MONARCHIA O REPUBBLICA? IL REFERENDUM DEL 2 GIUGNO … di storia/faenza dopoguerra/relazioni... ·...

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1 Elena Bertozzi – Chiara Nicoli MONARCHIA O REPUBBLICA? IL REFERENDUM DEL 2 GIUGNO 1946 A FAENZA Introduzione Nell’estate del 1943, all’indomani della caduta di Mussolini (25 luglio), si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), composto dai rappresentanti dei vecchi e dei nuovi partiti dell’antifascismo italiano; PCI, DC, PSIUP, PLI, Pd’A, Democrazia del lavoro, infatti, vi aderirono, ma il PRI no, perché non fu preventivamente dichiarata dal CLN la scelta a favore di un’Italia repubblicana. Già da allora, quindi, si pose in maniera esplicita il problema relativo alla forma istituzionale da dare al paese una volta uscito dalla guerra, problema che bloccò l’attività del CLN fino alla svolta di Salerno dell’aprile ‘44, quando, a sorpresa, Togliatti, appena rientrato dall’URSS, manifestò l’intenzione del PCI di partecipare ad un governo monarchico (diretto poi da Bonomi), che avesse come primario obiettivo la liberazione d’Italia, mentre rimandava a dopo la guerra il problema della scelta istituzionale. Durante la lotta di liberazione, nell’Italia settentrionale occupata dai nazi-fascisti, fu il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), all’interno del quale prevalevano forti istanze repubblicane, a guidare le azioni di guerriglia delle bande partigiane che, a partire dall’armistizio (8 settembre ’43), avevano visto progressivamente ingrossare le loro file dalle venti- trentamila unità dell’inizio del 1944 alle oltre centomila unità alla vigilia della Liberazione (25 aprile ’45). Nel Mezzogiorno si costituì invece un governo monarchico che, sotto la tutela degli alleati, fu inizialmente guidato dal maresciallo Badoglio e fu composto dai sostenitori della monarchia ma non dai rappresentanti dei principali partiti antifascisti, che invece aderirono, dopo la svolta di Salerno, al nuovo governo Bonomi, in una forzata convivenza con le vecchie élite legate alla corona, che, sostanzialmente incompatibili con i partiti della sinistra, trovarono nella neonata Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, erede del Partito Popolare di don Sturzo e pur, in linea di principio, favorevole alla repubblica, un nuovo punto di riferimento politico. Fu così che all’indomani della guerra si assistette ad una progressiva ridefinizione dei rapporti di forza tra i partiti che avevano promosso la Resistenza ed emerse in maniera sempre più netta la contrapposizione che opponeva i grandi partiti della sinistra, il Socialista guidato da Pietro Nenni, e il Comunista di Palmiro Togliatti, alla DC, mentre gli altri partiti furono in breve tempo relegati al ruolo di comprimari. Se infatti, nel giugno 1945, con la nomina di Ferruccio Parri, l’amatissimo partigiano “Maurizio” capo del CLNAI e membro del Partito d’Azione, a presidente del Consiglio, sembrò che la Resistenza, in parte significativa, raccolta intorno al Pd’A, fosse giunta al potere e potesse realizzare le innumerevoli speranze sorte durante la lotta antifascista, già nel corso di quell’estate tale aspettativa si rivelò illusoria ed il governo Parri cadde nel novembre del 1945. Uno dei principali motivi di questo insuccesso fu Parri medesimo: uomo coraggioso, onesto e largamente rispettato, dimostrò però di non possedere le capacità necessarie ad un Presidente del Consiglio. Ma dietro il personale fallimento di Parri stavano i limiti del suo stesso partito, che fu di fatto paralizzato dalle divisioni interne tra l’ala socialista, guidata da Emilio Lussu, e quella moderata liberal-democratica di Ugo La Malfa. Spettò quindi al successivo governo De Gasperi, dominato dai

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Elena Bertozzi – Chiara Nicoli

MONARCHIA O REPUBBLICA? IL REFERENDUM DEL 2 GIUGNO 1946 A FAENZA

Introduzione

Nell’estate del 1943, all’indomani della caduta di Mussolini (25 luglio), si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), composto dai rappresentanti dei vecchi e dei nuovi partiti dell’antifascismo italiano; PCI, DC, PSIUP, PLI, Pd’A, Democrazia del lavoro, infatti, vi aderirono, ma il PRI no, perché non fu preventivamente dichiarata dal CLN la scelta a favore di un’Italia repubblicana.

Già da allora, quindi, si pose in maniera esplicita il problema relativo alla forma istituzionale da dare al paese una volta uscito dalla guerra, problema che bloccò l’attività del CLN fino alla svolta di Salerno dell’aprile ‘44, quando, a sorpresa, Togliatti, appena rientrato dall’URSS, manifestò l’intenzione del PCI di partecipare ad un governo monarchico (diretto poi da Bonomi), che avesse come primario obiettivo la liberazione d’Italia, mentre rimandava a dopo la guerra il problema della scelta istituzionale.

Durante la lotta di liberazione, nell’Italia settentrionale occupata dai nazi-fascisti, fu il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), all’interno del quale prevalevano forti istanze repubblicane, a guidare le azioni di guerriglia delle bande partigiane che, a partire dall’armistizio (8 settembre ’43), avevano visto progressivamente ingrossare le loro file dalle venti-trentamila unità dell’inizio del 1944 alle oltre centomila unità alla vigilia della Liberazione (25 aprile ’45).

Nel Mezzogiorno si costituì invece un governo monarchico che, sotto la tutela degli alleati, fu inizialmente guidato dal maresciallo Badoglio e fu composto dai sostenitori della monarchia ma non dai rappresentanti dei principali partiti antifascisti, che invece aderirono, dopo la svolta di Salerno, al nuovo governo Bonomi, in una forzata convivenza con le vecchie élite legate alla corona, che, sostanzialmente incompatibili con i partiti della sinistra, trovarono nella neonata Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, erede del Partito Popolare di don Sturzo e pur, in linea di principio, favorevole alla repubblica, un nuovo punto di riferimento politico.

Fu così che all’indomani della guerra si assistette ad una progressiva ridefinizione dei rapporti di forza tra i partiti che avevano promosso la Resistenza ed emerse in maniera sempre più netta la contrapposizione che opponeva i grandi partiti della sinistra, il Socialista guidato da Pietro Nenni, e il Comunista di Palmiro Togliatti, alla DC, mentre gli altri partiti furono in breve tempo relegati al ruolo di comprimari.

Se infatti, nel giugno 1945, con la nomina di Ferruccio Parri, l’amatissimo partigiano “Maurizio” capo del CLNAI e membro del Partito d’Azione, a presidente del Consiglio, sembrò che la Resistenza, in parte significativa, raccolta intorno al Pd’A, fosse giunta al potere e potesse realizzare le innumerevoli speranze sorte durante la lotta antifascista, già nel corso di quell’estate tale aspettativa si rivelò illusoria ed il governo Parri cadde nel novembre del 1945. Uno dei principali motivi di questo insuccesso fu Parri medesimo: uomo coraggioso, onesto e largamente rispettato, dimostrò però di non possedere le capacità necessarie ad un Presidente del Consiglio. Ma dietro il personale fallimento di Parri stavano i limiti del suo stesso partito, che fu di fatto paralizzato dalle divisioni interne tra l’ala socialista, guidata da Emilio Lussu, e quella moderata liberal-democratica di Ugo La Malfa. Spettò quindi al successivo governo De Gasperi, dominato dai

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grandi partiti di massa DC, PSIUP e PCI, il compito ormai imprescindibile di procedere alla scelta della forma istituzionale da dare al nuovo stato: decidere, cioè, tra l’opzione monarchia e quella repubblica.

