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Davide Pelanda Mondo recluso Vivere in carcere in Italia oggi Prefazione di Lidia Maggi Postfazione di Vilma Demitri

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Davide Pelanda

Mondo reclusoVivere in carcere in Italia oggi

Prefazione di Lidia MaggiPostfazione di Vilma Demitri

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© 2010 Effatà EditriceVia Tre Denti, 110060 Cantalupa (TO)

Tel. 0121.35.34.52Fax 0121.35.38.39E-mail: [email protected]://www.effata.it

ISBN 978-88-7402-569-5

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Editing: Alberto RezziGrafica: Silvia Aimar, Vito MoscaStampa: Lego – Lavis (TN)

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PREFAZIONEA cura di Lidia Maggi*

Avevo ventidue anni quando sono stato arrestato. Droga. Una condanna severa, la pena massima per quel tipo di reato. Non ero mai stato chiuso; non mi era mai capitato di non avere un angolo dove nascondermi quando avevo voglia di piangere. Non sapevo cosa volesse dire non poter stare da solo, mai; essere in un format come il Grande Fratello per anni e anni senza averlo scelto, senza un premio da ritirare alla fine del gioco. In prigione ho conosciuto l’inferno. Non sono stato privato soltanto della mia libertà di movimento, ma anche della possibilità di potere, in qualche momento della giornata, stare da solo. È la cosa che più mi ha pesato in questa lunga esperienza. Mi umiliava mostrarmi “nudo”. In carcere non esiste solitudine per i bisogni più intimi. Ho imparato a conoscere i rumori intestinali dei miei compagni di cella, i loro odori, ogni secrezione del loro corpo mi era nota. Il russare di uno di questi mi ha fatto quasi impazzire nelle intermina-bili ore di veglia notturna. Un trapano nel cervello. Eravamo condannati a vivere come siamesi legati gli uni agli altri dallo spazio angusto di una cella. Ho percorso nel carcere ogni girone fino a toccare il fondo per diventare carburante umano di un sistema perverso. Ora sono un ex. Ex detenuto, disadattato, arrabbiato, sfiduciato dall’istituzione carceraria, che giudico più criminale dei delinquenti che ospita. Non sopporto più la vicinanza

* Lidia Maggi è pastora della chiesa battista di Varese. Come responsabile del dipar-timento dei diritti umani delle chiese battiste, si è occupata di temi legati alla giustizia e di pastorale alle persone recluse e alle loro famiglie. È responsabile de La Scuola Domeni-cale e scrive su riviste cattoliche e protestanti. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo: Preghiera, EMI 2006; Quando Dio si diverte. La Bibbia sotto le lenti dell’ironia, Il Pozzo di Giacobbe 2008; Le donne di Dio. Pagine bibliche al femminile, Claudiana 2009.

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di qualcuno, non dormirò mai nella stessa stanza con un’altra persona. Ditemi pure che sono borghese, ma se voi foste stati in quell’incubo...

È così che inizia a raccontarsi Salvatore al nostro primo incon-tro.

La scelta di partire dalle sue parole ci permette di ricordare la co-sa più importante imparata ascoltando le storie di gente reclusa: die-tro alla questione carceraria ci sono uomini e donne in carne e ossa con i loro sentimenti, i loro bisogni, le loro contraddizioni. Persone che si portano dentro la sofferenza di aver generato e subito violen-za e che, oltre alla sofferenza da loro stesse innescata, dovranno ela-borare, all’interno della struttura detentiva, quella che il carcere fa loro subire.

Una riflessione sulla pena, sulla giustizia, sul rapporto tra carcere e società va fatta a partire da questa consapevolezza. Non parliamo di questioni astratte, ma di persone con i loro corpi, le loro storie, i loro volti e i loro nomi.

Ognuno vive il carcere con capacità più o meno buone di adat-tarsi alla reclusione. Ci sono, però, delle varianti che rendono il per-corso oggettivamente più duro: ad esempio, essere straniero, con la difficoltà di capire la lingua. La distanza culturale, la lontananza dal-la famiglia e la precarietà economica accrescono notevolmente il di-sagio.

Certo, non ha contribuito a migliorare la condizione detentiva l’ultimo Decreto Sicurezza che, mettendo sullo stesso piano il clan-destino e chi commette un reato penale, ha ulteriormente affollato le carceri di stranieri colpevoli soltanto di essere nati nel Paese sba-gliato.

Sentiamo l’urgenza di un confronto ad ampio respiro sul carce-re: non solo perché l’emergenza della condizione carceraria porta di continuo alla ribalta tragici casi di cronaca che vanno dai suicidi, ai pestaggi, alle rivolte dei detenuti, tutti segnali allarmanti che indi-cano un serio malessere della struttura. Osiamo proporre un percor-so articolato sul mondo della detenzione, soprattutto perché siamo convinti che il carcere possa rappresentare una finestra, seppure sbar-rata, sulla salute della nostra democrazia. Il modo con cui una socie-

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tà infligge la pena a chi sbaglia e si preoccupa del recupero racchiude l’essenza del senso più profondo di giustizia. Il carcere, dunque, non riguarda solo gli altri, quelli che hanno sbagliato, quelli rinchiusi tra le mura, comprese le guardie carcerarie che, per lavoro e spesso sen-za strumenti adeguati, si trovano in una situazione estrema di stress. Ciò che avviene dentro le mura riguarda ognuno di noi.

La tentazione di rimuovere il problema e non voler vedere è forte. Del resto le mura impediscono la vista. Proteggono il nostro sguar-do. C’è qualcosa di rassicurante nel sapere che i cattivi vengono rin-chiusi, separati dai buoni cittadini. Questa divisione geografica è una tentazione arcaica che rimanda a un immaginario infantile la-tente in ognuno di noi. Ristabilisce un ordine del mondo senza sfu-mature e, dunque, facilmente comprensibile, come nelle favole. Tale ordine, tuttavia, funziona solo nelle fiabe. La realtà è più complessa e una struttura inadeguata ai suoi scopi può mettere in moto mec-canismi di violenza e di ingiustizia tali da pregiudicare gli scopi edu-cativi che si propone.

Qual è la funzione del carcere? Una certa vulgata tende a vedere la prigione come struttura contenitiva: «È bene che i criminali sia-no rinchiusi perché fuori fanno danno». Nessuna preoccupazione di recupero in questa visione. Il carcere è il tappeto dove nascondere la polvere che dà fastidio.

Se, tuttavia, il carcere si pone come struttura non solo conteni-tiva, ma anche finalizzata al recupero, il confronto e la verifica dei processi di guarigione non possono essere elusi, poiché attualmente il carcere rischia di diventare un luogo che educa all’illegalità. Que-sto non solo perché esperienze diverse di devianza vengono a con-fronto, ma anche perché la struttura stessa, che dovrebbe garantire la legge, si trova, suo malgrado, a scavalcarla e violarla. I diritti stabiliti dei detenuti sono continuamente negati e non necessariamente per una volontà punitiva; a volte è proprio il sovraffollamento che ren-de impossibile far fare al detenuto il percorso necessario; più spesso è solo la sciatteria, la negligenza di operatori che non svolgono be-ne il proprio lavoro. Un detenuto che avrebbe diritto ad usufruire di permessi non può farlo perché la sua sintesi (la cartella personale che delinea il percorso di recupero) non è stata chiusa, quando addirit-

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tura non risulta mai aperta. C’è qualcuno che non ha svolto il lavoro e chi paga è solo il detenuto. Tutto questo ha serie conseguenze sul percorso educativo.

La persona che si vede di continuo respingere una domanda di ri-chiesta per necessità che gli spettano (un colloquio con un educato-re, una telefonata...; il detenuto straniero che assiste impotente alla distribuzione del lavoro interno in base a criteri preferenziali e non certo alle liste ufficiali) accumula una tale rabbia da vedere sfiducia-ta una possibile volontà di rientro nella legalità. «Se anche le guar-die, gli educatori, la direzione non rispettano la legge perché devo farlo io?».

Che il carcere, nonostante gli obiettivi dichiarati, si riveli più spesso, per la maggior parte dei detenuti, luogo che educa all’illega-lità, sarebbe ragione sufficiente a mettere in seria discussione l’inte-ra struttura.

Non pensiamo che, dietro ad ogni detenuto, si nasconda una vit-tima del sistema. Non vogliamo idealizzare chi sbaglia. La certezza della pena per chi commette un reato fa parte di quel processo de-mocratico che permette la convivenza.

Ma cosa vuol dire certezza della pena? Quando una persona sba-glia, qual è la giusta condanna e quale la finalità di questa?

Il nostro ordinamento giuridico prevede che, a chi commette un reato, sia tolta la libertà per un periodo di tempo ragionevole. Ma to-gliere la libertà significa forse privare della dignità un cittadino? Far-lo vivere in situazioni anguste, promiscue, che attentano alla salute e all’integrità mentale, fa parte della pena? Se il processo di carcera-zione, come da più parti si sostiene, è finalizzato non solo alla pena, ma anche al recupero sociale del cittadino che ha sbagliato, siamo si-curi che l’attuale situazione detentiva favorisca, anche solo in parte, tale recupero?

Non vogliamo generalizzare. Ci sono carceri dove la riflessione degli operatori su questi temi è avanzata e nascono progetti e prov-vedimenti concreti per favorire un effettivo miglioramento della de-tenzione; e prigioni dove lo stato detentivo è particolarmente diffi-cile, degradante, violento. Anche questa disparità rappresenta, tutta-

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via, un’ulteriore ingiustizia del sistema. Il carcere dovrebbe essere il posto dove chi ha sbagliato, attraverso un percorso di riabilitazione, si prepara per reinserirsi nella vita; ma attualmente non è così: esso risulta piuttosto una struttura che serve a poco, che fa più danno che bene, che non riesce a risolvere il problema della criminalità. Le no-stre prigioni sono la fotografia di una giustizia punitiva, luoghi dove è quasi impossibile il recupero della persona. Disinteressarsi a quan-to avviene all’interno delle carceri significa gettare la spugna sulle fondamenta della nostra giustizia. È anche per questo che vi invitia-mo a percorrere le diverse tappe di questo viaggio nelle carceri ita-liane: per dare a chi legge la possibilità di vedere e capire qualcosa di più sulla posta in gioco nella questione carceraria.

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INTRODUZIONE

È necessario essere vicini a tutte le realtà in cui si soffre anche perché ci si sente privati di diritti elementari: penso ai detenuti in carce-ri terribilmente sovraffollate, nelle quali non si vive decentemente, si è esposti ad abusi e rischi, e di certo non ci si rieduca.Messaggio televisivo di fine anno del Presi-dente della Repubblica Giorgio Napolitano, 31 dicembre 2009

Basta alle carceri come luogo di degradazio-ne e violenza. Don Luigi Ciotti, Presidente Gruppo Abele, «La Stampa», 31 ottobre 2009

«Le nostre carceri per la metà sono fuorilegge»1. È triste e a dir poco vergognoso constatare che questa tremenda affermazione arrivi dal Ministro della Giustizia italiano Angelino Alfano in carica quando scriviamo. Perché allora ci dovrebbero spiegare come si è arrivati a questo punto.

Come cioè si è arrivati all’insostenibile condizione delle carceri, oggi veramente ridotte a «discariche umane», vale a dire «per lo più luoghi senza speranza»2.

L’idea di scrivere questo libro nasce dopo la drammatica estate 2009 vissuta dai detenuti, che si sono visti aggiungere la famosa ter-

1 Dal comunicato stampa del 17 novembre 2009: Diciassette anni, si impicca nel carcere minorile di Firenze, a cura di «Ristretti Orizzonti».

2 Ibidem.

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za branda in celle progettate per una persona... e dopo le drammati-che notizie dell’aumento esponenziale dei suicidi nelle carceri italia-ne, nonché delle morti cosiddette «misteriose» avvenute dopo essere «caduti dalle scale». Eufemisticamente parlando.

Le persone che ho intervistato, pur vivendo tra mille difficoltà, non si scoraggiano. Tra le righe di ciò che hanno detto traspare in lo-ro, talvolta, ancora fiducia e speranza che qualcosa possa cambiare, che qualcosa ancora si possa fare, che si possa parlare di misure alter-native alle carceri. Eppure giorno dopo giorno la situazione carcera-ria peggiora drammaticamente, si arriva ad un trattamento sempre più spesso disumano e degradante.

Le pagine che seguono rappresentano il mio piccolo impegno ci-vile e di solidarietà verso le persone segregate in questi luoghi sovraf-follati, stipati all’inverosimile.

Per far sapere ai posteri, ai giovani e tutti quelli che lo vorranno leggere che da quel «Pianeta Carcere» che ci sembrava così lontano, isolato anche materialmente, si sta sollevando un grido disperato, una richiesta di aiuto.

Anche se 67 tra deputati, senatori e consiglieri regionali di tutti gli schieramenti politici, assieme ai garanti per i diritti delle perso-ne private della libertà personale, su iniziativa del Partito Radicale, hanno visitato nei giorni di Ferragosto del 2009 le carceri italiane, questo non è bastato per interrompere la vergogna del nostro Paese! Perché c’è chi dice, e lo condivido, che «neanche i cani al canile ven-gono trattati così!».

Fino all’altro ieri tutti abbiamo imparato e concepito il carcere come il luogo dove rinchiudere persone che hanno commesso dei reati, a cui si limita fortemente la libertà individuale. Il periodo di detenzione servirebbe per poter pensare e riflettere sul male che si è fatto, per trovare una sorta di strada per redimersi. La struttura car-ceraria dovrebbe anche, in qualche modo, accompagnare a rieducare e riabilitare il delinquente. Almeno queste erano alcune delle funzio-ni del carcere e della pena nelle intenzioni di chi le ha ideate. Buoni e lodevoli propositi che sempre hanno guidato le scelte dei nostri le-gislatori. Un «libro dei sogni»? Oggi così sembrerebbe.

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Nella drammatica realtà carceraria italiana, ritroviamo detenuti ammassati come spazzatura in una discarica. Ho volutamente usato l’immagine forte della discarica umana perché a mio parere rappre-senta bene ciò che oggi, nel Terzo millennio, sono le carceri del no-stro Paese.

Sempre più questa istituzione è diventata il luogo dove si me-scolano poveracci, quasi sempre stranieri, spacciatori e tossicodipen-denti in un melting pot di usanze, tradizioni e caratteri da «Corte dei miracoli». Una condizione disumana, senza diritto, dove spesso la violenza la fa da padrona. Il tutto in un sovraffollamento pazzesco! E poi, anche se qualcuno lì dentro muore, nessuno se ne accorge.

Eppure il nostro Ordinamento Carcerario, istituito con una legge del 1975, all’articolo 1 dice esplicitamente: Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assi-curare il rispetto della dignità della persona.Il trattamento improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose [...]. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi.

Poco o niente smuove l’attenzione dei nostri governanti, di qual-siasi colore politico essi siano. In loro prevale solo una risposta emo-tiva, palliativa, a dir poco ridicola, come ad esempio le carceri gal-leggianti sulle navi.

Molto spesso i politici di turno si muovono per consenso eletto-rale, dando risposte sragionate che non denotano molta intelligenza. Ecco allora le proposte di fantasmagorici piani straordinari di edili-zia carceraria che parrebbero efficaci a lunghissimo termine (ma con quali soldi e con che personale – vista la cronica carenza – non è dato sapere) ma che lasciano, a breve termine, la situazione immutata.

Possibile che i governanti non si vedano obbligati a fermare un’opinione pubblica sempre più assetata di «giustizia» (le virgolette sono d’obbligo), di «sicurezza» (anche qui le virgolette sono neces-sarie) e di sete di vendetta verso quegli stranieri disperati, per i qua-

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li non proviamo neanche più pietà umana? Con l’idea che si possa applicare la «tolleranza zero», anche con chi è senza documenti, di-sperato, straniero e clandestino... Semplicemente da ammanettare e sbattere in galera!

Oggi il cosiddetto «Pacchetto Sicurezza» prevede questo e altro: si mette facilmente in prigione il giovane «graffitaro» italiano appe-na diciottenne, se è colto in flagrante e armato di bomboletta spray intento a fare un bellissimo murales; ma soprattutto va in galera il tossicodipendente, il senza fissa dimora, oppure si viene arrestati per oltraggio a pubblico ufficiale, reato che un tempo era stato depena-lizzato ma che è ritornato nel Codice Penale.

E tutto ciò avviene senza un dibattito serio, aperto e meditato, avallando leggi frettolose e poco ragionevoli!

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LE CARCERI SCOPPIANO...E C’È CHI CHIEDE (E OTTIENE)

IL RISARCIMENTO

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È un dato di fatto incontrovertibile: attualmente i 206 istituti pe-nitenziari italiani possono avere una capienza massima di 43 mila posti, con un limite tollerabile di 60 mila. Mentre invece nelle nostre carceri abbiamo ben 64 mila 859 detenuti. Un numero sempre cre-scente di circa 800 unità al mese. Ma la previsione è che, di questo passo, «a giugno prossimo avremo oltre 70 mila detenuti. Assurdo, folle, insensato»1.

Dunque le carceri italiane sono sovraffollate, i detenuti sono sti-pati come sardine. E la lettera che abbiamo volutamente presentato all’inizio del presente capitolo, nuda e cruda così come è stata scrit-ta dalla popolazione detenuta del carcere di Padova, è una dura pro-testa per aver imposto dall’alto l’aggiunta di una terza brandina per ogni cella da due posti a partire dalla tarda primavera 2009. Una im-posizione per legge, senza tenere affatto conto che lì dentro, in 8 me-tri quadrati, ci devono vivere tre persone con tre letti, un tavolo di 80 centimetri per 60, tre sgabelli, tre armadietti. Persone a cui man-cherà sicuramente l’aria per respirare, dove in estate fa un caldo tor-rido con temperature fino a 40 gradi, costrette a viverci a lungo per tutta la pena inflitta. Ai limiti della sopravvivenza. Forse chi fa que-ste normative dimentica che lì dentro vivono persone, esseri umani di qualsiasi provenienza, italiani come stranieri. E che, molto spesso, vivono peggio dei cani del canile: a questi ultimi, randagi e trovatel-li, perlomeno si dà un fazzoletto di terra per scorazzare... mentre in-vece ai detenuti, sempre più spesso, si toglie la palestra o il campetto da calcio per ricavarci nuovi spazi di detenzione. Cioè altre celle che, con le nuove leggi sempre più restrittive del cosiddetto «Pacchetto Sicurezza», non basteranno mai.

Succede, ad esempio, a Torino, dove nella palestra sono stati mes-si alla bell’e meglio i materassi per gli ultimi arrivati, 80 nuove perso-ne che non si sapeva più dove sistemare. E purtroppo simili situazio-ni sono all’ordine del giorno di tutte le strutture carcerarie italiane. Vissute oramai con rassegnazione, come se fosse una «normalità».

I numeri, infatti, ci dicono che attualmente la popolazione car-

1 A. RETICO, “Era malata, non poteva stare dentro. Inascoltate decine di perizie psichiatri-che”, in «La Repubblica», 2 novembre 2009.

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ceraria è pari a circa 64 mila detenuti, mentre pare che i posti nelle strutture di detenzione siano pari a circa 41 mila2.

Ad un convegno tenutosi a Roma sul sistema sanzionatorio orga-nizzato a fine 2009 dal Seac (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario) attivo nelle carceri italiane dal 1967, il direttore del carcere «Lorusso-Cotugno» di Torino, Pietro Buffa, ha citato una serie di dati. Nel 2007, su 94 mila ingressi in carcere ci so-no state circa 70 mila uscite nei nove mesi successivi, 35 mila entro 11 giorni, 29 mila entro 3 giorni, pari al 32% del totale. Nello stes-so anno a Torino il 52% degli 8 mila ingressi, pari a 4 mila detenuti, è uscito entro 3 giorni. «La detenzione in carcere di queste persone ingolfa il sistema penitenziario», ha detto Buffa, spiegando che se i conti del sistema penitenziario non tornano più, le cause vanno cer-cate al di là del solo problema quantitativo:Se abbiamo uno dei più grandi tassi di sovraffollamento d’Europa è a causa di una politica che preme sul carcere con varie ondate emergenziali, a Torino che è un grande carcere metropolitano ho dovuto autorizzare l’apertura di palestre, corridoi e sgabuzzini per la mancanza di spazi3.

Attualmente ci sono circa 1.600 detenuti, ma la struttura è arri-vata a contenerne anche più di 1.700, su una capienza massima di 1.100 persone.

A Torino il 52% di detenuti è straniero, in genere non in regola con il permesso di soggiorno. In alcuni penitenziari italiani si arriva anche al 70%: I due terzi della popolazione carceraria italiana non possiede più i requisiti per chiedere le misure alternative, ci sono larghe fette di persone recidive e straniere irregolari che non entrano più nella logica delle misure alternative – ha continuato Buffa –. Siamo passati dalla detenzione penale alla deten-zione sociale, al carcere vengono demandati compiti per i quali non siamo attrezzati, come l’accertamento dei familiari irregolari in visita all’interno di una struttura4.

2 Dal telegiornale de La7 del 27 agosto 2009, intervista al senatore Marco Perduca (Radicali – PD).

3 Giustizia: siamo passati da detenzione penale a quella sociale, in «Redattore Sociale», 21 novembre 2009.

4 Ibidem.

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La direttrice del carcere di San Vittore a Milano, Gloria Manzelli, così spiega tale incremento:Purtroppo sembra che ci sia realmente un incremento dei reati commessi dai più giovani. Fra i giovani adulti arrivati in carcere nel 2008, 1500 sono sotto i 25 anni; due hanno 18 anni, sessanta 19 anni. Poi ci sono 153 ventenni, 128 ventunenni, e 1036 ragazzi fra i 22 e i 25 anni. È anche alla luce di questi dati che ci stiamo dando da fare per creare strutture in grado di seguire al meglio i giovanissimi5.

Una situazione a dir poco esplosiva se si pensa che lì dentro, in quei pochi metri quadri, devono convivere tre persone magari di na-zionalità diverse, con esigenze personali diverse, che devono impara-re ad andare d’accordo. Infatti, se le persone provengono da tre cul-ture diverse, ad esempio dall’Italia, dall’Africa e dalla Cina, che si fa? Se questi detenuti hanno una mentalità aperta, sono disponibili al dialogo ed al confronto, magari vanno d’amore e d’accordo. Se ciò non avviene la convivenza, giocoforza, sarà pessima, al limite della sopravvivenza.

Sentite a questo proposito cosa racconta il detenuto Gentian Germani: Quando nell’aprile del 2005 sono stato arrestato, essendo questa la prima carcerazione della mia vita, non avevo la minima idea di come fosse fatta una cella e di come ci si potesse vivere all’interno. Arrivato in carcere, dopo la perquisizione e una visita del medico che chiamerei “virtuale”, perché fatta solo di domande e risposte, percorrendo lunghi corridoi e decine di cancelli mi sono ritrovato in una cella piena di letti a castello da tre piani, da dove spuntavano delle teste che a fatica riuscivo a distinguere in mezzo a quel buio. Tra italiani, tunisini, nigeriani e albanesi eravamo in dieci in una cella di venti metri quadri, con un piccolo bagno fatiscente, prevista per tre persone. Solo dopo ho saputo che era un periodo di sovraffollamento e che ero stato fortunato a trovare posto in una cella, perché gli altri arrivati dopo di me erano stati messi in una palestra, che poi era anche sala giochi e aula di scuola.

5 A. ANDRIOTTO, Carceri abitate sempre più spesso da giovani detenuti, in «Carceri stra-piene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 38.

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Le giornate passavano tra lunghe attese per andare in doccia e turni imba-razzanti per poter usare il bagno. In tutto quel via vai di gente, in mezzo a quel fiume di angoscia, non c’era il tempo di pensare a niente, non potevi permetterti debolezze e distrazioni, dovevi essere forte anche quando ti sentivi debole, dovevi sopravvivere. I mesi passavano e ogni giorno vedevo persone che litigavano per la doccia, per il turno del bagno, per il cibo, per il telecomando o per tante altre cose che possono sembrare assurde a molte persone fuori. Era un continuo scontrarsi di culture diverse, un miscuglio forzato e affollato di caratteri, personalità, mentalità, usanze che si confrontavano in questi spazi angusti, dove ogni piccola cosa diventava un grande problema, dove ogni senti-mento veniva amplificato fino all’esasperazione.Andare all’ora d’aria era un lusso che non potevi permetterti se non volevi perdere il turno per la doccia con l’acqua calda, ed ammalarsi non conve-niva, perché l’unico rimedio a disposizione era una pillola marrone miste-riosa che curava tutti i mali.Dopo un po’ di mesi fui trasferito in una cella piccola prevista per una persona, ma che in realtà ne ospitava tre. Era una cella con un letto a castello a tre piani, che in tutto faceva otto metri quadri, con la tazza del bagno a vista a trenta centimetri dal letto e a un metro dal tavolo dove si mangiava.La cella era così piccola che quando una persona si muoveva, gli altri due dovevano stare immobili nel loro letto, nel quale passava la maggior parte della vita dei detenuti. Vivere in quelle condizioni disumane richiedeva una continua lotta per cercare di non farsi trasportare dal vortice di vio-lenza e provocazioni che c’era intorno. In quelle condizioni quasi anima-lesche è molto difficile che una persona prenda coscienza dei propri errori ed accetti le proprie responsabilità per il reato commesso, e un possibile reinserimento nella società diventa quasi un miraggio6.

Come si può capire, la situazione descritta finora non fa altro che deteriorare la qualità della vita dei detenuti, già provati per le condi-zioni di limitata libertà.

6 G. GERMANI, Le giornate passano tra attese per la doccia e turni per poter usare il bagno, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 39.

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Se poi prendessimo in esame le condizioni igienico-sanitarie di queste strutture interpellando una qualsiasi ASL per i controlli del caso, forse alcune verrebbero chiuse.

Ma ascoltiamo ancora la testimonianza-riflessione del nostro ami-co-detenuto Gentian Germani: «Un giorno, mentre stavo per mettermi le scarpe, vedo degli scarafaggi scappare via velocemente. Si trattava probabilmente di una famigliola, vista la grandezza a scala dei diversi componenti. Ne ho beccato uno che dalla misura sembrava uno dei più giovani, e lì per lì ho pensato di schiac-ciarlo.Ma poi ci ho ripensato. Così, preso da un attacco di magnanimità, ho represso il desiderio di vendetta e l’ho messo in un bicchiere di carta che ho coperto con un cartoncino sul quale ho realizzato un piccolo foro per far entrare l’aria. Avevo il mio prigioniero ed ogni volta che l’agente passava a fare la conta di noi detenuti, io controllavo il bicchiere per vedere che lo scarafaggio non scappasse.Comunque, a un certo punto successe qualcosa che animò il rapporto tra me e il nuovo inquilino della cella. Mentre lo guardavo dall’alto mi è sembrato di sentire una voce provenire dal fondo del bicchiere, che diceva: “Ehi, perché mi tratti in questo modo? Non hai una scatola più grande e più dignitosa? Lo so che sono un animale fastidioso e ti faccio schifo, ma anch’io cerco di sopravvivere e ho bisogno di un po’ di spazio come te. Sono brutto e fastidioso, ma sono pur sempre un animale come tutti gli altri animali domestici che stanno nelle vostre case con i vostri figli!”. Non volevo credere alle mie orecchie. Era vero. Sono anni che noi detenuti soffriamo delle ristrettezze degli ambienti in cui scontiamo la pena, e io, adesso che tenevo un prigioniero, mi disinteressavo delle sue condizioni. Preso dai sensi di colpa istintivamente ho afferrato una scatola di cartone, usata per tenere le scarpe, e ho trasferito il giovane scarafaggio in un posto più grande, spazioso e pulito. Il simpatico animaletto mi ha ringraziato del nuovo spazio concesso e ha iniziato a farmi un discorso sulle ragioni della sua detenzione. Infatti, a ben pensarci, la sua colpa era che aveva solo dormito una notte nella mia scarpa e solo perché non aveva un posto dove stare. In quel momento ho pensato ai posti più strani in cui dormono centinaia di persone che ogni giorno scappano da guerra e fame e a quanto assurde siano le leggi, che condannano e mettono in galera chi ha l’unica colpa della clandestinità. Mi sono sentito male e ho liberato subito l’inno-

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cente scarafaggio, che è corso fuori dalla cella, forse alla ricerca della sua famigliola7.

Quanto costano i detenuti in carceri così affollate? E poi: costa di più mantenere i detenuti nelle celle oppure converrebbero di più misure alternative? Domande, le nostre, del tutto legittime, di cui però nessun politico si occupa seriamente. La risposta l’abbiamo tro-vata facilmente grazie ai nostri amici di «Ristretti Orizzonti», centro studi e giornale del carcere di Padova: un detenuto costa allo Stato dai 150 ai 200 euro al giorno, mentre lo stesso detenuto se affidato ai servizi sociali, cioè adottando una misura alternativa, costerebbe solo 5 euro al giorno. Senza contare che il 70% dei detenuti rinchiu-si in carcere, quando escono, tornano poi dentro, mentre si è visto che «solo il 30% di coloro che scontano la pena invece che in carce-re, in affidamento, in semilibertà e quant’altro, tornerà a commet-tere un reato»8.

Ma di misure alternative oggi non si parla più. Sembra quasi vie-tato parlarne. Solo proposte fantascientifiche, surreali, sensazionali-stiche, per la costruzione di nuove carceri...

La realtà è che l’amministrazione penitenziaria e gli stessi diretto-ri delle varie Case Circondariali o di Reclusione faticano non poco, vista la carenza sempre più cronicizzata e i tagli alle risorse economi-che, a fare funzionare il servizio carcerario che è stato loro affidato.

C’è allora chi, periodicamente, tra i governanti del nostro Paese, propone indulti e amnistie che però sempre più spesso sono improv-visati e non prevedono progetti seri di accompagnamento al reinseri-mento nel mondo lavorativo e nella società moderna. E, soprattutto, mancano interventi strategici sulla durata dei processi e sulle misure alternative alla detenzione, si creano grandi dibattiti politici, gran-de ansia – spesso fomentata – nella pubblica opinione... ma di fatto non si apporta alcun miglioramento strutturale alla situazione carce-raria nel suo insieme.

7 G. GERMANI, Le celle sono invase da simpatici ed innocenti scarafaggi, in «Carceri stra-piene... addio articolo lla Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 44.

8 F. MORELLI, intervistato sul blog di Beppe Grillo, in Morire di carcere – intervista a Ristretti Orizzonti (www.beppegrillo.it).

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Anche quello che, in ordine di tempo, è stato l’indulto sotto il Governo Prodi non è servito a nulla, o quasi. Si è trattato di un «in-dulto calibrato sulla necessità di far evadere Previti dalla detenzione dorata del suo mega appartamento di Piazza Farnese a Roma», co-me dice l’ex magistrato torinese Bruno Tinti nella sua rubrica «To-ghe rotte»9.

Un indulto che pare proprio non sia servito a nulla se non ad in-toppare ulteriormente il lavoro d’ufficio della burocrazia.

Dobbiamo forse pensare che l’unica soluzione per un detenuto sia quella di fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo in quel di Strasburgo? Per farsi risarcire dei danni morali? Ebbene sì.

Ci ha provato Izet Sulejmanovic, 36 anni, cittadino della Bosnia Erzegovina.

E c’è riuscito: il 16 luglio 2009, con 5 voti favorevoli su 7, il no-stro Paese è stato condannato ad un risarcimento economico di mille euro per i danni morali, appunto, subiti durante la sua carcerazione a Rebibbia nel periodo tra il 2002 e il 2003. Tale carcerazione sareb-be avvenuta in violazione della Convenzione Europea per la salva-guardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali stabilite dall’articolo 3 che recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

Nella sua denuncia il detenuto Sulejmanovic aveva sostenuto che dall’arresto fino al 15 aprile 2003 aveva vissuto in varie celle con una grandezza di 16,20 metri quadri condivise con altri cinque compa-gni, per cui ciascuno di loro poteva usufruire di soli 2,70 metri qua-dri. In seguito, dal 15 aprile al 20 ottobre sempre del 2003 era stato messo in una cella con altri quattro detenuti, disponendo ciascuno di 3,40 metri quadri. Inoltre nella stessa denuncia scritta presenta-ta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Sulejmanovic dichiarava che era stato in quelle celle ogni giorno per più di 18 ore consecuti-ve, con solo poco più di quattro ore e mezzo di «aria». Tutto questo-fino alla sua scarcerazione, avvenuta il 20 ottobre 2003.

9 B. TINTI, Carceri, giustizia e separazione delle carriere e la soluzione Perduca spiegata a La7, in «Toghe Rotte», rubrica di http://antefatto.ilcannocchiale.it

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Ma i suoi avvocati si erano mossi per tempo per questo risarci-mento: già il 4 luglio del 2003, infatti, avevano denunciato la viola-zione dell’articolo 3 alla Corte di Strasburgo, segnalando le condi-zioni di vita del loro assistito riferendosi in particolar modo allo sta-to di sovraffollamento, e cioè la presenza di 1560 detenuti a fronte della capienza reale di 1188 carcerati, oltre al tempo ritenuto inade-guato trascorso fuori dalla cella.

Proprio questa prima sentenza, precedente gravissimo per l’Italia, ha aperto la strada ad una lunga serie di denunce da parte dei dete-nuti alla Corte Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo: al 18 settembre 2009 Stefano Anastasia, Difensore civico dell’associa-zione Antigone, segnalava che sono più di duecento i detenuti che hanno scritto a questa associazione chiedendo assistenza per il ricor-so alla Corte di Strasburgo. Da agosto circolano sia on-line che car-tacei i primi documenti informativi in merito, tra cui la modulisti-ca e i fac-simile dal titolo Presupposti per poter presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per denunciare le condizioni di so-vraffollamento, da indirizzare appunto all’associazione Antigone che valuterà caso per caso. «Ai direttori dei singoli penitenziari», ci dice Ornella Favero, direttrice di «Ristretti Orizzonti», giornale del carce-re di Padova (cfr. la sua intervista a p. 52),pare sia giunta una missiva dal Ministero in cui si richiede di controllare bene che ci siano i presupposti per i detenuti della metratura vivibile che segua i canoni di legge e soprattutto che rispetti il già citato articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. E non si capisce come faranno a farlo, forse con una bacchetta magica?

Probabilmente questo richiamo è giunto per la paura del Gover-no di dover risarcire almeno i circa 64 mila detenuti con mille euro a testa. In epoca di recessione e di crisi economica, da più parti ci si chiede dove troveranno, Governo e Ministero, la cifra approssimati-va di 64 mila euro? Ai posteri l’ardua sentenza!

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MORIRE DI CARCERE

Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte.

Fabrizio De Andrè

In carcere si può morire. Anche nelle carceri italiane. Tra i detenuti si sono verificati decessi per cause non chiare, per problemi sanitari, per overdose, per pestaggi...

Per qualcuno si è raccontata la favoletta del “è caduto accidental-mente dalle scale”...

«In 10 anni nelle carceri italiane sono morti quasi 1.500 detenu-ti, di cui oltre 1/3 per suicidio»1 dicono gli amici del Centro Studi di «Ristretti Orizzonti» di Padova.

Ma le notizie di chi muore in carcere sempre più spesso passano sotto un silenzio assordante, nell’indifferenza quasi totale della gente e dei mass media. Ed è sempre più difficile ricostruire i fatti, le cause che spieghino come sia potuto morire questo o quel detenuto, che peraltro sembrava stare bene.

Oggi, dunque, morire di carcere in maniera alquanto misteriosa è possibile.

Alcune di queste assurde morti sono segnalate, nel silenzio gene-rale, sul sito di Beppe Grillo www.beppegrillo.it, dove delle mamme hanno raccontato ad una telecamera dei loro figli rinchiusi in cella vivi e vegeti e rivisti, qualche tempo dopo, attraverso fredde fotogra-fie scattate sul tavolo dell’obitorio. Con, in alcuni casi, volto e par-ti del corpo inspiegabilmente tumefatti. Seppure questi giovani non fossero stinchi di santo, pare veramente stranissima ed impossibile la loro morte in cella.

1 Da Morire di carcere: dossier 2000 – 2009, Centro Studi di «Ristretti Orizzonti».

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A titolo di esempio trascriviamo qui di seguito due interviste-te-stimonianza: quella di Maria Eliantonio, madre di Manuel Elianto-nio, che ha vissuto questo dramma e che non sa più a chi rivolgersi per avere giustizia, e quella di Ilaria e Giovanni Cucchi, rispettiva-mente sorella e padre di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circo-stanze ancora da chiarire. Stefano è il 149° detenuto a lasciare, nel 2009, il carcere dentro una bara.

La storia di Manuel2

Manuel non era quello che si direbbe un «ragazzo modello». Ha fatto molti errori. Per questo è stato arrestato. In attesa del processo è morto in carcere. Secondo la madre per le percosse ricevute. Anche un «cattivo ragazzo» ha diritto a un processo e lui non lo ha avuto. Manuele non è un «caso» isolato. L’associazione Ristretti Orizzonti raccoglie da anni i dati dei detenuti morti in carcere. Dal 2000 ad oggi sono stati 1486 di cui 528 suicidi. Ad agosto 2009 la contabilità dell’anno era a già 126. Non lo sapevamo, ma abbiamo ripristinato la pena di morte. Prima di noi, solo la Cina!

Riportiamo qui di seguito il testo dell’intervista:Sono Eliantonio Maria, la mamma di Manuel Eliantonio, deceduto il 25 luglio 2008 nel carcere Marassi di Genova.Manuel è uscito per andare a ballare il 22 [dicembre 2007, NdA] sera e non è rientrato, è stato fermato in un autogrill della A6, se non erro, la Torino-Savona con degli amici, erano 5 in tutto in macchina, con una ragazza, Manuel guidava lui perché il compagno si è ubriacato, hanno fumato, hanno usato delle sostanze, quelle che poi la maggior parte dei giovani, purtroppo, usano, è scappato via invece di giustificarsi, di vedere come... seguirli in caserma, non so come... si è messo a scappare, l’agente l’ha rin-corso, la mattina del 23, del dicembre 2007.L’hanno portato nella caserma della Polizia stradale di Carcare, in Provincia di Savona, dove i ragazzi sono stati malmenati. L’unico che è stato arre-stato perché ha risposto all’agente, perché probabilmente ha fatto correre troppo l’agente, si è affaticato, è stato Manuel, gli altri sono stati rilasciati.

2 La storia di Manuel Eliantonio qui riportata è tratta dal sito www.beppegrillo.it

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Poi è risultato che forse quell’auto era stata rubata, non si sa da chi perché Manuel è partito da casa con il pullman per raggiungere la discoteca, la discoteca è a Paesana in Provincia di Cuneo e la macchina è stata rubata a Bra. Da lì l’hanno portato in carcere e ha scontato circa un mese e qualcosa. Dopo quasi 10 giorni, purtroppo Manuel non riusciva a stare in casa, è stato segnalato che non rispettava gli obblighi di rimanere in casa e quindi è stato richiamato il 25 marzo in un’udienza gli hanno confermato che avrebbe atteso in carcere la condanna, un fermo cautelare, sanno ben loro come si chiamano queste cose e è rimasto in Liguria, a Savona, noi a Torino e lui in Liguria, io purtroppo senza reddito, con una bambina piccola non ho potuto fargli visita fino in Liguria, ne ho approfittato a maggio perché era qui a Torino, ma in 4 mesi di carcere è stato trasferito 5 volte: Savona, Chiavari, Torino, Chiavari, Marassi, dove è morto.Direi subito come l’ho trovato in questo tavolo di obitorio, l’ho trovato gonfio, di tutte le sfumature di colori: nero, marrone, verde, le orecchie blu, il petto gonfio, la testa era veramente una palla da bowling, naso rotto, occhio livido, un timbro nella milza, le unghie blu, era irriconoscibile, non mi è stata data nessuna indicazione e spiegazione, a parte quello che ho saputo dalla stampa, che ha inalato del butano, cosa assurda perché Manuel era terrorizzato dal butano, un ragazzo che dormiva sempre a petto nudo anche d’inverno, dovrebbe essere deceduto durante la notte o al mattino, vestito, cosa incredibile per una mamma che lo conosce, per i nonni, per chiunque lo conosce nulla che quadra su quanto siamo riusciti ad apprendere finora. Farmaci somministrati con la forza, farmaci tossici per il suo fegato malato in dosi esagerate.Leggo l’autopsia ritirata il 17 luglio 2009, nelle conclusioni “arresto car-diaco” non vi è menzionato neanche un segno delle percosse che abbiamo trovato e fotografato su Manuel all’obitorio, non è stato scritto che aveva il naso rotto, le dita rotte e forse il collo rotto, perché per avere tutto quel gonfiore sul viso e il collo non posso dedurre altro che avesse il collo spez-zato. Non si può basare un’autopsia sui verbali dei suoi assassini, non c’è una lastra dell’ossatura di Manuel, so che aveva delle fratture precedenti alla detenzione, che sarebbero state per me fondamentali nel riconoscimento, eppure viene menzionato solo tatuaggi, tossicodipendente, tossicodipen-dente, sempre e solo sottolineato tossicodipendente, Manuel non ha mai fatto uso di eroina o di metadone, a parte gli spinelli e qualche eccezione di cocaina, se questo lo definiscono un tossicodipendente da uccidere non so con quale criterio si decide della vita e della morte delle persone. Mi tele-

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fonano: suo figlio è deceduto. Avendo ricevuto la lettera il giorno prima, la prima cosa che ho pensato: me l’avete ucciso, perché quella lettera per me parlava chiaro: “Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano”. Nessuno mi ha detto come è morto mio figlio, non c’è nulla che porta un incidente, lì è stato massacrato, qui bisogna accertare come mai tanti ragazzi muoiono ogni giorno nelle carceri, nel peggiore dei modi e delle torture: Federico, Niki, Riccardo, Marcello, ce ne sono un’infinità!Nelle carceri, fuori dalle carceri, qui non si sta a vedere: era un poco di buono, l’hanno ammazzato e via! Qui ci ammazzano i ragazzi incensu-rati anche, con delle menzogne per giustificare, non si può giustificare un omicidio, qualsiasi sia il reato o la mancanza di qualsiasi persona non si ammazza la gente!

Stefano è morto di carcere3

Stefano Cucchi è stato arrestato dai Carabinieri il 15 ottobre 2009. Trascorre la notte in caserma e l’indomani, con un processo per di-rettissima, il giudice dispone l’arresto in carcere in attesa dell’udienza successiva. Mentre sono ancora in attesa di vedere il figlio, una setti-mana dopo i familiari ricevono dai Carabinieri la notifica del decreto col quale il Pubblico Ministero autorizzava l’autopsia sul corpo di Stefano. È così che i genitori e la sorella vengono a conoscenza della morte di Stefano. Un’altra morte di carcere.

Il Blog [di Beppe Grillo, NdA] ha intervistato Ilaria e Giovanni Cucchi, rispettivamente sorella e padre di Stefano.

L’arresto e il processo per direttissima

Ilaria Cucchi: «Stefano Cucchi era un ragazzo di 31 anni, un nor-malissimo ragazzo di 31 anni che la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 è stato arrestato dai Carabinieri, perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti. L’abbiamo visto uscire di casa accompagnato dai Carabinieri, che precedentemente tra l’al-

3 Stefano è morto di carcere è tratto dal sito www.beppegrillo.it

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tro avevano perquisito la sua stanza non trovandovi nulla, in ottime condizioni di salute, senza alcun segno sul viso e non lamentando alcun tipo di dolore. L’abbiamo rivisto morto il 22 ottobre 2009 al-l’obitorio: nel momento in cui l’abbiamo rivisto, mio fratello aveva il viso completamente tumefatto e pieno di segni, il corpo non l’ab-biamo potuto vedere».

Blog: «Possiamo ripercorrere le tappe di quei giorni? La notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 viene fermato dai Carabinieri e viene por-tato in caserma: da lì i Carabinieri lo portano qui in casa a control-lare se...».

Ilaria Cucchi: «A perquisire la sua stanza, esatto, dove ovviamente non viene trovato nulla».

Blog: «Sostanzialmente trascorre la notte in caserma e poi vie-ne...».

Ilaria Cucchi: «Esattamente. La mattina successiva, verso le do-dici avviene il processo per direttissima, dove il giudice ritiene che questo ragazzo debba passare il tempo fino al 13 novembre 2009, data in cui è fissata l’udienza successiva, in carcere e viene assegnato a “Regina Coeli”».

Ilaria Cucchi: «Da quel momento non lo vediamo più. Ripeto: la mattina del processo per direttissima mio fratello aveva già il viso gonfio di botte, da qui è uscito in ottime condizioni».

Blog: «I Carabinieri che cosa vi hanno detto, quando era qui in casa?».

Ilaria Cucchi: «Ci hanno detto di stare tranquilli, perché per così poco sicuramente il giorno dopo sarebbe stato a casa agli arresti do-miciliari».

Blog: «Poi, quando vi avvisano, arriva una telefonata che dice “Stefano sta male”?».

Ilaria Cucchi: «Il sabato sera. La notizia successiva l’abbiamo il sa-bato sera, intorno alle nove vengono i Carabinieri a informarci che Stefano è stato ricoverato d’urgenza presso la struttura del “Sandro Pertini”: ovviamente i miei genitori si recano immediatamente sul posto e lì viene negato loro alcun tipo di notizia. Nel momento in cui, ingenuamente, mia madre domanda di poter vedere il ragazzo e di sapere quello che aveva, le viene risposto: “Assolutamente no,

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questo è un carcere, tornate lunedì in orario di visita e parlerete con i medici”. I miei genitori tornano il lunedì mattina, all’orario che era stato loro detto, vengono fatti entrare e vengono loro presi gli estremi dei documenti e vengono lasciati in attesa. Dopo un po’ di tempo esce una responsabile, la quale li informa di non poterli fare parlare con i medici, in quanto non è arrivata una certa autorizza-zione da parte del carcere. “Comunque tornate, perché deve arrivare quest’autorizzazione e non vi preoccupate, perché il ragazzo è tran-quillo”, è stato risposto loro, quando mia madre chiedeva: “Ditemi almeno per quale motivo mio figlio è stato ricoverato”. “Il ragazzo è tranquillo”».

Stefano è morto

Ilaria Cucchi: «Il giorno dopo, ovviamente, i miei tornano... esat-tamente, il martedì mattina tornano presso la stessa struttura, al re-parto carcerario del “Sandro Pertini” e questa volta non vengono proprio fatti entrare, viene risposto loro al citofono che non posso-no entrare, perché non c’è l’autorizzazione. Finalmente viene detto loro però che sono loro a dover chiedere un’autorizzazione a Piazza-le Gloria, se vogliono vedere il ragazzo: mio padre chiede quest’au-torizzazione e la ottiene per il 25... mi scusi, per il 22, giovedì. Il 22 all’alba mio fratello è morto e mio padre non ha fatto in tempo a vederlo. Sappiamo della notizia della morte di mio fratello dai Cara-binieri, che vengono a casa intorno alle 12:30, le premetto che sem-brerebbe che mio fratello sia morto all’alba, vengono intorno alle 12:30 per notificare a mia madre il decreto con il quale il Pubblico Ministero autorizzava l’esecuzione dell’autopsia in seguito al decesso di Cucchi Stefano. Questo è stato il modo in cui mia madre ha sa-puto della morte del figlio».

Blog: «Da lì in poi come avete fatto per vedere il corpo? All’obi-torio vi è stata concessa questa possibilità?».

Ilaria Cucchi: «Inizialmente no, ci è stata negata: dopo alcune in-sistenze è stata fatta una telefonata al Pubblico Ministero, il quale ha autorizzato che potessimo vederlo, ovviamente dietro a un vetro. Quello che abbiamo visto è stato uno spettacolo – mi creda – allu-cinante: mio fratello aveva il viso completamente devastato, era ir-

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riconoscibile, aveva un occhio gonfio e un altro sembrava incavato, la mascella sembrava rotta, aveva il viso come bruciato. Il corpo era coperto da un lenzuolo, non so quello che ci fosse sotto».

Blog: «È vero che il magistrato vi ha vietato di fare fotografie al vostro...?».

