali fogli di terracotta e i fogli di carta lavorati nelle impiegate sue matite, ovvero, allora, si tratta di vedere di tali fogli in terracotta le loro superfici come si trattasse dei piani delle tele o delle carte. Le masse gelatinose della sabbia rattrappita ora si spalmano ora si addensano e si dispongono filamentosi sulla superficie che vibra e si realizza in quanto campo magnetico in screpolature di cretti dilatati. La disposizione spaziale dei disegni sulla superficie delle terracotte, mostrano tra semicirconferenze e orizzonti ora bassi ora altissimi, una spirituale geometria della composizione realizzata. La composizione curata dall’artista denota una referenza spaziale ontologica più che una indicazione naturalistica. E quindi ecco che la terracotta racconta la sua astrazione organica. La rappresentazione della figura sulla superficie della carta come della terracotta o della tela, dimostra la trasmutazione di quel che è massa inorganica in dispositivo segnico-iconografico, e anche si dimostra che i segni per le figurazioni in astrazione raggiungono la qualificazione di una realtà organica. Nella sintassi dell’astrazione per i realizzati campi di superficie, ecco

che spazi di campiture graffiate o con disposizioni di piani che si intrecciano, dettano il valore narrativo alla contraddizione in termini dello spazio quale “iconografia astratta”. Non si tratta per l’artista di cedere ad un pur soltanto allusivo descrittivismo naturalistico, bensì si tratta di ribadire con la propria poetica la grandezza dello “spazio organico”. Specificando le spaziature e campiture proprie del suo linguaggio, Massimo Luccioli ci ha offerto anche con la pratica delle terracotte un felice motivo di meditazione cosmologica, tra terra e fuoco, aria e acqua.

La ricerca del primordio potrebbe essere per l’opera di Massimo Luccioli una indicazione di pertinente necessità. Nel senso che nell’opera dell’artista di Tarquinia vive la

oggettivazione di ricercare la verità dell’origine. Non si tratta di ripristinare il primitivo, l’archeologico. Non si tratta di adottare una ideologia o una indicazione estetica e di introdursi ad una indicazione critico letteraria. Con questo corpo di opera di Luccioli in pittura e disegno e in scultura e in modalità performativa che si adatta alle indicazioni della cultura postconcettualisticamente intesa, per l’opera costituitasi in modalità di installazione; vale l’indicazione che questo corpus di opere si vota all’archetipo. Sono opere sazie del loro ricercare

l’afflato del sogno, e si ricolgono al voler tralasciare l’iconologia della figura per agguantare l’immagine nel torpore del sonno, nella lama dello sguardo, nella sensualità del pensiero, nell’eros della sapienza. Queste opere possiedono una loro riconoscibile condizione androgine: così come dimostrano le coppie di amanti o di Coniugi adagiati a sorriderci dal pulpito di qualsiasi etrusco sarcofago in Tomba o nella tomba del Museo in cui si lasciano visitare. Non si tratta, ovvero, di attribuire a Luccioli le esoteriche verità che si individuano documentate in Duchamp. Si tratta, proprio, di risalire un archetipo esistenziale più che esoterico. Sembra proprio che questa sua arte possieda la capacità di dimostrare ancora presente, il sorriso e il disincanto di chi ci guarda accomodato sul suo proprio eterno divano.

L’opera del giovane tarquiniese viene a recuperare le categorie di una cultura della modernità che Antonello Trombadori per un saggio sugli Anni Venti a Roma, nel 1990, individuava

nella formulazione critico estetica del “cenacolo di aristocrazia e di purismo del linguaggio” all’interno della condizione comune alla verità della ricerca per ciascun artista – degli anni Venti e Trenta così come per gli anni dei decenni a concludersi il XX secolo – condizione che viene dichiarata in quanto: “ ceppo della