La sensazione di una sostanziale incertezza dell’elettorato di fronte alla soluzione da adottare, pur non modificando l’atteggiamento dei maggiori partiti favorevoli alla forma repubblicana, rendeva però opportuno un loro ripensamento circa la devoluzione di tale scelta all’Assemblea costituente. E ciò anche perché si veniva richiedendo, da parte dei gruppi conservatori, l’introduzione del voto obbligatorio, nella speranza che, evitando l’assenteismo, si potesse determinare un notevole afflusso di suffragi per le formazioni favorevoli al mantenimento della monarchia. Tale richiesta finiva, infatti, col creare difficoltà soprattutto alla Democrazia Cristiana, che aveva optato per la soluzione repubblicana, pur contando su un elettorato tendenzialmente monarchico, soprattutto nelle province meridionali.

Per risolvere questa delicata situazione, il governo, condizionato dalla fortissima pressione di De Gasperi in tal senso, decise allora, con il D.Lt. n.98 del marzo 1946, di sottrarre all’Assemblea Costituente il potere di deliberare sulla forma istituzionale, rimettendolo invece direttamente al popolo mediante un referendum da effettuarsi contemporaneamente alle elezioni dei deputati della Costituente. Tale decreto stabiliva inoltre che, nel caso della scelta repubblicana da parte del popolo, l’Assemblea avrebbe dovuto eleggere il Capo provvisorio dello Stato di cui fissava le attribuzioni. In questo modo essa si sarebbe trovata di fronte a una soluzione precostituita della questione istituzionale, potendo così dedicarsi esclusivamente alla redazione della nuova costituzione.

Le ragioni di De Gasperi appaiono dunque chiare: impose il referendum per nascondere la divisione esistente tra l’elettorato DC, in gran parte di sentimenti monarchici, e i quadri del partito, favorevoli prevalentemente alla repubblica. Nell’Assemblea, infatti, una simile divisione non si sarebbe potuta mascherare ed il partito avrebbe rischiato un danno permanente.

De Gasperi era poi già riuscito a posticipare la data delle elezioni politiche. Come ministro degli Esteri del governo Parri era infatti in costante contatto con gli alleati, i quali lo consigliarono di far precedere le elezioni amministrative a quelle nazionali. Il ragionamento era semplice: più tempo c’era perché «la lava incandescente del 1945» si raffreddasse, più possibilità avevano i moderati d’imporsi elettoralmente. De Gasperi, avvertendo la disponibilità dei due principali partiti della sinistra ad assecondarlo anche su punti sostanziali in attesa della loro “sicura” vittoria elettorale, li forzò minacciando una crisi ministeriale nel caso il suo punto di vista non fosse stato accolto dal governo. Le elezioni politiche furono così fissate, sempre dal decreto sopra indicato del marzo ‘46, per il 2 giugno dello stesso anno, più tardi di ogni altro paese che avesse sofferto l’occupazione nazista.

I dirigenti della sinistra avevano dunque appoggiato De Gasperi nella speranza di una campagna elettorale libera dalle preoccupazioni di ulteriori crisi politiche e in grado di assicurare loro quella vittoria che, al tempo, credevano certa. La scelta di un referendum popolare sembrava poi ricollegarsi alla tradizione risorgimentale. Anche durante il processo di unificazione nazionale, infatti, tra il 1859 e il 1870, era stata la popolazione delle varie regioni della penisola a decidere a suffragio universale diretto delle annessioni al regno di Sardegna prima e d’Italia poi, ratificando così col proprio voto la soluzione monarchico/costituzionale del problema italiano in quella sorta di patto tra la dinastia sabauda e i suoi sudditi che venne esaltato e mitizzato dalla pubblicistica del tempo. Ora, dopo che l’esperienza fascista e la guerra perduta avevano mostrato la scarsa credibilità di un simile patto, agli occhi delle maggiori formazioni politiche, interpreti della volontà popolare, apparve dunque opportuno ricorrere di nuovo ai cittadini perché esprimessero la loro volontà sul mantenimento della vecchia forma monarchica o sull’introduzione della nuova forma repubblicana.

Ma questa scelta fu anche la ragione per cui Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto, già luogotenente generale del Regno dal giugno 1944. Consapevole della sensibilità e dell’emotività degli italiani, il vecchio ed ormai compromesso re sperava così d’indurne la

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maggioranza a concedere nuovamente il proprio suffragio alla monarchia. Anche se l’abdicazione avrebbe dovuto apparire come un fatto di scarsa rilevanza per il già avvenuto trapasso dei poteri sovrani dal re al luogotenente, tuttavia le formazioni repubblicane ritennero che con essa la dinastia avesse violato la tregua istituzionale inaugurata a Salerno, nel tentativo di precostituire una situazione più favorevole alla vittoria della monarchia. In questo non mancarono le polemiche tra i partiti della stessa coalizione governativa, accompagnate da una forte mobilitazione della sinistra e con riflessi sullo stesso Consiglio dei ministri del 10 maggio 1946. In quella sede, infatti, il governo, dopo un ampio dibattito nel quale dovette prendere atto dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, avvenuta il giorno prima, constatato che il mutamento del sovrano era un fatto interno alla dinastia allora ancora regnante e, pertanto, non soggetto a ratifiche o sanzioni delle forze politiche, né, ai sensi delle condizioni di armistizio, subordinato all’approvazione dell’autorità alleata di controllo, si limitò a stabilire che, per l’avvenire, gli atti pubblici sarebbero stati intestati al solo nome di Umberto II, Re d’Italia, omettendo la tradizionale formula “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Con tale omissione, decisa dal ministero, si veniva a dare rilievo all’assenza di un consenso popolare alla dinastia, restando in attesa del giudizio dell’elettorato.

Nel frattempo, in tutta Italia, si erano tenute le elezioni amministrative durante le quali l’affluenza alle urne fu altissima. A Faenza i risultati indicarono la D.C. come partito di maggioranza relativa con 15 consiglieri (voti 9203), seguita dal Partito Socialista (voti 6433) e dal Partito Comunista (voti 6331) con 10 eletti ciascuno e ultimo il Partito Repubblicano con 5 eletti (voti 3315). Non ebbero seggi partiti quali il Partito d’Azione (voti 366) e il Partito Liberale (voti 191). Ma pure qui come in tutto il paese, oltre ai risultati locali si guardava con attenzione ai primi dati riepilogativi a livello nazionale per cercare di capire i rapporti di forze tra i partiti e per fare previsioni sulle prossime elezioni politiche.

