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Morìa La Sapienza altra del mondo Fede Ragione Follia Rivista semestrale di studi moreani Centro Internazionale Thomas More - 3/2012

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Morìa La Sapienza altra del mondo

Fede Ragione Follia

Rivista semestrale di studi moreani

Centro Internazionale Thomas More - 3/201 2

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Morìa La Sapienza altra del mondo - Fede Ragione Follia ISSN © 2012 by Edizioni Il Campano www.edizioniilcampano.it [email protected] Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012 da: Campano snc Pisa [email protected] Proprietà letteraria riservata Vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata senza il consenso dell’autore

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Morìa

Rivista semestrale di studi moreani22 giugno/7 febbraio

La rivista del Centro Internazionale “Thomas More” si articola in otto sezioni che ospitano interventi di largo respiro, contributi di carattere scientifico, pubblicazioni e traduzioni di testi inediti o rari di particolare rilievo per la diffusione della memoria del martire inglese e del pensiero moreano, quale promozione di una sapienza “altra” per il mondo, capace di generare un pensiero di vita, verità e giustizia.La rivista inizia la sua storia proponendosi la pubblicazione di due fascicoli annuali intorno al periodo della memoria liturgica e della nascita di Tommaso Moro.

Direttore editorialeCesare Grampa

Direttore responsabileGiuseppe Gangale

RedazioneGiuseppe Gangale, Giuseppe Parisi, Mandolito Maria

Sezione tematicaAnnalisa Margarino, Maria Pia Pagani, Tommaso Tavormina, Angelo Fracchia, Roberto Ghisu, Cesare Grampa, Giuseppe Parisi, Carmela Mantegna

Direzione e RedazioneCentro Internazionale Thomas More, Via Georgia 1 - 88900 Crotone; Tel. 3287534885 - [email protected]; Via Orti 3 – 20122 Milano; Tel. 0254101010; [email protected] (www.progettomoria.it)

In copertina: Ritratto di Tommaso Moro di Francesco Bartolozzi, Incisione pubblicata tra il 1792 e il 1802 a Londra, nel volume "Imitation of original drawings, by Hans Holbein, in the Collection of His Majesty, for the Portraits of the Illustrious Persons of the Court of Henry VIII”, edita da John Chamberlaine

Stampa: Edizioni Il Campano, Via D. Cavalca, 67 – Pisa

Autorizzazione del Tribunale di Crotone n. 2/11 del 28/02/2011

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SOMMARIO

Editoriale

G. K. Chesterton: Punto di svolta nella storia

LA FOLLIA DEL VANGELO

Annalisa MargarinoI due vestiti. Una buona notizia per la crisi economica

SALOÍ & JURODIVYE

Maria Pia PaganiAnna Maria Palmi e la santità in scena

Isabella GagliardiSanti e pazzi; pazzi perché santi: la follia d'amore per Cristo nelleagiografie bizantine medievali dei “saloi”

CONSCIENTIA & MARTIRYUM

Virginio RognoniGiancarlo Puecher rivive nella storia

UTOPIA: NOTIZIE DA NESSUN LUOGO

Giuseppe GangaleAlle origini dell’Utopia moreana. L’auspicio di una regalità secondo giustizia in un panegirico reale

Roberto F. GhisuDa Utopia a Kirghisia. Dal capolavoro di Tommaso Moro all'opera di Silvano Agosti

MERRILYGiuseppe Gangale

Lady Alice More. Raro esempio di perfetta madre adottiva e di compagnaallegra e fedele

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IL MONDO ALLA ROVESCIACarmela Mantegna

La preghiera dell’ateo. Quando la bocca parla dalla pienezza del cuore

L’ALTRO EVANGELODieter Kampen

La follia di Lutero.“Ho acceso un nuovo fuoco; ma così fa la parola della verità”

LA VIRTUOSA FOLLIAGiuseppe Parisi

Arshile Gorky - Gocce di rabbia in luoghi stranieri

DOCUMENTA MOREANA

Giacomo De AntonellisUn ammiratore di Moro: il Cardinale Marino Caracciolo

- Il racconto italiano del processo e dell’esecuzione di Thomas More in una lettera del card. Niccolò Schönberg al card. Marino Caracciolo 12 agosto 1535

UOMINI & LIBRI

Cesare GrampaMarialisa Bertagnoni. La sua folgorante “love story” con Thomas More

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Editoriale

PUNTO DI SVOLTA NELLA STORIA1

Potremmo chiarire tale punto semplicemente affermando che il miglior amico del Rinascimento fu ucciso in qualità di peggior nemico della Riforma. More fu un umanista, non solo nel senso in cui molti studiosi involuti e pedanti si sono guadagnati tale nome per i loro autentici servizi alla ricerca greca e latina, ma nel senso che la sua ricerca fu davvero insieme umana e umanitaria. Aveva in sé, in un tempo relativamente precoce, tutto ciò che di migliore si sarebbe trovato in Shakespeare, Cervantes e Rabelais: non aveva soltanto una vena comica, ma anche fantasia. Fu l'inventore

G. K. Chesterton

Il beato Thomas More è più importante oggi che in qualunque altro tempo fin dalla sua morte, forse anche più che del grande momento del suo morire, ma non è ancora così importante come sarà tra un centinaio di anni. È possibile che giunga ad essere considerato il più grande inglese, o almeno il più grande personaggio storico della storia inglese. Ebbe infatti un rilievo storico, rappresentò contemporaneamente un modello, un punto di svolta e un destino estremo. Se non si fosse dato quello specifico uomo in quel particolare momento, l'intera storia sarebbe stata diversa.

1 Siamo lieti di poter pubblicare, come editoriale, per la prima volta in lingua italiana tradotto dal prof. Angelo Fracchia questo breve saggio del grande romanziere e saggista inglese. Con il titolo A turning point of history fu pubblicato nel 1929 nel volume "The Fame of Blessed Thomas More, Being Addresses Delivered in His Honour in Chelsea, July 1929" (Londra, Sheed e Ward, 1929, pp. 63-64). I saggi raccolti consistono in discorsi di indirizzo tenuti da eminenti studiosi e intellettuali inglesi quali R.W. Chambers, Roland Knox, Hilaire Belloc, Lord Justice Russell, Henry Browne, Reginald Blunt e Bede Jarrett, in occasione della mostra in memoria di Thomas More tenutasi a Chelsea, al Santuario di Beaufort Street, dal 9 al 13 luglio del 1929. Gli oratori autorizzarono la pubblicazione dei loro discorsi come contributo allo scopo per cui la mostra era stata organizzata, vale a dire la raccolta di fondi per la necessaria costruzione di una nuova facciata del convento di Beaufort Street, dove le suore responsabili del Santuario, tenevano l’adorazione perpetua in riparazione del “crimine nazionale dell’esecuzione dei Beati Martiri”.

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di tutte le Utopie, ma si servì di Utopia per ciò che realmente è, un campo di gioco. La sua Utopia era in parte uno scherzo, ma fin dalla sua epoca gli utopisti raramente hanno visto lo scherzo. Era anche rinomato il suo prendere le cose alla leggera: parlava, credo, di frustare i bambini con piume di pavone, e si giunse a favoleggiare che fosse morto ridendo. Dobbiamo quindi pensarlo come uomo pienamente del Rinascimento, prima di giungere, con una specie di shock, alla realtà del suo lato più serio.

Il grande umanista era soprattutto un superumanista. Era un mistico e un martire, e il martirio è forse ciò che più di tutto merita la frase fatta di misticismo pratico. Non era però, come così tanti mistici del suo tempo, persona che davanti ai misteri perdesse il proprio buon senso. E resterà un dato immutabile e determinante, un cardine della storia, che egli abbia visto, in quella prima ora di follia, che Roma e la Ragione erano una cosa sola. Vide al primissimo inizio ciò che così tanti hanno iniziato a vedere solo ora, alla fine: che le speranze autentiche di cultura e libertà stanno nel conservare l'unità romana dell'Europa e l'antica fedeltà cristiana per la quale egli morì.

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LA FOLLIA DEL VANGELO

La vita, la sventura, l'isolamento, l'abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi, eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.

Victor Hugo, I miserabili

Particolare de Il ritorno del figliol prodigo, Rembrandt 1669, San Pietroburgo

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Annalisa Margarino

Premessa

Siamo in un tempo in cui la parola ‘crisi’ è spesso sulla bocca di molti: crisi economica, crisi sociale, crisi lavorativa, crisi esistenziale…

Diverse persone si sono soffermate a riflettere sul significato di questo termine riprendendone la dimensione autentica. Sappiamo infatti che ‘crisi’ viene dal verbo greco krino che significa scegliere, decidere, ma originariamente nella sua radice c’è un richiamo al verbo separare. La crisi, allora, è un movimento che separa.

I tempi che viviamo, le paure, le angosce, le situazioni contingenti ci fanno istintivamente accostare il concetto di crisi a un’idea di stasi, di fissità, di paralisi, mentre il suo significato rimanda a una realtà dinamica, proprio perché crisi indica un tempo di cesura, di possibilità di cambiamento radicale, di riorganizzazione e di capacità di riascoltare l’esistenza.

Questo movimento, questa interruzione dagli schemi abituali è possibile nel momento in cui ci si predispone a un rovesciamento delle logiche in cui siamo innestati e in cui si gioca l’esistenza di molti, in particolare dell’Occidente.

Il Vangelo di Matteo (Mt 6,25-34) ci offre un brano che si può leggere come invito a modificare logiche, prospettive e a vivere in una dimensione di fiducia rinnovata e di sguardo rivolto all’essenziale.

I DUE VESTITIUna buona notizia per la crisi economica

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Primo invito: non affannatevi

Se si inizia a dipanare il testo di Matteo, il primo invito di Gesù è chiaro: “Non affannatevi di quello che mangerete e berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: non vale più del cibo e il corpo più del vestito?” (Mt 6,25).

Meditare questo primo versetto può risultare duro e complesso in questo tempo in cui l’esistenza è spesso un affanno perché a fatica, per quelli che stanno meglio, si arriva a fine mese e per molti si arranca e si vive alla giornata, sperando di poter avere qualcosa per la sussistenza.

L’uomo di oggi è letteralmente oppresso dal pensiero, dall’ansia e dalla domanda su che cosa mangerà, come sopravvivrà, come si manterrà esoprattutto dal dubbio vivo su se potrà sostenere a lungo una condizione di benessere.

Al di là di questo tempo di annaspamenti, è una condizione radicata nell’essere umano domandarsi come sussistere. Senza potersi alimentare e bere, senza potersi vestire e senza avere una casa che lo protegga l’uomo non può vivere.

Gesù infatti non dice: “Non mangiate, non bevete, non vestite…”. Sa che l’esistenza materiale è possibile a partire da questo. Sappiamo anche che molte guerre nel mondo, oltre che dagli scontri per il potere e per la ricchezza, sono motivate dalla mancanza d’acqua e di pane. Senza pane e senza acqua si muore.

Occorre partire da un sano realismo per poter comprendere e sviscerare questo passo del vangelo che non consiste in una negazione dei bisogni dell’uomo.

Gesù vuole invitare i suoi discepoli a riflettere sullo sguardo, la visuale, la disposizione dell’animo.

L’invito non è a digiunare, a non cercare cibo e sostentamento, ma a non affannarsi ovvero a non sintetizzare l’intera vita nella ricerca di nutrimento, guadagno, modi per sopravvivere.

Il novecento e l’Occidente, in particolare, ma non solo, per molto tempo hanno focalizzato le dinamiche dell’esistenza nella ricerca ossessiva del guadagno per poter vivere, per avere la sicurezza necessaria per la sopravvivenza. In questo sforzo incessante orientato al guadagno, l’Occidente, a partire dalla grande crisi del 1929, ha preso atto della fragilità di questo stile di vita che però non ha saputo interrompere.

L’uomo del novecento così ha vissuto e vive ancora oggi con l’obiettivo di garantirsi e tutelarsi la vita. Il meccanismo del suo pensare sembra essere: ‘se lavoro guadagno, se guadagno sono sicuro, così posso mangiare, bere,

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vestirmi e essere sicuro per il domani’. La storia e anche questo tempo ci dimostrano che non è così.

Siamo costituzionalmente fragili. Siamo esposti e non siamo i proprietari della vita, ma gli affidatari.

Secondo invito: riconsiderare il valore della vita

La necessità di vivere per un guadagno, per un sostentamento ha dato il prezzo all’esistenza di ciascuno. Per tutti è spesso inevitabile valutare solo in denaro il proprio lavoro e le proprie attività. La mentalità diffusa è che valiamo in base a quanto e come produciamo.

In questo passo del vangelo di Matteo, Gesù, dopo averci invitati a non affannarci per il domani, perché non ne siamo detentori, ma affidatari, ci invita a riconsiderare il ‘prezzo’ delle nostre vite: “la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?”.

Cibo e vestito sono importanti per sopravvivere. Anche il vangelo non nega questo. Vengono presi come oggetto di comparazione proprio perché se ne riconosce l’importanza. Sono beni di sussistenza. Gesù però mette in guardia dall’assolutizzarli, ponendo gli interlocutori di fronte al valore dell’esistenza.

Il cibo, l’acqua, i vestiti, le ricchezze sono utili per sopravvivere, ma il valore dell’esistenza va oltre o, meglio, non si riduce solo a questo.

La preoccupazione per i beni materiali rischia anche di disporre l’uomo in uno stato di presunta onnipotenza sul mondo, detentore e possessore di tutto. Non solo non possiamo calcolare il valore della nostra vita, in quanto questa vale di più di quanto presumiamo e va al di là delle polizze assicurative che le vengono attribuite, ma inoltre non possiamo garantirne la durata: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?”.

Siamo creature. Questo brano vuole metterci di fronte alla nostra dimensione creaturale come quella degli uccelli del cielo che non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai, ma si nutrono ugualmente.

È chiaro che per il vangelo che ama i piccoli, i poveri, i fragili la vita non si commisura con il lavoro svolto, ma è dono, offerto a tutti, alla pari. È dono gratuito, senza prezzo e noi ne siamo portatori, tanto che non possiamo preoccuparci di allungare anche di poco la vita.

Quest’ultima domanda di Gesù, “E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?”, può suonare come una provocazione in un tempo in cui la medicina ha permesso notevoli miglioramenti della qualità della vita umana. Non è questo il senso che si

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deve dare a queste righe. Siamo corresponsabili della nostra esistenza e questo ci invita a farci carico perché ognuno viva nel migliore dei modi. Corresponsabili, ma affidatari, non proprietari.

Per quanto ci affatichiamo a vivere bene, con le cure opportune, con i beni necessari non ci è dato di conoscere il tempo del nostro esistere, perché rimaniamo sempre e comunque creature.

Se questo brano poteva suonare come una pesante provocazione duemila anni fa, ancora di più ha forza in questo tempo in cui i nostri sforzi sono orientati a un miglioramento progressivo della qualità della vita. Non viene negata, ma siamo rimandati oltre. Siamo invitati ad andare oltre la forma.

Non siamo il nostro cibo. Non siamo la nostra acqua. Non siamo il nostro vestito.

Sarebbe un errore leggere questo brano come una negazione dei beni materiali, infatti non a caso vengono presi in considerazione beni di prima sussistenza, non beni marginali. Il rischio, a una prima lettura, è proprio quello di ridursi a comprendere queste righe come un monito a non dare troppa importanza al mangiare, al bere, al vestire. L’invito invece è di non fermarsi a questo, ma di andare oltre, proprio per una maggiore dignità dell’umano.

Terzo invito: recuperare la dimensione creaturale e relazionale

Lo spazio e il tempo in cui viviamo non è nostro, per questo siamo chiamati a viverlo con la fiducia verso colui che ce l’ha donato. È questo il pensiero che suona come sottofondo a Mt 6,25-34.

Un altro rischio è quello di creare una piramide nell’esistenza naturale in cui l’uomo si trovi al vertice rispetto agli animali e ai vegetali. Gesù non dice così, ma di imparare da questi che non si affannano per il nutrimento e il vestito.

Imparare dai gigli del campo significa recuperare la propria dimensione creaturale.

È un invito chiaro a recuperare anche la dimensione relazionale: “Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?”.

Di nuovo qui non c’è contrapposizione tra l’erba e l’essere umano, ma sembra che le parole di Gesù vogliano metterci di fronte alla coscienza di essere figli: se l’erba, come i gigli e gli uccelli, che non sono coscienti, sono preziosi agli occhi di Dio e hanno il loro corso, ancora di più noi, figli, siamo chiamati a vivere nella consapevolezza dell’amore del Padre che ha cura del suo creato.

Il Padre sa di cosa abbiamo bisogno proprio perché si relaziona a noi, conosce le nostre istanze e sa che la vita non si riduce al cibo, all’acqua, al

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vestito, ma va oltre. È proprio a questa dimensione di ulteriorità che apre questo brano del vangelo che, non a caso, si trova nella parte del discorso sul monte che si apre con le beatitudini e indica i modi di vivere da beati.

Viviamo beati se viviamo nella consapevolezza di un oltre che viene da Dio. Viviamo beati se non riteniamo che la nostra sussistenza dipende unicamente da noi. Viviamo beati se riusciamo ad andare oltre l’ovvia necessità dei beni materiali. Viviamo beati se viviamo consapevoli che prima del cibo, dell’acqua, dei vestiti c’è un legame con il Padre che ci alimenta, disseta e veste. Viviamo beati se sappiamo affidarci e se riconosciamo che ogni attimo del nostro vivere è dono offerto, non dovuto.

Il vestito da cercare

Se si segue il brano di Matteo, al versetto 33, appare un viraggio, un cambiamento di rotta che apre immediatamente l’attenzione di chi legge verso una dimensione ulteriore che supera il vestito, il nutrimento e l’acqua: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Se il discorso di Gesù era iniziato con l’invito a non affannarsi per la vita e per il suo sostentamento e così anche si conclude al versetto 34, in questo versetto invece c’è un invito chiaro a prendersi cura di un’altra dimensione che va oltre il benessere materiale e le forme tangibili del vivere: il regno di Dio e la sua giustizia.

Dio, il Padre, ci offre un vestito, la nostra dimensione creaturale, a noi spetta il riconoscimento di questo dono e dell’esistenza che ci è affidata. Cercare il regno di Dio e la sua giustizia significa vivere grati per questo vestito che nient’altro è che l’esistenza che ci è stata affidata, vivendo non più secondo le logiche del dovuto, ma del gratuito.

Il vestito da cercare, allora, sembra essere quello della relazione autentica con il Padre che ci nutre e disseta con il suo amore.

È la logica nuova del regno, non una polizza assicurativa sull’esistenza di ciascuno, ma una vita che gratuitamente si dona e ama. Il Padre veste tutto con l’amorevolezza della sua paternità. Noi siamo chiamati a vivere da figli grati, abitanti del regno e attenti alla sua giustizia che Mt 5,1-12 ci insegna essere quella delle beatitudini.

Poche righe prima, in Mt 6,19-21, viene detto come vivere secondo la logica del regno: “Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”.

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Questi versetti, soprattutto il versetto 21, possono intendersi come la chiave interpretativa di Mt 6,25 ss.

Dov’è il tesoro dell’uomo? Nei beni materiali o nel regno? Gesù sa che l’uomo è predisposto a vivere curandosi di ciò che ritiene

prezioso. Sa che l’uomo si preoccupa per la propria sussistenza e mette in gioco la propria vita per questa. Perciò Gesù rimanda i suoi interlocutori a qualcosa che va oltre i beni materiali e per sopravvivere, ricordando che questi ci sono dati, in quanto parte del creato.

Al versetto 33 si coglie che il tesoro di cui parla è il regno e la sua giustizia. Il regno non è un tesoro che si vede. Non è un gioiello prezioso, non è un quadro da esporre, non è una realtà evidente, ma in cammino, in continua formazione, una promessa di Dio. Tutto il discorso del monte si muove secondo la logica del regno come promessa di Dio.

Il tesoro del vangelo è l’amore del Padre, senza il quale il resto non è possibile, logica altra, sovversiva duemila anni fa e in tempo di crisi.

A ciascun giorno basta la sua pena

“Non affannatevi… cercate… A ciascun giorno basta la sua pena”.Mt 6,25-34 si conclude con il riconoscimento della fatica del vivere.È importante non fermarsi all’invito a cercare il regno e la sua giustizia,

ma proseguire la lettura fino all’ultimo versetto: “Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”.

Innanzitutto siamo invitati a considerare l’oggi, il presente perché il regno non si gioca sul domani, ma sull’oggi, proprio perché ci è affidato ogni istante del vivere.

Possiamo leggere queste righe di nuovo secondo la logica della relazione con il Padre: ogni giorno è affidato in dono ai figli e ogni giorno siamo chiamati a farci responsabili prendendoci cura sempre della vita, dell’esistente e del creato.

Non preoccuparsi del domani, perché spetta a Dio, non significa non preoccuparsi dell’oggi secondo le logiche del regno che paradossalmente ci impongono che ognuno abbia la possibilità di una vita dignitosa con acqua, cibo e vestiti.

Vangelo sovversivo che ci invita a non preoccuparci di noi stessi, del nostro cibo e del nostro benessere, facendo calcoli e procurandoci garanzie sulla vita, ma che, richiamandoci alle logiche del regno, ci ricorda che l’esistenza è uno spazio aperto e possibile per tutti in cui ognuno deve vivere perché l’altro si senta a casa e si senta amato, figlio di un Padre che non si dimentica di nessuno.

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Mt 6,25-34 allora si presenta come un vangelo anti-crisi, in quanto invito a nuovi sguardi dilatati, non autocentrati, ma proiettati sulle istanze della creazione intera, in cui non vigono principi di autoconservazione, ma di cura fiduciosa e amante dell’altro, secondo le logiche del regno e della sua giustizia.

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SALOÍ & JURODIVYE

Quasi per gioco nasce questa storia nell'unica stanzetta riscaldatadi questo Monastero che ricordail caminetto amato della villaove racchiusi restano i soaviricordi di quegli anni benedetti!

(Storia di un’anima)

Teresa di Lisieux nel ruolo di Giovanna d’Arco (per la giovane religiosa l’eroina per antonomasia), in una rappresentazione del 1895, da lei scritta e messa inscena, nel Carmelo francese

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Maria Pia Pagani

ANNA MARIA PALMI E LA SANTITÀ IN SCENA

“Bisogna fare di sé dei capolavori”Carmelo Bene

A Massimo

La Compagnia D’Origlia-Palmi, nata dal sodalizio artistico e coniugale di Bruno Emanuel Palmi (Pacifico Avvenire Palmi, Roma, 18 febbraio 1890 –Roma, 2 luglio 1969) e Bianca D’Origlia (Bianca Sbernadori, Piacenza, 21 aprile 1892 – Roma, 26 luglio 1976), ha vissuto la sua più gloriosa stagione negli Anni Venti-Trenta, con apprezzate tournée in Italia e all’estero.

Dopo un periodo di grandi difficoltà, anche legato alla Seconda Guerra Mondiale, negli Anni Sessanta ha ottenuto come sede stabile una sala attigua alla chiesa di Santo Spirito a Roma. Ubicato nei pressi del colonnato di San Pietro, il complesso monumentale di Santo Spirito è molto antico: vi aveva sede uno dei più prestigiosi collegi medici d’Italia, pure frequentato dal padre di Carlo Goldoni quando fece pratica come medico a Roma. Unica figlia di Bruno Emanuel e Bianca, Anna Maria Palmi (Siena, 13 aprile 1922 – Broni, 1° febbraio 2005) ha seguito le orme dei genitori e trovato la sua realizzazione più completa come attrice proprio nel Teatro di Santo

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Spirito, dove il folto pubblico – fatto di religiosi, vista la vicinanza a San Pietro, ma anche di moltissima gente delle borgate romane e di giovani desiderosi di dedicarsi all’arte quali Carmelo Bene – per anni ha avuto quotidianamente modo di assistere alle sue rappresentazioni, di solito offerte nella fascia oraria pomeridiana piuttosto che in quella serale. Come attestano anche le cartoline da distribuire al pubblico, i suoi cavalli di battaglia erano i ruoli agiografici: a detta di tutti coloro che ne serbano memoria, la sua maestria era tale da rendere “vere” le estasi delle sante portate in scena.

La Compagnia D’Origlia-Palmi ha debuttato il 1° ottobre 1921 al Teatro Mercadante di Napoli con La figlia di Iorio di Gabriele d’Annunzio, e il suo cammino artistico si è anche incrociato con quello di Eleonora Duse, che il 5 maggio 1921 aveva ripreso a recitare portando in scena La donna del mare di Ibsen al Teatro Balbo di Torino. Così come ha fatto la Duse

con l’unica figlia Enrichetta, anche Bruno Emanuel e Bianca hanno cercato di tenere Anna Maria lontana dal teatro, iscrivendola in un buon collegio romano dove ha conseguito il diploma magistrale, e assicurandole un’educazione borghese.

Al pari di Enrichetta, anche Anna Maria ha sofferto molto quando i genitori erano lontani in tournée. Tuttavia, a differenza della figlia della Duse che è sempre rimasta estranea al teatro, con la razionalità adulta Anna Maria ha ammesso che ciò che più la affascinava del mestiere dei genitori era proprio il tipo di vita che conducevano, arrivando ad associare il forte fascino che sentiva per l’esistenza nomade dell’attore alla parola “vocazione”.

Agli inizi, la forza di questa “vocazione” l’ha portata a lottare con la timidezza per riuscire a sostenere il confronto con il pubblico. Dopo un periodo di apprendistato con i genitori, il debutto che l’ha convinta a lavorare per sempre come attrice è stato, al pari della Duse, con la shakespeariana Giulietta. Da quel momento, Bruno Emanuel l’ha scritturata nella compagnia di famiglia rendendo effettiva in senso professionale la sua condizione di “figlia d’arte”.

“Io fui Giulietta”. Con queste parole, la Foscarina (alter ego di Eleonora nel romanzo dannunziano Il fuoco) non solo ricorda con affetto il suo ruolo

Cartolina con elenco dei ruoli agiografici interpretati da Anna Maria Palmi

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di esordio, ma spiega con limpida precisione il processo di immedesimazione totale che le ha permesso di essere in scena la giovane Capuleti, conferendo alla sua interpretazione un’autenticità assoluta.

Anna Maria Palmi nel ruolo di S. Maria Goretti

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Seguendo la sua “vocazione”, Anna Maria ha dedicato con entusiasmo e dedizione tutta la vita al teatro e, nell’interpretare ruoli di sante, ha trovato il senso vero e profondo della sua esistenza. In un articolo di Franca Zambonini pubblicato da “Famiglia Cristiana” il 15 aprile 1962, in occasione del 40° anniversario di attività della Compagnia D’Origlia-Palmi, la “figlia d’arte” è così presentata ai lettori:

«Anna Maria Palmi è una ragazza piuttosto singolare: ha indossato in vita sua dozzine di abiti religiosi dei più svariati ordini femminili, è entrata nel velo e nell’ampia tunica delle mantellate e delle filippine, delle francescane e delle figlie della carità; diciamo pure che indossa più volentieri un rozzo saio monastico che un tailleur primaverile. Ci spieghiamo subito: Anna Maria Palmi non è una ragazza con una vocazione monastica generica, che però non ha ancora deciso quale ordine più le si addica, ma la prima attrice dell’unica compagnia italiana che rappresenti esclusivamente sacre rappresentazioni, cioè la compagnia Palmi-D’Origlia. Così ogni giorno, in diverse città italiane, Anna Maria, nelle vesti di S. Caterina, convince il papa Gregorio XI a ritornare a Roma, fa cadere piogge di rose sulle sue consorelle nelle vesti di S. Teresa, si fa tagliar la testa da suo padre come S. Barbara o si fa uccidere da Alessandro Serenelli come Maria Goretti».

Gli spettacoli religiosi hanno contraddistinto il repertorio della Compagnia D’Origlia-Palmi sin dai primi anni di attività: risale al 1924 ildebutto di una sacra rappresentazione intitolata Christus, scritta da Bruno Emanuel sotto lo pseudonimo di Paul Lebrun (scelta onomastica esterofila dettata dal desiderio di accrescere l’interesse del pubblico verso l’autore), cui è seguito un mistero cristiano intitolato Quo vadis, Jesu?. Queste produzioni hanno riscosso un notevolissimo successo di pubblico e un ingente numero di repliche anche a distanza di anni (per il Christus oltre tremila), decretando la definitiva affermazione della Compagnia D’Origlia-Palmi nel panorama teatrale italiano.

L’esperienza creativa del padre, che è stato protagonista ma anche autore dei più apprezzati drammi sacri portati in scena dalla Compagnia D’Origlia-Palmi, verso gli Anni Cinquanta ha indotto Anna Maria a cominciare un’intensa attività come autrice di drammi sacri, usando lo pseudonimo di Edoardo Simene (scelta onomastica che rivela la maggior considerazione con la quale era all’epoca considerata la drammaturgia maschile). Si tratta di opere teatrali di carattere edificante, nate da una scrupolosa lettura delle agiografie e realizzate avvalendosi della collaborazione del padre o di esperti religiosi – come nel caso di don Terzino Tatasciore per Santa Gemma Galgani.

La completa corrispondenza di intenti tra l’autore Edoardo Simene e l’interprete Anna Maria Palmi affiora in tutta la sua forza nell’intervista

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rilasciata a Franca Zambonini nel 1962: «Prima di assumermi l’alta responsabilità di interpretare un personaggio impegnativo come la figura di una santa, che ha un valore non soltanto storico, ma che deve essere scrupolosamente conforme allo spirito religioso, cerco di studiarne l’anima, attraverso documentazioni storiche e possibilmente mi reco nei luoghi dove la santa ha vissuto la sua vita terrena. È necessario però soprattutto che l’autore del dramma da parte sua faccia altrettanto, in modo che il testo sia organico e teatralmente valido e l’esecuzione possa raggiungere la perfetta fusione tra autore, interprete e pubblico».

Il repertorio agiografico della Compagnia D’Origlia-Palmi è notevolmente cresciuto negli anni per desiderio di Anna Maria, e grande è stata la coerenza nelle scelte artistiche degli altri spettacoli in cartellone, poiché – come ha spiegato la stessa attrice in un’intervista radiofonica RAI nel dicembre 1971 – «non si può fare una cosa di un genere e poi contraddirla».

L’attenzione di Anna Maria al calendario dei santi si lega ad es. alla nascita del mistero cristiano intitolato Santa Rosa da Viterbo ovvero un angelo tra le fiamme, scritto da Edoardo Simene in collaborazione con Bruno Emanuel Palmi: memorabile è stato l’allestimento del settembre 1952, in occasione della chiusura dei festeggiamenti per il VII centenario della morte della santa.

Santa Rosa da Viterbo ovvero un angelo tra le fiamme

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Nel documentario Ombre Lucenti (2003), l’attore Luigi Mezzanotte offre parecchi intensi ricordi della Compagnia D’Origlia-Palmi. Molto buffa è la sua prima impressione di spettatore, al Teatro di Santo Spirito: «Ma questi qui sono due mostri!!!», pensò con ammirato stupore dinanzi alla incredibile bravura di Bruno Emanuel e Bianca.

All’epoca, Mezzanotte era un adolescente in cerca della propria strada e cominciò la carriera teatrale lavorando come tecnico per la Compagnia D’Origlia-Palmi. Uno degli “effetti speciali” che imparò con maestria è stato la pioggia di petali di rosa, di grande impatto sul pubblico, con cui si concludevano la maggior parte degli spettacoli agiografici.

Molte annotazioni autografe apposte da Anna Maria alle sue foto, indicano con precisione registica il momento della rappresentazione in cui si arrivava a celebrare la gloria della santità: «Atto Terzo. Scena Ultima. Apoteosi. S. Rita da Cascia sale al cielo in una pioggia di rose»; «Atto Quarto. Quadro Terzo. Apoteosi. Al cielo ascende una Rosa bianca. Dal cielo cadono nembi di petali odorosi. Trionfo d’amore. Alleluja (settembre 1952)».

Parlando di Anna Maria, nel documentario Luigi Mezzanotte sottolinea la sua notevole bravura, ma precisa il fatto che «si sentiva la differenza» di preparazione rispetto ai genitori. Tra loro, infatti, era evidente uno scarto non solo generazionale, ma anche tecnico rispetto all’esercizio del mestiere di attore: Bianca si era formata alla Filodrammatica di Piacenza e il suo nome d’arte era stato creato da Sem Benelli, Bruno Emanuel era stato primo attor giovane in molte compagnie primarie di giro e aveva lavorato con attrici del calibro di Emma Gramatica. Invece la carriera di Anna Maria è cominciata ufficialmente al termine degli studi magistrali, e ha sempre avuto come basilari figure di riferimento artistico i genitori.

Ma nel caso dell’estasi delle sante, in termini di immedesimazione e verosimiglianza, si può dire che la qualità della recitazione di Anna Maria era superiore rispetto ai genitori, poiché la sua “vocazione” volgeva esattamente nella stessa direzione della vocazione del soggetto religioso che stava interpretando. Il fatto che le autorità ecclesiastiche abbiano avuto una fitta corrispondenza con la Compagnia D’Origlia-Palmi è un’ulteriore conferma dell’autenticità di fede cristiana che quel loro lavoro rifletteva.

