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Dispense

Modulo TRASVERSALE

• Comportamenti relazionali

• Diritto

• Qualità

• Organizzazione aziendale

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Comportamenti relazionali

Biologia dell’azione umana L’uomo è il prodotto di milioni di anni di lenta evoluzione ma, nel contempo, è anche un prodotto della società in cui vive. Quando tentiamo di capire noi stessi. dovremmo cercare le risposte nelle pressioni selettive che ci hanno lentamente modellato, nel 99% della nostra esistenza, come raccoglitori cacciatori di pianura, oppure dovremmo cercarle nella storia della nostra particolare cultura, con i suoi valori e le sue idee dominanti? Se ambedue le vie sono valide, come dovremmo correlarle? Se è un errore cercare di capire l’uomo e la società senza tener conto del passato evolutivo della specie umana e del suo rapporto con le altre specie, che cosa significa tutto questo per chi pensa che la natura dell’uomo non è animale, ma ‘culturale’. e che, a causa della sua mente, delle sue capacità di formulare concetti e simboli, l’uomo può ricostruire, e continuamente ricostruisce sia la società sia sé stesso?

La natura umana, secondo alcuni autori, non è distinta dalla scena sociale, ma ne è parte, interagendo con le istituzioni sulla base di un feedback a doppio senso, per cui la nostra personalità, tutta intera, è altrettanto malleabile delle stesse forme sociali. Per altri, però, vi sono dei limiti alla plasticità delle forme sociali e questi limiti sono posti da una certa ‘messa a punto’ o ‘programma’. cioè dalle tendenze comportamentali che un individuo ha in sé e che ha ereditato dai tempi passati.

La possibilità di vedere la comparsa di un nuovo tipo di creatura da inizi puramente animali: una creatura che è venuta per costruirsi il proprio mondo sociale, per costruire sé stessa e, quindi, il suo totale modo di vita e di pensiero. Lo sviluppo fisico dell’uomo partendo da studi di biologia, di psicologia e di fisiologia umane. Viene sviluppata la tesi secondo cui è proprio nello studio dei meccanismi fisiologici del corpo che esistono i più chiari legami tra processi biologici. psicologici e sociologici.

L’uomo come un essere biologico che si costruisce da sé e il cui benessere dipende dalla sua personale integrazione in un mondo di idee.

La domanda che ci si può porre è se l’uomo ha la capacità di aggiustarsi per far fronte a un nuovo ambiente culturale, non soltanto con i suoi aspetti tangibili quali l’inquinamento, ma con i suoi mutamenti meno tangibili, ma non meno reali, nei rapporti, nei modi di allevare i figli, nelle pressioni di un’educazione formale, nella competitività. nell’affollamento,nell’anonimato.

La differenza tra comportamento e azione ha un’importanza capitale per la distinzione tra attività degli animali e attività dell’uomo e per la comprensione del rapporto tra biologia e sociologia. I termini maggiormente in gioco sono comportamento azione e significato. Se si descrive ciò che gli esseri umani o animali fanno, senza indagare sulle loro ragioni soggettive, si parla di ‘comportamento’. Se si studiano gli aspetti soggettivi di quello che fanno, le ragioni e le idee su cui tutto questo poggia e da cui tutto questo viene guidato, allora si ha a che fare con il mondo dei significati. Se, infine, ci si interessa di ciò che la gente, chiaramente e oggettivamente, viene vista fare (o non fare), sia delle ragioni per fare (o per non fare), ragioni che si correlano con il mondo dei significati e delle interpretazioni, allora si descrive l’azione.

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L‘uomo come unità psico-fisica Nello studio dell’uomo non possiamo certo isolare gli aspetti fisiologici da quelli mentali che compongono la sua persona, anche se li possiamo distinguere per una analisi del loro significato e delle loro funzioni. Questo perché l’individuo non è il risultato di una somma aritmetica di elementi e di funzioni, ma una unità indissolubile di fisico e psichico che vive i fatti esterni ed i fenomeni interni, con la partecipazione di tutto se stesso e reagendo alle stimolazioni ambientali con un comportamento in cui convergono attività organiche e psichiche. Per uno studio di ordine psicologico, alcune conoscenze di ordine fisiologico sono particolarmente importanti, come quelle riguardanti gli organi di senso che reagiscono agli stimoli, attivano processi di reazione nell’organismo ed eccitano il sistema nervoso a produrre una risposta. Si riscontrano nell’uomo quattro classi di organi recettori che reagiscono preferenzialmente ad alcuni stimoli: termici, meccanici, chimici, luminosi. L’occhio è un recettore fotico (alla luce), l’orecchio è un recettore meccanico (al rumore), i corpuscoli tattili sono recettori pure meccanici (alla pressione), i corpuscoli delle papille gustative ed olfattive sono recettori chimici (al sapore ed all’odore). E’ poi essenziale una conoscenza del sistema nervoso che si può considerare una catena di trasmissione e di conduzione degli eccitamenti prodotti dagli stimoli e che collega i recettori con gli effettori, ossia gli organi esecutivi della risposta come possono essere muscoli e ghiandole. Fattore primario in tale azione di coordinamento e di adattamento è il sistema nervoso centrale, composto dal cervello e dal midollo spinale protetti da cranio e colonna vertebrale. Il sistema nervoso periferico è invece l’insieme di cellule nervose che costituiscono fibre o fasci di fibre nervose e collegano il sistema nervoso centrale con i recettori e gli effettori.

Psicologia come studio della psiche. Il termine coniato dal riformatore e umanista tedesco Ph. Schwarzherde più noto con il nome grecizzato Filippo Melantone (1497- 1560), si riferisce a contenuti che avevano già trovato modo di enunciarsi nelle costruzioni mitologiche, religiose, culturali e filosofiche a partire dagli albori della civiltà fino alla seconda metà dell’Ottocento quando, con W. Wundt, l’indagine psicologica si stacca dalla filosofia speculativa per aprirsi alla metodologia delle scienze naturali adottando criteri di sperimentazione e di quantificazione. Accanto alla psicologia scientifica, che dunque ha poco più di cent’anni di vita non è venuta meno l’indagine filosofica, che però ha spostato il livello di ricerca dal piano dei contenuti, dove si era trattenuta prima della nascita della psicologia scientifica, al piano epistemologico, dove in discussione sono i presupposti teorici che sono alla base delle varie costruzioni psicologiche. La psicologia scientfica ha risolto il concetto di psiche in quello di comportamento che, nel caso degli animali, equivale al «comportamento osservabile dall’esterno», nel caso degli uomini si estende ai «processi psicologici» sia consci che inconsci, attraverso i quali un soggetto costruisce le proprie risposte comportamentali. Tali processi, indicati anche come «meccanismi della mente» <<o funzioni psichiche», riguardano l’intelligenza, la mernoria, la percezione le esperienze interiori come i sentimenti o le aspettative e i meccanismi inconsci. Del comportamento considerato normale si occupa la psicologia, di quello classificato anormale la -. psicopatologia. La psicologia scientifica si articola in forme diverse a seconda del criterio che di volta in volta si adotta. Tra i più diffusi ricordiamo il criterio epistemologico che tende, più che alla classificazione delle varie aree psicologiche, alla definizione delle caratteristiche che accostano la psicologia alle scienze naturali o alle scienze umane; il criterio dell’orientamento teorico o modello di pensiero che è alla base di una costruzione psicologica: il criterio che definisce i metodi di ricerca adottati dai vari ambiti psicologici; e il criterio che designa le

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finalità che le varie ricerche psicologiche si propongono.

La scissione tra filosofia, psichiatria e psicologia

Un tempo, filosofia e scienza erano la stessa funzione. Aristotele si dedicava all’astronomia e alla zoologia oltre che alla logica e all’etica.. Le leggi del moto sono state scoperte dal filosofo naturale Sir Isaac Newton, l’evoluzione biologica dal filosofo naturale Charles Darwin.

Filosofi come questi erano impegnati a sondare e misurare il mondo circostante, un procedimento cominciato come dilatazione delle domande tipo: «Come funziona il mondo?» che moltissimi filosofi si ponevano. Prima della rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, erano più le cose che apparentavano che quelle che separavano questi approcci. In seguito, scienza e filosofia hanno imboccato strade divergenti e La medicina occidentale — dopo essere stata per secoli nelle mani di ciarlatani, barbieri, frenologi e spacciatori di intrugli — si è alleata con la scienza.La psichiatria si è sviluppata quale ramo della medicina primitiva durante il diciottesimo secolo, per imporsi definitivamente durante il ventesimo, nella scia di Freud..Non occorre essere laureati in medicina per praticare la psicanalisi, non è necessario aderire a ogni costo a una particolare dottrina. A sua volta, la concezione freudiana della psichiatria era che tutti i disturbi mentali (che Freud chiamava nevrosi e psicosi) potessero alla fine spiegarsi in termini di alterazioni fisiche. in altre parole, Freud era dell’avviso che ogni malattia mentale fosse causata da una patologia cerebrale. Ed è proprio questo il principio a cui si è attenuta la psichiatria moderna.Ogni comportamento concepibile può trovare posto nel Mani1ale Dia gnostico e Statistico (DSM) per esservi diagnosticato come sintomo di una presunta malattia mentale. Sebbene non sia dimostrato un nesso causale tra gran parte delle cosiddette malattie mentali elencate nel DSM e un’alterazione cerebrale, l’industria farmaceutica e gli psichiatri che ne prescrivono i medicamenti sono impegnati nel compito di individuare quante più “malattie” mentali possibili. Perché? Per i soliti motivi: potere e profitto. Si noti: nel 1952, il DSM-I elencava 112 turbe. Nel 1968, il DSM-II ne elencava 163. Nel 1980, il DSM-III riportava 224 turbe, e l’ultima edizione, il DSM-IV del 1994, ne elenca 374. Negli anni Ottanta, gli psichiatri ritenevano che un cittadino statunitense su dieci fosse mentalmente malato. Negli anni Novanta, lo era uno su due. Ben presto lo saranno tutti — eccezion fatta, naturalmente, per gli psichiatri. I quali scoprono “malattie meritali” ovunque, tranne che nei loro studi professionali, e prescrivono tutti i medicinali che possono essere pagati dalle assicurazioni sanitarie. - E innegabile l’esistenza di persone che hanno bisogno di medicinali o di essere rinchiuse in istituti psichiatrici per impedire che facciano del male a se stesse e ad altri, ma il loro numero è lontanissimo da quello di un cittadino statunitense su due o su dieci o su cento. Nella stragrande maggioranza dei casi, infelicità personale, conflitti di gruppo, paurosa ignoranza, vergognosa promiscuità, criminalità diffusa e violenza orgiastica sono frutti, non già di una società mentalmente malata, bensì di un sistema che — per mancanza di una politica che abbia una visione complessiva e di virtù filosofica — ha permesso e anzi incoraggiato la società a ridursi al disordine morale.