Ovviamente anche a livello locale si viveva la contrapposizione tra i partiti della sinistra e la Democrazia Cristiana, che dava adito ad accese polemiche e ad interminabili discussioni tra le parti. Nei circoli, nelle parrocchie, nelle frazioni, si tenevano comizi ed incontri durante i quali si parlava di politica e si raccoglievano iscrizioni ai partiti. Gli argomenti più dibattuti erano le libertà individuali del cittadino, la proprietà della terra e dei mezzi di produzione, il rapporta tra stato e cittadino, tra stato e famiglia ecc. Su un punto però tutti i partiti che si contendevano la piazza faentina erano d’accordo: il nuovo stato che stava nascendo dalle ceneri della guerra e della dittatura doveva essere una repubblica. La propaganda

La campagna elettorale si svolse nelle strade, nelle piazze, nei mercati di tutto il paese: i simboli e gli slogan attaccati ai muri, i comizi sempre gremiti ne erano l'aspetto più vistoso e rappresentavano un’assoluta novità per una nazione abituata a vent’anni di dittatura, per cui spesso si ricorreva al consiglio dei più anziani, che avevano vissuto nell'Italia prefascista, per averne indicazioni sui comportamenti da tenere in una simile situazione.

Ma la propaganda più efficace era quella dei migliaia di attivisti che, girando casa per casa, creavano momenti di discussione un po’ dovunque. I più preparati organizzavano vere e proprie sceneggiate in cui si rappresentavano le posizioni di chi era pro e di chi era contro, spesso con tale realismo che, al Nord dove la repubblica primeggiava indiscussa, il compagno che si prestava al ruolo di monarchico rischiava le botte. Scontri reali e cruenti erano invece all'ordine del giorno nel Mezzogiorno dove il partito monarchico era forte, organizzato e raccoglieva consensi anche in strati popolari e sottoproletari alternando l’elargizione dei pacchi di pasta e delle scarpe nuove a vere e proprie aggressioni, come nella Napoli di Achille Lauro.

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Principali protagonisti della campagna elettorale repubblicana furono, almeno nelle regioni settentrionali, i giovani, la cui presenza nelle manifestazioni era resa ancor più visibile dai canti che intonavano e dai loro cartelli disegnati a mano, con caricature e scritte fantasiose, spesso molto belle, che emergevano tra le bandiere nazionali e di partito. Erano loro ad affiggere i manifesti con la colla casalinga, acqua e farina cucinate da madri compiacenti, a fare le scritte di vernice rossa sui muri ed a preparare i volantini ad inchiostro da stampa, in qualche tipografia “amica”. Erano poi sempre loro a distribuirli e ad animare i dibattiti di strada.

Alla generazione che non aveva mai esercitato il diritto di voto si aggiungevano poi gli anziani che lo avevano dimenticato, molti dei quali analfabeti, e infine le donne. Per la prima volta, infatti, fra i dubbi e le perplessità dei maschi italiani, frequenti anche tra quelli progressisti, tutte le donne italiane andavano a votare e a loro si poneva, oltre al problema dell'orientamento politico, quello dell'esercizio materiale del voto. Furono proprio i “ragazzi” e le “ragazze” a studiare i regolamenti e a spiegare ai coetanei e ai più anziani, cominciando dalla propria famiglia, «come si vota». C'erano gli antifascisti riottosi che insistevano per firmare la scheda «perché io non ho paura di nessuno», repubblicani decisi a cancellare con una croce il simbolo degli odiati Savoia e soprattutto uomini e donne che temevano di sbagliare, di confondersi, di farsi vincere dall'emozione e chiedevano di portarsi nella cabina un congiunto o un compagno più preparato. Quanta pazienza, quanto fiato, quanti pacchi di facsimili di scheda! E per molti, anche l’amarezza di non poter votare.

I ragazzi di 19-20 anni appena scesi dalle montagne dove avevano combattuto, comandato formazioni partigiane, subito carcere e tortura, e le loro coetanee che avevano rischiato la vita ogni giorno portando armi, viveri e ordini nelle borse della spesa, arrancando in bicicletta fra un posto di blocco tedesco e un ponte crollato, non accettavano facilmente di non essere considerati idonei ad una operazione semplice e non rischiosa come il voto, di non essere chiamati a decidere sulla sorte del paese che avevano liberato. Ma si votava a 21 anni compiuti: bisognava quindi rassegnarsi a insegnare agli altri a votare, spiegare che il re Vittorio Emanuele aveva aperto le porte al fascismo, l'aveva sostenuto e alla fine era scappato insieme a suo figlio Umberto, lasciando l'Italia in balia dei tedeschi; che occorreva fare una repubblica democratica, con un Parlamento eletto da tutto il popolo. Ognuno si sbizzarriva in esempi e citazioni: da Garibaldi a Lenin, dalla Repubblica Romana alla Repubblica dei Soviet fino a quella partigiana dell'Ossola, di cui si aveva appena avuto notizia.

Dalla parte dei monarchici ci si appellava invece ai valori della tradizione, come dimostra il volantino che alcuni di loro affissero a Ferentino, nel Lazio. «1. liberarvi da ogni credenza religiosa, da quel rispetto di Dio che vi hanno inculcato i sacerdoti e che non serve ad altro che a opprimere e soffocare il vostro spirito; 2. vogliono liberarvi finalmente dalla schiavitù matrimoniale e liberarvi dal laccio che vi restringe la gola, dall’unità famigliare, dandovi quel bellissimo rimedio che è il divorzio; 3. vogliono innalzare la donna, mettendola alla pari dell’uomo in tutte le manifestazioni della vita e specialmente nel diritto a ogni libera iniziativa nell’amore; 4. vogliono togliervi i fastidi e il peso dei figli, che appena nati saranno sottratti alla cure dei genitori e assunti a se dallo Stato, questo gran padre comune che, in sé tutto accentrando, provvede a tutti. Questi sono i sentimenti che cercano di ispirarvi i repubblicani e i partiti di sinistra, portando il dissolvimento della famiglia, staccandovi dalla religione, incitando le vostre donne all’immoralità. Questo è il pericolo che correte votando per la Repubblica e per il blocco social-comunista.» (Testo di volantino monarchico dell’archivio Casadio – Faenza)

A Faenza vi fu una notevole produzione di materiale di propaganda: opuscoli, manifesti e

volantini venivano diffusi in abbondanza. Molti erano diretti alle donne, in quanto venivano chiamate per la prima volta al voto. Gli attivisti dei partiti attaccavano manifesti per tutta la città,

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quasi senza regole, e a volte, durante la fissione, se gruppi di formazioni politiche diverse si incontravano, poteva scapparci qualche scazzottata.

Fu ripresa anche la stampa di quei giornali di partito che avevano dovuto interrompere le pubblicazioni sotto la dittatura. Il primo fu “Il Lamone”, settimanale dei repubblicani faentini, che uscì il 6 ottobre del 1945, a cura di Antonio Piani, seguito il 25 ottobre da “Il Socialista”, diretto da Silvio Mantellini. Il 10 febbraio 1946 uscì “Azione Democratica”, organo della DC faentina, diretto dal Prof. Alberto Buda. Il settimanale del Partito Comunista “Bandiera Rossa”, diretto da Gaetano Verdelli, nacque invece il primo maggio 1946 e sostituì il precedente “Bollettino delle sezioni faentine del PC”.