Ilaria Cucchi: «Ovviamente il nostro consulente ha chiesto di po-ter fare la documentazione fotografica e le riprese, ma è stato nega-to. Adesso ci aspettiamo innanzitutto una serie di risposte e che lo Stato ci dica come è potuto accadere che non ci sia stato possibile stare vicini a Stefano nel momento in cui stava morendo. Ci devono spiegare anche perché abbiamo consegnato mio fratello allo Stato, alle istituzioni in una certa condizione di salute ottima e perché ce l’hanno restituito morto. Stefano era un normalissimo ragazzo di 31 anni, lavorava, lavoravamo insieme, lui era un geometra, anche mio padre è geometra e lavoriamo insieme nella stessa struttura. Mio fra-tello aveva un trascorso in una comunità di recupero per tossicodi-pendenti, dalla quale era uscito completamente riabilitato, tant’è che lavorava e stava bene, mio fratello stava bene, aveva tanta voglia di vivere e lo posso documentare con le sue lettere, con i suoi messag-gi, mio fratello aveva voglia di vivere. In questo momento non sono in grado di accusare nessuno, e il problema è proprio questo, perché non so come sono andate le cose».

Blog: «Ci sono state delle interrogazioni parlamentari rivolte al Ministro della Giustizia? Cosa è successo?».

Ilaria Cucchi: «Mi giunge voce che la risposta all’interrogazione del Ministro Alfano sia stata che Stefano è caduto: ora mi spieghino dove, come e perché è caduto e, soprattutto, come ha fatto a morire. Che mi spieghino, per una caduta, come poteva riportare tutti quei segni di traumi sul viso e sul corpo e che mi spieghino perché è sta-to lasciato morire».

Blog: «Per voi questa non è la verità?».Ilaria Cucchi: «Questa non è assolutamente la verità: forse è par-

te della verità, ma sicuramente la vicenda non si chiude qui e sicura-mente non si spiega la morte di mio fratello».

Giovanni Cucchi: «Quando ho visto mio figlio all’obitorio mi è caduto il mondo addosso, vedendolo così, in quelle condizioni ve-

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ramente inimmaginabili. Ho provato un dolore enorme e un senso di frustrazione di fronte a quello che lo Stato ci può dare e, in ef-fetti, mio figlio è entrato sano ed è uscito morto in quelle condizio-ni. Voglio dire, non è ammissibile che, per qualsiasi cosa uno possa aver fatto, sia ridotto sia dal punto di vista fisico che anche dal pun-to di vista morale in quel modo, perché mio figlio è morto solo. È una rabbia enorme per come può finire un figlio così, massacrato in quel modo...».

Un ragazzo normale

Blog: «In che condizioni era il giorno dell’udienza per direttissi-ma?».

Giovanni Cucchi: «Il giorno dell’udienza lui... guardi, Stefano era una persona magra, lei ha visto la foto e perciò si è reso conto... non tutti forse... non può apparire... lui praticamente ha il viso gonfio, il doppio del viso di quello che si vede rispetto all’ultima foto che ave-va e poi aveva, sotto gli occhi, dei segni neri, quindi segni evidenti di pugni negli occhi, di botte negli occhi. Si è presentato così alla cau-sa. Però dal punto di vista fisico stava benissimo, si muoveva, il fat-to delle vertebre rotte assolutamente non sussisteva, per quanto ho potuto vedere lo escludo al 100%. Stefano si muoveva, camminava, parlava, assolutamente si muoveva come una persona normale e, se ci fosse stato quel problema delle vertebre, per prima cosa avrebbe provato dolore e quindi l’avrei saputo, me l’avrebbe detto, ma a par-te quello il suo comportamento era un comportamento normalissi-mo e conseguentemente lo escludo nella maniera più categorica».

Blog: «È stato l’ultimo giorno che avete potuto vederlo?».Giovanni Cucchi: «Sì, sì, è l’ultimo giorno in cui abbiamo potu-

to vedere Stefano, esatto. E le assicuro che, nel momento in cui l’ho rivisto, non credevo ai miei occhi: non era possibile che Stefano mi fosse stato presentato in quelle condizioni, non era possibile! Guar-di, è una cosa inimmaginabile, per un padre vedere il figlio così, do-po sei giorni che chiede notizie, avere una notizia in quel modo, det-ta in quel modo, chiedere addirittura – è quasi una beffa! – alla dot-toressa che ci è venuta a comunicare all’esterno del carcere la morte di Stefano, dice “ma potevate chiederlo ai medici?”, ma come?! Sono

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cinque giorni che veniamo qui a chiedervi e non ci avete fatto entra-re! Il secondo, il sabato... il lunedì siamo andati in carcere e ci hanno fatto entrare, ci hanno preso i documenti, dopo è uscita una sovrin-tendente e ha detto “no, mi dispiace, non vi possiamo fare parlare con i medici”. “Ma guardi che vogliamo solo parlare con i medici, non è che vogliamo parlare con Stefano, vogliamo sapere il suo stato di salute”, “no, non è possibile, perché deve arrivare il permesso”. Il permesso da dove non si sa, però dice “guardi, tornate domani, per-ché domani probabilmente questo permesso sarà arrivato e quindi potrete parlare con i medici”. L’indomani siamo tornati, il piantone non ci ha neanche fatto entrare: ci ha detto soltanto “io non so nien-te di questo, per parlare con i medici dovete avere il permesso del colloquio rilasciato dal giudice”. Sono andato il giorno dopo a chie-dere il permesso, l’ho ottenuto e poi, il giorno dopo, sarei andato a “Regina Coeli” a farmelo confermare, perché lì c’è una questione di orari, non si riesce a fare tutto in una giornata. Però mentre tornavo per... mentre andavo per chiedere questo permesso mia moglie mi ha comunicato che Stefano era morto. Siamo andati a informarci sul perché Stefano è morto e non ci hanno dato nessuna scheda ufficiale, ci hanno solo comunicato verbalmente queste testuali parole: “Si è spento, aveva un lenzuolo sempre sulla faccia, non voleva mangiare, non si voleva nutrire e non voleva le flebo, praticamente si è spento”. Siamo rimasti esterrefatti, allibiti, anche loro vedevo che tutto som-mato erano imbarazzati nel rispondere: ci hanno comunicato que-sto, nessun documento ufficiale, soltanto questa affermazione, “si è spento”».

Blog: «Che ragazzo era Stefano?».Giovanni Cucchi: «Era un ragazzo normale, pieno di vita, allegro,

determinato, volenteroso, lavorava, faceva il geometra, aveva tanti progetti, tante ambizioni e ogni tanto me le confidava. Insomma, era un ragazzo che stava in progressione, stava nel pieno assolutamente, era un ragazzo... ma poi, tra l’altro, aveva un carattere veramente da amico, da amicone, era amico con tutti, voglio dire, non poteva fare la fine... assolutamente, non poteva fare una fine così, guardi, non mi rassegno a che Stefano abbia fatto una fine del genere, non se lo meritava nella maniera più assoluta, non se lo meritava!».

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Blog: «E adesso che cosa vi aspettate?».Giovanni Cucchi: «Ci aspettiamo che si faccia chiarezza, che ci

dicano quello che non hanno potuto dirci prima, che ci spieghino con esattezza quello che è avvenuto e i motivi delle percosse, i moti-vi della morte con precisione: finora c’è stato il nulla, adesso voglia-mo sapere tutto!».

Blog: «Cosa è disposto a fare per ottenere questo?».Giovanni Cucchi: «Tutto, fino all’ultima goccia di sangue, fino

all’ultima goccia di vita io e mia moglie ci batteremo perché si faccia chiarezza su mio figlio!».

Questo ragazzo, riconoscono e scrivono anche gli uomini della Direzione generale delle carceri che hanno indagato su questo fatto, «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante»4.

E gli stessi funzionari Dap riconoscono che questo è l’esempio «di una incredibile, continuativa mancata risposta alla effettiva tute-la dei diritti, in tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbat-tersi nei vari servizi di diversi organi pubblici»5.

Secondo l’ipotesi della magistratura Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma dagli agen-ti penitenziari. Mentre invece, secondo l’Amministrazione peniten-ziaria, non si sa dove, quando e da chi. Intanto, mentre scriviamo [e cioè ai primi di dicembre 2009, NdA] la relazione dell’apposita com-missione d’inchiesta del Dap è stata inviata alla Procura di Roma per una sua valutazione da cui dedurrà le conseguenze.

Altre morti sospette nelle nostre carceri

In questa triste sequenza non possiamo dimenticare Aldo Bianzino, 44 anni, falegname. Abitava in un casolare di campagna in una fra-zione di Città di Castello, in Umbria. Un uomo tranquillo, pacifico, un po’ solitario, convertitosi alle filosofie orientali, sostanzialmente apolitico.

4 Giustizia: Dap, Cucchi è morto in modo disumano e degradante, in «Corriere della Sera», 4 dicembre 2009.

5 Ibidem.

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Il 12 ottobre 2007 la squadra mobile della polizia fa irruzione nel suo campo. Scopre un centinaio di piantine di canapa indiana. Arre-sta lui e la sua compagna. Aldo Bianzino viene rinchiuso in un car-cere di Perugia. E fino a quel momento stava bene. Rimane in iso-lamento fino al lunedì quando è previsto un incontro con il giudice titolare dell’inchiesta.

Bianzino parla di uso personale dell’hashish da lui coltivato, men-tre la polizia contesta la versione. Di certo Bianzino non aveva un’or-ganizzazione industriale alle spalle, né contatti con la malavita: in-somma non era un boss che vive grazie allo spaccio. In casa gli tro-vano 30 euro in tutto.

Domenica 14 ottobre 2007, Aldo Bianzino viene trovato cadave-re nella sua cella. La prima versione ufficiale parla di infarto. L’au-topsia scopre ben altro: costole rotte, fegato e milza spappolati e quattro ematomi cerebrali.

Se i familiari di Bianzino non avessero chiesto l’autopsia, e se questa non fosse stata affidata a un medico coscienzioso, la tesi del-l’infarto sarebbe passata tranquillamente.

Cos’hanno fatto a quest’uomo nella notte infernale tra sabato 13 ottobre 2007 e domenica 14 ottobre 2007?

Così come non possiamo dimenticare Ciro Triunfo, un giovane detenuto di quasi 25 anni, di passaggio al carcere di Poggioreale nella camera di sicurezza per partecipare al suo processo. Ma quell’udien-za non si tenne mai: Ciro morì a causa di un malore improvviso. E per quel decesso sono state aperte due inchieste. Secondo quanto ri-ferito, aveva accusato un malore riferendolo agli uomini della Penitenziaria. Poco dopo per il ragazzo era stato disposto il trasferimento al Cardarelli dove i medici, dopo un’indagine, hanno deciso che non era il caso di ricoverarlo. Triunfo è stato quindi trasferito nuovamente presso il carcere di Poggioreale dove ha trascorso la notte. Ma le sue condizioni non sono migliorate.“Si lamentava e abbiamo fatto il possibile per farlo stare meglio, ma è stato inutile” racconta uno dei detenuti in una lettera inviata al nostro giornale ripercorrendo i tragici momenti di quel giorno. Dopo una notte trascorsa tra atroci sofferenze Ciro Triunfo è stato trovato in fin di vita all’interno della camera di sicurezza.

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Il nuovo trasferimento presso l’ospedale Cardarelli è stato inutile, il 24enne è deceduto per cause che restano ancora da definire6.

Altra storia, altro dramma di morte in carcere. Uzoma Emeka, ni-geriano di 32 anni, aveva un tumore al cervello, ma è stato lasciato morire in una cella. È successo nel carcere di Teramo. Questo dete-nuto nigeriano aveva sentito gli agenti di questo carcere parlare di un pestaggio che sarebbe avvenuto lì dentro (cfr. Condizioni di disagio della Polizia penitenziaria, p. 85).

Maltrattamenti e soprusi sono stati compiuti in diverse carce-ri, come scrive Giacomo Russo Spena su «Terra» del 4 novembre 2009: A Biella è stata scoperta una “cella liscia” dove i reclusi sarebbero stati colpiti con violenti getti d’acqua. Un ex medico: alle Vallette pestaggi orga-nizzati.“Mettiti in ginocchio, prega la Madonna e bacia la bandiera italiana”. Sarebbero questi gli ordini diretti a B. M., detenuto marocchino, da otto agenti di Polizia penitenziaria rinviati a giudizio per violenza privata. È il marzo 2006, Casa circondariale di Nuoro. Non è un episodio isolato. Anzi. Analizzando la situazione penitenziaria degli ultimi anni si ottiene un dossier infinito che evidenzia testimonianze, accertate, di “maltratta-menti” e casi di tortura.

Qualche esempio. Nel carcere San Sebastiano di Sassari il 3 aprile 2000 avviene un pestaggio punitivo contro i detenuti che avevano osato pro-testare per la mancanza di viveri e acqua. Mentre nella struttura di Biella viene ritrovata nel 2002 una “cella liscia” dove i “rinchiusi” sarebbero stati perquisiti e poi colpiti con violenti getti d’acqua sparati da un idrante. La magistratura ha aperto un fascicolo per abusi e pestaggi, omissioni e silenzi dei medici, e intimidazioni degli agenti. [...] solo la testardaggine dei fami-liari o l’inchiesta di qualche PM hanno permesso di riaprire casi che hanno portato alla condanna del personale di Polizia penitenziaria. È il 2 febbraio 2009 quando un ex medico del carcere Vallette di Torino denuncia abusi e connivenze in danno ai detenuti, dichiarando come “all’interno delle strutture i pestaggi da parte degli agenti, addirittura organizzati in apposite squadrette, siano all’ordine del giorno”.

6 G. SCALA, Napoli: muore detenuto di 25 anni, procura apre un’inchiesta, in «Gazzetta del Mezzogiorno», 4 novembre 2009.

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Si denunciano anche violenze praticate nei Reparti di osservazione psi-chiatrica, tra cui “contenzioni a mezzo di manette e sedazioni non consen-suali”. Non mancano i casi di violenze sessuali verso alcune detenute. A febbraio di quest’anno si è chiuso il processo contro una “guardia” peniten-ziaria: l’uomo è stato condannato a tre anni di reclusione. I fatti risalgono al 2005, quando l’agente, secondo l’accusa, nel perquisire una detenuta le palpeggia il seno, riservando lo stesso trattamento a diverse altre donne, che era solito toccare infilando le mani attraverso le grate delle celle. Capi-tolo a parte gli abusi per estorcere notizie. Quasi una prassi generalizzata. Il 28 febbraio 2008, secondo l’accusa, nel carcere di Firenze un agente esagera (ora è iscritto nel registro degli indagati). Un detenuto marocchino denuncia, infatti, di esser stato picchiato per ore. Il medico riscontra, qual-che giorno dopo “l’interrogatorio”, “segni di contusioni compatibili con calci e pugni”7.

Invece la testimonianza che segue non è recente, è stata scritta nel 2004: Un’umanità da cani con disperazione da clandestini. Il mondo, le nazioni, le città, i paesi sono popolati da miliardi di persone che, pur con differenze somatiche, etiche e religiose sono tutte uguali, sono tutte umanità formate da uomini e donne. Non sempre però questo è vero. Le strutture sociali e il potere influenzano il rapporto tra le persone, fanno sì che qualcuno abbia più diritti e più degli altri. Questo divario di diritti e di potere permette ad alcuni di rendere chi è senza potere e diritti più simile alle bestie che al genere umano. In carcere e quando hai a che fare con le polizie questo è lampante. Noi condannati non siamo uomini e donne alla pari con gli agenti di polizia. Teoricamente lo dovremmo essere, dovremmo essere tutti uomini e rispettare gli altri “come noi stessi”. Dovrebbe esserci solo una differenza di funzioni e di lavoro, alcuni che devono far rispettare la legge e altri che la infrangono, ma ognuno dovrebbe rispettare i Diritti Universali dell’Uomo. A riprova dell’esistenza di questo non rispetto per l’umanità di alcuni agenti voglio raccontarvi un episodio di cui sono stata protago-nista. A Genova nel 1995, con quattro amici italiani, eravamo in giro per la città a cercare una dose, eravamo in calo e quindi disperati. Siamo stati fermati per un controllo e non ci hanno trovato niente, ma dato che io avevo precedenti per spaccio, gli agenti hanno pensato bene di riportarci in

7 G. RUSSO SPENA, Giustizia: quegli orrori dimenticati, dietro le mura delle carceri, in «Terra», 4 novembre 2009.

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questura e di “lavorarci” per metterci uno contro l’altro. I miei amici tutti incensurati, sono stati costretti, dopo essere stati minacciati di denuncia, di galera, eccetera, a firmare una dichiarazione falsa contro di me. Questa dichiarazione affermava che io avevo venduto droga ai miei amici e questo non era vero, lo sapevo io, i miei amici e la polizia, sapevamo che quel giorno eravamo tutti insieme alla ricerca di una dose perché anche io ne ero sprovvista. Una volta che i miei amici hanno firmato sono stati subito rilasciati ed è iniziato il calvario per me. Per uscire dovevano passare di fronte alla cella dove mi avevano rinchiuso e mi hanno guardato con uno sguardo disperato. Uno di loro mi ha anche sussurrato, quasi piangendo: “Mi dispiace”. Questo significava che mi avevano sacrificato per salvarsi. Ho iniziato a gridare presa dalla disperazione e dalla rabbia, ero innocente quella volta. Gli agenti sono entrati e hanno iniziato a trattarmi come un cane che li infastidiva abbaiando. Mi hanno picchiata, insultata, but-tato addosso secchiate di acqua fredda e se io reagivo era peggio. Dopo il pestaggio mi sono sdraiata su un materasso che era per terra in un angolo, la visione che avevo da lì era disperante; la stanza era tutta sporca di vomito, di sangue e di acqua, una cosa allucinante che non avevo visto nemmeno nelle prigioni del mio paese, il Marocco. Mi sono sentita disperata, ferita dentro, di essere trattata come un cane, senza diritti, e mi è crollato il mondo addosso. Pensavo che l’Italia fosse un paese evoluto, migliore del mio, invece mi trovavo in una realtà italiana che non credevo esistesse, e che non esisteva, fino a quel momento, neanche nei miei peggiori incubi. Ero peggio di un cane bastonato messo alla catena. Non avevo più diritti, ero stata messa in galera estorcendo dichiarazioni false, ero tutta gonfia per le botte, mi trovavo in un posto che sembrava un mattatoio e io ero l’animale da ammazzare. È stato il momento più brutto della mia vita, ma non era finito qui. Quando mi hanno portato in carcere ero sempre agitata, stavo male, non ero più una donna ma un animale senza diritti e mi sono buttata per terra a vomitare. Gli agenti di Polizia penitenziaria, senza tenere conto di come stavo, cercarono di farmi alzare per svolgere le pratiche per farmi entrare in carcere. Uno disse, me lo ricordo bene: “Collega, non c’è la faccio più con questa tossica di merda. Vengono da altri paesi a rompere i coglioni a noi!”. Allora mi sono girata e gli ho sputato in faccia con tutta la rabbia che avevo in corpo. Anch’io in quel momento non riuscivo a rispet-tare quell’agente come un uomo, lo vedevo solo come un aguzzino razzista e non avevo più rispetto per nessuno al mondo. Gliene ho dette di tutti i colori. Dentro di me pensavo: “Se devo fare la galera che sia per un motivo

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vero. Almeno mi sfogo”. Mi hanno subito denunciato e quel gesto mi è costato un mese di isolamento e sei mesi di galera in più. Successivamente ho chiamato l’avvocato perché speravo di vedere rispettati i miei diritti, ma niente. L’avvocato mi ha consigliato di far finta di niente, di mettermi delle patate sugli occhi. Mi ha detto: “Sei straniera, clandestina, fuori regola. Non ti conviene denunciare gli agenti perché potrebbero vendicarsi. Una volta fuori ti potrebbero beccare e metterti un chilogrammo di droga in tasca. Ti farebbero stare dentro per il resto dei tuoi giorni”. Io ho seguito il suo consiglio. Sono stata zitta, mi sono tappata la bocca ma da allora non ho più parole. So di non avere più diritti. Ringrazio solo Dio di aver tro-vato la Casa Attenuata Femminile di Empoli dove c’è il diritto e il rispetto che lentamente mi guariscono le ferite interiori che in quell’occasione mi si sono aperte. Spero che anche in tutte le altre carceri e questure d’Italia si instaurino i rapporti che ci sono qui, in cui ognuno fa il proprio lavoro rispettando gli altri come uomini e donne. Al di là del lavoro che facciamo siamo tutte persone e abbiamo sentimenti simili, problemi simili, difficoltà a vivere simili; l’unica cosa che ci distingue è il vestito.

Fatima Samira Ouasil – carcere di Empoli8

Pianosa – Cronache dall’Inferno9

Pianosa è uno dei vertici di bassezza della nostra storia. Queste cose sono accadute in Italia. Queste cose sono state permesse. Su queste cose è calata una cappa cimiteriale di cemento. Dove solo poche voci si sono alzate nel concerto stitico di ignoranza, ipocrisia e vigliaccheria. Destra e sinistra hanno spesso eretto Pianosa a simbolo della lotta, “finalmente incisiva” contro la mafia. E in questi giorni c’è chi raglia di una sua riapertura. Notate anche un’altra cosa. Il soggetto che testimonia dinanzi alla Corte Europea non solo è stato torturato... ma è stato, in pratica, torturato senza essere stato accusato di nessun reato dall’accusa, tanto che la stessa al pro-cesso chiedeva l’assoluzione. Questa persona ha scontato anni di carcere-lager senza che nessuno gli abbia mai contestato una condotta illecita, mentre la “cagnara” mediatica descriveva tutti i detenuti di Pianosa come bestie mafiose malefiche e pericolose. Ma io vi dico... fosse stato anche

8 Fonte: http://urladalsilenzio.wordpress.com/tag/pestaggi/9 Ibidem.

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Totò Riina.. non doveva subire quello che ha subito. Non doveva essere torturato. L’infamia della tortura è sempre tale. O non lo è mai.

Testimonianza del detenuto di Pianosa cui si riferisce la Sentenza Europea del 6 aprile 200010

DIFESA: Grazie Presidente. Lei è stato detenuto in Pianosa? TESTE: Sì. DIFESA: E in che periodo? TESTE: Dal 20 luglio ’92 al 14 novembre ’94, diciamo, alternan-

do per i processi. DIFESA: Ho capito, dal 20 luglio di quando, mi perdoni? TESTE: La notte in cui è stata commessa la strage di Falcone e

Borsellino, ci hanno preso per i superboss, quelli che dicevano super pericolosi d’Italia. Da premettere che eravamo tutti incensurati e in-dagati... la maggior parte.

DIFESA: Mi perdoni, lei ha avuto, credo, una vicenda giudizia-ria.

TESTE: Dove? DIFESA: Questa sua detenzione trae origine da una vicenda giu-

diziaria che è ancora in corso... che è risolta, mi dica. TESTE: Sì, io sono stato chiamato dai cosiddetti collaboratori

per una vicenda. Premetto che al primo grado sono stato assolto, in secondo grado ancora assolto su richiesta del Pubblico Ministero, e ancora non so se è finita o meno.

DIFESA: È stato assolto nei due gradi di merito si dice. TESTE: Sì. DIFESA: Ecco, diciamo questo, lei è stato detenuto a Pianosa, a

partire dall’estate del ’91, mi pare di dover dire. Nel ’92, chiedo scu-sa, ’92.

TESTE: Quando siamo stati deportati, il 21 luglio mi sembra... di notte siamo stati deportati.

DIFESA: Ecco, perché dice deportati? Quali furono le modalità di questo trasferimento? Foste avvisati voi di questo?

TESTE: No, niente, di notte sono venuti a prenderci. Chi era in

10 Ibidem.

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mutande, chi era in pigiama, chi ha raccolto una maglietta; e sia-mo rimasti praticamente più di un mese là senza indumenti, senza mangiare e tutto quello che c’è da dire. Siamo stati deportati com-pletamente al lager. Scusi Presidente, siamo stati umiliati, maltratta-ti, presi a botte, bastonati, manganellati. Tutto quello che ci poteva-no fare, tutte le sevizie che ci potevano fare ci facevano... E ancora riporto io questi traumi. Un dito rotto, ginocchio rotto, dentatura rotta.

DIFESA: Ecco, le cose che sta dicendo oggi, le dice per la prima volta, oppure...

TESTE: No, io l’ho denunziato alla Commissione dei diritti del-l’uomo e l’ho denunziato pure all’udienza preliminare, perché conti-nuamente ero sollecitato a fare dichiarazioni, a pentirmi, dalle guar-die carcerarie. E gliel’ho detto: “Non sono né mafioso né omertoso, tutto quello che mi fate qua lo vado a denunziare, appena esco di qua lo denunzio. Esco di qua, non dal carcere, vado a casa, al prossi-mo carcere che vado, lo denunzio” – e così ho fatto.

DIFESA: E così ha fatto. Ascolti, per quello che riguarda queste condizioni di detenzione, furono già all’epoca oggetto di inchiesta, che lei ricordi? Ci fu qualcuno che venne a verificare questa...

TESTE: Noi la chiamavamo la santa Tiziana Maiolo, perché è sta-ta la donna che ci è venuta a salvare sinceramente, perché tutti era-vamo convinti che ci uccidevano là, per come ci trattavano. La realtà questa è, Presidente...

DIFESA: Io non ho capito veramente a chi ha fatto... TESTE: Tiziana Maiolo. [...]DIFESA: La domanda è questa: le modalità dell’ora d’aria, i tipi

di controlli cui eravate sottoposti, il comportamento che dovevate tenere.

TESTE: Cioè, praticamente all’uscita per andare all’aria doveva-mo uscire uno alla volta dalle celle, anche se eravamo due in ogni cella. Perquisizioni che poi non erano perquisizioni, ma pestaggi, perché c’era stritolamento di testicoli, pugni, calci, sputi. Dovevamo correre in quei 50 metri di corridoio. Più correvamo e più probabili-tà avevamo di prendere colpi di manganellate, sputi, pedate, schiaf-

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fi... tutto quello che succedeva. Poi quando uscivamo fuori, ognuno di noi doveva camminare per i fatti suoi, uno da questo lato, uno da quel lato. E, se si scambiava qualche parola era come ti chiami all’an-data, e al ritorno ti prendevi la risposta. Quando ci si poteva parlare, perché continuamente eravamo controllati da sopra e fatti oggetto di parole a non finite. Tutto per farci scappare la pazienza.

DIFESA: Mi perdoni, controllati a distanza in modo tale da ascol-tare i vostri colloqui?

TESTE: Sì, si sentiva perché c’era un silenzio cimiteriale. Non è che lo dico solo io, ma diverse commissioni parlamentari che sono venute là, e si sono stupite del silenzio cimiteriale che c’era dentro Pianosa. Anche i giornalisti, perché qualche articolo di giornale l’ho pure letto io su questo.

DIFESA: Lei ricorda se vi fu anche una relazione di un magistra-to di sorveglianza?

TESTE: Sì, sì, ce l’ho pure io qua, perché rivolgendomi alla Com-missione Europea l’ho anche inoltrato per questo.

DIFESA: Ecco, ma chi recepiva queste vostre... confermava que-ste vostre dichiarazioni?

TESTE: Diciamo in parte, perché non è che... Nessuno gli ha mai detto niente di quello che effettivamente accadeva là dentro, per il ti-more di ripercussioni, come effettivamente c’è stato uno che ha fatto la denuncia e poi ha avuto delle ripercussioni là dentro.

DIFESA: Quindi rappresentava il vero ma parziale insomma.TESTE: Sì, sì.AVV.: Scusi, lei ha fatto un cenno ad uno che ha fatto una denun-

zia ed ha avuto ripercussioni. Ci può dire che è successo?TESTE: Tutta la notte c’erano guardie ubriache. “Sembra che

l’uccellino ha cantato ed ha fatto cip, ciop, cip... e questa notte ci facciamo fare cioppete, cioppete, cioppete”. Comunque, un martel-lamento psicologico continuo.

AVV.: Cioè è stato picchiato oppure è stato un martellamento psi-cologico?

TESTE: No, tutti siamo stati picchiati, avvocato, tutti indistin-tamente, vecchi, giovani, paralitici, non paralitici, sofferenti, tutti, tutti, tutti. [...]

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I SUICIDI IN CARCERE

Sono 71 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno 2009, oltre 500 dal-l’anno Duemila. Gli ultimi due, in ordine cronologico, sono acca-duti mentre stiamo scrivendo [cioè al 23 dicembre 2009, NdA]. Nei primi venti giorni del nuovo anno 2010 sono già sette i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita: Ivano Volpi il 2 gennaio, Pierpaolo Ciullo, 39 anni, Celeste Frau, 62 anni, Amato Tammaro, 28 anni; il 7 gennaio Giacomo Attolini; il 13 gennaio Eddine Abellativ Sirage, 27 anni; il 16 gennaio Mohamed El Aboubj. E c’è da giurarci che, purtroppo, non saranno gli ultimi.

Si tratta di Ciro Giovanni Spirito, 35 anni, collaboratore di giu-stizia e di Plinio Toniolo, 55 anni, artigiano, ex assessore del Comu-ne di Nove (Vi), proclamatosi innocente. Quest’ultimo era stato ar-restato per un mandato di cattura europeo. Le autorità tedesche lo accusavano di fatti molti gravi: atti sessuali su minorenne. Ma do-po l’interrogatorio di garanzia, nel quale ha cercato strenuamente di spiegare che quelle accuse erano folli perché lui di mani addosso a bambini e bambine non ne ha mai messe né aveva mai pensato di metterle, è rientrato in cella. E si è tolto la vita.

Assieme a questo suicidio, sempre nel dicembre 2009, c’è stato quello di Marco Toriello, 45 anni, tossicodipendente, gravemente ammalato. Si è impiccato nella sua cella del carcere di Salerno.

Prima di Marco, nella triste classifica di chi si toglie la vita in car-cere, veniva Ciro Ruffo, 35 anni, detenuto per reati di criminalità organizzata, che aveva da poco iniziato a collaborare con i magistra-ti. Proveniente dal carcere di Ariano Irpinio, Ruffo era arrivato al «San Michele» il 7 dicembre 2009: è stato trovato morto il giorno dell’Immacolata.

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Eppure appena pochi giorni prima del trasferimento aveva chia-mato la moglie dicendole: «Devo darti una bella notizia: sono arri-vate le carte del trasferimento, le aspettavo da quindici giorni. Da lunedì sono più vicino a te, ci vedremo più spesso».

La moglie dichiara: «La direttrice mi ha comunicato che lo han-no trovato impiccato, ma non è vero. Ho visto il corpo all’obitorio del cimitero di Alessandria: ha il naso rotto, un livido sotto l’occhio destro, tanti altri lividi sulla schiena, sulla pancia, in faccia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie. È stato pestato».

Questo suicidio è avvenuto, in ordine di tempo, subito dopo quello di Diana Blefari, brigatista condannata all’ergastolo nel 2005 per l’omicidio di Marco Biagi: si è impiccata con le lenzuola nel car-cere di Rebibbia a Roma.

I primi mesi della sua pena detentiva la Blefari li trascorre in re-gime di carcere 41 bis; in seguito viene trasferita a L’Aquila, poi a Sollicciano e all’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fio-rentino. Infine ritorna a «Rebibbia». Qui aggredisce un agente e, per le sue precarie condizioni psichiche, vengono disposte misure per il suo controllo continuo. La direzione poi decide che il blindato della cella della brigatista, situata vicino alla stanza degli agenti di custo-dia, rimanga aperto e che la donna venga sorvegliata costantemente.

C’è chi, come l’ex sottosegretario alla Giustizia del governo Pro-di con delega alle carceri e ora presidente dell’associazione «A buon diritto», Luigi Manconi, dice che ci furono molte perizie psichiatri-che su di lei che hanno dato una diagnosi inequivocabile: “Gravi disturbi mentali”. Non mi pare che ci si possa confondere, sono valutazioni che stanno lì a testimo-niare di una condizione che avrebbe dovuto imporre il suo ricovero in una struttura psichiatrica protetta1.

Ripercorrendo il calendario a ritroso nel tempo, invece, il 5 set-tembre 2009 Sami Mbarka Ben Gargi, 41 anni, tunisino, di mestie-re ristoratore ambulante, detenuto nel carcere di Pavia per reati di droga e violenza sessuale, ha scelto di morire non mangiando né be-vendo più.

1 A. RETICO, “Era malata, non poteva stare dentro. Inascoltate decine di perizie psichiatri-che”, in «La Repubblica», 2 novembre 2009.

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Padre di tre figli e in procinto di sposarsi con la sua compagna ita-liana, egli riteneva una infamia le accuse mossegli, soprattutto quella di violenza sessuale.

«Ha chiuso i rapporti con tutti e ha deciso di morire»2. Così ha commentato laconico il suo avvocato. Di qui si è richiesto da più parti al Ministro della Giustizia di avviare una indagine sulle morti nelle carceri italiane.

Ma ormai nessuno si stupisce più, nessuno più fa caso ai suicidi nelle carceri italiane.

Basti pensare che il drammatico conteggio ci dice che nei primi cinque mesi dell’anno 2009 ci sono stati ben 28 suicidi, il numero più alto registrato (nel periodo gennaio-maggio) dal 2002.

Se si pensa che, nei primi cinque mesi del 2005, i suicidi furono 25; 23 nel 2006; 13 nel 2007 e 17 nel 2008. Tra i 28 detenuti suici-di, 16 erano italiani e 12 stranieri; 10 avevano un’età compresa tra i 20 e i 29 anni; 9 tra i 30 e i 39 anni; 5 tra i 40 e i 49 anni; 2 tra i 50 e i 59 anni; 2 avevano più di 60 anni.

Il mese di marzo 2009, sempre a titolo di esempio, si sono uccisi ben 10 detenuti, di cui 5 erano ventenni o poco più: ciò vuol dire in media un suicidio ogni 3 giorni.

Invece nei primi tre mesi del 2007, a pochi mesi dal provvedi-mento di indulto, i suicidi furono soltanto due.

Si può tranquillamente e tristemente affermare, senza paura di essere smentiti, che il numero di suicidi è aumentato con l’aggravar-si delle condizioni di sovraffollamento in cui versano le carceri ita-liane. Va pure sottolineato che l’ormai cronica insufficienza numerica del per-sonale deputato al “trattamento” (psicologi, educatori) e alla sorveglianza (agenti di Polizia penitenziaria) determina di fatto un “abbandono” dei detenuti nelle celle.La prospettiva di una detenzione in condizioni “inumane” (come denun-ciato dallo stesso Ministro della Giustizia) e priva di stimoli positivi fa perdere ogni speranza ai detenuti, soprattutto ai giovani che entrano in

2 D. CARLUCCI, Sciopero della fame, detenuto muore a Pavia, in «La Repubblica», 9 settembre 2009.

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carcere per la prima volta. Ragazzi di vent’anni, arrestati anche per reati di poco conto, che non riescono a trovare un appiglio, ad avere fiducia in un possibile recupero, in una vita migliore senza reati e senza carcere3.

Apprendiamo infatti che 551 circa sono gli educatori, rispetto ai 1.376 previsti nella pianta organica ministeriale. Il rapporto fra educatori e detenuti è di circa 1 a 107.Gli assistenti sociali in servizio risultano essere circa 1.223, rispetto ai 1.630 previsti dalla pianta organica. Quindi il rapporto fra assistenti sociali e detenuti è di circa 1 a 48.Gli psicologi in servizio sono circa 400. Vi sono circa due psicologi per istituto. La media è ottenuta dividendo il numero degli psicologi per il numero degli istituti. Non viene detto però che la loro presenza in carcere si limita a poche ore al mese ciascuno.Il rapporto fra psicologi e detenuti risulta comunque di 1 a 148 circa4.

Tuttavia, i drammi vissuti nelle carceri italiane non riguardano solo un mondo cosiddetto «a parte», ma tutta la società: basti solo ricordare che, originariamente, la detenzione avrebbe dovuto servire per il cosiddetto recupero, la riabilitazione e rieducazione della per-sona rinchiusa.

Certo, la pena da scontare deve essere dura, ma non inumana e tale da arrivare all’annientamento della persona stessa. Non dobbia-mo mai dimenticare che c’è una legge del 1975, nota come Ordina-mento Penitenziario, il cui articolo 1 recita: Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assi-curare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei

3 10 suicidi in un mese: un nuovo “record” per le carceri – La prospettiva di una detenzione in condizioni “inumane” e priva di stimoli positivi fa perdere ogni speranza ai detenuti, in «Car-ceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimo-nianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 39.

4 D. BAROSCO, Detenuto, ma quanto mi costi! – Le carceri scoppiano, ma non di salute, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testi-monianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 46.

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confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinseri-mento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

Significativa, a questo proposito, la testimonianza di un detenu-to, Vanni Lonardi, che così spiega il perché una persona «ristretta» nella realtà carceraria scelga di suicidarsi: In carcere il suicidio è considerato un “evento critico”, al pari degli atti di aggressione o delle manifestazioni di protesta, come se la rinuncia alla pro-pria vita meritasse una sanzione disciplinare (e così difatti avviene spesso nel caso rimanga “solo” un tentativo non riuscito) e non, invece, una presa di coscienza da parte del personale di sorveglianza, del personale sanitario e della società, della presenza di uno stato di disagio profondo.L’esperienza di questi anni di carcere mi fa pensare che il suicidio sia spesso un atto lucidissimo.Bisogna infatti imporsi un coraggio estremo per togliersi la vita. E non penso sia possibile una prevenzione efficace: qualcuno sostiene che prima del suicidio si notino segnali premonitori, qualcun altro, col senno di poi, rammenta di averli scorti ma non capiti nel loro “vero” significato.Fosse così semplice, ogni giorno dovrei segnalare decine di detenuti “sospetti”, perché hanno l’umore a terra o perché magari hanno atteso inutilmente un colloquio coi famigliari.Quello che invece si può fare è tracciare un “quadro clinico” dell’ambiente carcere, che è secondo me il fattore principale di rischio. Gli spazi interni sono così limitati, che il detenuto è ridotto a trascorrere la propria vita, o meglio a essere contenuto, in una cella di piccole dimensioni, privato totalmente di ogni forma di privacy, sorvegliato ogni istante dai propri compagni di cella e dal personale penitenziario di turno, e non so ancora quale delle due situazioni sia la più snervante. All’impoverimento della propria dimensione interiore viene ad aggiungersi un ridimensionamento degli affetti familiari.Un frustrante senso di impotenza ti attanaglia una volta varcata la soglia del carcere, dove tutto sfugge al tuo controllo: anche la cosa più normale come andare a farsi la doccia, per la quale occorre “chiedere il permesso”.

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Progressivamente viene a dilatarsi anche la percezione del tempo: la gior-nata del detenuto è fatta con lo stampino, una clonazione continua degli stessi identici movimenti, scanditi da un automatismo da incubo. Oggi saprei raccontare con precisione quello che farò lo stesso giorno dell’anno prossimo, e senza leggere alcun fondo di caffè.Ma, in particolar modo, si ingialliscono sempre più i progetti di vita, per qualcuno cominciano a deformarsi fino a diventare lontani miraggi, e quando la speranza viene a mancare definitivamente, quello che gli spe-cialisti chiamano “evento critico” finisce per apparire come una colonna luminosa in un teatro buio, e aggrapparsi ad essa con tutte le forze rimane l’unica risorsa5.

Nella Casa di Reclusione di Padova, nel 2009, si è tenuto un seminario, promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione Peni-tenziaria, sulla prevenzione dei suicidi, durante il quale lo psichiatra del carcere ha spiegato che nel nostro Paese l’incidenza del suicidio sulla popolazione in generale è dello 0,5-0,7 ogni 10.000 abitanti, e l’incidenza del suicidio in carcere è circa 20 volte mag-giore, secondo le statistiche quindi in carcere si uccidono 10-15 persone ogni 10.0006.

Eppure le fredde statistiche, per ciò che riguarda i detenuti che si tolgono la vita, parlano chiaro: Negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morte 1560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodi-pendenti. Ma è davvero scontato ed inevitabile che i detenuti muoiano, seppur giovani, con questa agghiacciante frequenza di 1 ogni 2 giorni? No, assolutamente no!7.

5 V. LONARDI, Spesso è la vita da galera che spinge al suicidio, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informa-zioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 40.

6 M. BERTANI, Si continua a morire nell’indifferenza del mondo, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informa-zioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 41.

7 Comunicato stampa Nuovo suicidio in carcere: eguagliato il “record” nella storia della Repubblica, a cura dell’Osservatorio Permanente sulle Morti in Carcere (Radicali Italiani, Associazione «Il Detenuto Ignoto», Associazione «Antigone», Associazione «A Buon Diritto», Redazione di «Radio Carcere», Redazione di «Ristretti Orizzonti»), 20 dicembre 2009.

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CHI VIVE REALMENTE IL CARCERE

Intervista al Direttore della Casa circondariale di Reggio Calabria1

La dottoressa Maria Carmela Longo è stata assunta nell’Amministra-zione Penitenziaria con il profilo professionale di Direttore Peniten-ziario il 30 maggio del 1991. Dal 16 agosto 2005 ricopre la qualifica di Dirigente Penitenziario. Ha prestato servizio, in ordine cronologi-co, presso la Casa circondariale di Como (dal 30 maggio 1991 al 29 novembre 1995), Varese (dal 30 novembre 1995 al 9 ottobre 1997), poi presso quella di Paola (dal 10 ottobre 1997 al 14 maggio 2004) ed ora dirige la Casa circondariale di Reggio Calabria.

Il suo curriculum si arricchisce anche di attività di docenza presso la Scuola di Formazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Ver-bania e presso le Scuole di Polizia penitenziaria di Catania.

L’abbiamo intervistata in veste di Direttore della Casa circonda-riale di Reggio Calabria.

Il Ministro della Giustizia Alfano ha dichiarato: «Le nostri carceri per la metà sono fuorilegge». Lei cosa pensa di questo? È solo da oggi o da qualche anno che la situazione si presenta così?

«Bisogna vedere cosa intendiamo con questa affermazione. Se vuol dire che non sono a norma di regolamento di esecuzione allora sì, è dal Duemila che molti istituti di pena sono fuorilegge: all’epoca,

1 Cfr. Scheda della struttura in Appendice.

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quando fu modificato il regolamento di esecuzione, fu disposto che le celle dovessero avere all’interno la doccia, l’acqua calda, tutte con-dizioni che si sono o parzialmente o per niente realizzate all’interno degli istituti penitenziari di tutta Italia. Il carcere di Reggio Calabria rientra in quelli dove non c’è stato l’adeguamento. Degli altri con precisione non so dire. So che il mio sicuramente non è a norma».Quando lei dice che le carceri stanno per scoppiare cosa intende?

«Che c’è un aumento esponenziale dei detenuti al di sopra della capienza tollerabile. Come amministrazione, infatti, ragioniamo in termini di capienza ottimale e capienza tollerabile: quest’ultima è la soglia oltre la quale non è possibile andare! Oggi invece abbiamo una presenza molto al di sopra della capienza tollerabile per migliaia di persone. Ciò significa che sta per scoppiare il sistema.

Paradossalmente si ha una diminuzione di personale in servizio, con una pianta organica ferma a quasi dieci anni fa, mai incrementa-ta con assunzioni se non di poche centinaia di unità. Non si è tenuto conto poi del calo fisiologico di chi va in pensione che non è mai sta-to sostituito. Sarebbe necessario avere un aumento di personale che vada di pari passo con l’aumento dei detenuti, una condizione che però non si verifica. Voglio dire che i conti non tornano.

Altra condizione fondamentale a cui siamo soggetti è la seria con-trazione e riduzione dei fondi a disposizione: senza una cifra adegua-ta il nostro sistema stenta a funzionare come, ad esempio, in alcuni istituti non ci sono i soldi per comperare le cose più elementari, la stessa carta igienica, o la carta per gli uffici, la benzina per le auto-mobili, un parco macchine che risale a dieci anni fa e quindi inade-guato».Come si può risolvere questa drammatica situazione che stiamo descri-vendo? Costruendo nuove strutture? Trovando un’alternativa al carcere? O che altro?

«Il problema è avere strutture adeguate oggi, non fra tre anni quando forse vedremo le nuove carceri costruite. Ammesso anche che questo tempo basti, perché tutti conosciamo l’iter dei lavori pubblici: è raro che un’opera pubblica venga conclusa nel termine stabilito e fissato.

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È però vero che qualunque situazione che non può trovare tolle-ranza nella nostra società moderna trova soluzione dentro, nel carce-re. Quindi tutti in carcere! Con la conseguenza che oggi qui dentro c’è un conglomerato di situazioni le più disparate. Oggi si mette in carcere il malato di mente, il tossicodipendente... cioè chi disturba o reca danno, che sia minimo o grave, va in carcere.

Non vorrei passare per razzista ma, ad esempio, il dato fonda-mentale è che oggi i detenuti sono in esubero di un terzo rispetto al-la capienza tollerabile. E questo terzo, guarda caso, è formato dalla presenza dei detenuti stranieri. Lungi da me essere razzisti perché è un dato oggettivo». «Basta alle carceri come luogo di degradazione e violenza». È don Luigi Ciotti a dirlo sulle cronache del quotidiano «La Stampa». Esiste vera-mente questa violenza in carcere?

«Se la violenza c’è fuori, nella strada, nelle scuole, nelle famiglie, perché non dovrebbe esserci in carcere? La violenza è nelle famiglie, dove c’è un legame di sentimento.

In carcere ci sono persone che non hanno scelto di stare insieme e quindi è ovvio che c’è la violenza. In qualsiasi contesto umano di aggregazione di più persone scatta o può scattare una qualunque for-ma di violenza più o meno grave. Questo lo riscontriamo nella vita quotidiana di tutti i giorni, basta uscire con l’automobile... Quindi il carcere non è esente, non è un corpo asettico e avulso dalla società: quello che c’è fuori c’è anche dentro».Il nostro Ordinamento Carcerario istituito nel 1975 dice testualmente: «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve as-sicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionali-tà, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a cre-denze religiose [...]. Nei confronti dei condannati e degli internati de-ve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». Funziona ancora oggi o possiamo tranquillamente cancellarlo?

«E come può funzionare se non viene rispettata la dignità delle persone che non hanno a disposizione quello che gli dovrebbe essere

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riconosciuto, cioè lo spazio minimo vitale? C’è sicuramente lo sforzo affinché venga riconosciuto. Ma nei fatti, nella concretezza quotidia-na, diventa pressoché inapplicabile. Mi spiego meglio. Il trattamen-to rieducativo passa attraverso il lavoro dei detenuti, primo elemento fondamentale. Però non ci sono i soldi per pagare le retribuzioni.

Altro esempio sono i rapporti con la famiglia. Sarebbe auspicabile un incremento degli incontri con i familiari, di fatto non praticabile laddove vi è carenza di personale di Polizia penitenziaria per il con-trollo e la sorveglianza. Stessa cosa vale per l’istruzione.

Le nostre attività, dunque, non si possono realizzare per mancan-za di personale per il controllo.

C’è da dire invece che, nell’ultimo periodo di quest’anno 2009, la nostra amministrazione centrale ha assunto un congruo numero di educatori in tutta Italia e ancora pare ne assumerà.

Ma non è con le figure professionali che si realizza il trattamento: la norma dice che esso si realizza attraverso il lavoro che non c’è. Un esempio? Qui lo scorso anno 2008 più di un terzo dei detenuti lavo-ravano, oggi non lavora quasi più nessuno».Non vengono dall’esterno associazioni di volontariato e cooperative so-ciali o di lavoro con progetti mirati al reinserimento lavorativo?

«No, no, qui in meridione no. Assolutamente. O meglio, per ora sono realtà nuove e qui da noi l’approccio con il carcere è molto più difficile rispetto al nord Italia. Ho lavorato quasi dieci anni in Lom-bardia e so bene che in quelle regioni c’è un associazionismo e del-le cooperative attente e sensibili. Nel meridione queste realtà stanno nascendo ora».Vuol dire che nel carcere che lei dirige non ci sono attività pratiche per poter rendere attivo il carcerato, soprattutto poi per quando uscirà fuori per reinserirlo nel mondo lavorativo?

«Le rispondo con un no secco. Ripeto, ci sono state fino allo scor-so anno 2008, quest’anno niente. In maniera molto franca e spic-ciola le rispondo che non ci sono soldi e personale. È sempre quello il problema!».Dopo tanti anni come direttrice di una istituzione penitenziaria, si ri-trova soddisfatta del suo lavoro? Vede una speranza per questa struttura

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in futuro? Oppure c’è il rischio di, tra virgolette, deprimersi a lavorare in questa situazione?