La psicologia si è imposta quale autonomo campo di studi solo nel 1879, quando Wilhelm Wundt creò il primo laboratorio di psicologia. In precedenza, le osservazioni e i concetti che noi colleghiamo alla psicologia erano campo d’azione dei filosofi.

Anche dopo essere diventata autonoma la psicologia continuò a essere disciplina gemella della filosofia fino al ventesimo secolo. William James, considerato un grande pensatore in entrambe le discipline, tenne cattedra di filosofia e psicologia ad Harvard fino all’inizio del Novecento, e Cyril Joad ebbe un incarico affine all’università di Londra fino agli anni Quaranta.

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Nell’ultimo secolo, però, i due campi si sono divaricati, nel senso che la psicologia si è staccata dagli studi universitari umanistici per inserirsi invece tra le scienze sociali. Sebbene avesse un ruolo in campo fiIosofico, James era un promotore della psicologia come scienza. «Trattando La psicologia alla stregua di una scienza naturale, volevo», scrisse, «contribuire a farla tale.»

Con l’avvento della psicologia behavioristica, la scissione divenne completa. Psicologi comportamentisti come John Watson e B.F. Skinner trasferirono in laboratorio i loro interrogativi sulla natura umana, facendoli oggetto di esperimenti.

Ma, che le tue idee tu le abbia sviluppate mediante duelli verbali con Socrate o corse di ratti in labirinti, le domande che in fin dei conti poni sono sostanzialmente le stesse: che cosa fa muovere un essere umano? Si tratta di volontà razionale o di riflesso condizionato? Se intervengono entrambi, come interagiscono? I filosofi si sono sempre dedicati all’osservazione della natura umana, e questo somiglia alla descrizione professionale di uno psicologo. Qualsivoglia filosofia dell’essere umano sarebbe incompleta senza punti di vista psicologici. A sua volta, la psicologia è vana qualora sia priva di perspicacia filosofica, ed entrambi i campi sono stati resi più poveri proprio dalla loro biforcazione.

Certi settori della filosofia, come la logica, sono lontanissimi dalla psicologia. Nel complesso, però, la filosofia si basa sull’osservazione, sui dati sensibili, sulla percezione, sulle impressioni, tutte cose che sconfinano in territorio psicologico.

Se osserviamo il mondo, non è detto che vediamo chiaramente ciò che abbiamo davanti: alterazioni fisiologiche e interpretazioni soggettive intervengono quasi sempre. Questa interpolazione — la differenza cioè tra oggetto ed esperienza

La psicologia behavioristica, e la sua teoria centrale di risposta allo stimolo, considera la

— riguarda la psicologia, e nessun punto di vista filosofico si regge senza di essa.

persona come una sorta di macchina che può venire condizionata o programmata ai fini di qualsiasi risultato: basta semplicemente individuare lo stimolo adatto e servirsene

(La teoria S-R, cioè stimolo-risposta, è quella che Pavlov intendeva comprovare provocando, al suono di un campanello, una forte salivazione in cani che erano stati addestrati facendo squillare quel campanello immediatamente prima di porre loro davanti una ciotola di cibo.) Ma quella lineetta tra S ed R elide in effetti molte cose. Riducendo

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tutte le azioni a un semplice rapporto causa-effetto, si trascurano tutti i ricchi, importanti risvolti della psicologia — e dell’umanità. considerare un essere umano null’altro che una creatura che risponde in maniere controllabili a stimoli specifici, sminuisce le nostre umane qualità. E un atteggiamento che trascura la psiche, che pure è l’evidente oggetto degli studi psicologici. Noi siamo ben più che i nostri condizionamenti; nelle nostre vite c’è ben più che una serie di risposte prestabilite. Il guaio è che gran parte della psicologia moderna — la psicologia come scienza — è derivata (o ne è influenzata) dalla psicologia behavioristica e dal conseguente impoverimento dell’esperienza umana. L’applicazione del metodo scientifico fornisce alcune importanti informazioni circa gli esseri umani e il loro operato. Ma, sebbene sia in grado di cogliere filamenti di comprensione, la psicologia non sarà mai in grado di rivelare l’intero, complesso arazzo della natura umana.

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Per esempio, nonostante un appropriato metodo scientifico, la psicologia behavioristica mai fornirà un sistema di etica, una delle componenti fondamentali della vita umana — e un soggetto al quale si dedica un intero filone della filosofia. Se promuovere un’azione fosse solo questione di individuare lo stimolo adatto, gli esseri umani sarebbero ridotti a fare qualsiasi cosa unicamente per ottenere una ricompensa o evitare una punizione. (Lo stimolo è carota o bastone.) Se le cose stessero così, esisterebbe qualcosa di simile al compiere una buona azione? E’ forse possibile fare dà che è giusto semplicemente perché è la cosa giusta da fare, e non compiere un’azione iniqua semplicemente perché non sarebbe giusta? I behavioristi replicherebbero che, se ti venisse somministrata una spiacevole scossa elettrica ogniqualvolta aiuti una povera vecchietta ad attraversare la strada, ben presto cesseresti dall’ascriverti tra i buoni samaritani. Sosterrebbero anche che sarebbero in grado di indurti a portarla sull’altro marciapiede se ti riservassero il giusto compenso ogni volta che lo fai. I behavioristi, insomma, svuotano gli esseri umani, poiché ignorano la nostra ricca interiorità mentale. Noi siamo assai più vari e complessi dei ratti che, maniacalmente, continuano a premere la leva che di solito fornisce loro cibo, ancora molto tempo dopo che la somministrazione è cessata. (Tutti abbiamo momenti in cui non ci comportiamo in maniera assai più intelligente di quei ratti, ma questa è un’altra faccenda.) Una delle doti degli esseri umani è la capacità di fornire a noi stessi stimoli interiori. A volte ci ripromettiamo un buon gelato dopo un lavoro ingrato, e in tal caso ci serviamo di ciò che abbiamo appreso dai behavioristi. Ma possiamo anche motivare noi stessi con un sentimento di onore o di dovere,

Tutti gli scienziati operano con insiemi di “osservabili”, cioè le cose che studiano. Gli astronomi, per esempio dispongono di galassie, stelle e pianeti; i chimici di atomi, molecole, e via dicendo. Il compito degli scienziati è di compiere e registrare osservazioni relative a qualsiasi fenomeno stiano osservando, elaborare teorie, e quindi convalidare queste teorie mediante esperimenti.

argomenti sui quali i filosofi hanno indugiato a lungo ma che perlopiù esulano dall’ambito della psicologia sperimentale.

Nelle scienze sociali, il complesso degli osservabili non è esattamente fisico né direttamente misurabile. Ciò comporta le maggiori differenze filosofiche tra scienze fisiche (o naturali) e scienze sociali.

In psicologia, l’insieme degli osservabili consiste nella psiche. Come la si osserva? Che cosa è mai? La neuropsicologia studia il cervello, che è misurabile almeno entro certi limiti. Ma la psicologia generale osserva la niente, e siccome la mente o la psiche non ha caratteristiche fisiche, tutte le osservazioni sono indirette e tutte le conclusioni più soggettive e meno certe di quanto siano nelle scienze fisiche. Se abbiamo molte domande senza risposta circa la mente, quasi altrettante ne abbiamo a proposito del cervello, che possiamo toccare, pesare, sezionare. Non ci vuole quindi molto a capire che è assai più facile mancare il bersaglio nelle scienze sociali come la psicologia, quando l’oggetto è assai più astratto e non si ha niente di concreto da osservare. Ciò non toglie che la relativamente recente scientificizzazione della psicologia, unita al perenne bisogno umano di dialogo, nel ventesimo secolo abbia avuto per risultato una crescita senza precedenti dell’industria della consulenza psicologica.

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NEL NOSTRO TEMPO: CINQUE FASI PER AFFRONTARE I PROBLEMI SECONDO FILOSOFIA

PEACE P-roblema E-mozione A-nalisi C-ontemplazioe E-quilibrio

«Il problema della filosofia è la consapevolezza del disordine nei nostri concetti e lo si può risolvere conferendo loro ordine.» — Ludwig Wittgenstein —

Si può affrontare un problema in termini filosofici per proprio conto o con l’aiuto di un partner non professionista. L’esperienza insegna che molti casi si adattano efficacemente a un approccio in cinque Fasi (PEACE).. PEACE è un acronimo con le iniziali delle cinque fasi che lo compongono: problema, emozione, analisi, contemplazione ed equilibrio. E l’acronimo è appropriato, dal momento che queste fasi sono la via più sicura per raggiungere una durevole pace interiore. Problema – Emozioni Le prime due fasi contestualizzano la questione e gran parte delle persone le attraversano spontaneamente, nel senso che non hanno bisogno di nessuno che individui il problema insieme a loro o per loro, anche se a volte si tratta di una questione da rivisitare e mettere a punto.La loro reazione emozionale è immediata e chiara — nessuno ha bisogno di imparare per avvertire emozioni — sebbene possa essere anche alimento di ulteriore riflessione.