Avvicinandosi alla scadenza elettorale, sia del 17 marzo che del 2 giugno, i settimanali dei partiti erano pieni di appelli agli elettori e di calendari dei comizi che si tenevano in città e nelle frazioni. Venivano riportati anche gli elenchi dei candidati, dai quali risultava con evidenza la rappresentanza di tutte le classi sociali. È curioso notare che la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista, negli elenchi elettorali per le elezioni amministrative del 17 marzo, per meglio identificare i candidati provenienti dalla campagna, oltre al nome e alla frazione di residenza, indicavano il soprannome in dialetto, così a Bagatè, Rafael, Luminèt o Bazela, per la Democrazia Cristiana, si contrapponevano, per il PCI, Furliset, Galinè, Giuntì o Vuina.

W la Repubblica

Al contrario di quella monarchica, la propaganda repubblicana a Faenza fu molto rumorosa,

energica e determinata. I mezzi adottati furono i più svariati e la diffusione della pubblicistica elettorale fu ampia e capillare, garantita dal gran numero di attivisti e dalla schiacciante maggioranza di favorevoli alla parte repubblicana presenti nel faentino.

Non furono impiegati solo manifesti e volantini, ma anche molte pagine dei giornali locali e molti furono i motivi che i sostenitori della repubblica utilizzarono per polemizzare con la parte avversa.

Fu molto usato, strumentalmente ai fini elettorali, il timore suscitato dal carattere personale del potere monarchico, che spaventava a causa del ricordo ancora vivo della dittatura mussoliniana e che perciò divenne uno dei temi preferiti della propaganda repubblicana, la quale non si faceva scrupolo d’identificare, senza troppe sottigliezze, la monarchia con la dittatura e la repubblica con la democrazia, come appare in questo articolo de Il Lamone del 18 maggio: «Le frasi fatte circolano, le parole vuote di senso si moltiplicano, gli stati d’animo si diffondono: la forza dell’ignoto soggioga le fantasie suggestionabili. Perché? I salti nel buio si compiono quando il potere lo ha un solo uomo o un solo partito. I salti nel buio non sono mai possibili quando il potere è di tutti. […] Soltanto la monarchia ha esercitato finora una dittatura, affidando il potere ad un solo partito armato. Una maggioranza governerà e una minoranza di opposizione controllerà. Chi teme salti nel buio o è ignorante o è in malafede.»

La paura del nuovo, tipico spauracchio ventilato dai monarchici di fronte all’innovazione repubblicana, viene combattuta contrapponendole quella di un ritorno al recente passato, che spinge a una riproposizione continua del tema delle potenziali evoluzioni dittatoriali del regime monarchico. Durante la campagna elettorale, tale contrapposizione ritorna infatti su ogni numero de “Il Lamone”, come nell’articolo scritto da Giovanni Conti e pubblicato l’11 maggio ’46, in cui la monarchia si fa sinonimo di un’oppressione che gli italiani non vogliono più sperimentare, contraria agli ideali di libertà ed autonomia che invece rappresentano due dei temi “storici” della tradizione repubblicana sia del PRI che del Pd’A: «Non vogliamo lo Stato padrone, non vogliamo l’oppressore. Noi vogliamo la libertà per realizzarla, noi vogliamo la rinascita del nostro Comune». E di nuovo e ancora più esplicitamente, in apertura del numero del 1 giugno, proprio alla vigilia della chiamata alle urne, dove si afferma in modo stentoreo che «Il passato di disordine e di vergogna della monarchia fascista potrà essere cancellato solo votando per la repubblica». Il

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recente passato cancella quello più antico e viene sistematicamente usato per annullare il ruolo decisivo che la dinastia sabauda ha avuto nella realizzazione dello stato nazionale.

Altro motivo di costante polemica è, per i repubblicani, il carattere semi-clandestino della propaganda monarchica, come viene denunciato su “Il Lamone” del 25 maggio 1946: «Il fronte monarchico ha poco coraggio di mostrare la faccia. È alla stampa clandestina. Infatti giungono da parte di ignoti mittenti plichi a mano, postali, raccomandati, da preti, specialmente da parroci, direttori di istituti di educazione e collegi a presunti agnostici ed anche ad appartenenti ad altri partiti, contenenti la più stupida propaganda che si possa immaginare. Vi si legge la vecchia retorica patriottarda, la melliflua prosa di dedizione alla casa Savoia, l’elogio di meriti e glorie presunte dei re sabaudi. L’esaltazione della bellezza fisica serve a solleticare gli istinti pietosi di chi non sa o chi ha interesse alla restaurazione monarchica. Richiamo la memoria dei lettori ai vent’anni di fascismo, ai dolori, alle morti, alle sevizie, alle distruzioni che ci sono state imposte dalla monarchia sabauda. Meditino i lettori della propaganda monarchica e giudichino».

Tema questo che si accompagna all’accusa di spregevole ipocrisia rivolta ai monarchici, che se ne servirebbero nel disperato tentativo di recuperare un risultato che qui appare quasi scontato. Il Lamone dell’11 maggio infatti avverte: «Attenzione! Un’altra losca manovra elettorale monarchica abbiamo scoperto. Agenti elettorali monarchici vanno per le campagne ad insegnare agli elettori che per votare per la Repubblica basta tracciare una croce sullo stemma della Monarchia, il che vorrebbe dire cancellarlo. No, così si vota per la monarchia. Elettori state attenti, non lasciatevi sorprendere o ingannare.»

Quando poi il re Vittorio Emanuele abdica a favore del figlio Umberto, la polemica sull’ipocrisia della monarchia si arricchisce di nuovi esempi. Ecco cosa sostiene “Il Lamone” del 18 maggio: «Le manovre sfacciatamente, spudoratamente anticostituzionali e anti-italiane della monarchia sabauda non hanno tregua. Siamo arrivati ad una abdicazione che è antistatuaria e antigiuridica. […] I danni che nella forma istituzionale monarchica sono derivati all’Italia ed al suo popolo e le colpe storiche e morali che sono specifiche della dinastia sabauda, sono tali e tante e così vituperevoli che ormai non torna più il conto a ripeterli. Essi sono patrimonio di tutte le menti e di tutti i cuori italiani».

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Ed ancora nel numero del 18 maggio: «Abdicazione, nuovo re (per modo di dire), manifestazioni “spontanee” di simpatia monarchica a Roma, altisonanti grida dei prezzolati della monarchia, volantini e giornali di propaganda monarchica esposti alla luce delle tenebre. Ecco la monarchia all’attacco. E non sarà tutto qui. Chi ha affisso i giornali e i manifesti monarchici nella nostra città? Non sono forestieri, sono cittadini di Faenza. Escano questi signori dall’ombra vergognosa dell’anonimato, abbiano il coraggio di dichiararsi apertamente monarchici e scendano con noi nei pubblici comizi. Avrebbero la nostra stima di avversari politici, così invece hanno il disprezzo di tutti. Abbiano il pudore, se evidentemente vi fossero, di non nascondersi sotto la bandiera di un partito repubblicano approfittando di non ben chiare situazioni. Siano onesti, se pur lo possono, verso se stessi e verso gli altri. I veri repubblicani, i veri italiani pazientino, siano calmi, lascino cadere le provocazioni. Il due giugno è vicino, la condanna della monarchia non può mancare».