Santa Rita da Cascia

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Sempre nell’intervista rilasciata a Franca Zambonini nel 1962, Anna Maria ha sottolineato che il fatto di farsi applaudire come santa non la inorgogliva affatto, poiché i ruoli agiografici le davano la possibilità di fornire un servizio di fede al pubblico: «Cerco solo umilmente di fare del mio meglio per essere, per quanto possibile, all’altezza del compito affidatomi». Il suo è stato un impegno di evangelizzazione attraverso il teatro, e lo si capisce bene quando parla del bisogno che l’uomo avrà sempre – in qualsiasi epoca, contesto sociale ed età – del teatro di matrice religiosa: «La rappresentazione sacra è la più antica forma scenica; se incoraggiata potrà avere sviluppi notevoli; in ogni caso non potrà mai scomparire».

Anna Maria è stata autrice drammatica, prima donna e regista della Compagnia D’Origlia-Palmi. Ha recitato nei teatri delle grandi città e dei centri di provincia, nelle scuole, nelle sale parrocchiali, nei santuari, e sapeva affrontare senza paura qualsiasi tipo di pubblico: «Chiedo sempre l’aiuto del Signore e mi concentro cercando di immedesimarmi il più possibile nell’anima del personaggio che sto per interpretare, perché possa farlo il meno indegnamente possibile». Da artista profondamente ispirata dalla fede, ha portato in scena i santi della tradizione cristiana raggiungendo il cuore degli spettatori: «Quando l’attore recita dimentica il genere di pubblico che l’ascolta; è soltanto il personaggio che “vive” e dell’interprete rimane solo quanto serve per l’auto-controllo necessario». Parole importanti, queste, per capire l’intensità delle sue estasi e lo slancio delle apoteosi segnate dalla pioggia di petali di rosa.

Anna Maria ha continuato a recitare anche dopo la morte dei genitori. Negli Anni Novanta, quando il Teatro di Santo Spirito è stato dichiarato inagibile per motivi di sicurezza, ha dovuto smettere di calcare il palcoscenico, e da quel momento anche la sua vita è scivolata verso la via del tramonto. Già nel 1962, ai lettori di “Famiglia Cristiana” aveva dichiarato di non sapere davvero che altro mestiere avrebbe fatto: era nata “figlia d’arte” e, assecondando con coerenza assoluta la sua “vocazione”, ha reso il suo lavoro di attrice uno strumento di evangelizzazione unico, nella sua portata e nel suo perdurare, nel teatro italiano del Novecento.

Il documentario Ombre Lucenti restituisce con grande delicatezza la sua voce ormai fragile e il suo volto di anziana, che «sembra aver assorbito in sé la dolcezza, l’umiltà, gli occhi sempre ridenti delle sante che ha portato sulle scene». È il ritratto di un’artista che ha sempre vissuto in nome di un ideale alto e luminoso, attraversando con i suoi ruoli agiografici avanguardia e tradizione.

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Riferimenti bibliografici:

-G. d’Annunzio, Il Fuoco, a cura di N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1996.-C. Goldoni, Memorie. Con introduzione di L. Lunari, traduzione e note di P. Bianconi,

Milano, BUR, 2007.-Ma Pupa, Henriette. Le lettere di Eleonora Duse alla figlia, a cura di M. I. Biggi,

Venezia, Marsilio, 2010.-Ombre Lucenti, documentario Rai International, regia di Nino Bizzarri, 2003.-F. Zambonini, Palmi-D’Origlia. La compagnia teatrale che porta sulle scene solo vite di

santi, in “Famiglia Cristiana”, 15 aprile 1962, pp. 12-13.-Documenti e foto dell’Archivio D’Origlia-Palmi.Rivolgo un sincero ringraziamento al dott. Alberto Maccabruni per aver generosamente

messo a disposizione i materiali dell’Archivio D’Origlia-Palmi alla base di questo contributo, insieme a suoi toccanti ricordi di famiglia.

Elisabetta d’Ungheria ovvero la duchessa dei poveri

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Isabella Gagliardi

Santi e pazzi; pazzi perché santi: la follia d'amore per Cristo nelle agiografie bizantine medievali dei "saloi"

Icona di Andrea Salos, con scene tratte dalla Vita e dalle visioni, San Pietroburgo, Russkij Musej

La comparsa sul proscenio della storia di comportamenti rubricabili sotto i termini "santa follia" data il periodo compreso tra il IV e il VI secolo e si verifica nelle regioni egiziane e siriache; lì, infatti, si dispiegarono le esistenze di alcuni mistici tanto particolari da richiedere il conio di una locuzione apposita: saloi e salai (letteralmente santi e sante folli). La parola (che significativamente è un neologismo) si configura quale termine tecnico: le più precoci attestazioni si rintracciano nei testi liturgici e, nella fattispecie, nei sinassari (i libri della liturgia quotidiana) e nei lemmi dei kontakaria (innari liturgici redatti tra X e XIII secolo) dove tale identificativo compare

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accompagnato da dià Christòn (per Cristo). Con l'avanzare dei tempi ed il progressivo travaso nelle fonti agiografiche e letterarie il termine finì per sostituirsi completamente ad aghios (santo) assorbendone la sfera semantica, cosicché la manifestazione della "pazzia per Cristo" diventava addirittura il marker identificativo della santità. Il salos (santo pazzo) e la salè (santa pazza) erano dunque gli "amici di Dio" che in vita si erano contraddistinti per i loro atteggiamenti folli, o meglio per aver simulato la pazzia comportandosi in maniera anomala. Il salos sovverte tutti i canoni etico comportamentali esteriori in modo da suscitare negli altri la certezza di essere impazzito. Perciò rifiuta la dimora fissa, preferendo vivere della carità altrui e dormendo dove gli capita, infrange le convenzioni fino all'irriverenza, rifiuta qualsiasi mezzo di sostentamento che non sia precario. In realtà il suo comportamento è tale per due ordini di motivi: in prima istanza la messinscena della malattia mentale serve ad occultarne la dimensione spirituale effettiva, consentendogli di essere veramente umile ed ultimo tra gli uomini; in seconda istanza funge da dichiarazione preliminare ma crittata per i non eletti: per chi sa decodificare i comportamenti apparentemente assurdi la follia simulata costituisce la prova suprema del fatto che chi la pratica è guidato dalla sapienza divina. Quest'ultima infatti, come scrive Paolo di Tarso, è follia agli occhi degli uomini (1Cor. 4-10); non a caso un testo di fondamentale importanza nella Siria cristiana del IV secolo, il Liber Graduum, esorta il cristiano nei termini seguenti: "Così imita quelli (i matti), come pazzo vai tra chi ti prende in giro e parla con loro".

Le fonti relative ai saloi e alle salai sono numerose e ci presentano molte e diverse figure. Forse la testimonianza più antica di nostro interesse ècostituita dall'apophtegmaton Patrum IX (gli Apophtegmata o Detti dei Padri del deserto della fine del V secolo raccolgono gli aforismi degli asceti del deserto egiziano). A proposito di un non meglio identificato sant'uomo leggiamo: "Su di lui raccontavano che alcuni lo avvicinarono per giudicarlo. Il vecchio, tuttavia, fingeva di essere stolto, quando una donna che stava presso di lui, disse: Codesto vecchio è tra i folli. Dunque il vecchio sentì la donna e, dopo averla chiamata, disse: Quante sofferenze ho sopportato in solitudine per conquistare questa follia; oggi per causa tua corro il rischio di perderla!". Nelle poche righe del racconto si trovano condensate molte informazioni. In primo luogo la fonte parla di una donna che "stava", ovvero che risiedeva, presso un sant'uomo: si tratta della contiguità (talvolta una sorta di semi-convivenza ascetica) tra una vergine e un anacoreta anziano che ha origini antichissime, forse addirittura giudeo-cristiane, e che è rilevabile nelle comunità cristiane della Tarda Antichità e dell'Alto Medioevo. Il modello di riferimento per esperienze di tal genere è quello evangelico, laddove la Scrittura attesta la presenza di donne (le sorelle di Cristo) che accompagnavano il Messia e gli apostoli nei loro spostamenti. In

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secondo luogo notiamo come l'apophtegmaton si riferisca ad "alcuni" uomini che si recarono dall'asceta per giudicarlo. Evidentemente costoro sono gli episkopoi (vescovi), vale a dire i "capi" carismatici di una o più comunità cristiane che, tra gli altri compiti, devono svolgere anche quello di visitare e controllare il territorio di propria competenza (da qui la parola-titolo episkopos, derivante dal verbo biblico episkopeo dal significato di sorvegliare, curarsi di etc). In terzo luogo evidenziamo come la donna si esprima in maniera rivelatrice: quando parla di "folli" ella non si riferisce affatto agli psicotici propriamente detti, bensì agli appartenenti a quella "categoria" peculiare della santità che sono i folli per Cristo. Ciò attesta con sicurezza che all'epoca della redazione della fonte la "santa follia" era unanimemente conosciuta e attribuita al panorama delle "santità possibili" ma, al contempo, adombra pure un'altra possibilità. La possibilità, cioè, che siano esistite, durante il periodo più antico, vere e proprie "confraternite" di saloi, o meglio gruppi concordi - ma liberi da vincoli reciproci troppo saldi -di asceti che praticavano sistematicamente la simulazione della pazzia. Di saloi che vivono in contatto reciproco ci racconta l'agiografia di Daniele lo Scetiota. Leggiamo infatti che mentre Daniele si trovava ad Alessandria per incontrarne il Patriarca, incontrò uno strano individuo di nome Marco. Egli lavorava in un luogo pubblico, forse l'ippodromo, forse un bagno, dove dormiva e condivideva la sua esistenza con altri saloi. Marco era solito effettuare furtarelli di vettovaglie al mercato per cibare la comunità dei "folli in Cristo" accampata insieme a lui. Non appena fu avvicinato da Daniele simulò una crisi isterica, ma lo scetiota si accorse che egli era un eletto e ne svelò l'identità al Patriarca. Lo storico Evagrio (fine del VI secolo) affermava di aver veduto a Gerusalemme ed in altre città i boskoi e i saloi. Iprimi erano anacoreti che vivevano nelle foreste come uomini selvatici e che occasionalmente si recavano nei centri abitati dove adottavano un comportamento singolare, perché camminavano per strada nudi salmodiando e pregando. Tuttavia Evagrio riteneva che il salos fosse giunto ad uno stadio spirituale più elevato del boskos perché in lui la dose di apàtheia (nel senso di non reattività agli impulsi esteriori e interiori) era maggiore, in lui "per virtù divina coesistono la vita e la morte, egli è vivo ma la sua fisicità è morta a qualunque stimolo" pur se intenso come quello indotto dalla promiscuità con le donne di malaffare o dalla frequentazione dei bagni muliebri. Evagrio, dunque, parla di gruppetti di boskoi e di saloi.

Adesso è utile fermarsi a considerare l'elemento dell'agnizione che emerge in tutte le testimonianze utilizzate: il santo folle deve essere giudicato/agnito da qualcun altro. Dalla Vita di Simeone salos, scritta da Leonzio di Neapoli nel VI secolo, apprendiamo che Simeone risiedeva ad Emesa (attuale Homs in Siria) dove, mentre era intento a compiere azioni stravaganti, fu sottoposto ad una specie di inchiesta :"nei dintorni di Emesa

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risiedeva un capovillaggio che quando seppe come Simeone viveva disse: -Basta che lo veda e capirò se finge o se è scemo davvero -. Venne dunque in città per incontrarlo. Lo trovò che una prostituta lo portava in spalla e un'altra lo prendeva a colpi di sferza. Subito il capovillaggio si scandalizzò e disse in siriaco: - Satana stesso non crederà che Simeone pseudo abbas fornica con queste donne -. Allora il folle lascia le due donne per dirigersi verso il capovillaggio, distante da lui quanto un tiro di sasso; e gli dà uno schiaffo; gli toglie le vesti e gli dice, ridendo e scherzando:- Su gioca, poveretto, qui non c'è inganno -. Quello allora comprese, stupefatto, che gli aveva letto nel cuore; ma non appena cominciava a raccontare a qualcuno la vicenda, la bocca gli si cuciva e non riusciva a proferir verbo". Un capovillaggio, uomo più autorevole degli altri e forse addirittura un abate, deve stabilire chi sia Simeone. Le opzioni possibili sono ridotte a tre soltanto: Simeone può essere un santo, un indemoniato o semplicemente un pazzo. Santi, pazzi e saloi si comportano in maniera simile perché vivono liberi per strada, confusi con altri emarginati, danno spettacolo di sé e sopravvivono grazie alla carità. Non stupisca la figura dell'indemoniato: un canone del concilio trullano (a. 692) esortando a punire chi fingesse di essere posseduto da un demone allo scopo di ricevere le elemosine, attesta con sicurezza sia la presenza di persone considerate tali in seno alle comunità, sia il fatto che esse fossero sovvenute da quelle medesime comunità che le emarginavano. Tutti costoro (pazzi, indemoniati e saloi) trascorrevano le loro giornate nei posti pubblici più frequentati ma in special modo nelle chiese e nei cimiteri. Ancora nel Liber Graduum leggiamo una reprimenda contro quanti maltrattano "frenetici" e "malati di mente" e un'esortazione a lasciarli in pace, consentendo loro di restare nei luoghi sacri tutto il tempo necessario a Dio per guarirli. A questo proposito un autore molto posteriore, Kekaumenos (XI secolo), nel trattato Strategikon, fornisce consigli interessanti. Constatando quanto sia difficile per un comune mortale distinguere tra pazzia diabolica e pazzia divina, salomonicamente afferma che è meglio lasciar perdere chi si comporta insensatamente, limitandosi a fare l'elemosina al "matto" senza parlargli e senza toccarlo. Del resto nelle società antiche la figura del pazzo è veramente una figura di frontiera. Sconvolto da forze sconosciute, il malato di mente suscita nei sani l'impressione di essere entrato in una dimensione non completamente naturale, popolata da spiriti e da fantasmi maligni. Egli, dunque, rappresenta una specie di porta semi aperta verso l'aldilà, un aldilà oscuro e inquietante che si protende verso l'aldiqua dispensando messaggi e profezie. Attraverso la bocca del pazzo parlano entità ignote, esse possono ingannare gli uomini ma anche protefizzare veracemente, maledire o benedire, insomma influire pesantemente sui vivi e sulle cose. Ecco dunque che le fisionomie degli "alterati" si confondono e si sfumano pericolosamente l'una nell'altra; è

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necessario possedere una grande capacità di discernimento per capire se lo squilibrio sia indotto da Dio, da satana o dalle forze preternaturali che provocano la malattia mentale e che, comunque, sono da mettere in relazione con l'azione dei demoni. Il salos, dal canto suo, profonde tutto il proprio impegno per farsi una pessima fama. Leonzio di Neapoli si diffonde con dovizia di particolari sui comportamenti dettati a Simeone dalla volontà di simulare la pazzia: "compiva ogni cosa con gesti strani e scomposti, ma la parola non può rendere l'immagine dei fatti. A volte si fingeva sciancato, a volte zoppo, ora era come senza gambe, ora invece faceva gambetta a chi correva e lo scaraventava giù. Con la luna nuova fingeva di guardare su in cielo, poi cadeva giù per terra e quindi gli venivano le convulsioni. O era la volta dell'invasamento verbale. Diceva infatti che più di ogni altro era questo a confarsi e adattarsi a coloro che si simulavano stolti per amore di Cristo”.

Sin qui le nostre fonti ci hanno raccontato storie di uomini. Esistevano, però e parallelamente, anche donne "pazze per Cristo". I primi riferimenti storici sicuri riguardano ancora gli eremi egiziani del IV secolo e sono relativi ad una donna, la salé vissuta in un monastero fondato dall'abate Pacomio presso Tabennisi. Di lei rende testimonianza Palladio (363-437ca.), autore di un'opera volta a "celebrare" i fasti del primo monachesimo e che avrebbe riscosso un successo straordinario nel mondo cristiano dell'Alto e del Basso Medioevo, l'Historia Lausiaca. La salè apparteneva ad una comunità protomonastica e si era guadagnata la fama di pazza perché mangiava esclusivamente molliche di pane, beveva l'acqua della risciacquatura dei piatti sporchi e non proferiva mai verbo, neppure quando le consorelle la picchiavano perché la credevano indemoniata e volevano allontanare il diavolo dal suo corpo per mezzo delle percosse. La monaca, in realtà, era un'asceta che aveva scelto la condizione più ripugnante per essere sicura di rimanere adesa all'esempio del Cristo doloroso, in altre parole i rifiuti di cui ella si nutriva risultavano perfettamente speculari all'abiezione in cui la relegava l'opinione di posseduta. Finalmente un anacoreta famoso e rispettato la scovò e ne rivelò la santità alle monache. La salè, non sopportando la notorietà e temendo di perdere ciò che aveva guadagnato sotto il profilo spirituale fuggì via dal monastero. L'episodio si consuma all'interno di una piccola comunità, ma ripropone immutati i connotati del rapporto tra il salos e la società: il "folle per Cristo" ricerca il disprezzo altrui e di rimando chi lo circonda lo malversa. Palladio quindi vuole edificare il lettore spiegandogli, attraverso il "caso" - salè, come esista una gradualità della santità. La monaca di Tabennisi è talmente santa che la sua santità resta nascosta alle altre monache, meno sante di lei, finché un uomo, santo quanto la salè, non la riconosce. Le altre salai di cui resta memoria sono, invece, Onesima, Maria di Antiochia ed un'anonima salè citata nella Vita di Daniele lo Scetiota. Iniziamo dall’ultima: costei era una monaca ed era disprezzata

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dalle consorelle perché la ritenevano un'ubriacona. Ella infatti simulò l'ubriachezza fino a quando Daniele non se ne accorse per rivelazione divina e non la riabilitò di fronte alle altre. La “miracolosa” agnizione indusse la falsa ubriaca a rubare il bastone ed il mantello allo scetiota e poi a fuggire nel deserto. Può darsi, come ha sottolineato lo studioso Grosdidier de Matons, che il racconto sia ricalcato su quello della tabennisiota; comunque sia risulta utile il particolare relativo al furtarello che precede la fuga. Ladonna si impossessa degli oggetti necessari per travestirsi da uomo perché, volendo fuggire in lande isolate quanto bastasse per condurre un'esistenza eremitica, è ben consapevole che soltanto un'identità maschile avrebbe potuto rendere sicuro il suo isolamento. La tradizione agiografica antica -orientale ma anche latina - ha conosciuto l'esperienza delle sante travestite da uomo; valgano per tutti i nomi di Tecla, discepola di Paolo, di Teodora, Eugenia ed Eufrosina di Alessandria, di Marina di Antiochia, di Pelagia di Gerusalemme per quanto concerne specificatamente la tradizione grecofona, di Papula di Tours, di Ermelinda, di Bililda, di Doda e di Christina di Markyate per quanto invece concerne quella latina. Di Onesima "pazza per Cristo" ci parla infine un manoscritto databile a prima del 778: sappiamo che era una monaca, che fingeva di essere indemoniata e che le accaddero eventi assai simili a quelli vissuti dalle altre due salai.

Le figure femminili, a differenza di quelle maschili, sperimentano la"santa pazzia" all'interno di un monastero e se ciò accade per evidenti ragioni di sicurezza, dato che le donne non erano in grado di affrontare i pericoli di una vita randagia e al di fuori degli schemi della convenzione sociale come invece potevano fare gli uomini, implica che nel cenobio si riproponga la dimensione anacoretica attraverso la condizione di solitudine esistenziale assoluta che la salé vive. Del resto nei Detti dei Padri del deserto sta scritto: "Se vuoi fuggire gli uomini, hai solo questa alternativa: o vai in luogo solitario, oppure, non accettando il modo di essere del mondo e degli uomini, diventi stolto nel maggior numero delle tue azioni". L'eremitismo viene equiparato alla pazzia per Cristo poiché quest'ultima è una sorta di barriera immateriale ed estraniante frapposta tra il santo e il prossimo. Resta significativo il fatto che persino le comunità monastiche, in teoria ben più sante di quelle laiche, consentano di ricavare al loro interno uno spazio ulteriore della santità, che si pone al di là della Regola se non, in certa misura, al di sopra di essa.

L'unica salè che non sia una monaca e di cui rintracciamo il profilo è Maria di Antiochia ma ella, è bene chiarirlo subito, non vive da sola bensì in compagnia di un uomo. La sua memoria è stata affidata al calamo del noto intellettuale monofisita Giovanni di Efeso († 585), il compilatore delle Vite dei santi Orientali. Giovanni racconta che quando si trovava ad Amida (attuale Diyarbakir in Turchia) aveva incontrato due giovani di nome Teofilo

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e Maria; essi erano vestiti rispettivamente da mimo e da prostituta ed egli li notò mentre erano fermi sul sagrato di una chiesa, dove furono oltraggiati e derisi dalla folla fino al calar del sole, quando se ne andarono. Per intuizione divina Giovanni li volle seguire e, spiandoli, si accorse che nottetempo si disposero alla preghiera. Stupitosi li avvicinò e sotto giuramento di non svelare a nessuno la realtà ottenne che gli confidassero la propria storia: erano normali fidanzati in attesa di sposarsi quando conobbero Procopio da Roma, un mistico errante dedito al nascondimento che, tuttavia, videro splendere in maniera inspiegabile durante l'orazione. Allora Procopio capì che Teofilo e Maria erano due "eletti", in caso contrario, infatti, non avrebbero potuto scorgere i fasci di luce che emanavano da lui, perciò accettò di diventare la loro guida spirituale e li persuase a simulare un'esistenza contraria alla vera ricerca di perfezione: così era iniziata la loro santa avventura. Al di là del racconto dei fatti, Giovanni di Efeso attesta una dimensione inedita della "santa follia" perché chiarisce come esista una tecnica precipua, suscettibile di essere trasmessa dal maestro al discepolo. In altre parole il monofisita ci conforta del fatto che esiste una direzione spirituale specifica, riservata ad un gruppo élitario di carismatici che si riconoscono tra loro grazie a speciali segni divini ma che non sono, né debbono, essere riconosciuti dagli altri.

Nella già ricordata agiografia di Simeone salos recuperiamo informazioni assai utili a tale riguardo. Lo scrittore Leonzio sostiene che all'inizio della sua “carriera spirituale” Simeone viveva in compagnia del convertito Giovanni. Entrambi risiedevano nel deserto per purificarsi dai peccati e per superare i limiti delle “passioni” umane. Quando Simeone si sentì pronto sotto il profilo spirituale disse a Giovanni: "Allora, fratello, che vantaggio ci viene dal passare altro tempo in questo deserto? Se vuoi darmi ascolto dèstati, sì che possiamo andare a salvare anche altri. Qui infatti gioviamo solo a noi stessi e non c'è chi possa ricompensarci. Credimi, io non rimango: nel vigore di Cristo io vado via, a prendermi gioco del mondo". Giovanni, di rimando, gli rispose: "Io non sono ancora pervenuto a livello tale da poter fare altrettanto". Giovanni, insomma riconosce la superiorità spirituale dell’amico e anche quando sarà ormai diventato un eremita in concetto di santità continuerà a nutrire la medesima opinione nei confronti del “folle”, tant’è che gli invierà i monaci che non aveva saputo aiutare affinché egli li guidi sulla retta via di Dio. Simeone ha infatti ricevuto il dono della profezia ed è capace di comprendere le Scritture correttamente in quanto in lui è stata infusa la sapienza divina che non si può ottenere nè per volontà nè per applicazione, bensì unicamente per grazia. Resta esemplare l' episodio della Vita che ritrae Simeone intento a chiarire a due dotti monaci quale sia stata la terribile fine di Origene che "pure di tanta dottrina e sapienza era stato onorato da Dio". I due colti ecclesiastici correvano il pericolo di cadere

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nell'eresia, effetto della raffinatezza intellettuale provocata dalla frequentazione filosofica, ma vennero salvati da un uomo a prima vista pazzo perché comprendessero qual è la cifra dei rapporti tra Dio e mondo.

Nella Vita di Andrea salos di Costantinopoli, redatta da Niceforo prete di Santa Sofia in epoca tarda (X secolo) e seguendo molto da vicino l’agiografia dedicata a Simeone, rintracciamo dati analoghi, tutti concorrenti a esplicitare come la follia per Cristo sia veramente una qualità riservata ad una minoranza di eletti. Andrea ha un caro amico, di nome Epifanio che conosce perfettamente la scelta di Andrea di farsi “pazzo per Cristo”. Quando, però, accade che un servo di Epifanio cerchi di convincere Andrea affinché gli permetta di seguirlo e di condividerne le condizioni esistenziali, Andrea lo dissuade dal ricalcare le proprie orme sottolineando la valenza elitaria della santa follia.

Sin qui le analogie. Si deve comunque precisare che intercorre una differenza significativa tra l’idea di “follia per Cristo” che si affermò in Egitto e quella che, invece, si produsse in Siria. In Egitto il contesto matrice è quello delle esperienze cenobitiche, perciò finisce per prevalere l’aspetto del kruptos doulos (vivere nascostamente il servizio reso a Dio), mentre in Siria, dove il contesto generatore è quello dell’anacoretismo, la “santa pazzia” si contraddistingue soprattutto per essere il livello più alto di apàtheia che un asceta possa raggiungere. Non che decada l'idea di essere servitori nascosti del Signore, anzi essa si rinsalda in quanto la maschera del folle non ammette cadute, piuttosto ad essa si affianca la volontà di raggiungere uno stadio di totale assenza di sensibilità. Così mentre il salosegiziano è ancora perfettibile, il salos siriano ha già raggiunto l’acme dell’ascesi, in qualche misura egli è già perfetto, dunque intangibile dal peccato. Peraltro, sulla scorta della letteratura opportuna, non sarà ozioso aggiungere come anche il sufismo siriano, che del resto annovera tra i sufi Teofilo e Maria, contempli l’esistenza dei cosiddetti mala-matiyya, gli Amici di Dio, vale a dire quegli asceti nascosti e disprezzati dal mondo senza i quali però il mondo non potrebbe esistere.

In ogni caso tanto in Egitto quanto in Siria, era condivisa l’opinione che il folle per Cristo fosse un santo particolarmente santo, per così dire, perché aveva scelto la prova più ardua, il crogiuolo più infuocato: restar puro in mezzo all'impurità, portare Dio nel peccato senza venirne toccato. I saloiinfatti riescono ad avvicinare le “anime perdute” che, di norma, sfuggono all’evangelizzazione condotta secondo i sistemi canonici. Il santo assume atteggiamenti scandalosi, ricerca situazioni promiscue ed ambigue perché è consapevole di condurre oramai un'esistenza angelica: egli ha superato le barriere della vulnerabilità spirituale, perciò può permettersi di immergersi nel peccato per ricondurre a Cristo le anime perdute. La simulazione della pazzia diventa quindi lo strumento principe dell’edificazione morale e di

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conversione a Cristo per gli ultimi tra gli ultimi. Fedeli al progetto di “reconquista” integrale delle “pecorelle smarrite”, i saloi stravolgono provocatoriamente l’opinione pubblica. Alcuni episodi dell’agiografia di Simeone sono esemplari. Per esempio sappiamo che, dopo essere stato nel deserto con Giovanni, dopo aver soggiornato per tre giorni a Gerusalemme, Simeone si diresse ad Emesa e volle inscenare un ingresso “trionfale” al contrario. Egli varcò le mura di Emesa trascinando un cane morto per la coda mentre bambini urlanti gli facevano corteo attorno strillando "eh, abbas moros! (pazzo)", dopodiché entrò nella chiesa principale dove lanciò noci addosso alle donne e contro le candele accese. Al termine di tutto quello scompiglio e ancora non pago per quanto aveva combinato, Simeone si fermò nel pronao della chiesa e lì distrusse sistematicamente tutti i banchetti dei pasticceri che vi erano stati sistemati. Chi assisté alle gesta del “folle” lo ritenne indemoniato, in realtà egli aveva compiuto azioni strettamente evangeliche, “punendo” sia il legalismo e la religiosità affettata, sia i mercanti nel Tempio. L’accusa della possessione è una costante nella vita dei saloi: il mondo accecato e reso pazzo dal diavolo vede l’intervento satanico dove invece c'è Dio. Del resto un santo come il salos non potrebbe esistere senza una società che accorda alla demonologia lo statuto di esistenza e che, di conseguenza, è pronta ad assumere come il reale sia il campo di battaglia in cui si misurano e si scontrano le entità angeliche e le entità sataniche. E’ proprio l’esistenza di uno spazio culturale e religioso del genere che giustifica la funzione sociale del salos, l’unico in grado dipenetrare là dove regna il demonio e restituire a Cristo le anime che Gli sono state sottratte.

Simeone provava per i posseduti una pietà "che superava i limiti di natura; li visitava spesso e si fingeva uno di loro; tale sua conversazione gli consentì di curarne molti con la preghiera, tanto che alcuni gli dicevano nell'invasamento:- Che violenza, folle! Metti in burla il mondo intero e proprio noi vieni a molestare?". Niceforo invece scrive che il maligno aggredì Andrea dicendogli : "- Andrea, mi fai torto. Per l'irremovibile maestà del trono celeste, mi tratti crudelmente (...). Astieniti da coloro che a motivo dei loro peccati sono a me sottoposti e non esortarli a fuggire quella mia illegalità che loro è tanto cara. Non sai che già hanno Mosè e gli altri profeti? Che li ascoltino. Hanno i Vangeli, Paolo, le vite dei santi da ascoltare". Simeone, poi, si adopera coscienziosamente affinché la propria reputazione di indemoniato non venga scalfita, ecco dunque che appare rincorso dalle ragazzine per strada, è immortalato dall’agiografo mentre pratica una maga o sta tra le prostitute. Ognuna di queste azioni cela un secondo, santo fine, evidente soltanto per chi riesce a conoscerlo grazie alla misericordia divina: le ragazzine inseguono il "folle" perché le aveva rese tutte strabiche dopo averle viste peccare, l'indovina viene controllata e resa

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incapace di nuocere da lui, le meretrici sono in verità tutte donne convertite grazie a lui. Comunque il salos, se lo ritiene opportuno oppure se vi è costretto dall’intervento divino, si manifesta realmente smettendo di nascondersi dietro a quei giochi, quelle provocazioni e quelle eccentricità che causano lo sconcerto e addirittura la violenza di chi li osserva. A proposito di reazioni è opportuno sottolineare come tra i due saloi più famosi, Simeone ed Andrea, sussista una grande differenza: se Simeone non ricerca mai la percossa gratuita e, piuttosto, l'accetta come conseguenza inevitabile delle proprie stravaganze, Andrea sembra la vittima immolata: tutti lo battono senza ragione e il suo agiografo si dilunga nel descrivere la cattiveria di chi infierisce su di lui fino ad introdurre situazioni al limite del verosimile. Eppure Andrea è ben più mite di Simeone e quasi ragionevole, non rimprovera se non i peccatori, non si caccia in situazioni imbarazzanti sua sponte e non assume atteggiamenti né provocatori né blasfemi. Se, poi, Simeone appare veramente libero anche dalla chiesa, Andrea invece si mostra assai meno lontano dalle istituzioni. Tale diversità tra i due personaggi si spiega considerando che Niceforo compone la storia del salosretrodatandola: pur se si presenta come contemporaneo agli eventi, egli è attivo tra IX e X secolo, mentre Andrea era vissuto nel VI. Perciò Niceforo adatta al suo pubblico la pazzia di Andrea, desiderando che il santo sia accettato come tale si adopera in ogni modo per evitare l'impressione che il soggetto in questione sia solo un individuo bizzarro ed eccentrico. La scrittura di Niceforo dimostra con ogni evidenza quanto i tempi ed i luoghi siano mutati. Niceforo, prete di Santa Sofia, intellettuale attivo nella Nuova Roma dei fasti imperiali e del conformismo religioso, si rivolge ad un pubblico che attiene ad un universo culturale del tutto altro rispetto a quello egiziano o siriaco di quattro secoli prima. Ecco dunque che diventa necessario giustificare le eccentricità del salos: segno evidente della frattura culturale che si è verificata tra la contemporaneità di Niceforo e i pregressi carismatici di quelle società cristiane che avevano sperimentato prima il dissenso religioso (dal monofisismo al monotelismo) e dopo l'islamizzazione e che, oramai, si situavano poco più che ai margini della pur autocefalica ecumene cristiana grecofona. Tutto questo, infine, lungi dal cancellare l'eperienza della "follia per Cristo", l'avrebbe cristallizzata nelle forme paradigmatiche del modello assicurandole, così, un futuro ed uno sviluppo multiforme e differenziato, dalla Rus' tardo medievale all'Europa latina, dove avrebbe conosciuto sorti parallele e strettamente dipendenti dai contesti di riferimenti.