Analisi - Contemplazione Le due fasi successive sono un esame progressivo del problema e, se molte persone sono in grado di farlo da sole, può essere utile disporre di un partner o di una guida ai fini dell’esplorazione di nuovi territori. La terza fase (Analisi) porta al di là di moltissima psicologia e psichiatria e la quarta (Contemplazione) colloca decisamente la persona nella sfera filosofica.

Equilibrio L’ultima fase incorpora, nell’esistenza della persona, ciò che ha appreso in ciascuna delle prime quattro fasi, dal momento che approcci unicamente intellettuali non hanno ricadute pratiche, a meno di non sapere come servirsene.

Chi affronti in termini filosofici una questione, deve innanzi tutto individuare il problema, prima fase. Poniamo il caso che un tuo genitore sia morente, o che tu abbia subìto una menomazione o che il tuo coniuge ti tradisca. Di solito ci rendiamo conto di avere un problema, e perlopiù noi disponiamo di un sistema di allarme interno che scatta quando abbiamo bisogno di aiuto o di risorse addizionali. A volte, specificare il problema è più complicato di quanto sembri, per cui questa fase può richiedere un certo lavoro qualora i parametri che si stanno impiegando non siano subito palesi. In secondo luogo,seconda fase, bisogna fare l’inventano delle emozioni suscitate dal problema. Si tratta di una resa dei conti interiore. E indispensabile esperire sinceramente le emozioni e incanalarle costruttivamente. Perlopiù psicologia e psichiatria non vanno al di là di questa fase ed è per questa ragione che i loro benefici sono limitati. Nel caso degli esempi di cui sopra, le emozioni sono probabilmente una combinazione di dolore, rabbia e tristezza, ma può capitare di dover compiere un certo lavoro per arrivare a questa conclusione. Durante la terza fase, analisi, la persona enumera e valuta le sue opzioni di soluzione del problema. Una soluzione ideale definirebbe sia gli aspetti esterni (il problema) sia quelli interni (le emozioni suscitate dal problema), ma non è detto che una soluzione ideale sia attuabile. Per continuare con un esempio, dare l’ordine di interrompere la somministrazione di ossigeno a tua madre morente può essere per lei la soluzione migliore, ma anche la più ardua da prendere. La decisione può venire delegata ai medici, oppure a un fratello o sorella, sempre che tu non decida di continuare nello sforzo, senza speranza, di tenerla in vita: sono i vari percorsi che devi seguire nella tua mente alla ricerca del più adeguato. La quarta fase comporta un passo all’indietro per assicurarsi una prospettiva più ampia e contemplare l’intera situazione. Fino a questo punto hai proceduto a una compartimentazione

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delle fasi allo scopo di gestirle.

Quinta fase. Adesso però devi ricorrere a tutte 1e tue capacità mentali per integrarle. Anziché limitarti ai singoli alberi, devi esaminare la struttura della foresta. In altre parole, mirare a una visione filosofica, di pensiero, unitaria della situazione nel suo complesso: il problema con cui sei alle prese, la tua reazione emozionale a esso, e le opzioni prese in esame. A questo punto sei in grado di ponderare giudizi filosofici, sistemi e metodi per gestire la situazione nella sua interezza

Nell’esempio della madre morente, è necessario che tu prenda in considerazione le tue idee circa la qualità della vita, le tue responsabilità nei confronti di altri, l’aspetto etico dell’interruzione di una vita e i pesi relativi dei valori in competizione. Devi addivenire, tramite contemplazione, a una posizione filosofica che sia insieme giustificabile per i suoi meriti e consonante con la tua natura. Infine, dopo aver articolato il problema, espresso le tue emozioni, analizzate le tue opzioni e preso in considerazione una posizione filosofica, raggiungi l’equilibrio. Comprendi cioè l’essenza del tuo problema e sei pronto a un’azione adeguata e giustificabile. Ti senti in stato di equilibrio, ma sei anche preparato agli inevitabili cambiamenti futuri. Così per esempio, se decidi di staccare il respiratore a tua madre morente, ti sentirai certo che è proprio ciò che tua madre avrebbe desiderato e che, sebbene il suo decesso ti procuri dolore, spetta alla tua responsabilità obbedire ai suoi desideri nel miglior modo possibile in una situazione difficile. Ad Oriente Quando parliamo di «meditazione» (dhyana in sanscrito) ci riferiamo ad almeno sei tradizioni spirituali dell’Oriente — Yoga, Vedanta, Buddhismo, Taoismo, Zen e Tantrismo — tutte più o meno imparentate fra loro. Non sappiamo perché questa pratica si sia sviluppata proprio in Oriente, così come non sappiamo perché l’altra grande tecnica — quella scientifica — sia cresciuta di più in Occidente. Forse i due emisferi del mondo, proprio come i due emisferi cerebrali, hanno attitudini e specializzazioni diverse. Resta il fatto che come la tecnica occidentale viene utilizzata da tutti i popoli, così anche quella orientale può e deve essere impiegata nel resto della Terra. Anzi, è proprio dall’ incontro e dalla fusione di queste due culture che può nascere il meglio della civiltà umana. Come scrive Ernst Junger, «tra lo spirito dell’Occidente e la sostanza dell’Oriente esiste un rapporto di reciproco consumo e di reciproca fecondazione». In Oriente Io scopo della meditazione viene variamente definito «risveglio», «liberazione». «illuminazione »,. Tutti questi termini indicano che, di solito, ci troviamo in uno stato di limitazione, di condizionamento, di ignoranza, di offuscamento e di dipendenza da cui dobbiamo uscire, se vogliamo attingere a una coscienza più vasta e a una libertà più piena. Il percorso o la «via» per giungere a questa meta comporta vari stadi e varie pratiche, ma utilizza comunque la meditazione nella sua fase determinante. Nello Yoga, per esempio, abbiamo otto tappe: le prime due riguardano le qualità morali, la terza indica la posizione da assumere “la postura”, la quarta si occupa della respirazione, la quinta consiste nella ritrazione sensoriale, la sesta comporta la focalizzazione dell’attenzione, la settima rappresenta la meditazione vera e propria, e l’ultima è la fusione con l’oggetto della contemplazione. Anche nel Buddhismo il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza prevede otto tappe: la retta comprensione, il retto pensiero, la retta parola, la retta azione, la retta condotta di vita, il retto sforzo, la retta consapevolezza e la retta meditazione . Visti questi due elenchi, forse il lettore penserà che, per dedicarsi alla meditazione, ci si debba trasformare in monaci o santi. Ma non è così: , la meditazione è una pratica perfettamente compatibile con la vita moderna, cui può apportare una dimensione spirituale nuova, consistendo essenzialmente in un insieme di tecniche per il recupero del senso dell’essere, per lo sviluppo della consapevolezza e per la ricerca dell’esperienza della trascendenza. In alcune tradizioni, essa viene associata a ideali ascetici che tuttavia appaiono storicamente e socialmente