Ipocrisia e codardia di re e ipocrisia e codardia di sudditi fanno tutt’uno, quasi ad identificare una caratteristica strutturale del regime monarchico e dei suoi sostenitori, che non può quindi venir annullata da una semplice sostituzione di persone. L’unica alternativa è la certezza della vittoria repubblicana.

Che i monarchici faentini non potessero che sentirsi come pesci fuor d’acqua nella loro città e che questo li inducesse a comportamenti «codardi» o comunque non limpidi, c’è stato testimoniato anche dal conte Francesco Zauli Naldi che, al tempo giovane monarchico, ci ha raccontato come anche lui diede una mano nella distribuzione di volantini prestampati, spinto a ciò dal cugino. Ma è proprio il modo in cui lo fece, così come egli ce l’ha narrato, a confermare le accuse repubblicane, anche se dal suo racconto appaiono evidenti anche le difficili condizioni in cui i sostenitori della monarchia si trovarono ad operare e che certamente non li incoraggiarono ad una comunicazione trasparente delle proprie opinioni. Infatti ricorda: «Prendemmo [lui ed il cugino] la bicicletta e ci mettemmo a lanciare volantini attraversando Piazza del Popolo, tra la gente… che iniziò a correrci dietro! La nostra corsa durò poco perché fummo presto raggiunti e portati in questura dove allora si erano stabiliti i partigiani, proprio nel sito dell’attuale bar Rossini. Ci rimanemmo finché le acque non si furono calmate e il crocchio di gente formatasi fuori non si disperse. Poi, con l’aiuto del questore, uscimmo dal retro».

La durezza dei repubblicani oltre che nel contatto diretto con gli avversari, si manifesta anche negli scritti, dai giornali ai volantini sparsi per l’intera città. Ne riportiamo uno il cui testo, oltre a riassumere i vari motivi della pubblicistica antimonarchica, li enfatizza con parole ed immagini particolarmente crude, ma che, se credute vere, rendono a loro volta ragione dell’atteggiamento intransigente dei repubblicani: «Se la corruzione, gli imbrogli, le commedie del principe trasformato in re; la propaganda delle signore dell’aristocrazia e dei neo-fascisti; se l’imbecillità, la cretineria, il servilismo prevalessero e la monarchia ripiombasse sopra l’Italia, la libertà sarebbe finita; la democrazia sarebbe disfatta; il fascismo risorgerebbe; il militarismo soffocherebbe il paese; le gerarchie riprenderebbero il loro posto; le prepotenze, gli arbitri, tutto quanto è stato sopportato per tanti anni sarebbero il pasto quotidiano nostro, delle nostre famiglie, dei nostri figli. Ciascuno deve pensare a questa sorte orribile, non rovinare se stesso, la famiglia, i figli, la Nazione, dando il voto per la monarchia. VOTIAMO PER LA REPUBBLICA»

Inoltre, come già abbiamo detto, i giornali locali riportavano in apposite rubriche i calendari dei comizi e delle conferenze pubbliche, rinviando con ciò i lettori ad approfondire i temi della campagna elettorale in incontri di discussione collettiva, che non dovevano mancare di vivacità.

La frequenza di questi appuntamenti è testimoniata da quelli elencati in appena due numeri consecutivi de “Il Lamone”, che ovviamente si riferisce ai soli comizi del PRI, e dove in quello del 4 maggio, rubrica Cronaca di Faenza si legge: «martedì 7 maggio alle ore 21 nel teatro comunale, il prof. Giuseppe Borgotti dell’Università di Bologna terrà un pubblico comizio per le elezioni della

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Costituente e per il Referendum», «martedì sera [30 aprile] con la conferenza del prof. Gorgio Bonfiglioni tenuta al teatro comunale, la sezione di Faenza del Partito Repubblicano ha iniziato un ciclo di conferenze di propaganda per la battaglia della Costituente e per il Referendum.» E nel numero successivo dell’11 maggio di nuovo: «Calendario dei comizi: sabato 11 maggio alle ore 21 nel teatro comunale di Faenza: avv. Ezio Amadeo; giovedì 16 maggio alle ore 21 Piazza del Popolo a Faenza: dott. Franco Simoncini».

Eccezionale risulta poi l’attivismo comiziale dei socialisti faentini. Si legge, infatti, sul loro organo cittadino Il Socialista del 9 maggio: «Domenica 12 corr., il nostro candidato alla Costituente, compagno Silvio Mantellini, parlerà: alle ore 10 a Fognano, alle 11 a Brisighella, alle 15 a S. Martino in Gattara, alle 16.30 a S. Cassiano e alle 18 a S. Rufillo; il 17 corr. parlerà alle ore 10 a Castel Bolognese, il 19 alle 16 a Barbiano e alle 18 a S. Agata nel Santerno, il 22 alle 10 a Brisighella, il 26 alle 16 a Bagnara e alle 17.30 a Solarolo, il 30 alle 10 a Cotignola e alle 17 a Traversara». Un vero e proprio tour de force. Annunci simili erano poi pubblicati anche su Bandiera Rossa e gli altri giornali di partito.

I comizi e le riunioni pubbliche indette allo scopo di illustrare i programmi elettorali, politici e sociali e di propagandare idee riguardanti la forma istituzionale da dare al paese, erano rivolti soprattutto a lavoratori e contadini che non avevano altrimenti contatti diretti con i partiti. In queste occasioni venivano distribuiti copie dei giornali di partito, opuscoli e volantini espressamente compilati per queste classi sociali. Si legge infatti su “Bandiera Rossa” del 12 maggio che «Domenica 5 maggio il compagno Vigna Mario ha parlato hai contadini di Santa Lucia mettendo in evidenza come il partito comunista intenda difendere i diritti dei contadini».

La lettura di questi quotidiani ci testimonia anche come la popolazione partecipasse numerosa e attenta a questo genere di manifestazioni politiche. “Bandiera Rossa” riporta nel numero del 26 maggio: «Domenica scorsa 19 corr. Alle ore 10.30 nella Piazza del Popolo stipata di convenuti, l’avvocato Randolfo Pacciardi, leader del Partito Repubblicano Italiano, ha parlato al popolo. Dopo aver trattato del programma del Partito Repubblicano, ha illustrato all’uditorio le multiforme manovre reazionarie e quindi auspicando all’unione di tutti gli uomini repubblicani terminava il suo discorso calorosamente applaudito». Similmente si legge nelle righe de Il Socialista del 16 maggio «Il nostro candidato alla Costituente Dott. Gastone Buldrini, la sera del 6 corr., nella sala della nostra sezione ha parlato sui problemi della ricostruzione in rapporto all’importanza della Costituente, citando cifre e documenti. Il chiaro oratore ha ricevuto applausi e consensi dall’uditorio che stipava la sala». W il Re

Seppure la monarchia si sentisse in pericolo, non si perse d’animo, anche se la sua

propaganda, come già ricordato, fu meno rumorosa di quella repubblicana.