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CONSCIENTIA & MARTIRYUM

“Ogni tempo ha i suoi martiri”

(Sant’Agostino Serm. 94/A, 2)

Dopo undici mesi dall'inizio delle proteste, le immagini che provengono dallacittà sempre più simbolo della lotta contro il regime, sono atroci e devastanti.Bimbi con il cranio sfondato, donne sventrate e mutilate, piccoli cadaveritrasformati in maschere sanguinolente, con il volto, le braccia e le gambeperforati da proiettili. Come se qualcuno avesse deciso di spingersi oltre ilsistematico assassinio di massa, inscenando poi un macabro tiro a segno.

Homs, la città martire della Siria

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Virginio RognoniPresidente del Centro di Cultura Giancarlo Puecher

Thomas More e Giancarlo Puecher: passano i secoli ma il martirio forma più alta di testimonianza autentica rimane sempre un esempio trascinante invece di parole vacue e di precarie impressioni, ecco perchè pubblichiamo la nota che segue.

GIANCARLO PUECHER RIVIVE NELLA STORIA

Settanta anni. Lo spazio di più di tre generazioni. Un tempo sufficientemente lungo per dimenticare ma anche per entrare nella Storia. E’

il destino di Giancarlo Puecher, un nome simbolo della reclamata liberta e dell’impegno per il rinnovamento civile a quanti hanno vissuto anni e orrori nella seconda guerra mondiale. Puecher è la prima medaglia d’oro della Resistenza, ucciso ad Erba, in una notte natalizia del 1943, a soli vent’anni, colpevole di essere partigiano.Sangue di italiano versato da italiani travolti da una scelta tragica. Stare da una parte oppure dall’altra. Ma chi poteva rischiare in quei giorni sulla giusta decisione? Il giovane Giancarlo non aveva avuto dubbi. La Patria autentica era rappresentata dall’Italia delle legittime istituzioni, dinastiche e militari; non poteva identificarsi in un nuovo Stato che privilegiava un’alleanza estranea alla volontà popolare. Non poteva lasciarsi travolgere dalla ignavia della maggioranza: la purezza dei sentimenti, forgiati dall’educazione

familiare e dalla formazione religiosa, escludeva dal suo animo qualsiasi forma di vigliaccheria, indifferenza o attendismo. In una pagina del suo diario e rintracciabile questo brano: "Ricordati che la vita non e una gioia né un dolore. E un dovere da compiere". E in una lettera cosi si esprimeva: "Noi sapremo anche ricostruire le cose libere da tutte quelle contraddizioni e da tutte quelle imposizioni che ci sono state imposte da un ventennio tirannico". Due frasi lapidarie che caratterizzano una coscienza di alta finezza etica.

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Cristiano e partigiano, pur in età verde e privo di supporto politico, il Puecher aveva saputo fare una scelta di fondo senza ombra di dubbi o di tentennamenti. Scelta peraltro difficile per un adolescente che aveva sempre vissuto nella tranquillità di una famiglia borghese e benestante, che subiva, senza aderirvi, il regime del tempo e quando le sorti della guerra erano chiaramente compromesse criticava in silenzio l’avventura mussoliniana. Una situazione molto diffusa in Italia. Il padre Giorgio - finito poi nel campo di concentramento di Fossoli e quindi inviato a Mauthausen dove si spense alla vigilia della liberazione - era presidente dell’ordine dei notai e lui stesso professionista di consolidata fama, ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. A scuola Giancarlo studiava con serietà, in famiglia si comportava da bravo tiglio, con gli amici si divertiva e andava in vacanza. Raramente parlava di politica: l’osservanza dei doveri era pratica normale e coerente, l’idea di Patria conteneva il massimo dei suoi pensieri. Una esistenza normale, quindi, almeno fino all’8 settembre 1943 - l’armistizio con gli Angloamericani - allorché la situazione doveva cambiare radicalmente in seguito al trapasso delle alleanze: i tedeschi da cobelligeranti diventavano nemici. E ogni giovane si trovava davanti a un bivio. Giancarlo sapeva intuire la strada giusta e si faceva capo di un raggruppamento di patrioti.

Niente, se non la propria coscienza, gli imponeva di rischiare il proprio futuro entrando nell’area partigiana e diventando clandestino. All’inizio la scelta faceva parte quasi di un gioco dettato dal suo noto spirito sportivo, poi le responsabilità andavano moltiplicandosi: selezionare e formare i quadri dei compagni di avventura, aiutare i prigionieri alleati in fuga, studiare e attuare piccole azioni di sabotaggio. Il suo programma era ben definito secondo categorici obiettivi. Mai spargere sangue innocente, mai ricorrere a gratuite violenze. Una linea cavalleresca ribadita, per esempio, nella prima azione partigiana: l’esproprio di alcuni bidoni di benzina custoditi in un albergo frequentato da fascisti, un episodio circoscritto ma destinato a rappresentare il più forte motivo dell’accusa nel processo-farsa precedente la fucilazione.

Per inquadrare bene l’intera vicenda del nostro patriota occorre risalire al momento del suo arresto. La svolta avveniva il 12 novembre, poco più di due mesi dopo la decisione di scendere in campo da partigiano. In quella brumosa e fredda serata due giovani scendevano in bicicletta da Canzo a Erba, tra strade deserte nella silenziosa campagna. Erano diretti verso la città brianzola con l’intento di compiervi un attentato dimostrativo, una bomba di lieve potenza da collocare sotto l’abitazione del Podestà: la deflagrazione avrebbe svegliato la gente che avrebbe trovato nelle zone circostanti manifestini invitanti a scuotersi dall’oppressione nazifascista. Un piano semplice, in apparenza facile, quasi infantile. Muoversi durante le ore buie,

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tuttavia, era alquanto pericoloso in particolare dopo un fatto di sangue. Nel pomeriggio infatti mani ignote avevano eliminato due esponenti del fascio locale ed i repubblichini avevano intensificato rastrellamenti e posti di blocco. Ma i due non lo sapevano, essendosi trattenuti fuori paese per l’intera giornata. Cosi Giancarlo e l’amico Franco Fucci - 23 anni, ufficiale degli alpini alla macchia per non servire l’esercito di Salo - incappavano nella rete. Una pattuglia di militi fascisti li bloccava davanti alle prime case del paese.

Costretti a smontare dalla bici, Fucci tentava una reazione spianando la pistola, ma l’arma gli si inceppava; non sbagliava invece il colpo uno dei brigatisti e lo feriva gravemente all’addome; trasportato in ospedale riuscirà a guarire, quindi passava in carcere un anno e mezzo senza subire guai peggiori. Al contrario, Giancarlo Puecher veniva condotto in caserma e affidato ai carabinieri di Como: durante i suoi quaranta giorni di detenzione gli si presentavano diverse occasioni per fuggire, non essendo considerato pericoloso, ma per un senso di correttezza nei confronti dei suoi custodi e del padre Giorgio, a sua volta arrestato, preferiva evitare ritorsioni su altri. Con tutta probabilità l’avrebbero liberato a breve distanza di tempo, ma un altro omicidio politico sconvolgeva il territorio di Erba: l’assassinio di un noto squadrista locale, la guardia comunale Germano Frigerio detto "Bécall", che stava recandosi a Milano per partecipare ai funerali del federale Aldo Resega ucciso il 18 dicembre in via Bronzetti da tre gappisti, riusciti poi a far perdere ogni traccia. La rabbia montava. L’ordine delle autorità fasciste era immediato e categorico: Rappresaglia! Prelevati cinque detenuti politici, tra cui appunto il Puecher, si organizzava su due piedi un processo con la finalità di dare una punizione "esemplare". Fucilazione per tutti. In sostanza era una messinscena giudiziaria nella quale si miscelavano accuse false, clamorose irregolarità procedurali, contraddizioni lampanti. I difensori di ufficio tentavano l’impossibile per ammorbidire i preconcetti della corte militare riuscendo a ridurre il numero delle esecuzioni, da cinque a quattro, poi a tre, due, e infine una. Un capro espiatorio doveva pure esserci, e veniva scelto proprio il più giovane. Giancarlo Puecher. Gli accordavano appena il tempo di stendere sulla carta qualche riflessione, ottenere l’assistenza spirituale di un cappellano e di comunicarsi.

Nella celeberrima lettera-testamento scritta frettolosamente a sentenza deliberata, Giancarlo mostrava una eccezionale forza d’animo. Perdonava tutti dichiarandosi innocente per le accuse subite e colpevole soltanto per aver “amato intensamente la patria e la liberta”. Non dava segni di panico e affrontava con estrema dignità gli ultimi momenti. Prima di lasciarsi condurre davanti al muro di cinta del nuovo cimitero di Erba per la fucilazione, egli chiedeva di stringere la mano ai soldati del plotone assicurando che avrebbe pregato anche per loro che si facevano strumento di

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morte. In quella gelida notte dicembrina riusciva a gridare il suo "viva l’Italia" prima di cadere travolto dalla raffica.

Resta perenne il ricordo di questo giovanissimo martire. "Ma e davvero servita a qualcosa il suo sacrificio‘?", si chiedeva una stretta parente di Giancarlo. No, il suo sacrificio non è stato inutile. Anzitutto un’intera generazione di patrioti si è legata al suo nome traendone ispirazione per molti gruppi combattenti di diversa e a volte opposta ispirazione politica. E va segnalato che, apprendendo le circostanze della dolorosa morte di Giancarlo, un’altra grande figura della Resistenza - Teresio Olivelli, mitico comandante partigiano candidato alla beatificazione - ne traeva spunto per comporre quella magnifica testimonianza di non violenza che è costituita dalla preghiera dei "ribelli per amore". In seguito, per onorarne la memoria, si sono sviluppate tante altre iniziative sociali e culturali. A sua volta, scrivendo di Giancarlo, Davide Maria Turoldo ne valorizzava la condizione da uomo di fede: “C’e sempre qualcuno da liberare, c’e sempre da donare, c’e sempre la vita che va giocata per l’umanità e per la venuta del Regno”.

Il sacrificio di Puecher costituisce davvero qualcosa di sublime. La storica fondatrice dell’istituto nazionale del movimento di liberazione“Bianca Ceva” laica convinta lo definiva con appassionata ammirazione e con efficace sintesi: uomo di raffinata civiltà. Non a caso persino il capo storico dell’antifascismo e primo presidente dell’Italia liberata, l’azionista Ferruccio Parri, annotava che la scomparsa di giovani forti e capaci della sua tempra avevano privato l’Italia del dopoguerra di una potenziale classe dirigente di altissime livello.

Ecco l’intimo valore di una Resistenza vissuta con il supporto dellospirito. Sotto il profilo prettamente umano, poi, questo giovane eroe ci ha offerto un insegnamento preciso, spiegandoci che la vita impone scelte che debbono superare le preoccupazioni contingenti e personali, e nello stesso tempo dimostrandoci come sia importante saper bene morire. A prima vista sembrerebbe un paradosso, ma non lo è per gente di fede che sa assumersi le proprie responsabilità di fronte al mondo. Per tutti questi motivi, in definitiva, ancora oggi il ricordo di Giancarlo Puecher resta chiaro ed esaltante, consegnato alla Storia.

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UTOPIA: NOTIZIE DA NESSUN LUOGO

“L'utopia non fa se non rendere concreto e plastico, l'anelito antichissimo e diffuso a una vita migliore”

Alberto Savinio

Amauroto capitale di Utopia, litografia di Elio Giuseppe Donati, 1980

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Giuseppe Gangale

Alle origini dell’Utopia moreanaL’auspicio di una regalità secondo giustizia in un panegirico reale

Quando Thomas More si appresta a scrivere il suo De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus (Sull’ottima forma dello stato e sulla nuova isola di Utopia libretto veramente aureo e non meno utile che piacevole), l’idea del «mundus novus», intuito ed elaborato da Amerigo Vespucci, era ormai consolidata. Non è irrilevante, perciò, chiedersi se il fenomeno delle scoperte geografiche abbia influito sulla formazione letteraria di Thomas More.

Lo sfondo culturale che fa da cornice al racconto di Utopia prende le mosse dalle recenti esperienze dei viaggi di Amerigo Vespucci. Il racconto e la descrizione dell’isola sono affidate a Raffaele Itlodeo (in greco “racconta frottole), un marinaio portoghese che ha viaggiato molto, «come Ulisse [...] o Platone». Costui è un marinaio-filosofo, uno che conosce il latino e il greco e che ha letto gli autori classici; dopo aver accompagnato Amerigo Vespucci nei primi suoi tre viaggi nel Nuovo Mondo, ha poi attraversato con alcuni compagni diverse contrade e da Taprobana (Ceylon) è giunto fino a

Enrico VIII (Robert Shaw) e Thomas More (Paul Scofield) nel film A man for All Seasons di Fred Zinnemann del 1966

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Calicuta (Calcutta), e di là, trovate felicemente delle navi portoghesi, venne alla fine ricondotto in patria in modo affatto insperato1

Il fatto che il suo capolavoro letterario inizi nel nome di Vespucci spinge a riflettere sulla validità ermeneutica del concetto del «mondo nuovo», seppur letto in chiave letteraria. Probabilmente la conoscenza di Moro dei viaggi di Vespucci poggia certamente sulla mediazione del geografo lorenese Martin Waldseemüller, che aveva tradotto in latino la Lettera delle isole nuovamente trovate, datata da Lisbona il 4 settembre 1504, nella quale il navigatore narrava succintamente a Pietro Soderini le vicende di quattro suoi viaggi, inclusa poi nella Cosmographiae Introductio del 1507; ancora prima l’umanista inglese avrebbe potuto certamente leggere il Mundus novus, (1503-04), opuscolo dalla immensa fortuna editoriale, allungandosi fino al 1506-1507, quando vengono pubblicate le versioni italiana e latina dell’altro celebre opuscolo chiamato Quator Navigationes

.

2

La tirannide è la preoccupazione costante nella vita e nel pensiero di Thomas More. E’ un argomento che egli fa suo sin dai suoi primi studi di prosa greca, il tema di numerose sue poesie in latino, l’argomento del Riccardo III e l’anti-argomento dell’Utopia. Circa la sua avversione per la tirannide e il suo amore per l’uguaglianza Erasmo scrisse che «dalla Corte, e dalla dimestichezza con i principi, non si sentiva molto attratto. E indubbiamente è ben difficile trovare una corte, per quanto modesta, che non sia piena di frastuono e di ambizioni, di ipocrisia e di dissolutezza, e vada del tutto esente da ogni ombra di tirannide»

.Di fatto, l’una afferma e l’altra conferma la consapevolezza che avrebbe

avuto Vespucci di avere raggiunto un continente sconosciuto Con questo testo vespucciano e con il corollario del geografo lorenese, l’età moderna acquista la coscienza di aver compiuto un’impresa di fronte alla quale impallidiscono le più famose esplorazioni e scoperte dell’antichità.

Non poteva More, perciò, non essere influenzato dall’umus culturale che ne segue. Tuttavia se fenomeni esterni alla sua esperienza spirituale compaiono nella formazione dell’opera, dalla biografia moreana possiamo dedurre con certezza che altri sono i fattori che stanno all’origine dell’Utopia.

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Indubbiamente ogni tappa della vita politica di Thomas More fu una continua lotta per rendere consapevoli gli uomini che il dispotismo è la

.

1 The Complete Works of St. Thomas More, Utopia, Vol. 4, Edited by, Edward Surtz, S.J. and J. H. Hexter, Yale University Press, New Haven and London, 1965, p. 50; Thomas More, Utopia, a cura di Luigi Firpo, Guida Editori, Napoli 1979, p. 113.2 Cf. L. Firpo, Colombo, Vespucci, Verazzano, UTET, Torino 1965, p. 95-126.3 Allen, IV, 999, p. 15. Desiderio Erasmo da Rotterdam al nobile cavaliere Ulrich von Hutten,Anversa 23 luglio 1519, trad. it. di Marialisa Bertagnoni, in Tommaso Moro, Preghiere della Torre, Morcelliana 1980, pp. 25-43.

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tentazione quotidiana di coloro che esercitano l’autorità, per impedirne il suo emergere e trovare il modo di reagire quando la tirannide si è affermata. Su quest’ultimo punto la posizione di More diverge da quella tradizionale, sebbene questo aspetto del suo pensiero si riesca a cogliere prendendo in esame l’intero corso della sua esistenza e non soltanto la sua fase finale.

L’esordio di Thomas alla vita politica del regno d’Inghilterra avviene precocemente all’età di ventisette anni, quando in qualità di burgess, cioè rappresentante parlamentare dei boroughs, ossia dei raggruppamenti di borgate che costituivano le circoscrizioni, viene eletto in Parlamento e partecipa alla sessione che si apre il 25 gennaio e termina il 30 marzo del 1504. Questa convocazione di cui More avrà la sfortuna di partecipare non si apre certo sotto buoni auspici.

Erano gli ultimi anni del regno di Enrico VII e il Re valendosi di un diritto conforme alle antiche consuetudini sollecitò una pubblica esazione di circa trentamila sterline, motivandola con le spese per il matrimonio della figlia maggiore che doveva diventare regina di Scozia.

Risulta chiaro dagli Annali che la richiesta del Re non trovò favorevole il Parlamento e che alla fine Enrico dovette ripiegare su una contribuzione molto minore. Secondo Roper il principale responsabile del mancato accoglimento della richiesta in prima istanza era stato Tommaso Moro.«Questi vi si oppose con un’argomentazione così motivata e stringente che le richieste del Re furono irrimediabilmente respinte». Non sappiamo quali furono le motivazioni che Thomas addusse per respingere la richiesta del sovrano, benchè dovettero sembrare al consesso degli eletti così giuste e persuasive da convincere il Parlamento sulla necessità di non accordare la richiesta di una contribuzione così onerosa. Non è escluso che molta della forza di persuasione traspariva dalla sua giovane personalità e, soprattutto, dal coraggio che non gli mancò in quella circostanza di mettersi contro il Re pur di difendere un principio o un bene pubblico. Esordiva alla grande Thomas in Parlamento, quasi come una prefigurazione di ciò che sarebbe accaduto alla fine della sua vita.

Sicuramente non ignaro o incosciente di quello che avrebbe potuto rappresentare un gesto di opposizione al Re ben presto dovette aspettarsi lo sdegno del sovrano, «il quale vedendo che tutti i suoi piani erano stati frustrati da un ragazzo imberbe, non si diede pace fino a che non potè in qualche modo trarne vendetta. E visto che, nulla possedendo il giovane deputato, nulla poteva togliergli, architettò un’accusa insussistente contro suo padre e lo fece rinchiudere alla Torre esigendo per la sua scarcerazione

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un’ammenda di cento sterline»4

La collera del Re avrebbe avuto piena soddisfazione solo se il giovane avesse ammesso la sua colpa. E, se di lì a poco non fosse sopraggiunta la morte del Re, aveva già deciso di andarsene oltremare, perché riteneva che sarebbe stato molto pericoloso per lui vivere in Inghilterra

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In questo periodo More è pienamente convinto di vivere sotto un regime tirannico. Nel carme encomiastico scritto in occasione dell’incoronazione di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona, egli sottolinea che «questo giorno segna il termine della schiavitù, l’inizio della libertà, la fine della tristezza, la sorgente della gioia…le leggi hanno riacquistato autorità, la proprietà è ora salva, la gente non teme più i delatori, la tirannide non c’è più»

.

6

Ciò che More scrisse nel 1515, apparentemente in un tempo molto breve,durante le pause della sua lunga missione olandese

.E così di questo passo l’intera ode si sviluppa in questo alternarsi del

superamento del periodo buio e violento del regno di Enrico VII a favore di una nuova e felice condizione di vita per il popolo. Una condizione che ancora nessuno conosceva e che forse mai conoscerà, se non dai racconti di viaggio del navigatore Itlodeo.

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Indubbiamente quando Moro sbarca nella sua società ideale era pienamente a conoscenza dei mali della sua epoca e della sua nazione. Egli

, non può essere considerato semplicemente un “gioco letterario”, frutto di una ricreazione intellettuale: in esso More versò tutta la sua conoscenza e la sua esperienza di tredici anni di vita politica attiva, di cui sei, pur non facendo parte ancora della Corte, al servizio di Enrico VIII. Sono sicuramente sufficienti, ai fini della formazione di un pensiero politico e per meditare sulla condizione di iniquità dei regni e dei governi.

4 W. Roper, Lives of Saint Thomas More, Edited with an introduction by E. E. Reynolds, Everyman’s Library, London 1963, p. 4-5; W. ROPER, Vita di Sir Thomas More, trad. it. di Marialisa Bertagnoni e Loredana da Schio, Morcelliana, Brescia 1963, p. 22-23.5 Ivi.6 Epigram 19 in The Complete Works of St. Thomas More, Latin Poems, vol. 3 part 2, New Haven: Yale U. P., 1984, p. 100. Thomas More, Tutti gli Epigrammi, Prima versione integrale di Luigi Firpo e Luciano Paglialunga, Edizioni San Paolo, Milano 1994, p. 151.7 Chiamato a far parte (7 febbraio) della missione diplomatica inglese incaricata di negoziare nei Paesi Bassi il rinnovo dei patti commerciali, More figura fra i destinatari delle istruzioni regie (7 maggio). Partito da Londra il 12, insieme al segretario personale John Clement, giunge a Brugge il 17 e là, poco più tardi, rivede Erasmo. In settembre soggiorna ad Anversa presso Pieter Gilles, segretario della città, e in quello scenario colloca il dialogo del libro II di "Utopia", vergato appunto in quei mesi. Si tratta dei racconti di viaggio del navigatore Itlodeo (il racconta frottole) che viene presentato a More da Gilles all’uscita dalla messa. Sicchè siimmagina la prima parte del dialogo svolta nella mattinata, corrispondente al libro I. Dopo il pranzo il colloquio verrà ripreso nel libro II.

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aveva davanti a sè la situazione concreta dell’Inghilterra del suo tempo, dove leggi sempre più severe, finivano per creare un maggior disordine. Leggi che punivano il furto avevano come risultato di creare un numero sempre maggiore di ladri.

A questa ingiustizia di fondo se ne aggiungeva poi una particolare, quella perpetrata da alcuni che non riuscivano o non volevano anteporre l’interesse generale all’interesse particolare, vincendo una delle tendenze più radicate nell’uomo, l’egoismo.

I ricchi signori e padroni della terra per assicurarsi redditi ben superiori a quelli offerti dalla cerealicoltura avevano recintato in Inghilterra vaste estensioni di terre sino allora almeno in parte coltivate, per destinarle al pascolo e ricavarci lane pregiate per l’esportazione.

Le conseguenze di questo fenomeno erano ben note. Dove non si semina tutte le operazioni agricole si arrestano. Su terre dove in precedenza si dava lavoro a un paio di centinaia di contadini l’impiego di due o tre bovari e pastori era più che sufficiente. I prodotti dell’agricoltura venivano comprati altrove a basso prezzo, insieme al bestiame, per rivenderlo poi per grosse somme dopo averlo ingrassato sui loro pascoli.

Così per la sfrenata bramosia di pochi l’Inghilterra soffriva una carestia generalizzata che spingeva ognuno a licenziare quanto più servitori poteva«a cosa’altro, destinati, di grazia, se non a chiedere l’elemosina, oppure –ed è questo il partito che più volentieri abbracciano gli animi risoluti – adarsi al brigantaggio?»8

‹‹Che giustizia è mai questa che un nobile qualsiasi, un commerciante di danaro, un usuraio, un altro qualsiasi di quelli che non fanno nulla o, ciò che fanno, è di tal fatta che non è necessario gran che allo Stato, ottenga di vivere tra delicatezze e splendori; laddove intanto un manovale, un cocchiere, un falegname, un contadino, con un lavoro gravoso e ininterrotto, ma necessario, tanto che senza di esso neppure un anno potrebbe durare lo Stato, si procacciano tuttavia un vitto così stentato, menano una vita sì miserabile? (…) Ora, non è forse un’ingiustizia, che lo Stato ai cosiddetti nobili, ai mercanti di danaro e agli altri di tal fatta, sfaccendati, o piaggiatori soltanto, e inventori di vuoti diletti, sia prodigo di tanti doni; mentre invece a contadini, a carbonai, a manovali, a cocchieri e a fabbri, senza dei quali lo Stato non esisterebbe affatto, non provvede amorevolmente; ma dopo aver abusato, delle loro fatiche giovanili, quando ormai schiacciati dagli anni, immemore di tante veglie e dimentico di tanti e sì grandi servigi ricevuti, nella sua nera ingratitudine li ripaga con la morte più misera? Senza dire che, di ciò che ogni giorno è assegnato alla povera gente i ricchi, o con soperchierie di privati o addirittura a

.Moro, perciò, argomentava non partendo dall’analisi di principi astratti,

ma da quella di una situazione di fatto.

8 Utopia, The Complete Works of St. Thomas More, p. 68; Firpo, Utopia, p. 128.

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tenor di legge, estorcono qualcosa quotidianamente (…) Esaminando dunque e considerando questi Stati che oggi in qualche luogo si trovano, non mi si presenta altro, così Dio mi aiuti! che una congiura di ricchi, i quali, sotto nome e pretesto dello Stato, non si occupano che dei propri interessi››9

Dal contenuto dell’aureo libretto non si può dire che i sei anni di vita politica intercorsi dall’incoronazione di Enrico VIII alla stesura di Utopia abbiano suscitato in Moro sentimenti di speranza per le condizioni economiche e sociali del regno d’Inghilterra. Anzi, tutto dimostra che èquesto il periodo della sua vita in cui giunge alla piena maturazione della natura degli stati e della necessità, nonostante i mali inveterati di adoperarsi, perchè ‹‹anche se non è possibile sradicare del tutto le opinioni distorte, anche se non riesci a medicare secondo le tue vedute le piaghe di certi vizi, non per questo si deve abbandonare lo Stato, come non si abbandona una nave nella tempesta solo perchè non si possono imbrigliare i venti»

.

In questa triste considerazione non c’è la demonizzazione della politica, ma l’intensa sofferenza di un uomo di Stato (Moro assurgerà alle più alte cariche del Regno d’Inghilterra all’epoca dei Tudor) che acquista la piena consapevolezza della realtà. Solo se si conosce la piaga è possibile curarla, ma ad un simile stato di cose non è pensabile di rimediare con delle mezze misure, poiché mentre si cerca di curare un membro del corpo, si irrita la piaga di un altro, e dal rimedio per uno ha origine la malattia di un altro.

Si tratta, allora, di pensare e di creare un uomo nuovo, diverso, nelle sue aspirazioni e nelle sue istituzioni, da quello che sin allora aveva dominato. Proprio per questo Moro presentò la sua idea come un’Utopia: una scommessa sull’uomo che ogni Stato dovrebbe far propria, un modello di vita verso il quale ogni società dovrebbe tendere, senza, probabilmente, mai riuscire a realizzarlo pienamente.

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9 Ivi, p. 238-240; p. 311-312.10 Ivi, p. 98; p. 153.

.Il Carme, allora, nella sua forma letteraria di panegirico reale, attraverso

l’esaltazione dell’avvento di una regalità splendente intende rappresentare in realtà l’auspicio di una regalità secondo giustizia, quella che il popolo attendeva dopo un lungo periodo di predominio e di prevaricazione e, in quanto tale, il primo esercizio letterario sull’Utopia.

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Carme encomiastico scritto da Thomas More londinese in occasione dell’incoronazione di Enrico VIII nobilissimo e fortunatissimo re delle Isole Britanniche e di Caterina sua felicissima Regina11

Se mai ci fu un giorno, se mai ci fu un tempo, Inghilterra, perché tu rendessi grazie alla divinità, questo è quel giorno da contrassegnare con una candida pietruzza, giorno davvero felice da annoverare tra le tue festività. Questo giorno segna il termine della schiavitù, l'inizio della libertà, la fine dellatristezza, la sorgente della gioia; esso infatti consacra un giovane che è lo splendore imperituro del nostro secolo e lo designa come tuo re, degno di governare non semplicemente un singolo popolo, ma, di reggere, lui solo, il mondo intero, di tergere le lacrime di noi tutti e di cambiare in gioia la nostralunga angoscia. Ogni cuore si rallegra sciolto dalle angustie, come il giorno risplende, dissipate le nubi. Ora il popolo libero corre incontro al re con volto sereno, a stento riuscendo a contenere la propria felicità: gioisce,esulta, applaude e giubila per avere un così grande re, né altro viene scanditoall'unisono se non: <<Il re!>>. La nobiltà, già da lungo tempo sottomessaalla feccia del volgo, la nobiltà da troppo tempo parola vana, ora solleva il capo, ora esulta per un re così generoso, ed ha le sue buone ragioni per rallegrarsi. Il mercante che in passato era tenuto lontano dalla sua attività dalle tasse di ogni tipo, ora solca di nuovo con la nave le acque insolite del mare. Le leggi, prive un tempo di valore, anzi costrette a nuocere, ora godono di aver recuperato il loro vigore. Tutti sono ugualmente partecipi della gioia e ugualmente compensano tutte le perdite passate con i vantaggi futuri. Ecco, ognuno ha il coraggio e si compiace di mettere in mostra le proprie sostanze, che per paura teneva nascoste in passato nel buio di un nascondiglio. Ecco, c'è soddisfazione per ogni provento che sia riuscito a sfuggire alle molte scaltre e adunche mani dei numerosi ladri. Non è più un delitto (prima lo era e grande) possedere ricchezze acquisite senza alcun inganno. La paura non fa sussurrare segreti nell'orecchio di un altro: nessunoha nulla da tacere, nulla da sussurrare. Che piacere adesso non tenere in alcun conto le spie. Nessuno teme delazioni se non colui che prima era stato delatore. La gente si raduna senza distinzione di età, sesso e classe sociale enon c'è motivo che alcuno si trattenga in casa e non sia presente al momentoin cui il re, dopo il rito sacro, assume con buoni auspici la coronad'Inghilterra. Ovunque egli passa, la folla, ammassata per la smania di vedere, lascia aperto, a mala pena, uno stretto passaggio. Si riempiono le

.

11 Epigramma 19 in Thomas More, Tutti gli Epigrammi, cit., p. 150-165. Enrico VIII e sua moglie Caterina vennero incoronati nell’Abbazia di Westminster domenica 24 giugno 1509. Il28 giugno Enrico avrebbe compiuto diciott’anni.