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superati essendo il frutto di epoche e di culture passate. Invece l’affrancamento dai cicli ripetitivi dell’esistenza, la liberazione dalle illusioni e dal conformismo, la comprensione dei meccanismi mentali, la chiara visione delle cose, l’aumento della sensibilità, la conquista della calma e del distacco, tutto ciò può essere utile in ogni tempo e in ogni società, e non richiede sterili rinunce preventive. E possibile meditare in qualunque condizione esistenziale; sarà poi la meditazione stessa a suggerirci il modo in cui modificare la nostra vita. «è dalla meditazione che nasce la saggezza»; e tale saggezza non deve solo applicarsi ai fini ultimi, ma anche ai piccoli e grandi casi della vita. In realtà, quasi ogni meditazione ben eseguita dà luogo a una sua piccola o grande illuminazione, ossia a una chiarificazione, a un affinamento della sensibilità e a una migliore comprensione di questo o quel problema. Se ci sediamo in meditazione, abbiamo certo in animo qualche obiettivo, che non deve essere solo la soluzione dei massimi problemi esistenziali. Talvolta abbiamo bisogno di un momento di pace e di raccoglimento. Ma il soddisfacimento di questo bisogno e le condizioni che ne seguono — un diverso atteggiamento mentale, una visione più chiara dei problemi, un maggiore distacco, una migliore intuizione, ecc. — rappresentano già una piccola illuminazione. Non esiste solo il grande e mirabolante potere di capire e cambiare tutto in un colpo solo, ma anche il «piccolo» potere di capire e cambiare qualcosa nella propria vita, giorno dopo giorno. E questa è la funzione della meditazione quotidiana: comprendere qualcosa della propria vita.Lo scopo finale è «vedere le cose così come sono». Questo è il massimo potere. <<L’impurezza delle impurezze è l’ignoranza». La meditazione può essere definita un «lavoro su di sé», una coltivazione della mente, una tecnica della coscienza un addestramento della sensibilità, una disciplina psichica, che si pone innanzitutto due obiettivi: 1. l‘acquisizione di un maggior grado ci consapevolezza 2. e il recupero del senso dell‘essere, continuamente oscurato dalle vicende della vita e dalle attività mentali. La consapevolezza non coincide con la comune coscienza automatica, con la semplice riflessione speculare; è invece un’attività volontaria, la facoltà spirituale per eccellenza che intende prima osservare attentamente, spassionatamente i movimenti psichici (in rapporto agli avvenimenti) e poi riplasmare le loro risposte, in modo da superare i vecchi modi di pensare e di reagire. Ovviamente, si lavora sulla mente per giungere a un’azione illuminata sulla realtà, perché tutti gli elementi, sono «dominati, originati e creati dalla mente». Potremmo allora definire la meditazione un’evoluzione concentrata e abbreviata della coscienza. La mente consapevole è un fenomeno faticosamente determinatosi in cui la stessa energia cosmica cerca di prendere coscienza di se stessa e di indirizzarsi a una meta. L’io e la coscienza sono dunque il prodotto di circostanze esterne, su cui in un primo momento non abbiamo nessuna possibilità di controllo. Ma, con l’emergere della consapevolezza, ecco che si delinea la possibilità di reinterpretare e riorientare le nostre esperienze. Nasce così l’interiorità autoconsapevole, lo spirito. E, attraverso il lavoro su di sé, questo spirito cerca di diventare finalmentepadrone del proprio destino. «Qual era il tuo volto prima di nascere?» recita un antico testo orientale, ossia, qual’era il senso originale dell’essere, la gioiosa sensazione di esistere, che è collegata al fatto stesso di stare al mondo e che viene oscurata dalle mille preoccupazioni e dalle attività materiali e mentali dell’uomo adulto? Recuperare questa «sensazione di piacevolezza”, questo sentimento di essere a proprio agio qui e ora, di essere parte integrante del tutto, di trovarsi a casa propria (e non in un luogo straniero), è uno dei compiti fondamentali della meditazione. La reintegrazione dell’esperienza originaria non ha luogo attraverso un riesame delle esperienze passate negative — come nella psicoanalisi —, ma attraverso un risanamento delle modalità di apprendimento. Ciò avviene per mezzo di due metodi; l’acquietamento psico-sensoriale che tende al recupero del rapporto con il corpo, con il respiro e con la natura in genere, ritrovamento dell’armonia tra psiche e soma, ecc. e lo spostamento dell’attenzione consapevole alla propria mente, con relativa presa di distanza. Entriamo così nella concentrazione di accesso, una sorta di samadhi preliminare. E chiaro che, in questo modo, le pulsioni inconsce continueranno per un po’ ad agire, ma saremo noi a non reagire più allo stesso modo. E questo avviene grazie al secondo metodo e al secondo compito della meditazione; lo sviluppo della consapevolezza, seguìto dalla disidentificazione e dal trascendimento sistematico dell’ego. A modo suo, la meditazione è dunque una forma di psicoterapia. Ma ciò che essa cura non è tanto questa o quella malattia, quanto la malattia stessa del vivere.

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Ora, in quanto ricerca di una simile «salute» radicale, la meditazione possiede anche una dimensione religiosa. Però, a differenza delle religioni teistiche, non cerca la salvezza in qualche Essere superiore, in qualche intervento miracoloso, non prega per ottenere grazie e aiuti.Non delega il rapporto con la trascendenza a una classe di sacerdoti mediatori, ma pone «l’uomo di fronte a se stesso», lo fa agire «con le sue sole forze» e lo rendo «responsabile di ogni suo atto». Questo non significa affermare una sorta di onnipotenza dell’uomo; vuol dire piuttosto che nessuno può sostituirsi alle scelte, alle decisioni e alla volontà individuali, e che, in assenza di una comprensione personale, non può esserci nessun vero progresso spirituale. «Se o non sarò me stesso chi lo sarà per me?>> L’uomo ha pesanti limiti e condizionamenti, esteriori e interiori, ma possiede anche una via d’uscita: lo sviluppo della consapevolezza e il trascendimento di sé. Se tutto infatti è il risultato di ciò che pensiamo allora è possibile, convertendo la nostra mente, cambiare le regole del gioco. Dunque, caratteristica della meditazione è l’invito alla responsabilizzazione, all’impegno personale e alla sperimentazione. «Non fidatevi del sentito dire» «Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi... nè dal rispetto per i maestri. Ma solo quando capite da soli che certe cose non sono salutari, abbandonatele... e quando capite da soli che certe cose sono salutari, accettatele e seguitele.» Manca l’appello alla sottomissione, all’obbedienza, alla fede, che è invece l’elemento essenziale delle religioni teistiche. Perfino l’attaccamento ai riti e alle opinioni preconcette viene considerato un ostacolo alla comprensione liberatrice. Infatti la radice di tutti i mali è considerata la falsa visione, l’ignoranza l’incapacità di discriminazione, l’attaccamento. Assunzione di responsabilità, osservazione attenta e sperimentazione personale costituiscono la via della meditazione, in cui l’uomo cerca di liberare se stesso dai mille condizionamenti del mondo, compresi quelli filosofici e religiosi. E ciò avviene in parte attraverso un’osservazione e una critica razionale delle false opinioni, del dualismo e delle associazioni mentali, e in parte, attraverso una decantazione dell’attività psicosomatica e un suo trascendimento. La vera comprensione, l’intuizione che libera, si serve quindi della ragione per la parte decostruttiva e critica, ma poi deve necessariamente abbandonarla per avvicinarsi alla fonte dell’essere, che, «non è conseguibile mediante il pensiero». Da ultimo si deve assumere la posizione di «non-mente», perché «se cerchi di afferrare la mente con la mente, non potrai evitare un’immensa confusione». Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la meditazione è un’attività naturale, comune a tutti gli esseri viventi e le sue esperienze non sono difficili da raggiungere. Molto spesso, senza rendercene conto, noi «facciamo» meditazione. Nessuna delle idee che stanno alla base della meditazione è estranea alla nostra cultura: non si tratta di un misticismo oscuro e incomprensibile. Basterebbe esaminare le filosofie di Eraclito, di Plotino, di Eckhart, di Schopenhauer o di Husserl, oppure certe tradizioni contemplative greche, stoiche o cristiane, per trovare numerose corrispondenze anche in Occidente. Ma il grande merito dell’Oriente è di non essersi limitato a speculare sull’argomento, bensì di aver dato vita a metodi pratici. La meditazione punta all’abbattimento delle barriere dell’io, che ci impediscono da una parte il recupero dell’esperienza fondamentale dell’essere e dall‘altra parte lo «sfondamento» verso la trascendenza. Nella sua pratica il meditante cessa per un po’ di sentirsi quel determinato individuo, diventando un’apertura attraverso cui — come dice Alan W. Watts — l’intera energia dell’universo è consapevole di se stessa. Si potrebbe parlare dell’acquisizione di una supercoscienza della reintegrazione di un Sé originario, di un r congiungiment ocon l’Assoluto, di un trascendimento dei limiti spaziali e temporali, di un’anticipazione di ciò che avverrà dopo la morte e così via, ma lutto ciò non esclude — anzi presuppone — una più intensa esperienza dell’essere qui e ora, indipendentemente dall’esistenza o meno di un soggetto delimitato, definito e magari imperituro... problema questo che riguarda più la filosofia (cioè la mente pensante) che l’esperienza. Si può anzi dire che la meditazione sia una progressiva comprensione di come certe esperienze avvengano in assenza di ego, di come l’ego stesso sia un prodotto mentale di desideri e di paure, e di che cosa possa significare

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la dimensione della trascendenza. La meditazione produce una dilatazione e una sospensione temporanea dell’io, perché pone una continua distanza tra sé e sé. Quest’opera di distanziamento e di alleggerimento è ciò che chiamiamo consapevolezza, attenzione apertura, ricettività: un atteggiamento che non è più un prodotto mentale, ma una disposizione dello spirito. Questo atteggiamento meditativo, questa disposizione d’animo, è in grado di produrre una logica interiore — una vera etica — che fa semplicemente «cadere» ciò che non è coerente. La meditazione diventa allora un importante punto di riferimento, un vero e proprio perno, un’amica che non ti abbandona mai, un rifugio per i momenti di crisi, un «luogo di ritiro» per ritemprarsi, per ritrovare l’equilibrio, per recuperate l’orientamento. «Prendete rifugio in voi stessi, siate un’isola per voi stessi.» La funzione riequilibrante dalla meditazione, la sua capacità di riportare l’individuo a quel centro naturale da cui le esperienze della vita lo allontanano continuamente (ora troppo in basso ora troppo in alto) è tutto il contrario di quegli esempi di santità di cui sono piene le religioni e il cui ideale è il martirio. Senza dubbio è stato un errore sostituire al modello del saggio quello del santo: in chi tortura se stesso con pratiche ascetiche e cerca la rinuncia, troviamo una mente non educata, una mancanza di sapienza, una rottura del rapporto con la natura e quindi un atteggiamento di aggressività. Al contrario, quando si esaltano e si praticano i valori dell’equilibrio, della calma, di un sano uso delle risorse naturali, del distacco e della consapevolezza, non c’è più bisogno di predicare amore e non-violenza: essi nascono spontaneamente.

Organizzazione aziendale

CARATTERISTICHE DELL’ORGANIZZAZIONE

Un’organizzazione, considerata dal punto di vista del comportamento organizzativo, è caratterizzata da un gruppo di individui, che svolgono attività interdipendenti, per il raggiungimento di obiettivi e che sviluppano e mantengono modelli di comportamento relativamente stabili e prevedibili, anche se gli individui nell’organizzazione possono cambiare. Consideriamo tre dimensioni che contribuiscono al formarsi dei modelli di comportamento che osserviamo nelle organizzazioni:

• complessità

• formalizzazione

• centralizzazione

La complessità di un’organizzazione dipende dai numero delle attività, delle funzioni, dei compiti, dal grado di eterogeneità e dal tipo di interdipendenza tra queste. Esistono maggiori problemi di coordinamento e di controllo in organizzazioni a elevata complessità, perché esse presentano numerose attività, a elevata interdipendenza e maggiori relazioni interpersonali. La complessità è solitamente più elevata nelle organizzazioni di grandi dimensioni. Il grado di formalizzazioni si riferisce all’intensità di impiego di politiche, procedure, routine, regole formali e scritte, che vincolano le scelte dei membri dell’organizzazione. In organizzazioni altamente formalizzate la discrezionalità e la libertà d’azione dei membri sono limitate dai confini definiti dalle norme organizzative. Nelle organizzazioni informali il grado di libertà d’azione è superiore.