Manifesto di propaganda monarchica. La famiglia reale è ritratta come felice ed unita, trasmette fiducia

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I motivi della propaganda monarchica erano molteplici. Oltre alla classica esaltazione della forma di governo monarchica, di tutti i benefici che avrebbe garantito, dei valori della tradizione a cui si sarebbe ispirata e avrebbe difeso, i monarchici utilizzarono anche una “anti-propaganda” che sottolineava le conseguenze catastrofiche, le contraddizioni e i difetti di una Repubblica come forma di governo ancora da sperimentare. Chissà quali disordini avrebbe portato l’assenza di un riferimento stabile e super partes come il re, amato dalle folle e rispettato dalle forze politiche; chissà quanto sarebbe stato facile per le fazioni di estrema sinistra corrompere le masse e portare la nazione allo sfacelo.

Che in effetti la monarchia si sentisse molto minacciata, tanto da mettere in circolazione sulle strade di Faenza volantini «ambigui», non sono solo le accuse dei sostenitori della repubblica a dircelo, ma anche il seguente volantino, che potrebbe essere letto erroneamente come propaganda socialista a favore della monarchia. In realtà l’assenza dalla firma testimonia che queste parole sono di monarchici.

Perfino a De Gasperi, leader della D.C., vennero attribuite dichiarazioni pro-monarchiche. Il suo nome comparì spesso e volentieri nei volantini e manifesti sparsi in tutta Italia, con l’intento di ingannare i cittadini devoti a questa personalità. In realtà De Gasperi era un repubblicano.

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La monarchia puntava molto sulla propaganda anti-comunista …

… e sul richiamo ai valori della tradizione religiosa.

Le norme per il referendum

Come già precedentemente evidenziato, fu cura di tutti chiarire con precisione e pubblicizzare le norme da seguire per il voto, come dimostrano numerosi volantini, di uno dei quali riportiamo, a titolo esemplificativo, il contenuto: «Prima del giorno fissato per la votazione, l’elettore dovrà munirsi della carta di identità, o d’altro documento di riconoscimento; ove non abbia potuto provvedersi dei documenti medesimi deve farsi riconoscere dai componenti del seggio, oppure da un elettore già riconosciuto dai medesimi. Chiunque al fine di votare senza averne diritto o di votare più di una volta, fa indebito uso di certificato elettorale, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa fino a lire 20.000. Cinque giorni prima si deve aver ricevuto, al proprio domicilio, il certificato elettorale, nel quale è indicato l’indirizzo della sezione, dove si deve andare a votare. Nel caso di mancato ricevimento del certificato elettorale, l’elettore, dovrà richiederlo presso l’ufficio elettorale del Comune, non oltre al terzo giorno precedente a quello della votazione. In caso di smarrimento del certificato elettorale, l’elettore ha diritto, presentandosi personalmente nel giorno antecedente o nel giorno stesso delle elezioni al Sindaco, di ottenere un duplicato».

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Ma anche sui giornali apparvero frequenti richiami alle norme da seguire, come in questo articolo tratto da “Il Lamone” del 18 maggio 1946: «Sulla scheda del Referendum saranno stampati due diversi contrassegni: uno raffigurante una testa di donna (Italia) contornata da due fronde (di quercia e d’alloro) e sormontata da una torre e sullo sfondo saranno disegnati i contorni geografici dell’Italia (simbolo che già raffigurava l’Italia nel francobollo da 4 lire). Quel contrassegno è simbolo della Repubblica. L’altro contrassegno raffigurerà una corona con lo stemma dei Savoia. Non ci sarà da sbagliarsi: questo sarà il simbolo della Monarchia. A fianco di ognuno dei due simboli ci sarà un quadratino. Se l’elettore vorrà esprimere la propria scelta per la Repubblica dovrà fare soltanto una crocetta sul quadratino stampato a lato della testa di donna (l’Italia). Se invece vorrà esprimere la propria scelta per la monarchia dovrà fare una croce sul quadratino stampato vicino alla corona con lo stemma dei Savoia. Gli elettori stiano attenti a non lasciare nessun altro segno sulla scheda, giacché questa secondo il regolamento verrebbe annullata essendo riconoscibile e non sussistendo quindi la garanzia sacra del segreto del voto. »

Il 2 giugno

Arrivò così il 2 giugno e gli entusiasmi si smorzarono in un diffuso timore: come avrebbero votato i vecchi? E le donne, ritenute dall’imperante maschilismo dell'epoca succubi di scrupoli religiosi, come si sarebbero comportate? Come avrebbe votato il sud? E i carabinieri?

Le paure erano tante e tali che si presidiarono i seggi tutta la notte per impedire i brogli dai quali in molti avevano messo in guardia.

Ma, fortunatamente, in quella storica giornata le votazioni avvennero in maniera tranquilla in tutto il paese, come pure a Faenza, anche se non mancarono i problemi per i certificati elettorali non recapitati, causa la difficile reperibilità delle persone.

Domenica 2 giugno le urne rimasero aperte dalle 6 alle 22, lunedì 3 dalle 7 alle 12. Ad ogni elettore vennero consegnate due schede: una per le elezioni dell’Assemblea Costituente e l’altra con i simboli di Monarchia o Repubblica per il Referendum.

Riportiamo la testimonianza di Pietro Nenni, importante politico faentino alla guida del Partito Socialista, che in quei giorni si trovava a Roma: “ Una giornata storica può essere, anche per uno dei suoi protagonisti, una giornata noiosa. Tale è stato per me il 2 giugno. Giornata storica, perché è quella del referendum costituzionale e della

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elezione della Costituente. Giornata noiosa perché uscito per votare alle 8 alla sezione 350 di Via Antonio Serra (un quartiere popolare di Tor di Quinto), sono poi restato tappato in casa tutta la giornata. È comunque e in ogni caso la “mia” giornata. A essa è legata l’opera mia di capo di partito e di ministro. L’articolo che ho scritto stamani per L’Avanti!, si intitola: Una pagina si chiude. È vero per il Paese. E vorrei che fosse vero anche per me. Romita mi ha telefonato che in tutto il Paese c’è calma assoluta e larga partecipazione di elettrici ed elettori. Trascorro la serata in solitaria attesa leggendo Le zéro et l’infini di Koestler. È il romanzo dei processi di Mosca. Koestler, che fu condannato a morte in Spagna, è un eretico della chiesa comunista. Il dramma sta tutto in queste due battute di dialogo tra due detenuti (il 402): “L’honneur c’est vivre et mourir pour ses convictions”. Rubasciov: “L’honneur c’est se rendre utile sans vanité”. Sento alla maniera del primo, penso come il secondo.” I risultati

L’affluenza alle urne in questa occasione fu altissima: votò l’89,1% dei 28.005.449 aventi diritto, per un totale di 24.946.878 votanti.