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case, i tetti non ce la fanno più per il peso della gente; da ogni parte si levaun clamore di rinnovata dimostrazione d'affetto. E la gente non si accontentadi averlo visto una sola volta, ma nella speranza di rivederlo altrove, cambiadi posto continuamente. Tre volte si diletta di ammirarlo, e perché non avrebbe dovuto provar piacere a contemplare la persona più amabile che la natura ha plasmato? Tra mille nobili del seguito egli sovrasta tutti e la sua gagliardia è degna della regale persona. La mano è tanto agile quanto il suo cuore è valoroso, sia che risolva una disputa con la spada sguainata o, si getti in una mischia focosa protendendo la lancia, o scocchi una freccia per colpire il bersaglio. I suoi occhi hanno bagliori di fuoco, la Bellezza splende sul suo volto e il colorito delle sue guance è simile a quello di due rosegemelle. Infatti quel viso, che si impone al rispetto per vivacità e fierezza,potrebbe appartenere ad una fanciulla, appartenere ad un uomo. Così era Achille, quando si finse ninfa, così quando trascinò Ettore con i destrieritèssali. O se la natura permettesse che insieme con il corpo, fosse resovisibile anche l'eccellente valore della sua mente! Ma, anche dallo stessovolto traspare la sua virtù; il suo aspetto è un chiaro segno della sua bontà edella saggezza matura che dimora nella sua mente assennata, della calma profonda del suo animo imperturbabile, dello spirito con cui sopporta la sorte e ne controlla il buono o cattivo esito, della grande cura del proprio riserbo e pudore. Com'è serena la clemenza che infervora il suo animo mite e com'è lontana dalla sua mente l'arroganza! La nobile persona del nostro principe dimostra quelle ben note qualità, inconfutabili. Ma la sua giustizia,l'abilita che ha nell'arte di regnare, il senso del dovere verso il suo popolosono doti facilmente evidenziate dai nostri stessi volti e possono essere visibili dagli stessi beni che godiamo. La nostra attuale condizione, la riconquista della libertà e la fine della paura, del danno, dei pericoli, del dolore, il ritorno della pace, degli agi, della gioia, del sorriso, questo davvero dimostra l'eccellenza del nostro augusto principe. Un potere illimitato è solito logorare le buone disposizioni e questo anche nei sommamente dotati. Ma per quanto egli fosse in precedenza coscienzioso, la corona gli ha conferito non di meno un comportamento adeguato al suo ruolo, poiché haadottato, subito nel suo primo giorno, quei provvedimenti di cui pochi regnanti sono capaci solo nella loro tarda età. Si affrettò ad arrestare ed imprigionare chiunque aveva danneggiato il regno mediante complotti. Chi era stato delatore venne legato con strette catene, perché egli stesso soffrissele pene causate a molti altri. Il principe aprì il mare ai commerci e alleggerì idazi troppo gravosi richiesti prima ai mercanti. La nobiltà a lungo avvilita ottenne subito al primo giorno le antiche prerogative. Egli ora conferisce in dono agli onesti le magistrature e le cariche pubbliche che uomini corrotti di solito compravano. E mutate le circostanze in meglio, persone colte ora ricevono quei privilegi che una volta erano appannaggio di persone

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ignoranti. Alle leggi decisamente impresse la pristina forza e dignità (in effetti la loro decadenza avrebbe sovvertito il regno). E mentre prima ogni classe sociale perdeva le sue connotazioni, subito ogni classe è statarestituita a se stessa. E che dire se, per benevolenza verso il popolo, decise di abrogare alcune clausole, che tuttavia egli ben conosceva essere state graditeal padre? Egli al padre antepose la patria, e così doveva essere. Né mi sorprende: quale progetto infatti non sarebbe in grado di attuare un cosìvalente principe, il cui talento naturale è stato perfezionato dagli studi liberali e che le nove Sorelle hanno lavato alla fonte Castalia e la Filosofia ha imbevuto dei suoi precetti? Tutto il popolo, sotto molti titoli, era debito re al re, e questo costituiva uno svantaggio che esso in modo particolaretemeva. Ma il nostro re, pur potendo incutere paura da questa sua posizione,e quindi ammassare ingenti ricchezze a suo piacimento, condonò le cauzioni di tutti, rassicurò tutti, fugando ogni preoccupazione dovuta ad eccessivotimore. Di conseguenza, mentre altri re sono stati temuti dai loro sudditi, questo re è amato, dal momento che ora, grazie a lui non c'è alcun motivo di temere.O principe, che incuti timori nei tuoi superbi nemici, o principe, che non incuti timore nel tuo popolo! Quelli ti temono, noi ti veneriamo, ti amiamo.Il nostro amore per te sarà il motivo del loro timore. E così, licenziate le guardie del corpo, la devozione degli uni e il timore degli altri ti accompagneranno ovunque tranquillo e ben protetto. Nessuno teme le guerre oltre confine, se la Francia si alleasse con la Scozia, purchè l'Inghilterra sia tutta unita; le lotte intestine non ci saranno: per quali ragioni o cause dovrebbero sorgere? Prima di tutto non c'è alcun conflitto, né ci può esseresul tuo diritto e titolo alla corona, dal momento che tu da solo rappresenti entrambe le parti che di solito vengono a lite, lite che la nobiltà dei tuoi genitori ha già appianato. Ed ancora più remota da te è l'ira del popolo che,sacrilega, è fonte costante di disordini civili. Sei tanto caro a tutti i tuoi sudditi, che nessuno potrebbe essere più caro a se stesso. E se per caso l'ira dovesse associare potenti condottieri, un tuo cenno immediatamente la estinguerà, si grande è la venerazione per la sacra maestà che i tuoi meriti hanno giustamente concorso a creare. E quegli stessi meriti che ebbero i tuoi padri sono anche tuoi, insuperati nei tempi passati. Tu hai, infatti, o principe,la saggezza di tuo padre, tu hai l'amorevole forza cortese di tua madre, tu hai l'animo, l'animo religioso della tua nonna paterna, tu hai il nobile cuore del tuo nonno materno. Qual meraviglia, quindi, se l'Inghilterra esulta in modo straordinario, dal momento che essa ha un re come mai aveva avuto prima? E che dire di questa esultanza, che sembrava la più grande possibile e che invece è stata accresciuta dal tuo matrimonio? Sono state le benigne potenzea consigliarlo e a prendersi cura con esso di te e dei tuoi. Il popolo è lieto di vedere che condivide con te lo scettro la tua consorte. I celesti numi l'hanno

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in così grande considerazione da favorirla e onorarla del tuo talamo nuziale.Ella è così eccelsa da superare in affetto le antiche sabine, in dignità le sacresemidee, uguagliare il puro amore di Alcesti, e superare l'energica saggezza di Tanaquilla. Nel suo modo di esprimersi, nel suo contegno, c'è un'ammirevole grazia che solo a lei, così insigne e così grande, si addice. Nella parola è così suadente da superare Cornelia, ed è come Penelope nella fedeltà coniugale. Ella, principe, votata a te da molti anni, in lunga attesa rimase sola per amor tuo; né sua sorella, né la patria riuscirono a farla desistere, né la madre o il padre la dissuasero: te solo preferì alla madre, te alla sorella, te preferì alla patria e al caro padre. Questa fortunata sovrana per te ha unito in indissolubile alleanza due nazioni, ambedue potenti. Ella, discendente da grandi re, sarà genitrice di re per niente inferiori ai suoiantenati. Finora una sola ancòra, abbastanza salda in verità, ma soltanto una, ha protetto la nave del tuo regno; la tua regina invece, feconda di prole virile, la renderà stabile e durevole in ogni sua parte. Innumerevoli vantaggiprovengono a lei da te, ed altrettanti ne derivano a te da parte sua.Certamente non ci fu altra donna degna d'aver te come marito, né altro uomo degno d'aver lei come moglie. O Inghilterra! porta incenso e, offerta più valida di ogni incenso, cuori leali e mani innocenti, perché come gli dei superi hanno unito questo matrimonio, così l’assecondino, e lo scettro che èstato affidato sia sostenuto dal favore celeste e queste corone, da essi portate a lungo, alla fine possa portarle anche il figlio del loro figlio, e poi il nipote.

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Roberto F. Ghisu

DA UTOPIA A KIRGHISIA

Dal capolavoro di Tommaso Moro all'opera di Silvano Agosti

Quando ho per la prima volta incontrato il pensiero libero di Silvano Agosti1

“...basta saper immaginare un'isola, perché quest'isola cominci realmente ad esistere” è l'incipit del libro dell'eclettico artista bresciano, conosciuto forse più per la sua opera cinematografica che non per quella narrativa o poetica. E questa frase sembra mutuata da Danilo Dolci che dice “lasperanza viene da un certo tipo di esperienza, bisogna agire in modo illuminato, bisogna non confondere l’illusione con la speranza. Saper sperare, saper sperare insieme vuol dire creare progetti che sono indispensabili, perché non soltanto si procede spingendo i passi, ma si procede pure nella misura in cui siamo in grado di aspirare”

mi è subito venuto in mente che la sua Kirghisia avesse più di una analogia con l'Utopia del nostro Santo. Facendo dunque le debite proporzioni mi sembra possa essere assai stimolante proporre degli spunti per una (ri)lettura del libro Lettere dalla Kirghisia di Agosti alla luce di questo parallelo.

2. Ma mi sembra evidente come questi grandi pensatori contemporanei siano debitori più o meno consapevoli a Tommaso Moro che non casualmente vive durante il periodo rinascimentale3

A ben vedere però l’Utopia di Tommaso è solo un punto di partenza (o di arrivo, a seconda della prospettiva adottata) per le Lettere dalla Kirghisia.

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1 (Regista, scrittore e poeta, Brescia 1938) sceglie di restare fuori dai circuiti del cinema industriale di stampo americano. E’ autore stimato da Tarkoskji, Antonioni, Fellini e Pasolini. Vive per anni in Francia e in Germania, svolgendo i lavori più umili fino alla scelta di partire per visitare a piedi tutto il Medio Oriente e l’Africa del nord. Nel 1962 si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e nel 1967 esordisce col lungometraggio "Il giardino delle delizie", dopo aver lavorato con Marco Bellocchio alla sceneggiatura, i dialoghi, il montaggio de "I pugni in tasca". Intorno agli anni '80 inizia la sua attività letteraria che produrrà romanzi come "L’uomo proiettile" (candidato al Premio Strega), "Uova di garofano", "La ragion pura", "Il semplice oblio", "Lettere dalla Kirghisia”.2 Da Ciascuno cresce solo se sognato memoriale del X anniversario della morte di Danilo Dolci a cura di Daniela Maniaci, Centro di Formazione “Borgo di Dio”.3 Nella trattazione tralasceremo, per ovvie ragioni, di riferirci alla Repubblica di Platone, che, come noto, è stato il punto di riferimento per l'Utopia di Moro.

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L’opera di Agosti è infatti perfettamente radicata nella cultura contemporanea e come tale trascura necessariamente alcuni aspetti che nell’Utopia di Tommaso erano fondamentali, a favore di altri che invece non erano così centrali nella cultura della prima metà del 1500.

Vorrei fare una prima considerazione introduttiva sulla forma epistolare: è interessante notare come questo sia il segno di una volontà di parlare “intimamente”, una sorta di ricerca di un dialogo interiore tra due coscienze, lontano dai proclami o dai grandi trattati filosofici. Lo stesso Tommaso racconta dell’Isola Senza Luogo con un fare intimo messo in bocca a Raffaele Itlodeo che sembra quasi parlarne sottovoce ai due suoi interlocutori; allo stesso modo la lettera è quella forma di comunicazione che è come una brezza leggera (quella di Elia4), personale, che richiede un'attenzione particolare. Simone Weil ha scritto che “... per una di quelle leggi naturali che Dio stesso rispetta, poiché le ha volute per l'eternità, esistono due linguaggi del tutto distinti, sebbene composti dalle medesime parole: il linguaggio collettivo e il linguaggio individuale. […] solo fra due o tre persone può esservi una conversazione veramente intima […] “Dovunque due o tre di voi saranno riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro”. Cristo non ha detto duecento o cinquanta o dieci: ha detto due o tre.Ha detto esattamente che è sempre presente come terzo nell'intimità di una amicizia cristiana, nell'intimità del colloquio a tu per tu.”5

Questo tono intimo è ripercorso più volte anche nell’opera cinematografica dello stesso Agosti: si pensi a L’uomo proiettile

.

6

“Qui in Kirghisia, in ogni settore pubblico e privato non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio […] Le rimanenti 20 o 21 ore della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore, alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili”.

, film assolutamente personale e particolarmente profondo in cui vengono affrontati, all’interno di questa arte visiva, molti dei temi che saranno poi trattati in Kirghisia.

E proprio come il suddetto film, il libro parte dalle considerazioni sulmondo del lavoro. È chiaro come questo non potesse essere né il punto d’inizio né il fulcro dell’Utopia di Tommaso, che pure ci dedica una parte importante, almeno non nel senso voluto sottolineare da Agosti. Nella nostra società il tema del lavoro si concentra soprattutto sulla sua mancanza, ovvero la disoccupazione, o sul suo eccesso (gli straordinari ma non solo) e Agosti sottolinea con serenità e con decisione questo problema:

7

4 1Re 19: 11-135 Attesa di Dio, Simone Weil, ed. Rusconi.6 L’uomo proiettile di Silvano Agosti, film del 1995.7 Lettere dalla Kirghisia, Silvano Agosti, Ed l’Immagine, p. 8

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Sono così toccati i temi dell’alienazione, dello sfruttamento e dell’individualismo dal punto di vista chiaramente di chi vive in piena conseguenza e maturazione della “rivoluzione industriale”, periodo che ha inquadrato il nostro pensiero dominante nel meccanicismo deterministico, mentalità da cui non è facile uscire e per cui termini come “utilità” o “produttività” sono diventati parole d’ordine imprescindibili; continua dunque Agosti:

“La produttività si è così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a produrre in una settimana.”8

“[…] nessuno se ne stia a far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda ognuno il suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi, ché sarebbe una pena che nemmeno uno schiavo. Tale però più o meno è la vita degli operai in ogni paese, tranne che qui in Utopia! Qui dividono il giorno in 24 ore eguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo la tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro […]”

Tommaso nella sua opera è di una lungimiranza incredibile se si pensa al periodo in cui è stato scritto il romanzo Utopia; infatti dopo aver rilevato che nell’isola ognuno, dopo averlo imparato, può esercitare il mestiere che più gli piace egli scrive:

9

“La corruzione politica si è azzerata perché in questo Paese, chi appartiene all’apparato governativo, esercita il proprio ruolo in forma di “volontariato”, semplicemente continuando a mantenere per tutta la durata del mandato politico lo stesso stipendio che percepiva nella sua precedente attività.”

Altro momento che accomuna in maniera sorprendente i due scritti riguarda la gestione della cosa pubblica:

10

“Esaminando adunque e considerando meco questi Stati che oggi in qualche luogo si trovano, non mi si presenta altro, così Dio mi aiuti! che una congiura di ricchi, i quali, sotto nome e pretesto dello Stato, non si occupano che dei propri interessi […] questi uomini immoralissimi, che con insaziabile

La corruzione della classe politica non si può dire che sia un problema solo moderno o contemporaneo, tuttavia è interessante notare il modo in cui Tommaso ne scrive:

8 Ibidem, p. 99 L’Utopia, Tommaso Moro, ed. Laterza, p. 63-6410 Lettere dalla Kirghisia, p. 11

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cupidigia si dividono tra loro i beni che sarebbero bastati a tutti, oh come son lungi tuttavia dalla felicità della repubblica di Utopia!”11

Vi ricorda qualcosa? E dopo aver posto l’accento sul problema, ne propone una soluzione ancor più drastica, divenuta anche una teoria economica molto interessante12

“Chi ignora infatti che soperchierie, truffe, ladronecci, risse, sconvolgimenti, alterchi, sedizioni, assassini, tradimenti, avvelenamenti, cui i supplizi s’affannano ogni giorno a punire anziché raffrenare, una volta tolto di mezzo il danaro, se n’andrebbero anch’essi? Che, insieme col denaro, sparirebbero contemporaneamente anche paure, preoccupazioni, affanni, fatiche e veglie?”

, ovvero l’eliminazione del denaro:

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I parallelismi tra le due opere sono, come si può notare, notevoli pur essendo notevoli anche le differenze. Da questo punto di vista credo che ciò che allontana reciprocamente gli scritti siano, oltre che argomenti in cui incide pesantemente la “distanza temporale” e la formazione culturale dei due pensatori, come la scuola (peraltro argomento più volte affrontato da Agosti nelle sue creazioni non solo letterarie) o la sessualità (con cui a onor del vero non manca comunque qualche curiosa simmetria), anche le questioni prettamente spirituali (per quanto sia equivocabile questo termine). Se da un lato entrambi riescono a parlare agli uomini del loro tempo pur essendo apparentemente anacronistici, (il che implica un atteggiamento laico di Agosti contrariamente a quello fortemente religioso di Tommaso) ed entrambi percorrono un’impronta umanista, in cui il bene e la felicità dell’uomo sono al centro del loro pensiero, dall’altro lato Moro rispetto ad Agosti viaggia in una direzione più specificamente rivolta alla coscienza dell’uomo in senso appunto religioso, cioè come cammino di salvezza dell’anima (termine mai usato da Agosti nel suo libro). Sebbene non si possa negare comunque una presa di posizione ultramaterialista (nel senso di necessità di vedere oltre i bisogni puramente materiali dell’uomo) da parte di Agosti (che non a caso è un artista decisamente visionario pur rimanendo realista), il suo è un atteggiamento che sembra rivolto più alla semplicità e

Da qui viene spontaneo ricordare che nel libro di Agosti i ladri sono costretti a vestirsi di giallo per numerosi anni, mentre in Tommaso l’oro e l’argento vengono usati per i vasi da notte o per forgiare catene per gli schiavi. Un'altra idea assimilabile!

Ancora interessante è l’invenzione della mensa collettiva, del pasto come necessario momento d’incontro, garantito dallo Stato in entrambi i casi. Così gli anziani, visti come persone degne di rispetto e gratitudine in barba a una società che li vede come pesi, sia economici che sociali.

11 L’Utopia, p. 13112 Si veda il libro La morte del denaro di Pierangelo Dacrema, ed. Marinotti13 L’Utopia, p. 132

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quindi alla semplificazione di una vita inutilmente complicata specialmente dal punto di vista pratico, complicazione che crea, come conseguenza, difficoltà relazionali e impossibilità di comunicare in maniera profonda o di intessere rapporti che vadano oltre la superfice. Si perdono così tutta una serie di caratteristiche che sono indiscutibilmente spirituali (come l’amore per la bellezza, l’arte, l’amore, l’amicizia ecc) ma che non affrontano direttamente alcuni grandi temi, uno fra tutti quello dell’immortalità dell’anima, che invece è quasi onnipresente negli scritti di Tommaso, specialmente nelle sue riflessioni sulla morte e sul senso della vita. Credo in conclusione che Agosti sia un uomo profondo, con un’abilità particolare nel mettersi in contatto e in sintonia con gli uomini del suo tempo e che tuttavia lasci, peraltro forse volutamente, aperte varie finestre senza mai curarsene direttamente. Lo spazio della coscienza è così nelle mani di ognuno e nessuno meglio Tommaso può esserne il degno testimone.

È infine giusto ricordare che la coscienza religiosa di Tommaso non solo non è in contrasto con l’idea di una coscienza laica, ma che anche la sua fede non preclude l’uso della “ragione” che invece è un altro tratto caratteristico comune sia al laico Agosti che al religioso Tommaso, che sono sempre acuti, a volte sarcastici nel loro analizzare quasi scientifico le falle della loro società, falle che spesso si ripresentano tali e quali nonostante il trascorrere inesorabile del tempo, a dispetto di chi vorrebbe l’uomo contemporaneo e il suo pensiero superiore a quello del passato.

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MERRILY

“Per andare d’accordo con una donna il segreto è uno solo: riconoscere di avere sempre torto”

Achille Campanile

Charles Edward Perugini, Girl Reading,1878, Manchester Art Gallery

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Giuseppe Gangale

LADY ALICE MORERaro esempio di perfetta madre adottiva e di compagna allegra e fedele

Sebbene immeritatamente sia stata dipinta da quelli che la conobbero e dagli storici successivi come una donna incapace di mostrarsi all’altezza del marito a causa della sua poca cultura e del suo senso fortemente pratico, ciò che emerge chiaramente ogni volta che More parla della moglie è la profonda devozione che nutriva nei suoi confronti e il piacere di stare in sua compagnia. Thomas More amava scherzare e aveva un grande senso dell’umorismo. Lady Alice non fu solo terreno fertile per le sue trovate spiritose, ma fu in grado di ricambiare le facezie del marito con risposte altrettanto mordaci e argute e di rispondere all’affetto nutrito verso di lei con ventiquattro anni di devozione e amore per lui e per i suoi figli. Questo pilastro di rispettabilità, ricca vedova di un mercante di seta londinese, John Middleton, irrompe drammaticamente e improvvisamente sulla scena delle biografie di More. Neanche tre settimane dopo la scomparsa della prima moglie, Jane Colt, morta probabilmente di parto, una domenica a tarda notte More bussa improvvisamente alla porta del parroco della sua parrocchia per essere ricevuto d’urgenza. Il parroco era allora padre Bouge, un monaco certosino vicario della chiesa di Santo Stefano a Walbrook e amico e discepolo di John Fisher, vescovo di Rochester. È il prete stesso che riavutosi dalla sorpresa causatagli dalla visita e dalla tarda ora ci racconta la scena in una lettera a Monna Catherina Manne nel 1535, scritta poco dopo l’esecuzione di More:

È stato mio parrocchiano a Londra. Gli battezzai due figli. Avevo celebrato il funerale della moglie da neanche un mese, che una domenica notte molto tardi mi si presenta in

Particolare di Lady Alice dal ritratto dellafamiglia More di Hans Holbein, NostellPriory, West Yorkshire, 1593.

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casa con una dispensa firmata da Cuthbert Tunstall per essere sposato il giorno dopo senza pubblicazioni1

Thomas Colt, nonno di Jane, era stato Ministro delle Finanze di Edoardo IV, e Sir Peter Ardern che comprò la proprietà confinante con la sua nell’Essex era stato anch’egli segretario delle finanze e quindi un suo collega. Il padre di More, provetto avvocato, li doveva aver conosciuti entrambi: egli calcò le orme tracciate da Sir Peter Ardern come avvocato di prima classe e giudice del re. La proprietà di Gobions che John More possedeva a Mimms nell’Hertfordshire si trovava a quaranta chilometri dalle

Non c’è alcun riferimento alla signora Alice nella corrispondenza di More prima dell’incontro di quella tarda notte con il monaco, ma nel giro di una settimana divenne sua moglie, signora della sua tenuta e madre dei suoi quattro bambini. Margaret, la più grande, aveva sei anni, Elizabeth cinque, Cecily quattro e John, il più piccolo, ne aveva due. Al tempo dei Tudor la mortalità delle donne soprattutto durante il parto era molto alta e risposarsi era d’uopo, in particolar modo se c’erano bambini molto piccoli. Eppure questo matrimonio celebrato dopo così poco tempo dalla morte della prima moglie apparve affrettato e inusuale, anche per quei tempi, e addiritturaalcuni amici non esitarono a definirlo poco saggio.

Indubbiamente il dolore provocato portò More ad uno sconforto non solodi tipo morale, dovuto alla scomparsa della sua cara Jane, ma legato anche ad esigenze di ordine pratico. La morte della moglie lo lasciava, infatti, vedovo con quattro bambini in tenerissima età da accudire ed allevare e lo sorprendeva in una fase della sua vita in cui si prospettava per lui una brillante carriera politica. Moro aveva bisogno di una nuova moglie a cui affidare la cura dei suoi quattro bambini e che lo mettesse in grado di continuare la vita come egli credeva di volerla continuare.

La grande rapidità con la quale More si risposò dopo la morte della prima moglie ci porta facilmente a pensare che la signora scelta come seconda moglie doveva essere intima conoscente della sua famiglia e che conoscesse bene la precedente moglie Jane Colt.

Se si tiene in debito conto il fatto che Alice apparteneva agli Ardern di Markhall nell’Essex, vicini nonché amici della famiglia Colt di Netherhall, le motivazioni che spinsero More a sposarla in così breve tempo dopo la morte della prima moglie Jane Colt diventano chiare. Approfondite ricerche sulle famiglie Ardern e Colt e sui rapporti che More ebbe con loro mostrano comequesti probabilmente avesse conosciuto la seconda moglie ancora prima di sposare la prima.

1 Letters and papers, foreign and domestic, of the reign of Henry VIII, ed. J. S. Brewer et al., 21 vols. and addenda, Longman, Green, Longman & Roberts, London 1864-1932, Addenda I, i, No. 1024.

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proprietà dei Colt e degli Ardern.More amava stare con persone più grandi di lui e sicuramente avrà

ammirato la figlia di Elizabeth Ardern di poco più anziana di lui, che probabilmente avrà incontrato durante le sue visite nell’Essex, ma che conosceva soprattutto come moglie di un eminente merciaio. More stesso aveva molti rapporti legali con la compagnia, tanto che fu proprio da loro che affittò la prima dimora matrimoniale, the Barge, a Bucklersbury. Si trattava dell’ospedale di San Thomas di Acon, già quartiere generale dei Merciai. Inoltre, nel 1509, poco prima che John Middleton morisse, More venne nominato membro onorario della compagnia dei Merciai.

Quando nel 1508 Sir Andrew Dymoke morì, la madre di Alice restò vedova per la terza volta. E come era già successo per i precedenti mariti venne nominata esecutrice testamentaria e continuò così ad accrescere il suo già consistente patrimonio.

Il primo marito di Alice, John Middleton, aveva un elevato status sociale e rivestiva una certa importanza nella società del suo tempo. Essere merciaio del Mercato di Calais significava poter contare su grandi risorse finanziarie. Avendo infatti ottenuto una particolare licenza da parte del Re, poteva importare ed esportare vaste quantità di mercanzie.

Il testamento di John Middleton fu scritto il 4 ottobre 1509 e fu aperto l’11 novembre dello stesso anno. Il contenuto di tale testamento ci dà un’idea di quanto florida fosse la sua condizione economica, di quanto fossero estese le sue proprietà e soprattutto di quanta devozione nutrisse nei confronti di Alice.

Fatta eccezione per qualche lascito religioso e la dote di cento sterline lasciata a ciascuna figlia, l’intero patrimonio di Middleton andò in eredità ad Alice e dopo la sua morte doveva essere diviso fra le figlie, oppure essere ereditato da una sola nel caso in cui solo una figlia fosse sopravvissuta. In questo modo, Alice ereditando dal marito una larga fortuna divenne una vedova di ottimo partito2

More aveva molte buone ragioni per scegliere Alice come sua seconda moglie. Nonostante la sua spiritualità, egli seguiva gli standard ordinari della sua epoca, secondo i quali un matrimonio vantaggioso era una necessitànaturale sia per se stessi sia per i propri figli, come lo è oggi far frequentare ai figli la scuola o le università più appropriate. Tanto è vero che More,

.

2 Cf., Ruth Norrington, In the Shadow of a Saint: Lady Alice More, The Kylin Press, Darbonne House, Waddesdon, Buckinghamshire, 1983, p. 21-26; All’ombra di un Santo: Lady Alice More, a cura di Giuseppe Gangale, trad. it. di Mariangela Pignataro, Edizioni Studium, Roma 2012, p. 31-36. Si tratta dell’unica preziosa ricostruzione innanzitutto genealogica e poi biografica del personaggio, molto minuziosa, fatta da una studiosa legata ai discendenti dei coniugi in questione, che il Centro Internazionale Thomas More ha l’onore di promuovere in lingua italiana.

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avendo accettato sotto la sua tutela molti giovani la cui fortuna e il cui status sociale erano superiori ai suoi, fu ad essi che sposò le proprie figlie.

Alice quindi essendo erede della famiglia Ardern e vedova di John Middleton sicuramente avrà corrisposto agli alti standard economici e sociali che More desiderava per sé stesso e per la sua famiglia. È anche vero però che More avrà apprezzato in Alice la sua competenza nel governare la casa e la famiglia, nonché il suo spiccato senso dello humour.

Questa lady aveva attirato l’attenzione nonché l’amore non di un solo uomo: dal primo marito aveva avuto due figlie, ma anche l’onore di essere stata nominata erede universale, nonché esecutrice testamentaria. Da ciò si evince chiaramente quanto John Middleton l’avesse amata. Si comprendono benissimo perciò le motivazioni che spinsero More a sposarla: avendo sempre avuto la capacità di giudicare senza errori il carattere delle persone, More aveva compreso pienamente il carattere di Alice e nonostante le critiche e la competizione volle assicurasi in moglie una delle donne più dotate della sua società, che aveva avuto la fortuna di conoscere profondamente da molto tempo, una donna alla quale affidare senza timore il governo della sua casa e l’educazione dei suoi figli.

Sulle sue qualità fisiche, sul suo carattere difficile e sulla sua incapacità di comprendere la grandezza morale del marito, la bibliografia moreana ci trasmette un quadro ben preciso, anche se a volte ingrato, poiché non pienamente corrispondente alla realtà dei fatti.

In realtà non si potrà mai comprendere la figura di Alice nel contesto della vita e della famiglia di san Tommaso se la si estrapola dalla volontà di Moro di dare una madre ai suoi figliuoli.

Sicuramente agli occhi degli altri le sue virtù apparivano meno solide di quanto in realtà lo fossero. Pensiamo ad esempio ai dotti frequentatori di casa Moro, non tutti la trovavano cordiale ed espansiva.

Andrea Ammonio, segretario per la corrispondenza in latino di Enrico VIII, e amico di Erasmo e di Moro, aveva poca simpatia per questa donna semplice, poco colta, ma buona, e in una sua lettera a Erasmo informa l’amico olandese che aver lasciato casa Moro era stato per lui un sollievo,perché così almeno non aveva più davanti agli occhi ‹‹l’adunco rostro dell’arpia››3

Qualche anno più tardi sarà Erasmo a scrivere allo stesso Ammonio: ‹‹Per queste due ragioni avrei potuto fermarmi ancora qualche giorno in Inghilterra,... se non ne fossi già annoiato, e se non capissi che ormai

, alludendo al naso un po’ sproporzionato della signora Alice.

3 Cinque parole scritte in greco per mascherare qualcosa di troppo malizioso se fosse affidato al latino, lingua, la cui conoscenza era assai più diffusa. Cinque parole che costituirono, secondo il CHAMBERS, un autentico rompicapo per gli studiosi di epoca successiva, e che trovarono il suo solutore in P. S. ALLEN. Cfr., Lettera di Andrea Ammonio ad Erasmo, 27 ottobre 1511, ALLEN I, n. 236, p. 475-476.

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puzzavo da ospite piuttosto barbogio alla moglie di Moro››4

‹‹More – scrive Erasmo – è l’ornamento del mondo degli studi, lipromuove con un impegno tali che, se i mezzi finanziari fossero all’altezza dei desideri, non mancherebbe ai giovani inglesi che abbiano ingegno un mecenate imparziale e generoso››

.Le critiche che Alice dovette subire furono in un certo senso la naturale

conseguenza di essere la moglie di Moro, il più grande erudito d’Inghilterra. La distanza intellettuale, morale e spirituale tra Moro e Alice era notevolissima e non fu soltanto un dato di fatto, cioè un semplice modo di essere che distingueva i due, ma dava luogo ad una vera e propria situazione di vita non sempre accettabile da parte della moglie.

Se avessimo la possibilità di entrare oggi in quella casa, ci troveremo di fronte non ad una casa nel senso tradizionale del termine o ad una di quelle del nostro tempo, dove regna sovrano l’individualismo tra i vari membri della famiglia, ma ad un centro di cultura e di spiritualità cristiana.

5

Inoltre da quando venne nominato High-Steward, (una funzione delicata che comportava il compito di giudicare persone che avevano commesso qualche reato in seno ai centri di studi di Oxford e Cambridge) riceveva –ricorda il Roper – ‹‹a causa della fama del suo ingegno e del suo sapere››

.Nella fattoria di Chelsea si riunivano i più grandi umanisti inglesi e del

continente; l’Utopia e l’elogio della follia furono scritti in questa casa; qui fiorì lo studio del greco e la rinascita di questa lingua in tutta la nazione; lo stesso Re visitava spesso la casa di Moro e colloquiava amichevolmente con lui su questioni di rilevanza fondamentale per il regno.

6,le frequenti visite di studiosi, per approfondire qualche argomento di studio. E nella sua casa Moro aveva la consuetudine di dare libera udienza, ogni pomeriggio, a chiunque desiderasse presentargli un reclamo, un’istanza o una qualsiasi lagnanza7

Non sempre questa intensa attività doveva far piacere alla signora Alice, tutta intenta alla soddisfazione di questioni pratiche, alle prese con la cura dei figli e i bisogni della casa. Per non parlare poi degli impegni culturali che il marito le faceva assumere. ‹‹Basti dire che è riuscito a far sì che quella donna non più giovane, e per giunta con un carattere tutt’altro che malleabile e ben radicato nelle cose pratiche, imparasse a suonare la chitarra, il liuto, il monocordo e il flauto, e si sottoponesse ogni sera al suo

.

4 ALLEN, II, 451, p. 317.5 Allen, IV, 1233, p. 576; Erasmo da Rotterdam, Lettera a Guillame Budè, in Ritratti di Thomas More, a cura di Matteo Perrini, La Scuola, Brescia 2000, p 101.6 W. Roper, Lives of Saint Thomas More, Edited with an introduction by E. E. Reynolds, Everyman’s Library, London 1963, p. 12; William Roper, Vita di Sir Thomas More, trad. it. di Marialisa Bertagnoni e Loredana da Schio, Morcelliana, Brescia 1963, p. 39.7 Cf., Ivi, p. 22; p. 60.

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esame facendogli misurare i propri progressi negli esercizi che egli le aveva assegnati››8

Come faceva a far sì che la moglie si sottoponesse alla esecuzione di impegni superiori alle sue capacità, rimane sicuramente un mistero legato alla sua formidabile abilità educativa. Erasmo avendoli conosciuti entrambi tenta di dare una risposta quando afferma che ‹‹nessun matrimonio ottiene dalla propria moglie tanta sottomissione con la severità e la durezza quanta ne sa ottenere lui con la dolcezza e con le parole scherzose››

.

9

In questo atteggiamento, per alcuni versi ostinato di Moro, nel far esprimere ad una donna, che colta non era, il meglio di se stessa dal punto di vista culturale, cogliamo in profondità quel pensiero erasmiano secondo cui ‹‹i coniugi tra i quali ci siano effettive consonanze spirituali sono uniti tra loro da legami molto più solidi e una donna è portata a rispettare di più il marito, se vede in lui anche chi possa guidarla nel lavoro intellettuale››

.

10

‹‹suo marito provava non poco piacere nei modi e nella condotta di un altro onest’uomo, e perciò gli teneva molta compagnia, tanto che durante il tempo del pranzo era per lo più fuori di casa. Accadde che una volta, mentre la moglie e lui stavano pranzando, insieme a quel loro vicino, la donna lo sgridò, così per giuoco, di fare buona cera a suo marito quando era fuori e che perciò essa non riusciva a tenerselo in casa. “Per vero, signora”, disse lui (che era molto allegro), “una cosa sola lo tiene nella mia compagnia; servitelo voi con la stessa cosa, e non si allontanerà mai da voi”. “Che bella cosa può mai essere?” chiese la nostra parente. “Signora”, rispose l’amico, “a vostro marito piace molto parlare, e quando è seduto accanto a me lascio a lui tutte le parole”. “tutte le parole!” disse ella. “Ne son più che contenta. Le avrà tutte le parole, ma certamente, come le ha sempre avute. Io non le dico a me stessa, le do tutte a lui; e, per quanto sta in me, le avrà ancora lui

.Molto probabilmente, anche se non ci viene resa testimonianza dai

biografi, il marito provò ad insegnarle anche qualche rudimento di latino. Come padrona di casa anche Alice aveva il compito di accogliere eruditi amici di Moro che venivano da ogni parte d’Europa e, la lingua classica che avrebbe reso possibile la comunicazione era il latino.