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Il termine centralizzazione fa riferimento alla distribuzione del potere e dell’autorità all’interno dell’organizzazione. Le organizzazioni presentano un maggior grado di decentramento quando la maggior parte delle decisioni è presa ai livelli più bassi dell’organizzazione, nell’ambito delle politiche e delle procedure. Le organizzazioni sono altamente centralizzate quando le decisioni sono prese dal vertice aziendale e la discrezionalità dei livelli più bassi è vincolata da regole procedure formali. La complessità, il grado di formalizzazione e di centralizzazione si riflettono nella struttura organizzativa e nella cultura organizzativa La struttura organizzativa fa riferimento alle relazioni tra i compiti svolti dai membri dell’organizzazione e si concretizza nelle forme di divisione del lavoro, nelle unità organizzative, nella gerarchia, nelle politiche, regole e procedure e nei diversi meccanismi di coordinamento e di controllo. Si tratta quindi dell’insieme degli elementi di base, relativamente stabili, del sistema di ruoli su cui si articola il sistema organizzativo. Essa esprime i criteri di fondo con cui viene attuata la divisione del lavoro. La cultura organizzativa è l’insieme di valori dominanti, opinioni, atteggiamenti e norme che sono la base per giustificare decisioni e comportamenti. L’autorità è il diritto di decisione e di controllo che un individuo ha nello svolgimento dei compiti, nell’assunzione di responsabilità e nelle decisioni. L’autorità legittima è il diritto di decisione e di comando che una persona ha su altri ed è sancita, o approvata, dai partecipanti dell’organizzazione. L’autorità legittima si riflette nella struttura organizzativa, che definisce la distribuzione generale dell’autorità legittima attraverso l’assegnazione delle posizioni: posizioni di alto livello gerarchico hanno un’autorità legittima maggiore rispetto a posizioni di livello inferiore. Avere autorità significa quindi avere autonomia decisionale e poter decidere senza fare approvare queste decisioni da altri attori organizzativi. Per il personale operativo, che non ha responsabilità manageriali, significa avere controllo diretto sul lavoro, mentre per i manager significa avere il diritto di decisione e di controllo sull’uso delle risorse dell’organizzazione da parte di loro stessi e da parte dei loro diretti collaboratori. Ciò si rende necessario perché i compiti e le responsabilità sono “frammentati” nell’organizzazione, attraverso il processo di divisione del lavoro. L’autorità rappresenta quindi un meccanismo di coordinamento e di integrazione dell’azione collettiva degli individui nell’organizzazione. La distribuzione dell’autorità è funzione dell’ampiezza del controllo (span of contro!), determinata dal numero di dipendenti che riportano a un manager. L’ampiezza del controllo dipende da diversi fattori quali le competenze dei collaboratori, la filosofia e lo stile decisionale, la natura delle attività di lavoro che devono essere coordinate e controllate, la dimensione dell’organizzazione e la complessità Quando l’ampiezza del controllo è alta, alimenta la dispersione orizzontale dell’autorità, che porta alla configurazione di organizzazioni piatte, con pochi livelli gerarchici. Quando l’ampiezza del controllo è bassa, la distribuzione orizzontale dell’autorità è minore, il che porta al formarsi di organizzazioni verticistiche, caratterizzate da numerosi livelli gerarchici.

ORGANIZZAZIONE E AMBIENTE

Adottando un approccio sistemico possiamo considerare le organizzazioni come sistemi di attività interconnesse che impiegano risorse del loro ambiente esterno, le quali vengono trasformate in prodotti o servizi. Questi prodotti o servizi possono essere scambiati con organizzazioni esterne ai confini organizzativi o tra unità organizzative interne. L’insieme delle istituzioni, organizzazioni e attori al di fuori dell’organizzazione focale, che forniscono input o che impiegano gli output dell’organizzazione è definito ambiente rilevante o transazionale. Per

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esempio, i clienti e i fornitori interagiscono sempre con un’organizzazione, costituendone l’ambiente rilevante-transazionale. L’ambiente rilevante di un’organizzazione può includere una serie di elementi, quali:

• mercati / • fornitori / • sindacati /• concorrenti /• gruppi di interesse /• leggi /• investitori / • tecnologia

Caratteristiche dell’ambiente. Il processo di adattamento delle organizzazioni all’ambiente è determinato dal grado di incertezza o di cambiamento ambientale e ciò ha un diretto impatto sulla struttura interna dell’organizzazione, sui sistemi di gestione del personale, (specie quelli di ricerca e di selezione) sulle percezioni, atteggiamenti e valori, e in generale sulla cultura organiz2ativa. L’effetto più importante delle caratteristiche ambientali si manifesta sul grado di strutturazione delle attività e dei processi organizzativi interni. Il grado di incertezza e di cambiamento è collocabile su un continuum ideale, alle cui estremità vi sono la stabilità e il dinamismo ambientale. In situazioni di ambiente stabile i cambiamenti sono di modesta entità, si verificano in piccole variazioni, con un modesto impatto sulla struttura, sui processi e sui risultati dell’organizzazione. Negli ambienti stabili è possibile fare previsioni di mercato abbastanza precise basate su indicatori facilmente disponibili. Per esempio, i volumi di vendita delle auto può essere predetto con sufficiente esattezza impiegando dati generalmente disponibili (popolazione, redditi pro-capite, consumi, immatricolazione dei veicoli su strada, ecc.). I cambiamenti ambientali possono influenzare le scelte dimensionali, specialmente quando si rendono necessari ampi investimenti in stabilimenti, macchinari e nei metodi di distribuzione. Inoltre, le imprese possono usare strategie di adattamento a breve termine che di solito consistono nel ridurre o nell’incrementare la forza lavoro, piuttosto che operare cambiamenti nei prodotti, nei servizi o nei metodi di produzione e di erogazione del servizio. In condizioni di ambiente dinamico i cambiamenti sono più rapidi, i clienti possono cambiare, così come il livello di domanda, i competitori, ecc. Il mercato dell’alta moda femminile può essere un buon esempio Le decisioni sul prodotto da parte dei designer e dei produttori sono basate su previsioni dei gusti e delle preferenze del cliente, e queste sono molto variabili, Quando la tecnologia è mutevole, si creano rapidamente nuovi concetti, idee, conoscenze che riguarderanno sia il modo in cui il processo di produzione viene eseguito, sia la natura dei processi stessi. L’industria elettronica, con le conquiste tecnologiche nei circuiti integrati, nei transistor e nella miniaturizzazione è un esempio emblematico di come i cambiamenti tecnologici possono interessare la natura di un prodotto, come pure le strategie di marketing. Si consideri ancora il caso IBM. Per molti anni il core business di IBM sono stati i grandi mainframe dei computer. Col tempo la capacità di calcolo dei microchip è aumentata, mentre i costi di calcolo sono scesi poiché il prezzo di un’unità di processing power è scesa. Conseguentemente sono nati personal computer più potenti ed è iniziata una guerra dei prezzi tra i produttori di personal computer. Con lo sviluppo del networking è stato poi possibile collegare tutti i personal computer più potenti, con conseguente riduzione della richiesta di mainframe. Questi sviluppi hanno incrementato l’importanza del software, un mercato che IBM aveva scelte di non sviluppare, a tutto vantaggio di concorrenti quali Microsoft. CONSEGUENZE ORGANIZZATIVE DELLE DIVERSITÀ CULTURALI

Vi sono diverse e importanti modalità con cui la cultura influenza le organizzazioni e coloro che in esse vi lavorano. Per esempio, a causa della differenza di distanza di potere, vi saranno modalità diverse con cui i dipendenti interagiscono con i livelli manageriali più alti. Per esempio, in Israele, in cui è presente una cultura a elevata avversione all’incertezza e bassa distanza di potere, le organizzazioni efficienti tendono a avere ruoli e procedure chiaramente definiti, piuttosto che usare attivamente la gerarchia. In paesi in cui la tendenza a evitare l’incertezza e la distanza dal potere sono alti, come in Messico e in Italia, le organizzazioni sono modellate sulla famiglia tradizionale. Come il capo famiglia ha grande potere, così lo ha il top management e ci si aspetta fedeltà

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in cambio di protezione. Le organizzazioni sono viste come piramidi in cui le linee di comunicazione sono verticali, non orizzontali, e la gerarchia è utilizzata in modo più attivo. In particolare in Italia e Spagna, le relazioni di lavoro sono personalizzate, se non addirittura personalistiche, con la presenza di un’elevata commistione tra istituzioni familiari e istituzioni economiche.

• Filosofia e cultura manageriale.