Nelle votazioni per il referendum istituzionale prevalse la repubblica. I risultati furono proclamati il 10 giugno 1946 dalla Corte di Cassazione, e subito dopo il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, non senza qualche incertezza e qualche contestazione da parte monarchica. Il re Umberto infatti chiedeva tempo, affermando che le preferenze registrate per la repubblica costituivano la maggioranza solo rispetto ai voti validi e non rispetto alla totalità degli aventi diritto al voto. Seguirono nella capitale giorni pieni di tensione, con voci di un possibile colpo di stato dell’esercito in appoggio al re. De Gasperi e gli altri ministri rimasero saldi al loro posto e il 13 giugno il “re di maggio”, come verrà soprannominato Umberto, se ne volò verso l’esilio.

Gli esponenti monarchici avrebbero voluto che la cessione pura e semplice dei poteri del re avvenisse solo dopo il definitivo giudizio della Cassazione sulle contestazioni e sui reclami inerenti allo svolgimento della consultazione popolare, giudizio che però, data la consistenza della prevalenza dei voti in favore della repubblica, non avrebbe potuto in alcun modo modificare l’esito del referendum, in quanto, anche accettando le riserve espresse dagli esponenti monarchici, la soluzione repubblicana sarebbe stata egualmente prevalente, fondandosi, in questo caso pur sempre sul 51,01%, visto che le schede bianche e i voti nulli furono circa un milione e mezzo. Ma il Presidente del Consiglio, a nome del governo, troncò ogni indugio dando corso al previsto trapasso dei poteri e all’instaurazione del regime transitorio.

Umberto II, ricevuti gli onori militari, partì per il Portogallo dall’aeroporto romano di Ciampino, dopo aver indirizzato il seguente messaggio al popolo italiano: “ITALIANI! Nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni delle Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma

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istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Non volendo opporre la forza al sopruso, ne a rendermi complice dell’illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il Popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge, e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto… A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a volere evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia! Umberto. Roma, 13 giugno 1946”

I voti a favore della Repubblica, dopo i controlli, risultarono essere 12.718.641, pari al 54.3% dei voti validi. A favore della Monarchia si erano invece espressi 10.718.502 elettori, pari al 45,7%. Il referendum rivelò quanto drammatica fosse la spaccatura tra nord e sud. Mentre il centro e il nord votarono compatti per la repubblica, in alcune zone addirittura in modo schiacciante, il sud, invece, fu altrettanto solido nel suo appoggio alla monarchia. Circa l’80% dei napoletani, per esempio, si rivelarono monarchici. Le radici del monarchismo meridionale erano, infatti, molto profonde. A Napoli in particolare vi era una fiducia secolare nel fatto che monarchia significava lavoro, sussidi e assistenza. I napoletani non erano preparati a scambiare i benefici della monarchia, che includevano naturalmente i “doni” del periodo elettorale, per l’astratto ideale della repubblica.

Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente fu invece la D.C. ad ottenere la maggioranza relativa dei voti, seguita dal Partito Socialista e dal Partito Comunista. Nessun altro partito superò il 10%.

La suddetta Assemblea deliberò la costituzione della Repubblica Italiana il 22 dicembre 1947, entrata poi in vigore il 1° gennaio 1948.

La distribuzione dei voti nelle elezioni per l’Assemblea Costituente

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La vittoria della Repubblica a Faenza fu invece schiacciante 24.029 voti contro i 4.540 della Monarchia. Le schede bianche furono 1.221, le nulle 453.

Per quanto riguarda l’Assemblea Costituente anche a Faenza la DC ottenne la maggioranza dei voti con 9829 schede a favore. Venivano poi: il Partito Socialista con 7601 voti, il Partito Comunista con 5745 voti, il Partito Repubblicano con 4181 voti, il Partito d’Azione con 568 voti, quello dell’Uomo Qualunque con 546 e, da ultimo, l’U.N.D. con 392 voti.

I festeggiamenti

Dopo la proclamazione dei dati ufficiali che sancivano l’istituzione della Repubblica Italiana in quasi tutti i comuni della nazione si svolsero festeggiamenti pubblici.

A Faenza in data martedì 11 giugno per celebrare la Repubblica, prima ancora della partenza del re, alle ore 11 il vescovo Mons. Battaglia celebrò la Santa Messa in Duomo. I festeggiamenti ripresero alle 19, quando la popolazione fu invitata a partecipare ad un comizio in Piazza del Popolo e al successivo corteo verso il cimitero. Infine alle ore 21.30 si tenne sempre in Piazza del Popolo un concerto vocale-strumentale. La cittadinanza fu invitata a esporre il Tricolore.

La giornata fu descritta su “Il Lamone” del 15 giugno, con queste parole che riportiamo per intero: «Faenza repubblicana ha festeggiato martedì scorso la fondazione della Repubblica Italiana. Una vera festa di popolo esultante che in un’atmosfera di serena compostezza ha inneggiato alla rinascita democratica e repubblicana del nostro paese. I festeggiamenti iniziatisi nella mattina con una funzione religiosa officiata nella cattedrale dal vescovo di Faenza Monsignore Battaglia, hanno proseguito nel pomeriggio, con un riuscitissimo comizio in Piazza del Popolo, organizzato dai partiti della concentrazione repubblicana. Sul palco d’onore eretto nel centro della piazza, avevano preso posto le rappresentanze ufficiali e le bandiere di tutti i partiti repubblicani e delle organizzazioni che avevano dato la loro adesione alla cerimonia. Hanno parlato alla cittadinanza che gremiva la piazza il sindaco Morini, il professor Visani per il Partito d’Azione, Vigna per il Partito Comunista, il professor Buda per la Democrazia Cristiana, il maestro Billi per il Partito Repubblicano e Mantellini per il Partito Socialista. La parola degli oratori è stato un caldo appello a tutti i cittadini per una fraterna unione di intenti nell’immane opera di ricostruzione morale e materiale della nostra patria. Solo nel lavoro concorde e fraterno, hanno detto gli oratori, noi troveremo la forza per risollevarci dalle miserie in cui ci hanno gettato i tristi anni dell’oppressione, solo nella volontà ferma e decisa del nostro rinnovamento noi troveremo l’irresistibile spinta verso il luminoso avvenire della nostra Repubblica […].La solidarietà fraterna di tutti gli uomini crescerà laboriosa e serena nella nuova Repubblica degli Italiani. L’appassionata parola di tutti gli oratori è stata accolta da tutta la cittadinanza con vivissimi applausi e grida di “Evviva la Repubblica Italiana”. Successivamente un corteo con alla testa il complesso bandistico dell’E.N.A.L. e le bandiere di tutti i partiti, si incamminava verso il cimitero dell’osservanza per rendere omaggio ai nostri caduti. I festeggiamenti venivano ripresi la sera in Piazza del Popolo, letteralmente gremita. Una vera folla era accorsa per festeggiare, in uno slancio di fraterna gioia, lo storico avvenimento. Sul palco aveva preso posto tutto il complesso artistico dell’E.N.A.L. che, sotto la guida del maestro Ino Savini, si è esibito per oltre tre ore in un programma interessante ed assai divertente. Giovani cantanti concittadini si sono susseguiti al microfono riscuotendo vivissimi applausi. Di particolare gradimento è stata la partecipazione al concerto del tenore Dal Pane, venuto appositamente da Milano per festeggiare con noi l’avvento della Repubblica. […].Con alcune esecuzioni d’orchestra si è chiusa questa meravigliosa manifestazione in cui Faenza tutta si è trovata unita nell’inneggiare concorde e serena all’avvenire della Repubblica Italiana.»