«Sicuramente questa situazione incide, ma depressa no, assoluta-mente! Per come si presentano gli scenari futuri non sono ottimista: non ci sono nel panorama futuro soluzioni praticabili o risolutive dei nostri problemi, io perlomeno le ignoro.

Continuiamo a ripetere che del carcere in effetti non importa niente a nessuno, il problema è nostro e ce lo teniamo.

Lo stesso Piano Carceri è pronto dall’aprile 2009, ma al Consi-glio dei Ministri non è ancora arrivato [mentre parliamo siamo al 19 novembre 2009, NdA]. E allora viene da pensare che manchi una volontà seria ed effettiva di trovare una soluzione, condivisibile o meno. Tutto questo invece ad oggi non c’è, non si ha notizia, non si ha idea, ma neanche di tempi e di previsioni, di obiettivi a lungo termine...».Parliamo di suicidi in carcere. C’è un suo collega, Antonio Fullone, di-rettore della struttura penitenziaria di Verona, che dice che il suicidio di un detenuto è «una sconfitta su cui è impossibile non riflettere» (fonte: DNews, 3 novembre 2009). Cosa pensa lei di chi si toglie la vita in car-cere e delle morti cosiddette “misteriose” che avvengono lì dentro?

«Sì, condivido ciò che dice il collega: il suicidio è sempre e co-munque una sconfitta, noi ne abbiamo fatto esperienza. Molte vol-te, laddove avevamo investito in energie e impegno professionale, la risposta della persona è stata quella di togliersi la vita. Ma lì entrano in gioco molti elementi: molte volte il detenuto non ha la capacità e la forza di reagire di fronte ad un evento familiare, personale, co-munque traumatico.

Io però non ingigantirei più di tanto la cosa perché comunque lo stesso fenomeno c’è anche fuori, niente di più e niente di meno. Certo, le statistiche dicono che i suicidi in carcere sono maggiori di quelli che avvengono fuori, perché probabilmente le condizioni am-bientali incidono molto. Forse è vero che si può morire di carcere, è possibile, ma non è una regola».Ma il rispetto dei diritti umani, il fatto che in Italia per esempio non ci sia il reato di tortura, fa legittimare certe situazioni che invece dovreb-bero essere le “mele marce” da mettere fuori, non crede?

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«La mia esperienza non dice questo. Io purtroppo di suicidi ne ho visti parecchi e so che comunque quelli a cui ho assistito erano det-tati da situazioni personali o giudiziarie. Ma non parlerei neanche di tortura in senso stretto, in senso negativo, della tortura fisica...

Certo il carcere è un ambiente da tortura, è ovvio: non essere pa-droni del proprio tempo è una privazione della libertà. Però non po-trebbe essere diversamente. Certo, va bene che al detenuto debbano essere garantite condizioni di vita adeguate, ma non dimentichiamo che il carcere è carcere, altrimenti verrebbe meno il ruolo di difesa sociale. Sì perché il carcere ha un doppio mandato: e cioè che l’at-tenzione non deve solo vertere sulla rieducazione, perché il primo scopo è quello della difesa sociale. Esso deve garantire la custodia dei soggetti che comunque hanno commesso un reato, e questo non lo possiamo dimenticare.

Che poi debba tendere alla rieducazione è un qualche cosa che viene dopo, che deve trovare tra l’altro il consenso del detenuto stes-so, perché non è detto che tutti i soggetti carcerati vogliano riedu-carsi».Il secondo, tra virgolette, mandato dovrebbe essere la riabilitazione del detenuto, una volta uscito dal carcere, per il reinserimento nella società. Voi avete dei casi in tal senso? L’inserimento è andato a buon fine?

«Tantissimi ancora ci contattano, ci incontrano e si percepisce l’affetto e la riconoscenza nei nostri confronti. Anzi, sono la maggio-ranza! Ma non fanno notizia, questa è la maggior amarezza. Perché la maggior parte è fatta di queste persone che hanno fatto un deter-minato percorso, si sono ricostruiti una vita e ne sono venuti fuori benissimo.

Quando parliamo di rieducazione teniamo a mente che questo termine è rivolto a persone adulte che sono già strutturate. Noi fac-ciamo talvolta fatica a rieducare i bambini che, se vogliamo, sono creta che è possibile modellare.

Avere quindi la presunzione di rieducare un adulto è un’impresa ardua, è una affermazione pesante.

Diverso invece è fornire all’adulto strumenti ed elementi perché possa riappropriarsi della propria dignità di persona e di uomo, per-ché chi commette un reato la mette sotto i piedi.

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È necessario dunque fornirgli strumenti affinché questa dignità possa essere rafforzata con la famiglia, con il lavoro onesto, serio, pu-lito, fatto anche di sacrifici. Però se ci guardiamo attorno il mondo non gira così, purtroppo!».

Intervista alla Direttrice di «Ristretti Orizzonti»

Ornella Favero, laureata in Lingue e Letterature Straniere moderne – Lingua e letteratura russa, nel 1998 ha dato vita, insieme a un gruppo di detenuti, alla rivista «Ristretti Orizzonti», realizzata nella Casa di Reclusione di Padova. Nel 1999 ha fondato una redazione nell’Istituto Penale Femminile della Giudecca.

La rivista è un bimestrale, più un numero speciale ogni anno mo-notematico: sono stati dedicati numeri al tema degli affetti, dei dete-nuti stranieri, delle donne detenute, del lavoro in carcere, delle mi-sure alternative.

Essa viene spedita per abbonamento postale a rappresentanti del-le istituzioni, degli enti locali, delle associazioni del privato sociale, a molte biblioteche civiche, scolastiche, operatori sociali, avvocati, detenuti ecc.

Anche la grafica e l’impaginazione sono curate interamente dai detenuti.

In questi anni «Ristretti Orizzonti» è diventata in Italia una fra le più qualificate e autorevoli riviste sui temi del carcere e del disagio sociale legato alla carcerazione.

Dal 2001 esiste anche il sito www.ristretti.it, realizzato intera-mente dai detenuti.

Nell’autunno 2009, alla suddetta testata il Comune di Ovada, assieme al Centro Pace Rachel Corrie, all’Associazione Articolo 21, alla trasmissione radiofonica Fahrenheit (RAI Radio 3) e con il so-stegno della Regione Piemonte, della Provincia di Alessandria e della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, hanno voluto asse-gnare il premio Testimone di Pace 2009 Sezione Informazione.

Cosa vuol dire, dal tuo punto di vista, essere direttrice di un giornale dei detenuti?

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«Credo che sia una sfida ogni giorno. Prima di tutto perché è ov-viamente una realtà complessa, dove tra l’altro nessuno ha la pro-fessionalità per lavorare in una redazione: il mio è naturalmente un gruppo di dilettanti. Siamo inoltre in un luogo in cui ci sono perso-ne detenute perché non hanno saputo rispettare le regole, e io inve-ce voglio che ci poniamo come obiettivo un’informazione rispetto-sa delle regole. A ciò si aggiunge il fatto che le persone che lavorano nella nostra redazione vivono naturalmente dentro un carcere e che ogni giorno sono stanche, depresse perché vivono in una situazione di sovraffollamento realmente pesante, nel carcere di Padova è appe-na stata aggiunta la terza branda in celle da un posto, e giustamente i detenuti sono più nervosi, perché vivere per anni in tre in uno spa-zio ridottissimo di 11 metri quadrati è difficilissimo.

In redazione poi abbiamo anche a che fare con il ricambio delle persone: detenuti che escono a fine pena o in misura alternativa, per fortuna, o vengono trasferiti, e i trasferimenti sono sempre una cosa misteriosa, poiché avvengono dall’oggi al domani e spesso senza un motivo, semplicemente per “sfollare” un carcere, che il giorno dopo si riempirà di nuovo. Ecco dunque che improvvisamente mi ritro-vo senza quel tal detenuto che, magari, aveva un ruolo importante, che lavorava su di un determinato argomento. È una realtà davvero molto complessa.

Con il giornale che dirigo poi voglio fare una informazione sobria e rispettosa delle regole, non urlata, e anche questo non è semplice, perché quando si vive nelle condizioni che ci sono oggi in gran parte delle carceri, è molto facile farsi prendere dall’idea di dire “dobbia-mo denunciare, urlare!”. Credo invece che i toni sobri siano molto, molto più efficaci.

Non voglio nessun tipo di “sparata” di tipo politico come, ad esempio, frasi del tipo “I signori politici” o simili: voglio che la criti-ca emerga dai fatti, dai racconti e dalle testimonianze.

Gestire poi un gruppo così ha altri aspetti problematici: altro esempio di oggi sono le tensioni che fuori esistono tra italiani e stra-nieri, cosa che entra anche in carcere con forza anche maggiore, per-ché qui la convivenza è forzata, io gestisco un gruppo di redazione con tanti stranieri di tutti i Paesi. Ed è difficilissimo ragionare e di-

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scutere senza che vengano fuori dei vittimismi, ma con la consape-volezza delle difficoltà che gli stranieri incontrano».Il vostro giornale subisce una specie di vaglio dal direttore? Un controllo?

«Assolutamente no, non c’è mai stata una lettura preventiva del giornale, proprio perché il direttore del carcere ha da subito accet-tato di non essere lui il direttore del giornale, come succede in altre carceri. Io sono il direttore del giornale e quindi ne rispondo anche penalmente, e questo deve essere una garanzia sufficiente che nel giornale non vengono pubblicate falsità o “sparate” senza fondamen-to. Negli anni credo poi che ci siamo conquistati credibilità e nessu-no oggi, dopo dodici anni di vita, si azzarderebbe a voler controllare quello che scriviamo. Semmai il problema vero può essere un altro, l’autocensura, perché un detenuto non è una persona libera, e quin-di non sempre riesce a dimenticare la sua condizione e scrivere libe-ramente».Sei tu che hai scelto questo lavoro dentro il carcere oppure sei stata chia-mata? Chi è il tuo editore di riferimento?

«Io l’ho inventato con un gruppo di detenuti e io l’ho fondato. L’editore è una piccola associazione, si chiama “Granello di senape” e opera nel carcere di Venezia e in quello di Padova. Il nostro è un giornale che si rivolge sia alle persone detenute ma anche per infor-mare e sensibilizzare fuori dalla porta della struttura di detenzione. Oltre al giornale abbiamo anche altre attività: ad esempio la reda-zione di un telegiornale che facciamo con altri volontari e che tra-smettiamo ogni sabato su di una tv locale del Veneto, “Telechiara”, abbastanza conosciuta nella nostra zona. Attraverso una cooperativa che si chiama “Altracittà”, e fa lavorare parecchi detenuti, gestiamo anche una bellissima biblioteca.

Ogni settimana, poi, sul quotidiano di Padova curiamo una ru-brica di mezza pagina. Per noi questa è stata una esperienza impor-tantissima, una bella scuola: ci ha abituato a ragionare, spiegare e raccontare il carcere a un pubblico di non addetti ai lavori, come è quello dei lettori di un quotidiano.

In sostanza questa area del carcere dove ci troviamo è diventata un Centro di documentazione e formazione, con corsi di scrittura,

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corsi di biblioteconomia e tutte le attività di informazione di cui ho parlato. Poi fuori dal carcere abbiamo una piccola redazione, in cui lavorano un detenuto in detenzione domiciliare che cura il nostro si-to www.ristretti.it e la rassegna stampa quotidiana sul carcere e una ex detenuta che segue altri progetti. Ad entrambi garantiamo uno stipendio regolare e “decente”.

Per finanziare le nostre attività partecipiamo ai bandi di concorso con i nostri progetti, abbiamo un sostegno economico dal Comune di Padova e dal Centro di servizio per il volontariato, e anche dalla Regione Veneto.

Dentro il carcere, poi, gestiamo uno sportello informativo di se-gretariato sociale e orientamento giuridico per i detenuti. A questo ufficio, aperto due anni fa, lavorano un gruppo di avvocati volontari e altri esperti volontari. È un servizio quest’ultimo davvero impor-tante, perché cerca di dare risposte a tutte le richieste dei detenuti, è un servizio di ascolto ma anche concreto nel cercare di tutelare i di-ritti delle persone detenute».Come funziona praticamente la vostra redazione in carcere?

«Tutti quelli che sono venuti a trovarci hanno detto che sembra una redazione vera. Prima di tutto lavoriamo in una sede che è sì dentro il carcere, ma è davvero bella, sono due stanze che abbiamo arredato e attrezzato noi, intendo la redazione, procurandoci le ri-sorse necessarie. Siamo partiti da un buco, una sede che era una spe-cie di celletta... poi piano piano siamo diventati una realtà significa-tiva, conosciuta. Ed ecco dunque che abbiamo ottenuto uno spazio maggiore.

I detenuti che ci lavorano, purtroppo, sono “volontari”, nel senso che lavorano, ma non percepiscono uno stipendio. Riusciamo a dare un contributo solo a due di loro che ci lavorano da più tempo e con un impegno enorme. Tutti comunque frequentano la redazione tutti i giorni, anche per cinque ore al giorno, anche senza la presenza dei volontari. Questo lo sottolineo perché davvero la redazione è diven-tata uno spazio di libertà dentro a una galera.

Generalmente poi ogni giorno dalle 13.00 alle 15.30 c’è la riu-nione di redazione a cui partecipano tutti. Ti assicuro che si discu-

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te molto, si accendono anche discussioni feroci: per esempio l’altro giorno c’è stato un confronto durissimo tra italiani e stranieri, duro ma ricco, costruttivo.

Alla mattina invece si scrivono gli articoli, si sbobinano gli incon-tri in redazione, si leggono gli altri giornali e la rassegna stampa.

Vengono anche a farci visita molti ospiti: magistrati di sorveglian-za, giornalisti, scrittori, e questa è una continua fonte di arricchi-mento non solo per i detenuti, ma anche per noi volontari. Credo che fuori raramente si riesca a trovare un ambito così interessante di confronto e discussione».Chi sono i vostri lettori? Chi si avvicina al vostro giornale?

«Intanto bisogna distinguere tra la rassegna stampa quotidiana che facciamo via internet e il resto. Fra gli utenti di questo servi-zio troviamo tutti quelli che si occupano di carcere: il che vuol dire tantissimi dell’amministrazione penitenziaria compreso il Ministro della Giustizia, poi tanti volontari, avvocati, magistrati, magistrati di sorveglianza, insegnanti... Le persone che si avvicinano a noi ov-viamente hanno qualche interesse all’argomento, ma a volte arriva-no anche lettori semplicemente incuriositi dall’argomento carcere, e non “addetti ai lavori”».Ma tu nella vita ti occupi solo di questo giornale o anche di altro? Quan-to tempo dedichi all’impegno con il carcere?

«Tantissimo tempo, ma per vivere faccio anche altro. Ad esempio l’interprete di russo, e poi sono giornalista e collaboro ad altre testa-te... Al giornale del carcere però dedico tantissime ore, anche a casa: alla sera, per esempio, non faccio altro che correggere testi, fare edi-ting, sistemare titoli, e leggere tutti gli articoli. Non c’è un controllo del carcere ma c’è un mio controllo ed una mia supervisione di tutto il materiale affinché non vengano dette o scritte cose inesatte. Il no-stro è un giornale serio e attendibile, noi abbiamo lottato per diven-tare una fonte credibile sul carcere anche per i giornalisti “veri”, per i professionisti di stampa e televisioni che ora si rivolgono spesso a noi se devono fare informazione sul carcere».Affrontando certi argomenti scottanti riguardo al carcere, avete avuto degli ostacoli di genere burocratico o politico nel vostro lavoro? Visto so-

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prattutto che anche il Ministro della Giustizia riceve, e forse legge, la vostra newsletter...

«No, posso dire di no. Quando abbiamo iniziato, ovviamente avevamo delle ambizioni e obiettivi più limitati, era solo il giornale del carcere di Padova. Poi un po’ alla volta, crescendo, con il sito, la newsletter e il resto, ci siamo conquistati stima e fiducia. Per cui, an-che quando facciamo delle cose che possono dare fastidio, c’è tutto questo mondo che ruota intorno al carcere che ci conosce e ormai sa della nostra affidabilità. Per questo non penso che possano tanto fa-cilmente dire: “Ah, questa realtà ci dà fastidio e la chiudiamo”.

Credo che tutti si siano resi conto che siamo persone serie e mol-to più credibili di tanta informazione che c’è fuori dalle mura del carcere. Immagino che, per esempio, il nostro dossier sulle morti in carcere non faccia piacere perché tira fuori tutte quelle vicende, sui-cidi, malasanità, di cui altrimenti si parlerebbe poco, ma ormai tutti sanno che vigiliamo su queste questioni e ci ritengono un punto di riferimento, ci comunicano notizie, ci telefonano per segnalarci si-tuazioni critiche che non vanno taciute.

Anche sul sovraffollamento, noi stiamo facendo una campagna molto puntuale e molto dura. L’unica ricetta per andare avanti credo sia la chiarezza e l’onestà dell’informazione. Per noi è una bella sfida, fare della nostra redazione una scuola di onestà.

Oddio, tutto poi è possibile! Se in carcere lo decidono, ti possono far chiudere quando vogliono: basta che facendo una perquisizione trovino qualche cosa di irregolare, noi sappiamo che può succedere e perciò stiamo molto attenti. O basta che ti trasferiscono i redattori più esperti. Ma io ho fiducia nell’intelligenza delle istituzioni, perfi-no in quella dei burocrati, un buon giornale, serio e credibile come sono convinta sia il nostro, non dovrebbe mai dare fastidio».Quanti sono i giornali del carcere esistenti in Italia?

«Diciamo che sono una quarantina, ma le realtà consolidate non sono tantissime. Il problema è che se si lavora in un carcere circon-dariale hai a che fare con persone che vanno e vengono, in attesa di giudizio o con pene brevi. Dar vita ad un giornale in una realtà così instabile e complessa è dunque difficile. I giornali dal carcere nasco-no e muoiono in poco tempo, pochi sono quelli solidi».

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Mass-media e carcere: secondo te quali pregi e quali difetti, quali re-sponsabilità e colpe hanno i giornali e le tv nel descrivere la realtà car-ceraria?

«Bisogna distinguere. Ho visto fare dei servizi belli e interessan-ti. C’è una giornalista del Sole 24ore, ad esempio, Donatella Stasio, che scrive pezzi molto seri e documentati, è anche coautrice, con la direttrice del carcere di Bollate, di un libro interessante sulla realtà carceraria.

Sull’indulto del 2006, invece, è stata una catastrofe di tutta l’in-formazione, sia quella di Destra sia quella di Sinistra o di Centro.

Per capirlo basta che tu vada a intervistare la gente per strada chiedendo quanti sono i detenuti rientrati dopo l’indulto, ti dicono il 98%. In realtà la recidiva dell’indulto è stata meno del 30%.

I giornali si sono buttati sulla questione arrivando a scrivere di ogni persona detenuta ed uscita dal carcere che “XY è uscito con l’in-dulto”, senza però dire che magari sarebbe uscito comunque sei mesi dopo senza che c’entrasse l’indulto.

Oppure, un altro esempio, il caso della semilibertà di Pietro Ma-so, il ragazzo che uccise i genitori in una cittadina veneta, ti cito un titolo di giornale: “Dopo soli 17 anni è già libero”. Qui ci sono già due giudizi: che i 17 anni di galera non siano niente nella vita di una persona, e che poi lui sia libero. Non è proprio così: Maso esce in semilibertà, quindi ogni sera rientra in carcere, gli è stato dato un foglio con gli orari che deve rispettare, il mezzo pubblico che deve prendere, è segnato dove deve mangiare, a che ora deve rientrare e può essere controllato dalla polizia in qualsiasi momento.

Molto spesso poi, sui temi dell’esecuzione penale, c’è una grande ignoranza: si scrive che la persona che ha commesso un reato è “già fuori” mentre invece risulta essere semplicemente agli arresti domi-ciliari ed in attesa del processo. Se guardiamo un telefilm america-no vediamo che al detenuto basta pagare la cauzione ed è fuori: tut-ti però sanno che, se viene condannato, entra in carcere. Da noi il sistema è più o meno lo stesso, ma si dice che è già fuori, nel senso che è come se l’avesse già fatta franca, mentre magari è solo in attesa di giudizio o agli arresti domiciliari: appena viene condannato deve rientrare in carcere».

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Avete fatto dei corsi di aggiornamento per i giornalisti per evitare certi svarioni che leggiamo sui giornali o sentiamo in tv?

«Nel mese di ottobre 2009, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Veneto, si è tenuto il primo corso di formazione per giornalisti e praticanti dentro un carcere, a cui hanno preso parte i detenuti della redazione ma anche i magistrati di sorveglianza. Sono parecchi i giornalisti che hanno dimostrato interesse a questo con-fronto tra l’informazione che viene “da dentro” e quella fatta “fuo-ri”».Le carceri stanno letteralmente scoppiando. Secondo te perché? Cattiva gestione? Cattiva politica? Oppure che altro?

«Non parlerei di cattiva gestione. Mi pare che le colpe siano delle scelte politiche. Viene usato il carcere come unica soluzione, unica forma di punizione per chi commette un reato. In questi ultimi an-ni poi, per qualsiasi reato l’unica punizione che si riesce a vedere è il carcere, si va dai graffitari agli autori di omicidi per guida sotto effet-to di sostanze ai clandestini. Si è tornati, ad esempio, ad avere il reato di oltraggio a pubblico ufficiale che era stato depenalizzato. Questa logica del credere e far credere che il carcere sia La soluzione con la L maiuscola, ha portato a nuove leggi che stanno riempiendo le car-ceri. Si è alimentata la paura nella popolazione e quindi non ci sono più neppure molte misure alternative perché i magistrati sono molto restii a concederle. È incredibile come non si riesca a far passare una cosa elementare: se si fa uscire una persona dal carcere a fine pena in stato di abbandono si rischia molto di più che a farla uscire due o tre anni prima con un percorso guidato e controllato. In questo caso il tasso di persone che commettono reati durante la misura alternativa è dello 0,4%, veramente un dato insignificante a fronte del rischio enorme di metterli fuori senza un percorso preparato».Proprio su questo c’è stato qualche anno fa l’indulto dove, improvvisa-mente, delle persone sono state messe fuori dal carcere senza nessun ac-compagnamento per il reinserimento nella società.

«Intanto io sottolineerei che l’indulto è stato votato da quasi tut-ta la Destra e quasi tutta la Sinistra... Insomma è stato un provve-dimento trasversale. E non è stato nemmeno così improvviso come

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si crede, poiché erano anni che se ne parlava. Ma un accordo con la destra è stato trovato soltanto in quel momento.

E non è neppure vero che non è stato fatto niente per i detenu-ti che uscivano: a Padova, ad esempio, abbiamo subito organizzato uno sportello “SOS indulto” con l’Amministrazione comunale e il carcere, mentre in tante parti d’Italia sono state fatte iniziative simi-li, ed è stato organizzato anche un piano nazionale di borse-lavoro per gli indultati». Ma è arrivato in estate, quando la gente era in ferie e negli uffici c’era meno personale.

«Nemmeno quando era stato il papa a chiederlo, eravamo riusciti ad avere l’indulto! Si è colta allora subito l’occasione di un possibile accordo tra le forze politiche che, probabilmente, non ci sarebbe più stata. Sono convinta che sia stato un dato di necessità, l’accordo era così fragile che se si aspettava sarebbe saltato subito.

Il problema vero a mio parere, però, è stato il fatto che non si è riusciti ad intervenire sulla gestione delle carceri quando conteneva-no 37 mila persone. Ci sono state una serie di circostanze di debo-lezza della politica che non hanno permesso di intervenire in modo diverso, strutturale».L’ex magistrato Bruno Tinti nella sua rubrica «Toghe Rotte» sul blog del giornale Il Fatto2 scrive che l’indulto è stato «calibrato sulla necessità di far evadere Previti dalla detenzione dorata del suo mega appartamento di Piazza Farnese a Roma».Ti chiedo se questa sorta di «inciucio» di Destra e Sinistra sull’indulto non sia stato studiato per far evitare ai cosiddetti «colletti bianchi» il carcere. Anche perché i detenuti sono tutti poveracci, neanche uno di quelli di Tangentopoli, tranne Sergio Cusani che ha scontato tutto.

«A me questa affermazione non convince. Mi chiedo: prima del-l’indulto queste persone andavano in carcere? Quanti “colletti bian-chi” detenuti c’erano prima dell’indulto? A me se la Destra l’ha fat-to con questa idea, francamente non interessa. Dal Duemila in poi

2 B. TINTI, Carceri, giustizia e separazione delle carriere e la soluzione Perduca spiegata a La7, in «Toghe Rotte», rubrica di http://antefatto.ilcannocchiale.it

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questa cosa doveva essere fatta, ma doveva essere data in contempo-ranea anche l’amnistia: avrebbero potuto far ripartire la giustizia e le carceri in modo diverso, con 37 mila detenuti da una parte e con molti meno processi dall’altra. Invece non c’è stata la forza né la vo-lontà di alcuni partiti di procedere. Tranne Cusani appunto, non ho mai visto nessuno di questi di Tangentopoli andare in carcere».Un’ultima domanda: vedi e vedete dei lumicini di speranza, dei segni di fiducia affinché si possa scorgere in futuro un miglioramento della si-tuazione carceraria?

«Non lo so, non sono una pessimista. Se lo fossi non farei, ad esempio, il progetto con le scuole in cui tantissimi ragazzi (l’anno scolastico passato 2008/2009 ne sono entrati 1200 suddivisi in pic-coli gruppi, alunni di Padova, Verona, Treviso ed anche da altre città del Veneto) entrano in carcere per ragionare su come si arriva al rea-to, sulla prevenzione, sull’importanza di confrontarsi con una real-tà come quella del carcere proprio per imparare a rispettare le leggi e a fare attenzione ai comportamenti a rischio. Da lì si misurano gli umori della gente, i ragazzi all’inizio sono severissimi, cattivi direi, ma poi nel corso del progetto non dicono che cambiano idea, ma co-minciano a ragionare con la testa, e non con la “pancia”.

Mi sono anche convinta, forse perché sono un’ottimista, che, se questa opera di sensibilizzazione del territorio fosse fatta da più par-ti, forse ci sarebbe un clima diverso nel Paese. Perché è drammatica la convinzione della gente della strada che, per essere sicuri nelle cit-tà, ci voglia più galera, che si debba restare in carcere fino all’ultimo giorno. Tutto ciò si traduce poi in una assenza di ricerca di soluzioni alternative: perché tanto non gliene frega niente a nessuno.

Spero che la gente si accorga che oggi più che mai stanno entran-do in carcere persone che non hanno niente a che fare con la crimi-nalità: per la maggior parte sono ragazzi giovani, sempre più spesso per problemi legati alla droga, e non quindi criminali venuti chissà da dove.

Spero, e mi auguro, che ci si accorga in tempo che si stanno met-tendo a rischio le giovani generazioni, i ragazzi... che sono poi i figli di quelli che dicono che ci vuole più galera.

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E spero anche che questo faccia in qualche modo cambiare il cli-ma, l’aria che si respira oggi, che si possa parlare di riforme, di mi-sure alternative al carcere, di prevenzione. L’unica speranza è questa, insomma».

Intervista a N.V., ergastolano

Essere condannati all’ergastolo comporta rimanere in carcere per tutta la vita. La persona che incontriamo, N.V., ha 54 anni ed è stato condannato alla pena massima che l’Italia contempla per fatti legati alla lotta armata degli anni Settanta. Ha scontato 22 anni e 5 mesi tra reclusione (15 anni) e semireclusione, poi il Tribunale di sorveglianza gli ha concesso la libertà condizionale. Al termine dei 5 anni della condizionale, come previsto dalla legge, è stata dichiarata esaurita la pena. Ora lavora in una editrice-cooperativa di cui è tra i soci fondatori.

Che reazione (o sensazione) hai avuto quando lo Stato ha decretato, con la formula “fine pena: mai”, l’ergastolo per te? Cosa ha voluto (o vuol) dire in termini di Tempo quella frase?

«Se una persona condannata ad una pena temporale può dire a se stessa: qualunque cosa accada il giorno X sarò una persona libera, e quindi avere un punto di orientamento, il recluso senza fine pena, il recluso condannato all’ergastolo, non può fare questo conto. Nel suo certificato penale il fine pena è scritto con un numero immaginario: 99/99/9999. La sua possibilità di uscita, se non è fra gli ergastolani ai quali è preclusa la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge (che quindi resteranno a vita in carcere), è legata unicamente alla grazia o all’ottenimento della libertà condizionale che sono en-trambi provvedimenti gestiti da autorità diverse ma assolutamente discrezionali. Quindi la vita di una persona condannata all’ergastolo, la sua possibilità di uscire dalla pena, dipende unicamente dal pote-re discrezionale di un’autorità. Per questo motivo l’esperienza che la persona condannata all’ergastolo vive è quella di sentirsi totalmente nelle mani dell’istituzione che può decidere a suo piacimento se te-

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nere un ergastolano a vita in carcere o farlo uscire. Si potrebbe dire che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una persona, con l’ergastolo se la prende.

L’impatto con la parola ergastolo è reso bene da una frase di Pie-tro Ingrao: “Sono contro l’ergastolo perché non riesco ad immagi-narlo”. Anche fra i reclusi l’ergastolo è una parola tabù. Per aggirar-la si usano alcuni eufemismi, prendere l’ergastolo si dice “avere l’er-ba”... che forse è come dire che si sta un po’ sotto terra».All’interno della cella avevi un orologio? Un calendario? Che rapporto si instaura con questi oggetti?

«Nella mia esperienza carceraria è sempre stato vietato avere l’oro-logio, ed il calendario l’usavo solo per segnare i giorni in cui potevo fare colloquio con i miei familiari oppure telefonare. Ma per soprav-vivere alla torsione del tempo è decisivo costruire un tempo per sé, caratterizzato da un proprio fare autodeterminato, cosa non facile. Negli ultimi anni della mia carcerazione ho scoperto di avere una vena creativa inaspettata. Di notte quando si chiudevano le celle mi lasciavo andare alla pittura usando la terra del campetto di calcio del carcere di “Rebibbia” ed altre materie colorate che avevo in cella per cucinare, lo zafferano, ad esempio. Il patriota Settembrini, condan-nato all’ergastolo, scriveva nelle Ricordanze che l’attività autodeter-minata consente al recluso di pensare: “Almeno in questo son libe-ro”, almeno in questo agisco per me stesso.

Producevo 3/4 opere a notte e alla fine, estenuato, mi godevo l’incanto della sospensione del tempo. Dipingendo era come se ac-cendessi le luci su un altro mondo, anche se l’orecchio rimaneva co-munque vigile all’ascolto di ciò che accadeva in sezione, perché la porta della cella si sarebbe potuta aprire in qualunque momento, ad esempio per una perquisizione, o per la conta notturna dei detenuti, la qual cosa avrebbe violato quel momento. Ero quindi simultanea-mente collocato in una doppia dimensione: mano e occhi immersi nel tempo della creazione, orecchio attento ai ritmi dell’istituzione carceraria».Come giudichi l’uomo moderno che oggi vive sempre correndo e correndo dietro al Tempo, l’uomo contemporaneo che sembra volere sempre tutto e all’istante, che “brucia” i secondi e il Tempo nella logica del “tutto e subi-

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to”, grazie anche alla tecnologia, ai mass media, mail e telefonini che ci fanno vivere “in Tempo reale” avvenimenti lontani di altri continenti?

«Da alcuni anni sono uscito dal carcere e vedo che i dispositivi re-clusivi di controllo del tempo delle persone sono disseminati ovun-que nelle istituzioni sociali, ad esempio in alcune aziende la “pausa fisiologica”, quella per andare a gabinetto, per intenderci, è conside-rata dall’azienda un “furto di tempo”. Per quel che riguarda il mio lavoro, invece, con altre persone, alcune delle quali provenienti dalla reclusione, sono riuscito a costruire un’esperienza lavorativa di tipo cooperativo che consente ai soci cooperanti di decidere autonoma-mente come organizzare il proprio tempo di lavoro.

In base all’esperienza che ho fatto, ed anche per le cose che ho raccontato finora, non vivo come decisiva la contrapposizione fra “tempo frenetico” e “tempo lento”, mi sembra invece significativa l’alternativa tra il tempo singolarmente e collettivamente autodeter-minato a quello sovra-determinato dalle varie istituzioni». Come ti rapporti oggi con l’orologio?

«Lo uso stabilmente perché ho imparato a considerare il mio tempo e quello delle altre persone una cosa preziosa, questa consi-derazione della preziosità del tempo penso sia anche un indicatore del rispetto che si ha verso se stessi e verso gli altri. Far aspettare ad esempio è uno dei dispositivi attraverso cui le istituzioni totali, ma più in generale tutti i poteri, fanno sentire la loro supremazia sulle persone. “Ci uccidevano con le attese” affermò una donna internata in campo di concentramento per raccontare uno dei dispositivi più mortificanti di Auschwitz».

Intervista a Daniela De Robert, volontaria a «Rebibbia»

Daniela De Robert lavora come giornalista alla redazione esteri del TG2.

Da sempre attenta alle questioni sociali, ha realizzato servizi sulle problematiche del disagio, della povertà, dei minori, dei Paesi pove-ri, del mercato degli esseri umani, dello sfruttamento sessuale, degli istituti di pena.

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Ha pubblicato il reportage sulla vita in carcere Sembrano proprio come noi. Frammenti di vita prigioniera, edito da Bollati Boringhie-ri, vincitore del Premio Paola Biocca e del Premio Anima, e Fron-tiere nascoste. Storie ai confini dell’esclusione sociale, edito da Bollati Boringhieri.

Collabora con le riviste «Lo straniero» e «Janus».Da oltre vent’anni opera come volontaria nel carcere romano di

«Rebibbia».

Perché ha scelto di fare volontariato proprio in carcere? Cosa l’ha spin-ta a questa scelta? Non poteva scegliere altre strutture, ad esempio tra gli anziani di una casa di riposo o altro?

«Perché proprio il carcere? Questa è una domanda che mi vie-ne fatta spesso e che rivela l’idea del carcere come qualcosa di altro, di lontano, che non ci appartiene. La mia scelta di fare volontariato in carcere invece nasce proprio dall’idea contraria, dalla convinzio-ne cioè che quel mondo recluso sia parte integrante della nostra so-cietà.

Spesso quando si parla di carcere si usa l’espressione “Pianeta Car-cere”, come se parlassimo di Saturno. Niente di più falso. Il mon-do prigioniero è espressione della nostra società, ne è parte e i suoi abitanti sono persone che prima e dopo vivono nelle nostre strade e abitano le nostre città.

Ricordo che Walter Veltroni, quando era sindaco di Roma, fece sua questa concezione del carcere al punto da considerare i cinque istituti penitenziari della capitale come un municipio al pari delle al-tre e preparò un piano regolatore del carcere nella città.

Se poi mi chiede perché non ho scelto di lavorare in strutture per anziani, le dirò che proprio in questi giorni sto seguendo il caso di un uomo detenuto a “Rebibbia” che ha compiuto 87 anni. E non è certo l’unico che continua a trascorrere la sua vita dietro le sbar-re nonostante l’età avanzata. Questo per dire che in realtà il carcere è un luogo dove vivono condensati e compressi tutti i problemi so-ciali: salute, tossicodipendenza, malattia mentale, immigrazione, al-colismo, famiglie a rischio, bambini abbandonati, famiglie spezzate,

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terza età, solitudine, disoccupazione, mancanza di case (per chi si prepara a uscire)...».Cosa ha pensato la prima volta che ha messo piede in questa struttura totalizzante? Che impressione le ha fatto?

«Come racconto nel mio libro Sembrano proprio come noi. Fram-menti di vita prigioniera, il primo ingresso in carcere è stato uno schiaffo violento.

Quando entri pensi di incontrare dei criminali e trovi delle per-sone, cerchi qualcosa di straordinario e invece attorno a te c’è l’or-dinario. Perché in carcere ci sono persone normali, uomini e donne come noi, ed è questo che colpisce subito quando si entra per la pri-ma volta. Difficile dimenticare Nancy, una donna colombiana non più giovane che aveva accettato di fare il viaggio della speranza (co-sì lo chiamano), imbottita di ovuli pieni di droga per pagarsi le cure per un tumore al seno. Appena sbarcata a Fiumicino è stata ferma-ta e arrestata. Per molti mesi, durante il periodo delle cure, è vissu-ta nella nostra comunità alloggio. Per tutti era solo “nonna”. Poi ci sono i giovanissimi, come Mario o Michelangelo, che arrivano dal carcere minorile. Hanno paura ma non possono dirlo e devono fare vedere che sono dei duri. E spesso si perdono dietro questa facciata. C’è Marcello. Ha “toccato” la droga quando aveva solo quindici an-ni. Uscirne a trent’anni è molto difficile, ma si può provare. C’è Do-menico che ha un figlio con un handicap gravissimo alla nascita. Per garantirgli le cure ha fatto delle piccole truffe. Quando tornava dai colloqui era radioso e durante i permessi si occupava di questo figlio con amore e dedizione. C’è Maurizio. A diciott’anni lo hanno con-dannato a ventidue anni di galera. “Non sapevo neanche cosa fossero ventidue anni”, dice adesso.

Le nostre prigioni sono piene di persone che hanno sbagliato, ma che a volte aspettano solo l’occasione per cambiare. Non è faci-le. Servono molte risorse, serve una gran forza di volontà. Non solo per ricominciare a vivere in modo diverso, ma anche per fare fronte ai pregiudizi, alle porte chiuse, all’ostilità del mondo libero che degli ex detenuti non ne vuole più sapere.

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Il carcere è un mondo duro, violento in se stesso per i meccanismi di spersonalizzazione. “Quando entri in carcere – diceva un detenu-to – insieme alle tue impronte digitali lasci alla matricola anche la tua identità”. Da quel momento sei solo un detenuto, uno dei tanti, uguale a tutti gli altri. La tua storia, i tuoi affetti, le tue difficoltà, le tue esigenze, le tue parole non trovano più ascolto. È forse per que-sto che l’autolesionismo è così diffuso. Quando alzare la voce non serve più, si fa gridare il proprio corpo e finalmente si ottiene atten-zione».Ci può spiegare in che cosa consiste praticamente la sua attività e dove la svolge (in quale struttura, «Regina Coeli» o altro)? Cosa significa oggi per lei, dopo tanti anni di vita da volontaria, continuare a fare volon-tariato tra i detenuti?

«Ho cominciato la mia attività all’interno delle carceri oltre vent’anni fa. Insieme ad altri volontari nel 1994 abbiamo costituito l’associazione VIC-Volontari In Carcere della Caritas diocesana di Roma. Oggi siamo un centinaio di volontari che operano nei centri di ascolto aperti in tutte le sezioni delle quattro carceri del comples-so penitenziario di “Rebibbia”. Lì incontriamo gli uomini e le donne detenute e insieme cerchiamo di accompagnarli in un percorso che li porti verso un fuori diverso da quello che li ha portati dentro. Incon-triamo situazioni molto diverse, a volte estremamente dolorose. Pen-so alle donne straniere che soffrono per la lontananza dai figli, ma anche agli anziani, ai ragazzi tossicodipendenti, alle famiglie lacera-te, ai figli costretti alla trafila umiliante dei colloqui, alla difficoltà di trovare un lavoro, ai momenti duri di presa di coscienza dei propri errori, alla voglia di ripagare la società per il male fatto.

Sono percorsi lunghi, travagliati, con cadute e riprese, molto im-pegnativi. Penso in questi giorni alla scelta di quattro detenuti che lavorano con la nostra cooperativa sociale come cuochi nella cucina detenuti della Casa circondariale “Rebibbia” che avevano chiesto e ottenuto (con un grande impegno anche della direzione del carcere e dei magistrati di sorveglianza) di andare a lavorare come volontari nei campi base dei terremotati in Abruzzo. Hanno trascorso una set-timana all’Aquila, con grande soddisfazione della Croce Rossa che

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gestiva la cucina, degli abitanti della zona e anche loro. Per la pri-ma volta dopo moltissimo tempo si sentivano utili e gratificati per il lavoro che facevano. Vista la riuscita dell’esperimento, da qualche tempo hanno lasciato il lavoro nella cucina del carcere. Tutte le mat-tine partono da Rebibbia e raggiungono il campo base dove lavora-no. La sera rientrano in carcere.

Certo non tutte le storie vanno a buon fine. Nel corso di questi anni sono molti i “fallimenti”, quando vediamo le persone che rien-trano in carcere. A volte si ha la tentazione di mollare tutto, ma poi incontri altre persone e ricominci.

Oltre ai centri di ascolto la nostra associazione ha una casa allog-gio per ospitare i detenuti che vanno in permesso privi di una casa e i loro familiari che vengono per i colloqui».Percepisce i frutti del suo ventennale lavoro volontario in carcere? Le sembra di aver “prodotto” qualche cosa di utile per gli stessi detenuti?

«A volte si ha la sensazione di spalare il mare con un forcone. Quel poco che si conquista dentro viene messo in discussione in po-chissimo tempo. Basta che cambi il direttore, basta che qualche dete-nuto tradisca la fiducia ricevuta, violando le regole e i patti, che tutti fanno un passo indietro. E poi c’è il sovraffollamento, la mancanza di spazi e di personale, che rendono tutto più difficile. Le persone so-no a volte esasperate. E poi il clima esterno, con questa voglia di ga-lera a tutti i costi rende il clima pesante anche dentro. Ma penso che proprio per questi motivi non si possa mollare proprio adesso. Anzi, credo che l’attività dei volontari si debba spostare anche molto fuori, incrementando le iniziative di sensibilizzazione della città. Penso che molti degli atteggiamenti di paura e ostilità nascano dalla mancanza di conoscenza del mondo prigioniero. Ed è anche da questa costata-zione che è nata l’idea di scrivere Sembrano proprio come noi. Fram-menti di vita prigioniera, un libro che raccontasse il carcere nella sua vita quotidiana, al di là della cronaca nera e della cronaca bianca».Cosa ha voluto dire l’indulto di qualche estate fa per lei? Come l’ha vis-suto? Lei è stata favorevole a questa scelta?

«L’indulto era necessario. Allora, come peraltro oggi, le carceri violavano i diritti di base dei detenuti. Ne è una conferma la recente

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sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condan-nato l’Italia a pagare mille euro a un uomo per essere stato detenuto in spazi insufficienti.

Per questo penso che allora come oggi una misura “svuota-carce-ri” fosse e sia necessaria. Le condizioni di vita nelle carceri italiane sono inaccettabili. Non si può vivere chiusi per venti, ventuno ore al giorno in una cella da due con cinque letti a castello, dove si fa a turno per stare in piedi.

Ormai tutti i locali comuni sono occupati da materassi buttati per terra. Ci sono addirittura i registri per stabilire i turni di chi dor-me sul letto e chi per terra. Il reinserimento – finalità ultima del car-cere secondo la nostra Costituzione – resta solo una parola che non ha modo di trovare applicazioni.

Ritengo che si debbano trovare soluzioni per alleggerire le carce-ri, magari applicando le misure alternative che sono un miraggio per la maggior parte delle persone detenute. E nello stesso tempo si do-vrebbero modificare le leggi criminogene che contribuiscono a riem-pire a dismisura le prigioni italiane: la legge sull’immigrazione, quel-la sulle tossicodipendenze e la recente legge sulle misure di sicurezza che rende l’immigrazione clandestina un reato e punisce i graffitari con la reclusione. Sono leggi che offrono soluzioni penali a problemi sociali. Una risposta insufficiente e anche sbagliata». Come avete vissuto voi volontari e tutto il personale che lei ha incontrato le scelte politiche applicate dai vari governi nel corso degli anni?

«In parte ho già risposto. Queste leggi criminogene hanno tra-sformato sempre più il carcere in un luogo per chi anche fuori fatica a vivere: stranieri, tossicodipendenti, malati di mente, border line, persone con forte disagio sociale. Sono loro i clienti preferiti delle galere. Ma questa non è una soluzione ai problemi, ma un aggrava-mento.

Ci sono poi i vari tentativi, in parte riusciti, di abolire o modifica-re stravolgendola la legge Gozzini, quella legge cioè che regola la vita in carcere. Con la legge ex Cirielli per molte categorie di detenuti è diventato molto più difficile ottenere benefici e misure alternative. Il risultato è che ci sono maggiori ingressi e minori uscite.

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Lavorare in carcere diventa sempre più faticoso. Penso agli agenti di Polizia penitenziaria, ma anche agli educatori che devono seguire ognuno centinaia di persone, agli psicologi che hanno sempre me-no ore pagate». Mass media e carcere: da giornalista ritiene che i suoi colleghi abbiano trattato o trattino bene, con sensibilità e preparazione, l’argomento? Che cosa si sente di dire a chi gestisce l’informazione sull’argomento?

«Questo è un punto davvero dolente. Credo che i media abbiano delle gravi responsabilità. Spesso non c’è una preparazione adeguata, non si conoscono le leggi che regolano il carcere, si raccontano i fatti con approssimazione. Ma soprattutto si passa dal silenzio quasi asso-luto all’opposto estremo. Penso al silenzio di questi mesi sull’epide-mia di suicidi che ha toccato cifre mai viste. I dati ci sono. I media li conoscono. Ma in pochi ne hanno parlato. Di sovraffollamento, a parte qualche giorno attorno a Ferragosto in occasione della visita ispettiva di centocinquanta parlamentari nelle carceri italiane su ini-ziativa dei radicali, si è detto molto poco. Ci sono volute le proteste qualche volta violente per richiamare l’attenzione dei media.

Al contrario, ricordo i giorni dell’indulto, quando i media face-vano a gara per trovare situazioni negative. Ancora oggi non si riesce a far passare il quadro reale di quello che è successo dopo l’indulto, con una diminuzione netta della recidiva tra gli indultati».Che progressi sono stati fatti, secondo lei, da quando ha cominciato come volontaria ad oggi sulla questione carceraria?

«Di progressi ne sono stati fatti pochi. Ci sono alcune eccellenze, di cui la stampa si occupa spesso, come le attività teatrali del carcere di Volterra, la pasticceria di Padova, il giornale “Ristretti Orizzonti” e il sito gestito da una cooperativa di detenuti, ex detenuti e volon-tari, la cooperativa agricola che produce il vino nell’istituto di Vel-letri, la torrefazione nel carcere di Torino e altre ancora. Tutte cose che forse fino a qualche tempo fa non erano neanche pensabili. A renderle possibili la presenza forte del volontariato e del Terzo setto-re. Ma non si riesce a garantire uno standard minimo in tutti gli ol-tre 200 istituti penitenziari italiani. E i detenuti conoscono bene la mappa delle carceri “buone” e di quelle “dure”».

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Vede un segno di speranza, di cambiamento, di fiducia nei detenuti che lei incontra in carcere? Oppure si è scoraggiata e/o magari rassegnata?

«Parlare di segni di speranza oggi è veramente difficile. Il clima di chiusura si respira in ogni momento. I magistrati di sorveglianza si muovono con prudenza, sapendo di non avere le spalle coperte. Tro-vare un lavoro per chi sta in carcere è ancora più difficile. E vivere ammucchiati come topi in ambienti inadeguati, a volte umidi, caldi d’estate e freddi d’inverno, in condizioni igieniche precarie rende il tutto più pesante». Un’ultima domanda: se fosse Ministro della Giustizia cosa cambierebbe della realtà carceraria italiana?

«Per prima cosa cercherei di favorire lo svuotamento delle carce-ri con misure straordinarie a cui si accompagnino misure ordinarie. Cercherei di aumentare l’accesso alle alternative alla detenzione già previste dalla legge e poco applicate. Ci sono ventimila persone con una pena o un residuo pena inferiore ai tre anni che potrebbero usci-re con la condizionale.

Bisognerebbe poi investire molto sulle iniziative in carcere per rendere le prigioni non un luogo di punizione dove lo scorrere del tempo resta fine a se stesso, ma un’occasione per ripensare ai propri errori e sperimentare nuove vie e nuovi rapporti. Non è un sogno. Laddove si è investito e si è creduto nel reinserimento, i risultati si sono visti».

Intervista a Christian De Vito, ricercatore e volontario nelle carceri di Firenze

Christian De Vito è stato per lungo tempo volontario nelle carceri di Firenze e Prato. Da anni De Vito, oltre a questa tematica, si occupa di storia sociale dell’Italia repubblicana, con particolare riferimento e notevole attenzione ai temi delle carceri, appunto, ma anche della salute mentale, dei fenomeni migratori e del welfare.

Christian conosce molto bene la realtà carceraria italiana.