Questo clima di apertura e di universalismo culturale, aggiunto al carattere estremamente pratico doveva infastidire non poco la signora Alice, se qualche volta se ne usciva con battute e risposte impertinenti, soprattutto quando il marito si occupava più del solito dei suoi interessi e delle sue amicizie. Come quella volta che

8 Allen IV, 999, p. 19; Lettera a Ulrich von Hutten, in Ritratti, cit., p. 73.9 Ivi.10 Allen, IV, 1233, p. 578; Lettera a Guillame Budè, in Ritratti, cit., p.107.

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sempre. Ma se intendete dire che saranno tutte sue in un altro senso, saràmeglio che ve lo teniate ancora voi, perché nel modo che voi intendete da me non ne avrà neppure la metà”››11

Lo stesso Moro in una lettera inviata ad Erasmo nel 1516 pare alludere a questo aspetto del suo carattere. In essa, oltre ai propri trasmette pure i saluti e i ringraziamenti della moglie, in riferimento al gentilissimo augurio fattale da Erasmo di vivere a lungo: ‹‹ciò che tanto più lei desidera - così dice - in quanto avrebbe più tempo per tormentarmi››

.

La risposta è sicuramente inopportuna perché intende giudicare un’intenzione mai espressa dall’amico di Moro, cioè quella di dargli maggiore libertà. Ma al di là di questo sottintende ugualmente un certo fastidio che lei provava e che faceva di tutto per metterlo in evidenza con allegre parole e ironie, mai per farlo pesare al marito e alla famiglia, forse convinta della sua buona fede sull’argomento.

12

Come quella volta che tornata dalla confessione disse a suo marito: ‹‹Sta’ allegro, caro, perché oggi, grazie a Dio, mi sono confessata bene, e faccio perciò il proposito di lasciare completamente il mio vecchio malumore e di cominciare da capo››

.Moro non dice che la moglie lo tormentava, aveva troppo rispetto per

Alice per esprimersi in questi termini e poi non lo avrebbe mai detto perché non lo pensava, ma riporta dell’ironia che la moglie fa ai danni del marito, che ci fa apparire questa figura molto più simpatica e divertente.

Probabilmente in famiglia ormai tutti avevano capito quale fosse l’umore e l’atteggiamento di Alice nei loro confronti, che tutti si sentivano, in un certo senso, felicemente perseguitati dalle sue lamentele, così da considerarla una sorta di tormento. Forte di questo suo ruolo, decisamente confermato nella casa, lei invece di colpevolizzarsi lo ribadisce con forza, senza autorità, ma con affetto e ironia.

13

Quante volte la cara signora Alice si trovò da sola con i figli per settimane, a volte mesi interi senza la disponibilità e il servizio del marito? Quante volte si trovò nella condizione di dover superare se stessa, conoscendosi ignorante, a contatto con il Re, nobili e letterati. Per non

.Voleva, forse, dire con queste parole che i suoi cari dovevano accettarla

così com’era; che in lei nonostante gli sforzi non c’era alcuna possibilità di cambiare il suo comportamento? Penso proprio di no, dal momento che dopo il marito e, spesso prima di lui, era colei che si dava da fare per mandare avanti una casa che era un piccolo regno.

11 T. MORO, Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, trad. it. di Alberto Castelli, Edizioni Studium, Roma 1970, p. 108-109.12 T. MORO, Lettere, trad. it. di Bruno Fortunato, Morcelliana, Brescia 1987, p. 37.13 T. MORO, Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, cit., p. 155.

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parlare poi di quella volta che i granai andarono a fuoco, guarda caso il marito non c’era. Molto sbrigativamente liquidò la moglie con una lettera nel suo stile dove la pregava di stare serena, e di guidare tutti di casa alla chiesa, e là ringraziare Dio ‹‹per ciò che ci ha dato e per ciò che ci ha lasciato››.14

Racconta Moro nel suo dialogo che un uomo molto onorato e molto buono, avendo diverse volte notato come sua moglie si desse pena nel legare stretti i capelli per far apparire larga la fronte, e nel serrare strettamente il corpo per rendersi piccola la vita, e come facesse ambedue quelle cose con grande dolore per l’orgoglioso piacere di una piccola e sciocca lode, le disse: ‹‹In verità, madama, se il Signore non vi mandasse all’inferno vi farebbe gran torto. Dovrebbe, infatti essere vostro con tutta ragione, dal momento che ve lo comprate molto caro, con molta pena››

Pensiamo, infine, come dovette sentirsi in cuor suo quando il marito le confidò per primo la volontà di non firmare l’atto di supremazia del Re, con tutte le conseguenze a cui sarebbe andata incontro la sua casa. La signora Alice lamenterà di aver dovuto vendere parte del proprio guardaroba per poter assicurare un minimo di assistenza al suo povero marito in carcere, che lei visiterà spesso in quella stretta e sozza prigione rinchiuso tra topi e sorci divorato dalle sue malattie.

Se Alice Middleton non si fosse adattata alle continue alternanze esistenziali a cui quella famiglia era naturalmente soggetta, sarebbe sicuramente finita per cedere le sue solide virtù ad un’esasperazione che l’avrebbe condotta a non accettare il marito e i figli.

In realtà, contrariamente a quanto ci trasmette una certa biografia moreana, tale figura si presenta costantemente protesa al miglioramento della sua personalità.

Può sembrare di poco conto e anche banale che una moglie faccia di tutto per piacere al proprio marito, ma è segno di una disponibilità d’animo non indifferente, che non si rispecchia in tutte le donne e, soprattutto in quelle prive di virtù coniugali e materne.

15

E così tra un impegno e l’altro si burlava della moglie dicendole: ‹‹Gellia, lo specchio t’inganna: se mai ti guardassi in uno specchio sincero, non lo faresti una seconda volta(...)Ti tingi spesso i capelli, ma non potrai tingere anche la vecchiaia o spianare le rughe che ti segnano le guance. Smetti ormai di spalmarti tutta la faccia di cosmetici se non vuoi che il tuo viso

.Altre volte Moro si esprime in questi termini nei suoi epigrammi sulle

donne. Molto probabilmente avevano come prima destinataria la moglie e, considerata l’allegra vena con la quale egli governava la sua casa è lecito pensare che questi sonetti li leggesse in famiglia per allietare la comunità.

14 The Correspondence of Sir Thomas More, Edited by Elizabeth Frances Rogers, Princeton University Press, 1947, p. 422-423; Tommaso Moro, Lettere, cit., p. 129-130.15 T. MORO, Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, cit., p. 197.

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diventi un mascherone. Matta, che cosa vai cercando, visto che con belletti e ciprie non ottieni un bel niente? Mai riusciranno queste cose a trasformare un’Ecuba in un’Elena››16

E poi volendo menar duro diceva: ‹‹L’infelice che ha sposato una moglie brutta, la sera, dopo aver acceso il lume, si troverà pur sempre al buio››

.

17.Ma siccome era come un parlare a sordi Moro si prenderà la sua bella rivincita quando dovendo descrivere nel libro La Supplica delle anime18

‹‹Nelle vostre opere buone non dimenticate noi, i vostri mariti, le vostre mogli, i vostri genitori, i vostri figli. Ah, cari mariti! Quando eravamo uniti in vita in quel mondo cattivo, le spese eccessive che riversavate su di noi per piacerci, ci facevano del male. Belle vesti e belle gonne, anelli e spille, collari e cuffie guarniti di perle: tutta questa attillatura raffinata costava caro a voi e anche a noi sotto molto aspetti, ma ci guardavamo bene allora dal dirvelo. Due cose vorremmo ricordarvi: la prima da voi percepita in terra, la seconda sperimentata da noi nel purgatorio. Il vostro intento era di tenerci più altere e ritrose al vostro sguardo; qui, invece, siamo meno belle agli occhi di Dio, e oggi lo stiamo scontando. Quelle vesti smaglianti ci bruciano addosso, quelle cuffie ci avvampano le gote; i collari e i monili ci pendono dal collo come grossi macigni e ci attanagliano come ferri roventi. In tanto dolore deploriamo che in vita avete accontentato le nostre fantasie, che ci avete vezzeggiate e rese leggere. Sarebbe stato meglio offrirci cipolle o grosse teste d’aglio invece di spille, e piselli delricco Oriente invece di perle per adornare i nostri collari e le nostre cuffie››

costoro che vedono quanto accade nella propria casa, manderà al purgatorio la cara Alice facendole dire:

19

Moro sapendo quanto Alice amasse privilegiare non solo per se stessa ma

.

Questi ritratti pungenti oltre a far parte di un gioco a due portato avanti da entrambi con divertita complicità, erano delle ironiche prese di posizione nei confronti della personalità di Alice.

16 T. MORO, Tutti gli epigrammi, trad. it. di Luigi Firpo e Luciano Paglialunga, Edizioni San Paolo, Milano 1994, p. 193, 58.17 Ivi, p. 277, 156.18 Sul finire del 1528 venne pubblicato da Simon Fish, un dotto laico convertito alle nuove idee, un libello anticlericale, dal titolo A Supplication for the Beggars, in cui immagina che i poveri e i mendicanti del regno rivolgano al re una petizione affinché venga in loro soccorso, confiscando tutti i beni ecclesiastici. More risponde a Fish con un libro altrettanto pungente, dove continuando la finzione del suo avversario immagina che siano le anime dei trapassati, abbandonate e dimenticate da tutti a supplicare con ardore che i beni ecclesiastici vengano lasciati ai chierici, che sono gli unici a ricordarsi di loro nelle messe e nelle preghiere. In questo modo la risposta di More diventa una difesa del clero e del purgatorio (The Complete Works of Thomas More, Letter to Bugenhagen, Supplication of Souls, Letter Against Frith,Edited by Frank Manley, Clarence Miller, and Richard C. Marius, New Haven,. 1990).19 (CW 7, 223/33-34; 224/21) T. MORO, La Supplica delle anime, trad. it. di Luciano Paglialunga, Edizioni Ares, Milano 1998, p. 217.

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per tutti i membri della famiglia un’immagine di eleganza e di prestigio non perdeva tempo a riprenderla ogni volta che la moglie gliene dava motivo. Come del resto faceva con le figlie. In una lettera all’amico educatore William Gonell scrive:

‹‹Metti in guardia le mie figlie contro il precipizio dell'orgoglio e dell'alterigia e incoraggiale a camminare sui piacevoli campi della modestia e a non lasciarsi abbagliare dalla vista dell'oro; a non lamentarsi di non possedere ciò che esse erroneamente ammirano negli altri; a non ritenersi importanti se posseggono vistosi gioielli o al contrario a ritenersi insignificanti in loro mancanza; a non lasciare che la negligenza deformi la bellezza che la natura ha dato loro e al contrario non cercare di evidenziarla attraverso artifici; ma insegna loro a mettere la virtù al primo posto, il sapere al secondo e ancora a cercare nei loro studi ciò che possa insegnare loro la pietà verso Dio, la carità verso tutti e l'umiltà cristiana per se stesse››20

20 E. F. Rogers, The Correspondence of Sir Thomas More, cit., p. 122; Tommaso Moro, Lettere, cit., p. 60.

.

La lettera affronta anche un tema verso il quale Monna Alice e la sua protetta Anna Cresacre, nonché in misura diversa anche le altre donne di casa, avrebbero fatto spallucce essendo entrambe amanti dei bei vestiti e dei gioielli.

Essendo una lettera privata di consigli e suggerimenti da seguire per l’educazione dei figli, bisogna presumere che le preoccupazioni del padre fossero reali. Se esorta Gonnel a mettere in guardia le figlie contro il precipizio dell'orgoglio e dell'alterigia che può essere provocato dalla vista dell’oro e dai gioielli, evidentemente in quella casa il rischio di lasciarsi abbagliare dalla vista dell’oro, e di conseguenza ritenersi importanti per ciò che si possedeva, era molto concreto.

Infatti, nonostante la riluttanza che More aveva per i vari ornamenti del corpo e per gli orpelli della moda, in quella casa una notevole considerazione veniva data all’immagine. Monna Alice e Anne Cresacre, la fidanzata del giovane More, erano le più ostili alla linea moreana e spesso avevano la meglio: nel ritratto di Holbein, infatti, tutte le ragazze sono splendidamente vestite. Ad eccezione di Margaret Giggs, la cui cuffia è sguarnita di perle, -ma si direbbe che tutto il suo vestire è decisamente sobrio -, le altre donne indossano vestiti molto eleganti, collane, monili, cuffie incastonate di perle e catene d’oro.

Indubbiamente ciò che si vede nel ritratto contrasta con le intenzioni che More espresse nella lettera, e poiché questa fu scritta otto anni prima si potrebbe concludere che More non riuscì pienamente ad incoraggiare le figlie “a camminare sui piacevoli campi della modestia”.

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E come poteva essere altrimenti? Come avrebbe potuto pretendere dai suoi che la casa del futuro Lord Cancelliere d’Inghilterra assomigliasse tanto a quelle della sua cara isola di Utopia? Se l’avesse determinata lui la linea da seguire probabilmente avrebbe preteso che i suoi accogliessero il re, spesso in visita nella loro casa, con abiti modesti, sguarniti di gioielli intorno ad una mensa apparecchiata con vasi di creta. Ma il governo di quella casa, come ci ricorda Erasmo in una lettera ritratto di More e della sua famiglia che aveva personalmente frequentato, era affidata a Monna Alice che ‹‹non è donna di cultura, ma ha ingegno naturale e senso pratico e con ammirevole abilità governa tutta la famiglia: in essa adempie per così dire l’ufficio di “reggente”››21. Fu lei a conquistarselo questo ruolo probabilmente quel giorno quando vide More starsene seduto al fuoco a disegnar paperini nella cenere con il bastone come i bambini, dopo aver rinunziato a un’onorevole posizione che gli era stata offerta. Infatti non avendo voglia suo marito di salire di grado nel mondo, e non volendo neppure darsi da fare per ottenere un ufficio o un posto di prestigio si mise a litigare con lui, lo sgridò arrabbiatissima e gli chiese: ‹‹Che cosa avete dunque intenzione di fare, se non volete farvi avanti come l’altra gente? Volesse Dio ch’io fossi un uomo, e vedreste che cosa farei!”. “Ebbene, cara, disse il marito, che cosa fareste?”. “Che cosa? O Signore! Mi darei da fare per mettermi avanti con i migliori. Perché com’era solita dire mia madre (Dio abbia misericordia dell’anima sua!), è sempre meglio comandare che essere comandati. Perciò, mio Dio! Non sarei, ve l’assicuro, tanto sciocca da farmi comandare dove potessi comandare io”. “Davvero, moglie mia, disse il marito, in ciò, lo ammetto, dite il vero. Finora non vi ho mai trovata disposta a farvi comandare”››22

La risposta “gentile” del marito servì non solo a smorzare i toni e a spegnere la rabbia che era scoppiata nel cuore della moglie, ma a ristabilire

.

21 Allen IV, 1233, p. 577; Erasmo al suo Guillaume Budé, in Ritratti cit., pp. 104-105.22 The Complete Works of St. Thomas More, A Dialogue of Comfort Against Tribulation, vol. 12, Yale University Press, New Haven, 1976, p. 220; T. MORO, Il Dialogo del conforto nelle tribolazioni, cit., p. 257.

Disegno a matita e caffè di Giuseppe Capoano

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anche la pace e la comprensione tra i due. Se si considera, infatti, che Sir Thomas nel corso della sua vita i posti di prestigio in Inghilterra li ebbe tutti,dobbiamo pensare che da quel giorno Alice non solo inaugurò quello che sarebbe diventato poi il modello da seguire come reggente di quella comunità, ma in una qualche misura spronò il marito a farsi strada nel mondo.

Ci sembra giusto che More paghi questo tributo alla sua cara Alice. D’altre parte questo fu certamente uno degli aspetti in cui marito e moglie non s’intesero mai. E’ vero che More i posti di prestigio li scalò tutti ma non per comandare, come intendeva la moglie, ma per servire.

Molto probabilmente Alice come Erasmo intuì ‹‹quanto poco contassero gli onori agli occhi di More, che preferiva lasciare in eredità ai posteri l’esempio del suo amore per la religione piuttosto che il prestigio di qualche titolo››23

La differenza di sentire tra Thomas ed Alice è notevole ed è quella che pone una distanza interiore che forse nemmeno il martirio del marito riuscirà a colmare. Non che lui non gradisse le sue continue premure e attenzioni verso gli interessi e le amicizie del marito; il desiderio di piacere della moglie, ma non erano queste le ragioni per cui l’aveva sposata. Egli voleva una madre per i suoi figli e, in questo la signora Alice adempirà pienamente la sua missione se nell’elogio funebre il marito la celebrerà come colei che si è dedicata alla cura dei suoi figli (vanto raro per una matrigna) com’è difficile che una madre si dedichi ai propri figli. Per questo parla con eguale affetto della prima moglie e della seconda, dichiarando di non sapere quale delle due gli sia più cara

.

24

In questo adempimento del tutto ordinario della sua missione di devota madre dei suoi figli, di attenta amministratrice delle sue vaste proprietà, e infine di moglie amatissima in grado di farlo sorridere sempre, e persino negli ultimi e terribili giorni nella Torre, (non c’è alcuna testimonianza del fatto che un altro membro della famiglia avesse mai divertito un uomo come More, che amava l’allegria, così come soleva fare la moglie) riteniamo che

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23 Allen X, 2750, p. 137; Lettera a Johan Faber, in Ritratti, cit., p. 119-120. 24 Sulla parete meridionale del santuario della vecchia chiesa di Chelsea vicino all’arcata si trova l’epitaffio di More, più volte restaurato, in cui si legge: <<Qua giace Jane, la cara e piccola moglie di Thomas More: questo sepolcro intendo destinare ad Alice e a me stesso. La prima mi fu compagna nei giorni della mia giovinezza dandomi un figlio e tre figlie. La seconda, raro esempio di perfetta madre adottiva, fu così affezionata ai miei figli da poterli ritenere suoi. È difficile stabilire se, essendo Jane ancora in vita, l’avessi amata di più o di meno di quanto ami la mia seconda moglie. Oh, come saremmo vissuti bene se il fato e la religione ci avessero permesso di vivere tutti e tre insieme. Spero che la tomba e il cielo possano unirci e che la morte ci darà quello che non poté darci la vita>>.

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Alice abbia contribuito in maniera memorabile e colorita alla crescita morale nonché alla santità del marito25

25 Ruth Norrington nel suo libro In the Shadow of a Saint arriva a queste stesse conclusioni. Lady Alice, sebbene immeritatamente sia stata dipinta da quelli che la conobbero e dagli storici successivi come una donna incapace di mostrarsi all’altezza del marito a causa della sua poca cultura e del suo senso fortemente pratico, ha consentito al marito di diventare santo.«Ruth Norrington con la sua ricerca ha dimostrato che Moro, lungi dal scegliere una mera matrigna-governante per i suoi figli, e un ulteriore cilicio per se stesso, scelse una donna capace di costruire con lui una comunità familiare rara, in cui risate e scherzi facevano da cornice per la preghiera» (Elizabeth Longford, prefazione di In the Shadow of a Saint: Lady Alice More, p. 1).

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IL MONDO ALLA ROVESCIA

“C’è più passione per Dio nell’improvvisa bestemmia di un povero disgraziato che nella raccolta preghiera del pio”

Giovanni Soriano

Questo gruppo scultoreo, prodigio di tecnica e immaginazione artistica è il capolavoro diBernini, che interpreta una delle storie più commoventi dell’antichità classica. RaccontaOvidio che Dafne, ninfa cacciatrice e seguace di Diana, accese la passione di Apollo,punito per vendetta da Cupido: l’amore per lei fu il primo che avesse toccato il cuore deldio. Un amore destinato a non compiersi. Dafne ne fugge persino il nome e non cerca altro che nascondersi nei boschi, ma, quasi raggiunta, per impedire che Apollo lapossieda, invoca l’aiuto del padre Peneo, divinità fluviale: egli allora trasforma lemembra della figlia in rami, i capelli in fronde, i piedi in radici, il corpo in tronco. Apolloguarda stupito quello che sta accadendo davanti ai suoi occhi: “Non ti inseguo comenemico, è l’amore che mi induce a seguirti”, gli fa dire Ovidio. Apollo può finalmentecatturare l’oggetto del suo irresistibile amore, come si vede dalla mano che delicatamentesembra voler portare a sé. Invece è troppo tardi: la ninfa ha fatto ricorso alla formula chela dissolve: “O terra spalancati, distruggi il mio aspetto e trasforma questa bellezza che ècausa della mai rovina! Sfigura questo mio aspetto per cui troppo son piaciuta”. Berninicoglie l’attimo in cui l’implorazione di Dafne viene ascoltata. La trasformazione prende ilvia: la bocca appena aperta nell’ultima preghiera esprime anche lo stupore per quello chesta accadendo al suo corpo.“Chi ama seguire le fuggenti forme dei divertimenti, alla finesi trova foglie secche e bacche nella mano”, recita il distico di Maffeo Barberini, incisosulla base della statua. Dafne, ancora una volta, diviene simbolo di purezza, della virtùche sa fuggire le insidie e rimane incontaminata: sempreverde e senza frutti, comel’alloro appunto.

oschi, ma, quasi raarararaaaaaaaaaaraaaaggggggggggggggggggggggggggggggggiuiuiuiuiiiiuiiiiuiiiiiiiuiiiuiiuiiuiiiiiuiuiiiiiiiiiiiiuiiuntpadre Peneo, dididididiidididididiidiidididiidididiididididiiiididdiiiiididdiidiididiiidididddidididiidiididididdidididiiiiddddddddidiiiididddddiiddddiididddddiiiddddiddddddiiidddivivivivivivivivivvvvivvivvivivvivivvivvivivivivivvivivvvivivvivivvviiivvvivivivvvvvivvvivviivvivvviviiivviiiivviiiviivivivvvinnnnninninininnininnnininnninnnninninnininiinnnnnnnnnnnnninnnnnnnnnninnnninnnnnininnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnniinnnnninnnnnnniinnnniitàtàààààààààààtàtàtààààààààtààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààà ffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffflullllllllll

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Carmela Mantegna

LA PREGHIERA DELL’ATEOQuando la bocca parla dalla pienezza del cuore

Era ateo Voltaire? Quando si parla della religione professata dal filosofo e scrittore francese, la si designa sotto il nome di deismo. È una religione non dogmatica, non metafisica, fondata sui valori morali comuni a tutti gli uomini. Dio è considerato come un orologiaio, creatore dell'universo. La

maggior parte dei credenti lo ha sempre considerato come un razionalista sicuramente ateo, che attacca non solo la chiesa cattolica ma anche il protestantesimo inglese, il presbiterianesimo, i quaccheri, l’Islam. Tuttavia, era un uomo profondamente credente, ma non religioso. Il suo era un Dio senza chiese. Voltaire rifiutava due aspetti della religione: il confessionalismo e i pregiudizi. Ciò che egli intendeva come il vero cristianesimo era una religione semplice, razionale, umanistica, non confessionale. Non c’è bisogno di provare l’esistenza di Dio, affermava Voltaire, perché la natura

stessa mostra che esiste un Dio. Voltaire non era ateo. "Se Dio non esistesse, occorrerebbe inventarlo" – scriveva il filosofo francese in pieno secolo dei lumi - Ma tutta la natura ci grida che egli esiste; che c’è una intelligenza suprema, un potere immenso, un ordine ammirabile e tutto ci insegna sulla nostra dipendenza… Ogni volta che guardo il cielo stellato, non posso non pensare che, se esiste un così perfetto orologio, esista un orologiaio».

Il Dio di Voltaire non è il dio rivelato, ma non è neanche un dio panteista.È una sorta di Grande Architetto dell'Universo, un orologiaio autore di una macchina perfetta. Voltaire crede in un Dio che unifica, Dio di tutti gli uomini: universale come la ragione, Dio è di tutti. Proclama quindi la tolleranza contro il fanatismo e la superstizione, e nella sua famosa preghiera così si esprime:

Vincent van Gogh "Il buon Samaritano" 1890

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“Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi:se è lecito che delle deboli creature, perse nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato,a te, i cui decreti sono immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura.Fa’ sì che questi errori non generino la nostra sventura.Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda;fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa’ sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi,tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole,tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate,tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te,insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione.Fa’ in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole;che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera;che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo. Fa’ che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo,e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano “grandezza” e “ricchezza”,e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c’è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi.

Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!

Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime,come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica!Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace,ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse,dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.

(Voltaire, Trattato sulla tolleranza 1763)

La responsabilità della preghiera

La preghiera di Voltaire, ce la dice lunga sul fatto di essere credenti. Se sul piano culturale, parliamo spesso di analfabetismo di ritorno, sul piano religioso diventa altrettanto legittimo parlare di ateismo di ritorno assimilabile ad una sorta di idolatrismo sociologico dove Dio è solo unacopertura al nostro io.

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E’ importante accedere alla coscienza riflessa delle proprie scelte religiose, dei propri atti religiosi: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona (Mt 6, 24-34). La persona deve essereresponsabile dell’insieme della propria vita. La responsabilità è fedeltà a se stessi, è verità tradotta in gesti e atti coerenti alle scelte fatte, rifiuta gli equivoci e le menzogne, non ama le coperture di facciata, è libertà liberata da ogni doppiezza d’animo.

Quante preghiere atee da parte di tanti cristiani! Quante preghiere cristiane da parte di tanti atei!

Pregare è vedere una presenza, perché Dio è colui che si pone dentro. Il cristiano può pregare con un atteggiamento da ateo semplicemente perché non ha una retta ed autentica coscienza di questa presenza dentro di lui, l’ateo può pregare, senza saperlo, con un atteggiamento cristiano per la profondità e sincerità del suo cuore.

Interrogarsi su ciò che si è e si fa è prendere consapevolezza dellapropria identità in tutti i suoi aspetti senza dare nulla per scontato, tanto meno l’aspetto religioso.

L’identità cristiana è espressione di una fede in una Persona: Gesù Cristo. Quanta fede implicita nei gesti di quanti si professano lontani dal Dio di Gesù Cristo.

Quanti gesti di Gesù in questi cristiani anonimi: “…ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me (Mt 25,35-40).

Quanta preghiera vera nei lontani, una preghiera che ci ricorda la parabola del fariseo e del pubblicano che Gesù racconta per denunciare due disposizioni sbagliate, opposte al comportamento evangelico: la presunzione di essere giusti di fronte a Dio e il sentirsi superiori agli altri.

Leggiamo in Lc 18,9-14 :

“Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri

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uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

La parabola, nel presentare due atteggiamenti di preghiera, descrive due modi diversi di vivere. La preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa. Essa rivela il modo di concepire Dio e la salvezza, se stessi e il prossimo. Il pubblicano e il fariseo incarnano due modi diversi di porsi davanti a Dio, al mondo, agli altri.

La preghiera del fariseo, dietro l’apparente devozione e pietà, è una preghiera atea. Dio è la copertura di un "io", che strumentalizza il rapporto religioso per la propria celebrazione.

In un altro passo del suo Vangelo Luca (11,1-13) ci fa cogliere che c’è bisogno che qualcuno ci insegni a pregare:“Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».

Il fariseo della parabola non prega: non guarda a Dio, ma è chiuso in tutta la sua autosufficienza.

L’ atteggiamento del pubblicano, mentre prega, è l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: "O Dio sii misericordioso con me peccatore". Riconosce di essere peccatore bisognoso del perdono divino. I pubblicani erano gli incaricati della riscossione dei dazi sull’importazione e l’esportazione delle merci. Erano al servizio degli odiati invasori romani. Alle tasse statali si aggiungeva l’ingordigia dei dazieri. Per questo motivo erano considerati pubblici peccatori e ladri.

La preghiera è presentarsi a Dio così come si è. Il pubblicano si presenta a Dio in tutta la sua nudità e povertà.

Pregare è entrare in un cubiculus cordis: “Il Padre tuo che vede nel segreto ti compenserà” (Mt 6, 1-6.16-18). La preghiera del pubblicano è una preghiera sincera, totale: è una consegna di tutto il proprio essere. “Il contrario del peccato- afferma S. Kierkegaard- non è la virtù. Ma la fede”. Nel libro del Siracide (35,17) leggiamo : "La preghiera dell’umile penetra le nubi". Arriva molto in alto perché parte dal basso.

Il fariseo, al contrario, più che fare l’esame di coscienza, fa l’esame di compiacenza, che lo innalza ai propri occhi e lo fa sentire giusto e perfetto. L’unico che non occupa nessun posto nella sua vita è proprio Dio!

La preghiera è un fatto della vita, è la vita stessa. La preghiera è diversa dal recitare preghiere. La preghiera del cuore è de profundis, parte dalle

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radici, dalle profondità del cuore. “…la bocca parla dalla pienezza del cuore”( Matteo 12,33-35).

Non accontentarsi della fede

Afferma Papa Benedetto XVI in una intervista ai giornalisti durante la sua visita alla chiesa di Praga nel 2009: «Il cattolico non può accontentarsi di avere la fede, ma deve essere alla ricerca di Dio, ancor di più. Nel dialogo con gli altri» il cattolico deve «re-imparare Dio in modo più profondo… C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili”, pronte a diffondere in ogni ambito della società quei principi e ideali cristiani ai quali si ispira la propria azione». Ed essere credibile, ha soggiunto il Papa, significa avere un comportamento «coerente con i principi e la fede che si professa»26

2…Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato.

.La fede non è un sentimento o un’emozione e Gesù Cristo non è un un

mito. Gesù Cristo è esistito, è stato uomo tra gli uomini, è vissuto in un periodo e in un luogo storicamente determinati, è morto ed è risorto. Aseconda dell’idea che abbiamo della fede, si origina un tipo di cristianesimo o un altro.

Con la Lettera apostolica Porta fidei dell’11 ottobre 2011, il Santo Padre Benedetto XVI ha indetto un Anno della fede, che ha avuto inizio l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, e terminerà il 24 novembre 2013, solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo.. Questa “porta” spalanca lo sguardo dell’uomo su Gesù Cristo. Riportiamo qualche passo della Lettera:

4…Alla luce di tutto questo ho deciso di indire un Anno della fede…un’occasione propizia per introdurre l’intera compagine ecclesiale ad un tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede.

9…Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno.

La fede non può passare come un presupposto ovvio; l’ovvietà appartiene alla categoria dell’approssimazione e della superficialità che caratterizza l’anoressia di senso dell’uomo di oggi. 26 30 giorni, Nella Chiesa e nel mondo mensile internazionale diretto da Giulio Andreotti n. 09 – 2009.

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Sfuggire a Dio equivale a sfuggire a se stesso. Anche chi lo nega non può disertare di fronte alle richieste di senso che promanano dalla stessa natura dell’uomo.

Il credente non può essere credibile se non prende coscienza che la fede esprime il riconoscimento stabile e costante di un rapporto con Dio a cui tutta la sua vita tende. Essere cristiani non significa indossare un abito esterno, ma vuol dire essere abitati da Cristo, nella consapevolezza che questa presenza in noi comporta una conformazione a Lui, che non significa negazione o annullamento della nostra libertà e della nostra identità, ma una sua autentica identificazione.

Pregare da Buon Samaritano

La figura del buon Samaritano può essere indicata come icona di una preghiera che si fa prossimo, una preghiera che si traduce in ginocchia che si piegano per curare le ferite e restituire vigore ai piedi del malato. «Percorri l'uomo, dice sant'Agostino, e raggiungerai Dio». Uomo, via maestra verso l'assoluto!

La preghiera non è emozione, ma un atteggiamento consapevole di tutto l’essere. La preghiera non è sganciata dalla vita. Farsi prossimo è riconoscere la propria umanità in se stesso, riconoscere la propria umanità nell’altro da sé; riconoscere l’umanità dell’altro: è l’umano che riconosce l’umano e lo ama come se amasse se stesso. Amore è conoscenza, nel senso biblicamente inteso, come esperienza. Ci si ama nella misura in cui si fa esperienza della propria umanità e si lavora alla sua crescita e piena espansione. Si ama l’altro nella misura in cui si fa esperienza della umanità dell’altro, collaborando alla sua crescita e alla sua piena espansione. Avvicinarsi all’umano è farsi prossimo, vicino all’altro in una relazione che unisce il proprio umano all’umano dell’altro. Leggiamo la Parabola del Buon Samaritano:

«In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, [...] chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: -Abbi

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cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno-. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così» (Luca 10,25-37).