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Per tutta la città erano inoltre affissi manifesti inneggianti la proclamazione della Repubblica come i seguenti: «CONCENTRAZIONE REPUBBLICANA FAENTINA Cittadini! L’ora attesa da oltre un secolo dalla Nazione Italiana è suonata. La nostra patria, uscita dalle tenebre della Monarchia, si è costituita in libera Repubblica. Quello che fu il sogno inappagata delle migliori anime italiane, quello che fu la suprema visione dei nostri caduti e dei nostri martiri, di ieri e di oggi, si è tradotto – attraverso le sofferenze e le lagrime di tutti gli Italiani – in luminosa realtà. Il popolo italiano è finalmente padrone dei propri destini. Da lui e soltanto da lui dipenderà da oggi la sua prosperità o la sua decadenza, la sua libertà o la sua schiavitù, il suo avvenire di popolo libero. In questa radiosa primavera della Patria, in questa virile esultanza, tutti gli italiani debbono sentire, come sentono, un generoso impulso di fraternità: da oggi l’Italia è di tutti gli italiani, senza distinzioni di classe e di caste; da oggi non ci sono più divisioni tra il popolo; da oggi tutti gli Italiani sono fratelli. La Repubblica deve essere il governo della pacificazione e della solidarietà nazionale. Abbiamo condannato la monarchia perché ci divideva all’interno e ci isolava all’esterno: sulle rovine della monarchia noi italiani di tutte le fedi, di tutti i partiti, di tutte le classi, vogliamo costruire un’Italia pacifica, laboriosa, libera, giusta, che unifichi il Popolo nel sacro sentimento della Patria e riconquisti l’amicizia dei Popoli oltraggiati e offesi dall’imperialismo monarchico. L’Italia Repubblicana, forte della propria unità, forte del consenso popolare, fiera della sua storia millenaria che è storia e gloria di popoli, fidente nella propria volontà di resurrezione, consapevole della propria laboriosità e della propria tenacia, si dispone oggi a dare al mondo lo spettacolo civile di un popolo che entri nella grande famiglia delle libere Nazioni, per recare col lavoro, con l’ingegno, con la saggezza il suo apporto al progresso e alla civiltà nel mondo. Viva la Repubblica Italiana! Viva l’Italia! I Partiti d’Azione, Comunista, della Democrazia Cristiana, Repubblicano, Socialista. Faenza, 10 giugno 1946»

Ed ovviamente non poteva mancare il messaggio della Giunta comunale, che per bocca del sindaco Morini si unisce all’entusiasmo generale proclamando: «Cittadini! Il popolo italiano, con libero e sereno atto di volontà ha decretato LA REPUBBLICA. La meta, che, da oltre un secolo, negli albori del Risorgimento apparve ai nostri padri, è stata oggi nobilmente e definitivamente raggiunta. Essa corona il martirio di quanti perivano nelle carceri e nell’esilio; essa premia i combattimenti di tutte le guerre del nostro riscatto; essa splende della luce meravigliosa che abbagliò i Mille e rifulse di poi sino alla gloria di Vittorio Veneto. Ed ancora essa viene – ammonimento e conforto – dopo il lavacro di sangue e di lacrime di cui tuttora soffriamo. Cittadini! L’avvenimento che oggi incide nella vita secolare della Nazione non deve sospingerci a vani tripudi e, meno ancora, a nefaste recriminazioni. Nel nome della Repubblica uniamoci in concordia di propositi e, ispirando le nostre opere agli eterni ideali della giustizia e della fratellanza umana, riprendiamo il cammino perché l’Italia sia veramente la patria di un popolo libero, fraternamente congiunto agli altri popoli liberi del mondo. Dalla Residenza Municipale, 10 giugno 1946 Per la Giunta Municipale, il Sindaco Alfredo Morini.»

Da un documento ritrovato tra le carte dell’Archivio di Stato di Faenza, siamo riuscite a capire l’organizzazione della festa. Anche da questo, come da tutti gli altri documenti riportati ed analizzati, trapela tutta la gioia e la consapevolezza dell’inizio di qualcosa di importante, di buono finalmente, dopo tanto dolore e distruzione. Questo nuovo inizio doveva essere all’insegna della fratellanza, infatti, da quanto riportato sotto, gli organizzatori rinunciarono a qualsiasi tipo di compenso, mentre il Comune pensò bene di premiarli con una bevuta gratuita. Si legge:

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«Ill.mo Sig. Sindaco Comunica a V. S. che, come d’accordo, tutti gli artisti, gli orchestrali, il maestro Savini, le S.A.C.L.E.S., la ditta Piccinini e Argnani, il Corpo Bandistico, altri fornitori e tutti gli operai che hanno prestato la loro opera per la buona riuscita della manifestazione effettuata l’11 corr. In Piazza del Popolo per solennizzare l’evento storico della proclamazione della Repubblica, hanno con entusiasmo aderito alla nostra richiesta di rinunciare a qualsiasi compenso. Abbiamo inviato lettere di ringraziamento a tutti costoro e abbiamo ritenuto opportuno offrire a tutti aranciate e birra. In tutto abbiamo offerto una modesta bevuta, fra bandisti, orchestrali, cantanti e operai, a 90 persone. Il tenore Dal Pane, rinunciando a due scritture che aveva per quella giornata, è venuto d’urgenza da Milano chiedendo il puro rimborso delle spese vive incontrate. Di conseguenza questo Ente ha fatto fronte alle seguenti spese:

• Rimborso del tenore Dal Pane…………………………………………………… L. 6000 • Tassa fissa minima stabilita in via di favore dalla S.I.A.E. per i diritti d’autore……..156 • Spesa per bevuta agli operai e bandisti………………………………………….…..2248 • Spesa per bevuta agli orchestrali e artisti……………………………………….…..1712 ________ totale 10116

Finalmente la Repubblica era arrivata! W la Repubblica!

Probabilmente non era cambiato molto dai giorni precedenti il referendum, ma si respirava un’aria nuova, l’aria di un cambiamento da tanto desiderato. Dopo molti sforzi, attraverso un referendum istituzionale a suffragio universale, il popolo italiano aveva finalmente espresso la sua volontà e il desiderio della maggioranza si era avverato. E Faenza fu un esempio chiaro della gioia festosa e coinvolgente che, almeno al Nord, accolse l’avvento della Repubblica,. Bibliografia: - Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, 1989; - Nenni P., Pietro Nenni protagonista e testimone di un secolo, Bologna; - Aa.vv., 1943-1946 Faenza dall’armistizio alla repubblica, Faenza, 1996; - Enciclopedia Forense, volume II C, Torino, 1958; - “Il Lamone” , voll. 1945 e 1946; - “Il Socialista”, voll. 1945 e 1946; - “Bandiera Rossa” voll. 1945 e 1946; - Documenti dell’Archivio del comune, anno 1946, cat. sesta, clas. Prima e seconda; - Documenti dell’Archivio Casadio - Faenza - siti internet: www.brianzapopolare.it, http://www.camera.it/deputati/funzionamento,

www.monarchia.it/referendum.

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