modernità europea”, che da Luccioli è vissuta nella sua esperienza del 2000 a Berlino - con interventi al “Wie die Blatter im Wind Galleria Brotundspiele” – e del 2002 a Roma - all’Università degli Studi ‘La Sapienza’ al “Museo Laboratorio Arte Contemporanea” - e a Bologna - ad “Artefiera” - con l’istallazione “Armonie”. Quel che era il freddo tautologico del concettualismo ideologico, in Luccioli diventa la poesia performativa di un campo magnetico che dal di dentro del disegno e della pittura si gonfia e prende corpo di vita nel timbro sonoro di spartito musicale. Arte e musica a decantare nella azione performativa che unifica pittura a gesto – nel 2004 a Berlino, con l’intervento al Backfabrik: “Klangverarbeitung im zeichen”- , suono a colore, secondo il lascito che dal cuore dell’Europa ai primi del Secolo, infervorava – e alla fine proprio si conduceva “a bruciare di giallo” – le pagine dell’Almanacco del “Cavaliere Azzurro”. Massimo Luccioli si getta nel lavoro con le fondamenta della propria ricerca offerta nell’ incastro tra la crisi delle Neoavanguardie, alla fine del decennio Settanta, e gli inizi dei Novanta – con gli interventi espositivi in “Sentieri dell’Arte” alla romana Galleria Rondanini, nel 1992 - per proseguire nella ricerca artistica tra dilatazione postastratto e postinformale – ad esempio, si vedano le documentate partecipazioni al Premio Michetti del 1994 e del 1995 - e il ripristino di quella esperienza che è il suo

originale rimando concettualistico nella realtà performativa, perseguita e precisata nelle sue esperienze europee.Con “La Ronda” – dal 1919, e poi, dal 1949 al 1955, proseguendo quell’impegno con la direzione della “Fiera Letteraria” - abbiamo l’altro tarquiniese, il poeta Vincenzo Cardarelli – nasce a Corneto-Tarquinia nel 1887, e muore a Roma nel 1959 - che si può accostarlo a Luccioli - non per la coincidenza dei natali ma per la comune adesione alla poetica dell’esistenza della figura artistica in quanto esistenza della forma poetica -. La concentrazione spirituale della ricerca artistica, conduce Luccioli sui bordi della poesia e si ritrova ad ascoltare quanto sussurava il suo Cardarelli. La serie delle sue istallazioni dedicate allo “Studiolo di San Girolamo”, è davvero una laica “sacra rappresentazione” per un “pellegrino del dubbio”. Gli ordinati moduli catastali dell’Archivio – come per l’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata – istallazione del 2011 - è qui smembrato in rivoli di pensieri e di sangue, di carezze sul nulla e di abbracci al tutto. Come un riesumato Wackenroder, Massimo Luccioli ci introduce nell’elettrico spazio della memoria, dove riviviamo i silenzi intarsiati dello Studiolo di Federico da Montefeltro e incontriamo i pieni-vuoti dell’Antonello da Messina e lo stupore perfetto del vedere del Botticelli. L’ancestrale spazio dello Studiolo diventa il tempo della placenta in cui tutto è sazio.

L’originalità dell’opera è imposto dal luogo che sembra ospitarlo e che, infatti, si offre per essere riletto e ritrasformato dall’artista. Ogni volta che Luccioli presenta quest’opera è una opera diversa. Lo “Studiolo” è diventato un “segno” di Capogrossi. E’ un segno della forma che vive nella realtà dello spazio in considerazione. Ma Luccioli non si limita ad istallare l’opera. Luccioli prende e ritrasforma e reinterpreta e taglia e ricuce, lo spazio nel tempo del proprio vissuto. E spazio e tempo ci offrono la realtà dell’esistenza. Questo “Studiolo” a San Nilo, è uno Studiolo che evoca all’incontro Cardarelli e Fogazzaro, Pascoli e Rilke: soltanto a nominare i primi conclamati. Ma da Luccioli questa giaculatoria di scrittori e poeti e letterati, è taciuta, è celata, è evocata. E’ una litania silenziosa che dalla Biblioteca di San Nilo prorompe davanti al nostro interrogarci ora che l’artista di Tarquinia ha edificato lo spazio e il tempo del suo “Studiolo”. Entrando in questo “Studiolo” di Massimo Luccioli, siamo invitati a rileggere il latino del Pascoli con le opere del suo amico, lo scultore Bistolfi – “Il motivo dell’immagine della sua poesia s’è andato in fondo all’anima, come sempre, inconsapevolmente trasformando”, scriveva nel 1917 lo scultore simbolista al poeta -; così siamo invitati a seguire le perenigrazioni di Fogazzaro a Grottaferrata – si tratti dell’abbazia di San Nilo a Grottaferrata o ci si alterni al benedettino