Le differenze culturali si riflettono nelle filosofie manageriali. Da una ricerca condotta sui manager di diverse nazioni che lavorano per una grande multinazionale statunitense, emerge che: • I manager tedeschi, più di altri, sono convinti che la creatività sia essenziale per una carriera di successo. Nella loro mente il manager di successo è una persona dotata delle giuste caratteristiche individuali. La loro visione è razionale: essi intendono l’organizzazione come un network coordinato di individui che prendono decisioni appropriate sulla base della loro competenza professionale ed esperienza. • I manager britannici hanno una visione più interpersonale e soggettiva del mondo organizzativo; secondo loro l’abilità di creare la giusta immagine ed essere notati per quanto si è fatto è il fattore essenziale per fare carriera. Essi vedono l’organizzazione principalmente come un network di relazioni tra individui che ottengono di portare a compimento le loro attività attraverso la comunicazione e la negoziazione, • I manager francesi guardano all’organizzazione come a un network di autorità, dove il potere di organizzazione e controllo nasce dalla gerarchia. Essi vedono l’organizzazione come una piramide di livelli di potere differenziati tra loro, che devono essere raggiunti o con cui bisogna avere a che fare. I manager francesi percepiscono l’abilità di gestire le relazioni di potere in maniera efficiente e il far funzionare il sistema di potere come elementi critici per il loro successo. • I manager italiani sono simili ai francesi, entrambi di cultura latina, poiché evitano le ambiguità e preferiscono il controllo. Inoltre nelle imprese italiane i subordinati sentono maggiormente la distanza di potere e hanno aspettative verso uno stile autocratico da parte dei manager. Cercare di trapiantare una filosofia manageriale da una cultura all’altra è complesso e può creare delle complicazioni. Per esempio, negli anni Novanta, Hayo Nakarnura, un cittadino giapponese che lavorava da diversi anni per la Nippon Steel in Italia, ottenne l’incarico di direttore generale dell’Ilva, il gruppo statale nel settore dell’acciaio, che stava attraversando un periodo critico in termini di redditività e produttività. Il suo incarico era eccezionale, perché era il primo straniero a cui fosse affidata una tale posizione in un settore di così grande importanza economica per l’Italia. Una cosa che Nakamura pensò avrebbe migliorato la performance era quella di emulare l’approccio manageriale giapponese, aumentando il coinvolgimento dei lavoratori, implementando i cicli di qualità, e riducendo il numero di livelli gerarchici, in modo da rendere l’organizzazione più flessibile e orientata per processi. Il processo di cambiamento non fu facile, ma dopo qualche tempo si cominciarono a registrare i primi miglioramenti. Dopo diversi mesi, non soddisfatto del tasso di miglioramento, Nakamura fece un forte appello alla forza lavoro, con un memorabile discorso, in cui disse: «l’impresa è casa vostra», un approccio al problema tipicamente giapponese e poco italiano.

CULTURA ORGANIZZATIVA Così come il miglior modo per capire la cultura di una nazione è di essere lontani dalla propria e immersi in quella di un’altra, così si possono percepire le differenze tra culture organizzative trasferendosi da un’organizzazione a un’altra. La ragione di ciò è che, come i paesi, anche le organizzazioni hanno diverse culture.La cultura organizzativa è uno schema del modo di pensare, sentire e reagire che esiste in una specifica organizzazione o nelle sue componenti e unità, è un programma mentale” specifico e unico di quella organizzazione. La forza più ovvia e generale che modella la cultura di un’organizzazione è il carattere nazionale e cioè quell’insieme di valori culturali come la libertà individuale, le opinioni riguardo il bene dell’umanità, l’orientamento verso l’azione, le norme sulla distanza di potere, ecc. Inoltre vi sono altre influenze esterne, come l’ambiente naturale e gli eventi storici che hanno modellato la società e su cui l’organizzazione ha poco o nessun controllo. Infine, la più diretta fonte di cultura, per l’organizzazione stessa, sono i fattori specifici dell’organizzazione. Quindi, mentre due iniprese simili in uno stesso paese saranno soggette alle stesse influenze culturali e nazionali, le loro esperienze specifiche e separate condurranno a culture organizzative differenti.

La cultura organizzativa è un riflesso diretto della personalità modale organizzativa, intesa come il grado di omogeneità e di forza di un particolare orientamento di personalità in una organizzazione, risultante da quattro fattori: • gli individui sviluppano valori durante il processo di socializzazione e di inserimento nei diversi tipi di organizzazioni nella società • i processi di ricerca e di selezione del personale escludono gli individui che non presentano coerenza con la cultura organizzativa e la socializzazione organizzativa cambia gli atteggiamenti di coloro che entrano nell’organizzazione. In questo modo è possibile che si sviluppi un certo grado di omogeneità degli orientamenti di

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personalità, in ciascuna organizzazione • i riconoscimenti nelle organizzazioni rinforzano in modo selettivo alcuni specifici tipi di comportamenti e di atteggiamenti e ne escludono altri • le decisioni di promozione di solito tengono conto sia della valutazione della prestazione sia del potenziale, l’a quale valuta anche alcune caratteristiche della personalità dell’individuo. Vi sono altri fattori organizzativi che influenzano la cultura organizzativa, come per esempio il tipo di settore in cui l’impresa opera. Le imprese dello stesso settore condividono lo stesso ambiente competitivo, le stesse richieste dei clienti e le stesse attese sociali e legali.. Sono inoltre anche importanti le persone “simbolo” nella storia dell’impresa, gli “eroi aziendali”. Si pensi agli effetti a lungo termine che hanno sulle imprese fondatori o manager significativi come Bill Gates per Microsoft, Henry Ford per la Ford Motor Company, Enzo Ferrari perla Ferrari, Gianni Agnelli per la Fiat, Pietro Barilla per la Barilla, ecc. Ciò che essi di solito fanno o hanno fatto è di costituire un gruppo di top manager molto forte nei primi anni di attività, che sia capace di mantenere il potere per molti anni, anche dopo che il fondatore ha lasciato il suo posto. Anche eventi critici odi crisi possono entrare e far parte del folclore dell’organizzazione, costituendo un punto di riferimento per i valori e le opinioni dei suoi membri. Per esempio, quando Apple Computer, nel 1984, ebbe seri problemi di competizione con IBM ed ebbe serie difficoltà interne sia di tipo organizzativo sia di tipo tecnico, Steven Jobs tenne un energico discorso alla conferenza annuale, con l’aiuto di uno schermo gigante. Egli sfidò apertamente IBM, con tale veemenza e passione, che infervorò sia i dipendenti sia i distributori. Non vi erano cambiamenti nella posizione finanziaria, di mercato o tecnologica, ma solo cambiamenti nell’organizzazione e nel modo in cui i suoi dipendenti, nonché i competitori e i potenziali clienti, si sarebbero sentiti nei suoi confronti. «Questo era quanto e questo fu sufficiente». Eventi come questi, così come il fatto che con Steve Wozniak avevano fondato la Apple, fecero identificare per anni l’impresa con Steven Job.

Manifestazioni della cultura organizzativa I valori fondamentali della coalizione dominante si riflettono nei concetti, significati e messaggi che sono incorporati in diversi fattori, quali le strategie di selezione e di socializzazione, le distinzioni di status organizzativo, le ideologie, i miti, il linguaggio, i simboli, i riti e le cerimonie. Questi elementi hanno propositi e significati e di tipo strumentale e razionali, e di tipo espressivo ed emotivo. I significati espressivi ed emotivi sono i significati psicologici e sociologici e i loro effetti sui membri dell’organizzazione. Essi creano un campo simbolico cercano di proteggere la stabilità permettono al gruppo di mantenere la sua identità collettiva e di offrire un’identità riconoscibile al mondo esterno. Essi spesso coinvolgono la creazione di simboli che hanno significati importanti per i membri dell‘organizzazione . Consideriamo ora ciascun elemento delle manifestazioni della cultura organizzativa:

strategie di selezione e di socializzazione

distinzioni di status organizzativo

ideologie e miti

linguaggi

simboli

i riti e cerimonie

Le organizzazioni cercano di selezionare e “indottrinare” i propri membri con valori omogenei alla cultura. Quando un’efficace selezione e socializzazione dei membri risulta nell’assunzione di persone con valori congruenti a quelli della cultura organizzativa, i risultati si riscontrano in una maggiore soddisfazione sul lavoro, un maggiore impegno organizzativo e un più basso turnover. In certe imprese, in cui si sta tentando di sviluppare la cultura del lavoro di squadra, del team, del coinvolgimento e della cooperazione, risulta determinante la selezione e l’inserimento di candidati che abbiano forti attitudini al in team. Nella fase di selezione vengono quindi impiegati specifici assessment delle predisposizioni di personalità e metodi di rilevazione delle capacità osservabili che sono più coerenti con le attività di gruppo. La distinzione di classe, o distinzione di status organizzativo — il potere accettato e le relazioni di status tra individui e gruppi nelle organizzazioni — sono una base per legittimare le relazioni di influenza. Le distinzioni più ovvie sono quelle gerarchiche, coerenti con i

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diversi livelli della scala gerarchica, le deleghe di responsabilità e l’autorità associata ai diversi livelli. Vi sono anche altri tipi di distinzione di status; in alcune organizzazioni determinate posizioni hanno uno status più elevato di altre, anche se sono al medesimo livello organizzativo. Un’altra distinzione di status può esserci tra gruppi: questo accade specialmente quando un gruppo con un alto livello di formazione professionale lavora cori un gruppo di persone di formazione inferiore o con una formazione professionale e socializzazione diversa. I gruppi a status più alto hanno generalmente più potere e maggiore facilità di accesso alle risorse. Ciò accade spesso nelle operazioni di fusione e incorporazione, specie quando nell’impresa acquisita esistono gruppi di persone con esperienza e competenze superiori a quelle dell’impresa incorporante. È il caso di un’importante impresa farmaceutica italiana di grandi dimensioni, che ha recentemente acquisito e incorporato un’impresa farmaceutica di minori dimensioni, che però utilizzava già da qualchetempo un sistema informativo integrato. Le funzioni “sistemi ‘informativi” dalle due imprese sono state accorpate e accentrate a livello di staff della direzione generale. Il gruppo degli informatici dell’impresa acquirente aveva uno “status teorico” maggiore del gruppo degli informatici dell’impresa incorporata, ma nei fatti, lo “status effettivo” più elevato era quello del gruppo degli informatici dell’impresa acquisita, e ciò derivava essenzialmente dal “potere dell’esperto”. In breve tempo questo gruppo ha ottenuto sempre più potere e maggiore accesso alle risorse. La cultura di qualunque organizzazione è costruita attorno a un’ideologia condivisa, intesa come “l’insieme relativamente coerente di opinioni che legano alcune persone le une alle altre e spiegano (loro) i loro mondi in una relazione di causa ed effetto”. L’ ideologia aiuta i membri dell’organizzazione a comprendere le decisioni.