Come possiamo notare, alla curiosità teologica del dottore della Legge, che vuole metterlo alla prova, Gesù non risponde in base alle sue aspettative, ma riprese con un esempio tratto dalla vita e, alla fine del racconto, riformula la stessa domanda al suo interlocutore, affinchè alla sua curiosità tutta umana si sostituisca solo una umanità più vera ed autentica. Gesù sollecita costantemente ad una coscienza religiosa che ha come riferimento Dio. Gesù, dopo la parabola, rilancia, come un boomerang, all’interlocutore la sua stessa domanda affinchè sia lui stesso a rispondere dopo aver preso coscienza di quanto aveva chiesto. Se la domanda iniziale del dottore della legge aveva il tono di un esame per sondare le conoscenze di Gesù su Dio e per soddisfare anche le sue sicumere di teologo teoricamente impeccabile, Gesù nel ribaltargliela, gli consente di cambiare le sue rigide posture interne, il suo punto di partenza, lo scopo del suo interrogativo. Gesù gli consente di scavare dentro il suo cuore piuttosto che di frugare presuntuosamente nei labirinti della sua razionalità E il dottore della legge non ha difficoltà a rispondere alla domanda di Gesù. Ma, Gesù va ancora oltre.

Non basta sapere e conoscere, ma occorre assumere una prontezza dell’essere che ti spinge a fare, un fare operoso e gratuito, che non vuole ostentazioni, un counseling dell’attimo, che non indugia, ma interviene, una carità che urget, che spinge ad entrare nelle situazioni piuttosto che parlarne, una sapienza fatta di gesti concreti e non di dottrina che crea un io soddisfatto di se stesso.

La strada da Gerusalemme a Gerico era una discesa di 27 km, tutta curve, luogo, ancora oggi di agguati e rapine. Davanti a un povero uomo “spogliato, percosso e mezzo morto”, il sacerdote e il levita, vedono e passano oltre; le regole da rispettare, il loro culto, la loro religione impedisce loro di fermarsi e di soccorrerlo. Probabilmente, devono recarsi al Tempio per pregare Dio e non hanno il tempo per fermarsi. Probabilmente, devono offrire sacrifici a Jahvé. Un Samaritano, al contrario, scavalca, disobbedisce a tutte le norme e leggi umane, vede l’uomo ferito, si muove a compassione e fascia le sue ferite. Quel vedere del Samaritano, è un entrare nella situazione di sofferenza di quell’uomo picchiato e abbandonato sulla strada. L’unico suo pensiero è soccorrere e curare un uomo ferito. Il suo scatto è quella fretta dell’amore che cura senza tanti ragionamenti. L’unica religione, l’unica regola per lui è aiutare quell’uomo percosso, chiunque egli sia, qualunque sia la sua etnia e la sua religione. Un Samaritano si ferma davanti

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all’uomo sofferente, un Samaritano, che per gli Ebrei era come un “eretico” appartenente al «popolo stolto che abita in Sichem e che non è neppure popolo», come si legge nell’Antico Testamento (Siracide 50,25-26). Il sacerdote, invece, continua per la sua strada, incurante davanti a quello stesso uomo ferito, che giace sul ciglio della strada. Eppure, il prete doveva essere il primo a fermarsi e non lo fa, perché i rituali della sua religione lo aspettano, sono più importanti dell’uomo da soccorrere. Gesù, nella parabola, introduce come primo personaggio proprio il sacerdote per ricordare: “Misericordia io voglio e non sacrificio”( Mt 12, 1-8). Questo sacerdote, che va oltre, non ha compreso veramente il Dio in cui pensa di credere, ma si è costruita una sua religione. Il secondo personaggio è un levita, un addetto alla cura del tempio, uno che apparteneva in modo particolare a Dio. Anche lui, incurante, passa oltre. Probabilmente, aveva fretta, perché doveva mettere a posto qualche suppellettile sacro nel tempio, o doveva assistere nel tabernacolo, dimenticando che quel ciglio di strada, dove giaceva un uomo ferito, era un tabernacolo vivente. Anche lui si è fatta una idea tutta sua di Dio e della religione. Il sacerdote e il levita si girano dall’altra parte, potremmo dire. Dovevano mantenere la propria purezza cultuale. Era prescritto, fra le innumerevoli norme dei farisei, ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri, e il sangue contaminava: non potevano toccare un uomo ferito. Gesù, attraverso il suo racconto, scioglie il grande equivoco in cui sono scivolati il sacerdote e il levita: Dio non si riduce in una religione fatta di rituali, ma vuole viscere di misericordia, Dio è per l’uomo.

Il Samaritano si è inginocchiato per aiutare l’uomo ferito: la sua preghiera è l’accoglienza dell’altro incontrato sulla strada, l’altro che gli era sconosciuto, l’altro a cui si è fatto prossimo, l’altro che ha incontrato nella sua umanità, l’altro in cui ritrova la propria umanità, la riconosce, la ama, la cura, l’aiuta a rialzarsi e a guarire dalle proprie ferite.

Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Gesù guarda alla sincerità del cuore e indica sempre questa strada, che è la strada della carità, l’unica strada che porta a Dio, perché Dio è Amore. Gesù corregge l’idea sbagliata che l’uomo si è fatta di Dio. Gesù riconosce il gesto del Samaritano, che si ferma davanti alla sofferenza senza porsi tante domande su chi è il proprio prossimo: si fa egli stesso proximus, si avvicina a chi soffre, interrompendo il suo viaggio, cambiando senza esitazione i suoi programmi. Il Samaritano ha compreso che il viaggio più vero passa attraverso l’umanità, un viaggio che non ha orari, ma l’ora è quella dettata dal momento e dalla situazione, un viaggio aperto ai cambiamenti di destinazione, alla durata delle soste, un viaggio che accoglie ogni tipo di compagni di viaggio…

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Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertirsi, a cambiare la sua curiosità in amore per l’altro, il suo studio in gesti concreti, perché il Dio di Gesù Cristo non è una filosofia, ma è un Dio che cammina a fianco dell’uomo e chi lo ha conosciuto veramente, chi ha fatto esperienza di Lui, cammina accanto agli uomini, si fa prossimo. Conoscere Dio è conoscere l’uomo, perché Dio si è rivelato facendosi uomo.

Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio. Egli non vuole olocausti e noviluni, ma gesti concreti. La figura del buon Samaritano incarna l'unico umanesimo possibile, quello della compassione e della pietà. Il cum patire esprime lo slancio più intimo e vero dell’uomo che soffre con chi soffre, fa sua la sofferenza dell’altro laddove il mal comune mezzo gaudio è un condividire la stessa sofferenza, lo stesso dolore, lo stesso male, per coglierne il senso umano che esso svela. Non c’è gaudio, non c’è gioia più grande di questo con-soffrire, che è incontro profondo di due umanità che si riconoscono e che hanno la certezza di amarsi, di accogliersi e di sostenersi.

Un ateo prega? Potrebbe essere un’altra domanda che il dottore della legge pone a Gesù e Gesù ancora una volta non risponde direttamente, ma gli fa prendere coscienza del suo atteggiamento di preghiera attraverso la parabola del fariseo e del pubblicano. Possiamo immaginare che Gesù, anche alla fine di questa parabola chieda al suo interlocutore:”Chi dei due, secondo te, prega veramente Dio?” e possiamo anche immaginare la risposta del dottore della Legge : “Il pubblicano”. E ancora un volta Gesù gli dice:” «Va' e anche tu fa' così».

La domanda sulla preghiera dell’ateo, forse deve essere riformulata diversamente. Dobbiamo chiederci quando la preghiera è rivolta a Dio e quando il termine della preghiera siamo noi stessi. La domanda, più che punto di partenza per una disquisizione a livello intellettuale, deve diventare una domanda che ci interpella a livello personale.

Quando prego da credente? Chi prego? A chi rivolgo la mia preghiera? Ancora una volta:”Signore insegnaci a pregare”. «…anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio»(Romani 8, 26-27).

Paolo ci ricorda: «Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare». Dobbiamo istruirci su ciò che è meglio per noi.

Nella Lettera a Proba di S. Agostino leggiamo : «Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene,

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pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (...).La preghiera è al di là di noi, “lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili».

Cristiani anonimi

Rahner afferma che tutti gli esseri umani hanno una consapevolezza latente (“atematica") di Dio e focalizza la propria riflessione sul carattere universale della salvezza, rivolta anche alle animae naturaliter christianae,allargando il concetto di S. Agostino il quale afferma che l’uomo è naturaliter religiosus, nel senso che l’uomo porta dentro di sé il divino, è aperto a Dio. Il teologo, riconosce che anche coloro che appartengono a fedi diverse dalla cristiana, così come i non aderenti ad alcuna fede possono essere portatori di Verità. «Cristianesimo anonimo», spiega Rahner, significa questo: «chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non-cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini. In altre parole: la grazia e la giustificazione, l'unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo»27

27 Karl Rahner, La fatica di credere, Edizioni Paoline, Milano1986, p. 86.

.Ogni uomo, quindi, può essere, secondo Rahner, un cristiano anonimo, anche se non è formalmente un cristiano: Dio vuole la salvezza di tutti e, in ragione di questa universale volontà salvifica, offre a tutti – cristiani espliciti e non – la possibilità della salvezza. Il teologo afferma che l’uomo ha una vocazione soprannaturale, al di là del fatto che sia cristiano o no.

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L’ALTRO EVANGELO

“È vana la fiducia nella salvezza mediante le lettere di indulgenza anche se un commissario e perfino lo stesso papa impegnasse per esse la propria anima”

(Dalle 95 tesi, Tesi n. 52)

Lutherdenkmal, Monumento a Lutero, inaugurato nel 1868 a Worms. Ricorda Luterodavanti alla Dieta imperiale convocata a Worms dall’imperatore Carlo V, davanti allaquale il Riformatore rifiutò di ritrattare le sue tesi, condannate dalla bolla papale del1521. Lutero, al centro, è circondato dai precursori della Riforma: davanti a sinistra,l’italiano Girolamo Savonarola (1452-1498); davanti a destra, il boemo Jan Hus (1370?-1415); dietro a sinistra, l’inglese John Wyclif (1320/30?-1384); dietro a destra, PietroValdo. Agli angoli figurano i teologi della Riforma: Reuchlin e Melantone, il langravio diAssia Filippo il Magnanimo, e l’elettore di Sassonia che fu protettore di Lutero. Le statuedi donna simboleggiano Augusta, Spira e Magdemburgo.

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Sarebbe del tutto sbagliato se dovessimo limitarci a pensare la riforma protestante come la strutturazione storica di un pensiero alternativo o sostitutivo quello cattolico, senza indagare le dinamiche spirituali per cui nella stessa comunità cristiana accanto ad un anima cattolica possa trovare casa anche uno spirito evangelico.

Le tesi 36-37, che Lutero affisse alla porta della chiesa del castello di Wittemberg, mentre rivelano il cuore dell’esperienza di fede di Lutero, rappresentano il paradigma religioso di ogni spirito autenticamente evangelico. Esse affermano che qualunque cristiano veramente pentito ottiene la remissione della pena e della colpa, e la partecipazione a tutti i beni del Cristo e della Chiesa, anche senza le lettere indulgenziali1

«Certo, la Chiesa ha sempre parlato della misericordia e della grazia di Dio, e ne parlava anche nel XVI secolo. Ma ne parlava diversamente da come ne parla la Bibbia. Lutero ha scoperto come ne parla la Bibbia, dove la grazia e la misericordia di Dio sono offerte a piene mani, senza lesinarle, senza misura, né riserve né restrizioni, né clausole limitative. Lutero ha scoperto che Dio ama molto di più e molto meglio di quel che il complicato e tortuoso sistema penitenziale cattolico lascia immaginare. Lutero ha scoperto che il Dio della Bibbia è diverso da quello della Chiesa. Allora cominciò a capire – certo a fatica, con un certo travaglio interiore, in un drammatico dialogo critico con se stesso e le convinzioni profonde di monaco osservante ed esigente che l’avevano accompagnato fino a quegli anni – che la Chiesa non è necessariamente lo specchio fedele della realtà di Dio, può anzi diventare uno schermo che la nasconde oppure ne riflette un’immagine deformata. Lutero capì che il vero specchio di Dio sulla terra non è la Chiesa, ma Gesù»

. E’ evidente che le tesi sono il frutto di una scoperta, più che di una protesta, lo disvelamento all’uomo peccatore della misericordia sconfinata di Dio.

2

In queste parole di commento all’esperienza di Lutero, che ogni buon evangelico sottoscriverebbe, cioè della rivelazione scritturale di un volto di Cristo autenticamente spirituale, vengono poste le basi di quel principio secondo cui «la Parola di Dio, ossia le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, è l’unica guida atta ad ammaestrarci affinché glorifichiamo Dio e gioiamo in lui»

.

3

1 Cf., P. RICCA - G. TOURN, Le 95 tesi di Lutero e la cristianità del nostro tempo,Claudiana, Torino 1998, 33.2 Ivi, 33-34.

. Se è vero poi che le chiese protestanti in alcuni

3 Catechismo “minore” di Westminster. Una versione Battista, Edizioni Alfa & Omega, Milano 2001, 15. Preparato da un’autorevole consesso di pastori Puritani convocato a Londra nel 1643 e pubblicato nel 1648 il Catechismo è uno dei più importanti documenti della

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contesti ed epoche storiche hanno determinato deturpazioni del loro modo di essere evangelici, è altrettanto vero che l’abuso di un principio non può invalidare il principio stesso. E quello della sola Scriptura rimane sicuramente il principio di un nuovo tipo di coscienza credente nella storia della tradizione cristiana, un modo nuovo di interpretare l’unica fede di Cristo e di sentirsi chiesa all’interno dell’unico mistero del corpo mistico di Cristo.

Pertanto lontana da noi l’idea di considerare la riforma protestante ‹‹la più grande catastrofe abbattutasi sulla chiesa nell’intero corso della sua storia, fino ad oggi 4

Riforma Protestante. «Si potrebbe affermare che solo la Bibbia stessa e, forse, il Pellegrinaggio del cristiano, abbiano influito in misura maggiore di esso nella formazione del pensiero, della coscienza e del carattere del cristianesimo evangelico nei secoli XVII, XVIII e XIX» (cf., Prefazione all’edizione italiana, cit., 5).4 J. LORTZ, Storia della Chiesa in prospettiva di storia delle idee, II - EVO MODERNO, Edizioni Paoline, Milano 1987, 99.

…», forse con un po’ più di prudenza, diremo che quella evangelica è un’esperienza spirituale che ha la sua istanza più profonda nel cuore dell’uomo e che ha suscitato la riforma protestante e non viceversa.

G.G.

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Dieter Kampen

LA FOLLIA DI LUTERO

“Ho acceso un nuovo

fuoco; ma così fa la parola della verità”

Il 18 aprile 1521, durante la dieta di Worms, davanti all’imperatore e ai rappresentanti della chiesa, Martin Lutero, richiamandosi solo alla sua coscienza legata dalla parola di Dio, si rifiutò di revocare le sue tesi condannate dalla chiesa e pronunciò le famose parole:

Se non vengo convinto mediante le testimonianze delle Scritture o mediante l'evidente ragione (perché non posso credere da solo né al Papa né ai concili, perché è ovvio che ripetutamente si sono sbagliati e hanno contraddetto se stessi), sono vinto dalle scritture rivolte a me e la mia coscienza è catturata dalla

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Parola di Dio. Perciò non posso e non voglio revocare niente, perché agire contro la coscienza non è né sicuro, né integro.

Non posso altrimenti. Qui sto. Dio mi aiuti. Amen5

Però la vendita delle indulgenze era una fonte di guadagno importante per la chiesa. Se Lutero attribuiva tutto a Cristo, il ruolo della chiesa perdeva notevolmente di potere. In seguito Lutero rincarava la dose, proclamando

.

Un atto di pura follia!Cosa era successo? Martin Lutero, monaco agostiniano e professore

universitario a Wittenberg, che già aveva introdotto importanti riforme nell’insegnamento universitario, il 31 ottobre 1517 pubblicò le 95 tesi sulla penitenza. Con questo lasciò per la prima volta l'ambiente universitario e si intromise nella politica ecclesiale, criticando nelle sue tesi l'uso della vendita delle indulgenze. Con questa critica aveva colpito un punto nevralgico, in quanto le indulgenze non solo riguardavano una questione centrale della pietà cristiana, ma costituivano anche un mezzo importante di finanziamento della chiesa. Grazie alla stampa, inventata da Gutenberg a metà del '400, le 95 tesi venivano diffuse velocemente in tutta la Germania e suscitavano discussione, dando inizio a quel processo che chiamiamo Riforma protestante.

Per l'eco che hanno avuto le 95 tesi, la loro affissione viene vista come l'inizio della Riforma e il 31 ottobre di ogni anno le chiese protestanti celebrano il giorno della Riforma in memoria di questo evento.

È però da dire che Lutero non poteva prevedere le grandi ripercussioni che esse provocarono anche perchè l'affissione delle tesi alla porta della sua chiesa non era un atto rivoluzionario, ma un uso corrente per far conoscere i temi delle dispute universitarie. Anche l'intenzione non era rivoluzionaria, ma semplicemente Lutero come sacerdote e professore si preoccupava della sua chiesa. Aveva notato che molta gente metteva più fiducia nelle indulgenze che in Cristo, che le indulgenze impedivano piuttosto che promuovere un vero pentimento, compreso come conversione interiore, e che le indulgenze e il modo in cui venivano promosse mettevano la chiesa in una cattiva luce. Era quindi l'amore per la chiesa e per la verità del Vangelo che spingeva Lutero a intervenire con le sue tesi. Almeno all'inizio era fermamente convinto di non proclamare altro che la vera dottrina della Chiesa cattolica.

5 Quest'ultima riga è di origine insicura. WA 7,838,2-9. Con questa sigla vengono riportate le citazioni degli scritti di Lutero dall’edizione di Weimar: D. Martin Luther's Werke: Kritische Gesamtausgabe (Weimarer Ausgabe) 143 voll. 1887-1920.

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che anche i papi potevano sbagliare. Opponeva l'autorità della Bibbia all'autorità del Papa. Teneva testo ai migliori teologi del suo tempo e non si lasciava convincere di essere nello sbaglio. Anzi, nel 1520 scrisse in veloce sequenza tre opere programmatiche in cui espose la sua teologia in forma matura. Era cosciente che gli rimaneva poco tempo. Al suo tempo gli eretici venivano abitualmente bruciati.

Il fatto che Tetzel, monaco domenicano incaricato della vendita delle indulgenze avesse ben presto chiesto alle autorità ecclesiali un processo di eresia e quindi la morte di Lutero, è stata sicuramente un’esperienza amara che forse spiega anche un po' la durezza con cui Lutero più tardi attaccò la gerarchia romana.

Ciò che Lutero difese contro abusi come la vendita delle indulgenze, lo strapotere papale o la decadenza morale delle gerarchie ecclesiastiche, fu ilnucleo del messaggio cristiano, la verità del Vangelo stesso, l'annuncio di un Dio che ci ama incondizionatamente. Più tardi, e forse in modo un po' idealizzato, nel 1545 descrive la sua scoperta riformatrice come segue:

“Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo il concatenamento delle parole seguenti: La giustizia di Dio è rivelata in esso (cioè nell’evangelo) da fede a fede come è scritto: il giusto vivrà per fede, cominciai a capire che la giustizia di Dio è quella per la quale il giusto vive per il dono di Dio, cioè per la fede, e che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, per mezzo della quale il giusto “vive”, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo: l’evangelo ci rivela sì la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è scritto: il giusto vivrà per fede.

A questo punto mi sentii rinascere, e mi parve che si spalancassero per me molte porte del paradiso. Cominciai a percorrere le Scritture, e notai altri termini che si dovevano spiegare in modo analogo: l’opera di Dio, cioè l’opera che egli compie in noi; la potenza di Dio, mediante la quale egli ci dà forza; la salvezza, la gloria di Dio.

Come avevo odiato prima l’espressione giustizia di Dio, altrettanto amavo ed esaltavo ora quella parola dolcissima. Così quel passo di Paolo divenne per me la porta del paradiso. In seguito lessi lo scritto di Agostino De Spiritu et littera e mi accorsi che interpreta la giustizia di Dio in modo del tutto analogo, cioè intende la giustizia di cui Dio ci riveste, giustificandoci. Ebbi così la gioia di constatare che la giustizia di Dio, per Agostino, è quella grazia a cui siamo giustificati”6

In questa descrizione, oltre al contenuto, si mostra una metodologia importante: 1.Lutero trova la sua scoperta liberatrice mediante la meditazione di un passo biblico. Infatti per Lutero la Bibbia resta sempre il

.

6 WA 54,185s, traduzione Anna Belli.

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mezzo principale e l'unica fonte affidabile per conoscere la volontà di Dio. 2. Lutero scorre la Bibbia tutta per verificare il contenuto del passo in questione. Non basta citare un versetto isolato per affermare una verità, ma ogni versetto deve essere letto nel contesto della Bibbia tutta. 3. Lutero legge Agostino, quindi trova conferma nella tradizione. Che Dio ci salva per sola grazia non era certo l'idea di un monaco tedesco isolato, ma faceva parte della tradizione cattolica, anche se l'idea di doversi in qualche modo guadagnare la benevolenza di Dio fosse molto diffusa nel popolo al tempo di Lutero; e anche oggi è diffusa, in quanto corrisponde ad una aspettativa naturale che sta nella natura umana non illuminata dalla luce divina. Gli scritti confessionali del luteranesimo sono pieni di citazioni dei padri della chiesa proprio per dimostrare che ciò che viene affermato non è altro che la vera dottrina cattolica di sempre.

Quindi non si trattava di discutere qualche punto secondario, ma il centro del Vangelo. Per questo Lutero era disposto a dare tutto, anche la sua vita terrena per salvare quella eterna.

In una lettera a Johannes Lang, il 31 marzo 1518 scrive:

Quid futurum sit, nescio, nisi quod periculum meum eo ipse fit pericolosius. Non so cosa porterà il futuro, se non che la mia situazione diventa più pericolosa7

Nella lettera a Wenzeslaus Link

.

8

Salute. Avrei inviato le argomentazioni delle mie posizioni, Reverendo Padre, ma tanto lento è il nostro calcografo che anche egli stesso straordinariamente si tormenta di tale dilazione. Diciotto conclusioni, che ponderavo di mandarvi, sono quasi compiute. Quelle cose di poco conto, che allora avevo manifestato di fronte al mio Timone

, scritto da Wittenberg il 10 luglio 1518, Lutero riflette sul suo probabile martirio. Visto che non esiste ancora in traduzione italiana, riporto qui la lettera intera, anche se ci interessa solo una parte:

Al reverendo Padre Venceslao Linco, teologo ed ecclesiasta del monastero degli eremiti di Norimberga ecc., eccelso in Cristo.

9, le pubblicano di nuovo e diffusamente, sebbene io non avrei voluto che accadesse, perché nelle stesse ho assecondato troppo le esortazioni degli amici anche se non ho soddisfatto i loro desideri. Gli altri mi rinfacciano le mie impazienze, il fatto che io scherzi piuttosto che arrabbiarmi in queste cose. Se tu sei venuto a sapere qualcosa di più di noi, i vostri Conradi10

7 WA Br 1,155,37-388 WA Br 1, 185s9 Proverbiale misantropo dell'antica Atene; sta qui per Tetzel.10 Si tratta probabilmente di due frati di nome Conrad.

vi racconteranno a sufficienza.

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Il nostro vicario Johannes Lang, oggi presente, che è stato avvisato per lettera dal Conte Alberto di Mansfeld, dice che in nessun modo mi viene permesso di uscire da Wittenberg. Infatti, non so da quali potenti, a tradimento, sia disposto così che io sia o strangolato o battezzato a morte. Io sono chiaramente, insieme a Geremia, l'uomo delle contese e della discordia, colui che irrita ogni giorno i farisei con le nuove (come le chiamano) dottrine. Al contrario, io, sempre, sono consapevole di non insegnare altro se non la sincerissima teologia così come già a lungo sono stato presago che predicherò lo scandalo ai santissimi giudei e la stoltezza ai sapientissimi greci.

Ma spero di essere debitore di Gesù Cristo che fortunatamente dice anche a me: mostra loro, quante cose bisogna patire a causa del mio nome. Se così non fosse, perché mi ha fatto invincibile nel servizio della sua parola? O perché non ha insegnato qualcos'altro rispetto a ciò che dico io? È stata fatta la sua santa volontà. Quanto più coloro minacciano, tanto più io confido. Mia moglie e miei figli sono la provvidenza; campi, case, tutti i beni sono disposti, gloria e nome sono già fatti a pezzi; una cosa resta: il corporello stupido e fragile. Se me lo tolgono, forse mi rendono più povero di due o di un'ora di vita, l'anima veramente non la portano via. Canto con Johannes Reuchlin: Chi è povero, nulla teme, nulla può perdere, ma sta lieto in buona speranza, infatti spera di ricevere11

Ho acceso un nuovo fuoco; ma così fa la parola della verità, il segno a cui ci si oppone

.So che la parola di Cristo, dall'inizio del mondo, è del suo creatore, così che

chi vuole portarla nel mondo, deve, lasciato il mondo e rinunciato a tutto come gli Apostoli, ogni ora aspettare la morte. Se ciò non fosse, non sarebbe la parola di Cristo. Mediante la morte è stata comprata, mediante le morti viene diffusa, mediante le morti viene conservata, mediante le morti è anche da servire o da annunziare. Così infatti il nostro sposo è uno sposo di sangue. Tu dunque prega, affinché il Signore Gesù Cristo accresca e serva adesso lo spirito del suo fedelissimo peccatore.

Recentemente nel sermone per il popolo che mi è stato rivelato, del valore diuna scomunica, di passaggio ho criticato la tirannia e la non conoscenza dei sordidissimi ufficiali, commissari e vicari di questo popolo. Tutti si meravigliano perchè non hanno mai udito tali cose, quindi, tutto ciò che di mali futuri mi incombe, aspettiamo.

12

11 Citazione dal “Henno” di Johannes Reuchlin.12 WA Br 1, 185s

. Avevo voluto disputare queste cose pubblicamente, ma, ecco, la maldicenza lo impedisce e smuove anche molti potenti a tal punto che il mio vescovo di Brandenburg chiede mediante un grande nunzio inviato di rimandare questa disputa, cosa che ho fatto e faccio, in modo speciale anche per il consiglio degli amici. Vedi, quale uomo mostruoso io sia, le cui imprese sono perfino intollerabili.

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Il signor dottore di Eisenach13 mi ha mandato una lettera, piena di grande zelo (perché così si devono onorare le grandissime passioni dell'uomo), di gran lunga più tagliente di quella che tu sentirai personalmente nel capitolo; parimenti mi parlava personalmente della posizione di Erfurt. Fino alla pazzia questi uomini sono tormentati, perché devono diventare stolti in Cristo, e i nostri eminenti maestri in tutto il mondo devono essere giudicati di aver sbagliato pertanto tempo. Non mi soffermo sugli sciocchi e su tutti i Momus14

Della mia causa Karlstadt (Carlostadio) ti farà sicuramente sapere. Qui non succede niente di nuovo o di particolare, se non che la città è piena del rumore del mio nome e che tutti vogliono vedere l'uomo herostratico

, Cristo sia tale che Dio mi è propizio, affinché sono preparato a ritirarmi dall'ufficio della parola. Questa lettera è prolissa, perché mi è piaciuto di conversare con te. Addio. Wittenberg, giorno VII. dei frati 1518.

Frate Martinus Lutherus

Che Lutero fosse cosciente della sua probabile fine, è evidente in una lettera dell’11 ottobre 1518 inviata da Augusta a Melantone tramite Johannes Böschenstein, dove aspettava l'incontro con Caietano, il cardinale e famoso teologo inviato dal Papa per trattare la questione Lutero.

All’eruditissimo e amatissimo Filippo Melantone, che insegna Greco a Wittenberg e che è da accogliere in Cristo Gesù.

Ti saluto. Il nostro Johannes Böschenstein, mio amatissimo Filippo, mi viene raccomandato da te più di quanto io lo raccomandi a te. L'uomo è – come vedo –ansioso e di modesta fiducia, per cui (temo) che non godrà a lungo della vostra fiducia. Mostragli insieme agli altri le tue viscere, non le tue ossa.

15

Augusta, 2. giorno dopo Dionisio 1518

dei tanti incendi. Tu agisci da uomo, come del resto fai, e insegna rettamente alla gioventù. Per

voi e loro io vado ad essere immolato, se Dio vuole. Preferisco perire – sebbene la cosa più difficile sia per me rinunciare in eterno alla vostra conversazione amatissima -, piuttosto che revocare ciò che è ben detto e diventare ragione per la perdita di ottimi studi presso questi più insipienti e più accaniti nemici della scienza e degli studi. L’Italia è caduta nelle tenebre d'Egitto, così tanto ignorano Cristo e ciò che è di Cristo. Questi però abbiamo come signori e insegnanti della fede e della morale. Così si compie l'ira di Dio su di noi, che dice: “Darò loro bambini come principi ed effeminati domineranno su di loro”.

Addio, mio Filippo, e placa l'ira di Dio con preghiere sincere.16

Nel suo rapporto in merito alla discussione con Caietano Lutero descrive la sua posizione in due punti particolarmente rimarchevoli: contro la difesa

Frate Martinus Lutherus

13 Jodokus Truttfetter 14 Momus: proverbiale critico della letteratura greca.15 Herostrat incendiava nel 356 a. C. il tempio di Artemide per procurarsi fama.16 WA Br 1,212s, nr. 98.

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delle indulgenze mediante una bolla papale, Lutero afferma che il Papa non sta al di sopra della Bibbia. Nella difesa della giustificazione per sola grazia Lutero finisce per affermare: “Hanc fidei sententiam si mutavero Christum mutavero”17

17 Acta Augusta 1518, WA 2,6-26.

(Se cambiassi questa comprensione della fede, cambierei Cristo).

Nel 1520 a Lutero arriva la bolla papale Exurge Domine (15 giugno 1520) che minaccia la scomunica e che Lutero brucia pubblicamente; nel gennaio 1521 il Papa scomunica Lutero definitivamente con la bolla Decet Romanum Pontificem e nel maggio del 1521 Lutero doveva comparire alla Dieta (Reichstag) di Worms davanti al imperatore Carlo V, ai principi del regno e ai rappresentanti della chiesa. Era infatti compito dell'Imperatore confermare la scomunica ecclesiale con il bando civile e quindi togliere all'imputato ogni diritto protettivo. Era dunque l'ultima occasione per Lutero di salvare la sua vita. Invece sceglie la verità dell’Evangelo e pronuncia le parole sopra citate.

Il Principe Elettore della Sassonia Federico il Saggio, protettore e sostenitore di Lutero, aveva fatto leva sulle leggi imperiali e ottenuto che Lutero avesse un salvacondotto.

Però non era una garanzia cui affidarsi. Troppo vivo era ancora il ricordo di Jan Hus, riformatore hussita, che nel 1415 in una situazione analoga fu semplicemente trattenuto e bruciato. Così, saggiamente, il principe mette in salvo Lutero con una finta rapina e lo nasconde sotto falso nome nella Wartburg, un castello sperduto tra monti e boschi, dove Lutero coglie la tranquillità obbligata per tradurre il Nuovo Testamento in tedesco affinché tutti potessero scoprire quell’Evangelo per cui aveva lottato.

Nel 1999 la Federazione Mondiale Luterana e la Chiesa Cattolica Romana firmano la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”, affermando la giustificazione per sola grazia. Anche se poi questa verità fondamentale viene esplicata in modo diverso, la firma costituisce un passo fondamentale per l'avvicinamento delle due realtà ecclesiastiche che 500 anni fa si erano divise proprio su questa questione.

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LA VIRTUOSA FOLLIA

“Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime”

E. M. Cioran

Lorenzo Viani, il folle - 1907 / 1909

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Giuseppe Parisi

ARSHILE GORKY - GOCCE DI RABBIA IN LUOGHI STRANIERI

“Mai riuscirò a mettere in un ritratto tutta la forza che c’è in una testa. Il solo fatto di vivere già esige una tale volontà e una tale energia…” Alberto Giacometti.

“Il sole ha cacciato le dita nella cenere di una nuvola che mi separa dalla vita. Da qualche tempo la mia vita è quella di un albero strappato dalle radici. Seccato ed esposto in una vetrina. Non sento più la terra. Sono orfano. Orfano di una terra e di una foresta. Non sanguino più” Tahar Ben Jelloun.

“Amo il canto di chi è solo” Arshile Gorky.