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De Vito, cosa pensa delle strutture carcerarie che stanno scoppiando?«Esse sono il prodotto delle scelte compiute negli ultimi venti an-

ni a livello politico, in particolare con riferimento all’immigrazione e alle tossicodipendenze. Se non si torna indietro su quelle scelte, non si potranno avere carceri meno piene. Si penserà invece di costruire più carceri, come sembra voler fare il governo con il “Piano carceri” di cui si parla in questi giorni; ben sapendo che, anche ammesso che saranno costruiti, i diciassettemila nuovi posti letto si riempiranno prestissimo e serviranno solo a stimolare un ulteriore incremento della repressione e delle retoriche della sicurezza.

Quella delle carceri che scoppiano, del resto, è una vicenda non solo italiana, ma mondiale, che rimanda all’affermarsi a livello glo-bale di politiche neoliberiste: basti pensare agli Stati Uniti, passati in trenta anni da 300.000 a oltre 2.000.000 di detenuti.

Una tendenza che riguarda anche Paesi tradizionalmente riforma-tori in ambito penitenziario, come quelli scandinavi o i Paesi Bassi.

Del resto, il problema delle carceri che scoppiano non è solo una questione di numeri. Il sovraffollamento, che ne è la principale tra-duzione concreta, vuol dire vivere per ore e ore in pochi metri qua-drati con tre, quattro e talvolta anche otto o nove persone. È una si-tuazione inumana e del tutto illegale, che pone con urgenza la que-stione di fare qualcosa, di una strategia alternativa a quella repressiva che domina».Eppure c’è chi dice che in carcere si sta bene, che «stanno come in alber-go». È veramente così?

«Assolutamente no. I cittadini e le cittadine, e anche tantissimi uomini e donne politici, dovrebbero vedere le carceri prima di fare affermazioni del genere. Dovrebbero vedere le celle con i letti a ca-stello a quattro piani, dove si mangia seduti sui letti perché perfino gli sgabelli di legno sono spesso insufficienti rispetto al numero dei detenuti presenti. Dovrebbero vedere anche questi famosi televisori nelle celle, che così spesso vengono dipinti come il simbolo stesso del “carcere albergo” e che, invece, nella realtà del carcere sono una trap-pola infernale, perché avere come unica attività per ore e ore e per molti mesi quella di stare davanti a un televisore è un supplemento di condanna, non certo un lusso.

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No, le carceri non sono degli alberghi. Sono istituzioni dove man-cano le cose anche più semplici, dove ogni detenuto vede negati an-che diritti fondamentali come quello alla salute. Sono anche luoghi di violenze, sia nella forma dei continui arbitri e ricatti, sia in quel-la delle vere e proprie violenze fisiche, molto meno rare di quanto si pensi».Nella situazione che lei descrive, il carcere si può ancora pensare come una struttura rieducativa per chi ha commesso reati?

«La logica della rieducazione è vecchia come il carcere stesso. L’idea della punizione si è sempre accompagnata con quella di riem-pire il tempo trascorso in carcere di attività che modificassero la per-sonalità e lo stile di vita dei detenuti. È da questo che derivano già nell’Ottocento i principi dell’individualizzazione del trattamento e della specializzazione delle carceri; questo è il senso anche della pena “rieducativa” definita nell’art.27, comma 3 della Costituzione italia-na.

Tali principi a seconda dei casi sono stati tradotti in termini stret-tamente clinici (dalla scuola della “difesa sociale” negli anni Cin-quanta e Sessanta) o in termini morali-religiosi (come “redenzio-ne” del condannato). Dalla metà degli anni Settanta, la riforma del 1975 e poi la legge Gozzini del 1986 hanno dato un’interpretazione più legata all’idea del reinserimento sociale, ma ciò si è anche coniu-gato con meccanismi premiali all’interno del carcere: in sostanza, la massa dei detenuti è stata divisa in tanti settori o “circuiti” (massima sicurezza, media sicurezza, custodie attenuate, sezioni per tossico-dipendenti, reparti di osservazione psichiatrica), mentre ogni dete-nuto è stato spinto a mantenere comportamenti conformi alle rego-le penitenziarie, per evitare di perdere la possibilità di ottenere vari “benefici”, come il lavoro interno e poi esterno, la semilibertà, l’affi-damento in prova al servizio sociale. Ciò che era stato concepito co-me uno strumento di decongestionamento del carcere è tuttavia di-ventato sempre più uno strumento di controllo di una popolazione carceraria in costante aumento; parallelamente, le misure alternative hanno perso ogni loro “alternatività” rispetto alla detenzione, dive-nendo complementari all’aumento della popolazione carceraria.

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Nel frattempo, è mutata radicalmente la composizione della po-polazione detenuta. Le riforme degli anni Settanta e Ottanta erano rivolte a un detenuto-tipo di nazionalità italiana, con la possibilità di reinserirsi a livello abitativo e lavorativo in un tessuto sociale preesi-stente. Fino a un certo punto questa configurazione si è potuta adat-tare alla realtà dei detenuti tossicodipendenti, per i quali tuttavia vi erano delle esigenze anche sanitarie alle quali lo sviluppo delle co-munità, dei SER.T. e delle sezioni a custodia attenuata ha risposto in maniera sempre solo parziale. Oggi la realtà è ulteriormente mutata: se si pensa che nelle maggiori carceri ormai gli immigrati sono oltre il 50% dei detenuti, si può capire quanto questo modello di inter-vento sia superato, o quantomeno marginale, rispetto a un carcere che svolge una funzione puramente contenitiva e repressiva.

Analizzando le cose in questi termini secondo me si può capire la crisi permanente nella quale si imbattono sempre più tutte le attività trattamentali e i progetti ad esse ispirate: sono strutturalmente con-dannati ad una marginalità sia numerica che simbolica, ad inseguire inutilmente una vera e propria alluvione di detenuti e di disugua-glianza sociale. Sono processi che provengono dall’esterno del car-cere e che hanno molto a che fare con le trasformazioni del mercato del lavoro e con il progressivo smantellamento anche di quel poco di welfare che era stato edificato a partire dagli anni Settanta. A questo va aggiunto un altro elemento: alla prospettiva del “reinserimento” dei detenuti, in Italia, le autorità politiche non hanno mai veramen-te creduto. Lo dimostra il fatto che le risorse per queste attività sono da sempre incomparabilmente inferiori rispetto a quelle riferite al-la funzione custodiale del carcere. Si può trovare prova di questo in ogni carcere, basta comparare il numero degli agenti di Polizia pe-nitenziaria a quello degli educatori: nel carcere di Firenze, per esem-pio, dove ci sono in questo momento 940 detenuti a fronte di una capienza di 470 posti, ci sono 420 agenti e 5 educatori».Cosa si può pensare in alternativa al carcere in Italia oggi?

«La mia ricerca storica sul sistema penitenziario dal 1943 ad og-gi credo metta in luce, tra le altre cose, il fallimento del riformismo penitenziario. La crisi della ideologia della “rieducazione” è infatti

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solo un aspetto di una marginalizzazione complessiva della prospet-tiva di trasformazione dell’istituzione penitenziaria. Di fatto, attra-verso i decenni, il carcere ha continuato sempre a funzionare come una discarica sociale nella quale sono stati sistematicamente riversati i rifiuti dei processi socio-economici che avvenivano al di fuori del-le mura di cinta. Per altro verso, tutta l’idea che il periodo trascorso in carcere potesse favorire un successivo reinserimento dei detenuti si è scontrata, oltre che con i limiti già detti dell’area “trattamenta-le”, con un sistema di assistenza sociale del tutto insufficiente e con il permanere di radicati pregiudizi nella popolazione.

Basta vedere cosa è successo quando c’è stato l’indulto del 2006: gli indultati uscivano dalle carceri con sulle spalle i sacchi neri del-l’immondizia dove avevano i loro vestiti e fuori trovavano qualche volontario, nel disinteresse pressoché totale delle istituzioni. Anche il tanto sbandierato rientro in carcere degli indultati – rimasto in ve-rità su tassi straordinariamente bassi – è derivato da questo processo di abbandono sociale piuttosto che da una presunta “tendenza cri-minale” di quelle persone.

Bisogna quindi ripensare le strategie di trasformazione del carce-re, tenendo presente il collegamento tra il carcere e la società. Occor-re dunque innanzitutto smantellare l’apparato securitario messo in campo negli ultimi due decenni: dalla legislazione speciale su tossi-codipendenti (legge Fini-Giovanardi) e immigrati (legge Bossi-Fini), alle tante ordinanze comunali dal chiaro impasto razzista; dalle nor-me che hanno rafforzato i sindaci e le prefetture a quelle che hanno equiparato di fatto le polizie locali alle forze dell’ordine. Su questa base mutata, occorre finalmente procedere all’approvazione di un nuovo codice penale che depenalizzi una serie di reati minori, favo-risca sistematicamente la concessione di misure alternative sin dalla fase del giudizio e proceda all’abolizione di quella autentica tortura che è l’ergastolo.

L’ulteriore potenziamento di misure alternative in fase di esecu-zione penale dovrà poi andare di pari passo con la strutturazione di politiche sociali non più frammentate per settori assistenziali, ma integrate a livello di enti locali e di aree metropolitane. È da questo nuovo protagonismo della politica, che per troppo tempo e tutto-

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ra delega ai tecnici gli assetti dell’universo carcerario, che possono scaturire le condizioni per processi di abolizione di alcune parti del sistema penitenziario. Ne indico come esempio alcune per le quali l’abolizione appare tanto urgente quanto rapidamente praticabile: gli ospedali psichiatrici giudiziari e le sezioni psichiatriche, attraver-so la presa in carico di quanti sono internati da parte dei servizi di salute mentale territoriali; le carceri minorili, estendendo le struttu-re di accoglienza in modo da poter estendere i benefici previsti dalle leggi attuali anche ai minori immigrati, che sono di fatto gli unici “ospiti” di tali strutture; le sezioni “nido” delle carceri femminili, do-ve bambini al di sotto dei tre anni sono incarcerati insieme alle loro mamme detenute.

È realistica questa strategia? Io credo di sì, a patto che non solo ci sia una attenzione maggiore della politica e dell’opinione pubbli-ca attorno alla “questione carcere”, ma che anche i detenuti facciano sentire la loro voce, prendendo coscienza del loro ruolo fondamen-tale nel cambiare il carcere.

La mobilitazione dei detenuti è un fattore determinante. Non di-mentichiamoci infatti che l’unico momento di effettiva rottura e di cambiamento nella storia del carcere nell’Italia repubblicana si è avu-to a seguito delle grandi rivolte e proteste dei detenuti, in particolare tra il 1969 e il 1973. Senza quei movimenti, che sono costati anche vittime tra i detenuti, non ci sarebbero state probabilmente neppure le limitate riforme del carcere del 1975 e del 1986».Gli edifici carcerari sono generalmente molto obsoleti (ex conventi ecc.). È necessario secondo lei costruirne degli altri? Quali investimenti si stan-no facendo per le strutture carcerarie?

«Questo problema riguarda a mio avviso tre livelli. In primo luo-go, l’esistenza ancora oggi di carceri del tutto inadeguate sul piano igienico e funzionale: sono appunto gli ex conventi, le fortezze ecc. C’è tuttavia un problema non meno rilevante per quanto riguarda le carceri “nuove”, ossia quelle costruite a partire dagli anni Settan-ta: sono edifici costruiti in base ad una logica tutta improntata al-la sicurezza, inumani nel loro grigiore, nei loro cortili dell’“aria” di cemento armato. Ho incontrato tanti detenuti in questi anni e nes-

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suno di loro mi ha mai detto di preferire le carceri “nuove” a quelle “vecchie”.

Il terzo livello di problema è relativo ai numeri: la capienza com-plessiva delle carceri è oggi di 46.000 detenuti, mentre i detenuti so-no ormai oltre 62.000.

Dunque, cosa si fa? La risposta più ovvia sembrerebbe essere quel-la della necessità di costruire nuove carceri, magari secondo criteri migliori che in passato.

Ma le carceri non sono abitazioni, scuole, strutture di servizi so-ciali, per i quali vale un ragionamento meccanico del tipo: ce ne so-no poche, costruiamone di nuove. La scelta di costruire un carcere non è neutrale, dipende dalle scelte politiche di fondo e comporta gravi conseguenze per la politica penitenziaria, tra l’altro vincolando ingenti risorse alle strutture penitenziarie e distraendole ad esempio dal settore delle misure alternative.

La decisione del governo Berlusconi di costruire nuove carceri è coerente con un’impostazione fondata sulla repressione e sulla nega-zione dei diritti di cittadinanza per interi gruppi sociali. Del resto, se introdurranno il reato di immigrazione clandestina [scrivo il 10 maggio, prima dell’approvazione del provvedimento, NdA], poten-zialmente dovranno costruire un carcere in ogni quartiere. È questo che vogliamo? Io credo – e non sono il solo naturalmente – che sia necessario aprire una grande discussione sulle politiche sociali, sulle politiche della “sicurezza” e sulla politica carceraria. Se si invertisse la direzione delle politiche sull’immigrazione e sulle tossicodipen-denze – nel senso di un maggiore impegno sociale e di una minore impronta repressiva – senza dubbio le presenze in carcere scendereb-bero con la stessa rapidità con cui sono aumentate nel corso dei due ultimi decenni.

Dunque, non avremmo più alcun bisogno di costruire nuove car-ceri.

Con più coraggio, anzi, il ragionamento politico potrebbe esse-re rovesciato: si potrebbe cioè affermare la volontà politica di non costruire nuove carceri e si dovrebbe allora mettere in campo quel-la strategia politica alternativa alla quale ho accennato in una prece-

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dente risposta. A quel punto, anche il problema dell’edilizia peniten-ziaria si porrebbe in un modo completamente diverso.

Ad esempio, si porrebbe la necessità di costruire case di semiliber-tà, che attualmente sono quasi tutte ospitate in sezioni dentro le car-ceri stesse; si dovrebbero sviluppare le strutture di accoglienza per le persone in misure alternative, che ad oggi sono del tutto insufficienti e per di più gestite in termini paternalistici e di controllo.

Mi rendo conto che tutto ciò sembra irrealistico rispetto alle ten-denze politiche attuali. Ma è da questa capacità di non agire solo in senso difensivo che dipende, credo, la possibilità di tornare ad af-frontare i problemi sociali in termini non repressivi e non carcerari. Inoltre, non si tratta di una prospettiva così irrealizzabile: è una stra-tegia che in gran parte ricalca il percorso attraversato dall’assistenza psichiatrica, con la chiusura degli ospedali psichiatrici e la struttura-zione di servizi di salute mentale sul territorio. Diventa possibile se c’è la volontà politica di portarla avanti».A questo punto la domanda sorge spontanea: ma che tipo di progettualità esiste secondo lei al Ministero di Grazia e Giustizia per ciò che riguarda carceri e detenzione?

«Attualmente la progettualità sembra essere quella di uno Stato di polizia: incremento della repressione rivolta agli strati sociali subal-terni; forte accento sulla retorica populista e securitaria; attenzione massima ad evitare ogni forma di repressione sui colletti bianchi e il ceto politico, parallela ad una legiferazione che amplia ogni giorno le possibilità di illeciti da parte di queste categorie (basti pensare ai condoni e al “Piano casa”).

Se davvero costruiranno altre carceri le riempiranno molto rapi-damente, ma più probabilmente si limiteranno a riempire ancor più le celle esistenti, perché di quelle persone che sono lì dentro, e di quelle che stanno fuori provenienti dagli stessi gruppi sociali, dav-vero le autorità governative non sembrano minimamente interessar-si».Parliamo infine di libertà e indulto. Cosa significa, per lei che ha visto e conosciuto parecchi detenuti, essere limitati nella libertà? Cosa signi-fica ergastolo?

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«Dovrebbe essere un detenuto o un ex detenuto a rispondere a questa domanda. E forse è un modo di rispondere anche quello di dire che non si può neppure immaginare cosa significhi vivere die-tro le sbarre se non ci si è stati. Tante volte mi è stato raccontato da detenuti ed ex detenuti, ma forse si tratta di esperienze nemmeno comunicabili.

Mi è rimasto impresso invece quello che ho visto, posso dire allo-ra delle mie sensazioni di fronte a uomini e donne privati della liber-tà, rinchiusi dietro blindati di metallo, cancelli, sbarre.

Si può fantasticare molto sul carcere, che è anche una drammati-ca immagine della libertà negata e di un rifiuto radicale della società di fare i conti con se stessa. Ma il carcere ha anche una sua materiali-tà dalla quale non si scappa: muri di cinta, sbarre, chiavi, lunghi cor-ridoi, suoni che echeggiano, radio accese qua e là, televisori ad alto volume, file di celle con tanti uomini e donne dentro. Per come la vedo io, stare in carcere è non avere la libertà neppure di muoversi fuori da certi spazi (piccoli) e da certe ore (brevi). È dover chiedere tutto ad altri, attraverso la cosiddetta “domandina”. È dover sotto-stare giorno e notte a una situazione di arbitrio che, per quanto pos-sa anche rimanere solo potenziale, ti appare sempre possibile.

Mi chiedi cosa significhi “ergastolo”. Forse vuol dire moltiplicare questa situazione che ho descritto qui sopra all’infinito, per tutto il tempo di una vita, fino al punto di non riuscire neppure più a imma-ginare cosa sia vivere senza avere davanti agli occhi sbarre, blindati, mura di cinta e agenti di Polizia penitenziaria. Io faccio parte dell’as-sociazione Liberarsi, che sostiene la lotta degli ergastolani per l’aboli-zione dell’ergastolo: una lotta di civiltà e di umanità, coraggiosissima proprio perché viene da persone che stanno dentro con la prospetti-va di un fine pena “mai”. Ecco, è di questa condizione che ci parlano gli ergastolani nelle loro tante lettere e nei loro comunicati.

Del resto, la loro mobilitazione è partita con una lettera al Presi-dente della Repubblica nella quale chiedevano (provocatoriamente) di commutare la propria pena infinita in una sentenza di morte».

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Ha condiviso l’indulto di qualche estate fa? Si è risolto qualcosa per ciò che è l’affollamento delle strutture carcerarie con questa a dir poco biz-zarra decisione?

«Ho condiviso l’indulto e, anzi, ho attivamente partecipato alla mobilitazione per l’indulto sin dal 2000, organizzando insieme ad altre persone dibattiti, banchetti informativi e presidi di solidarietà sotto alcune carceri dove i detenuti si mobilitavano in questo senso. Chiedevamo – i detenuti e noi di tante associazioni e gruppi – un indulto generalizzato accompagnato dall’amnistia, dal rovesciamen-to delle politiche su immigrazione e tossicodipendenza e da un in-tervento finanziario specifico che destinasse risorse alle carceri e alle strutture per le misure alternative. L’indulto/amnistia lo concepiva-mo come una sorta di risarcimento per le condizioni vergognose in cui i detenuti erano stati tenuti in carcere, ma anche come un punto di svolta possibile sulle politiche del carcere.

Lo voglio ripetere: secondo me l’indulto era giusto e necessario. Le modalità con cui è stato fatto rivelano invece contraddizioni che sono tutte interne al mondo politico istituzionale, il suo sostanziale disinteresse rispetto alle condizioni concrete di migliaia di detenuti e l’autoreferenzialità di scelte fatte in nome degli equilibrismi par-titici.

Non a caso, dal momento successivo all’approvazione dell’indul-to, quasi tutti i politici hanno fatto a gara per lavarsene le mani e per invocare nuovi provvedimenti per la “sicurezza”.

In ogni caso, se attualmente siamo ritornati ai numeri pre-indul-to e, anzi, li abbiamo ormai anche superati, ritengo che ciò sia da imputare non all’indulto, ma alla mancata volontà politica di fare dell’indulto un momento di riflessione e di svolta più ampio rispetto alla “questione carcere”».

Alcune lettere di detenuti dalle carceri italiane

Il sovraffollamento delle carceri ha portato ad avere, nell’estate 2009, in tutte le carceri italiane, per legge, una terza branda per ciascuna

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cella. C’è stata infatti una Circolare ministeriale che obbligava a que-sta aggiunta. Ecco alcune testimonianze in merito raccolte nella Ca-sa circondariale di Padova. In quel caso la direzione ha predisposto di giorno l’apertura continua delle celle. Un segno di umanità e di sensibilità. Le testimonianze che seguono sono tratte dal dossier So-vraffollamento: un’emergenza vera curato dalla redazione di «Ristretti Orizzonti»:Prima eravamo in due in celle da uno, e già ci sentivamo stretti con lo spazio che avevamo a disposizione. Adesso che hanno messo anche la terza branda lo spazio è diventato molto ma molto stretto, e la vita carceraria è diventata invivibile per tanti motivi, per esempio che anche per andare in bagno devi aspettare tanto, che la televisione è così vicino agli occhi che ti può far perdere la vista. È vero, sono in carcere perché ho fatto un reato, ma il giudice non mi ha condannato a diventare cieco per colpa del sovraffollamento e perché i politici predispongono leggi nuove che fanno arrestare anche degli innocenti perché non hanno una carta che si chiama permesso di soggiorno.L’apertura delle celle di giorno in me ha cambiato qualcosa, perché posso essere un po’ libero in sezione e lasciare un po’ di spazio agli altri miei com-pagni di cella per le necessità personali. Ma l’apertura delle celle non ha cambiato niente di notte. Alle 20 chiudono il cancello, alle 23 chiudono anche il blindato, e così con il caldo l’aria manca ed è troppo difficile dor-mire, in tre secondo me è impossibile vivere qui. (Pierin)

Per il sovraffollamento, sto passando un momento molto difficile, molto più sofferente di prima, perché è già difficile vivere questa vita da carcerato, figuriamoci vivere in una cella con spazi inesistenti in tre persone. Le celle aperte fanno poca differenza, solo di giorno è un po’ meglio, ma la soffe-renza di notte continua, non so per quanto tempo ancora. (Umberto)

In tre in cella si sta male perché in alcuni momenti ti manca il minimo garantito per sentirti un uomo. Le celle aperte le vivo come un piccolo rimedio, che però non va a risolvere il problema del sovraffollamento. (Nando)

Vivo questa situazione in maniera drammatica, perché non c’è spazio, non puoi muoverti in cella. Viviamo in difficoltà di ogni genere. L’apertura delle celle è stata l’unica cosa positiva che ci è stata concessa in due anni che mi trovo in carcere a Padova. È però una libertà di movimento limi-

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tata, se non sarà accompagnata da una apertura di attività ricreative, mi riferisco al campo sportivo e alla palestra. (Mauro)

Il sovraffollamento è un problema logistico, in quanto gli spazi vitali sono nettamente inferiori al fabbisogno di ciascun detenuto. Tale situazione può provocare, e ha già provocato, conseguenze negative sulla convivenza. La possibilità di uscire dalla cella durante il giorno ha alleggerito, ma non risolto i problemi del sovraffollamento. (Bruno)

Vivo male il sovraffollamento per il semplice motivo che ti manca l’aria, non c’è spazio per respirare e neppure per un po’ di intimità per ogni per-sona. L’apertura delle celle ha cambiato un po’ le cose sul piano umano, nel senso che puoi coltivare più rapporti, conoscere meglio le altre persone che vivono 24 ore su 24 con te. (Luca)

Da quando siamo in tre in cella non mi riconosco più, perché mi parte il sistema nervoso. Con le celle aperte qualcosa è cambiato, per lo meno si può prendere un po’ d’aria, perché chiusi in tre non c’è spazio per nessun movimento, e così invece c’è la possibilità di una passeggiata in corridoio e si può nel frattempo lasciare un po’ di spazio anche agli altri compagni di cella. (Ciro)

Sono distrutto, sto perdendo la vista, la televisione è troppo vicina gli occhi, è difficile che riesca a dormire, non si può muoversi in cella, bisogna aspettare sempre gli altri compagni per il bagno e tanti altri disagi ancora. Il cancello aperto è un po’ di respiro in più, ma solo di giorno, alle ore 20 torna l’incubo, in particolare adesso che le temperature sfiorano i 40 gradi. (Nicola)

Si sta male per l’aria che manca, per posizionare il tavolo per la cena o per scrivere due di noi devono stare sdraiati sul letto perché lo spazio non esiste, e il caldo fa la sua parte e la sofferenza è più forte. Le celle aperte? Per me non è cambiato quasi niente, perché in 75 in una sezione piccola siamo in troppi lo stesso, anche per fare la doccia devi aspettare sempre tanto tempo. (Aziz)

Da quando hanno messo un’altra persona in cella ho l’impressione che la mia condanna sia raddoppiata, le giornate mi sembrano lunghe il doppio, non c’è spazio neanche di pensare al mio futuro, alla mia famiglia, al mio sbaglio, non so come possa essere recuperato un detenuto in queste con-dizioni. Di giorno è cambiato un po’, perché se qualcuno esce di cella, si

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può stare un po’ da soli, ma la sofferenza riprende alle otto di sera con la chiusura del cancello e poi con la chiusura del blindato alle 23 diventa tutto più drammatico. (Besim)

Il sovraffollamento è molto duro, penso solo a una cosa, a come faccio a far passare le giornate, e non penso a nient’altro. Anche se hanno aperto le celle, per me è cambiato qualcosa, ma troppo poco, perché dovunque tu vada lo spazio è sempre stretto. Sia nella saletta dove si gioca a carte, sia in doccia, sia in corridoio, sia in cella è sempre pieno di persone. Tutto questo ti fa innervosire perché non c’è mai un po’ di intimità. (Hosni)

I detenuti, da varie carceri italiane, scrivono a Riccardo Arena3

Cara Radiocarcere, mi trovo detenuto nel carcere di San Vittore per deten-zione di marijuana. Appena arrestato mi hanno messo dentro un locale che non era una cella. Lì ho dovuto dormire su un materasso messo per terra e in un angolo, a pochi centimetri, il cesso maleodorante. Ti assicuro che è stato davvero un incubo. Poi mi hanno spostato in una cella del IV raggio, la cella numero B 14. Una stalla! Dentro eravamo in 5 detenuti. 5 detenuti dentro uno spazio non più grande di 8 mq. Era tutto sporco, per giorni abbiamo chiesto del sapone per lavare, ma è stato inutile. I muri erano talmente sudici che abbiamo dovuto tappezzarli con la carta di giornale. Anche il bagno era in pessime condizioni. Un lavandino e un cesso alla turca che quando tiravi lo scarico si inondava tutto il pavimento.Insomma è come stare in una cella di 50 anni fa. Ti dico solo che per accendere la luce dovevamo collegare i fili elettrici.Dopo un po’ di mesi passati in quella cella mi hanno spostato in un’altra. Praticamente non è cambiato nulla, stessa struttura, stessa sporcizia e stesso degrado. In tutto questo sto lottando per essere curato al cuore, ma non è una lotta facile. Infatti qui nel carcere di San Vittore le uniche medicine che hanno sono le gocce, ovvero i sonniferi. Alla prossima!

Massimo, dal carcere San Vittore di Milano

3 www.radiocarcere.com, 14 maggio 2009. Riccardo Arena è un avvocato romano che da sei anni segue il mondo carcerario e conduce «Radiocarcere», programma radiofonico in onda su Radio Radicale e sull’omonima rubrica che compare sul quotidiano «Il Rifor-mista».

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Caro Arena, ti scrivo da una cella del carcere Pagliarelli di Palermo, una cella dove siamo rinchiusi in 8 detenuti. È difficile raccontarti come riu-sciamo a sopravvivere rimanendo chiusi qui dentro per 22 ore al giorno, veramente difficile. La verità è che si perde tutto: il senso del tempo, quello della dignità, quello della pena... tutto.Considera che io ho una pena molto alta, anzi altissima, nel senso che sono condannato all’ergastolo. Il mio fine pena è mai! E questo non mi rende più facile sopportare una vita così. Inoltre da una settimana la caldaia è rotta e noi non possiamo neanche farci la doccia. Insomma è più facile dire che siamo trattati peggio delle bestie.Come se non bastasse sono gravemente malato. Ho infatti un tumore al polmone, una grave malattia che in carcere non mi viene curata, o meglio il cui avanzamento non viene rallentato.Ho chiesto la detenzione domiciliare, ma mi è stata rigettata. Ho fatto ricorso in cassazione e ora non mi rimane che aspettare.Chiedo solo di non morire in carcere! Io capisco, visto la mia condanna, che i magistrati non mi vogliono dare la detenzione a casa o in ospedale, ma che almeno mi trasferiscano nel Centro Clinico del carcere di Pisa, che è un centro attrezzato. Ora ti saluto, perché mi mancano le forze.

Gaetano, dal carcere Pagliarelli di Palermo

Cara Radiocarcere, la situazione qui a Poggioreale è arrivata davvero al limite. Pensa che io mi trovo in una cella con altri 10 detenuti. Qui dentro è un gran macello, letti a castello a 3 piani, gente che urla, la mancanza di uno spazio minimo per muoverci dentro la cella.E poi manca di tutto. Qualche giorno fa un nostro compagno ha dovuto dormire senza materasso, senza cuscino e senza lenzuola. Lo hanno fatto sdraiare sulla branda di ferro con solo una coperta: ma siamo uomini o bestie?Qui a Poggioreale siamo arrivati ad essere 2.700 detenuti, quando il car-cere ne potrebbe ospitare al massimo 1.300. La conseguenza è che a Pog-gioreale nelle celle fatte per 5 o 6 detenuti ce ne stanno 10, 11 e anche 12! Immagina tu come siamo costretti a vivere! Insomma un caos non solo per noi detenuti, ma anche per la Polizia penitenziaria che non riesce a gestirci per quanti siamo.Qui la disperazione si respira ogni secondo e c’è chi tra di noi cede e si lascia andare. Così come è successo a un nostro compagno che si è gettato nel vuoto un paio di settimane fa e l’ha fatta finita. Io spero di resistere

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anche se non mi danno le medicine per le mie patologie. Medicine che mi sono detto disposto a comprare con i miei soldi ma che mi vengono negate lo stesso. Vi sembra giusto? Vi saluto con stima e rispetto.

Antonio, dal carcere Poggioreale di Napoli

Caro Arena, la situazione qui nel carcere di Agrigento si fa sempre più insopportabile.Il sovraffollamento è sempre più alto, tanto che ora siamo costretti a vivere in tre detenuti dentro una celletta di pochissimi metri quadri. Ma ci sen-tiamo abbandonati anche sotto il profilo dell’assistenza sanitaria. Ti dico solo che dalle 13 alle 18 qui non c’è nessun medico e nessun infermiere!Roba che se qualcuno di noi sta male in quell’orario lo lasciano anche morire.Come se non bastasse abbiamo il problema dell’acqua che ci viene razio-nata, o dell’acqua che non ci viene data per nulla.Ora che ti scrivo dal rubinetto della nostra cella non esce neanche una goccia, non a caso negli ultimi tempi non ci danno la pasta da mangiare proprio perché non hanno l’acqua con cui bollirla, ma ti rendi conto?Anche la televisione in cella si rompe spesso. Già la televisione, ovvero l’unica nostra distrazione, l’unico aiuto che non ci fa impazzire dovendo restare chiusi in cella per 22 ore al giorno.Caro Arena, siamo davvero esasperati e chi ci governa dovrebbe vergo-gnarsi per il modo in cui lasciano che veniamo trattati.Con me ti salutano i miei compagni di detenzione che si chiamano: Alfio, Davide, Roberto, Salvuccio, Guido e Maurizio.

Giuseppe, dal carcere di Agrigento

Condizioni di disagio della Polizia penitenziaria

Al 30 settembre 2009 il personale di Polizia penitenziaria presente negli Istituti penitenziari era di 35 mila 287 agenti, contro il perso-nale previsto che dovrebbe essere di 41 mila 548 agenti (fonte: www.pianetacarcere.it; www.sappe.it). Le carceri ospitano oggi più di 65 mila detenuti a fronte di 42 mila posti letto e questo pesante sovraffollamento condiziona gravemente le già diffi-cili condizioni di lavoro delle donne e degli uomini della Polizia peniten-ziaria che hanno carenze di organico quantificate in più di 5 mila unità.

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Sarebbe allora grave e irresponsabile se l’intero esecutivo guidato da Silvio Berlusconi non tenesse nel debito conto questa imponente manifestazione di protesta e non provvedesse a destinare più fondi alle Forze di Polizia e nuove assunzioni per garantire davvero maggiore sicurezza al Paese4.

Chi si pronuncia così non è certo un eversivo, ma il segretario ge-nerale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) Dona-to Capece durante la manifestazione di protesta del 28 ottobre 2009 a Roma. Iniziativa, questa, abbastanza unica nel suo genere, a cui hanno preso parte 40 mila poliziotti di tutti i sindacati di categoria, oltre a quelli della Polizia penitenziaria e a quelli del Corpo Forestale dello Stato. Si dichiarano tutti preoccupati e urlano a gran voce: «Ba-sta tagli, non possiamo garantire la sicurezza ai cittadini».

Come può dunque «un agente, da solo, controllare 80-100 dete-nuti?»5, si domanda ancora Capece. È davvero il caso che Ionta [capo del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria, NdA] si dimetta. [...] Non ci pare che Ionta, in questo anno e mezzo di attività, abbia fatto granché, neanche sotto il profilo della gestione ordinaria. Non ha difeso, come avrebbe dovuto, i fondi destinati all’edilizia penitenziaria. [...] Ci poniamo degli interrogativi, sui fatti riportati dalle cronache di questi giorni, e sulla timida reazione che il Dipartimento ha opposto agli attacchi subiti dal nostro corpo. Alla luce del piano proposto da Ionta, pensiamo a due possibili prospettive, entrambe deleterie: si dele-gittima la Polizia penitenziaria per avviare la privatizzazione delle carceri? Con tanto di ronde carcerarie e polizie private. O si delegittima la Polizia penitenziaria per giustificare un nuovo, possibile indulto, che è nei desideri inconfessati e bipartisan dell’attuale classe politica? A queste strumentaliz-zazioni, per il bene della nostra categoria, intendiamo sottrarci6.

Anche questo che scrive qui sopra non è certamente un altro ever-sivo, bensì è il pensiero del segretario del sindacato Osapp (Organiz-zazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria) Leo Beneduci.

4 Sicurezza: Sappe, operatori polizia delusi da Governo Berlusconi, Agenzia Asca, 28 otto-bre 2009.

5 V. POLCHI, Carceri, quest’anno già sessanta suicidi. Pochi educatori e strutture troppo vecchie, in «La Repubblica», 2 novembre 2009.

6 a. m., Osapp: si delegittima la Penitenziaria, in «Il FattoQuotidiano», 4 novembre 2009.

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L’idea della privatizzazione delle carceri non risulta una novità: negli Stati Uniti, ad esempio, già esistono strutture carcerarie priva-te. E siccome in Italia tutto ciò che è statale via via si sta privatizzan-do poiché lo Stato non ha più un euro nelle casse [vedi ad esempio ciò che succede nella scuola, nell’università, ma anche solo la parzia-le privatizzazione degli acquedotti, NdA], si potrebbero privatizzare anche le carceri, ma in Italia è un tabù per ragioni ideologiche: farle costruire e poi gestire ai privati. So che l’idea può essere dura da digerire, perché sembra un’ab-dicazione dello Stato e la cessione ad altri soggetti del monopolio della forza. Ma state sicuri che in carceri private i detenuti sarebbero trattati meglio che nelle prigioni nostrane, che non avrebbero due metri quadrati di spazio come è stato accertato nel processo in cui la Corte Europea ci ha condannato, che nessun direttore di carcere suggerirebbe di “massacrarli sotto”, e che se arrivasse un detenuto nelle condizioni in cui è arrivato Stefano Cucchi l’avrebbero denunciato di corsa alla magistratura e all’opi-nione pubblica per non prendersene la colpa.Per un privato, i detenuti sarebbero fonte di reddito, non carne da macello come oggi sono in molte carceri italiane7.

In tutte le strutture carcerarie italiane la vita degli agenti di Poli-zia penitenziaria è diventata sempre più dura: depressi e arrabbiati fi-no allo stremo delle loro forze. Il tutto per uno stipendio certamente poco decoroso, certamente non all’altezza di questo lavoro. Sappia-mo che molti di loro vivono dei forti disagi all’interno delle carceri, arrivando addirittura fino al suicidio: «Soffrono i detenuti, ma soffre anche la Polizia penitenziaria, che nell’ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro spesso poco riconosciuto»8.

Prendiamo ad esempio il carcere di Bologna della Dozza: la vita quotidiana all’interno del carcere bolognese, che più ancora delle cifre, rende l’idea di quanto desolante sia la situazione, dal punto di vista umano (anche se qui si è ormai alla soglia della disumanità): la mancanza di organico, sostengono i sindacati, costringe gli agenti a turni estenuanti

7 A. POLITO, Giustizia: e meno male che, nel 2006, approvammo l’indulto..., in «Il Rifor-mista», 4 novembre 2009.

8 Ibidem.

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di 10 ore, contro le sei ore e mezza previste dal contratto; gli stessi agenti devono inoltre saltare spesso il turno di riposo settimanale, per le guardie del carcere ormai “la domenica” arriva di norma una sola volta ogni due settimane. Fra l’altro tutto questo sacrificio non è nemmeno ricompensato regolarmente: da due mesi, infatti, da Roma non arrivano i fondi aggiun-tivi per pagare gli straordinari9.

In questa struttura definita dai più «al collasso» si riesce a mala-pena a stare: nell’estate 2009 si è arrivati ad avere addirittura un re-parto infermeria con quattro ricoverati che devono stare in meno di 10 metri quadrati, non c’è nemmeno lo spazio per camminare. Mancano più di 200 agenti per com-pletare l’organico previsto. [...] Secondo il regolamento dovremmo essere in 480 per controllare 494 detenuti. Questa dovrebbe essere la capienza massima del carcere. Invece siamo solo 344 guardie per controllare più del doppio dei detenuti che dovrebbero esserci, sono già 1193 ed il loro numero continua a crescere...10.

Per non parlare poi degli agenti che qui sono in malattia: al 9 set-tembre risultava un numero di agenti molto alto, specchio del disa-gio e dello stress a cui questi lavoratori sono sottoposti: «65 malati contro il centinaio di quelli presenti nelle sezioni. Quasi un terzo se si aggiungono quelli della Squadra traduzioni»11. Tenendo conto che in questo carcere abbiamo «bracci con 400 detenuti con tre al mas-simo quattro agenti durante le ore diurne e due la notte. Un grosso rischio per l’incolumità dei colleghi»12, come ebbe a dire Vito Serra, segretario regionale del Sappe.

E se tutti gli agenti sfiniti da turni massacranti, qui come altrove, si ammalassero? La paralisi del sistema carcerario è dietro l’angolo.

Se prendiamo, come altro esempio, gli agenti di Polizia peniten-ziaria del carcere di Lecce scopriamo un ulteriore disagio:

9 Le guardie carcerarie non ci stanno: siamo allo stremo (come i detenuti), tratto da http://www.telesanterno.com/le-guardie-carcerarie-non-ci-stanno-siamo-allo-stremo-come-i detenuti-0817.html, 17 agosto 2009.

10 Ibidem.11 F. MURA, Bologna: doppi turni e stress, in malattia un terzo degli agenti, in «Il Bolo-

gna», 9 settembre 2009.12 Ibidem.

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L’immediata ed inaspettata chiusura della mensa obbligatoria di servizio, con la contestuale consegna del sacchetto viveri alla Polizia penitenzia-ria, l’ultima di una serie di disfunzioni anche in precedenza segnalate dal-l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che si registrerebbero ai danni del personale del corpo della Polizia penitenziaria di servizio13,

scrive il vice segretario generale nazionale Mimmo Mastrulli. Tale operazione di chiusura della mensa e l’alternativa del sac-

chetto viveri con panini a freddo è avvenuta «senza peraltro confron-tarsi con gli organismi sindacali locali e regionali ed in perfetta viola-zione da quanto stabilito nelle competenti commissioni, ex articolo 26 dpr 395/1995» aggiunge Mastrulli.

Il suo collega Osapp e segretario nazionale Canio Colangelo de-nunciava ad ottobre che all’isola della Gorgona al largo della costa livornese, gli agenti di Polizia penitenziaria sono «costretti a mangia-re scatolette e vivere forzatamente, come dei sequestrati»14 in quanto una delle tre corse giornaliere delle motovedette che collegano l’isola con Livorno è stata soppressa per mancanza di risorse.

Altamente a rischio pare essere la situazione carceraria della Sar-degna: Il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Mini-stero della Giustizia, Franco Ionta, ha formalmente ammesso che la Sarde-gna è una delle criticità del sistema15.

Un esempio? La struttura di Badu ‘e Carros, dove la problemati-cità maggiore pare viverla il settore femminile della Polizia peniten-ziaria. Lì delle 15 poliziotte in organico, due sono distaccate in altri istituti, una è in maternità e quindi usufruisce del tempo parziale, due sono impegnate nei servizi amministrativi. Sette colleghe si distribuiscono su quattro turni

13 Lecce: Osapp, chiusa la mensa per gli agenti...avanti a panini!, Agenzia Asca, 21 ottobre 2009.

14 Gorgonia: gli agenti insorgono, “costretti a mangiare scatolette”, in «La Repubblica», 26 ottobre 2009.

15 Nuoro, Polizia penitenziaria, situazione carcere è insostenibile, in «La Nuova Sarde-gna», 13 maggio 2009.

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nell’arco delle 24 ore. Vuol dire che spesso una sola è in servizio su due piani. Traete voi le conclusioni16

diceva nel maggio 2009 Raimondo Atzeni, della segreteria regionale della Cisl e delegato aziendale per il sindacato a Nuoro.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, quella cioè dell’esasperazio-ne da parte di tutto il personale di Polizia penitenziaria. Di fronte a questa insostenibile situazione in cui le guardie carcerarie si trovano, l’elemento di criticità più diffuso è la violenza che si vive, talvolta, all’interno del carcere. Lo dimostra l’alto numero di agenti aggredi-ti dai detenuti, complice la disperazione, di cui qui di seguito ne ci-tiamo alcuni.

A questo proposito il segretario generale Uil Pubblica Ammini-strazione Penitenziari, Eugenio Sarno, in una lettera aperta agli or-gani d’informazione del novembre 2009 scriveva che in 18 mesi sono più di novecento gli agenti penitenziari feriti a seguito di aggressioni subite dai detenuti. Oltre cento dei novecento hanno riportato diagnosi di oltre 40 giorni (lesioni gravi!). Alcuni porteranno per tutta la vita i segni del loro impegno e della loro dedizione.

Nelle cronache dei mesi scorsi si è letto, ad esempio, di un dete-nuto extracomunitario che, nel blocco detentivo di Augusta (Siracu-sa), ha colpito con calci e pugni per futili motivi un Assistente Capo il quale, secondo quanto scritto su di una nota del Coordinamento nazionale di Polizia penitenziaria, «ha riportato escoriazioni al volto e una contusione ad un polso e la rottura degli occhiali»17. Poco più di un mese dopo, apprendiamo che sempre qui un altro agente veniva aggredito con schiaffi da un detenuto straniero, sol perché lo ha invitato a non continuare a fare quelle che vengono considerate richieste inopportune e fuori luogo per il regolamento carcerario, e a far rientro nella propria stanza18.

16 Ibidem.17 Augusta (Sr): detenuto aggredisce agente Polizia penitenziaria, Agenzia Ansa, 8 settem-

bre 2009.18 G. GUZZARDO, Siracusa: ancora aggressioni nelle carceri ai danni degli agenti, in «Gior-

nale di Siracusa», 26 ottobre 2009.

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E ancora, le cronache dei giornali hanno registrato: a maggio 2009 a Ravenna l’aggressione di un altro Assistente Capo e di un Vice Sovrintendente sempre di Polizia penitenziaria da parte di un detenuto affetto da problemi psichiatrici, a fine settembre 2009 tre agenti picchiati da un detenuto a Pesaro, 5 agenti aggrediti a Tera-mo, avvenute sempre tra settembre e ottobre 2009, mentre già a fine agosto lo stesso carcere registrava tre agenti aggrediti con una lamet-ta da barba. Ci limitiamo a questa elencazione che, nel tempo, po-trebbe diventare sempre più numerosa. Già oggi, mentre scriviamo, tenerne il conto diventa sempre più difficile.

Tutti i sindacati di questa categoria, da molto tempo, hanno po-sto all’attenzione delle istituzioni preposte e della stampa l’incredi-bile e indecente situazione che stiamo descrivendo nelle pagine di questo libro.

Ma di risposte concrete se ne sono viste ben poche o, addirittura, un imbarazzante silenzio.È assurdo che un Corpo di Polizia debba pagare tale salatissimo dazio per assicurare ordine e disciplina all’interno degli istituti nel silenzio e nel-l’indifferenza del Provveditore Regionale e dei vertici romani. Oramai la pazienza del personale è agli sgoccioli ed in mancanza di provvedimenti certi e concreti la risposta non tarderà ad arrivare con proteste e manifesta-zioni anche eclatanti19.

era la constatazione drammatica di Domenico Maldarazzi del Coor-dinamento Regionale della Uil dell’Emilia Romagna.

Tra i tanti poliziotti penitenziari ce ne sono certamente di quelli che, per spirito di abnegazione e per dare un senso alla loro esistenza dentro al carcere, fanno bene e coscienziosamente il proprio lavoro, che cercano il dialogo, che tentano di infondere speranze ai detenu-ti e che pur di garantire la presenza di un detenuto in udienza, accettano di farsi 19 ore di traduzione su un mezzo scassato sapendo di dover rimontare in servizio senza alcun recupero fisico,

come ebbe a dire Eugenio Sarno nella lettera citata.19 Ravenna: detenuti messi in saletta ricreativa, agente aggredito, tratto da www.roma-

gnaoggi.it, 13 maggio 2009.

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Purtroppo, anche in questo apparato si possono trovare le co-siddette «mele marce», cioè uomini indegni di rappresentare lo Sta-to nell’ambiente carcerario: queste «mele» vanno estirpate, rifiutate, buttate. Soprattutto per evitare una generalizzata sfiducia verso l’in-tero Corpo di Polizia penitenziaria.

Non possiamo, a questo punto, fare a meno di citare il caso di Teramo dove al quotidiano «La Città» a fine ottobre del 2009 è stato fatto pervenire un plico contenente un cd con il colloquio che tra-scriviamo integralmente: La voce è nitida. Quanto la collera che ritma la conversazione tra due persone, una delle quali sicuramente titolato a rimproverare l’interlocutore per aver disatteso un incarico.“Abbiamo rischiato una rivolta eccezionale, una rivolta...”, si sente ripetere al primo. I tentativi del secondo di fornire una giustificazione dicendosi ignaro dell’accaduto. E ancora, il primo continua: “Ma perché, scusa, non lo sai che ha menato al detenuto in sezione?”.E l’altro: “Io non c’ero, non so nulla”. Il tono di voce cresce: “Ma se lo sanno tutti?”.Pochissimi secondi e poi: “In sezione un detenuto non si massacra, si mas-sacra sotto”.Lapidario. Sotto. Non in sezione. Un detenuto non si massacra. Anzi sì, si può massacrare ma non in pubblico. “Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto...”, conclude lasciando aperte decine di interroga-tivi20.

Si venne a sapere quasi subito che la voce che diceva «in sezione un detenuto non si massacra, si massacra di sotto» era del Coman-dante di reparto degli agenti di Polizia penitenziaria della Casa cir-condariale, Giovanni Luzi, e che il dialogo è stato registrato nel suo ufficio. Subito lo stesso Comandante, che all’epoca dei fatti era pros-simo alla pensione, commentò la questione dicendo: «Forse l’ho det-to in un momento di rabbia»21. Scattò l’inchiesta della magistratura e del Ministero della Giustizia. Lo stesso Luzi ammise di aver detto

20 P. PELUSO, Esclusivo: «Il detenuto si massacra di sotto...», in «La Città», 29 ottobre 2009.

21 In www.lacittaquotidiano.it, 2 novembre 2009.

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quella frase anche di fronte alla parlamentare radicale Rita Bernardi-ni e agli ispettori inviati dal Ministro della Giustizia.

In via cautelativa il Ministro della Giustizia in carica Angelino Al-fano sospese dal servizio il Comandante di reparto Luzi. E lo stesso segretario del Sappe, Donato Capece, ebbe a dire: È un provvedimento giusto in attesa di fare chiarezza, c’è un’indagine penale ma anche amministrativa, un procedimento disciplinare, vedremo cosa succede. Come sindacato diciamo che precauzionalmente l’ammini-strazione ha fatto bene. È un uomo fuori dal tempo, le sue parole in libertà censurabilissime. Chiediamo che si faccia piena luce sui fatti, se è respon-sabile, ne deve pagare le conseguenze. Questo fatto ci ha spiazzati, non so cosa gli sia scattato nella mente per dire quelle parole, da cui prendiamo le distanze, non le riconosciamo come le parole dette da un agente e soprat-tutto da un commissario della penitenziaria.