Un mito è una storia di eventi passati che vengono utilizzati per spiegare le origini o la trasformazione di qualche cosa. Questo porta al credo incondizionato che certe prassi e comportamenti siano corretti e giusti e anche se spesso non esiste una prova empirica per questo credo, è sufficiente l’accettazione del mito. Naturalmente, i miti differiscono nell’accuratezza, ma tutti rappresentano eventi o circostanze importanti trasmessi da una generazione organizzativa alla successiva e diventano la base per l’azione organizzativa. Non è rilevante quanta verità e quanta finzione vi siano nei miti e nelle storie che sorgono dalla cultura organizzativa; ciò che importa è che i miti trasmettano agli altri i valori centrali dell’organizzazione e che servano come base del controllo dei comportamenti.

Ogni organizzazione ha un suo linguaggio unico e specifico. Cone la madre lingua di una nazione, il linguaggio dell’organizzazione viene capito e utilizzato al suo meglio dai suoi membri; usarlo in modo appropriato infatti, è un modo di essere identificati come membri dell’organizzazione. Il linguaggio dell’organizzazione comprende il gergo, gli slang, i gesti, i segnali, gli scherzi, lo humor e le metafore che permettono ai membri di trasmettersi significati chiari e molto specifici. Quando viene utilizzato il “giusto” linguaggio per spiegare un’azione, questa ha maggiori probabilità di venire accettata, perché riflette la cultura organizzativa. Quando Henry Ford III licenziò personalmente Iacocca dopo una carriera di successo, alla richiesta di spiegazioni da parte di quest’ultimo pare abbia detto: «Perché non mi piaci». Quando questo aneddoto cominciò a circolare tra i dipendenti, tutti capirono perché la lealtà personale è molto importante e il linguaggio utilizzato da Henry Ford era coerente con quel valore! I simboli sono oggetti a cui è collegato un significato organizzativo e possono includere titoli, posti per il parcheggio, speciali sale da pranzo, uffici spaziosi, collocazione e arredamento degli uffici e altre cose che indichino potere e prestigio. In una qualunque organizzazione, i simboli specifici sono unici e correlati alla prospettiva condivisa dai membri dell’organizzazione. I riti sono insiemi di attività relativamente elaborate, enfatiche, “teatrali” e pianificate che consolidano varie firme di espressioni culturali in un evento e che vengono alla luce durante le interazioni sociali (di solito a beneficio di un’audience). Una cerimonia è un sistema di diversi riti connessi a un’occasione o un evento.

Come i simboli e i miti, i riti e le cerimonie trasmettono significati culturali importanti attraverso le azioni e le interazioni.

Di seguito sono descritti alcuni dei più importanti riti organizzativi: • riti di passaggio: sono quelli che servono a far “entrare o uscire” un individuo da un’organizzazione: • riti di insediamento: servono a insediarsi nell’organizzazione, trasmettendo alcune sue importanti norme e valori. Questi riti possono essere molto elaborati (come i training militari di base) o molto semplici (come quando un addetto al personale spiega le regole e le politiche aziendali il primo giorno di lavoro);

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• riti di separazione: aiutano la persona a dare un taglio netto con l’organizzazione. I party di pensionamento sono un segnale della fine di una carriera e le cene di addio separano la persona da un’organizzazione; • riti di riduzione del conflitto: servono a mitigare il potenziale di conflitto organizzativo. Si pensi per esempio alla negoziazione collettiva, alla “politica della porta aperta” (la porta di ciascun manager è sempre aperta per sentire i problemi dei collaboratori) ai comitati (in cui le visioni divergenti possono essere esposte), ecc; • riti di integrazione: facilitano e aumentano l’interazione dei membri dell’organizzazione. Durante i riti di integrazione i titoli ufficiali e le differenze organizzative vengono eliminati per favorire la socializzazione informale (cene aziendali, convention, feste, anniversari, ecc.).

Esistono modelli per studiare le culture organizzative.

n alcune culture le persone non si sentono a loro agio in condizioni di alto rischio e ambiguità, mentre in altre culture vi è un’alta propensione al rischio. Le società in cui si tende a evitare l’incertezza tendono a preferire norme, regole, procedure e a operare in situazioni prevedibili, così come a opporsi a situazioni in cui i comportamenti appropriati non sono precedentemente stabiliti. Coloro che non accettano le situazioni di incertezza preferiscono lavori stabili, una vita sicura, evitano il conflitto e hanno una bassa tolleranza nei confronti di persone e idee devianti. Il Giappone “batte” gli Stati Uniti nell‘evitare le incertezze, mentre entrambi sono superiori alla Svezia; questo significa per esempio, che in Giappone vi è decisamente minore tolleranza nei confronti delle devianze dai comportamenti accettati rispetto agli Stati Uniti, mentre la Svezia è generalmente ritenuta una nazione molto tollerante. Queste differenze si riflettono nei programmi dì addestramento e formazione che in Giappone vengono impartiti per apprende r alcuni dei comportamenti d’uso comune per ogni tipo di situazione sociale, quali per esempio “come effettuare i diversi tipi di inchino”, “come mangiare certi tipi di cibo”, ‘come comportarsi a un funerale e in altri tipi di situazioni sociali”, ecc. Questo desiderio di non essere fuori dalla società giapponese si riflettono nel detto: «il chiodo che sporge deve essere martellato”. Nelle nazioni in cui si ha una bassa tendenza a evitare l’incertezza, come gli Stati Uniti, vi è un’inferiore accettazione di regole e minore conformità ai desideri delle figure autoritarie, a differenza di nazioni come il Giappone o la Germania in cui si tende a evitare le incertezze. Per esempio l’essere in ritardo o l’assenteismo sono questioni molto più serie in Giappone che in altre nazioni come la Svezia o l’Italia, dove l’incertezza è più accettabile. Per distanza di potere si intende il grado di differenza tra potere e status ammesso in una cultura: alcune nazioni accettano grandi differenze di potere e di autorità tra membri di diverse classi sociali o livelli occupazionali, altre invece meno. Per esempio la distanza di potere è alta in Francia e in Italia, mentre è bassa in Israele e in Svezia, dove i lavoratori chiedono e ottengono un discreto potere riguardo questioni quali le assegnazioni delle mansioni e le condizioni di lavoro, I manager francesi tendono a non interagire socialmente con i collaboratori e non si aspettano di dover discutere con loro l’assegnazione delle mansioni. Vi sono altri effetti della differenza di distanza di potere. Per esempio, in paesi in cui questa è bassa, come gli Stati Uniti, persone di potere possono essere forzate a lasciare la loro posizione oppure sfidati con successo da persone o gruppi meno potenti. In paesi a bassa distanza di potere, gli individui percepiscono minore sconforto e stress nel momento in cui sono in disaccordo con il loro capo. Per esempio, a Hong Kong (in cui la cultura è ad alta distanza di potere), gli individui, se insultati da chi è di rango superiore, rimangono maggiormente affranti rispetto a come reagirebbero individui appartenenti a culture a bassa distanza di potere. Individualismo e collettivismo indicano se, per affrontare i diversi problemi e questioni, sono preferiti azioni individuali o collettive, Nelle culture individualiste — come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada — le persone tendono a enfatizzare i loro bisogni, preoccupazioni e interessi personali rispetto a quelli del loro gruppo o dell’organizzazione nel suo insieme, mentre l’opposto è valido in quei paesi in cui vi è un alto grado di collettivismo, quali i paesi asiatici come Giappone e Taiwan. In una società collettivista ci si attende che si interagisca con i membri del proprio gruppo ed è pressoché impossibile considerare una persona come individuo, piuttosto come qualcuno la cui identità deriva dai gruppi a cui è associato. Spesso nelle imprese operanti in società collettiviste, si prendono decisioni collettiviste, cioè senza riguardo alcuno per i bisogni personali di coloro che saranno interessati da queste decisioni, specie se si pensa clic la decisione è valida e giusta per l’organizzazione nel suo insieme. Per esempio, i dipendenti possono essere trasferiti arbitrariamente, senza molti scrupoli riguardo a quanto questo trasferimento possa influenzare la persona o la sua famiglia. Inoltre, alcuni tipi di comportamenti lavorativi possono essere influenzati e rinforzati. Per esempio, in una società individualistica come gli Stati Uniti, c’è una certa tendenza delle persone a evitare lavori assegnati a un gruppo e ai contrario prediligere quelli assegnati ai singoli individui. Questa tendenza è assente in una nazione collettivista come Taiwan. La dimensione mascolinità e femminilità di una cultura si riferisce al grado con cui vengono enfatizzati valori associati agli stereotipi di mascolinità (come aggressività e dominanza) e di femminilità (come compassione, empatia e apertura emotiva. Culture molto mascoline come quelle giapponese, tedesca, statunitense e italiana

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tendono ad avere strutture occupazionali maggiormente legate alle differenze di genere, con certi incarichi assegnati quasi esclusivamente a donne e altri solo a uomini. Vi è anche una forte enfasi al successo, alla crescita e alla sfida nel lavoro. In queste culture le persone sono più asserti ve e mostrano meno preoccupazione nei confronti dei bisogni e dei sentimenti delle persone, una preoccupazione maggiore per la performance sul lavoro e minore per la qualità dell’ambiente di lavoro. In paesi con un’alta dimensione femminile come Svezia e Norvegia, le condizioni di lavoro, la soddisfazione e la partecipazione degli impiegati sono elementi molto enfatizzati, Gli schemi mentali di lungo o breve termine rispecchiano la visione di una cultura verso il futuro. L’orientamento a breve termine, caratteristica delle culture occidentali, riflette valori verso il presente, o al più il passato, e una preoccupazione per l’adempimento dei doveri sociali. Schemi cognitivi a lungo termine, caratteristici dei paesi asiatici, riflettono un orientamento verso il futuro, e un “credo” nell’a frugalità, nel risparmio e nel la persistenza. In nazioni con orientamento a lungo termine la pianificazione è di lungo termine e le imprese dimostrano di intraprendere investimenti nella formazione e sviluppo dei dipendenti, nella sicurer.za di lavoro a lungo termine, con impostazione di sentieri e dinamiche di carriere lunghi e lenti e di sviluppare relazioni a lungo termine con fornitori e clienti.