Partì per gli Stati Uniti in cerca di fortuna, lui che aveva perso la madre, lui che aveva assistito al massacro dei suoi connazionali armeni. Negli USA Arshile Gorky (Vosdanig Adoian) divenne artista, emigrato in una terra accogliente, ma pur sempre straniera. E in questa terra pose fine tragicamente al suo grande anelito di raccontare con la pittura le stazioni dell’anima.La sua produzione artistica è legata essenzialmente alla ricerca di una koinè che abbia un filo rosso all’interno del mondo artistico statunitense. Giulio Carlo Argan ha sostenuto che con Gorky abbiamo avuto lo stesso

procedimento che accadde con Scott Fitzgerald e Faulkner: creare una base estetica nel luogo di residenza tale da fungere come estensore di un linguaggio cromatico tipicamente yankee. La sua sensibilità, lacerata da eventi dolorosi, si arricchisce di moduli ricavati da Masson, Kandisky, Mirò e generò forme organiche più o meno larvate, più o meno colorate in una mobile relazione reciproca.Nelle sue tele Gorky ha inserito vettori, frecce, e abnormi buchi neri (forse Anish Kapoor ha preso da lui?) che entravano in contatto perforandosi

The artist and His Mother - 1926/1936

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oppure giacendo inermi a rappresentare il ferale dolore di corpi post-organici, in stato di crescita o in decomposizione.Nelle sue opere vi era un primitivismo organico che generava “macchine-vitali” a cui forse si ispirò la fertile fantasia del regista David Cronenberg nel film Il pasto nudo.Queste incisive creazioni tutte a colori, in altri termini, erano anche il frutto dello svuotamento dell’inconscio che generava strutture particolari e ad esse si attribuiva una sicura genitrice: la mente.La sua pittura, definita per comodità “espressionista astratta” era capace di generare scatti emotivi allo spettatore, di ricreare legami con il mondo di Gorky (il folklore armeno) in una dinamica rappresentativa che coniugasse la cultura degli adepti con quella bassa.Tutto sembra affollarsi nelle opere di Gorky nel tentativo di generare nuove

forme espressive e nuove leve dienergia esprimono l’ineluttabilità del caos in un magmatico gioco di colore.Ad esempio, si osservi “The liver is the Cock’s Comb” che ben rappresenta tale energia indomita generata dalle formecoloristiche con molteplici punti di vista e rasoiate di tensione degne di Picasso e di Mirò.Ma, da lì a poco, Gorky chiudeva tragicamente la sua esperienza terrena lasciandoci però una prova gigantesca “il “fidanzamento II” del 1947. Le forme si sono ridotte all’osso con segni irregolari che generano archetipi di corpi in tensione amorosa e in affettuosi idilli. Qui si consuma l’amore, con una propensione al

disfacimento delle carni. Da questo quadro ci è sembrato che Isamu Noguchi abbia dato tridimensionalità alle sue opere quasi come omaggio al mitico Gorky, l’artista addolorato in terra straniera.

Arshile Gorky

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DOCUMENTA MOREANA

‹‹Con questa mirabile predisposizione naturale, cosa non ci avrebbe dato un tale ingegno, se avesse potuto formarsi inItalia?››(Erasmo da Rotterdam a Giovanni Froben, Lovanio, 25-08-1517).

L’elemento italiano nella vita e nell’opera di Thomas More1

La presenza della cultura italiana nell’opera di Thomas More è stata oggetto negli ultimi decenni di studi da parte di autori che hanno voluto sottolineare i molti legami di More con l’Italia.

Luigi Firpo nella sua aggiornata rassegna della fortuna del Moro in Italia, ha riaffermato la sua convinzione che ‹‹tutta la nostra cultura umanistica nutrì di sé nel profondo quel nobile spirito, fecondandolo di ispirazioni, di suggestioni, di richiami, dai giovanili entusiasmi pichiani allo storico commiato dal mondo, compiuto – secondo una tradizione piuttosto tarda – recitando ad un amico diletto due meste terzine del Petrarca, che richiamano con accento sconsolato la caducità della vita umana e la paragonano ad una giornata piovosa, greve di freddo e di noia››.

Poiché sulla vita di Giovanni Pico della Mirandola, del nipote Gianfrancesco, More modellò la sua prima opera in prosa inglese, pubblicata intorno al 1510, e poiché a un italiano, Antonio Bonvisi, egli indirizzò dalla prigionia nella Torre di Londra una delle sue ultime lettere, è lecito ravvisare una singolare continuità nei suoi interessi per l’Italia e nei legami ch’egli intrattenne con quei nostri connazionali che s’erano stabiliti in Inghilterra.Allo stesso modo non si può trascurare quanto sia stato ed è tutt’oggi rilevante l’influenza di pensiero dell’opera e del martirio di More sulla cultura italiana. 1 Lo studio del prof. Vittorio Gabrieli, apparso su “La Cultura”, 3-4, Le Monnier, Firenze 1979, approfondisce i rapporti che More ebbe con italiani, sia in Inghilterra sia altrove, e la conoscenza della nostra cultura che traspare dalla sua opera letteraria, umanistica, apologetica e devozionale.

Giovanni Pico della Mirandola(1463 - 1496)

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Giacomo de Antonellis

Un ammiratore di Moro: il Cardinale Marino Caracciolo

Per comprendere a fondo gli eventi e i tempi che hanno contraddistinto la figura di Tommaso Moro conviene guardare anche a personalità minori e luoghi lontani dalla sfera d’azione del cancelliere londinese. Con tale visione non appare improprio puntare l’attenzione su un italiano che ebbe vita e ruolo di notevole rilievo nel secolo di Carlo V e di Enrico VIII. Parliamo del cardinale napoletano Marino Caracciolo, un cortigiano più che un ecclesiastico, impegnato nella diplomazia imperiale e nominato governatore del Ducato di Milano negli ultimi anni di vita2

2 Nato a Napoli nel 1469 dalla aristocratica casata dei Caracciolo di Avellino, entrava nellacarriera ecclesiastica e diplomatica alle dipendenze del cardinale Ascanio Sforza di cui assumeva persino il nome firmandosi Marino Ascanio. Vescovo di Catania senza mai risiedervi, protonotario di Leone X, titolare di ricche abbazie, feudatario di Gallarate, nominato governatore di Milano da Carlo V e cardinale da Paolo III nel 1535, moriva nella città ambrosiana il 27 gennaio 1538. Il ritratto più rispondente del personaggio proviene

. Uomo da tutti assai stimato,

Marino Caracciolo, Agostino Busti detto il Bambaja (Particolare della tomba del Duomo di Milano)

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al punto che - alla sua morte - la cittadinanza ambrosiana decideva di onorarne la memoria con un mausoleo nell’abside del Duomo, superando la consuetudine di collocare nel tempio soltanto le tombe degli arcivescovi diocesani a tale scopo veniva incaricato un artista allora famoso, Agostino Busti detto il Bambaja. Circa 450 anni più tardi, il 16 marzo 1995 - per pura e mirabile coincidenza - nei pressi di questo monumento, sulla parte più alta del pilone che regge il pergamo destro della cattedrale milanese è stata posta un’intensa opera (eseguita dallo scultore Mario Rudelli) a ricordo e omaggio al Santo decapitato nella Torre di Londra.

Il Moro3

Di persona, infatti, sembrerebbe che i due personaggi - malgrado nonesistano prove documentarie - abbiano avuto la possibilità di un abboccamento diretto almeno nelle trattative al Campo del Drappo d’Oro nei pressi di Calais, tra le tende di Enrico VIII, Francesco I e Carlo V, nel giugno1520: Moro fungeva da consigliere del re inglese, l’umanista Guillaume Budé (1468-1540, fondatore del Collegio reale di Parigi) si trovava nell’entourage del sovrano francese, Erasmo da Rotterdam (1467-1536) stava con l’imperatore del cui affollato seguito faceva parte anche il diplomatico napoletano. Tra intese politiche e trattative più o meno segrete si intrecciavano pure incontri distensivi e colte conversazioni tra personaggi illustri: il brillante parlare del napoletano - segretario del cardinale Ascanio Sforza

e il Caracciolo si sono così di nuovo incontrati, quasi per riprendere un loro ideale heri dicebamus.

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dall’ambasciatore veneziano presso la corte degli Sforza, Marin Sanudo il Giovane, nei suoi Diarii che raccolgono gli eventi italiani tra il 1496 e il 1533: “...homo di bona statura et bella prestantia, ma grasso, allegro e bon parlator, qual’è napolitan tutto sforzesco”. Per un approfondimento biografico: GIOVANNI MARCO BURIGOZZO, Cronica milanese dal 1500 al 1544, in “Archivio storico italiano”, Milano 1842; MARCO FORMENTINI, La dominazione spagnola in Lombardia, Società storica lombarda, Milano 1884; FILIPPO MEDA, Il cardinale Marino Caracciolo, in “La Scuola cattolica”, Milano 1938; FEDERICO CHABOD, Il ducato di Milano e l’impero di Carlo V, in due tomi, Einaudi, Torino 1961; ALBERTO CARACCIOLO La genealogia della famiglia Caracciolo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1966; PAOLOGIOVIO, Elogia virorum illustrorum (a cura di R. MEREGAZZI), Poligrafico dello Stato, Roma 1972; TOMMASO ASTARITA, The Continuity of Feudal Power. The Caracciolo di Brienza in Spagnish Naples, Cambridge University Press, Cambridge 1992; NICOLA DELLA MONICA, Le grandi famiglie di Napoli, Newton & Compton, Roma 1998; Il Duomo. Dizionario storico artistico e religioso (voce specifica, a cura di G. DE ANTONELLIS), Nuove edizioni Duomo,Milano 2001.3La personalità del Santo è notissima. Ricordiamo soltanto che la sua scheda anagrafica porta il 1478 (qualcuno l’anticipa di un anno) come data di nascita e il 1535 (il 6 luglio, vigilia della traslazione delle reliquie di san Tommaso Beckett); nella sua vita era stato avvocato e sceriffo, diplomatico, statista e scrittore.

- non poteva certamente essere escluso da questi incroci. Del resto

4Appartenente a una delle famiglie storiche italiane, era figlio del duca Francesco e di Bianca Maria Visconti. Nato a Milano nel 1455, diventava cardinale nel 1484 e svolgeva un ruolo influente nelle vicende politiche dell’epoca, prima sostenendo Alessandro VI, poi entrando più

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era nota la propensione del Moro verso la cultura e le cose del mondo latino: egli contava numerosi amici italiani, ne apprezzava la lingua, dialogava e scriveva in latino. Naturalmente, considerata la già elevata fama dello statista inglese, è facile immaginare il rispetto e la cautela del coetaneo napoletano che allora faceva i primi passi nell’arte della diplomazia. In seguito, però, il Caracciolo avrebbe continuato ad interessarsi delle vicende d’oltre Manica avendo grande riguardo verso il carisma politico dello statista inglese.

E questa sua predilezione doveva essere ben nota negli ambienti intellettuali della penisola visto che - diffusasi in tutta Europa la notizia del processo e della decapitazione del Moro - il cardinale Nikolaus von Schönberg5

volte in rottura con il pontefice e costretto a fuggire a Milano. Alla scomparsa di questo, poteva rientrare a Roma per favorire l’elezione di Pio III e di Giulio II. Perdeva la vita a seguito di una epidemia di peste nel 1505.5 Tedesco di Meissen, era nato nel 1472 da una nobile famiglia (citata talvolta come Schönberg oppure Scomber) che ha dato alla storia numerosi ecclesiastici. Egli vestiva l’abito dei Domenicani per mano del Savonarola e nel 1506 era designato priore del convento di San Marco a Firenze. Utilizzato dal papa per missioni diplomatiche in Polonia, Ungheria, Spagna, Francia e Inghilterra, dal 1520 diventava arcivescovo dell’antica diocesi di Capua; docente di teologia a Roma e autore di alcuni saggi etici ed esegetici, nel maggio del 1535 otteneva da Paolo III la porpora di cardinale con il titolo di San Sisto. Moriva in Roma nel 1547. Secondo Francesco Guicciardini (Storia d’Italia dal 1492 al 1534) egli era “per natura fisso nelle opinioni proprie le quali spesso discordavano dalle opinioni degli altri uomini”. L’immagine dello Schönberg si ritrova in un affresco di Baccio della Porta (ovvero frà Bartolomeo di San Marco) su un arco della foresteria del convento domenicano di Firenze che rappresenta il Cristo con i due discepoli di Emmaus, ritratti l’uno con le fattezze del celebre biblista Santi Pagnini e l’altro interpretato appunto da frà Niccolò della Magna, il nome italianizzato del religioso (Giorgio Vasari, Vite, precisa che il tedesco vi appare “da giovane, il quale poi arcivescovo di Capoa ed ultimamente fu cardinale”).

sentiva l’urgenza di rivolgersi al confratello in Milano con una lettera fitta di particolari sul delitto di Stato. Questa relazione, inviata da Roma il 12 agosto 1535, esprimeva il rammarico del mondo cattolico e la sua personale commozione per una morte che, egli scriveva, “non so se più degna d’esser pianta o invidiata”. Il cattolicesimo romano, già provato dalla recente esecuzione del vescovo di Rochester, il venerando John Fisher, non sapeva come reagire dal momento che l’imperatore era preso dal problema della lotta ai saraceni nel Mediterraneo e il papa tendeva a temporeggiare (tre anni più tardi sarà emanata la scomunica di Enrico VIII). La pietà e l’esecrazione restavano le uniche forme possibili di condanna. Anche lo Schönberg nutriva il massimo riguardo verso il Moro che aveva incontrato di persona nel 1524 a Londra in missione diplomatica su disposizione di Clemente VII. La lettera ricalcava le fasi della tragedia secondo la cronaca di un ignoto diffusa a Parigi il 23 luglio 1535, subito tradotta in spagnolo tedesco e italiano, e pubblicata a Basilea in latino corredata da ulteriori

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particolari6. Il testo si dipana per circa otto cartelle nelle quali sono evidenziati i momenti più drammatici del processo concluso con la “essecutione” sulla “piazza grande della Rocca di Londra” alle ore 9 del fatidico 6 luglio che era un Martedì e non un “mercordì”, come erroneamente viene segnalato; al termine della missiva si leggono anche alcuni aggiornamenti di carattere politico sulla situazione internazionale: la presa di Tunisi, la fuga del pirata saraceno Barbarossa, il pattugliamento delle acque tunisine da parte del principe Antonio Doria con 11 galee, l’intenzione dell’imperatore di svernare tra Palermo e Napoli prima di recarsi in primavera a Roma per “baciare il piede al Papa”7

A noi interessa sottolineare come la vicenda di Marino Caracciolo abbia avuto contatti, sia pure marginali, con quella di Tommaso Moro. In particolare possiamo immaginare che - nell’assumere la carica digovernatore del Ducato di Milano - il nostro cardinale guardasse con interesse all’esperienza e allo stile del londinese. Senza dubbio l’onere del governo appariva gravoso avendo la città perso l’antica rinomanza di perla o miniera italiana legata alla dinastia Sforza. Alla scomparsa dell’ultimo duca, Francesco II, morto a soli quaranta anni il 2 novembre 1535, già da tempo la reggenza dello Stato veniva esercitata dal cancelliere Girolamo Morone e occultamente dallo stesso Caracciolo quale legato imperiale. Le casse del tesoro erano vuote. I commerci languivano. La popolazione era falcidiata dalla peste diffusa dai mercenari lanzichenecchi

.

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6Stampata nell’ottobre 1535 con il titolo di Expositio fidelis de morte D. Thomae Mori et quorundam aliorum insignium virorum in Anglia questa versione si basa sulla citata “Paris News Letter”, non riporta il nome del tipografo e del curatore ma solitamente viene attribuita alla mano di Erasmo da Rotterdam nonostante in successive edizioni venga intesa come opera di Philippus Montanus, professore nei collegi di Tournai e di Navarra in quell’epoca residente a Parigi: JEAN-CLAUDE MARGOLIN, Une question agée de cinq siècles: l’auteur de l’Expositio fidelis in “L’Erasmo”, Milano, maggio-giugno 2003.7 Il testo completo è stato più volte pubblicato. Tra le più recenti riproduzioni segnaliamo: AA. VV., Idea di Thomas More, Neri Pozza Editore, Vicenza 1978.8 La parola italiana deriva dalla corruzione dell’espressione tedesca Landsknecht ovvero “servi del paese”.

discesi in Lombardia per le grandi battaglie di Melegnano (13-14 settembre 1515, vittoria del re francese Francesco I sugli svizzeri dell’esercito imperiale) e di Pavia (24 febbraio 1525, sconfitta dello stesso Francesco da parte di Carlo V). Secondo un cronista dell’epoca, Milano si presentava come una città deserta perché “li sani fugivano et li ammalati non si potevano movere”. Al flagello poi si accoppiava la diffusione della carestia: i fornai non avevano farina per impastare il pane, i contadini temevano il contagio ed evitavano di andare in città con i prodotti della terra. Omicidi, sommosse e saccheggi si moltiplicavano per colpa di compagnie locali e delle truppe tedesche che non rispettavano nessuno: non esisteva più sicurezza personale, al punto che “se

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uno andava a comperare del pane a uno prestino bisognava combatterlo a portarlo a casa; et questo per causa che stavano de questi soldati per le cantonate, non dico tanta la sira né anco la matina a bon’ora ma in bel mezzogiorno, e li tolevano la robba a le persone tanto de pane quanto ancora de vino, et ancora le cappe da dosso”.

Gli spagnoli, accampati fuori porta, vigilavano con indifferenza; di tanto in tanto impiccavano qualche malvivente, restando in attesa che la situazione evolvesse a loro favore. Infatti - non avendo lo Sforza lasciato eredi -l’imperatore poteva soddisfare le proprie mire aggregando il territorio ducale ai suoi domini sui quali, è noto, il sole non tramontava mai. Per Milano era tempo di decadenza. Secondo una diffusa storiografia la dominazione spagnola puntava sullo sfruttamento sistematico delle capacità locali, in base alla formula “il re comanda a Madrid, il governatore a Milano”. Di qui la credenza che il delegato imperiale puntasse soltanto agli interessi personali e imperiali, il che in qualche caso poteva anche verificarsi (brutto era il ricordo dei gravami imposti dal marchese di Pescara e del Vasto, Alfonso d’Avalos9

9Governatore del Ducato alla morte del Caracciolo, nel 1538, in precedenza si era distinto quale comandante delle truppe imperiali, uomo di cultura e poeta (tra l’altro, aveva sposato Maria d’Aragona, protettrice di letterati e artisti). Nato nell’isola di Ischia nel 1502, moriva a Vigevano presso Milano nel 1546.

)ma la regola non era sempre quella, almeno con l’avvento del cardinale Caracciolo. Guardando poi al profilo prettamente politico, nel periodo spagnolo si verificavano due significativi eventi sul piano locale e su quello generale: il potenziamento delle istituzioni ambrosiane e la Riforma religiosa antiprotestante.

Nel primo caso veniva rispettata la tradizione ducale del potere comunale in armonia con le direttive di Madrid. Ciò avveniva mantenendo alcuni organi civili come il Senato, la Magistratura delle entrate, il Capitano di giustizia, il Magistrato di sanità, con ampia giurisdizione sopra l’intero ex-ducato, mentre sul piano locale si delegava la responsabilità al Consiglio dei 60 Decurioni, al Vicario e ai Dodici di provvisione, ai Conservatori del patrimonio cittadino, al Podestà e alle Corporazioni di arti e mestieri. Oggi si parlerebbe di “autonomia locale”, temperata tuttavia dal potere sovrano della Corona di Spagna, attraverso il Governatore, il Gran Cancelliere, il Castellano, e il Consiglio segreto sottoposto direttamente al Consiglio d’Italia presso la corte di Madrid che poteva avvalersi pure di occasionali “visitatori generali”. (Sul piano civile veniva ricostituito il Collegio dei Giureconsulti, una scuola amministrativa dalla quale uscivano dottori in grado di far giustizia, difendere imputati, governare la cosa pubblica, discutere cause, coltivare scienze storiche e letterarie, studiare le matematiche).

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Dal canto suo la Chiesa godeva di grande autonomia assieme a particolari privilegi, forte di propri uffici e tribunali spesso in contrasto con gli organi della società laica. Di conseguenza scoppiavano contenziosi, talvolta pesanti, specie quando sulla cattedra ambrosiana sedeva qualche forte personalità. Ciò valeva, per esempio, al tempo del cardinale Carlo Borromeo10.L’arcivescovo infatti gestiva un proprio “bargello”, detta famiglia armata, che andava oltre la difesa della Curia arrogandosi il diritto di arrestare e detenere ogni contravventore al codice canonico, tipo concubinari notori come preti immorali. Purtroppo, negli anni preborromaici la sede vescovile era praticamente senza guida11

Del resto, Caracciolo possedeva un’ottima esperienza sul piano diplomatico avendo al suo attivo una serie di delicate missioni in diversi paesi europei

consentendo al clero secolare costumi indisciplinati e incongrui (durante i riti, secondo un cronista, i pretiparlavano e si insultavano tra loro: cosa che induceva la Curia a richiamare i religiosi affinché nec dicant verba nec blastement) mentre la liturgia scadeva nello spettacolo e il popolo anteponeva al pregare le cerimonie penitenziali indette dall’inquisitore la domenica con i luterani portati “alla porta maggiore del Domo, vestiti de saco, con una disciplina e batterse, comenzando al principio della Messa granda insino al levare”.

Tale era il confuso quadro della Chiesa all’ingresso del cardinale-governatore. Di fatto nella storia milanese la figura Marino Caracciolo, in quanto intruso e forestiero, sarebbe passato inosservato alla stregua di altri personaggi più o meno anonimi. Tuttavia egli conosceva sufficientemente il Ducato in quanto “controllore politico” e “amministrativo” (in tal modo l’aveva definito Alessandro Bentivoglio, luogotenente generale dell’ultimo Duca in un Memoriale del 20 gennaio 1532) e si disponeva a reggere l’istituzione ambrosiana con accortezza e benevolenza. Ne scaturivano risultati più che soddisfacenti.

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10 Carlo Borromeo (Arona 1538 - Milano 1584) era nipote di papa Pio IV dal quale veniva nominato cardinale e segretario di Stato prima di essere destinato a governare l’arcidiocesi di Milano. Tra i suoi maggiori successi vanno annoverate la riapertura e la conclusione del Concilio di Trento. In ventiquattro anni di esperienza pastorale a Milano, dal 1560 alla morte, riformava tutta la vecchia struttura ecclesiastica dando impulso alla nuova vita religiosa attraverso undici sinodi diocesani e sei concili provinciali. Consacrato santo nel 1610 con festa liturgica il 4 novembre.11 In effetti la commenda di Ambrogio era stata affidata a Ippolito II d’Este nel 1519, quando questi aveva appena dieci anni, che la mantenne nominalmente fino al 1550 allorché barattava la sede di Milano con quella di Novara di cui era titolare il vescovo Giovanni Angelo Arcimboldi: il primo si riservava due terzi della mensa arcivescovile, il secondo conquistava una cattedra di grande prestigio senza avere alcuna capacità di comando.12 ASTARITA TOMMASO, The Continuity of Feudal Power. The Caracciolo di Brienza in Spanish Naples, Cambridge University Press, Cambridge 1992.

. Tra l’altro, nel 1513 era presente nella Città Eterna quale “oratore” (ambasciatore) di Milano, nel 1517 veniva designato dal papa

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quale nunzio in Austria e nel 1520 lo rappresentava alla corte dell’imperatore (al cui pieno servizio entrava nel 1523), nel 1521 aveva operato in quello sfortunato tentativo di mediazione tra cattolici e luterani sfociato nella condanna degli scismatici con l’editto di Worms13; nel maggio 1524 si trovava in veste di ambasciatore a Londra assieme all’amico Schönberg per negoziare la pace tra Impero, Francia e Inghilterra (e in tale occasione si presume abbia rivisto il Moro); dopo il sacco di Roma del 1527 era intervenuto nella polemica tra Roma e Londra sulla crisi matrimoniale di Enrico VIII, infine si era adoperato per comporre l’ennesimo dissidio tra Serenissima e Impero partecipando alla Pace firmata il 5 agosto 1529 a Cambrai14. Sempre puntuale in ogni suo mandato, ne aveva tratto congrui riconoscimenti15

Così, inviandolo nel 1530 a Milano, Carlo V sapeva di muovere bene la sua pedina avendolo sperimentato più volte come per varie ambascerie. E poco avanti ne esaltava le doti affidandogli la responsabilità del Ducato. Caracciolo assumeva questa carica ufficialmente il 15 agosto 1536

.

16

13 Per le inspiegabili contraddizioni della storia, anche un altro membro della famiglia Caracciolo, Galeazzo marchese di Vico (Napoli 1517 - Ginevra 1586) avrebbe frequentato la corte di Carlo V per circa dieci anni dopo il 1532 fino alla sua conversione al protestantesimo, alla fuga dal campo imperiale e al suo trasferimento in terra elvetica. Particolari in BENEDETTO CROCE, Vite di avventure, di fede e di passione. Il marchese di Vico, Laterza, Bari, 1936.14 Accordo noto anche come “Pace delle Dame” perché firmata da Luisa di Savoia in nome del figlio Francesco I e da Margherita d’Austria per conto del nipote Carlo V, sulla base di matrimoni incrociati tra i maggiori sovrani europei: questa intesa avrebbe assicurato quindici anni di tranquillità nei rapporti tra Spagna, Francia, Inghilterra e Serenissima. All’atto della firma erano certamente presenti sia Tommaso Moro sia Marino Caracciolo.15Ad esempio, la nomina ad abate di Santa Maria Teneto presso Reggio in Emilia e di Sant’Angelo a Fasanella nel Salernitano, nonché il feudo di Gallarate donatogli dallo stesso Francesco II Sforza; prebende più che cariche, offerte (come era nel costume dell’epoca) in rapporto alle rendite e ai benefici che esse comportavano. Del resto la sua vocazione puntava soprattutto verso la politica e la diplomazia più che alla missione religiosa, tanto che -designato vescovo di Catania nel 1524 - non solo aveva evitato di stabilirsi alle falde dell’Etna ma, considerando la diocesi siciliana alla stregua di un mero appannaggio personale, vi aveva dirottato, con il ruolo di amministratori apostolici, prima il fratello Scipione e poi i nipoti Lodovico e Nicolò: evidentemente non si sentiva coinvolto dagli aspetti pastorali della nomina. 16In effetti l’investitura portava la data del 1° agosto 1536, corrispondente al sedicesimo anno di vita imperiale per Carlo V (Gand nelle Fiandre 1500 - convento di Yuste in Estremadura 1558): su questo personaggio, JEAN-MICHEL SALLMANN, Carlo V, Rizzoli, Milano 2000. Il Caracciolo aveva suggerito all’imperatore il vantaggio di incamerare lo Stato milanese alla morte dell’ultimo duca essendone egli il successore naturale e ideale. E rispondendo a tale buon suggerimento l’imperatore lo gratificava quale amicus noster carissimus ut qui summa fide, prudentia, industria, dexteritate, rerumque omnium ad optimum regimen pertinentiarum cognitione et experuentia praeditus sit. Lo trattava quindi come “nostro carissimo amico nel quale sono riposte la grande fiducia, la prudenza, la perizia e la rapidità, la cognizione e l’esperienza nel portare a buon termine ogni cosa”.

: era

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passato poco più di un anno dal concistoro del 21 maggio 1535 allorché Paolo III gli aveva accordato la dignità cardinalizia per l’ordine dei diaconi con il titolo di Santa Maria in Aquino, dietro suggerimento dello stesso imperatore. Si ritrovava in tal modo cardinale (senza diocesi) e governatore (civile e non militare, ma con un territorio vastissimo quanto complesso da amministrare) a contatto di gente e di istituzioni di cui doveva farsi guida e garante. A tanta fiducia il Caracciolo rispondeva con risultati brillanti, a giudicare dalla benevolenza che gli avrebbe riservato in memoriam la popolazione milanese alla sua repentina scomparsa, appena venti mesi dopo la nomina.

A che cosa dobbiamo attribuire questa inconsueta simpatia per un personaggio, tutto sommato, estraneo alla mentalità e alle vicende milanesi? Soprattutto alla sua costante preoccupazione di non calcare la mano sui contribuenti. “Impedire che la pressione tributaria divenisse rovinosa per i sudditi e che le truppe commettessero soprusi nel territorio dello Stato, era scopo primo del governatore civile, tanto più quando a quel posto si trovasse una persona di forte coscienza morale e di volontà decisa come il Caracciolo”17. Inoltre, alla ricerca di strade per migliorare le finanze dello Stato, il cardinale-governatore sollecitava ogni occasione per aiutare le forze locali. Ne fa fede un decreto di sgravio fiscale che riguarda non soltanto il Duomo ma anche l’Ospedale maggiore e dieci chiese erette in Luoghi Pii18

Assorbito interamente dalle incombenze amministrative, nutriva minore riguardo per i problemi di natura ecclesiastica. Forse per onorare la sua veste di porpora, di tanto in tanto doveva pure immischiarsi in questioni religiose ma lo faceva in rare occasioni e senza eccessivo entusiasmo. Qualche esempio: deprecava lo stato miserando di molti prelati, respingeva (“Questo clero è molto povero”) l’esazione di due decime richiesta dal pontefice per combattere i Turchi, metteva ordine in taluni conventi ove frati e monache “vivevano molto licentiosamente senza rispetto di Dio né del mondo”, dirimeva vertenze tra ecclesiastici fonti di “schandalo grandissimo”, biasimava un francescano per le sue prediche poco ortodosse

.

17FEDERICO CHABOD, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Einaudi, Torino 1961.18Il documento, da me rintracciato, si trova presso l’archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo e porta la data del 6 aprile 1537. Ecco il testo del suo “regesto”, cioè un sunto organico dello scritto, che sancisce l’agevolazione attraverso la dogana sul commercio di carne macellata e secca: “Dato in paga fatto dal Signor Cardinale Marino Caracciolo Governatore di questo Stato di Milano a nome della Camera Cesarea, a favore della Veneranda Fabbrica del Duomo (nel testo cinquecentesco si legge: fabrice ecclesie majoris) e d’altri Luoghi Pii e Chiese di Milano, dell’annuo Reddito di Scudi 8422, immessi sopra il Dazio della Dogana delle Carni, ed addizione delle carni della città e Dominio di Milano con promessa della manutenzione, e salvo il patto perpetuo di grazia a favore d’essa Cesarea Camera”.

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sull’Immacolata Concezione, condannava un eretico di Cremona perché “homo troppo speculativo”, favoriva la pratica delle Quaranta Ore itineranti tra le chiese milanesi ideata da Sant’Antonio Zaccaria.

Diventa allora comprensibile la sincerità dello sgomento e del dolore per la sua scomparsa intervenuta in modo assolutamente imprevisto, per una apoplessia. Un cronista dell’epoca annotava nell’italiano dell’epoca condito da espressioni locali: “Et l’ultima dominica di detto zenaro che fu a dì 27... moritte el nostro Monsignore reverendissimo cardinale Carazzo, gubernatore de Milano; et moritte all’improvviso che la dominica stava bene, e la nocte seguente se lamentò, e con quello lamentarsi alle 11 ore spirò. Et gli fu fatto le esequie al mercore seguente... e fu parato el Domo assai onestamente con gran luminero et fu fatto un tribunale (catafalco) al solito carigo de candele... e fu fatto un revolto (processione) con tutta la gerexia (clero) de Milano... fu portato in Domo e lì fu detto da un gran dottor le sue laudi, al solito de li altri signori... e così fu fenito un’ora de nocte, e altro non fu fatto, ma fu deponuto in sagrestia per portarlo via nella patria sua de Napoli”19

Soltanto per la parte finale, la cronaca non risponde a verità dal momento che la salma sarebbe rimasta a Milano per riposare in Duomo, adorna di un magnifico mausoleo. Lo troviamo nello spazio del postcoro, sulla sinistra rispetto alla porta della sacrestia meridionale. L’artistica composizione è attribuita allo scultore Agostino Busti detto il Bambaja (secondo le antiche carte della Veneranda Fabbrica; qualche studioso moderno ne individua invece la mano di Cristofaro Lombardo detto il Tofano o il Lombardino: nonè esclusa una collaborazione) che si era già creato una fama con il grandioso monumento funebre dedicato al comandante dell’esercito francese duca Gaston de Foix

.

20. L’impianto scenico alterna marmo bianco a pietra nera. La statua del cardinale - in abiti da cerimonia - giace distesa sul lato destro con la mano a sostegno del capo21

19 M. BURIGOZZO, op. cit., fine gennaio 1538. 20 L’opera si trova attualmente presso il Museo civico del Castello Sforzesco a Milano.21 L’atteggiamento del corpo presenta una coincidente analogia con quella del mausoleo funebre eretto per il cardinale Ascanio Sforza, maestro e guida del Caracciolo, che si trova nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, opera del celebre scultore Andrea Sansovino.