Ma tutti però sapevano che il carcere di Teramo, come del resto tante altre in Italia, è una sorta di polveriera pronta ad esplodere per un nonnulla!

Intanto il segretario generale del Sappe, Donato Capece, nel di-cembre 2009 , per commentare i fatti di cronaca ed i dati peniten-ziari nazionali, ha scritto la seguente lettera:Non è accettabile, come emerge da molte cronache giornalistiche odierne, una rappresentazione del sistema penitenziario italiano come luogo al di fuori dalle regole in cui accade di tutto e di più, con aguzzini e torturatori al posto del personale di Polizia penitenziaria. Non è accettabile perché è una rappresentazione falsa, non è vera: non è infatti in alcun modo rispondente alla realtà ed anzi mortifica la straordinaria professionalità delle donne e degli uomini del Corpo che in carcere lavorano ogni giorno con umanità, professionalità, senso del dovere ed abnegazione. Oggi celebriamo l’ennesimo record di capienza raggiunto: 65.225 persone detenute, il 51% in più di quelle previste, controllate da poco più di 35 mila agenti, divisi in turni di lavoro massacranti, a contatto di malattie che si ritenevano del tutto marginali in Italia, ma che in carcere sono all’or-dine del giorno, come tubercolosi, epatiti, Aids, etc. La magistratura faccia dunque piena luce ed accerti le responsabilità – a qualunque livello ed a qualsiasi categoria professionale dovessero appartenere – di coloro che eventualmente hanno sbagliato (responsabilità che comunque non pos-

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sono che essere personali). Il nostro auspicio è che lo faccia al più presto: non è infatti accettabile questo continuo gioco al massacro all’onorabi-lità della Polizia penitenziaria e dei suoi appartenenti, che lavorano ogni giorno dell’anno con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive italiane. Non ci si può lasciare andare a facili e inaccettabili pregiudizi sulla Polizia penitenziaria e poi non indignarsi su di una situazione di sovraffollamento e contestuale carenza d’organico che denunciamo da mesi e che avevamo previsto più di tre anni fa, subito dopo il provvedimento d’indulto. Cosa hanno ad esempio fatto di concreto per intervenire sul sistema carcere tutti quei parlamentari che si sono esibiti in passerella nelle giornate dello scorso Ferragosto quando si sono recati in visita nelle carceri?Tutti, nessuno escluso. Anche quelli che ieri sostenevano il Governo di centro-sinistra, che però nulla fece per modificare il sistema penitenzia-rio ed anzi sponsorizzarono l’indulto che fece uscire 30 mila detenuti, e quelli che oggi sostengono l’attuale maggioranza di centro-destra, di fatto inerte sulle riforme penitenziarie. Noi, come primo e più rappresentativo sindacato della Polizia penitenziaria, dopo quelle visite dello scorso Ferra-gosto che definimmo storiche, avevamo chiesto 100 giorni di riflessioni, di incontri, di dibattiti tra tutti i componenti dell’arco parlamentare, per porre rimedio all’imminente tracollo del sistema penitenziario. Invito che abbiamo rinnovato più volte, dimostrando con i numeri come il ventilato Piano per l’edilizia penitenziaria fino ad ora solo sbandierato non è assolu-tamente adeguato a fronteggiare l’emergenza che noi e solo noi Poliziotti Penitenziari stiamo arginando 24 ore su 24, ogni giorno dell’anno. Sono mesi che ripetiamo che l’unica soluzione perseguibile, necessaria, indispen-sabile per evitare il collasso del sistema penitenziario, è quella di ricorrere alle misure alternative per le persone che ora scontano in carcere delle pene per reati di lieve pericolo sociale.Oggi ci sono più di diecimila persone che hanno meno di un anno ancora da scontare. Tra queste, la stragrande maggioranza sono in carcere per reati di lievissima entità, che potrebbero usufruire degli arresti domici-liari a patto di utilizzare adeguati strumenti tecnologici come i braccialetti elettronici che fino ad ora, come denunciato dal Sappe, sono costati allo Stato più di 100 milioni di euro per essere tenuti in una cassaforte. Cosa si aspetta allora ad intervenire?22.

22 Giustizia: Capece (Sappe); non siamo né aguzzini né torturatori, in «Redattore Sociale», 4 dicembre 2009.

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Anche l’Osapp, per bocca del suo segretario generale Leo Bene-duci, ha affidato ad una lettera una replica ai fatti drammatici di cro-naca:I dati sulle presenze carcerarie che ci stanno pervenendo non confor-tano affatto, confermano infatti la ripresa di un trend carcerario negativo senza precedenti nella storia del nostro Paese. Se fossimo in un qualsiasi altro Stato d’Europa a questo punto il Ministro della Giustizia e lo stesso capo del Dap dovrebbero dimettersi e lasciare il posto ad altre figure più idonee. Di fatto i dati illustrano una situazione peggiorativa che si attesterà alla fine dell’anno a 68 mila detenuti presenti con solo 41 mila posti disponibili: in assenza di qualsiasi progetto concreto poi è quanto di peggio potevamo aspettarci come poliziotti penitenziari e come servitori dello Stato.Un bel regalo di Natale a tutto il Corpo di Polizia penitenziaria schierato per l’ordine e per la sicurezza delle carceri. Un bel dono natalizio che il Guardasigilli Alfano e il capo dell’Amministrazione Ionta hanno pensato bene di fare a quegli uomini e a quelle donne che invece dovrebbero ammi-nistrare e tutelare. Campania, Emilia Romagna, Friuli, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Veneto e perfino il Trentino sono le regioni dove il sold out carcerario è stato dichiarato da tempo: una situazione omogenea oramai che presto sarà completata anche dalle restanti regioni con il Lazio in testa23.

Il carcere minorile

Era da circa sei anni che un minorenne rinchiuso in un carcere minorile non si suicidava. Successe nel gennaio 2003 nell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo (Roma). Invece nel 2009 si ritorna a parlare di suicidio, prima a Bari a luglio e poi a Firenze a novembre.

Sono casi rari, questi. Così come sono rarissimi, stando alle cro-nache dei giornali, episodi di evasioni, violenze ed autolesionismo.

23 Giustizia: Osapp; Alfano e Ionta lascino posti a persone idonee, in «Il Velino», 4 dicem-bre 2009.

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Pensiamo che a Milano in 30 anni c’è stato un solo caso di un ragaz-zo che si è tolto la vita.Un solo suicidio in un anno, pari allo 0,2 per mille dei detenuti mino-renni, a fronte di 61 adulti che si sono tolti la vita, e cioè circa lo 0,009 per mille. Fortunatamente parliamo di casi, per quanto tragici, statisticamente trascurabili24.

Il capo del dipartimento della giustizia minorile, Bruno Brattoli, è convinto comunque che i suicidi avvengano per la carenza di or-ganico: egli dice chenon si può e non si deve morire in carcere. Ma siccome si tratta di mega-strutture è possibile agire con tempestività se i turni non sono troppo onerosi, troppo gravosi. Le evidenze di disagio vanno opportunamente seguite25.

La giustizia minorile, tutto sommato, in Italia pare funzionare bene. Ed ha ottenuto un riconoscimento importante nel 2008 dal-l’Onu. Questo vuol dire che il nostro sistema carcerario e della giu-stizia minorile viene anche «studiato e copiato nei Paesi più evolu-ti»26. Ciò è dovuto anche al fatto che ci sono corsi di formazione organizzati dal Ministero della Giustizia che funzionano e a cui il personale addetto alle strutture di detenzione per minori partecipa seriamente e con molta professionalità.

Questo personale in tutto consta di 850 agenti di Polizia peniten-ziaria, anche se la pianta organica ne prevede mille, 422 assistenti so-ciali, 349 educatori e 63 operatori di vigilanza. A fronte di circa 64.595 adulti (al 30 settembre 2009) pigiati nelle 217 carceri, nei 18 istituti penali per i minorenni ci sono in tutto una media di 489 detenuti, di cui solo 147 condannati a pene definitive. A prima vista sembra un divario enorme, ma non è così perché ai minori dietro le sbarre vanno aggiunti i 17.814 seguiti dagli Uffici di servizio sociale, tra cui 2.188

24 G. GUASTELLA, Giustizia: evasioni, violenza e malessere: è il carcere dei minori, in «Cor-riere della Sera», 6 novembre 2009.

25 S. BASSO, Giustizia: così si muore di sotto organico in un carcere minorile, in «Left», 4 dicembre 2009.

26 Ibidem.

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ragazzi ospitati in comunità (struttura chiusa e protetta), più tutti quelli più o meno assistiti dai servizi locali tra mille difficoltà di bilancio27.

Ma le categorie dei minori detenuti in Italia è divisa, secondo il rapporto 2009 di Antigone [associazione che si occupa di carcere, NdA], in tre categorie: ragazzi stranieri, i cosiddetti «minori noma-di» e i minori provenienti da aree disagiate del Meridione d’Italia. Lo stesso rapporto dice che per gli immigrati “la detenzione rimane ancora lo strumento privilegiato di controllo e di sanzione”, mentre gli italiani riescono a evitare la prigione grazie a prescrizioni, permanenza in casa o collocamento in comunità28.

Molte volte però i ragazzi immigrati che stanno nelle carceri mi-norili fuori non hanno né una casa né tantomeno una famiglia e quindi le misure alternative non sono applicabili.

Inoltre, parrebbe che i ragazzini che compiono reati vengano da una condizione economica e culturale medio-bassa, anche se a volte la delinquenza prescinde dal censo di appartenenza: come dice il ca-po dipartimento della giustizia minorile, Bruno Brattoli,è una forma di insoddisfazione che porta a delinquere non per necessità o nell’impeto ma, come nel caso del bullismo e delle piccole gang organiz-zate, per mancanza di valori fondamentali. Come i tre ragazzi del litorale romano che hanno dato fuoco a un clochard indiano29.

Da una indagine tenutasi nel carcere minorile di Milano, il Bec-caria, è risultato che nel 79,4% dei casi, i ragazzi si fanno male da soli se sono in gruppo e quasi sempre al sabato e alla domenica, quando cioè vogliono manifestare ai compagni il loro disagio. Solo nel 6,7% dei casi si feriscono durante le attività scolastiche e formative, quando l’attenzione degli operatori è elevata30.

27 Ibidem.28 Ibidem.29 Ibidem.30 Ibidem.

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Ciò che è rilevante è il fatto che sono sempre presenti gli opera-tori e gli psicologi ad aiutare e ad accompagnare i ragazzi durante la reclusione.

Ma, nonostante lo sforzo positivo degli operatori, anche il numero degli educatori è insufficiente. Basta che uno si ammali perché i ragazzi si sentano abbandonati, compresi quelli che sembrano forti, che hanno commesso i reati più gravi, ma che in fondo hanno tutti una bassissima stima di se stessi31,

sostiene don Gino Rigoldi, dal 1972 cappellano ed educatore del Beccaria a Milano.

È comunque sempre più necessario pensare a luoghi alternativi al carcere per rieducare i minori: ecco che molti parlano di più comu-nità e più progetti educativi sia dentro che fuori ai luoghi di deten-zione. Anche perché a Milano il trattamento esterno è servito e mol-to. Ed i dati di questa città parlano chiaro: [...] “su 1.634 ragazzi in carico al servizio minori del Comune dal 1992 al 2007, l’indice di chi è tornato a delinquere è sceso dal 21,54% al 3,24%”. Ma non basta. “Chiedono spesso di essere aiutati, ma quando escono e tornano a casa trovano un deserto di opportunità e un fiorire di occasioni di reato”, aggiunge don Rigoldi, che rivela: “Siamo al punto di chiedere ai giudici di non mandare a casa i ragazzi per evitare che tornino nei quartieri patologici”32.

Il capo del dipartimento della giustizia minorile ammette che fi-no ad oggi questo settore della giustizia minorile ha funzionato be-ne, anche se occorre investire tanto ancora affinché la pena possa servire per rieducare i ragazzi che sbagliano. Ed è lo stesso Brattoli che dice:Ci vuole un’attenzione assidua. A differenza degli adulti, i detenuti ragaz-zini non stanno quasi mai in cella: si spostano dai laboratori di computer alle aule per la scolarizzazione di base, dai campi di pallone ai luoghi della formazione professionale. Basta una distrazione e qualcuno può tentare la fuga. In primavera 2009 le carceri minorili di Bologna, Firenze e Potenza

31 Ibidem.32 Ibidem.

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hanno registrato sette evasioni, il 26 ottobre quattro giovani detenuti sono scappati dall’Istituto Airola (Benevento), e altri tre hanno tentato di fug-gire dal Beccaria di Milano33.

Per ciò che riguarda invece la possibilità dell’affollamento degli istituti di pena per minori, si cerca in qualsiasi modo di prevenirlo e di arginarlo, ad esempio attraverso i trasferimenti, che hanno una certa ricaduta negativa sui rapporti con la famiglia. Su 18 istituti penali minorili (Ipm), quelli in funzione sono 16: quello de L’Aquila è stato evacuato dopo il terremoto mentre quello di Lecce è stato chiuso per ristrutturazione quando alcuni agenti penitenziari sono stati denunciati per abusi sui ragazzi. Presto sarà aperto un nuovo Ipm a Pontremoli, “di grande utilità per il Nord-Ovest, perché alleggerirà il sovraffollamento negli istituti di Milano, Torino e Bologna”34.

Intervista al Direttore del carcere minorile «Ferrante Aporti» di Torino

Dall’aprile 2008 Gabriella Picco è Direttore pro tempore dell’Istitu-to Penale Minorile Ferrante Aporti – Torino.

Laureata in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Torino, la dottoressa Picco ha iniziato molto tempo prima la sua carriera professionale in questa struttura: era infatti il 1° dicembre del 1994 quando venne assunta in qualità di educatore. Dal 2003 ha poi as-sunto funzioni di Responsabile Area Pedagogica dell’Istituto e Vica-rio della Direzione; da circa due anni a questa parte ricopre, appun-to, il ruolo di Direttore pro tempore.

Ed è in questa veste che l’abbiamo intervistata.

Direttore, quali sono le problematiche e le difficoltà che incontra tutti i giorni nella struttura che dirige? Come si vive in un carcere minorile? Ci sono diversità con i problemi di un carcere per adulti?

33 Ibidem.34 Ibidem.

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«Non abbiamo fortunatamente gli stessi problemi di una strut-tura carceraria per adulti. Siamo una realtà piccola con spazi ridotti. In questo momento, poi, stanno ristrutturando gran parte dell’isti-tuto e, pertanto abbiamo dovuto ridurre ulteriormente gli spazi a nostra disposizione: molti di questi sono dedicati per le svariate at-tività che costituiscono il pacchetto formativo a disposizione dei/lle giovani qui detenuti/e. Abbiamo infatti un dovere in più sia come adulti sia perché previsto dalla normativa, che impone di fornire un trattamento rieducativo a tutti, dico tutti i ragazzi che entrano, non soltanto verso quelli definitivi in sconto pena.

Nei loro confronti all’atto dell’ingresso viene attivata una équipe di osservazione e trattamento, composta da educatori, assistenti so-ciali, psicologi, mediatori culturali ecc. e su ciascun ospite vengono studiati percorsi trattamentali interni, finalizzati possibilmente a tra-dursi in progetti da svilupparsi in esterno.

Nella nostra struttura le problematiche sono specifiche, legate molto alla gestione dell’utenza. I ragazzi/e che entrano non sono tutti uguali, ognuno di loro ha una situazione a sé; esperienze di vita legate al contesto d’appartenenza e/o socio-culturale, problematiche da ricercarsi nell’ambito familiare e che magari richiedono interventi più specialistici. Possiamo incontrare ragazzi con disagi di tipo psi-cologico-psichiatrico, con problemi legati all’uso di sostanze stupe-facenti, molto disagio e molta disgregazione dal punto di vista affet-tivo. Su ognuno di essi vengono attivati percorsi individualizzati in risposta alle specificità dei problemi evidenziati».Quanti sono i ragazzi che può contenere la struttura e quanti effettiva-mente ne contiene?«La nostra capienza, in questo particolare momento con i lavori, è di 25 ragazzi e 16 ragazze. Oggi [al 31 dicembre 2009 momento del-l’intervista, NdA] ci sono 20 ragazzi e 11 ragazze, con due bambini, uno di 5 mesi ed uno di 1 anno e mezzo. L’età dei ragazzi va dai 16 ai 20 anni. La maggior parte di loro sono stranieri, ci sono in que-sto momento solo 2 italiani, gli altri ragazzi invece sono di varie na-zionalità – marocchini, albanesi, rumeni, sudamericani –. Ormai da circa 20 anni a questa parte, l’utenza di questo istituto è prettamen-te straniera».

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Per quali motivi questi giovani si trovano lì dentro? «Dal punto di vista penale non hanno dei reati gravissimi, c’è solo

un ragazzo in questo momento che ha commesso un reato partico-larmente grave. Generalmente questi ragazzi sono qui per detenzio-ne e spaccio di sostanze stupefacenti, oppure perché hanno commes-so furti e rapine. Quindi sono imputati di reati contro il patrimonio e/o annessi agli stupefacenti. I reati più cruenti fortunatamente sono una bassa percentuale».È facile la rieducazione per questi ragazzi? Una volta usciti dal «Fer-rante Aporti» riescono ad inserirsi nella società? Oppure tornano a de-linquere?

«Non è facile prevedere ed attivare percorsi di reinserimento che abbiano un esito positivo perché sono, appunto, principalmente ra-gazzi stranieri. Molti di loro non ritornano in istituto perché magari rientrano al loro Paese d’origine o si spostano in altre città d’Italia: magari poi vengono arrestati nuovamente e portati nelle carceri di quel territorio. Infatti come istituto non abbiamo una recidiva mol-to alta, ma la spiegazione a ciò è da ricercarsi soprattutto in queste motivazioni e non perché i giovani si sono reinseriti positivamente nella società. Non è facile infatti individuare per loro delle alterna-tive, sia perché ci vogliono i tempi per cambiare o per essere anche solo consapevoli di voler cambiare, sia perché non è facile creare in-torno a loro una rete di opportunità che gli consenta di sopravvivere nella nostra società.

Inoltre, essendo ragazzi stranieri, molti tra loro sono senza docu-menti, senza permesso di soggiorno e quindi con la normativa attua-le diventa più difficile regolarizzarli. Certo, anche per i ragazzi italia-ni non è comunque facile».Per il reinserimento lavorativo vi appoggiate ad una serie di gruppi di volontariato, di cooperative sociali?

«Sì, sì. All’interno viene effettuata della formazione professiona-le, oltre alla scuola elementare e all’attivazione di corsi di alfabetiz-zazione. Poi, là dove è possibile, siamo collegati con alcune associa-zioni ed agenzie che consentono e predispongono l’inserimento dei ragazzi in borsa lavoro, con l’eventuale possibilità di un’assunzione

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se dimostrano particolari capacità ed interessi. In alcuni casi siamo riusciti a far fare loro tutto il percorso formativo e lo stage, arrivan-do anche all’assunzione del ragazzo. Sono però purtroppo casi mol-to rari, ma anche nostre piccole soddisfazioni. Nel 2009, per esem-pio, abbiamo attivato per 4 ragazzi dei percorsi esterni, cioè dall’in-terno della nostra struttura uscivano quotidianamente per lavorare o studiare fuori. Abbiamo trovato per loro anche delle alternative al momento della loro uscita definitiva dal carcere. Detti percorsi sono andati tutti bene fino al momento in cui hanno finito di scontare la pena. Poi, due di questi purtroppo non sono proseguiti e, ad oggi, non abbiamo loro notizie: non è facile infatti costruirgli attorno una rete di supporto e sostegno affinché riescano a mantenere quello che, con fatica, sono riusciti a conquistare».Secondo lei è più facile gestire questi ragazzi qui oppure una struttura di adulti? Pensa sia più semplice inserire un ragazzino di 16-18 anni an-ziché un adulto di 50 anni che esce dal carcere?

«È difficile fare un paragone anche perché, non avendo mai lavo-rato in un carcere per adulti, non ho elementi oggettivi per rispon-dere, credo però che quando si parla di cambiamento, qui al mino-rile risulti più difficile attuarlo in quanto i ragazzi sono in quella fase in cui ce l’hanno con tutti, hanno una loro visione, non sanno loro stessi quello che vogliono....

Un adulto è certamente più consapevole sia dei propri errori che delle proprie opportunità e possibilità. Sicuramente è più difficile in-cidere sui nostri ragazzi, credo però che sia un dovere farlo: tutta la fascia dei giovani-adulti, cioè fino verso ai 25-26 anni, è quella che deve essere maggiormente interessata al recupero, proprio perché ne-cessita di una attenzione e di interventi più specifici e mirati».Le risulta che il Ministero della Giustizia abbia avuto sempre un occhio di riguardo, più attenzione verso gli istituti di pena minorili? Che ci sia personale più preparato e sensibile, più attento ai ragazzini?

«Con tutta onestà conosco poco la struttura carceraria e l’orga-nizzazione del mondo degli adulti, sono sicura che anche lì ci sia una buona preparazione del personale.

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Come giustizia minorile c’è un’attenzione più specifica in questo ambito, direi soprattutto più attenta riguardo alle problematiche le-gate al trattamento. È una formazione che coinvolge un po’ tutte le figure professionali: ad esempio, nel momento in cui gli stessi agen-ti di Polizia penitenziaria arrivano al carcere minorile, viene fatta loro una formazione specifica, che prosegue negli anni con moduli di specializzazione organizzati dal Dipartimento Giustizia Minorile. La formazione prosegue in loco anche attraverso la quotidiana espe-rienza a contatto con l’utenza e con il supporto degli operatori più anziani, formazione che è molto legata agli aspetti rieducativi e trat-tamentali oltre a quello che gli agenti hanno imparato nel corso di formazione iniziale in cui sono stati preparati allo specifico del loro ruolo. Infatti, anche i poliziotti penitenziari che lavorano al minorile fanno parte dell’équipe di osservazione e trattamento ed instaurano relazioni molto significative con i ragazzi anche perché trascorrono con loro la maggior parte del tempo e, soprattutto, sono presenti nei momenti più delicati e critici della vita carceraria (la sera, i giorni fe-stivi, le festività...). Proprio per questi motivi il loro punto di vista nell’ambito dell’équipe è fondamentale, sia rispetto alla puntuale co-noscenza del ragazzo per come si presenta all’interno del carcere, sia per l’attivazione di proposte progettuali. Questo credo sia il “valo-re aggiunto” proprio del ruolo ricoperto dal Poliziotto Penitenziario che opera nel minorile e che va oltre lo svolgere un mestiere, anche perché consente di conseguire delle piccole soddisfazioni, dei picco-li risultati».Parliamo dei drammatici casi di suicidi, di cui ultimamente si è assi-stito nelle carceri italiane. Nel passato anche nelle carceri minorili ce ne sono stati. Quale può essere la genesi che conduce a queste drammatiche situazioni?

«È un argomento molto delicato, ed è difficile dare una spiegazio-ne logica e globale. Per esempio ad inizio dell’anno 2008 abbiamo avuto dei ragazzi che tentavano gesti anticonservativi. Non sapeva-mo però quale era il limite tra la reale voglia di togliersi la vita, il de-siderio di destare attenzione o il semplice farlo per gioco, per passare il tempo, quasi come fosse una sfida tra loro – il “vediamo fino a che

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punto riesco ad arrivare” –. Probabilmente in quell’occasione voleva-no forse richiamare semplicemente l’attenzione degli operatori.

Sono però convinta che a quest’età, per quanto problematici, questi ragazzi abbiano tanta voglia di vivere! Quindi, al di là anche di situazioni molto gravi dal punto di vista delle loro storie e delle loro problematiche, penso che dentro abbiano molte risorse e che le sappiano tirare fuori al momento opportuno.

Là dove capitano invece i suicidi, forse ci sono dei livelli di dispe-razione molto alti ma anche di scarsa consapevolezza di questa dispe-razione. Anche perché ci vuole molto coraggio per togliersi la vita e se uno diventa poco a poco consapevole di quello che ha intenzione di fare, credo che non lo farà mai!

È fondamentale prestare sempre molta attenzione in generale, or-ganizzare un reale proficuo lavoro d’équipe che possa “vedere” subito la sussistenza di problematiche ed insieme creare una rete di colla-borazione tesa ad intervenire in modo univoco, puntuale e costante sui ragazzi che presentano particolari criticità: bisogna che percepi-scano che c’è qualcuno che pensa a loro e che li aiuta e sostiene nel superare le difficoltà!».Mi accennava alla noia, anche se hanno tante attività da svolgere. Molti dicono che, una volta entrati nel carcere minorile, non se ne esce più, che la spirale si allarga senza fine, passando poi facilmente al carcere degli adulti. C’è chi dice che, in sostanza, diventi una specie di “università del crimine” per il ragazzino. Secondo lei c’è del vero in tutto ciò?

«Come già detto, ogni storia è a sé. Certo, i ragazzi che proven-gono da contesti criminali, caratterizzati dalla violenza, magari già all’interno della famiglia stessa, nel quartiere ecc. è probabile che ab-biano maggiori possibilità di entrare nel circuito delinquenziale e di non uscirne più, anche perché, appunto, non supportati adeguata-mente ed attraverso modelli di riferimento autorevoli e legali.

Però non parlerei di criminali. Non credo che qui dentro all’isti-tuto ci siano dei ragazzi criminali. Sicuramente hanno commesso degli errori per tutta una serie di motivazioni le più svariate, però penso che ciascuno di loro abbia anche la possibilità di trovare delle opportunità e soprattutto le condizioni per rivedere i loro comporta-

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menti e strutturare percorsi di vita differenti ed improntati alla lega-lità. Certo, bisogna studiare e lavorarci molto, con loro e con la loro famiglia di provenienza.

Ciò che ci limita molto nel nostro lavoro sono i tempi brevi in cui dobbiamo operare, poiché la permanenza della maggior parte dei minori in istituto è di pochi mesi. Come dicevo prima, i tempi del cambiamento, i tempi per realizzare dei percorsi sono lunghi e noi non li abbiamo questi tempi, perché la media di permanenza qui è di due mesi e poco più. I tempi del cambiamento non coincidono sempre con i tempi della permanenza in carcere».Ma da voi le pene durano anni o mesi?

«La media di permanenza è medio-breve. Soprattutto abbiamo ragazzi in attesa di giudizio, in custodia cautelare, ma vi sono anche situazioni di minori in sconto pena per un anno, e più. I tempi della carcerazione dipendono ovviamente dal reato commesso, dalle reci-dive ecc.».Alla luce della sua esperienza, ritiene che il carcere minorile, così come è stato pensato e strutturato, sia lo strumento giusto per redimere e rie-ducare gli adolescenti che sbagliano? Oppure lei vedrebbe qualche altra possibilità alternativa (ad esempio casa-famiglia ecc.)?

«Non so se quella attuale sia la soluzione migliore. So solo che in questo momento non c’è una risposta alternativa. Probabilmente ci sarà qualche cosa di meglio.

Si possono ipotizzare soluzioni in risposta alle specifiche della si-tuazione individuale del ragazzo, cercando di comprendere i moti-vi per i quali è arrivato a compiere un qualsiasi reato, a fare quello che ha fatto. Ecco allora che mettere in evidenza le mancanze affetti-ve, eventuali problematiche di disgregazione familiare ecc. consente eventualmente di ipotizzare percorsi da svilupparsi anche nell’ambi-to di una casa-famiglia, in un contesto protetto, con delle persone attente... anche perché questi ragazzi hanno soprattutto bisogno di una guida, di punti di riferimento saldi e forti. Messi in un contesto di questo tipo, effettivamente credo possa essere una soluzione mi-gliore rispetto al carcere; ma non in tutte le situazioni, in alcuni casi, pochissimi fortunatamente, ritengo non vi siano alternative.

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Di fatto la normativa già prevede che il carcere sia una soluzione residuale. Se lei pensa che i ragazzi che delinquono arrivano al carce-re minorile in percentuale piccolissima, rispetto al numero dei reati commessi proprio perché la normativa prevede l’applicazione di tut-te altre misure... La maggior parte dei minorenni che commettono reati non entrano in carcere!».Qual è stata la fatica più grossa, da direttore di questa struttura, nei quindici anni della sua esperienza?

«Sono due gli ordini di problemi. Uno riguarda la gestione dei ragazzi e quindi la risposta a quelli che sono i dettami della norma e finalizzati soprattutto a tentare il loro recupero che non è così facile: accoglierli, contestualizzarli, conoscerli e provare a trovare delle al-ternative è la grossa sfida che ognuno di noi adulti ha nei confronti dei ragazzi con cui entriamo in relazione durante la loro permanen-za in istituto.

L’altro problema riguarda la gestione della struttura in sé: gestio-ne del personale, sempre sotto organico e mai adeguato nei numeri, a rispondere alle reali esigenze ed ai bisogni dei minori che ci vengo-no affidati (specie ad esempio personale educativo che negli ultimi anni non è più stato assunto); gestione della struttura utilizzando le risorse economiche che scarseggiano sempre più, nella salvaguardia comunque dei diritti dei ragazzi che ci vengono affidati».

Testimonianza di Juri Nervo Fondazione AGAPE di Torino35

La mia esperienza dentro il carcere minorile di Torino è iniziata nel gennaio 2000 quando la cooperativa per la quale lavoravo aveva vin-to, con altre, la gara d’appalto per le attività sportive del «Ferrante Aporti».

In quel contesto di lì a poco avrei dovuto diventare un operatore sportivo. E ciò mi innervosiva un po’.

35 Cfr. Scheda della struttura in Appendice.

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Ho pensato e ripensato a come sarebbe stato il mio primo giorno lì dentro, a come mi sarei dovuto comportare con questi ragazzi de-tenuti, al mio primo approccio con loro ecc. Mille domande e dubbi che mi assillavano, pochissime le risposte.

Finalmente quel pomeriggio arrivò. E come ogni pomeriggio l’at-tività all’entrata del carcere minorile si sviluppava sempre allo stesso modo: dovevo essere perquisito, consegnare i documenti, aspettare la conferma del mio permesso d’entrata, e vedevo molte facce nuo-ve...

Ma perché trovarmi lì quel pomeriggio? Io che avevo sempre la-vorato con i bambini della scuola elementare? Mi stavo riprometten-do di non mettere più piede all’interno di quella struttura... Poco dopo però capii.

Una volta superato il primo impatto mi ritrovo in uno spoglia-toio completamente pieno di polvere, senza doccia, ricavato all’in-terno dell’ex vano caldaie. Con una panchina in metallo e due arma-dietti senza ripiani.

Mi cambio e, mentre mi allaccio le scarpe, sento un boato riem-pire la palestra... sono loro, i ragazzi! Devo recuperare tutto il mio coraggio per riuscire ad aprire quella porta ed andare in campo con un nuovo pallone sotto braccio.

Pallone, scarpette, ma mancavano le porte! Al loro posto solo due buchi per parte dove, all’interno, venivano messe delle ciabatte da mare che aiutavano quanto meno a capire dove avrebbero dovuto essere i pali delle porte.

Ma quel pomeriggio c’era il sole ed era un vero peccato stare chiusi ancora una volta in una palestra di cemento! Decidemmo così di andare fuori, all’aperto, nel campo di calcio ma sempre all’inter-no dell’Istituto: almeno quello aveva due porte e l’erba era stata da poco tagliata.

Organizzammo due squadre ma io ed il mio collega ci rendemmo subito conto che i ragazzi non avevano le scarpe da calcio con i tac-chetti: giocare in quelle condizioni sarebbe stato parecchio proble-matico e rischioso per i loro piedi!

Decidemmo allora di toglierci anche noi le scarpe e giocare scalzi con loro, ad «armi pari».

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Finalmente dopo tutti i «gusci» che avvolgono il carcere ero su un prato con i ragazzi che, nella mia testa, non erano più ragazzi-dete-nuti o «loro» ma solamente giovani come tanti altri, con una gran voglia di correre e divertirsi.

Ed io ero lì che ad ogni parola marocchina chiedevo gentilmente di tradurmela. E così passammo due ore di attività sportiva all’aria aperta con annessa una «pausa acqua» alla fontana!

Quel ricordo del primo giorno al «Ferrante Aporti» ancora mi ac-compagna: ho sempre in mente la domanda di un ragazzo che mi chiese quante volte sarei andato a fare attività sportiva con loro pri-ma di non ritornare più!

Egli mi spiegò che molta gente passava di lì, ma che poca si fer-mava con continuità: la sua richiesta era una presenza educativa più forte, insomma mi chiedeva di «esserci» e niente più!

Uscii quel giorno emotivamente molto carico, con una gran vo-glia di ritornare il giorno dopo e di starci ancora assieme a quei ra-gazzi.

Da quel giorno molte cose positive sono state fatte. Ed un rin-graziamento va fatto sia al gruppo di lavoro che è nato dopo quel pomeriggio e che ancora oggi continua la sua attività, sia all’ammi-nistrazione penitenziaria per la loro disponibilità al confronto e alla progettazione.

La prima uscita

In questi 9 anni di attività mi è capitato di poter stare più vicino ad alcuni ragazzi attraverso alcuni progetti di reinserimento lavorativo.

In particolar modo ricordo una volta che dovevo accompagnare un ragazzo per fargli conoscere il suo nuovo datore di lavoro ed il luogo dove avrebbe dovuto lavorare.

Ma, prima di avviarci insieme all’appuntamento prestabilito, ab-biamo deciso di fare una sospirata colazione al bar, il classico «cap-puccio e cornetto», il che voleva dire riprendersi la normalità tra le proprie mani, cioè una grande sensazione di libertà.

Una volta finito entrambi di mangiare, non c’è stato verso di po-tergli offrire la colazione: si è ostinato ed ha voluto pagare lui.

Il passaggio importante di questo aneddoto è che non è riuscito a

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pagare non perché non avesse i soldi, ma perché «nel frattempo» non c’erano più le lire ma l’euro! Un dettaglio non certo di poco conto!

Il mio giovane amico ne rimase a dir poco colpito e uscì dal-l’imbarazzo chiedendo ad alta voce: «Ma quanto diamine sono stato dentro?». Al ritorno passammo il nostro viaggio in pullman a impa-rare le nuove monete e a fare esercizi di conto.

La partita all’esterno

Era il 2004 quando ottenemmo il permesso di inserire un ragazzo in attività sportive esterne alla struttura carceraria. All’epoca con alcuni colleghi avevamo creato una squadretta di calcio a cinque, ed ecco che il contesto per accoglierlo era già pronto.

E fu così che, ad una partita di campionato, venne inserito in squadra anche lui. Al campo da gioco fuori Torino venne accompa-gnato dalla sua educatrice e dal sottoscritto.

Prima però facemmo una piccola sosta in una pizzeria al taglio dove il mio giovane amico poté recuperare gusti dimenticati come appunto la pizza e la Coca Cola.

Arrivammo poi a destinazione e tutto andò bene, fece anche goal!

L’insegnamento di quella serata per me è stato il valore delle pic-cole cose: infatti il mio giovane amico mi fece capire quante piccole cose davo per scontate, sembrerà strano o per alcuni patetico, ma lì capii che cos’è la libertà. Non quella libertà dove ti puoi permette-re di fare tutto ciò che vuoi, ma la libertà di scegliere, e di sceglie-re il bene, ovvero di dare un senso al mio agire, di cercare sempre e comunque di non buttare via momenti preziosi di questa unica esi-stenza.

Ce ne sarebbero molti altri di aneddoti e storie da raccontare tratte dalla vita con i ragazi-detenuti del carcere minorile «Ferrante Aporti» di Torino. Ma alla fine tutti mi farebbero dire che il carcere, come spazio di tempo per il recupero umano, se fosse la strada giusta dovrebbe comunque essere utilizzato in altro modo.

Ciò che ho visto di positivo nel carcere è il frutto del lavoro di persone che vedevano in quei ragazzi il prodotto di una società sba-gliata.

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Ragazzi inconsapevolmente portatori di amore ma convinti di non essere in grado di viverlo e di donarlo, perché la vita è stata trop-po dura con loro. Ragazzi che hanno bisogno di persone e rappor-ti umani che gli facciano riscoprire chi sono veramente, che gli per-mettano di tirar fuori il loro bel potenziale umano.

Solo facendogli ricordare – e molte volte scoprire questo lato po-che volte vissuto di bene che trasforma la persona ridandogli dignità – solo così facendo il ragazzo accetterà di seguirti e di operare quel lento, doloroso e pauroso cambiamento.

Camminare su un terreno non conosciuto crea sempre paure. È necessario metterci tutti in gioco smettendola di coprirci gli occhi davanti a quello che non funziona: sono sempre più convinto che un po’ della pena scontata da questi ragazzi sia un po’ anche colpa mia e di tutti quelli che nel sociale, con ruoli diversi e posizioni diverse, non si danno «da fare» fino in fondo sviluppando e spremendo loro per primi quel potenziale che tanto si cerca di far scoprire ad ogni ragazzo-detenuto.

Tutti i risultati positivi che siamo riusciti a creare in questi anni non sono merito del singolo ma dei rapporti umani veri che han-no coinvolto la direzione e la Polizia penitenziaria, gli educatori, gli animatori e i volontari tutti tanto preziosi che, con posizioni diver-se, hanno instancabilmente lavorato tutti insieme per raggiungere lo stesso obiettivo.

Certo, in un contesto così complesso come il carcere ci sono sempre persone e situazioni che rallentano, bloccano o distruggono l’operato positivo ed educativo degli altri, il tutto purtroppo a disca-pito delle vite dei ragazzi.

Ma sono anche certo che dalla nostra si abbia il tempo: tempo vissuto come spettatore che tutto ricorda e tutto racconta, tempo vissuto come portatore di saggezza e di esperienza, tempo che ci ac-compagna e che rimane sempre presente per chi ha voglia di ascol-tarlo ed imparare da esso...

Juri Nervo, animatore professionalewww.jurinervo.it

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IL LAVORO DEI DETENUTIALCUNI ESEMPI IN GIRO PER L’ITALIA

Passare ore e ore, giornate intere. Magari per anni e anni nelle quat-tro mura della cella senza fare nulla può far impazzire, deprimere, morire! È luogo comune dire che in carcere si ammuffisce e che i detenuti dovrebbero andare a spaccar pietre o essere condannati ai lavori forzati: molti pensano e credono sia una “giusta” punizione per ciò che hanno commesso.

E allora perché non farli lavorare? Una bella idea sarebbe! Ma stando ai dati, non è proprio così accettata da tutti, sia per mancanza di spazi concreti che mancano per creare i laboratori all’interno delle carceri che scoppiano, sia per mancanza di soldi ma anche per aver messo da parte l’idea di pene alternative da scontare.

Per ciò che riguarda i dati, infatti, al 30 giugno 2008, su di una popolazione presente nelle carceri di 58.393 detenuti, solo 12.380 erano i lavoranti, una percentuale del 21%, solo 2, e poco più, detenuti su dieci!1.

C’è però anche chi pensa – in maniera più umana – che la per-sona, una volta scontata la pena infflittale e uscita di carcere, si deb-ba cercare un lavoro per mantenersi. E quindi, se per ipotesi per 30 anni una persona carcerata non ha lavorato e non ha alcun tipo di specializzazioni, non è stata seguita per nulla riguardo al recupero ed alla rieducazione per il reinserimento nella società, ci sono seri pro-

1 E. CACCIA, Giustizia: la civiltà delle carceri, una sfida culturale e di diritto, in «Il Socia-lista Lab», 17 settembre 2009.

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blemi: emarginazione dal mondo lavorativo, mancanza di soldi per il proprio mantenimento e di quella della famiglia con, magari, figli da sfamare...

E purtroppo l’elenco di questi casi divenuti sociali è lungo in Ita-lia.

Per ovviare a ciò molte strutture carcerarie si sono attrezzate per cercare di dare una professionalità ai detenuti, magari anche una istruzione superiore e tutti quegli strumenti necessari affinché, una volta finita la pena, ci possa essere un sereno reinserimento ed un riscatto sociale. Non dimentichiamo poi che molti lavori effettuati durante la detenzione sono anche lavori socialmente utili.

Come ad esempio ciò che è successo a Lodi, dove 16 detenuti so-no usciti temporaneamente dal carcere muniti di guanti e ramazza a ripulire una parte delle rive del fiume Adda. Un progetto pensato dalla direttrice della Casa circondariale, Stefania Mussio, e dalla Pro-vincia. Dice in proposito l’assessore provinciale all’Ambiente Anto-nio Bagnaschi:Dopo l’iniziativa “Puliamo il mondo”, fatta in collaborazione con i Comuni per ripulire le zone degradate, e le “1000 ore per l’ambiente” con gli straor-dinari della Polizia provinciale, siamo al terzo tempo.

Anche il capo delle guardie ed i suoi colleghi si sono detti entu-siasti dell’iniziativa, convinti che ai detenuti bisogna mostrargli che si può vivere diversamente, senza delinquere.

Qui tutti sono convinti che la sicurezza sia un tema che si può garantire in tanti modi, non necessariamente con la forza ed il pu-gno di ferro.

E la direttrice della Casa circondariale, a Lodi da poco tempo, ha due parole a lei tanto care e che suonano di “magico”, cioè progetto ed etica: «Riflettiamo ogni volta che ci troviamo di fronte a un pro-getto, purché trasmetta etica e senso della legalità»2. Prossimamente la Casa circondariale di Lodi, in collaborazione con il Lions Club ed un altro ente milanese, vuole adottare due cani.

2 F. LUCIDI, Lodi: 16 detenuti escono dal carcere, per pulire rive dell’Adda, in «Il Giorno», 14 maggio 2009.

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Quando dirigevo il “supercarcere” di Voghera – spiega ancora la direttrice – avevamo creato un canile attrezzato in un’ampia zona verde, con quattro gabbie. Ci hanno dato una mano il Ministero e una fondazione bancaria. Un vero successo. Poi abbiamo fatto uscire quattro detenuti per vendere, in un banchetto piazzato nella strada centrale della cittadina, mele e dolci di mele. Alcuni carcerati avevano dipinto una gigantografia della famosa mela del pittore Magritte. Una cosa bellissima, come è stato emozionante vedere detenuti a “elevato indice di sorveglianza” preparare dolci in cucina. I soldi incassati hanno finanziato altre iniziative culturali nel carcere. Quando dirigevo la sezione femminile di Opera abbiamo aperto le porte a tre fotografi che hanno raccontato la vita delle carcerate: quel lavoro è diventato una mostra e un libro3.

A Forlì nel maggio 2009 è stato firmato un accordo sui rifiuti Raee (progetto «Raee in carcere») per il reinserimento lavorativo dei detenuti della Casa circondariale.

È una iniziativa lanciata dal Ministero della Giustizia, dal mini-stero del Lavoro e dalla Provincia di Forlì-Cesena, che vede la col-laborazione del consorzio Ecolight, insieme al Centro Servizi Raee, alla cooperativa sociale Gulliver, al Gruppo Hera Spa e Techne Scpa, CCLG spa, Confederazione Nazionale Artigianato Forlì Cesena, ol-tre all’amministrazione penitenziaria della Casa circondariale di For-lì. Ognuno di questi enti avrà un compito specifico.

Con questo progetto dentro alle mura carcerarie si prevede la rea-lizzazione di un laboratorio con l’impiego di due o tre persone per un totale di 25 ore a settimana per persona; in tale struttura, attra-verso lo smontaggio dei rifiuti elettrici ed elettronici, si arriverà al-la separazione dei diversi materiali per il recupero di materie prime seconde. L’obiettivo è quello di fornire competenze professionali e trasversali necessarie per poi avere una occupazione stabile nelle im-prese del settore4.

Un altro paio di esempi di lavoro dei detenuti arrivano dal Pie-monte.

3 Ibidem.4 http://blog.schole.it/

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A Saluzzo, ad esempio, all’interno del carcere «Rodolfo Morandi» è stato messo un impianto per la produzione di birra artigianale.

Inaugurato nel maggio 2009 con tutti i massimi esponenti del-le varie amministrazioni locali e con la benedizione del vescovo, il birrificio è gestito dalla cooperativa sociale «Pausa Café», che già a Torino alla Casa circondariale «Lorusso e Cotugno» [conosciuta più comunemente come carcere delle Vallette, NdA] gestisce un centro di produzione agroalimentare che risponde a requisiti d’eccellenza per caffè e cacao, prodotti che vengono poi venduti nei supermercati piemontesi e non solo. Al “Morandi”, nei locali concessi in comodato d’uso gratuito dall’Ammi-nistrazione penitenziaria, è stato allestito un impianto per la produzione di birra ad alta fermentazione: 10 ettolitri al giorno (130-150.000 bottiglie, più il confezionato in fusti, all’anno), sul mercato dai 7 euro in su. Tempi di produzione dai 25-30 giorni per la birra in fusti e altri sette giorni per quella in bottiglia5.

Tale progetto ha consentito la creazione di ben 5 posti di lavoro di cui tre totalmente di detenuti, seguiti da un importante mastro birraio. È importante sapere che la commercializzazione avverrà nel circuito «Eataly» e nei supermercati Coop.

Sempre in Piemonte, a Dogliani (provincia di Cuneo) ha sede la casa editrice «Sensibili alle foglie», cooperativa editoriale su tema-tiche sociali ed analisi sociologiche. Voluta e progettata da Renato Curcio (che ne è il direttore editoriale) ed altri suoi amici e compa-gni di carcere, oggi questa casa editrice è molto conosciuta, ha ben due sedi ed un buon fatturato annuo, nonché undici collane.

Leggiamo dal loro sito internet: Sensibili alle foglie è una cooperativa di produzione e lavoro, ma è anzitutto un modo di guardare, un modo di cercare, un modo di porre domande sui vissuti delle esperienze estreme, sui dispositivi totalizzanti che sono all’opera nelle istituzioni, sull’immaginario, sulle risposte adattative e sulle risorse creative delle persone che le attraversano. Le esperienze estreme,

5 Saluzzo: nel carcere impianto di produzione di birra artigianale, dal sito www.ecodel-chisone.it, 13 maggio 2009.

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d’altra parte, affondano le loro radici nella normalità, e per questo possono porsi di fronte ad essa come efficaci specchi di consapevolezza. Dal 1990 ad oggi questa attività culturale si è articolata intorno a sei proposte. La ricerca sociale, l’attività editoriale, il Progetto memoria, l’organizzazione di Seminari, l’Archivio di scritture, iscrizioni e arte ir-ritata (con oltre 600 opere, tra dipinti e disegni, provenienti da istituzioni manicomiali e carce-rarie; conserva manoscritti, diari, quaderni e supporti di altro tipo su cui sono tracciate le parole, i segni e gli scarabocchi delle più estreme solitu-dini), Bambini in Palestina6.

E se poi i detenuti realizzano un impianto solare termico a pan-nelli solari? È ciò che succede a Roma, al carcere di «Rebibbia». È stato infatti inaugurato nel luglio 2009 un impianto a pannelli sola-ri a cui ha collaborato il Cirps (Centro Interuniversitario di Ricerca Per lo Sviluppo Sostenibile) dell’Università La Sapienza.

L’impianto, si legge in una nota, rientra nell’ambito del Programma nazionale che ha come obiettivo la solariz-zazione di 15 istituti penitenziari da realizzarsi in cinque anni attraverso 5000 metri quadrati di pannelli solari termici e prevede, con la collabora-zione del Cirps, il coinvolgimento attivo dei detenuti stessi7.

Tale progetto è una opportunità di lavoro professionalizzante in campo di energie alternative come il solare termico. C’è da aggiun-gere che la realizzazione di questi impianti e l’esperimento di auto-produzione di collettori solari ha consentito di mettere a disposizio-ne dei campi di accoglienza aquilani più di 70 mq di collettori solari costruiti dai detenuti.

Se al nord i detenuti riescono a lavorare, al sud la cosa è diffici-lissima.