Sacro Speco di Subiaco, Fogazzaro sembra come sublimare nella sua scrittura quanto aveva vissuto, a partire, proprio, da quel di Praglia: basta questo esempio, qui estrapolato come piccolo ma ben prezioso “quadro scritto” al centro della campata larga del suo “Il Santo”: “ Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso spirituale con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana” -, e dobbiamo ricordare, tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero qui sgranare, lo scandire del “Libro d’Ore” di Rilke – dei tre in cui si compone, nel primo libro “Della Vita Monastica” si può leggere: “Noi costruiamo immagini davanti a te, come pareti, sicché già si trovano intorno a te mille muri. Poiché le nostre pie mani ti velano, allorché i nostri cuori te vedono apertamente” - . Con i riportati esempi di Rilke e Pascoli e Fogazzaro, possiamo con Massimo Luccioli ripetere la meraviglia per l’icona perfetta del “San Gerolamo nello studio” di Antonello da Messina alla National Gallery. E’ il tempo della spirtuale concentrazione che irrompe nello spazio

istallato secondo il canone performativo del lascito concettuale. Luccioli prende lo spazio del Chiostro di San Francesco ad Alatri – nel marzo del 2007 – ed edifica, come scrive Loredana Rea: “una istallazione raffinata e ricercata nella rarefatta essenzialità ed è opera poeticamente evocativa di un’atmosfera antica in cui il silenzio e la solitudine sono gli assoluti protagonisti”. Le mura bianche e il cotto del pavimento e il travertino nudo, costituiscono la premessa di una lampadina accesa che irrompe e rimbalza sul bianco di un tavolo domestico e su libri e fogli e carta accartocciata realizzati in foglia di terracotta, nell’ocra chiarissima a dimostrare il solidificarsi di parole e pensieri, ad indicare l’esplosione dell’idea illuminante. Similmente l’antro della caverna nel Possedimento di Vasco Palombini a Tarquinia viene, nel 2009, ad introdurci al romitorio di San Nilo. In questo antro tarquiniese l’artista lavora inglobando un poetico dialogo con una antica macina e un antico lavatoio e, quindi, con le suggestive murature porose di umidità e di licheni. La arcaica caverna viene vissuta nel ripensamento dell’istallazione, che viene intesa come costruzione di scenografica ritualità – così come dilaga e si precisa anche con l’istallazione realizzata poi, altresì, nel 2010 a Roma, presso la Chiesa di San Salvatore in Lauro - inserendo nello spazio artistico, così realizzato, l’elemento