. Cinque statue sormontano la figura: sono quelle del Salvatore e dei santi Gerolamo, Pietro, Paolo e Ambrogio. In basso risalta l’epigrafe in latino composta dal fratello minore Giovanni Battista: Marino Caracciolo Neapol. illustri genere orto. Qui plurimus pro Pontiff. Caess. Q. functus est legationibus primam Carolo V Imp. ad Aquas Grani coronam imposuit Anglos conjunxit et Venetos ac demum e Paulo IIIMediolani ad eodem Carolo sibi creditam regeret. Importuna morte maxima

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cum Reipublicae Christianae jactura sublatus est V Cal. Febr. MDXXXVIII annos natus LXIX22

La prima riguarda quella espressione Carolo V Imp. ad Aquas Grani coronam imposuit che farebbe pensare ad una incoronazione imperiale compiuta di sua mano, cosa che non risulta dagli atti storici: il sovrano di Gand aveva infatti ricevuto il segno del potere supremo sulla cattedra di Carlo Magno dai tre (su sette) elettori ecclesiastici - Alberto von Hohenzollern arcivescovo di Magonza, Richard von Greiffenklau arcivescovo di Treviri e Hermann von Wied arcivescovo di Colonia - mentre il ruolo del Caracciolo, allora protonotario apostolico con ruolo di nunzio, era solamente quello di delegato pontificio

.Due postille appaiono necessarie, a questo punto.

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La seconda segnalazione serve a memorizzare un episodio avvenuto al tempo della Repubblica Cisalpina cioè nelle inquiete giornate del 1797. Sull’onda dei postulati egualitari della Rivoluzione francese, anche a Milano si era diffusa una febbre iconoclasta nei confronti di ogni simbolo araldico, non soltanto gli stemmi sui palazzi nobiliari ma persino i marmi nei cimiteri e nelle chiese. Così, un “commando” di agitati fondamentalisti era penetrato in Duomo per imporre la sacrilega direttiva: invano aveva tentato di opporsi l’architetto della Fabbrica, Felice Soave, spiegando ai demagoghi quale offesa alla cultura si accingevano a compiere contro questo autentico “punto di storia patria”. I fervidi “innovatori” non ne tenevano gran conto distruggendo a colpi di scalpello molte insegne gentilizie su vari monumenti funebri tra cui quello del Caracciolo di fronte al quale i repubblicani erano rimasti impressionati dalla sigla Imp. riferita a Carlo V

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22Con queste parole si elencavano dunque le principali virtù e le date essenziali del defunto, nato da nobile famiglia partenopea, in Aquisgrana delegato dal pontefice a imporre la corona sulla testa di Carlo V, promotore di pace tra Inglesi e Veneziani, elevato al soglio cardinalizio da Paolo III e nominato governatore di Milano dall’imperatore, improvvisamente sottratto alla comunità cristiana il 27 gennaio 1538 all’età di 69 anni.23 In un secondo tempo, il 22 febbraio 1530, celebrandosi i cinque anni della vittoriosa battaglia di Pavia contro re Francesco I e i trenta anni di vita dell’imperatore, il riconciliato Clemente II avrebbe imposto di propria mano a Carlo V il pallio e la corona nella cattedrale di Bologna. Non è escluso che anche questa volta fosse presente il diplomatico napoletano che ormai ruotava più nell’orbita della Corte che in quella della Curia.24 Gli stolidi giacobini non potevano prevedere che qualche anno più tardi avrebbero applaudito e si sarebbero inchinati a un nuovo Cesare nella persona di Napoleone, vale a dire proprio di colui che aveva creato la Repubblica Cisalpina prima di farsi incoronare non solo Imperatore dei francesi a Parigi il 2 dicembre 1804 ma anche Re d’Italia nella stessa cattedrale milanese il 26 maggio 1805.

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La personalità del cardinale-governatore Marino Caracciolo è senza dubbio rilevante. Meraviglia, di conseguenza, la scarsa attenzione riservatagli nel tempo dagli storiografi milanesi, persino dagli scrittori di vita ecclesiale che avrebbero avuto motivo di approfondire. Con l’eccezione di

Filippo Meda25

25 Giornalista e uomo politico (Milano, 1869-1939), dopo aver diretto L’Osservatore cattolico e l’Unione, con don Luigi Sturzo fu tra i fondatori del Partito popolare, deputato al Parlamento italiano, più volte ministro, infine presidente della Banca popolare di Milano. Il suo giudizio sul Caracciolo si trova in un articolo biografico pubblicato nel 1938 dalla rivista “La scuola cattolica”.

il quale, abile nel valutare la gente con il metro del realismo, soppesava le doti del personaggio invitando gli studiosi a proseguire lericerche per non lasciarlo relegato in un angolo dello scenario ambrosiano. Egli lo esaltava come“uno degli alti ecclesiastici che primi seguirono sinceramente la politica di riforma” nel quadro generale della storia della Chiesa mentre sul piano della vita milanese lo considerava titolare di “uno dei posti principali al costituirsi del dominio spagnolo, nella complessa veste di prelato, diplomatico, amministratore”. In sostanza, il Meda lo considerava “una figura per parecchi lati molto interessante sebbene da pochi fra noi conosciuta”. Lacuna che abbiamo parzialmente colmato ricordando questo napoletano per nascita ma sforzesco per temperamento dalla integerrima coscienza e dalla determinata volontà. Un autentico uomo del Rinascimento. Esattamente come il contemporaneo Tommaso Moro, anche egli entrato tra le pagine della storia ambrosiana

con l’icona collocata nel Duomo di Milano. Adesso una soffusa luce che filtra dalle vetrate istoriate sembra legare per sempre il cardinale-governatore e il santo cancelliere.

Opera di Mario Rudelli, Cattedrale di Milano

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IL RACCONTO ITALIANO DEL PROCESSO E DELL'ESECUZIONE DI THOMAS MORE 26

La lettera di Schönberg può essere una riproduzione della traduzione italiana di Carpi così come potrebbe fondarsi sulla traduzione italiana della Expositio fidelis de morte Thomae Mori et quorundam aliorum insignium virorum in Anglia del Cardinale Reginald Pole, un ampio documento traboccante d’ammirazione per la vittima e di esecrazione per il persecutore, ch’era stampato con la data di Parigi, 23 luglio 1535, indirizzata da un oscuro «Philippus Montanus» a un certo «Caspar Agrippa», ma si andava

In una lettera del card. Niccolò Schönberg al card. Marino Caracciolo 12 agosto 1535

Le notizie della morte di Thomas More giunsero rapidamente nel Continente e con una larga diffusione. Il racconto del processo e della esecuzione di More fu pubblicato in latino, francese e tedesco. La fonte di questa informazione e le ragioni della sua diffusione non sono chiaramente conosciute.

Il testo del racconto italiano è tratto dalle Lettere di Principi, una raccolta fatta da Girolamo Ruscelli. L’autore della lettera è Nicholas Schönberg,Cardinale di Capua e consigliere di fiducia del precedente Pontefice Clemente VII.

Secondo Sir Gregory da Casale fu Schönberg che spinse Paolo III a dare a Fisher il cappello cardinalizio. Nello stesso Concistoro Schönbergcaldeggiò un’azione risoluta contro Enrico VIII e l’immediata pubblicazione della bolla pontificia di intimazione, ma la sua opinione non prevalse. Il testo stampato della lettera mostra la data del 12 agosto 1535, e non c’è alcuna indicazione dal testo di come Ruscelli ne sia venuta in possesso.

Il destinatario della lettera, Marino Caracciolo, fu fatto Cardinale nello stesso Concistoro che vide l’elevazione di Fisher. Come Schönberg, fu un ardente sostenitore di Carlo V, che lo designò Governatore del ducato di Milano nel 1536.

Un raffronto da vicino con la Expositio Fidelis e la Paris News Lettermostra che il racconto italiano se non è una traduzione dei due documenti è per lo meno un’interpretazione di un originale comune. L’originale potrebbe essere stato benissimo la copia di una relazione che un paio di settimane dopo l’evento già circolava a Parigi e che il Nunzio papale Rodolfo Pio da Carpi ricevette da Anne de Montmorency, Gran Mestro della Casa di Francesco I. Il 29 luglio Carpi, dopo averla tradotta in italiano, indirizzò la lettera ad Ambrogio Recalcati, segretario di Paolo III.

26 Pur non essendo un documento storico inedito abbiamo ritenuto necessario riproporlo ai lettori di Morìa come un seguito naturale dell’articolo di Giacomo de Antonellis.

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dicendo che fosse stato vergato dalla più celebre penna d’Europa: quella di Erasmo. La versione italiana del Pole non ci è pervenuta, ma ne dà notizia una lettera di Damiao de Gois ad Erasmo del 15 dicembre 1535.

Al di là della sua provenienza la lettera di Schönberg è doveroso portarlaall’attenzione degli studiosi di More non solo perché può rappresentare esattamente la forma nella quale le notizie del processo e della morte di More giunsero alla corte papale, come testimonianza di una consapevolezza e di una risposta italiana alla morte di More, ma specialmente perché è una delle maggiori indicazioni della capacità del grande uomo inglese di conquistare il rispetto, l’affetto e l’amicizia degli uomini di ogni tempo.

A Monsignor Marino, Card. Caracciolo di Milano.

Vostra Signoria Reverendissima mi richiede, che io le scriva minutamente, come sia successa la morte, che questi di s'è intesa, dell'infelice Messer Tomasso Moro, il qual poco tempo fa era Cancellier grande d'Inghilterra, & io, che sono obligato di servir Vostra Signoria Reverendissima in ogni cosa, son contento di servirla anco in questa, quantunque la materia molto mi dispiaccia, havendo a ragionar della ingiusta morte d'un'huomo tanto da bene, innocente, valoroso, & antico amico mio. Saprà dunque Vostra Signoria, per quel che scrivono d'Inghilterra, che il predetto Messer Tomaso Moro fu menato il primo del mese di Luglio prossimo passato dinanzi i giudici deputati dal Re. Et quando le querele, & informationi fatte contra lui, furono publicate in sua presentia, il Signor Cancelliero, & il Duca di Nortfolc si voltarono verso lui, dicendo cosi. Voi

vedete Messer Tomaso, che voi havete grandemente errato contra la sacra Maestà del Re, nientedimeno habbiamo tanta speranza nella clementia, e benignità sua, che quando voi vogliate pentirvi di ciò, & rivocare la ostinata opinion vostra, nella quale tanto temerariamente sempre siete stato costante, ottenerete in ogni modo gratia, & perdono. Alle quai parole il detto Moro rispose. Signori, io vi ringratio quanto più posso, del buon voler vostro, ma prego l'onnipotente Dio, che gli piaccia mantenermi in questa mia giusta opinione, in modo, che in essa possa

perseverar' in sin' alla morte. Et quanto al carico delle querele, che m'imponete, temo, che ne l'ingegno, ne la memoria, ne la parole mie sieno sufficienti a rispondere, considerando la prolissità, & grandezza de gli articoli, la lunga detension mia in prigione; & la lunga malatia, & debilità

Cardinale Niccolò Schönberg

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grande, la qual al presente sopporto. Allhora comandarono, che gli fosse portata una sedia, sopra la quale assettatosi, seguì il parlar suo in questo modo.

Quanto al primo articolo, nel quale si contiene, ch'io, per mostrar la malitia mia contra il Re, nella causa di questo suo secondo matrimonio, ho sempre fatto resistentia a Sua Serenissima Maestà, non risponderò altro, se non che quello, ch'io ho detto, l'ho detto secondo il parere, & la conscientia mia, non dovendo, nè volendo celar la verità al mio Principe. Il che, se io non havessi fatto, havrei certamente fatto come traditore, & disleale. Et per un tal'errore (se pur si può chiamare errore) confiscati i miei beni, sono stato condannato a perpetua carcere, nella quale già quindici mesi io sono stato rinchiuso. Risponderò solamente al principal caso, ove voi dite, che io sono incorso nella pena dalla statuto fatto nell'ultimo consiglio, dopo l'havermi voi fatto mettere in prigione, dicendo, che come ribello ingiustamente, & malitiosamente haveva detratto al nome, titolo, onore, & dignità, della Maestà del Re in quello, che dal predetto consiglio gli era stato concesso, cioè, che lo ricevevano come supremo capo della Chiesa in Inghilterra. Et prima, Quanto a quello, che voi m'opponete, ch'io non ho voluto rispondere cosa alcuna al Signor Secretario del Re, nè all'onorando Consiglio di S. Maestà, quando m'interrogarono, che opinione io havessi del detto statuto, se non dire, che essendo io morto al mondo, non pensava punto a tali cose, ma solamente alla passione del Nostro Signor Giesù Christo: vi dico, che per tal silentio mio, lo statuto vostro non mi può ragionevolmente condannare alla morte; perche nè lo statuto vostro, nè tutte le leggi del mondo possono punire alcuno, se non per qualche mal fatto, ò detto, & non per un simile silentio, come è stato il mio. A questo rispose il Procuratore del Re, dicendo, che questo cotal silentio era dimostration vera, & inditio certo d'una maligna mente verso il predetto statuto. Però che ogni leale, & fedel soggetto alla Maestà del Re, essendo interrogato circa il detto statuto del parere, & dell'opinion sua, era tenuto, & obligato a risponder categoricamente, & senza dissimulatione alcuna, che tale statuto fosse buono, & santo. Certamente disse il Moro, s'egli è vero quello, che nelle ragioni civili si scrive, che è, Qui tacet, consentire videtur, il silentio mio ha più presto confermato lo statuto vostro, che condannato. Et per quanto voi dite, che ogni fedel soggetto èobligato a rispondere etc. s'intende, che in cosa, che appartenga alla conscientia, il fedel soggetto è più obligato alla conscientia, & anima sua, che ad ogni altra cosa di questo mondo, quando la conscientia sia di sorte, che non sia causa di scandalo, ò di seditione al suo Signore, come è la mia, facendovi certi, che la conscientia, et mente mia insino ad ora non è stata scoperta ad huomo, che viva.

Quanto al secondo articolo, ove si dice, che io ho fatto centra il detto statuto, scrivendo diverse lettere al Vescovo di Rochester, consigliandolo, &

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essortandolo à non voler consentire al detto statuto, vorrei volentieri, che dette lettere fossero portate, & lette in publico. Pure, poiché, come voi dite, elle sono state abbruciate dal detto Vescovo, mi piace di dirvi al presente brevemente il tenore di esse. In alcune non si conteneva altro, che certe cose famigliari, come si richiedeva alla nostra lunga, & antica amicitia. In alcune altre era la risposta di quello, che il detto Vescovo m'havea mandato a domandare, cioè, quello che io havessi risposto nella Torre alla prima mia essaminatione sopra il detto statuto. Al quale io risposi sol questo, che io haveva informato la conscientia mia, & che egli informasse la sua nè altro risposi, sopra il carico dell'anima mia. Questo è quanto si conteneva nelle mie lettere, per le quali secondo lo statuto vostro non mi potete condannare àmorte.

Quanto al terzo articolo, che dice, che quando io fui essaminato per lo consiglio, io risposi, che lo statuto vostro era, come una spada da due tagli, che volendo osservare, si perderebbe l'anima, & non osservandolo, overo contradicendogli, si perderebbe il corpo, quello che medesimamente ha risposto il Vescovo di Rochester, per lo qual detto a voi pare, che apertamente fossimo d'accordo, vi dico, ch'io non risposi, se non con conditione, cioè, che se lo statuto era come una spada da due tagli, io non sapeva in che modo l'huomo havesse a governarsi, non volendo incorrere nell'uno de' due pericoli. In che modo il detto Vescovo habbia risposto, io non lo so. Se egli ha risposto come io, è stato per conformità de' nostri ingegni, & dottrina, ò studii, non già che fossimo d'accordo cosi tra noi. nè pensate, che mai io habbia detto, ò fatto cosa alcuna contra lo statuto vostro con malitia. Può bene essere, che malitiosamente sieno state rapportate parole del fatto mio alla Maestà del Re. Questo detto, furono domandati per un commandator Regio, dodici huomini, secondo il costume, & usanza del paese d'Inghilterra, a’ quali furono dati i detti articoli, accioche per essi giudicassero, se il Moro havesse malitiosamente contrafatto al detto statuto, ò nò. Costoro, poiché hebbero essaminata la causa tra loro per ispatio d'un quarto d'hora, ritornarono dinanzi a’ Giudici principali ordinarij, & pronuntiarono questa parola, GHYTY, la quale in Italiano significa reo, ò degno di morte. Dopo questa condannatione, il Signor Cancelliere pronuntiò in publico la causa della retentione del Moro secondo la forma, & tenore della nuova legge. Dopo questo cominciò il Moro a parlare, dicendo. Adunque, poi ch'io son condannato (& Dio sà come) voglio un poco più liberamente parlare dello statuto vostro, per levare all'anima mia anco questo carico. Sono già sette anni passati, che io non fo altro, che studiare sopra questo caso, nè mai ho trovato appresso alcun Dottore Ecclesiastico, che un secolare, overo temporale possa, ò debbia esser capo sopra lo spirituale.

Questo detto, gli fu interrotto il parlare dal Signor Cancelliere, il qual disse. Messer Tomaso, voi volete essere stimato più savio, & di miglior

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conscientia, che tutti i Vescovi, tutti i nobili, & tutto il resto del Regno universalmente. Al quale il Moro rispose. Signor mio, per un Vescovo, che voi havete, dell'opinion vostra, io ho de' santi più di cento della mia, & per un vostro parlamento, ò Concilio (& Dio sa che Concilio) io ho tutti i Concilij generali, fatti da mille anni in qua, & per un Regno io ho la Francia, & tutti gli altri Reami di Christianità. Disse allora il Duca di Nortfolc. Adesso Moro vediamo la malitia tua chiaramente. Rispose il Moro, Signor Duca, mi è stato di necessità dir questo, per dichiaratione della conscientia mia, & satisfattione dell'anima, & di questo chiamo il Signor Dio per mio testimonio, il quale è solo scrutatore de' cuori humani. Et più vi dico, che questo vostro ordine, & statuto è mal fatto, perche già havete fatto professione, et giurato, di non far mai cosa alcuna contra la Chiesa, la quale tra' Christiani è una sola, intera, & indivisa: nè voi soli havete autorità, senza il consentimento di tutti gli altri Christiani, di far nuove leggi, ò statuti contra la detta unione di tutti. Ma non è però questa la causa, per la quale m'havete condannato. So io bene per qual causa, che non per altro m'havete condannato, se non che per lo passato non ho voluto acconsentire al nuovo matrimonio della Maestà del Re. Ma spero nella Divina bontà, & misericordia, che come San Paolo, secondo che si scrive nella sua vita, perseguitò Santo Stefano, né per questo resta, che non sieno adesso amici in Cielo; cosi noi tutti, ancora che in questo mondo siamo discordi, nell'altro habbiamo ad essere uniti con perfetta carità. Et cosi io prego l'onnipotente Iddio, che voglia servare, & guardar da male la sacra Maestà del Re, & darle buon consiglio.

Dopo questo, essendo il Moro rimenato alla Torre di Londra, una sua figlia chiamata Margherita, innanzi che entrasse nella detta Torre, gittatasinel mezzo della turba degli arcieri, & satelliti, mossa da un'estremo dolore, & amore paterno, senza rispetto alcuno dell'assistentia del popolo, ò del loco publico, venuta al padre, & abbracciatelo strettamente, lungamente così il tenne, senza mai poter mandar fuori voce, ò parlargli.

Il dolce padre, poi che gli fu concesso da gli arcieri, per racconsolarla un poco, disse. Margherita figliuola, habbi pacientia, nè ti dare affanno, perchèegli è volontà di Dio, che cosi sia. Hai conosciuto l'animo, & la natura mia, già fa gran tempo. Dopo questo, essendosi la detta Margherita dilungata dal detto suo padre la spatio di dieci, ò dodici passi, da capo ritornò ad abbracciarlo. Alla quale il padre con fermo viso, & parlare, senza mutatione alcune di colore, ò spargimento di lagrime, non disse altro, se non che pregasse Iddio per l'anima sua. Il Mercordì seguente fu il detto Moro decapitato su la piazza grande della Rocca di Londra. Il qual poco innanzi all'essecutione, brevemente parlò alcune cose, pregando gli assistenti, che volessero pregar Dio per lui in questo mondo, & egli pregherebbe per loro nell'altro. Poi gli essortò, & pregò con grande istantia, che volessero anche

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pregare Dio per il Re, accioche gli desse buon consiglio, protestando, che moriva suo buon servitore, & principalmente del Signore Iddio.

Questa, Monsignor Reverendissimo, è stata la fine di Messer TomassoMoro, non so se più degna d'esser pianta, che invidiata. Dio l'habbia ricevuto nella gloria del paradiso, come io credo, & spero. Se in altro posso servir Vostra Signoria Reverendissima, facciami favor di commandarmi, come ha fatto hora.

Delle cose di Tunisi, dopo la presa della Terra, & la fuga di Barbarossa, non c'è altro di momento: se non che Barbarossa s'è salvato a Bona con più d'otto mila Turchi, & gran moltitudine di Mori. Antonio Doria n'andò per menar via, ò per abbrucciare 15 galee, che vi sono: ma non ha potuto far nè l'uno, nè l'altro, havendole trovate affondate a meza acqua. Da poi v'è andato il Principe Doria con 11 galee. L'Imperatore se ne verrà a Palermo, & di là a Napoli, dove si tratterrà tutto questo inverno, & a primavera verrà a baciare il piede al Papa. Ma di tutto Vostra Signoria Reverendissima sarà ragguagliata a pieno dall'Agente suo, al quale ho commesso ogni cosa. Alla buona gratia sua humilmente mi raccomando. Da Roma. A' 12. d'Agosto. 1535.

Di V. Signoria Reverendiss. &Illustriss. umilissimo ser.Nicolò, Cardinal di Capua.

Bibliografia:- Lettera del Cardinale Niccolò Schönberg al Cardinale Marino Caracciolo sul processo e la morte di Thomas More, 12 agosto 1535, conservata negli archivi vaticani è pubblicata la prima volta in RUSCELLI G., Lettere di principi, le quali o si scrivono da principi, o a principi, o ragionan di principi. Giordano Ziletti, Venezia 1562, vol. 1, pp. 127-129.- WHEELER T., “An Italian Account of More’s Trial and Execution”, in Moreana Bulletin Thomas More, 26-1970, p. 33 (Viene riportato il racconto per intero). - “Il processo e la morte di Thomas More in una lettera di Niccolò Schönberg”, in .AA.VV,

Idea di Thomas More (1478-1978), Neri Pozza, Vicenza 1978, pp. 145-150 (Viene riportato il racconto per intero). - FIRPO L., “Thomas More e la sua fortuna in Italia”, in AA.VV, Idea di Thomas More

(1478-1978), Neri Pozza, Vicenza 1978 pp.254-256. - Letters and papers, foreign and domestic, of the Reign of Henry VIII, ed. J. Gairdner,

London 1862 segg., vol. VIII, p. 1141. - L. von PASTOR, Storie dei Papi, Roma, vol. V, 1924, pp. 645-646.

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Uomini e Libri

MARIALISA BERTAGNONI(1922-1989)

La sua folgorante “love story” con Thomas More27

Ben presto, peraltro, si dedicò alla ricerca nell'ambito della letteraturainglese privilegiando la figura e l'opera di s. Tommaso Moro. Nel 1961 tradusse, in collaborazione con Loredana da Schio, il dramma di Robert Bolt

Marialisa Bertagnoni, nata a Vicenza il 12 dicembre 1922, compì il corso di studi classici con la laurea in lettere moderne all'Università di Padova e fu subito attiva nella vita culturale della città interessandosi, oltre che di letteratura, di teatro e di cinema. Fu assai attiva, infatti, fin dalla fondazione, nel Circolo del Cinema e nel Cineforum cittadino; e qualcuno ricorderàancora il cinema all'aperto La lucciola da lei fondato e gestito per alcuni anni nel giardino di casa sua con gusto raffinato e con precise mire culturali.

27 Così in una lettera in memoria della sua più cara amica Loredana da Schio la studiosa e discreta signora vicentina definisce la sua passione moreana.

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Un uomo per tutte le stagioni, rappresentato al Teatro Olimpico e in seguito tradotto anche in film per la regia di Fred Zinnemann. Seguì la versione di due Vite di Tommaso Moro, quella scritta dal genero del Santo, William Roper (Brescia 1963) e quella moderna di R.W. Chambers (Milano 1965). Nel 1968 tradusse le Preghiere della Torre composte dal Moro in carcere.

Dal 1974 fece parte del consiglio di redazione della rivista Moreana edita dall'Associazione internazionale Amici Thomae Mori di cui fu vicepresidente dal 1976 al 1986. Con gli Amici teneva costantecollegamento attraverso una sua Lettera da Vicenza. Uno di loro, alle esequie, sottolineò la ricchezza della sua amicizia intellettuale e la sua attività incessante per dare vita e sostegno al sodalizio. Basterebbe la letturadell'ultima Lettera, pubblicata postuma, per rendersi conto dell'estremadiligenza della sua ricerca bibliografica di quanto appariva in Italia su Tommaso Moro, e della sua “dolce pedanteria”, come lamentava qualcheamico, nel pretendere esattezza e completezza nelle citazioni e neiriferimenti storici.

Socio corrispondente dell'Accademia Olimpica fin dal 1966, divenneAccademico effettivo il 9 dicembre 1978, l'annoi n cui pubblicò da Neri Pozza, in collaborazione con altri studiosi, Idea di Thomas More. Fu pure membro del Comitato per gli spettacoli olimpici dal 1955 al I973 e, nel 1987, membro della Commissione per la biblioteca e l'archivio dell'Accademia. Non fa meraviglia se il dedicare una vita di studio e di interesse intellettuale e spirituale a Tommaso Moro finì col creare un rapporto così stretto tra Marialisa Bertagnoni e lui, una specie di spirituale coabitazione, che una coincidenza straordinaria sembra aver suggellato:Marialisa Bertagnoni morì il mattino del 6 luglio, il giorno medesimo in cui a Londra, nel 1535, morì martire Tommaso Moro. Tra le sue ultime fatiche di studiosa va ricordata la traduzione dell'opera estrema di S. Tommaso Moro, Nell'orto degli ulivi (Milano 1984), meditazione sull'agonia di Cristo composta in carcere e interrotta quando al prigioniero fu tolta anche la possibilità di scrivere. L’opera riveste un evidente valore autobiografico per il Moro e ne diventa l'immediata preparazione alla morte ormai prossima; ma la traduttrice sembra avervi intuito un'affinità propria con l'autore, poiché da vari anni ormai la sua vita era segnata dalla sofferenza che la condusseanzitempo alla morte. Nel saggio introduttivo la Bertagnoni sottolinea quel passo del libro in cui il Moro si ritrova in sintonia con il “discepolo ignoto”,il ragazzo che segue Gesù nell'orto degli ulivi e sguscia via lasciando nelle mani dei soldati l'unico lenzuolo in cui era avvolto, per salvare “ciò che è più propriamente se stesso”. Anche il ricco deve saper “lasciare con prontezzatutto ciò che esteriormente possiede scegliendo razionalmente di salvarel'unica cosa veramente essenziale la sua anima”.

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Novità Editoriali

In una straordinaria opera di rivelazione letteraria, Lady Norrington getta nuova luce su un importante personaggio storico: la seconda moglie di Thomas More. Sebbene per più di quattro secoli sia rimasta sullo sfondo come una figura sconosciuta e molto oscura,durante i ventiquattro anni di matrimonio con Thomas More seguì con consumata abilità una delle più considerevoli famiglie in Europa. Riuscì a far ridere il marito dopo tutti questi anni di vitacomune, e continuò a farlo ridere durante i giorni bui e pericolosi dei suoi mesi nella torre di Londra: un risultato indubbiamente raro e un trionfo di coraggio e di risolutezza. A cura di Giuseppe Gangale, trad. it. di Mariangela Pignataro

Angelo, il protagonista del racconto, uomo inquieto e malinconico, dopo la morte di Lucia, la donna che l’aveva amato e che, in vita, lo aveva incoraggiato a lungo a mettersi in ascolto di sé e della sua verità, ha scelto un luogo privilegiato per mettersi in ascolto: la Bocca della Verità. Qui, tra domande e soste esistenziali, osserva i turisti e ascolta le loro personali verità. Ascolta storie e raccoglie verità di vita, registrando sul suo taccuino personale pezzi di verità e confidando a Lucia le sue progressive scoperte. Trascorre le giornate tra la propria casa a Testaccio e la Bocca della Verità, in attesa che la propria verità venga fuori e che, solo alla fine, potràscoprire davanti al Tevere.http://www.arduinosacco.it/product.php?id_product=843

Cari amici, non sono venuto in Kirghisia per mia volontà o per trascorrere le ferie, ma per caso. Improvvisamente ho assistito al miracolo di una società nascente, a misura d'uomo, dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un'utopia, ma un bene reale e comune. Qui sembra essere accaduto tutto ciò che negli altri Paesi del mondo, da secoli, non riesce ad accadere. Arrivando in Kirghisia, ho avuto la sensazione di 'tornare' in un Paese nel quale in realtà non ero mai stato. Forse perché da sempre sognavo che esistesse. Il mio strano 'ritorno' in questo meraviglioso Paese, è accaduto dunque casualmente. Per ragioni tecniche, l'aereo sul quale viaggiavo ha dovuto fare scalo due giorni nella capitale. In ogni settore, pubblico e privato, non si lavora più

di tre ore al giorno, a pieno stipendio, con la riserva di un'eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all'amore, alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili…”.

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HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO

Virginio Rognoni - esponente storico della Democrazia Cristiana è stato più volte Ministro dell'Interno, Ministro di Grazia e Giustizia e Ministro della Difesa. Dal 2002 al 2006 è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura; terminata quest'esperienza, si è ritirato a vita privata.

Maria Pia Pagani - [email protected] (Pavia, 25 febbraio 1975) è docente di Letteratura Teatrale all’Università di Pavia. Dottore di ricerca in Filologia Moderna, è autrice di monografie e saggi sul teatro russo e i suoi legami con la cultura spirituale ortodossa.

Annalisa Margarino - ha studiato filosofia a Genova con una tesi sulla fenomenologia religiosa di Edith Stein. Ha conseguito il baccalaureato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Attualmente è docente di religione cattolica presso la diocesi di Roma.

Isabella Gagliardi – docente e ricercatrice di storia medievale all’Università di Firenze si occupa di storia delle istituzioni ecclesiastiche e dei movimenti religiosi della cristianità tardo medievale e della prima età moderna. Si interessa al culto dei santi e alla trasmissione della memoria agiografica.

Giacomo de Antonellis - giornalista professionista, è nato a Napoli nel 1935 ma vive e lavora a Milano. Cultore di problemi storici, è autore di alcuni saggi su fatti e personaggi del movimento cattolico. Attualmente dirige la rivista bimestrale “Civiltà Ambrosiana”.

Angelo Fracchia - nato a Savona l'1-6-1971; baccalaureato conseguito allo Studio Teologico Interdiocesano di Fossano, licenza in scienze bibliche conseguita al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Traduttore e animatore di incontri e corsi biblici per parrocchie o gruppi.

Roberto F. Ghisu - vive a Torino.. SSttoorriiccoo ddeell cciinneemmaa,, ffoottooggrraaffoo ((hhaa eessppoossttoo aanncchhee aallllaaBBiieennnnaallee ddii VVeenneezziiaa)).. HHaa rreeaalliizzzzaattoo ddaa rreeggiissttaa ddooccuummeennttaarrii ee ffiillmm iinnddiippeennddeennttii,, qquuaallii ""IIll vveennttooiinnvviissiibbiillee -- aarrttee ee ssppiirriittuuaalliittàà"".. AAttttuuaallmmeennttee llaavvoorraa aall pprrooggeettttoo ""LLee qquuaattttrroo ccoossee uullttiimmee --pprroocceessssoo ee mmoorrttee ddii TToommmmaassoo MMoorroo"" uunn ddooccuuddrraammmmaa ttrraattttoo ddaall rroommaannzzoo ssttoorriiccoo oommoonniimmoo..

Cesare Grampa – direttore editoriale della rivista Morìa.

Giuseppe Parisi –nato a Catanzaro, vive a Crotone. Si occupa di arte contemporanea da diversi anni, ha curato diverse mostre di arti visive e ha collaborato con alcuni giornali come La Stanza Rossa, il Crotonese e altre testate. [email protected]

Giuseppe Gangale - direttore responsabile della rivista Morìa. Docente di Religione presso la diocesi di Crotone. Attualmente il suo interesse si concentra sugli studi agiografici, in particolare la diffusione del pensiero e dell’opera di San Thomas More.

Carmela Mantegna - si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l'Università di Pisa. Ha insegnato Lingua e Letteratura Francese nella sua città di origine, Crotone. Ha sempre coltivato e consolidato nel tempo la sua istanza più profonda di formatore, attento alle dinamiche relazionali e ai processi di apprendimento. Gli studi in Teologia e la formazione in Counseling Relazionale di Prevenire è Possibile hanno allargato gli orizzonti spirituali, umani e culturali. Esperta in Scrittura Autobiografica, insegna Analisi Autobiografica nelle Scuole di Couseling Relazionale di Prevenire è Possibile.

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Stampato in Italia

nel mese di Dicembre 2012 da:

Campano snc – Pisa