In Sicilia, ad esempio, ci sarebbe in teoria una legge approvata dalla Regione per finanziare le attività lavorative dei detenuti: quelli che ne fanno richiesta possono avere i contributi del caso. Il proble-ma però è che mancano gli spazi all’interno della struttura carceraria per impiantare i laboratori. «Purtroppo», spiega Lino Buscemi, del-l’ufficio del garante per i diritti dei detenuti in Sicilia,

6 http://www.sensibiliallefoglie.it/chi_coop.asp7 www.agensir.it, venerdi 3 luglio 2009.

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in molti casi quella norma giustissima non è applicabile. Come mai? Ma se lo immagina un detenuto che vuole impiantare una falegnameria nelle nostre prigioni? I penitenziari siciliani, a parte qualche lodevole eccezione, non sono dotati di spazio per le attività. I piccoli lavoretti in ceramica si possono tollerare, le piccole cose degli artigiani. Per il resto... l’unica sarebbe la concessione del trasferimento, ma c’è il problema del sovraffol-lamento8.

Ci sono poi detenuti che lavorano all’interno di Case Circonda-riali dedicandosi al teatro. È noto a tutti il caso di Volterra dove i reclusi lavorano da anni sotto la regia di prestigiose firme del teatro italiano e non. Ma non c’è solo questa realtà carceraria a far entrare il teatro tra le mura della struttura. Ad Ancona, ad esempio, c’è il progetto Musesociale lavoro di formazione che la Fondazione Teatro delle Muse svolge con lo scopo di far incontrare la musica lirica ed il teatro d’opera con il mondo di chi soffre e di chi è emarginato. Il progetto si divide in tre laboratori: Liricabile, Liberamente e Liricamente, ispirati a Rigoletto di Giuseppe Verdi9.

Nel 2008-2009 il gruppo di detenuti si è confrontato con l’opera lirica attraverso un ciclo di laboratori, guidato da esperti di teatro-educazione provenienti da Urbino (Teatro Aenigma – Vito Minoia), che si è tenuto da ottobre 2008 all’interno della Casa circondariale.

È stato poi messo in scena lo spettacolo Rigoletto/Variazioni com-posto da due studi teatrali: Finzione e realtà ispirato al dramma omo-nimo di un detenuto e Opera ispirato al dramma omonimo di Eu-genio Sideri. Lo spettacolo, tenutosi presso la Sala Polivalente della Casa circondariale, ha visto la collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Ancona.

A Torino invece i detenuti si sono lanciati come attori di cinema sotto l’attenta regia di Davide Ferrario, di cui parleremo più appro-fonditamente più avanti in un apposito capitolo.

8 R. PUGLISI, Sicilia: lavoro in carcere; i soldi ci sono, ma mancano gli spazi, in www.livesicilia.it, 16 maggio 2009.

9 Ancona: il “Rigoletto”, nella Casa circondariale di Montacuto, in «Il Messaggero», 16 maggio 2009.

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A Roma da poco tempo è partito il progetto «Agricoltura socia-le e detenzione. Un percorso di futuro», realizzata da Aiab in colla-borazione con il Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, con Alpa, vale a dire una cooperativa di Capodarco, con Copa, il garante dei detenuti del Lazio, Inea, la Rete delle fattorie sociali, la Uila e con il finanziamento del Ministe-ro del Lavoro.

Sono infatti 50 gli istituti penitenziari ad avere attualmente un’at-tività agricola, oltre a quelle aziende private che lavorano con le car-ceri. Inoltre è interessante sapere che i detenuti occupati in attività agricola sono ben 372, il 2,8% del totale, a cui vanno aggiunti quelli che lavorano nelle aziende.

Tutte queste realtà sopradescritte sono solo alcune di quelle di cui siamo venuti a conoscenza. Sicuramente però ce ne sono altre non menzionate che non conosciamo e di cui ci scusiamo dell’omissio-ne.

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MADRI E FIGLI IN CARCERE

«Ecco sono uscita, la preoccupazione più grande arrivare a casa il più presto possibile, perché lui sta per arrivare, mettergli in ordine i suoi giochi, rior-dinare i suoi vestiti, preparargli il pranzo, ricominciare a fare tutte quelle cose che erano un’abitudine.Prima però lo attendo alla stazione e ogni treno che passa il cuore mi batte sempre più forte, ed ecco arrivato il momento, “quello il treno”, corro, lo vedo con il sorriso sul volto, vedo le sue manine muoversi per salutarmi, gli sportelli si aprono e lui fa un salto per abbracciarmi forte e sussurrarmi all’orecchio: “Mamma, sei qui”.Poi la domanda: “Mamma, quanto stiamo insieme?”. Le parole escono con fatica, ed è dura spiegare la verità a un piccolo cucciolo spaurito che ti guarda con i suoi grandi occhioni, e che vuol sentirsi dire “per sempre”.Così sono di nuovo bugie, verità a metà: “Solo per tre giorni e poi mamma torna al lavoro”. E lui, ancora: “Ma quando staremo insieme, io e te?”.Allora mi impegno di dargli la forza necessaria, che cerco nell’angolo più buio del cuore, perché anch’io ho bisogno di qualcuno che mi infonda il medesimo coraggio per rispondergli, senza le lacrime agli occhi: “Dai amore mio, ancora un pochino, fino a quando mamma riuscirà a uscire da quell’ospedale maledetto”, sussurrato sottovoce, a denti stretti.Giocare insieme per fargli dimenticare, mangiare insieme sino all’ora di andare a dormire, ma prima bisogna fare il bagno, e lui, un ometto ormai fatto capace di lavarsi da solo e prepararsi per la notte, mi chiede, sotto-voce, per non farsi sentire dagli altri: “Mamma, me lo fai tu il bagno e dopo dormiamo insieme nel nostro lettone, stretti stretti?”. Io non aspet-tavo altro e con un sorriso gioioso e amorevole gli rispondo: “Tutto quello che vuoi, amore mio”.

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Ormai tardi, lui dorme, ma il sonno non viene e non mi sembra vero di averlo accanto. Guardo un po’ in giro, chiudo e apro gli occhi sperando che non sia un sogno e comincio anche a crederci, tutto vero, però nel contempo penso: “Sono un po’ egoista? Gli sto rubando attimi felici?”. Mi torna in mente che restano solo due giorni, e le ore volano in fretta.Le giornate passano con lui che mi segue come un’ombra e mi chiede, continuamente: “Mamma dove sei? Mamma vengo con te”. Ed ecco arri-vata l’ultima sera, lui lo sa perché mi vede nervosa, lo prendo in braccio e comincio ad accarezzarlo e le parole escono con amore.“Amore, domani mamma torna al lavoro, tu starai con nonna, mi racco-mando fai sempre il bimbo bravo e dolce che sei”. Lui mi guarda, io cerco di non farmi notare, ma gli occhi mi si riempiono di lacrime, cerco di controllarmi perché lui non deve ancora subire.La notte passa di nuovo insonne, lui mi tiene la mano e non la lascia, i miei movimenti lo svegliano e mi domanda: “Mamma dove vai?”, lo rassicuro e gli rispondo: “Sono qui”.È l’ora, mi alzo, mi vesto, finisco di preparare le borse, il taxi arrivato, le valigie sull’ascensore, torno indietro per dargli l’ultimo bacino sulla fronte e via in fretta, senza girarmi più, la strada lunga e il cuore batte forte, e più mi avvicino e più batte forte, ecco sono quasi arrivata, l’ultimo caffè in libertà e dopo l’ultima camminata in libertà fino al prossimo permesso. Suono il campanello, il portone si apre e le parole sono: “Detenuta rientra dal permesso”.E mentre il portone si chiude, dietro alle mie spalle, mi dico: “Ci vediamo il prossimo mese”»1.

Secondo i dati nazionali del Dap, il Dipartimento di amministra-zione penitenziaria, le detenute con uno o più figli sono 1060 su di una popolazione carceraria di 1972 donne recluse2. I reati general-mente sono sempre i soliti: furto o spaccio di droga.

Secondo il Ministero della Giustizia ufficialmente i figli di madri finite dentro al 30 giugno 2008 risultano essere 59, mentre il dato più ufficioso parla di 70 bambini3.

In Italia esiste però una legge del 1975, che permette alle donne

1 M. ZOCCO, Quanto stiamo insieme?, in www.ildue.it2 www.ildue.it3 R. RIZZO, Bambini condannati. Al carcere, in «Corriere della Sera», 1 febbraio 2009.

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in carcere di stare vicino ai loro bimbi fino a che non compiono tre anni di età. In seguito verranno affidati ai parenti, nonni o zii. Se ci sono. Oppure vengono ospitati in qualche comunità o casa-famiglia fino a che la madre non avrà scontato tutta la pena detentiva.

Successivamente, nel 2001, venne approvata una ulteriore norma su cui è scritto che «“le condannate madri di prole di età non supe-riore ad anni 10, se non esiste un concreto pericolo di commissio-ne di ulteriori delitti...” abbiano la possibilità di espiare la condanna in strutture che non siano il carcere»4. Peccato però che quell’inten-to risulti solo sulla carta senza essere applicato. Ma il Ministro della Giustizia attualmente in carica Angelino Alfano pare se ne stia occu-pando in quanto egli stesso ha detto: Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell’ordi-namento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino5.

La struttura, il finanziamento e la gestione operativa dove far scontare la pena alternativa per le madri con bimbi dovrebbe essere totalmente a carico del Comune, mentre l’Amministrazione Peni-tenziaria dovrebbe avere il controllo relativo all’esecuzione delle mi-sure alternative.

Queste strutture cui si riferisce il ministro sono però molto rare e distribuite sul territorio in maniera molto disomogenea. E spes-so e voentieri i posti per accoglierle sono davvero pochi. Anche se nel nostro Paese esistono diversi gruppi ed associazioni che cercano di dare aiuto e sostegno alle madri con figli dentro il carcere, con il principale scopo di aiutare i bambini ad avere una vita serena nonostante le difficoltà che la vita all’interno dell’ambiente carcerario comporta o che il distacco dalla figura materna ha creato. In diverse città esistono o sono in progetto delle case famiglia, ovvero delle strutture residenziali di tipo familiare per le detenute e i loro bambini, che consentono alle detenute che possono usu-

4 Ibidem.5 Ibidem.

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fruire di misure alternative alla detenzione di uscire dal carcere e vivere con i loro figli in un ambiente protetto ed adeguato6.

Queste strutture devono avere del personale educativo adegua-tamente preparato, esperto e motivato. Si tratta di affrontare don-ne con prole per un percorso educativo che le aiuti a ricostruirsi un percorso di piena autonomia per un inserimento sociale e lavorati-vo, nonché sostenerle anche nel recupero dei rapporti sia con i pro-pri familiari (se ci sono) sia nel ristabilire quegli affetti perduti ed il rapporto con i propri figli. Senza però dimenticare che queste don-ne debbono essere aiutate nel seguire l’iter burocratico legato alla lo-ro situazione giudiziaria. Anche gli arredi della casa-famiglia devono essere pensati e realizzati sia per difendere la privacy degli ospiti che per la socializzazione e il gioco delle mamme e dei bimbi.

Di case-famiglia ne esistono a Roma nel territorio della V circo-scrizione (Via Nomentana), istituita dal Comune e pagata con i fon-di offerti dalla Commissione delle Elette al Consiglio Comunale.

Anche Milano avrebbe dovuto ospitare una di queste strutture. Ma il Comune, che aveva già finanziato e iscritto a bilancio la ri-strutturazione di un ex asilo in Via Zama per accogliere le mamme carcerate con i figli minori fino a tre anni, ha accantonato all’im-provviso i 1,5 milioni di euro circa previsti per le opere di riquali-ficazione dell’edificio: la nuova sede non si farà perché il progetto è fallito per mancanza di fondi7.

A Venezia, invece, la Caritas ha aperto la casa di accoglienza Gio-vanni XXIII, struttura voluta dall’ex patriarca di Venezia cardinal Cé. Essa risolve un problema importantissimo, quello di avere un ristoro, necessa-rio soprattutto durante le fredde giornate invernali o quelle afose d’estate durante i permessi da trascorrere in città, con l’assistenza delle suore. Inol-tre, questa casa di accoglienza un punto d’appoggio anche per le famiglie, italiane o straniere (che vivono dunque lontano dal carcere) delle detenute, quando vengono in visita per i colloqui o i permessi delle detenute stesse.

6 E. CERRI, dal sito http://www.pianetamamma.it/donna-e-mamma/donne-e-madri-in-carcere.html

7 http://www.ristretti.it/areestudio/donne/ricerche/mattei/terzo.htm

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Rimane però totalmente irrisolto il problema dell’abitazione soprattutto per le ex detenute8.

Nelle strutture di detenzione italiane esistono anche solo sedici asili nido «ma siamo sempre dentro un carcere, tra ogni genere di detenute, urla e rumori. Non certo l’ambiente adatto a dei bimbi, talvolta neonati»9 afferma Riccardo Arena.

A Venezia il carcere della Giudecca èuno dei pochi in Italia ad essere dotato di un asilo nido che è strutturato abbastanza bene: “C’è una grande sala – spiega Giuliana, una delle madri detenute che offre la sua testimonianza – dove i bambini ‘potrebbero’ gio-care e la cucina dove le mamme cucinano i pasti per loro”. La sezione nido di Venezia però non funziona come probabilmente era stato previsto quando è nata: un reparto in cui dovrebbero alloggiare solo le mamme con i bambini, ma a causa del sovraffollamento e della struttura edilizia dell’istituto, nel “nido” vengono effettuati pure gli isolamenti giudiziari, quelli punitivi e sanitari10.

A Roma, sempre nel carcere di «Rebibbia» quindici anni fa circa è nato una specie di nido, vale a dire il progetto «Crescere e giocare insieme» voluto e portato avanti da un gruppo di volontari organiz-zato da Leda Colombini (Presidente dell’Associazione «A Roma in-sieme», ex parlamentare DS, già membro del gruppo di parlamentari Amici dell’UNICEF), che spiega: Il giorno di Natale, quando abbiamo fatto la festa, c’erano 21 madri dete-nute con i loro figli: due africane, tre italiane e le altre di etnia rom. Vivono nella sezione nido, dove si è cercato di dare una condizione più attenuata del carcere, con un giardinetto e dei giochi. Ma è sempre un ambiente ristretto, sottoposto alle regole del penitenziario”. L’iniziativa principale del progetto Colombini è “ogni sabato portare fuori, dal mattino alla sera, i bambini detenuti per far vivere ad ognuno di loro una giornata normale. D’estate al mare, d’inverno in montagna o in piscina. I piccoli hanno la possibilità di scatenarsi fisicamente, cosa che in carcere non è permessa. Rinunciano volentieri al sonnellino pomeridiano pur di non perdersi

8 Ibidem.9 Ibidem.10 Ibidem.

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qualche ora di gioco”. L’altra attività dei volontari consiste nel portare i bimbi di “Rebibbia” all’asilo esterno: “Abbiamo ottenuto un pulmino dal Comune per portarli in tre nidi della zona. Sono bambini che fanno tene-rezza, molto meno capricciosi dei loro coetanei”11.

Recentemente, il 22 febbraio 2009, la Regione Lombardia e il Ministero di Grazia e Giustizia e il Dap hanno siglato un progetto che prevede la realizzazione, entro breve, del primo asilo nido lombardo in un istituto a custodia cautelare, al quale si aggiungono l’assistenza sociosanita-ria per i minori e la formazione psicopedagogia del personale12.

Inutile dire che il carcere è un luogo di grande sofferenza sia per il bimbo che per la madre.

Essi imparano presto il linguaggio del carcere e dunque anche per loro arriva «l’ora d’aria». E tutti dicono che sono bambini meno ca-pricciosi dei loro coetanei che vivono nelle famiglie in libertà, e di-cono anche che hanno una creatività molto limitata. Ovviamente i figli delle detenute non vanno a giocare al parco all’aperto, in estate non possono andare al mare o fare un bel giro in bicicletta: un’infan-zia difficile la loro, anche loro «condannati» per così dire dietro alle sbarre che non hanno scelto.

È da segnalare che nel 2009, per la prima volta in Italia, un grup-po di pediatri dell’Istituto di Clinica Pediatrica dell’Università Cat-tolica-Policlinico Agostino Gemelli di Roma, è entrato nella Casa di reclusione di «Rebibbia» per valutare le condizioni di salute dei neo-nati che vivono lì dentro. Il primo dato che i pediatri hanno misurato riguarda l’età gestazionale, cioè la durata della gravidanza: ben il 20% dei bambini che vivono in car-cere ha avuto un’età gestazionale di meno di 37 settimane (durata media di una gravidanza), a confronto, solo il 5% dei bambini in Italia nasce prematuro.

11 R. RIZZO, Bambini condannati. Al carcere, in «Corriere della Sera», 1 febbraio 2009. 12 NI. CA., Che cosa vogliono i bambini? Uscire dal carcere, in www.ildue.it

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Un altro fattore importante riguarda l’allattamento: circa il 70% delle mamme che vive in carcere decide di allattare, ma in carcere l’età di svezza-mento è più precoce. Infatti, normalmente le mamme iniziano a svezzare i piccoli a 5 mesi, mentre le mamme detenute iniziano prima: questo dato non è positivo perché può predisporre al rischio di ipertensione e obesità. Inoltre l’interruzione anticipata dell’allattamento può aumentare il rischio di allergie e intolleranze alimentari.Altro dato, un po’ allarmante, riguarda le vaccinazioni obbligatorie: solo il 14% dei bambini in carcere viene regolarmente vaccinato, mentre in Italia il 100% dei bambini viene vaccinato13.

Inoltre in questo studio i bimbi da zero a tre anni che vivono con le loro mamme fruiscono di un regolare servizio sanitario obbligato-rio quali i vaccini e le visite periodiche previste a quell’età, ed usu-fruiscono di tutti quei servizi di prevenzione e di cura straordinari e/o specialistici. I bambini che sono insieme alle loro mamme in carcere, secondo quanto previsto di diritto per le donne incarcerate dalle legge, hanno un’età media di 16 mesi, e sono principalmente bimbi che hanno origine nell’Est Europa per l’80% dei casi, il 20% rimanente equamente composto da italiani, sudamericani e europei in genere14.

13 Bambini: il Gemelli entra a Rebibbia per la prima volta, in http://www.blogmamma.it/2009/06/01/bambini-il-gemelli-entra-a-rebibbia-per-la-prima-volta/

14 Bambini: salute nelle carceri, in http://www.tantasalute.it/articolo/bambini-salute-nelle-carceri/5509/

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Le donne della GiudeccaStoria di Emiliana, una «detenuta» di tre anni

Quando la scarcerazione è un dramma. Eppure lei non voleva proprio andarsene dalla galera15

Gennaio 2002

Emiliana ha appena compiuto tre anni, e quello è stato un gran brutto giorno. Il giorno che ha ricevuto l’annuncio di dover «esse-re dimessa» dal carcere. Dunque c’è qualcuno che può non «voler» uscire dal carcere, ed essere costretto a farlo: una bambina di tre an-ni, per esempio, perché per lei il carcere è vivere con Maria, sua ma-dre, e uscire significa essere staccata da lei inesorabilmente. E infat-ti è appena arrivata una carta del Tribunale, che ha decretato quello che Maria temeva più di tutto: l’affidamento della figlia a un istituto o a una famiglia italiana.

La storia di Maria, albanese, va un po’ di pari passo con quella di Giuliana, italiana: erano detenute insieme nel carcere della Giudec-ca pochi mesi fa, solo che Giuliana i figli li aveva fuori, affidati alla sorella, e Maria l’unica figlia se l’era portata dentro.

Ma c’è un’altra differenza tra queste due donne, ed è quella che forse peserà di più: Maria è albanese, e tutto allora per lei è e sarà più difficile. Ora Giuliana è fuori, il suo è uno dei pochi casi di applica-zione della legge sulle detenute madri, che le ha permesso di vivere a casa, in detenzione domiciliare, per accudire i figli. Per Maria in-vece è arrivato quello che più temeva: il compleanno più brutto, tre anni, la fine di quello strano periodo in cui un bambino può essere carcerato.

Un mese fa avevamo parlato con lei, e ci aveva detto: «Quando mi portano via la bambina, divento matta». Era terrorizzata da tut-to: le volontarie, che venivano a prendere Emiliana per portarla un po’ fuori, le vedeva con sospetto, diceva che la portavano a conoscere famiglie italiane a cui affidarla. Non aveva fiducia neppure nei suoi

15 Tratto da AA.VV., Storie e testimonianze dal carcere, selezione di testi dal sito http://www.ristretti.it del Centro di Documentazione Due Palazzi di Padova, Calomelano Edi-trice Virtuale http//www.calomelano.it ebook numero 2I edizione settembre 2009.

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parenti che stanno in Italia, temeva che non fossero in grado di aiu-tarla. Il fratello che vive in Australia, invece, le sembrava l’unica so-luzione: meglio che la piccola se ne andasse così lontano, ma con un parente, piuttosto che finisse in una famiglia italiana.

Le straniere temono l’affidamento dei figli come la peste: forse non fanno nemmeno tante differenze fra affidamento e adozione, pensano che l’affidamento sia un fatto inesorabile, che poi i figli nes-suno glieli restituirà più. E se hanno i bambini con loro in carcere, aspettano come il peggiore degli incubi il giorno che compiono tre anni. Succede che gli ultimi mesi il rapporto tra madre e figlio diven-ti addirittura morboso: e come non capirlo, con questa separazione incombente, inevitabile e che si consuma ogni giorno un po’?

Ma come è stata, la carcerazione di Emiliana? Una vita sempre e solo con donne: agenti, detenute, suore, l’assenza pressoché comple-ta di figure maschili. Alla sera, quando le agenti chiudevano la por-ta blindata della cella, c’erano le urla perché a Emiliana non piaceva essere rinchiusa. Se succedeva poi che la madre alzava troppo il vo-lume della televisione, la bambina le diceva: «Abbassa, che se no vie-ne l’agente e ti sgrida». E poi le piaceva imitare i gesti di tutti quegli adulti che aveva intorno: anche lei aveva imparato a fischiare e gri-dare «Terapia!!» quando lo faceva la suora, che ogni giorno passa e distribuisce le gocce tranquillanti alle donne che non ne sanno fare a meno perché stanno troppo male.

Poi, è successo quello che doveva succedere: è arrivata una carta, qualcuno ha dovuto staccare la bambina dalla madre e decretare la fine della sua carcerazione. Ma per la madre la «scarcerazione» della figlia ha finito per essere la condanna a una pena aggiuntiva, una se-parazione con davanti solo l’ignoto.

Ma che ne è stato di Emiliana, «detenuta» dimessa dal carcere quando ha compiuto tre anni?

Emiliana qualche giorno fa è stata portata in un Istituto vicino al carcere, in attesa di una difficile decisione su quello che sarà il suo destino, ed ora in carcere entra come tante altre persone, che ogni giovedì e sabato vengono a fare i colloqui con i propri familiari, con la differenza che la Direzione del carcere le ha concesso qualche ora in più per stare a colloquio con la madre. Maria non ha molti soldi

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in questo momento, e tutte noi che siamo in cella con lei cerchiamo di aiutarla, comprando succhi di frutta, dolci, brioches perché que-sti lunghi incontri diventino più piacevoli. Ma non è facile un collo-quio in carcere per una bambina di tre anni, perché a quell’età dover stare due ore e più nello stesso posto senza potersi muovere libera-mente è sempre un tormento.

La bambina è seguita dai volontari, dalle suore e dalle agenti che ogni giorno si recano all’istituto per salutarla e vedere come sta. Dal-le notizie che noi abbiamo lei non ha affatto difficoltà di inserimen-to con gli altri bambini.

Non si è ancora resa conto, però, che questo carcere non è più la sua «casa». Quando arriva non ha paura del posto, anzi, chiede alle agenti di farla salire nella sua cameretta (che sarebbe la cella che di-videva con la madre), chiede di salutare altre detenute con cui aveva instaurato un rapporto affettivo, trova ogni scusa per farsi «arrestare» di nuovo e continua a domandare alla madre: «Perché non mi vuoi più qui con te?».

Finito il colloquio, al momento del distacco, piange perché sa, è ben consapevole, nonostante l’età, che non tornerà più a mangiare, dormire e vivere qui con sua madre, e non avrà per lungo tempo ca-rezze, baci e sgridate da lei.

Noi pensiamo che, qualsiasi opinione si possa avere della madre, la realtà è una: la bambina è bene educata, è sensibile, è tranquilla, e gli anni passati in carcere non sembra che le abbiano lasciato ferite troppo profonde... E allora è giusto dire che tutto questo è dovuto davvero alla madre, che ha dimostrato grande capacità e amore nel-l’educare la figlia.

Sono tante le domande che noi ci facciamo quando vediamo Ma-ria ed Emiliana, o le altre detenute che stanno al nido del carcere con i loro bambini: è davvero inevitabile strappare la figlia ad una don-na, anche se ha sbagliato? È possibile accettare finalmente l’idea che una donna che ha sbagliato può essere però nello stesso tempo una madre che ha dato amore e ha saputo crescere bene la propria figlia? È giusto spezzare il legame tra una figlia ed una madre, che grazie a questo legame sta trovando l’aiuto e la forza per cambiare la sua vita? Se questa donna perderà la bambina, quale stimolo potrà avere per migliorare se stessa e per continuare a vivere?

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Giuliana – Mamme e bambini in carcere: il «nido» penitenziario della Giudecca

Ma cosa vedono questi bambini, che stimoli hanno? Sempre gli stessi muriMarzo 2001

Sono rientrata in carcere, da definitiva, l’anno scorso a gennaio, lasciando fuori quattro figli di dieci, nove, due e un anno. Ero mol-to combattuta sulla scelta se portarmi appresso i due più piccoli, mi dicevo: «Li tengo vicini, li proteggo, l’ultimo lo allatto ancora, come faccio a separarmi da loro?».

Mia madre me lo ha proibito, per fortuna, a parte che non sape-vo che ero tra l’altro destinata all’Alta Sicurezza (questa è stata un’ul-teriore sorpresa). Ma credo che, anche se li avessi portati con me, li avrei subito fatti uscire: io ho la fortuna, che ad esempio non hanno le straniere, di poter contare su una famiglia vicina.

I bambini sono sottoposti allo stesso regolamento delle madri. Il «nido» di Venezia è strutturato anche bene: c’è una grande sala, dove i bambini «potrebbero» giocare, la cucina dove le mamme cucinano i pasti per loro. Le celle sono fatte per due persone, ma ci sono stati periodi in cui ci stavano tre madri, più tre figli. I bambini possono stare all’aria come le madri, cioè quattro ore al giorno. L’aria di Ve-nezia è grande, ci sono delle aiuole, ma cosa vedono questi bambini, che stimoli hanno? Sempre gli stessi muri.

Dopo la visita del Ministro Fassino, in occasione dell’otto marzo, leggevo sul Gazzettino un riferimento alla presenza dei bambini in carcere, dove dicevano che c’è un giardino con dei giochi per loro. Quello, in realtà, è il giardino dei colloqui speciali, i colloqui delle madri con i bambini che le vengono a trovare da fuori. I bambini del nido di solito non ci vanno a giocare, ma poi chi dovrebbe portarli? Al nido c’è la puericultrice, è vero, forse potrebbe farlo lei?

Ciò che più mi turba sono i rumori e «le voci alte» che ci sono in questo reparto (io sono isolata al nido): non mi riferisco al vocia-re dei bambini, ma alle discussioni che ci sono spesso tra madri, tra le madri e la puericultrice, tra le madri e le agenti. Questi bambini

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sono dentro questa vita «ristretta», e la cosa peggiore, per loro, io ri-tengo sia il vedere lo stato di impotenza delle loro madri, la loro co-stretta sottomissione. Che effetto avrà in un bambino, per il quale la madre, oltre che l’oggetto affettivo principale, è anche l’unico punto di riferimento?

Guardando, però, queste donne e i loro figli, a volte mi chiedo: è tutto male? Qui fanno pasti regolari, hanno vestiti puliti, riscalda-mento, acqua calda, cure mediche. Entrano non sempre in buono stato, dopo qualche settimana rifioriscono. Sono bambini belli, in-telligentissimi e sani, vorrei sperare che non sia proprio il carcere a costituire un miglioramento alla loro condizione di vita.

La nuova legge difficilmente risolverà il problema dei bambini in carcere.

Fortunatamente non è un problema di ampie dimensioni, ma coinvolge oltre 50 bambini, in tutta Italia. Questo non significa, però, che ci siano solamente cinquanta donne con figli piccoli, su un totale di 2.326 donne detenute (dati del 31 dicembre 2000). Ad esempio, a Venezia, su un totale di circa 100 donne, sono presenti «solo» sette bambini, ma di madri con figli sotto i tre anni ce ne so-no altre quattro e con figli di età inferiore ai dieci anni ce ne sono altre undici.

Nel carcere di Venezia esiste la sezione nido, ovvero il reparto do-ve sono alloggiate le mamme con i bambini, ma a causa del sovraf-follamento e della struttura edilizia dell’istituto nel «nido» vengono effettuati pure gli isolamenti giudiziari, quelli punitivi e sanitari.

Attualmente ci sono rinchiuse otto mamme, con sette bambini: cinque di etnia Rom, una Sinta e una straniera. Usciranno queste mamme? Ipoteticamente potrebbero uscire libere, ma l’applicazione dei benefici, nella realtà del “nido” di Venezia, sarà difficile.

Tre delle madri presenti avevano ottenuto il beneficio della de-tenzione domiciliare, concesso grazie alla legge Simeone, ma sono nuovamente rinchiuse perché non hanno rispettato l’obbligo e sono evase. Un’altra detenuta non è ancora definitiva, per cui non può ot-tenere al momento nessun beneficio e la richiesta degli arresti domi-ciliari le è stata respinta. Un’altra, con una figlia che compirà tre anni

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tra due mesi e che praticamente è cresciuta in carcere (è dentro, con la madre, da quando aveva venti giorni), non ha beneficiato neppu-re della legge Simeone in quanto dichiarata estremamente pericolosa (cioè con troppi precedenti penali). Infine due detenute madri sono qui da poco e aspettano la Camera di Consiglio, il cui esito dipende-rà da quanti precedenti penali hanno. Una sola, con un bambino di sette mesi, ha la certezza di uscire, ma la Camera di Consiglio per ot-tenere la sospensione della pena le è stata fissata per la fine di aprile.

Da rilevare anche un nuovo, recente ingresso di una mamma Rom con un bambino di 40 giorni. È molto delicato parlare del-la condizione delle donne Rom, sarebbe importante riuscire a farlo con loro, e discutere dell’accusa che viene loro mossa, di utilizzare a volte la loro maternità come una sorta di precondizione per avere l’impunità.

I mass media hanno dato la notizia del varo della nuova legge con i soliti titoli ad effetto, del tipo «Mai più bambini in carcere»: speria-mo che ciò non provochi invece nuove entrate di bambini.

Da quando c’è la legge a Venezia ne sono già entrati quattro...

Un altro aspetto forte che manca sulle problematiche delle donne in carcere è il rapporto tra le madri e i figli fuori dal carcere. Il problema è sentito in particolar modo dagli operatori sociali all’interno della sezione femminile della Casa circondariale di Torino. Qui all’ottobre 2008 c’erano 78 donne recluse di cui 45 straniere. Molte di queste ultime hanno i figli nei loro Paesi di origine, Africa ed Europa del-l’Est, per cui sono difficili da contattare.

Attraverso le parole degli operatori e volontari attivi presso questa struttura si evince che, ad esempio, molto spesso il marito non c’è oppure è in carcere pure lui. Talvolta le uniche figure che rimangono di riferimento fuori sono i fratelli e le sorelle della detenuta. Se un tempo c’era una famiglia solida alle spalle che da fuori teneva duro, supportando e aiutando chi era reclusa, oggi non c’è più. Oggigior-no il bambino ha difficoltà ad essere accudito fuori, per cui molto spesso si presentano per l’incarcerazione già con il figlio: questo ca-pita prevalentemente per le donne Rom.

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L’evento più critico di tutti è il compimento del terzo anno di età che vuol dire l’allontanamento dalla madre dalla sezione. Previsto per legge, il momento del distacco è un momento sempre doloroso che si colora di tinte ancora più forti con le detenute straniere che, nel caso non abbiano in Italia indirizzi specifici a cui fare riferimento, vedono i loro figli affidati a strutture o famiglie sicuramente accoglienti, ma che loro non conoscono16.

Questa solitudine ha portato le detenute a considerarsi donne so-le ma forti, diremmo «toste», rese corazzate dai tristi eventi. Una du-rezza che ha consentito loro di andare avanti nella vita. Molto spesso però le donne con i figli fuori dalle mura carcerarie soffrono di sbal-zi di umore, molto spesso – dice chi ci lavora assieme tutti i giorni – scoppiano invidie, gelosie, conflitti e basta un nonnulla per accen-dere scontri tra donne nelle celle.

Certo, nella struttura carceraria c’è una particolare attenzione af-finché i figli delle detenute possano stare bene. Ad esempio all’interno del nido è stata più volte ribadita la necessità di rendere l’am-biente il più possibile accogliente per i bambini. Ciò si traduce in una cura degli ambienti, della loro pulizia e vivibilità (“sarebbe da migliorare la puli-zia, rendere più responsabili le detenute su questo aspetto, a volte i giochi sono veramente sporchi, ma anche lo spazio dei bambini, i muri...”), ma anche in un’attenzione relazionale: la volontà di accogliere i bambini e ren-dere la loro permanenza in sezione il più leggera possibile deve conciliarsi con il rispetto degli spazi intimi in relazione con la madre e del loro forte attaccamento specie nei bambini più piccoli17.

Tutti sono però concordi nel dire che i bambini non dovrebbero vivere in quel contesto, in quanto sembrano detenuti pure loro.

Eppure questi bambini sembrano essere, a detta di chi lavora ogni giorno nella sezione femminile del carcere di Torino, più autonomi dei loro coetanei, bambini svegli e con molte risorse, forse che la loro condizione in reclusione sia un incentivo per crescere più in fretta.

16 Gruppo Abele – Università della Strada – Progetto «Genitori e figli», A cura delle donne – resoconto delle interviste agli operatori e volontari attivi nella sezione femminile della Casa circondariale «Lorusso e Cutugno» di Torino. Dispensa.

17 Ibidem.

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Anche l’umore della madre vuol dire molto: «Talvolta anche lo-ro risentono dell’umore della madre, per cui capita di vederli un po’ giù»18.

È chiaro che svolgere il ruolo di genitore all’interno di un carcere è sempre più complesso. Soprattutto se il figlio ha più di tre anni e cioè sono fuori dal carcere. Un’operatrice riferisce: “Le situazioni più problematiche riguardano le donne che hanno i figli all’esterno; le detenute con i figli in sezione, per quanto ci siano comunque questioni, sono generalmente più tranquille. Chi ha i figli all’esterno è più preoccupata”. E un’altra: “Particolarmente oneroso è gestire la rete delle relazioni esterne: si è dentro e si pensa a tutte le persone significative che sono fuori”19.

Le donne recluse capiscono però le difficoltà che trovano i loro figli fuori dal carcere, situazione di cui si sentono in qualche modo responsabili, per cui molto spesso si sentono un po’ additate come cattive madri: queste mamme, dicono gli operatori intervistati dal Gruppo Abele, hanno un forte atteggiamento di protezione, di accudimento dei figli per evitare loro, per quanto possibile, esperienze pesanti. Ecco allora molte testimo-nianze circa le loro premure prima del colloquio o i loro timori di sot-toporre i piccoli a contesti stressanti come la sala colloqui, timori che li portano talvolta a non acconsentire all’incontro20.

Già, i colloqui. La legge ne fissa sei mensili come numero possi-bile. Però il superamento di questa soglia è possibile su autorizzazio-ne del direttore. Nella sezione femminile della Casa circondariale di Torino ci sono oggettivi problemi di struttura, anche se tutto il per-sonale preposto cerca di prestare tutte le attenzioni possibili per rica-vare della privacy e dell’intimità. Ma ciò è difficile: In generale l’ambiente viene per queste caratteristiche indicato come “non molto accogliente”: “C’è molta confusione e rumore”. [...] In situazioni particolarmente delicate il minore accompagnato dall’assistente sociale di territorio o da un educatore, incontra la madre in un altro locale, ritagliato

18 Ibidem. 19 Ibidem.20 Ibidem.

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all’interno della sezione al piano terra, più tranquillo e decisamente più intimo21.

Normalmente questi momenti d’incontro sono preparati per be-ne dagli operatori. Le madri detenute sono felici di incontrare i figli e i colloqui stessi assumono un tono più “leggero”. I bambini ridono e si divertono anche in un contesto così serioso e sono contenti di incontrare la madre: dalle testimonianze risultano più recalcitranti i ragazzi di età maggiore, dai 12 anni in su. Un operatore con-fessa che “quando arrivano i bambini in sala colloqui è come se entrasse l’asilo, e il clima dell’incontro è diverso”22.

Anche il finale dei colloqui viene curato bene dagli operatori per-ché le separazioni posso essere traumatiche sia per le madri che per i figli. Nel caso di colloqui molto “intensi” dal punto di vista emotivo, da cui la detenuta esce molto provata o magari agitata, gli operatori del reparto colloqui comunicano – anche per iscritto – con le colleghe della sezione per segnalare un’attenzione particolare. D’abitudine, gli agenti si intrat-tengono un attimo con i familiari all’uscita dal colloquio: un’occasione per dire come è andata e come hanno visto il parente detenuto23.

Ma il rientro in cella dopo un breve momento vissuto in manie-ra così intensa può essere un rientro che porta con sé sensi di colpa, dolore e rimorsi... Ecco allora una sorta di “rinforzo” di attenzione e accompagnamento della detenuta per affrontare e rielaborare queste scomode sofferenze.

Una proposta che è stata avanzata dagli operatori carcerari è quel-lo di poter avere la possibilità di dedicare un momento di incontro esclusivamente a geni-tori e figli. Ciò si traduce in uno spazio apposito, “dove i bambini possano giocare tra di loro e i genitori hanno più tranquillità per parlare”, spazio in progettazione insieme a Telefono Azzurro. Ma si traduce anche in un tempo appositamente votato, un investimento dell’orario di apertura del reparto colloqui a specifico favore di questi incontri. Un investimento che

21 Ibidem.22 Ibidem.23 Ibidem.

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da episodico cerca di formalizzarsi in qualcosa di stabile e definitivo.La proposta di un tempo-colloquio dedicato alle famiglie (realizzabile più a breve termine) e dell’allestimento della ludoteca (che sembra richiedere tempi più prolungati) raccoglie l’esigenza di garantire ai bambini (e anche ai genitori) uno spazio più intimo, sereno e tranquillo per l’affetto e l’in-contro, per riannodare fili che la detenzione rischia di strappare24.

Ultimo trauma per i colloqui rimane la perquisizione dei bambi-ni all’ingresso del carcere. C’è da dire che gli agenti cercano di non spaventare e traumatizzare i bimbi all’entrata, talvolta scherzando e creando un clima più sereno e “leggero”. Anche se la richiesta sareb-be quella di avere, nei limiti della sicurezza, la possibilità per i bam-bini di evitare questa operazione.

C’è un ultimo problema che a Torino gli operatori sociali dentro il carcere sentono molto. Vale a dire l’applicabilità a tutto tondo della legge n. 40/2001 da tutti conosciuta come Legge Finocchiaro, che secondo gli operatori sarebbe scarsamente applicata. Più in generale educatori, assistenti sociali e tutti gli operatori richiedono più «car-cere fuori», cioè far vivere le donne recluse assieme ai loro figli in luoghi di detenzione alternativi che non costringano anche i bambini alla restrizione: “Alla luce della mia espe-rienza, mi viene da dire ‘bambini mai in carcere’: occorrerebbe pensare a soluzioni altre, sia per le madri recluse sia semplicemente per i colloqui, trovare soluzioni e contesti alternativi”. [...] “In generale si potrebbero uti-lizzare di più le leggi che ci sono, come la Finocchiaro, promuovendo la vicinanza fra madre e bambino fino al decimo anno di età25.

Ecco dunque che, sulla scia di queste affermazioni, c’è stato un tentativo di stipula di un protocollo d’intesa con il Comune di Tori-no per avere «strumenti come l’affidamento diurno o la predisposi-zione di strutture residenziali madre-bambino con un certo grado di protezione e sicurezza»26.

24 Ibidem.25 Ibidem.26 Ibidem.

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Mi sono sentita abbandonata! G., figlia di una ex detenuta

«Avevo 15 anni quando hanno arrestato mia madre. Sua sorella, che viveva con me e i nonni, ci ha spiegato cosa era successo. Inizialmente non volevo più sentir parlare di lei. L’avevo “cancellata” e infatti sono andata a trovarla solo dopo un anno. Lei era l’unico genitore che avevo, e mi aveva pratica-mente abbandonata!Sono stati i nonni e la zia che mi hanno fatto capire che comunque dovevo andare a farle visita, allora ci andavo solo una volta al mese ma per me era pesante lo stesso. Durante i colloqui parlavamo di cosa succedeva a me, scuola, scout, amici, ma si è parlato soprattutto di mio padre, morto quando avevo 4 anni. Lei aveva voluto aspettare che io fossi abbastanza grande per potermi raccontare la sua storia, e io volevo saperne di più. All’inizio mi vergognavo di quello che aveva fatto, ma adesso sono orgo-gliosa di come ne è uscita bene.Ricordo che nei primi permessi premio io non volevo che venisse a casa, ero ancora troppo arrabbiata con lei. Quando è arrivato l’affidamento ai servizi sociali, nell’ultima parte della pena, è venuta a vivere con noi e il clima in casa era pesante. La tensione potevi tagliarla con il coltello. La mamma la sentivo di troppo a casa. Da quando è andata a vivere da sola è stato un po’ più semplice. Io ero ancora un poco arrabbiata, ma pian piano ho visto che parlandoci since-ramente le cose stanno cambiando. Lei ha aspettato che fossi io a cercarla, rispettando i miei tempi. Ora sono i nonni le mie figure genitoriali. La mamma è come se fosse una zia. Se ho voglia di sentirla la chiamo. Anche abbastanza spesso. Que-st’estate mi ha lasciato le chiavi di casa sua dove ogni tanto ho dormito e organizzato qualche cena con le amiche. Anche quello è un modo per entrare in contatto con lei. Mi faceva piacere il fatto che fosse casa sua e che io potessi andarci liberamente. Il carcere non aiuta a mantenere i rapporti famigliari, i colloqui per i figli sono faticosi, gli spazi tristi, e adesso il nostro rapporto lo dobbiamo rico-struire partendo da zero»27.

27 Assenza di affetti, assenza di famiglia, rubrica curata da Ristretti Orizzonti su «Tempi di Fraternità», gennaio 2010.

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CINEMA E CARCERE

Anche la cinematografia italiana si è occupata di carcere, anche se numericamente non sono tante le pellicole su questo tema.

Sono stati soprattutto alcuni registi ed attori a dimostrarsi parti-colarmente sensibili alla tematica e alla drammaticità che lì dentro si vive. Questo tipo di cinematografia può essere tranquillamente classificato in quello che viene chiamato “neorealismo”. Pensiamo ad esempio a Mery per sempre dove il regista lascia i dialoghi nel dialetto siciliano, e dove viene descritto il degrado del carcere e del “brodo” di subcultura dove i ragazzi protagonisti si trovano a vivere.

Anche nell’ultimo film sull’argomento, Tutta colpa di Giuda, tro-viamo un regista ed una attrice sensibili all’argomento e che addirit-tura per molto tempo hanno fatto del volontariato in una struttura di detenzione.

Qui di seguito ne descriviamo brevemente cinque che ci paiono i più significativi. E forse gli unici che si conoscano. Si tratta di:❖ La retta via di Roberta Cortella e Marco Leopardi;❖ Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario;❖ L’aria salata di Alessandro Angelini;❖ Mery per sempre di Aurelio Grimaldi;❖ Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy.

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La retta via

REGIA: Roberta Cortella e Marco LeopardiGENERE: Film documentario PRODUZIONE: Diego D’Innocenzo, Terra S.r.l., in collaborazione con RAI TRE, OIKOTEN, con il supporto di Gobierno de Astu-rias, Blu Rent, CanonANNO DI PRODUZIONE: 2009

Due giovani detenuti, Ruben e Joachim, rispettivamente di 17 e 16 anni, sono stati selezionati da una Ong, Organizzazione non gover-nativa, «Oikoten», per prendere parte ad uno speciale programma di rieducazione: debbono percorrere oltre 2500 chilometri a piedi tra Belgio e Spagna, seguendo l’antico Cammino di Santiago de Com-postela. Se arriveranno alla mèta, rispettando tutti gli accordi con il giudice otterranno lo sconto della pena e saranno liberi.

Si tratta di una sfida che rappresenta per loro l’ultima possibilità di riflettere sul passato e gettare le basi di un nuovo loro futuro.

Nel documentario viene raccontato il mondo di questi ragazzi difficili ed i momenti più rappresentativi di questo singolare viaggio, documentandone le forti componenti umane ed avventurose, ma anche le sconfitte emotive.

Dal 1982 a oggi questa Organizzazione non governativa belga ha accompagnato annualmente sulla rotta del pellegrinaggio di Santia-go de Compostela una quindicina di giovani detenuti affidandoli ad un supporter.

Questo documentario è stato trasmesso in anteprima mondiale nell’ambito del programma DOC 3, il grande documentario in TV su RAI TRE il 17 settembre 2009.

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Tutta colpa di Giuda

REGIA: Davide FerrarioGENERE: Commedia in musicaATTORI PRINCIPALI: Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Gianluca Gob-bi e Luciana LittizzettoPRODUZIONE: Warner Bros ItaliaANNO DI PRODUZIONE: 2009

Ambientato e interamente girato alla Casa circondariale «Lo Russo e Cotugno» di Torino, il film, oltre agli attori principali sopra citati, vede come protagonisti anche detenuti veri tutti della sezione speri-mentale «Prometeo», vale a dire persone con problemi di droga, ed un solo ergastolano.

La storia parte da una domanda che lo stesso Ferrario si è posto in maniera provocatoria: «E se Giuda si fosse ribellato al suo destino e non avesse dato il bacio traditore?».

Ma il regista ci tiene a sottolineare che, da ateo convinto, ha pie-no rispetto per quelli che credono e che quindi il film non vuole es-sere una derisione della religione. «Provo solo a mettere in discussione alcuni miti portanti. Quindi se Giuda non avesse tradito Gesù, quest’ul-timo non sarebbe morto! Insomma se non avesse salvato il mondo con il suo sacrificio, come credono i cristiani, cosa sarebbe successo?».

Ed a questa domanda, nel film, prova a rispondere la giovane re-gista d’avanguardia Irena (Kasia Smutniak) dopo essere stata invitata dal cappellano del carcere (Gianluca Gobbi) a mettere in scena uno spettacolo teatrale stile musical che vede come attori i detenuti della sesta sezione del carcere stesso. Ecco che, assieme alla regista, i dete-nuti decidono di rappresentare un classico del cristianesimo, la «Pas-sione Pasquale».

Tutti gli ospiti della Casa circondariale inizialmente sono scettici, mentre il direttore della struttura (Fabio Troiano) invita a non esage-rare con i toni e le guardie da subito si dimostrano molto ostili.

Ma la regista non si dà per vinta iniziando le prove dello spetta-colo.

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Il problema viene però fuori quando, nell’attribuire agli attori i vari personaggi da rappresentare, nessuno vuole interpretare Giu-da. La motivazione gridata in coro dai detenuti: «Perché era un in-fame!».

Lo spettacolo verrà comunque fatto ugualmente e la regista tro-verà un finale a sorpresa per il musical. Cioè perché non pensare alla storia di Gesù in un altro modo? Una storia che non preveda tradimento, condanna, punizione e morte? Una storia che finisca bene? I detenuti, pur non afferrando le implicazioni filosofiche, apprezzano la scelta: purché sia contro la galera...1.

Da quello che il regista Ferrario ha fatto sapere ai giornali, quan-do il film è uscito nell’aprile 2009 nelle sale cinematografiche, affiora una sua notevole sensibilità sull’argomento carcere.

Lui stesso, dal sito internet ufficiale del film, dice: Ho cominciato a frequentare il carcere nove anni fa, in modo abbastanza casuale. Mi fu chiesto di fare due lezioni di montaggio a un corso di for-mazione professionale per video-editor e operatori che si teneva a San Vit-tore. Doveva essere una cosa una tantum, ma l’impatto con il gruppo dei detenuti che frequentava quel corso fu così forte che chiesi un permesso da volontario e da allora continuo a lavorare “dentro”2.