della grande sedia pontificale che, iconograficamente, precede l’incontro di Luccioli con Grottaferrata, nel 2011 – si veda il catalogo, per la cura di chi scrive: “Lo Studiolo di San Girolamo a San Nilo, per Massimo Luccioli” - Nella chiesa monastica, cattolica di rito greco bizantino, entrando e dirigendosi verso l’Iconostasi si perviene con lo sguardo verso l’alto all’incontro con la centrale cosmica sedia nel mosaico per la probabile immagine della Pentecoste con il ritratto dell’ Agnus Dei. Massimo Luccioli rilegge la storia e la natura in quanto spazio sacro che nella laicità della performance artistica viene ad esplicitare, del giovane artista di Tarquinia, la propria originale ricerca. La costruzione concettuale dell’opera riproposta e dedicata allo “Studiolo di San Girolamo”, permette di tradurre la ritualità scenografica dell’istallazione nella felice messa in atto della ritualità come laica liturgia dell’opera. Così che lo spazio dello Studiolo viene a identificarsi nel medesimo spazio del suo Studio: memoria dello Studiolo e vissuta realtà dello Studio si uniformano potendo individuarsi nella sintesi spirituale decisa nello spazio della cella monastica.

Prendendo in prestito gli altorilievi e il sistema compositivo delle facciate delle chiese in Tuscania, di S. Maria Maggiore e di S. Pietro, Pier Paolo Pasolini dipinse in bianco e nero

un Romanico appropriato ai suoi spirituali fraticelli in “Uccellacci e uccellini”: fu poi la premodernità giottesca nel “Decameron” e la nordica inquietudine dei fiamminghi per i “Racconti di Canterbury” – per non spingersi di poi a dire dell’esotico filologismo delle ambientazioni miniaturistiche per il “Fiore delle Mille e una notte” e delle ideologiche contrarietà per le culture delle Neoavanguardie, come in “Teorema” e “Salò-Sade” - . In quel vellutato e partecipato “bianco e nero”, Tuscania emergeva come l’intatta iconografia di una vissuta epopea del francescanesimo risolto – di là a poco – nell’arte dell’Umanesimo quattrocentesco toscano e umbro, presente per il “Vangelo secondo Matteo”: altro affresco dipinto in bianco e nero. Si propone – infine – di proiettare queste immagini dell’arte così come Pasolini ne ha tratto giovamento, per poter indicare nelle opere di Massimo Luccioli una memoria del territorio che nulla ha a che fare con la ideologica appartenenza territorriale, mentre tutto ha a che vedere con la intesa spirituale per una cultura – dal Romanico all’Umanesimo - che si fa carico della verità contadina e risale lo sguardo in fin dentro l’aristocrazia del pensiero scientifico e artistico dell’Umanesimo pieno: traducendo tale mondo nella compagine di una sensibilità contemporanea che nella intima necessità dell’espressione, impiega canoni e strumenti della linguistica contemporanea

e, dunque, che si ricompone e si costituisce dall’interno della contemporaneità culturale della postavanguardia. Luccioli ama la terra, e ama il cielo, e il fuoco e l’acqua. Tralasciando le pesantezze del cerebralismo libresco, Luccioli adotta una tradizione della sapienza che lo apparenta al mondo contadino. Come Pasolini, il giovane artista di Taquinia è coinvolto nella poesia religiosissima della memoria storico artistica che da Tarquinia a Tuscania giunge a far nascere la modernità dell’avanguardia umanistica. Così come, di contro al poeta friulano, Luccioli coltiva i campi e insegue il ritmo del bosco che cresce quale espediente di una tautologia concettuale di cui vuole scaldare gli altrimenti freddi tautologismi snaturati. Per Luccioli la natura è una forma della regalità artistica che informa l’altrimenti freddo tautologismo del Concettualismo. Luccioli traducendo le capacità artistiche in argomentazioni di letteratura, prorompe nella verità esistenziale, là dove si decide la verità dell’immagine. Nel risalire dalle memorie alla attualità, coniugando energia esistenziale a meditazione sulla forma, sembra proprio che Luccioli risalga da Tarquinia a Tuscania ritrovando lo sguardo intatto del suo volto. Una identità antropologica che informa – nella libertà della ricerca e nella costituzione della consapevolezza critica - la realtà della sua forma artistica.

FINITO DI STAMPARENEL MARZO 2011

PRESSO ALFA TIPOGRAFIA - NA