Nel 2004 poi Ferrario smette di andare a San Vittore e, per va-ri motivi, si trasferisce a Torino dove entra nella Casa circondariale «Lorusso e Cotugno». «La situazione però qui è molto diversa», con-tinua il regista.A Milano stavo al Penale, e cioè a contatto di condannati a pene molto lunghe, ergastolani, rapinatori, omicidi, anche alcuni BR mai pentiti; alle Vallette frequento la sezione Prometeo, una sezione sperimentale che è come la descrive don Iridio nel film: delinquenti di piccolo calibro, quasi tutti con problemi di droga – anche se in sezione ci sono alcuni condan-nati per reati più importanti e anche un ergastolano. Tanto è vero che nel 2006 eravamo già pronti a girare, ma poi arrivò l’indulto e quell’agosto ci

1 http://filmup.leonardo.it/sc_tuttacolpadigiuda.htm2 http://www.mymovies.it/tuttacolpadigiuda/davideferrario/

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ritrovammo in sezione solo io e l’ergastolano... Ci è voluto un altro anno per ricostruire un gruppo3.

Luciana Littizzetto era già andata in carcere, in altre occasioni, con Davide Ferrario (di cui è amica da lunga data) a dare una mano come volontaria alle Vallette di Torino ed accettando di fare la parte di suor Bonaria.

Invece Kasia Smutniak prima di entrare in carcere pareva essere molto preoccupata. Cosa che invece non è stato e lei stessa ha det-to: Ho incontrato i detenuti e tutti si sono presentati dandomi la mano. Se pensi che sui set a volte gli altri attori nemmeno ti salutano. Mi sono detta: forse è nel nostro mondo che non funziona qualcosa, più che nel loro.

L’aria salata

REGIA: Alessandro AngeliniGENERE: Film Drammatico ATTORI PRINCIPALI: Giorgio Pasotti, Giorgio Colangeli, Michela CesconPRODUZIONE: Bianca Film e RAI CinemaANNO DI PRODUZIONE: 2006

Fabio (Giorgio Pasotti) fa l’educatore in carcere a Rebibbia per il reinserimento nella società dei detenuti. Seppur giovane, il ragazzo dimostra fin da subito grande maturità e determinazione nel difficile lavoro che svolge. In realtà la sua scelta di lavorare nel penitenziario nasce da un’esigenza interiore maturata in seguito al dramma che ha colpito lui e sua sorella da piccoli, quando loro padre fu condannato per aver commesso un omicidio. Un giorno, in carcere, gli viene affi-dato il detenuto Sparti (Giorgio Colangeli), cioè suo padre. L’incon-tro sarà per il giovane educatore l’inizio di un viaggio nella memoria e di una lotta con i fantasmi di un doloroso passato che ritornano

3 Ibidem.

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violentemente nella sua vita. Egli si scontrerà anche con la sorella Cristina (Michela Cescon) che non vuole riaprire vecchie ferite che mettano a repentaglio la tranquillità della loro vita attuale.

Per questo film nel 2006 Giorgio Colangeli è stato premiato al Cinema Festa internazionale di Roma per la miglior interpretazione maschile, mentre lo stesso Colangeli nel 2007 ha ricevuto il David di Donatello come miglior attore non protagonista, mentre nella stessa occasione il David è stato dato anche come miglior produttore.

Mery per sempre

REGIA: Marco RisiGENERE: Film Drammatico (tratto dall’omonimo romanzo di Aure-lio Grimaldi) ATTORI PRINCIPALI: Michele Placido, Claudio Amendola, Alessan-dro Di Sanzo, Francesco BenignoPRODUZIONE: Numero Uno CinematograficaANNO DI PRODUZIONE: 1989

L’intera vicenda si svolge all’interno del carcere minorile Malaspina di Palermo.

È la storia del professor Marco Terzi (Michele Placido), docente di liceo, privo di una sede fissa e che, in attesa di trasferimento, ac-cetta di insegnare nella scuola del carcere minorile palermitano.

Da subito però i rapporti tra docente ed alunni si fanno tesi e problematici in quanto i giovani detenuti lo rifiutano. Ci sono so-prattutto due ragazzi che lo sfidano apertamente: uno di loro, Nata-le (Francesco Benigno), ha sempre un atteggiamento provocatorio, mentre l’altro, Pietro (Claudio Amendola), è silenzioso, solitario e vede nel professore una sorta di sbirro, disinteressandosi delle sue le-zioni. C’è poi in classe anche Mery (Alessandro Di Sanzo), transes-suale, che invece si innamora del professor Terzi. Respinto, Mery lo denuncerà accusandolo alle autorità carcerarie di aver favorito la fu-ga di Pietro.

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Ma il professor Terzi non demorde e, con ostinata passione per il suo lavoro, riuscirà ad ottenere fiducia e stima da parte dei suoi alunni dentro il carcere minorile. Fin al punto che, quando arrive-rà la lettera di trasferimento, la strapperà davanti agli occhi dei suoi alunni.

Al professor Terzi non interessa molto ciò che insegna, l’italia-no, ma la sua umanità, il suo impegno e la sua coscienza civile. Egli ha ancora la forza, nonostante le angherie e le provocazioni dei suoi alunni, di reagire democraticamente e conquista i suoi alunni car-cerati comunicando loro la sua sincera solidarietà e la sua umana partecipazione. Egli conquista la loro fiducia ed essi capiscono che il professore è l’unico riferimento positivo in grado di comprender-li e di aiutarli. Anche se, forse, non riusciranno a convertirsi alle re-gole ed alla legalità, rimanendo purtroppo vittime della subcultura delinquenziale dove sono nati e cresciuti e che, a tratti, domina an-che nello stesso carcere dove sono rinchiusi. Emblematica l’ultima scena: quell’albero che chiude il film potrà un domani dare qualche frutto.

Detenuto in attesa di giudizio

REGIA: Nanny LoyGENERE: Film DrammaticoATTORI PRINCIPALI: Alberto Sordi, Elga Andersen, Andrea Aureli, Lino Banfi, Nazzareno Natale, Michele Gammino, Silvio Spaccesi, Tano Cimarosa, Giovanni Pallavicino, Luca Sportalli, Antonio Ca-sagrande, Mario Pisu, Giuseppe Anatrelli, Mario BregaPRODUZIONE: Documento FilmANNO DI PRODUZIONE: 1971

È la storia di un italiano, Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi), da anni trasferitosi in Svezia e divenuto uno stimato geometra, che decide di venire in Italia con la famiglia. Però alla frontiera va incontro ad una grottesca vicissitudine: viene fermato ed arrestato senza avere nessu-

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na spiegazione. Convinto che si tratti di un equivoco, il geometra Di Noi viene condotto in carcere di isolamento e di lì comincerà una sorta di calvario fatta di umiliazioni e trattamenti spersonalizzati al-l’interno della struttura di detenzione italiana. L’incubo sembra non avere termine quando, invece, grazie alla moglie e al suo avvocato, Giuseppe Di Noi riuscirà a dimostrare che si è trattato di un errore ed otterrà la scarcerazione. Però quando il protagonista dell’assurda vicenda riconquisterà la libertà sarà un uomo distrutto psicologica-mente e fisicamente.

Quella descritto dal regista Nanni Loy è una situazione a dir po-co kafkiana che, per la prima volta, suscitò enorme scalpore: quel-l’opera cinematografica denunciava senza mezzi termini l’arretratez-za e la drammatica inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiani.

Per quel film Alberto Sordi nel 1972 ricevette il David di Dona-tello come miglior attore protagonista, mentre ricevette anche il pre-mio per miglior attore al Festival di Berlino.

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APPELLO PER LA TUTELA ART. 27 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA

La redazione di «Ristretti Orizzonti», giornale dal carcere di Pado-va, ha lanciato questo Appello come denuncia del sovraffollamento delle carceri italiane, del personale sotto organico e della mancanza totale di dignità della persona umana. Nonché, punto fondamenta-le, per il rispetto della Costituzione italiana sempre più spesso cal-pestata e ridotta a carta straccia. Il testo dell’Appello che riportiamo integralmente qui sotto è stato sottoscritto da migliaia e migliaia di cittadini italiani.

Difendiamo l’Articolo 27 della Costituzione!

Educhereste i vostri figli al rispetto della legalità facendoli crescere in un ambiente dove è impossibile rispettare la legge?

Nelle carceri italiane ci sono 43.117 posti regolamentari e qua-si 64.000 detenuti. Stipati uno sull’altro. Il personale sotto organico è costretto a lavorare in condizioni di pesante disagio e tensione. In questa situazione viene meno anche la dignità e l’umanità delle per-sone detenute.

Nelle sovraffollate carceri italiane, le persone che dovrebbero ini-ziare un percorso graduale di reinserimento nella società, sono inve-ce sempre più spesso rinchiuse nelle celle a non far niente.

L’articolo 27 della Costituzione italiana dice:«La responsabilità penale è personale.L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definiti-

va.

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Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte».I cittadini italiani chiedono sicurezza. Hanno diritto alla sicurez-

za. Ma in che modo parcheggiare in celle invivibili i detenuti in at-tesa di nulla contribuisce alla sicurezza?

Non conviene a nessuno che una persona che ha commesso un reato esca di galera forse peggiore di come ci è entrata. Se i cittadini liberi ci riflettessero più spesso, forse smetterebbero di pensare che la soluzione a ogni problema sia prevedere sempre più galera per chi viola la legge.

Oggi abbiamo superato non solo la capienza regolamentare delle carceri, ma anche quella ritenuta dal Ministero della Giustizia “tol-lerabile”. E le previsioni parlano di aumento esponenziale di “tem-po inutile”, perché manca il personale, mancano attività lavorative, mancano spazi.

Ci serve davvero più carcere, o ci serve un carcere diverso?Il carcere ci serve e ci rassicura quando è previsto:

• per chi costituisce realmente un pericolo per la società.Il carcere NON ci serve e NON ci rassicura quando è previsto:

• per chi sta male e avrebbe bisogno di essere curato;• per chi ha problemi con la droga;• per chi è giovane e potrebbe essere aiutato con pene diverse dalla

detenzione, piuttosto che parcheggiato in un luogo “intollerabi-le” come le attuali galere;

• forse non serve più neppure per parecchi di quei 20.000 detenuti che stanno dentro con meno di tre anni di pena ancora da scon-tare (di cui quasi 9.000 ne hanno meno di uno) e ci farebbero sentire tutti più sicuri se invece potessero scontare l’ultima parte della loro pena in misura alternativa, lavorando per costruirsi un futuro decente.L’articolo 27 della Costituzione ci fornisce la più moderna solu-

zione ai problemi della sicurezza: una pena che abbia un senso e che dia speranza. Teniamocelo stretto!

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RAGAZZI IN CARCERETESTIMONIANZE DI STUDENTI

E DOCENTI DELLA PROVINCIA DI TORINO

Il carcere: un ambiente possibile per la «rieducazione»

Gruppo classe 5BSS e 5ASS (liceo delle scienze sociali di Lanzo To-rinese), lo stesso accadrà in gennaio 2009 con un gruppo della classe 4ASS.

È un mattino di inizio ottobre 2009, sono quasi le nove. Sono di fronte al carcere «Lorusso-Cotugno» alias «Vallette» di Torino. Ra-gazze e ragazzi arrivano: è per loro il terzo giorno di stage. Sono or-mai «esperti» e si muovono in modo disinvolto.

L’educatrice ci accoglie, inizia così la visita al padiglione femmi-nile: laboratori, nido, cooperativa di lavoro... il copione si ripete il giorno successivo con qualche variante, al maschile. Termina con l’incontro nella serra del carcere e a «Pausa Café», la cooperativa di lavorazione del caffè secondo gli standard del commercio equo e so-lidale.

Lo stage si rivela un’esperienza densa e trasformativa. Quante co-se apprendo, prima ignorate o soltanto immaginate; quale intensità di emozioni e suggestioni il luogo mi procura. Una su tutte: «Que-sto è e resta un carcere», il simbolo della non-libertà. Sembrerebbe un’ovvietà, ma così non è. Dialogando con alcuni educatori e con il direttore – una persona estremamente illuminata e coraggiosa per le scelte che attua nel suo esercizio del potere – emerge come per la maggioranza delle detenute e dei detenuti, la libertà non sia l’ele-mento principale dell’esistenza, o forse non lo possa essere.

Può sembrare un paradosso, ma molte persone in condizioni di privazione e di degrado (materiale e/o umano), senza il carcere non saprebbero vivere.

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L’istituzione totale, che resta tale nonostante i migliori rapporti tra detenuti e agenti di custodia, nonostante la presenza di educato-ri, psicologi, assistenti sociali, i volontari, la scuola e l’università, ti controlla, riorganizza, irreggimenta la vita quotidiana; dal fumare la sigaretta, ad andare in bagno, e, senza, dopo tanti anni di detenzio-ne, soprattutto se fuori non c’è qualcuno o qualcosa che ti aspetta... comporta il reimparare a vivere.

In questo senso ho apprezzato molto l’impegno del direttore di Torino per tentare di creare un ambiente possibile per la «rieducazio-ne». Eh sì, la funzione del carcere non dovrebbe essere solo punitiva, ma reintegrativa. Il problema è che c’è un «mondo-fuori» che è spe-culare alla realtà carceraria. La realtà esterna è spesso contraddittoria, è complessa, non semplificabile in una formula, intrisa di bene e di male, dunque anche iniqua, non accogliente, non educante. Se hai sbagliato sei stigmatizzato, per sempre, spesso senza se e senza ma. Così se un individuo non cresce vivendo esperienze significative a partire dalla famiglia, dalla scuola, i luoghi della prima socializzazio-ne, se non sente che ciò che conta non è solo qualcosa di materiale e tangibile e soprattutto se questo materiale essenziale per vivere (cibo, vestiti, una casa) gli manca, può accadere di deviare. Non voglio giu-stificare e neppure formulare giudizi, ma osservare e riflettere.

Quante/i, una volta uscite/i dal carcere, riescono a farcela? Qual-cuna/o, qualche volta.

Allora comprendo ancora di più quanto abbiamo da impegnarci, ciascuno nel proprio ambito di vita, per migliorare questa società.

Penso alla scuola, alla nostra scuola. Sono privilegiate/i le/i no-stre/i ragazze/i, perché se ne hanno la profondità, possono cogliere gli spaccati, i nodi e alcune contraddizioni della nostra realtà. Pos-sono incontrare gli esseri umani nella loro complessità: la loro gran-dezza e la loro miseria. E divenire consapevoli. E rendersi conto di come è essenziale investire e costruire nell’educazione, nella scuola, nelle relazioni, nell’accoglienza, nel lavoro che dà dignità alla vita, e non solo, ma anche, il pane per sfamarsi.

Il tutto, diversamente da quanto propinano le illusioni mediani-che, a prezzo di fatica, di responsabilità, di passione.

Chiara Giacometti, insegnante

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Entrando in carcere

Vi raccontiamo cosa si prova quando si entra nel carcere delle «Val-lette», ora chiamato «Lorusso-Cotugno».

Già da lontano vedi la mastodontica cancellata bianca. È alta sei metri. Delimita tutto il perimetro.

Ti avvicini alla porta d’ingresso. Saluti. Una guardia ti chiede il documento d’identità. Lo guarda e lo ritira.

Al suo posto ti dà un pass accompagnato dalle fatidiche parole: «Mi raccomando, non lo perda!».

«No, no» gli rispondi spaventato. Così spaventato che quasi non riesci a deglutire.

Terrorizzato entri, anzi prima lanci un’ultima occhiata alla lunga fila di persone che aspettava con grandi buste in mano. Sono i pa-renti dei detenuti.

Immediatamente alle tue spalle si chiude la prima porta.Sei in un enorme piazzale d’asfalto.Alla tua sinistra c’è l’edificio adibito al pernottamento delle guar-

die carcerarie.Davanti a te vedi tanti uffici. Ma per entrare nel carcere vero e

proprio devi oltrepassare un altro cancello.Entri. Nuovamente ti chiedono: «Chi è lei?»; tu non puoi rispon-

dere o almeno non puoi dargli il tuo documento, in quanto l’hanno trattenuto all’entrata.

Spaesato gli mostri il famoso pass, perché è quello lì che ti iden-tifica.

La guardia lo osserva, ti perquisisce e ti domanda: «Ha il cellu-lare?».

«Sì» tu rispondi.«Bene, allora lo posi» ti ordina.«Ma come?! Non posso portarlo con me?» domando sempre più

preoccupato.«No e mi raccomando non perda il pass».In quel momento rifletti davvero sull’importanza di quel cartelli-

no plastificato, sgualcito e rovinato sugli angoli: è l’unica possibilità di tornare in contatto con l’esterno.

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Perplesso attraversi un’altra porta e dietro te rimbomba nuova-mente il rumore metallico del cancello.

Sei in un altro cortile, anch’esso recintato, ma questa volta da un muro di cemento altissimo, talmente alto che vedi solo metà del cie-lo.

Angosciato ti dirigi verso il padiglione E dove sono detenuti uo-mini che oltre ad aver commesso un reato sono anche malati di AI-DS. Questi uomini, uomini come noi, ma puniti dalla legge e pu-niti dalla vita.

Intanto, all’entrata, due ragazzi arrivano con la volante della poli-zia. Magari, ieri sera, non avevano soldi per fare benzina.

Cristina Morella Diletta Mannina

Serena NicolettiBarbara Reina Edoardo Barra

Una vita in carcere

Torino – Carcere delle «Vallette».Il nostro stage è durato cinque giorni, chiusi dentro le mura di

un carcere, non ci sentivamo liberi neanche noi ragazzi. Usciti di lì sembrava di respirare di nuovo.

Si è chiusi, chiusi tutto il giorno, a pensare: cos’è stata la vita? Quella buttata dietro le sbarre.

Le uniche ore per uscire sono due al mattino e due al pomeriggio, per respirare di nuovo lo smog della città. Quello stesso smog che si vorrebbe respirare tutti i giorni, pur di essere liberi.

Nel carcere i detenuti, se guidati da una buona condotta, posso-no frequentare la scuola interna, o i corsi d’arte e di lavorazione del legno, tanto che ci sono persone che arrivano a laurearsi, seguendo le lezioni universitarie.

«È un modo per passare la giornata» dicono alcuni detenuti, ma noi, i liberi, non pensiamo che con questo possano liberarsi dal pen-

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siero del crimine commesso; la colpa è costante nei loro pensieri, an-che se distratti dal lavoro.

Lavorano, passano del tempo con i loro compagni, ma nei pen-sieri c’è la loro vita fuori. Tutto quello che al di fuori riempiva le giornate ora non c’è più. Tutti i giorni sono uguali, tutte le notti provi a prendere sonno, ma è quasi impossibile.È come un fischio continuo che hai in testa e non riesci a mandare via.In carcere la giornata è scandita da regole, da orari, da ordini.La vita non appartiene più a te; cerchi di sorridere e scherzare, ma sei sempre consapevole che c’è un vuoto al tuo orizzonte, il nulla.

Ci accolgono in quel luogo, dove ora si svolgono tutte le loro giornate; siamo una novità, un «evento», parliamo con loro e ci con-frontiamo.

Per noi è un gioco, è bello entrare lì in quei giorni, ma per loro non è affatto un gioco. Perché non hanno più niente. È una vita che non appartiene più a loro.

Noi ragazzi usciamo da quei cancelli e torniamo dalle nostre fa-miglie, dai nostri amici e raccontiamo l’emozionante esperienza; lo-ro non possono farlo, non possono tornare a casa e raccontare ai lo-ro amici quello che hanno visto e sentito, perché sono in carcere. Gli educatori, i poliziotti penitenziari, le figure religiose, lì all’interno, cercano di aiutarli a reintegrarsi nella società, ad alcuni di loro viene data l’opportunità di lavorare in una delle cooperative che ci sono al-l’interno del carcere, per avere poi fuori una possibilità di lavoro.

È questa la politica del carcere delle Vallette: dare un’opportunità per poter tornare alla normalità di tutti i giorni, per ricostruirsi un futuro e riacquistare fiducia in se stessi.

Marika Borgarello

Come in un film

È stato esattamente come se ci avessero catapultati di colpo in un film, intorno a noi vedevamo l’asfalto, il cancello altissimo bianco del carcere e una serie di edifici alti con finestre e porte sbarrate.

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Queste sono le parole di uno di noi, studente della classe quarta del Liceo delle Scienze Sociali dell’Istituto Albert di Lanzo Torinese.

Abbiamo trascorso quattro mattinate, nella settimana dal 26 al 30 gennaio 2009, completamente immersi nella realtà della Casa circondariale delle «Vallette» di Torino.

Oltre a visitare tutti i padiglioni di cui è composta la struttu-ra, compresa la comunità per i tossicodipendenti, abbiamo avuto la possibilità di dialogare direttamente con molti detenuti che si sono rivelati persone “normali”, rispettose e disponibili al dialogo.Pur essendo un’operazione banale, la consegna della carta d’identità è stato il primo evento a scuoterci un po’, è stato proprio come lasciare la città ed entrare in un mondo parallelo, dove tutti noi diventavamo improvvisa-mente visitatori numero...

Il clima che si respira in carcere non è di tensione, è nel com-plesso un clima sereno; le guardie della Polizia penitenziaria non sono terribili aguzzini come spesso vengono descritti nei libri e nei film, cercano anzi di instaurare un rapporto basato sul dialogo e sul-la comprensione reciproca.

Il direttore del carcere, il dottor Buffa, così come gli altri educa-tori, ci ha riferito che l’organizzazione della struttura è basata sul la-voro. Sono presenti infatti all’interno del carcere varie cooperative («Pausa Caffè», «Punto a Capo») oltre a scuole, dalle elementari al-l’università. In questo modo si intende offrire ai detenuti più meri-tevoli una possibilità maggiore di reintegrarsi nel mondo del lavoro una volta scontata la pena, facilitando così l’inserimento nella realtà sociale del mondo esterno.L’impressione che tutti noi abbiamo avuto del carcere è stata senz’altro positiva ed ancora di più lo è stata la conoscenza con i detenuti, che non sono mostri di cui avere paura.

Abbiamo capito che non è l’emarginazione lo strumento adatto a recuperare e a rieducare chi ha sbagliato, anzi l’aiuto per il reinseri-mento nella società è sicuramente l’atteggiamento più umano e po-sitivo che si possa assumere nei confronti di chi deve riscoprire l’im-portanza di sentirsi utile e non «pericoloso» per la società.

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Tutti i detenuti incontrati sono stati molto ospitali, hanno fatto il possibile per farci sentire a nostro agio, per incontrare chi «è fuori».

Dopo questa esperienza ci sentiamo di dire che, modificando l’organizzazione delle carceri in Italia, e cercando di trasformare il percorso di detenzione in un utile cammino di formazione e cresci-ta, si può dare concretamente una mano ai detenuti per evitare che una volta inseriti nuovamente nella società perseverino nel commet-tere reati.

Francesca Martinetto

L’importanza della libertà

Sono lì. Proprio sopra la porta, riquadrate, tutte insieme, vicine, così che, quando lo sguardo le cattura, le emozioni si intrecciano e ti lasciano senza fiato, dalla tristezza all’angoscia, e poi subito dopo la speranza che magari quel ragazzo che è lì seduto che parla con l’edu-catrice un giorno esca dal carcere con la tenacia che ha una persona che rivuole indietro la propria vita e vuole tenersela stretta. Quelle foto mi hanno toccata molto, tutte vedono riquadrata una bellissima bimba, mi sono chiesta come la felicità di un figlio non riesca ad aiu-tare un padre, ma probabilmente c’è qualcosa da inseguire più forte della vera felicità, che purtroppo però non riesce a rendere liberi.

Da questo stage ho imparato veramente molte cose, per prima l’importanza della libertà: penso che sia essenziale per una persona, e quando ti viene tolta hai perso una buona parte di te stesso. Infat-ti in carcere la prima punizione che viene inflitta è proprio questa, e penso che sia quella più dura.

Ma la cosa forse più importante che ho compreso è che nella vi-ta, per tenerci stretta la libertà, non dobbiamo scegliere la strada più semplice, solo perché meno dura e senza ostacoli, ma quella più im-pegnativa che però rende liberi. Le persone che sono in carcere han-no scelto di affrontare una vita facile senza dover lottare per quello in cui credono, mentre bisognerebbe non arrendersi per non essere privati di tutto.

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Questa esperienza ha fortificato il mio modo di concepire la vita, come qualcosa da non sprecare ma da apprezzare in tutto ciò che ci offre, sia i momenti belli sia quelli dolorosi.

Federica Torretta

Tutto il contrario della televisione

Felicità, ansia, curiosità, paura hanno colpito i giovani della scuola superiore di Lanzo Torinese che dal 26 al 30 di gennaio 2009 si sono recati al carcere delle «Vallette» di Torino. Non si tratta di omicidi, furti, droga ecc. ma di un semplice stage organizzato da alcuni pro-fessori dell’istituto superiore «F. Albert».

«Tutto il contrario di come ci viene raccontato alla televisione!», esclama qualcuno di loro. Sono queste le prime parole della maggior parte dei ragazzi che hanno avuto la possibilità di visitare questo luo-go. Le guardie e i detenuti nei film ti vengono presentati come perso-ne crudeli, ben poco disposte ad avere un contatto fra di loro e con gli altri, associali... insomma, cattivi. Tutto il contrario di quello che viene raccontato dai ragazzi ospiti.

Il rapporto che c’è tra le guardie e i detenuti è davvero bello. Mol-ti dei carcerati si confidano, chiacchierano e scherzano con la Polizia penitenziaria come se fossero amici stretti; la stessa cosa vale per le guardie, che dicono di aver imparato a trattare i detenuti tutti allo stesso modo: dopo tanto tempo che si sta con loro li si conosce, non interessa sapere quale tipo di reato hanno commesso e mai si sono permessi di domandarlo.

Tutto ciò però non esclude il fatto che tra detenuti e guardie ci debba sempre essere rispetto, verso la persona e verso le regole. Que-sti elementi portano così ad un rapporto di fiducia, e quindi a privi-legi e alla possibilità di svolgere attività (ad esempio falegnami, elet-tricisti, porta vitto...) che distraggono e preparano il detenuto per quando poi uscirà e dovrà fare i conti con la realtà. Chi, invece, non mantiene una buona condotta rimane in cella per tutto il giorno e ha solo la possibilità di due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio, per poi tornare in cella.

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Gli studenti hanno avuto la possibilità di confrontarsi con alcuni dei detenuti, e tutti sono rimasti stupiti dalla generosità e della di-sponibilità che i carcerati hanno prestato ad ogni incontro. I ragazzi hanno avuto la conferma che essi non sono né scortesi, né asociali, né scontrosi, ma persone come noi che hanno sbagliato e ora stanno scontando la loro pena.

Molti di loro pare che abbiano capito il motivo per cui sono fi-niti in carcere, e adesso non vedono l’ora di uscire per ricominciare una vita più sana e felice vicino ai propri cari, cercando di recupera-re i giorni persi.

Rossana Zauri

Liceali a contatto con la realtà del carcere

Presso il liceo delle scienze sociali «F. Albert» di Lanzo, nel mese di gennaio 2009 la classe quarta ha svolto uno stage. L’attività è inse-rita ormai da anni nel programma di questo indirizzo liceale e può essere svolta in diverse realtà, dalla scuola elementare all’asilo nido, dal centro psichiatrico alla casa di riposo, e anche alla Casa circon-dariale «Lorusso-Cotugno». Noi studenti della quarta ASS abbiamo trascorso quattro giorni in questo carcere torinese, in un contesto a noi sconosciuto.

L’obiettivo degli stage è cognitivo: dobbiamo osservare le realtà sociali che ci circondano, così da intraprendere un percorso di ma-turazione e ampliamento delle conoscenze.

In particolare, l’obiettivo che ci siamo prefissati in preparazione allo stage è stato principalmente di capire se il carcere possa rieduca-re i detenuti, in modo che, una volta scontata la pena, essi non com-mettano più reati. L’incontro con le «figure di rilievo», quali don Al-fredo – uno dei due cappellani – e il direttore Pietro Buffa ma an-che gli educatori, ci ha fatto riflettere a lungo: abbiamo affrontato il tema della rieducazione parlando direttamente con chi quotidiana-mente è a contatto con i carcerati e cerca soluzioni che rieduchino.

Abbiamo visitato la Casa circondariale in molte parti: la lavande-ria, la cucina, la palestra, la scuola, la falegnameria, la parte ospeda-

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liera, il padiglione dove sono detenute le donne (con i bambini che vivono in carcere da zero a tre anni), fino alla torrefazione del caffè.

Nei quattro giorni di stage sono state tante le emozioni e le ri-flessioni. Di fronte ad un carcerato è spontaneo rivalutare la propria libertà e apprezzarla maggiormente. Abbiamo potuto interagire più volte con i detenuti, incontrando i ragazzi tossicodipendenti alla se-zione Arcobaleno, ascoltando le opinioni dei carcerati stranieri e l’ul-timo giorno quelle dei giovani detenuti nella sezione Prometeo (per i malati di HIV).

Il carcere torinese è una città nella città, vi sono più di millecin-quecento detenuti: il numero di reati commessi in una nazione è un problema da non sottovalutare. La punizione per coloro che hanno commesso reati deve esserci e deve consapevolizzarli; don Alfredo di-ce al detenuto: «Hai fatto del male, puoi fare del bene». L’importante è che si rendano conto di aver sbagliato, di aver fatto male ad altre persone e più in generale alla società di cui fanno parte. Nessuno è perfetto, ognuno di noi commette degli errori, qualcuno in modo meno grave, qualcuno in modo più grave, ma è fondamentale pen-tirsi e cambiare. Se hai passato un periodo in carcere hai potuto pen-tirti più e più volte e puoi cambiare, devi solo volerlo tu.

Abbiamo avuto a che fare con una realtà molto diversa da quella che viene presentata all’esterno. Ciò che più ha fatto riflettere è che ai carcerati è data la possibilità di lavorare e di studiare.

Si è parlato molto di libertà, e di sicuro nell’ambiente carcerario la libertà è poca.

In questo carcere torinese, però, i detenuti che hanno commesso reati di minor gravità e che in carcere hanno tenuto una buona con-dotta per un determinato periodo di tempo, sono in un certo senso avvantaggiati rispetto agli altri: possono uscire dalla cella e lavorare o studiare all’interno del carcere per alcune ore. Viene infatti offerta loro la possibilità di frequentare corsi scolastici, qualunque sia il li-vello da cui essi partono (dalle elementari all’università), o di impa-rare un lavoro. Questa è una concessione di libertà che agli altri, che devono passare 20-22 ore in cella, non viene data.

Tutto si ricollega alla funzione rieducativa del carcere. Se n’è par-lato molto durante tutto lo stage, e forse per ognuno di noi la con-

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clusione è diversa. Alcuni pensano che concedere ai carcerati ore di lavoro o scuola li distragga dal loro scontare la pena, e quindi dal pensare realmente a ciò che hanno fatto e che non dovrebbero rifare. Se si vuole in un certo modo rieducarli, però, è utile adottare questo metodo. Molti dei carcerati sono persone che prima del reato non la-voravano, e far comprendere il giusto valore del lavoro a chi non l’ha percepito finora significa ridurre il rischio che, una volta scontata la pena, si torni a commettere reati e perciò a rifare gli stessi errori.

I detenuti sono al chiuso, in un ambiente che non è la loro casa, non è la loro famiglia, non è la vera società, devono seguire determi-nate regole mentre scontano la pena. Possono però almeno sentirsi realizzati e soddisfatti del proprio risultato lavorativo o scolastico, ed una volta usciti applicare poi le conoscenze apprese all’esterno del carcere. Bisogna comunque ricordare che queste possibilità vengono concesse soltanto a coloro che hanno un comportamento corretto, perché hanno lo scopo d’insegnare come funzioni la realtà esterna: se ti comporti nel modo giusto e non rechi danno, puoi far parte della società e ricevere.

Ovviamente il percorso è lungo; per alcuni può funzionare e per altri no, ma resta il fatto che il carcere comporta una sorta di shock ed il trattamento non può essere disumano a tutti gli effetti, perché altrimenti si raddoppia la violenza e la maggioranza di noi non vuo-le una società violenta. Vi dev’essere la punizione, ovvero il periodo di detenzione, accompagnata da aiuti, quali ad esempio quello degli educatori e dei servizi sociali al momento della scarcerazione.

Se il carcerato, che lavorava in carcere, terminata la detenzione non ha più il permesso di soggiorno, una volta uscito è di nuovo da capo, non ha lavoro, nessuno può darglielo legalmente e molto pro-babilmente ruberà per vivere o commetterà qualche altro reato. An-che il caso del carcerato regolare presenta dei problemi, perché nella società esterna al carcere molto probabilmente si preferisce assumere una persona senza reati alle spalle piuttosto che un carcerato appena uscito. È necessario perciò un aiuto nel momento in cui un detenuto finisce lo sconto della pena.

Il carcere fa parte della nostra società e farvi uno stage di quattro

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giorni è una grande occasione che la scuola dà agli allievi. Ci siamo resi conto dell’importanza dell’esperienza, date le scarse possibilità in futuro di osservare la realtà carceraria con uno sguardo così rav-vicinato.

Analizzare la condizione dei carcerati è molto difficile; spesso so-no persone cresciute in un contesto familiare sfavorevole e violento, e non hanno le basi per comportarsi nel modo giusto, perciò cedono e commettono reati. È necessario tentare di diminuire il numero dei detenuti e rieducare per migliorare la società. Non ci si deve arren-dere, e gli operatori del carcere «Lorusso-Cotugno» non sembrano arrendersi, anzi continuano il loro percorso con il principale intento di rieducare questi detenuti, detenuti che vivono un’esistenza in cui colpa e sfortuna s’intrecciano strettamente.

Maria Peretto

Da anni porto i miei allievi in carcere. Classi sempre nuove ogni anno si avvicendano e ogni anno si rinnova l’entusiasmo per questa esperienza. Io stesso ogni volta le accompagno, e anche in me questo entusiasmo si rinnova. Ogni volta capisco qualcosa di nuovo: nel carcere, nei ragazzi, in me. Il punto è che il carcere è uno straordi-nario specchio, in cui ciascun visitatore scopre se stesso come mai si era immaginato di essere.

L’idea del carcere si collega a quella della colpa e dell’esclusione: quando veniamo a sapere di misfatti, talora anche gravi, che giun-gono a turbare quella che vorremmo fosse la civile convivenza, una richiesta prorompe dalle viscere: metteteli in carcere! Si esprime in questa richiesta un’esigenza di giustizia: il bisogno di sapere che la colpa è punita, che l’offesa inferta al corpo sociale è stata riparata. Si esprime però anche la tentazione di rimuovere: come se, una volta che i rei siano in carcere, il problema che rappresentano venga meno. Raramente ci si interroga intorno a quel che ne è di loro una volta dentro, se non per il timore che escano troppo presto: nel qual caso il problema tornerebbe in circolazione, con tutto il suo carico di in-quietudine.

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Genericamente si ama pensare che il periodo di reclusione sia un periodo in cui si tenta un recupero, in cui ci si adopera perché le persone, una volta uscite, siano diverse da come sono entrate, cioè ravvedute, non più un pericolo per gli altri; ma si sa anche che solo raramente ciò avviene, che anzi spesso si esce peggiori, più incattivi-ti o più “professionali” sulla via del crimine. Altri pensieri per fortu-na raramente affiorano alla coscienza, come i costi astronomici che il carcere comporta: se affiorassero, la richiesta di rinchiudere al più presto quanta più gente possibile e tenercela fin che si può entre-rebbe in palese contraddizione. Talora ci si limita a lamentare che le condizioni del carcere non siano abbastanza dure, che sia come in albergo, con la televisione e altri comfort. Per fortuna non si sa che, almeno in alcune situazioni come il «Lorusso-Cotugno» di Torino, le attività di recupero sono così sviluppate da creare opportunità, di studio e di lavoro, che spesso non ci sono fuori: dico per fortuna per-ché si equivocherebbe, finendo per pensare che chi si è macchiato di crimini sia premiato anziché punito.

L’errore di tutto un modo di pensare, di cui inavvertitamente sia-mo impregnati, consiste nel non vedere in cosa consista propriamen-te la pena: nella privazione della libertà. Per un periodo più o meno lungo, chi è recluso smarrisce quelle facoltà che rendono la vita pie-namente degna d’essere vissuta. Chi ne sia in possesso non ha gene-ralmente modo di rendersene consapevole, a meno di fare l’esperien-za, almeno indiretta, della loro privazione; per questo innanzitutto visitare i carcerati è così importante: più che per fornire un conforto, per ottenere un più chiara consapevolezza di sé. Quando dunque i nostri ragazzi varcano le porte del carcere, oltrepassano il confine che li separa da un rapporto più autentico con la propria vita.

Entrando in questa sorta di al di là, dove le ombre dell’inquietu-dine e del pericolo prendono forma in persone in carne ed ossa con cui si scopre, non senza sconcerto, di poter parlare e scambiare co-municazioni umane, si compie un percorso in cui la propria stessa vita viene ricollocata in una luce diversa. L’effetto di estraniamento è ancor più accentuato scoprendo che i reclusi, almeno quelli con cui si giunge in contatto, hanno una capacità di parlare di sé e di analiz-zare la loro storia molto superiore a quanto la gente comune gene-

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ralmente sappia fare: e ascoltare ragazzi poco più grandi dei nostri, oppure maturi padri di famiglia raccontare vite fin da subito segnate dalla solitudine, dall’abbandono e dalla seduzione di vie sbagliate ha il potere di mettere di fronte a quel mistero insondabile che è l’esi-stenza umana. Mistero di cui particolarmente questi nostri giovani sono assetati, per una condizione generazionale: la condizione di chi è cresciuto protetto in ogni modo dal pericolo e dall’idea stessa del-la sofferenza.

Questi ragazzi rappresentano una generazione che non manca certo di informazioni sul mondo, ma è carente di esperienza della vita. Cresciuta sotto la campana di vetro dell’abbondanza di consu-mi, di servizi e di tutele, non manca di niente tranne di ciò di cui gli esseri umani hanno bisogno per cogliere il senso della vita: cioè la facoltà di sperimentarsi in rapporto alle varie possibilità che la vi-ta stessa riserva, compreso lo sbagliare e l’imparare dai propri errori. Un’attenzione sociale onnipervasiva sembra voler loro risparmiare ogni disagio e ogni rischio di intraprendere cattive strade e di fallire: attenzione certo lodevole, ma a sua volta sempre a rischio di ignora-re quel che s’agita nel cuore di ciascuno, col risultato che le cattive strade vengono comunque prese, ma senza più possibilità di inten-derne il senso. Forse quando gli errori erano più apertamente stig-matizzati, ma insieme accolti come possibilità di ciascuno, quando il marchio della colpa era parte della drammaturgia della vita sociale, gli individui si sentivano più chiamati a rendersi responsabili delle proprie azioni.

Per questo porto i ragazzi in carcere. Perché, entrando in diret-to rapporto con persone su cui inequivocabilmente si è abbattuto un duro verdetto sociale, facciano più profondamente i conti con se stessi. Aggirandosi come Dante nei gironi infernali, dove i dannati dicono: guarda dove siamo, non commettere i nostri errori!, essi rice-vano un insegnamento morale. È indebito? Si viola la privacy di chi avrebbe diritto a un rapporto più asettico con la propria pena? Non credo: siamo tutti oppressi da questa asetticità impostasi come mo-dello delle relazioni, siamo tutti assetati di elaborazione dei nostri at-ti, tutti assetati di autenticità.

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Per questo porto i ragazzi in carcere: perché imparino a mettersi in gioco più profondamente. Non mi illudo circa i limiti di questa esperienza. So bene, e meglio ancora lo sanno coloro che nel carcere prodigano le loro cure, che quel che dicono i detenuti non sempre è sincero, o addirittura raramente lo è; che un conto è offrire una cer-ta immagine di sé per ottenere benefici, o anche seriamente cercare di ricostruire la propria vita, tutt’altro fare i conti davvero col nodo della colpa, il cui scioglimento è la vera condizione per ricomincia-re. Ma anche questo, fare i conti con la menzogna e la verità e con le loro diverse conseguenze, è un insegnamento di vita.

Claudio Torrero, insegnante

Sono cinque anni ormai che accompagno i miei studenti nelle car-ceri di Torino. Noi lo chiamiamo stage, ma è un’esperienza così pro-fonda e così ampia, e dalle risonanze così molteplici, che non può stare tutta dentro questa parola.

L’emozione è fortissima, sempre, fin dal primo impatto, quando ci viene richiesto di consegnare le nostre carte d’identità, che non ri-tireremo se non all’uscita.

Eccoci, privi dei documenti siamo privi d’identità, siamo dei nu-meri, dei visitatori.

Poi ci viene richiesto di consegnare le borse, i cellulari, tutte le nostre cose... il processo di spoliazione si fa più totale e la sensazione di spaesamento si fa più forte. Ora veniamo presi in consegna da una guardia carceraria e da un’assistente sociale: ci accompagneranno a visitare l’altro mondo, il mondo dei reclusi.

Alcuni incontri sono particolarmente significativi. Visitiamo il padiglione dove stanno le donne con bambini al di sotto dei tre an-ni. Vivono in una zona tutta loro, con le celle aperte, una cucina co-mune dove possono preparare le pappe per i loro bambini, un salon-cino con vari giochi e tricicli, che ricorda vagamente i saloncini degli asili nido, dove portiamo i nostri figli.

Alle finestre però ci sono le sbarre e l’ora di tornare a casa non viene mai.

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Queste donne sono diffidenti, ci guardano ma stanno alla larga da noi. Non hanno nessuna voglia di confidarci le loro pene. È l’as-sistente sociale che ci racconta il dolore di questi bambini e di que-ste mamme, che vivono in simbiosi per tre anni, senza separarsi mai, senza uscire da questo luogo, e vengono poi separati, definitivamen-te, al compimento del terzo anno del bambino: lui fuori, lei dentro, ogni contatto scandito dalle rigide regole dei colloqui mensili.

Le studentesse restano un po’ ferite dalla riservatezza di queste donne, vorrebbero sentirsi raccontare la loro storia, vorrebbero pren-dere in braccio questi bambini, che però scappano a nascondersi. Diventa importante capire le emozioni dell’altro, di chi ti vede en-trare e uscire, di chi divide il mondo in liberi e prigionieri.

Visitiamo anche la sezione dell’Istituto Plana, che offre, all’in-terno del carcere, la possibilità di seguire percorsi di studio e di for-mazione. Qui la voglia di comunicare dei detenuti è più evidente, ci viene richiesto di mantenere i contatti, ad esempio via e-mail. Per loro rappresentiamo un pezzo di quel mondo in cui sperano di tor-nare presto. All’uscita lasciano un accorato saluto agli studenti: «Sa-lutateci la libertà!». Più che un saluto è un monito, un invito a ri-cordarsi di quel bene prezioso che nessuno percepisce finché non ne viene privato.

Alcuni detenuti ci consegnano delle poesie scritte da loro. Sono un grande dono, le ragazze se le stringono forte, sono pezzetti di car-ta carichi di umanità.

All’uscita le emozioni sono sempre troppe e troppo forti per tra-durle in parole.

Vilma Demitri, insegnante

Mettere insieme gli studenti dell’Istituto «Giulio» di Torino, i ra-gazzi del «Ferrante Aporti» [carcere minorile di Torino, NdA] e una mostra di quadri è stata di nuovo una bella sfida. Le arti visive, la pittura e la scultura sono per i nostri studenti un mondo lontano, non solo perché non viene compreso nei programmi scolastici del corso Tecnico dei Servizi Sociali. È lontano anche perché non fa par-

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te del retroterra culturale in cui i nostri ragazzi vivono, trascorrono il tempo libero, riempiono le giornate fuori della scuola. Altre sono le cose che ne fanno parte, né peggio né meglio, solo diverse.

Ma un quadro, come una melodia, sono portatori di emozioni, creano risonanza con sentimenti profondi. Certo, bisogna “grattare sotto la scorza” dura e spesso inattaccabile dei nostri adolescenti, ma poi si scopre che un’immagine dice a tutti qualcosa, “muove” qual-cosa che è personale, ma è di tutti e ci accomuna a chi quel quadro lo sta guardando con noi.

I quadri che raffiguravano figure femminili sono stati i preferiti, sia dal gruppo Accoglienza, maschile, che dal gruppo femminile. Ma cosa ne è venuto fuori è stato totalmente diverso.

Gli incontri con il gruppo femminile

Le ragazze sono quattro, tutte di origine Rom.Si sono lasciate subito coinvolgere, e con loro è stato più facile ri-

spettare la consegna: racconta cosa ti dice il quadro, prova a entrarci dentro, immagina di essere tu al posto di chi è raffigurato.

«Quella donna sta scappando da qualcosa che è successo nel po-sto dove viveva prima».

«No, secondo me vorrebbe tornare, non vedi che si volta indie-tro?».

«Forse ha lasciato un uomo che ama, nello sguardo c’è della tri-stezza».

Mi sento tranquilla, va tutto bene, basta cominciare e le cose van-no avanti da sole...

Ad un certo punto si è passati a parlare di matrimonio, e di come sono i matrimoni nella cultura Rom. È stato affascinante scoprire la ritualità, i valori, come l’importanza della verginità, le regole che vanno seguite passo passo, la richiesta della sposa, gli incontri suc-cessivi, procedure che sembra non ammettano deroghe ma che poi si scopre che in tutti i casi prevale sempre l’amore tra i due giovani e se necessario si chiude un occhio. Proprio come da noi. Ci viene in mente una cultura che è stata anche nostra, ma ormai lontana an-ni luce.

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Quel pomeriggio ha lasciato in noi l’impressione che ci fossero cose in comune che sono caratteristiche del femminile: gli affetti, le tradizioni, i rapporti col maschile. Riconosco in loro una modalità tutta femminile: per sopravvivere senza soffrire troppo in situazioni difficili si pensa alle cose belle, a cosa si farà dopo, si fanno sogni.

Esco con l’impressione di avere collocato tutto al posto giusto, che con le ragazze sia più facile entrare in relazione, e il mio quadro interpretativo coerente si compone di tinte pastello che mi dicono che tra ragazze si potranno capire, accogliere le diversità ma scoprire aspetti comuni. L’obiettivo sarà raggiunto.

Ma la volta successiva sono comparsi altri elementi che hanno ri-voltato tutti i miei schemi rassicuranti.

Per sposarsi bisogna «comprare» la sposa. Lo sposo paga da 50 a 150 mila euro. Per me mio marito ha dato 150 mila euro, dice una di loro.

Vero o no, è un dato che si paga, e si paga comunque una bel-la cifra. Ma come fate ad avere tutti quei soldi (viene da dire)? «Gli zingari (come dite voi, ma noi ci chiamiamo semplicemente noma-di) sono ricchi. Abbiamo tanti soldi, per questo siamo qui...». Non c’è ombra di ripensamento, il ragionamento che ne segue non fa una piega: voi non ci date un lavoro, noi rubiamo e mettiamo insieme un sacco di soldi. Se poi ci prendono non importa, noi sappiamo che quando usciremo da qui avremo tutte le cose che vogliamo. Al-tro che adattamento, capacità femminile ad adattarsi in qualsiasi si-tuazione, per soffrire un po’ meno.

Qui non ci si adatta, si aspetta solo che passi il tempo di perma-nenza. Per le ragazze del «Giulio» è stata una rivelazione difficile da comprendere. Forse tra di loro c’è chi sa la fatica che si fa per met-tere insieme i soldi per un “extra” che si desidera, ma che non ci si può permettere.

Forse c’è solo la rabbia vissuta quando si è subito un furto in fa-miglia.

La sicurezza con cui parlano le ragazze Rom è solo incrinata da una di loro, che si oppone alle altre, sostenendo che loro la sposa non la pagano, che fanno festa, sì, ma non hanno tutti quei soldi. Ma la risposta che riceve è solo: «Perché voi non sapete vivere».

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All’uscita dopo un bel po’ di silenzio, siamo alla fermata del 18 e una ragazza dice con rabbia: «Mi sono scadute!».

Cosa posso dire io per recuperare un po’ dell’esperienza, perché le cose sentite non costituiscano un muro in più tra i tanti che ci so-no già? Che parlano così perché si difendono, per non far vedere che stanno male?

Provo a parlare di occasioni e incontri della vita, che bisogna sa-per cogliere per cambiare il corso della nostra storia. Che ci va una spinta di base a volersi mettere in discussione, al cambiamento. Che quello è il loro mondo, in cui sono cresciute, e non è facile scrollar-selo di dosso. So che le mie parole sono solo un esile argine contro la generalizzazione e la conferma dello stereotipo dello «zingaro» che ruba. Ci vorrebbero altri incontri, ma il laboratorio è finito. A set-tembre, forse, mettendo insieme lo spettacolo si potrà ricucire qual-cosa? Sento che il tempo non mi basta, che posso fare poco... Siamo a fine anno scolastico, compiti in classe e interrogazioni mi impedi-ranno di prenderle da parte e riparlarne, quando la rabbia brucerà un po’ meno, lasciando spazio ad altre interpretazioni.

Gli incontri con il gruppo maschile

Il gruppo Accoglienza è composto da otto ragazzi, alcuni italiani, altri marocchini. I ragazzi, meno avvezzi a verbalizzare le loro emo-zioni e a proiettarle dentro un’immagine, sono stati più restii, più pronti a cambiare discorso, a cercare un dialogo più personale con le ragazze che venivano da fuori e che stavano per un’ora con loro.

Con determinazione si partiva da un quadro, solo qualcuno stava alle regole, e scriveva brevi testi, poesie. È stato più faticoso.

Hanno risposto alle proposte come risponde un ragazzo della stessa età: per un pezzo ti segue, ma quando ti sembra di averlo acchiappato, ecco che cambia subito argomento, fa la battuta, e ti manda un chiaro messaggio che più avanti non puoi andare. Preten-de di essere trattato come tutti gli altri, dentro o fuori del Ferrante. Nessun atteggiamento protettivo, nessuna attenzione, si sanno guar-dare da soli. E ci tengono a dimostrare che si sanno controllare. Si sono fortemente offesi quando un’insegnante presente agli incon-

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tri ha rimproverato una ragazza che senza pensare ha fatto un gesto che ha scoperto la pancia. «Non siamo mica degli assatanati» hanno puntualizzato offesi.

Uno di loro ha scritto molte poesie, ma le scriveva già, e usava questa modalità per comunicare le sue emozioni.

La collega che segue questo gruppo mi comunica l’impressione di non aggiungere nulla, semplicemente gli incontri sono un momento diverso nello svolgimento delle attività che si susseguono organizzate e precise dentro il «Ferrante Aporti».

Conclusioni: «Qualcosa è cambiato»

L’obiettivo di questi incontri era conoscersi, favorire uno scambio partendo da uno stimolo, e per i ragazzi che stanno fuori capire cos’è il «Ferrante Aporti» e chi sono i ragazzi che ci stanno dentro.

Ho già accennato al senso di incompiutezza che ha lasciato il la-boratorio con il gruppo femminile. Con i ragazzi, con i quali sem-brava di concludere meno, è stato diverso.

Ho chiesto alle ragazze che avevano già terminato il primo grup-po di incontri con il gruppo Accoglienza di raccontarmi le loro im-pressioni e le loro risposte hanno messo in evidenza che questo per-corso aveva dato spazio a un cambiamento di prospettiva. Mi hanno detto che hanno capito cos’è la libertà, quella che ci permette di or-ganizzare il proprio tempo, di muoversi come si vuole, anche per fare le cose più semplici, come alzarsi la notte a bere un bicchier d’acqua se si è fatto un brutto sogno. Al «Ferrante Aporti» non c’è possibili-tà di scelta delle proprie attività, il tempo è organizzato dagli adulti. Non è solo l’ambiente che dimostra questa mancanza di libertà (le chiavi, i cancelli), è il sentirsi sempre osservati. Si ha l’impressione che tutto ciò che si fa possa cambiare in peggio il proprio tempo di permanenza in carcere.

Ma più importante ancora è stato modificare la propria opinione rispetto all’idea stessa del carcere. «Prima dicevo “cavoli loro”. Se so-no lì se la sono cercata» mi ha detto una mia studentessa. Ora incomincio a pensare all’idea di errore, e alla possibilità di recupero.Penso che sarebbe potuto capitare anche a me, se fossi nata in una famiglia

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diversa, in un ambiente diverso. Se mi fossi lasciata attirare da giri sbagliati. E mi dispiace non riuscire a far capire queste cose ai miei amici, che non hanno vissuto questa esperienza, e continuano a dire “cavoli loro”.

Elisa Lupano, ex insegnante

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IL RISCATTO DELL’EX DETENUTO LE MISURE ALTERNATIVE

ALLA DETENZIONE

Oggigiorno essere un ex non aiuta a vivere. Ex prostituta, ex tossico-dipendente, ex prete, ex suora, ex carcerato...

La società moderna in cui viviamo esclude queste persone perché vi è un fortissimo etichettamento sociale, un marchio che non con-sente loro di essere accolti nella società in maniera decente, si pensa che ci sia un aspetto per tutte queste categorie citate che ha un che di irrecuperabile. Non accogliere, marchiare ed escludere queste per-sone è problematico.

Uscire poi dal carcere per reinserirsi nella società è doppiamente difficile: è una struttura totalizzante dove non decidi tu, lo fanno al-tri per te, loro ti modellano l’identità. Quando invece l’ex detenuto è fuori deve gestirsi in prima persona la propria vita. Ma l’identità di là dentro è stata perduta, bisogna ricostruirsela e gestirsela in au-tonomia.

Chi esce dal carcere ha davanti un futuro incerto, un muro che non è più quello della Casa circondariale, ma quello della paura di non farcela a ricominciare una vita normale. In una città che non è più la stessa di quando è stata lasciata, tornare in famiglia, per chi ce l’ha, non è tutto rosa e fiori come sembrerebbe.

Solitudine, mancanza di un lavoro, difficoltà a ritrovare una spe-ranza, un progetto di vita. Molti non ce la fanno a superare queste enormi difficoltà, mollano tutto e si suicidano. Anche fuori dalle mura del carcere. In questo caso la scommessa di rifarti una vita è perduta.

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Come per chi ha famiglia sempre più spesso si fa fatica ad entrare nelle dinamiche di quello che era il proprio nucleo familiare: magari si erano lasciati i figli piccoli ed ora sono cresciuti e non li si ricono-sce più. Spesso rientrare in questo contesto ti fa sentire un intruso, un contesto che non si sente più come proprio, dove anche se si è scontata la pena ed si è chiuso con il carcere, i figli continuano a giu-dicare. Ed è un ostacolo difficilissimo da superare.

Ed è doppiamente complesso se la persona si trova sola, senza nessun parente.

Questi ex che hanno sbagliato, anche se non hanno più nulla e devono ricreare legami amicali ed affettivi, devono essere accompa-gnati, aiutati per ritrovare la speranza, la fiducia all’interno della so-cietà. Non sono “persone sbagliate”, ma sono “persone che hanno sbagliato”, hanno pagato e scontato la loro pena per questo, e dun-que sono persone del tutto normali.

«Se non c’è nella società una rete che lavori per l’accoglienza, dav-vero queste persone sono delle bombe a orologeria, destinate a tor-nare a commettere reati», dice Ornella Favero di «Ristretti Orizzon-ti»1.

Dice Giovanni Maria Pavarin, magistrato di sorveglianza: Far passare un certo periodo di tempo in carcere ad un individuo serve solo a neutralizzare temporaneamente la pericolosità sociale di quell’indi-viduo. Ma in assenza di offerte di spunti di realizzazioni di situazioni anche all’esterno che consentano un reinserimento sociale, quella persona esce dal carcere esattamente nelle stesse condizioni in cui ci è entrata2.

Per evitare questa sorta di spaesamento del detenuto, una volta fi-nita la pena, sarebbe necessario creare molto tempo prima le condi-zioni per un vero reinserimento nella società, sostenendo, investendo e credendo fino in fondo alle pene alternative alla detenzione. Quelle che già per legge esistono: affidamento in prova al Servizio Sociale (articolo 47 O.P.), semilibertà (articoli 48-50 O.P.), lavoro esterno

1 D. DE ROBERT, L’altra prigione. Storie fuori dal carcere, in «Tg2 Dossier» Raidue, 7 novembre 2009.

2 Ibidem.

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(articolo 21 O.P.), liberazione condizionale (articolo 176 C.P.), se-midetenzione (articoli 53 e 55 della Legge 689 del 24.11.81), lavoro sostitutivo (articolo 105 della Legge 689 del 24.11.81), libertà con-trollata (articoli 53 e 56 della Legge 689 del 24.11.81), libertà vigi-lata (articolo 228 C.P.), pena pecuniaria come sanzione sostitutiva (articolo 53 L. 689/81), conversione di pene pecuniarie in libertà controllata (articolo 102 L. 689/81), permessi-premio (articolo 30 ter O.P.).

È infatti dimostrato da uno studio del Ministero della Giustizia che il 69% delle persone che scontano per intero la pena in carcere commette nuovi reati, vale a dire quasi sette persone su dieci, men-tre lo stesso studio dice che per le persone che finiscono di scontare la pena in situazioni alternative alla detenzione carceraria, la percen-tuale diminuisce fortemente arrivando al 19%, vale a dire meno di due persone su dieci.

Un bell’esempio di misura alternativa alla detenzione è quello che ci viene dal campo base della Croce Rossa dell’Aquila. Lì il terremo-to del 6 aprile 2009 ha permesso a Giampiero e Pasquale di cono-scere il dramma di chi ha perso tutto, ma anche di lavorare di giorno alla cucina in veste di cuochi, mentre la notte rientrano nel carcere di «Rebibbia» per dormire. Certo, è un po’ dura la loro vita. Però tut-ti al campo aquilano sono soddisfatti del loro lavoro, anche se ini-zialmente qualcuno s’è dovuto abituare ad aver a che fare con due ex carcerati. E chissà che questa esperienza non li aiuti, una volta finita la pena, a reinserirsi bene nella società e nel mondo lavorativo.

Nella ricerca del lavoro, infatti, la situazione per un ex detenuto si fa ancora più difficile. Anche perché, nel periodo che il detenuto è rimasto in carcere, il mondo del lavoro è cambiato, sono cambiate le richieste e le professionalità: non sono sufficienti le mansioni, ad esempio, di scopino che viene dato come “incarico” dentro il carce-re. Sì, perché con un curriculum che abbia scritto solo mansioni di quel tipo, a cui si aggiungono scrivano, spesino, piantone, nel mon-do del lavoro, non si va da nessuna parte!

E poi c’è la diffidenza estrema dei datori di lavoro: quando leg-gono la fedina penale del soggetto che chiede un posto, spesso e vo-

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lentieri rispondono con un «no grazie, non abbiamo bisogno di lei». Ergo: non si fidano. Ed è un pregiudizio assolutamente diffuso.

Fortunatamente ad offrire lavoro e, nello stesso tempo, fiducia a queste persone sono quasi sempre le cooperative sociali, che porta-no il lavoro all’interno con molta difficoltà. Soprattutto a causa delle troppe burocrazie del sistema carcerario statale italiano.

Se da una parte chi ha vissuto per tanto tempo il carcere quan-do esce incontra difficoltà nel mondo del lavoro, dall’altra dobbia-mo renderci conto che gli ex detenuti sono soggetti più fragili di un ventenne che anche se cerca lavoro, ha comunque le spalle coperte da una famiglia che lo aiuta.

Invece, per la persona che ha sbagliato e che ha pagato salato espiando la colpa con la galera, rimane sempre una sorta di alone perenne che gli schiaccia la vita: volente o nolente rimarrà sempre prigioniero del suo tremendo passato, con tutte le difficoltà di ri-scattarsi.

Anche se per il Capo dipartimento dell’Amministrazione Peni-tenziaria Franco Ionta «le misure alternative non sono la soluzione del problema del sovraffollamento delle carceri. Sono solo una solu-zione parziale perché la società richiede più prigione e più sicurez-za»3, bisogna invece avere il coraggio di porre un occhio di riguardo verso chi non ce la fa, verso chi ha sbagliato, con misure alternati-ve alla cella di un carcere, mettendolo in condizione di riprendersi in mano la propria vita, per riprogettarla allontanandosi dagli sbagli commessi che fanno parte del passato. E che non devono più ritor-nare.

3 Intervento al convegno del Seac dal titolo Lo stato del sistema sanzionatorio e le prospet-tive, Roma, 19-21 novembre 2009.

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CHIESA E CARCEREDA GIOVANNI XXIII A GIOVANNI PAOLO II

Roma, 26 dicembre 1958. Per la prima volta un papa entra in un carcere. È Giovanni XXIII a prendere l’iniziativa. E lo fa molto sem-plicemente ed umilmente, come era caratteristico di quel pontefice. Inoltre papa Roncalli definì quella struttura come la «casa del Padre», cioè di Dio. Qui di seguito riproduciamo il suo discorso dell’epoca.

Discorso di papa Giovanni XXIII ai carcerati di «Regina Coeli»1

Miei cari figlioli, miei cari fratelli, siamo nella casa del Padre anche qui. Siete contenti che io sia venuto? Venendo qui da S. Pietro mi sono ram-mentato che quando ero ragazzo uno dei miei buoni parenti, andando un giorno a caccia senza licenza, fu preso dai Carabinieri e messo dentro. Oh, che impressione! Oh, poveretto lui! Ma sono cose che possono capitare, qualche volta, anche se le intenzioni non sono cattive. E se si sbaglia, si sconta, e noi dobbiamo offrire al Signore i nostri sacrifici. Che grande cosa, fratelli, il Cristianesimo!Siete contenti che sia venuto a trovarvi? Sapevo che mi volevate, e anch’io vi volevo. Per questo, eccomi qui. A dirvi il cuore che ci metto, parlandovi, non ci riuscirei, ma che altro linguaggio volete che vi parli il Papa? Io metto i miei occhi nei vostri occhi: ma no, perché piangete? Siate contenti che io sia qui. Ho messo il mio cuore vicino al vostro. Il papa è venuto, eccomi a voi. Penso con voi ai vostri bambini che sono la vostra poesia e la vostra tristezza, alle vostre mogli, alle vostre sorelle, alle vostre mamme...

1 http://www.giovaniemissione.it/testimoni/papa23carcerati.htm

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Prima di lasciare «Regina Coeli» il papa volle essere ritratto in mezzo ai detenuti.

Mentre si avvia all’uscita della prigione, papa Giovanni vede un uomo staccarsi dal gruppo dei reclusi raccolti attorno all’altare. Que-gli lo guarda con occhi arrossati dal pianto e, cadendogli ai piedi, do-manda: «Le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me, che sono un grande peccatore?». Roncalli non risponde. Si china sull’uomo, lo solleva, lo abbraccia e lo tiene a lungo stretto a sé. «È stato a questo punto», scrisse «Il Messaggero» di Roma, il 27 dicembre 1958,che la manifestazione ha fatto tremare i muri di “Regina Coeli”. Dell’at-mosfera tipica del carcere non è rimasto più nulla. Aperti i cancelli a pian-terreno, il Papa ha visitato un “braccio” e l’infermeria, fra ali di carcerati usciti dalle celle con i loro vestiti a strisce. Ma l’episodio che più ha col-pito il Papa è stato quello che ha appreso una volta varcato il portone del penitenziario. Egli ha saputo che trecento detenuti, chiusi nelle celle di rigore perché considerati pericolosi, non hanno potuto vederlo. Ebbene: ha inviato a ciascuno di essi un’immagine con l’assicurazione che non dimenticherà i suoi “figli invisibili”. Al termine dell’incontro con i dete-nuti un’ultima raccomandazione: “Scrivete a casa, raccontate alle vostre madri ed alle vostre mogli che il Papa è venuto a trovarvi”.

Altro pontefice ad andare in visita al carcere di «Regina Coeli» fu Paolo VI il 9 aprile del 1964. Lì in quelle celle papa Montini, rac-contano le cronache dell’epoca, si commosse e pianse.

Il Giubileo dei detenuti

Roma, 9 luglio 2000. Una data da ricordare per la realtà carceraria soprattutto italiana perché venne celebrato il «Giubileo nelle car-ceri». In quell’occasione fu Giovanni Paolo II ad andare in visita al carcere di «Regina Coeli». E lì il papa di allora celebrò messa con le celle dei detenuti aperte. In quella cerimonia venne chiesto diretta-mente dal pontefice di avere un incontro ravvicinato con i carcerati. Cosa che avvenne. Durante la messa poi furono ben una ventina i detenuti a ricevere la comunione direttamente dalle mani del papa,

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ed un’altra decina con lui hanno scambiato il segno di pace. In quel-la circostanza il pontefice polacco aveva detto: Il Buon Pastore esce continuamente sulle tracce delle pecorelle smarrite e quando le incontra se le prende sulle spalle e le riporta all’ovile. Cristo cerca l’incontro con ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. [...] Il Giubileo ci ricorda che il tempo è di Dio [...] anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione ed anche di fede. [...] Sono venuto a dirvi che Dio vi ama e desidera che percorriate un cammino di riabilitazione e di perdono, di verità e giustizia2.

Durante quella visita il papa si rivolse ai governanti di tutti gli Stati lanciando un appello affinché compissero un atto di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti con una riduzione, pur modesta, dei tempi della reclusione.

Giovanni Paolo II chiese anche che gli istituti di pena venissero trasformati in luoghi di redenzione. Le parole del papa rivolte, co-me si è detto, a tutti i governanti hanno coinciso in Italia, per puro caso, nel contrasto tra maggioranza e opposizione sulla concessione dell’indulto e dell’amnistia e sulle modifiche da apportare alla situa-zione carceraria.

Questo importante momento ha segnato l’esistenza di Giovan-ni Paolo II tanto che, in vacanza in Valle d’Aosta, sentì nuovamente l’esigenza di farsi portavoce della speranza di libertà dei detenuti di tutto il mondo attraverso una ridu-zione della pena, con gli occhi bene aperti sulla dura condizione di vita nelle carceri. Ai pellegrini in piazza San Pietro il Santo Padre racconta anche la sua “gioia” per l’incontro giubilare con i detenuti di “Regina Coeli”: “È stato un toccante momento di preghiera e di umanità. Ho cer-cato di intuire, leggendole nei loro occhi, le sofferenze, le ansie, le speranze di ciascuno. In essi sapevo di incontrare Cristo, che nel Vangelo si è iden-tificato con loro fino a dire: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36)3.

2 R. ARZONE, Sono venuto a dirvi che Dio vi ama, in http://www.leduecitta.com/arti-colo.asp?idart=1522

3 http://www.vatican.va/jubilee_2000/pilgrim/documents/ju_gp_01082000-2c_it. html

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A turbare però quel momento fu la morte di uno dei nove dete-nuti che servirono la Messa papale in carcere, Gianfranco Cottarel-li. Giovanni Paolo II pregò per lui e per tutti i carcerati ricordandoli anche all’Angelus in Valle d’Aosta.

Due giorni dopo la morte di Karol Wojtyla, i detenuti di «Rebib-bia» (altro carcere romano) vollero scrivere a quel papa che nel 1993 era andato a trovarli. «I detenuti sono tipi strani, fuori dal mondo, – scrissero – sarà per questo che tutti noi ci sentiamo tranquilli che tu succederai a Te stesso. Nessuna figura, infatti, potrà mai ricoprire il Tuo posto, senza far sentire la Tua assenza. Nessuno avrà mai la forza di abbracciare tutti i fedeli del mondo, trovando sempre il giusto momento d’intervenire a favore di ogni singola categoria. Non dimenticando mai la nostra. La nostra abitudine a sentire le belle parole di circostanza ci induce a non utilizzarle, limitandoci a dirti: grazie Papa e arrivederci vicino a Te». E altri ancora hanno scritto: «Non sei riuscito a farci concedere un atto di clemenza, ma sei riuscito a darci la forza di affrontare con il sorriso le nostre tristezze. Non usiamo le parole “sofferenze” perché proprio tu, in questi giorni, ci hai dimostrato cos’è la vera sofferenza. Sicuri di interpretare il sentimento di tutti i detenuti desi-deriamo essere presenti in questo difficile, ma allo stesso importantissimo, momento del Tuo Pontificato. Questa volta non ci rivolgiamo a Te per chiederTi di far sentire la Tua potente voce ai potenti. Il nostro intento è solo quello di testimoniare la nostra presenza senza nulla chiedere, perché da Te abbiamo comunque ricevuto molto»4.

Nei suoi venticinque anni di pontificato papa Giovanni Paolo II è stato attento alla realtà carceraria ed al mondo penale. Egli si recò in visita in diverse carceri italiane oltre a quelle già citate sopra: Ca-sal del Marmo, Reggio Calabria, Civitavecchia, Volterra, Cagliari, Caltanissetta, Napoli.

Durante il suo pontificato Papa Wojtyla ha rivolto spesso la sua attenzione al mondo penale, recandosi in visita in diverse carceri ita-liane, oltre alle già citate «Rebibbia» e «Regina Coeli»: un percorso durante il quale il Santo Padre ha sempre ribadito l’assoluta necessi-tà dei valori umani e cristiani, in cui ha sempre voluto sottolineare la

4 Ibidem.

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sua vicinanza profonda all’uomo solo, indifeso, senza diritti, in ogni parte del mondo esso fosse e in qualsiasi condizione si trovasse.

Egli intervenne anche nel novembre 2004 alla Conferenza inter-nazionale delle Amministrazioni penitenziarie d’Europa dicendo: Il valore della dignità umana è un valore della cultura europea, che affonda le sue radici nel Cristianesimo, un valore umano universale e, come tale, suscettibile del più largo consenso. Ogni Stato deve preoccuparsi che in tutte le carceri sia garantita la piena attenzione ai diritti fondamentali del-l’uomo. Se lo scopo delle strutture carcerarie non è solo la custodia, ma anche il recupero dei detenuti, è necessario, pertanto, ripensare come voi state facendo, la situazione carceraria nei suoi stessi fondamenti e nelle sue finalità. In questa luce va incoraggiata la ricerca di pene alternative al car-cere, sostenendo le iniziative di autentica risocializzazione dei detenuti con programmi di formazione umana, professionale e spirituale5.

Lettera-sogno del cappellano di Rebibbia al Papa

Nulla di blasfemo sognare che il papa vada in visita ad un carcere italiano. Uno di quelli stracolmi. Se lo fa a Ferragosto ancora nulla di strano: tutti sono al mare alla tintarella del solleone, mentre il papa suda in carcere con i detenuti stipati come sardine in quattro-sei-otto per ogni cella che dovrebbe tenerne due al massimo. E si mette nei loro panni, soffre materialmente con loro. E toccando con mano che «nemmeno nelle patrie galere non c’è più un posto libero». Per una volta si può fare!

Se poi tale sogno lo fa il cappellano del carcere...Ho immaginato che tu caro Santo Padre – scrive di suo pugno don Sandro Spriano – la mattina del 15 ti presenti proprio a “Rebibbia”, senza scorta e senza insegne. In portineria dici che sei Papa Benedetto, ti chiedono un documento d’identità, i poliziotti dopo lo sbigottimento iniziale, ti accompagnano emozionatissimi all’area verde antistante la chiesa del nuovo complesso dove tutto è pronto per celebrare la solennità dell’Assunta.

5 Ibidem.

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Il cappellano coordinatore a «Rebibbia» del Nuovo Complesso immagina nel sogno di parlare con papa Ratzinger mentre lo accom-pagna per i reparti del penitenziario romano: Quanti detenuti sono ospitati in questo reparto? Circa 400 Santo Padre, e in tutto l’istituto sono 1.600 – scrive –. E come mai soltanto 5 agenti di Polizia penitenziaria? I detenuti si comportano abbastanza bene e gli agenti sono scarsi perché su 4.500 in forza al Dap soltanto 20mila prestano ser-vizio nelle carceri e la domenica ci sono quelli che hanno maggior buona volontà e attaccamento al dovere, per di più siamo in estate: anche loro corrono, consolano, sostengono.E questi sono i corridoi e le stanze dove gli ospiti trascorrono immobili almeno venti ore della loro giornata quattro detenuti in celle per due, otto in celle da quattro. C’è un caldo soffocante perché i muri di cemento e la mancanza dei tetti consentono al sole di infuocare le strutture.

Nella lettera-finzione il cappellano ringrazia poi papa Ratzinger del bellissimo regalo che gli ha fatto. E poi il risveglio dal sogno ap-pellandosi a lui «perché possa annunciare e convincere, primi fra tut-ti i cristiani della nostra Chiesa, a reimpiantare nel cuore il desiderio e l’ansia della riconciliazione»6.

Don Spriano lancia infine un appello ai cristiani affinché preghino per chi è in prigione e a fare posto nelle nostre case, nel lavoro, nella città a chi esce dal carcere dopo aver espiato la sua pena. [...] L’ac-coglienza fraterna di uno solo aumenterà di molto la nostra sicurezza e la nostra libertà.

6 Caro papa Benedetto venga a Rebibbia a celebrare la messa di Ferragosto..., lettera del cappellano del carcere, in «La Repubblica cronaca di Roma», 13 agosto 2009.

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CONCLUSIONI

Il carcere come sistema di applicazione della giustizia non serve a nulla.Luigi Manconi, presidente associazione A Buon Diritto

Il carcere oggi è drammaticamente carente di tutto: di un adeguato servizio psicologico, di operatori che spesso condividono con i detenuti una condizione di povertà, povertà di strutture, di servizi, di considerazione sociale. Si sopperisce e si soprav-vive grazie allo spirito di iniziativa, alla buona volontà, alla professionalità di tanti lavoratori che hanno scelto di stare dalla parte della legge e che provano ad offrire un dignitoso servizio pubblico, perché tale deve essere il carcere, non la facile risposta a derive securitarie e ansie giustizialiste, né tanto meno un vuoto di diritti1.

Una volta lasciato il carcere c’è poi la fatica di ricominciare a vi-vere, di ritrovare un posto di lavoro, una famiglia affettuosa, contro il pregiudizio che respinge ai margini della società.

Invece si continua ad essere rinchiusi nelle Patrie Galere. Magari a morirci... di noia... di rimorso... di disperazione... di

suicidio... di botte... Come può tutto questo servire a redimersi?

Saremo veramente contenti quando vedremo rimpolpare i finan-ziamenti per il settore carcerario, se vedremo aumentare gli educa-tori (in lista d’attesa di un posto, dopo aver superato un regolare concorso ce ne sono quasi 400), gli psicologi, gli assistenti sociali, le guardie dello speciale corpo di Polizia penitenziaria.

1 Comunicato stampa Si parla...e si sparla di carcere, a cura della Cgil-Piemonte-Fun-zione Pubblica.

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Saremo veramente felici se vedremo applicare pene alternative, come ad esempio lavori socialmente utili da fare fuori dalle mura carcerarie, nei parchi e giardini...

E soprattutto saremo veramente soddisfatti quando in Italia si smetterà di detenere le persone sotto forma di custodia cautelare, vi-sto che il 52,2% è proprio in questi luoghi di detenzione per que-sto motivo, «anomalia tutta italiana visto che si tratta di una delle percentuali più alte d’Europa»2 come denuncia l’associazione Anti-gone.

E saremo altresì lieti quando in carcere vedremo rispettati final-mente i diritti umani di tutti, quando non assisteremo più inermi alla sospensione del diritto, alle assurde violenze e a morti misteriose per essere «caduti dalle scale», come vigliaccamente viene racconta-to nell’ufficialità.

2 www.agensir.it

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La vera prigione di Ken Saro-Wiwa

Non è il tetto che perdeNon sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.Non è il rumore metallico della chiaveMentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioniInsufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giornoChe sprofonda nel vuoto della notte

Non èNon èNon è.

Sono le bugie che ti hanno martellatoLe orecchie per un’intera generazione

È il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicidaMentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiustaLa decrepitezza moraleL’inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazioneLa vigliaccheria travestita da obbedienzaIn agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditiNon osiamo eliminare la nostra urina

È questoÈ questoÈ questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo liberoIn una cupa prigione.

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POSTFAZIONEIL SENSO DELLA GIUSTIZIA

A cura di Vilma Demitri*

Nelle nostre società attuali il concetto di giustizia è uno dei cardini su cui si basa l’idea stessa di società: esso sostiene sia l’idea di Stato sia il bisogno del singolo di essere riconosciuto nei suoi diritti indi-viduali.

Credo che essa derivi da un’enfatizzazione, avvenuta nel corso dello sviluppo storico-filosofico-culturale della nostra civiltà occi-dentale, dei diritti individuali. Ma ciò che oggi ci appare come irri-nunciabile, più ancora di altri beni o di altri diritti, nel passato non è stato sempre così.

È senz’altro vero che nessuna forma di Stato moderno potreb-be sussistere senza porsi come dovere anche l’amministrazione della giustizia. Ma questo «diritto» ad avere giustizia, come lo intendiamo oggi, deriva da quel processo della società moderna che ha rivolto con forza l’attenzione verso la tutela dei diritti individuali.

Il diritto alla giustizia era in precedenza, nelle società più antiche, un diritto al riconoscimento, riconoscimento del torto subito e rico-noscimento di sé come soggetto vittima di un’offesa. Un’offesa che spezza un rapporto, una relazione; un’offesa che colpisce l’uomo nel-la sua dignità, prima e ancor più che un’offesa concreta che ha por-tato a un danno economico o di altro tipo.

* Insegnante di Filosofia, Pedagogia e Scienze Sociali presso Istituti d’Istruzione Supe-riore, membro effettivo dell’Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani (ANPE) e consu-lente psico-pedagogico.

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Nelle società antiche l’amministrazione della giustizia era in real-tà una pratica di riconciliazione, un momento dedicato al ricono-scimento dell’offeso e dell’offesa da parte del colpevole e del grup-po a cui apparteneva. Questo riconoscimento era il primo passo per giungere alla riconciliazione. Il mediatore, figura estremamente im-portante nella comunità, operava per la ricomposizione dell’armo-nia sociale. Il risarcimento poteva non essere uguale per tutti, non si perseguiva l’uguaglianza di fronte alla legge ma la riconciliazione dei soggetti coinvolti in questa rottura dell’equilibrio sociale.

In questo tipo di società viene privilegiata l’armonia sociale piut-tosto che i diritti del singolo: la singolarità dell’individuo è subordi-nata all’importanza della comunità.

Il bisogno, sviluppato nelle società occidentali, di amministrare una giustizia che rispetti principi generali e assoluti affinché questi sia-no garantiti in modo uguale per tutti, ha portato al costituirsi, nel volgere del tempo, di un sistema di leggi e procedure estremamente particolareggiate e specifiche. Esse però rischiano, in realtà, di non riuscire a garantire la giustizia e ancor meno a garantire l’assunto fondamentale della giustizia occidentale, cioè l’uguaglianza dei citta-dini di fronte alla legge.

Nelle società antiche non si riscontrano apparati giudiziari para-gonabili a quelli operanti in quelle moderne. Ovviamente la com-plessità e le dimensioni stesse di queste ultime impongono istituzioni e sistemi ampi e complessi. È vero però che, al di là delle dimensioni e della complessità, ritroviamo una differenza di base: nelle società antiche non si perseguiva il principio dell’uguaglianza di fronte al-la legge, non era stato individuato come elemento importante per la coesione e la sopravvivenza del gruppo. Invece questo principio, nel-le società complesse occidentali, è considerato il più importante in assoluto, specialmente se si parla di amministrazione della giustizia.

Questa differenza trova le sue radici nel processo di sviluppo cul-turale avvenuto nelle società occidentali, di cui due sono gli elementi importanti: il pensiero filosofico occidentale e la nuova concezione dell’individuo proposta dal cristianesimo. Pur senza addentrarsi nel-l’esame di questi aspetti, si può sottolineare come essi abbiano dato

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grande pregnanza alla categoria della singolarità dell’individuo, in-dirizzando quindi la definizione teorica dei diritti nell’ambito dei di-ritti individuali.

Ritroviamo quindi una differenza nell’assunto di base su cui que-sti due tipi di società si reggono. Nelle società antiche la categoria fondante l’idea stessa di società è il diritto della collettività: diritto a esistere, a preservarsi, a mantenersi... e solo all’interno di questo di-ritto collettivo trovano spazio e garanzia i diritti individuali.

In questa ottica l’obiettivo è ricostruire una relazione, poiché l’impianto culturale persegue la cura, di sé, dell’altro e del gruppo, come fine e come strumento della vita sociale.

La considerazione del danno non è quindi solo di tipo economi-co, ma anche, e forse ancora di più, di tipo emotivo e morale: il pro-cedimento che deve portare alla riconciliazione passa attraverso un riconoscimento di valori etico-morali base della vita del gruppo, ri-conoscimento che deve essere attuato dalla vittima e dal colpevole. Attraverso tale procedimento il colpevole riconosce sé come colpe-vole e come attore di un evento socialmente riprovevole, vede la sof-ferenza della vittima, fisica, morale e interiore, oltre al danno con-creto arrecatole.

In un percorso di amministrazione della giustizia di questo tipo il nucleo fondamentale è dunque l’assunzione di responsabilità da parte dell’esecutore del reato. Nel nostro sistema giuridico questa as-sunzione di responsabilità spesso non avviene. Questo perché basato sulla valutazione del danno e della sua entità secondo un procedi-mento astratto e complesso: esso definisce poi il risarcimento previ-sto e la pena per il colpevole, il quale continua spesso a proclamarsi innocente per un puro calcolo di benefici di legge.

Seguendo un tale tipo di procedura la vittima dovrebbe sentirsi soddisfatta e risarcita, quindi pacificata con se stessa, con il colpevole e con la società. Cosa che il più delle volte non avviene.

La contrapposizione tra reo e vittima, esasperata spesso nel pro-cedimento giudiziario, se non viene considerata come elemento cen-trale dell’opera di colui che vuole esercitare giustizia, rimane come una frattura non ricomposta, non sanata e non permette la soddisfa-zione etica e morale della vittima e la risoluzione emotiva della sua

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sofferenza. Allo stesso tempo tale frattura «reo-vittima», non ricom-posta, permetterà al colpevole di non riconoscere la propria respon-sabilità: egli quindi non seguirà il cammino che lo condurrà a rico-noscersi colpevole e a riconoscere la vittima in quanto tale. Il proces-so di riconciliazione – certamente faticoso e doloroso per entrambi – deve essere accompagnato dall’opera di un mediatore, che si ponga tra i due come autorità sociale e morale. Solo questo difficile lavo-ro di elaborazione della rottura dell’equilibrio sociale permetterà alla vittima di riacquistare la dignità morale e la serenità interiore. Allo stesso tempo questo cammino potrà far riacquistare anche al colpe-vole la dignità morale per la quale invece non basterebbe l’espiazione della pena e il castigo inflitto. L’obiettivo conseguito è positivo per entrambi gli individui coinvolti. Esso permetterà loro di proseguire un cammino di progettualità che altrimenti sarebbe compromesso. Nello stesso tempo, però, permetterà al gruppo sociale di riacqui-stare l’equilibrio e l’armonia perduti, superando quella frattura etica che può minarne la sopravvivenza.

Per quanto l’ambito giuridico possa sembrare lontano da quel-lo filosofico, e, forse, ancor più da quello pedagogico, così non è. Proprio il sistema di amministrazione della giustizia esprime i valori profondi su cui si basa una società: tali valori sono strettamente cor-relati al pensiero filosofico che la sostiene e all’idea di futuro verso cui tende, anche se spesso tutto ciò è piuttosto un sistema di intrecci sotterranei che non un percorso evidente di legami.

La riflessione pedagogica non si rivolge solo a una progettualità privata, individuale, ma comprende e sviluppa un discorso colletti-vo, di obiettivi educativi che una società si pone, consapevolmente o meno. All’interno di una società, il mondo della giustizia è stret-tamente collegato a tali obiettivi educativi e all’idea che di essa si in-tende realizzare.

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APPENDICE

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DATI SULLA SITUAZIONE CARCERARIA IN ITALIA

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LETTERE DI CARCERATI

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SCHEDAANTIGONE IN CARCERE – CALABRIA

Casa Circondariale di Reggio Calabriavia San Pietro tel. 0965/594891

Maschile e Femminile Dislocazione: periferia urbana Tribunale e Ufficio di Sorveglianza: Reggio CalabriaCSSA: Reggio Calabria

Nodi identificativi e problematiciLa struttura è molto vecchia e ne risente il livello di vivibilità. Si procede a lavori di ristrutturazione

StrutturaIl progetto è del 1925, la consegna del 1930. Si tratta di 6 sezioni con 55 celle, che sono piccole e poco aerate. Le docce sono in locali separati. La sez. Femminile è nell’area prima dei 41 bis. Ha celle piccole ed i cortili passeggio sono coperti da una grata

DetenutiNumero: 317 di cui 14 donne al 23/11/2009Capienza regolamentare: 160Posizioni giuridiche: in attesa di giudizio 115Stranieri: 46Tossicodipendenti: 55Sieropositivi: 2Semiliberi: 8

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StaffDirettore: 1 + 1 vicePolizia penitenziaria: 200Educatori: 3Medici: 7Infermieri di ruolo: 2Infermieri non di ruolo: 9

VolontariCirca 20

Condizioni materialiLe sezioni sono: Media Sicurezza, Alta Sicurezza, Rep. Osservazione Psichiatrica, Semiliberi, Femminile

OrariAria: 8.30-11.00; 13.00-15.00Non si fa socialità per mancanza di spazioScarsi reclami strutturati come tali e le “domandine”Cucina e sopravvitto: 1 cucina tenuta dai detenuti

Contatti con l’esternoColloqui: lunedì, martedì, venerdì, sabatoA.S. 4 al mese, 5 se ci sono bambini minori di anni 10M.S. 6 al meseTelefonate: A.S. 2 al mese, M.S. 1 a settimana

Eventi criticiSuicidi: 2 nel 2009Ci sono episodi di violenze tra detenutiScioperi della fame

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SanitàGuardia Medica h 24 al giornoElevato uso di psicofarmaciTossicodipendenti: trattamento con metadone e sostegno psichia-tricoÈ presente un presidio per soggetti tossicodipendenti

LavoroIntramurario: pulizie, MOF, cucinaExtramurario: 8 semiliberi in imprese private (10) o cooperative non di tipo sociale

Formazione professionaleNon ci sono interventi

IstruzioneAlfabetizzazione: 1 corso, 5 iscritti, 2 docenti

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SCHEDAFONDAZIONE AGAPE

La Fondazione Agape ONLUS persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale a favore di persone in situazione di disagio socia-le. La fondazione espleta le sue finalità attraverso:❖ la realizzazione, l’organizzazione e la gestione di centri diurni e/o

residenziali❖ la promozione e l’organizzazione di corsi di formazione e di ag-

giornamento ❖ la promozione e l’organizzazione di incontri, convegni, dibattiti

sulle tematiche del disagio sociale❖ progettazioni per le scuole di ogni ordine e grado ❖ collaborazione con il Centro Giustizia Minorile

Per informazioni:Fondazione Agape OnlusSede legale: C.so Siccardi, 610122 Torino – Italytel.: +39 011.53.01.32fax: +39 011.517.65.49

Nervo JuriDirettore Ufficio Territoriowww.jurinervo.it tel.: +39 339.64.24.357fax: +39 011.517.65.49e-mail: [email protected]@tiscali.it

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BIBLIOGRAFIA

«Tempi di Fraternità», gennaio 2010.10 suicidi in un mese: un nuovo «record» per le carceri – La prospet-

tiva di una detenzione in condizioni «inumane» e priva di stimoli posi-tivi fa perdere ogni speranza ai detenuti, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimo-nianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzon-ti», luglio 2009, p. 39.

Ancona: il «Rigoletto», nella Casa circondariale di Montacuto, in «Il Messaggero», 16 maggio 2009.

Caro papa Benedetto venga a Rebibbia a celebrare la messa di Ferra-gosto... La lettera del cappellano del carcere, in «La Repubblica cronaca di Roma», 13 agosto 2009.

Comunicato stampa Nuovo suicidio in carcere: eguagliato il «re-cord» nella storia della Repubblica, a cura dell’Osservatorio Perma-nente sulle Morti in Carcere (Radicali Italiani, Associazione «Il De-tenuto Ignoto», Associazione «Antigone», Associazione «A Buon Diritto», Redazione di «Radio Carcere», Redazione di «Ristretti Orizzonti»), 20 dicembre 2009.

Giustizia: Dap, Cucchi è morto in modo disumano e degradante, in «Corriere della Sera», 4 dicembre 2009.

Giustizia: siamo passati da detenzione penale a quella sociale, in «Redattore Sociale», 21 novembre 2009.

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Saluzzo: nel carcere impianto di produzione di birra artigianale, dal sito www.ecodelchisone.it, 13 maggio 2009.

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ANDRIOTTO A., Carceri abitate sempre più spesso da giovani dete-nuti, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 38.

ARZONE R., Sono venuto a dirvi che Dio vi ama, in BAROSCO D., Detenuto, ma quanto mi costi! – Le carceri scoppia-

no, ma non di salute, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informa-zioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 46.

BASSO S., Giustizia: così si muore di sotto organico in un carcere mi-norile, in «Left», 4 dicembre 2009.

BERTANI M., Si continua a morire nell’indifferenza del mondo, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Re-dazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 41.

CACCIA E., Giustizia: la civiltà delle carceri, una sfida culturale e di diritto, in «Il Socialista Lab», 17 settembre 2009.

CARLUCCI D., Sciopero della fame, detenuto muore a Pavia, in «La Repubblica», 9 settembre 2009.

GERMANI G., Le celle sono invase da simpatici ed innocenti scara-faggi, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 44.

GERMANI G., Le giornate passano tra attese per la doccia e turni per poter usare il bagno, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informa-zioni», a cura della Redazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 39.

LONARDI V., Spesso è la vita da galera che spinge al suicidio, in «Carceri strapiene... addio articolo 27 della Costituzione? Dossier Sovraffollamento – Testimonianze e informazioni», a cura della Re-dazione di «Ristretti Orizzonti», luglio 2009, p. 40.

LUCIDI F., Lodi: 16 detenuti escono dal carcere, per pulire rive del-l’Adda, in «Il Giorno», 14 maggio 2009.

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MORELLI F., intervistato sul blog di Beppe Grillo (www.beppe-grillo.it), in Morire di carcere – intervista a Ristretti Orizzonti.

PUGLISI R., Sicilia: lavoro in carcere; i soldi ci sono, ma mancano gli spazi, in www.livesicilia.it, 16 maggio 2009.

RETICO A., Era malata, non poteva stare dentro. Inascoltate decine di perizie psichiatriche, in «La Repubblica», 2 novembre 2009.

RUSSO SPENA G., Giustizia: quegli orrori dimenticati, dietro le mu-ra delle carceri, in «Terra», 4 novembre 2009.

SCALA G., Napoli: muore detenuto di 25 anni, procura apre un’in-chiesta, in «Gazzetta del Mezzogiorno», 4 novembre 2009.

TINTI B., Carceri, giustizia e separazione delle carriere e la soluzio-ne Perduca spiegata a La7, in «Toghe Rotte», rubrica consultabile sul sito http://antefatto.ilcannocchiale.it

Sitografia

http://blog.schole.it/http://filmup.leonardo.it/sc_tuttacolpadigiuda.htmhttp://urladalsilenzio.wordpress.com/tag/pestaggi/http://www.agensir.irhttp://www.beppegrillo.ithttp://www.giovaniemissione.it/testimoni/papa23carcerati.htmhttp://www.mymovies.it/tuttacolpadigiuda/davideferrario/http://www.radiocarcere.comhttp://www.sensibiliallefoglie.it/chi_coop.asphttp://www.vatican.va/jubilee_2000/pilgrim/documents/ju_gp_

01082000-2c_it.html

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RINGRAZIAMENTI

Un particolare e vivo ringraziamento va a Lidia Maggi che, dopo una bella discussione sul carcere e nonostante i mille impegni, mi ha regalato una bellissima prefazione!

Un grazie infinito va a Ornella Favero e a «Ristretti Orizzonti» che, con le loro precise e puntuali rassegne stampa giornaliere, mi hanno illustrato le mille problematiche della realtà carceraria, facen-domi conoscere un mondo nuovo che conoscevo poco!

Ringrazio sentitamente anche Daniela De Robert, Christian De Vito e N.V., che mi hanno fatto comprendere la vita reale dentro la struttura carceraria: continuate così amici e volontari, e forse qual-che cosa cambierà lì dentro. Almeno è ciò che noi speriamo!

Grazie anche a Claudio Torrero, a mia moglie Chiara Giacomet-ti e ai ragazzi del progetto del Liceo Psicopedagogico «Federico Al-bert» di Lanzo Torinese che, dopo aver passato alcuni giorni all’in-terno della Casa circondariale «Lorusso e Cotugno» (più noto a tutti come carcere «Le Vallette» di Torino), ci hanno dato la loro testimo-nianza scritta.

Grazie anche all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Torino e Asti, a Juri Nervo, a Vilma Demitri. Mi scuso se ho dimenticato qualcuno...

Un sentito ringraziamento va anche all’editore di questo libro e a tutti coloro che, all’inizio di quest’avventura, mi hanno sostenuto e hanno ricevuto il mio messaggio di aiuto affinché tale saggio si po-tesse realizzare.

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INDICE

Prefazione (Lidia Maggi) ..................................................... pag. 3

Introduzione ...................................................................... » 9

Le carceri scoppiano...E c’è chi chiede (e ottiene) il risarcimento ............................ » 13

Morire di carcere ................................................................ » 22 La storia di Manuel ........................................................ » 23 Stefano è morto di carcere ............................................. » 25 Altre morti sospette nelle nostre carceri .......................... » 31 Pianosa – Cronache dall’Inferno .................................... » 36

I suicidi in carcere .............................................................. » 40

Chi vive realmente il carcere .............................................. » 46 Intervista al Direttore della Casa circondariale di Reggio Calabria .................................................... » 46 Intervista alla Direttrice di «Ristretti Orizzonti» ............. » 52 Intervista a N.V., ergastolano ......................................... » 62 Intervista a Daniela De Robert, volontaria a «Rebibbia» ............................................. » 64 Intervista a Christian De Vito, ricercatore e volontario nelle carceri di Firenze .......... » 71 Alcune lettere di detenuti dalle carceri italiane ............... » 80 Condizioni di disagio della Polizia penitenziaria ............ » 85 Il carcere minorile .......................................................... » 95

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Intervista al Direttore del carcere minorile «Ferrante Aporti» di Torino ....................................... » 99 Testimonianza di Juro Nervo – Fondazione AGAPE di Torino .................................. » 106

Il lavoro dei detenutiAlcuni esempi in giro per l’Italia ......................................... » 111

Madri e figli in carcere ....................................................... » 118 Le donne della Giudecca – Storia di Emiliana, una detenuta di tre anni .............. » 124 Giuliana – Mamme e bambini in carcere: il «nido» penitenziario della Giudecca ....................... » 127 Mi sono sentita abbandonata! G., figlia di una ex detenuta ...................................... » 135

Cinema e carcere ................................................................ » 136 La retta via ..................................................................... » 137 Tutta colpa di Giuda ...................................................... » 138 L’aria salata .................................................................... » 140 Mery per sempre ............................................................ » 141 Detenuto in attesa di giudizio ........................................ » 142

Appello per la tutela art. 27 della Costituzione italiana ..... » 144

Ragazzi in carcereTestimonianze di studenti e docentidella Provincia di Torino .................................................... » 146 Il carcere: un ambiente possibile per la «rieducazione» ... » 146 Entrando in carcere ....................................................... » 148 Una vita in carcere ......................................................... » 149 Come in un film ............................................................ » 151 L’importanza della libertà ............................................... » 152 Tutto il contrario della televisione .................................. » 153 Liceali a contatto con la realtà del carcere ...................... » 154

Il riscatto dell’ex detenutoLe misure alternative alla detenzione .................................. » 167

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Chiesa e carcereDa Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II ............................ » 171 Discorso di papa Giovanni XXIII ai carcerati di «Regina Coeli» .................................... » 171 Il Giubileo dei detenuti ................................................. » 172 Lettera-sogno del cappellano di Rebibbia al Papa ............ » 175

Conclusioni ....................................................................... » 177 La vera prigione di Ken Saro-Wiwa ................................. 179 Postfazione – Il senso della giustizia (Vilma Demitri) ........ » 180

Appendice .......................................................................... » 185 Difendiamo l’articolo 27 della Costituzione ................... » 186 Dati sulla situazione carceraria in Italia .......................... » 188 Lettere di due carcerati .................................................. » 193 Scheda: Antigone in carcere – Calabria .......................... » 196 Scheda: Fondazione Agape ............................................ » 199

Bibliografia ......................................................................... » 201

Ringraziamenti ................................................................... » 205

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