Storia delle leggi sulla sicurezza

SICUREZZA

Le prime leggi sulla sicurezza dei luoghi di lavoro furono introdotte in Italia nel 1942 nel codice civile mentre le prime leggi specifiche sull'argomento risalgono agli anni cinquanta. Di particolari importanza furono il D.P.R. n° 547 del 1955, il D.P.R. n° 303 del 1956 e il D.P.R. n° 164 del 1956 per le costruzioni. Questi decreti, molto corposi e ben costituiti, sono tra i meno applicati nella storia dell'Italia repubblicana, infatti ancora tutt'oggi c'e' un numero enorme di infortuni sul lavoro sia in fabbrica che nell'edilizia. Negli anni '90, dopo l'ingresso in Europa e l'emanazione di direttive europee in materia, sono stato promulgati altri decreti, il n° 626 del 1994 e il n° 494 del 1996, che obbligano le imprese, i committenti e i datori di lavoro al rispetto dei decreti precedenti, a gestire il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro, ad introdurre la formazione e l'informazione sui rischi per cui sono state create nuove figure professionali responsabili per la sicurezza. Con aggiornamento annuale, sono seguiti altri decreti di chiarimento e di miglioramento oltre a leggi regionali. La principale novità introdotta dal D.Lgs. 626/94, in coerenza con concetti espressi nelle direttive CE in esso recepite, è l'obbligo della valutazione del rischio (risk assessment) da parte del datore di lavoro e l'introduzione di un Servizio di Prevenzione e Protezione, di cui, appunto il RSPP, ne è il responsabile. La valutazione del rischio, quindi, è un processo di individuazione dei pericoli e, successivamente, di tutte le misure di prevenzione e protezione volte a ridurre al minimo sostenibile le probabilità e il danno conseguenti a potenziali infortuni e malattie professionali. Rispetto alla normativa precedente (cfr. DPR 547/55) oggi il Datore di lavoro non è solo "debitore della sicurezza nei posti di lavoro" ma deve essere partecipe e responsabile di un processo di miglioramento delle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro attraverso una periodica valutazione dei rischi (che viene documentata in un apposito "documento di valutazione dei rischi" in riferimento all'art. 4 comma 2) del D.Lgs. 626/94), che non determina solo i requisiti oggettivi di sicurezza, ma considera anche gli aspetti organizzativi e soggettivi associati allo svolgimento dell'attività lavorativa. Altra novità introdotta dal D.Lgs. 626/94 è l'introduzione di una Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (art. 18) che deve essere eletto dai lavoratori stessi e deve essere consultato preventivamente in tutti i processi di valutazione dei rischi. Tutti questi adempimenti devono poi essere sempre affiancati dai disposti dell'art. 41 della Costituzione Italiana e dall'art. 2087 Codice Civile che obbligano i datori di lavoro a garantire l'integrità fisica e morale di tutti i lavoratori tenendo conto della miglior tecnologia applicabile e tutto ciò che può essere fatto per evitare potenziali infortuni (cfr. testo art. 2087 codice civile).

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Orientamento legislativo attuale e la sua storia.

Fonti:

Normativa. Costi e pianificazione della sicurezza- A. Calabrese-E.Cagno-P.Turco. Ed Il Sole 24ore. Decreto del Presidente della Repubblica 19/3/56.

Normativa

D.P.R. 547/55 Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (con modifiche e integrazioni apportate da successive disposizioni di legge)

D.P.R. 302/56 Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro: integrazione delle norme di cui al D.P.R. 547/1955.

D.P.R. 303/56 Norme generali per l’igiene del lavoro

Decreto Ministeriale del 18/12/1975 Norme tecniche aggiornate relative all'edilizia scolastica, ivi compresi gli indici di funzionalità didattica, edilizia ed urbanistica, da osservarsi nella esecuzione di opere di edilizia scolastica.

Norma UNI 7713 - 1/11/77 (D.M. 2 marzo 1978) Arredamenti scolastici. Tavolini e sedie

Circ. Min. Lavoro e P.S. n.85 del 23/06/1982

Registro infortuni - Art. 403 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 - Applicabilità agli Istituti di istruzione.

Circ. Min. Sanità n.45 del 10/07/1986

Piano di interventi e misure tecniche per la individuazione ed eliminazione del rischio connesso all'impiego di materiali contenenti amianto in edifici scolastici e ospedalieri pubblici e privati.

D. M. n.236 del 14/06/89 (Min. Lavori Pubblici)

Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica e sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche.

D.Lgs. 277/91 Esposizione al piombo, all’amianto e al rumore

D.M. 26 agosto 1992 Norme di prevenzione incendi per l'edilizia scolastica

D.Lgs. 626/94 VEDI TESTO INTEGRATO Legge quadro sulla sicurezza del lavoro

L. 23 del 11/01/96 Norme per l'edilizia scolastica

D.Lgs.242/96 Integrazioni e modificazione del D.Lgs. 626/1994

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D.Lgs. 626/94 modificato e integrato dal D.Lgs.242/96

Legge quadro sulla sicurezza del lavoro. Consultare, più sotto, il testo ulteriormente integrato dalle più recenti disposizioni sui videoterminali.

D.P.R. 459/96 Direttiva Macchine

D.Lgs. 493/96 Segnaletica di sicurezza

D.P.R. 494/96 Direttiva Cantieri. Testo aggiornato

D.Lgs. 645/96 Sicurezza e igiene del lavoro lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

D.M. 18/03/96 (Min.Interno) Norme di sicurezza per la costruzione e l'esercizio degli impianti sportivi.

Norme di prevenzione incendi per l'edilizia scolastica. Chiarimenti sulla larghezza delle porte delle aule didattiche ed esercitazioni.

Lett. Circ. prot. n.954/4122 sott. 32 del 17/05/96 del Ministro dell'Interno

DM 292 del 21 giugno 1996 - Min. Pubblica Istruzione

Individuazione soggetti «datori di lavoro» negli Uffici dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione ai sensi dei decreti legislativi n. 626/94 e n. 242/96

D.P.R. n.503 del 24/07/96 Regolamento recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici.

Circ. n.154 del Min.Lav.P.S. 19/11/96

Ulteriori indicazioni in ordine all'applicazione del D.Lgs. 626/94, come modificato dal D.Lgs. 242/96.

D.M. 16 gennaio 1997 Min. Lavoro e Min. Sanità

Individuazione dei contenuti minimi della formazione dei lavoratori, dei rappresentanti per la sicurezza e dei datori di lavoro che possono svolgere direttamente i compiti propri del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

D.M. 16 gennaio 1997 Min. Lavoro, Min. Industria e Min. Sanità

Definizione dei casi di riduzione della frequenza della visita degli ambienti di lavoro da parte del medico competente.

D. Interminist. 10/03/98 Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei luoghi di lavoro.

D.M. n.382 del 29/09/98

Regolamento recante norme per l'individuazione delle particolari esigenze negli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado, ai fini delle norme contenute nel D.Lgs. 626/94 e successive modifiche ed integrazioni.

Circ. 119 MIUR - 29/04/99 Sicurezza nel lavoro: indicazioni attuative D.Lgs. 626/94 e variazioni.

Legge n.265 del 3/08/99 - art.15 Proroga termini per adeguamento edifici scolastici da parte degli enti proprietari.

Circ. 23 febbraio 2000 - Min. Lavoro e Previd. Sociale

"Carta 2000" Sicurezza su lavoro. Conferenza del 3-5 dicembre 1999

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Circ. n. 40 del 16 giugno 2000 - Min. Lavoro e Previd. Sociale

Partecipazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla gestione della sicurezza. Art. 19 D.Lgs 626/94 e successive modifiche ed integrazioni

DM 2 ottobre 2000 - M. Lavoro e Prev. Soc. e Min. Sanità Linee guida d'uso dei videoterminali

D.Lgs. 626/94 modificato e integrato dal D.Lgs.242/96 e aggiornato con D.Lgs. 66/2000 e D.Lgs. 422/2000

Legge quadro sulla sicurezza del lavoro, integrata dalle ultime disposizioni sui videoterminali.

Circ. n. 5 dell'8 gennaio 2001 - Min. Lavoro e Previd. Sociale

Decreto legislativo 26/5/2000 n.241: attuazione della direttiva 96/29/EURATOM in materia di protezione sanitaria dei lavoratori e della popolazione contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti.

Circ. n. 16 del 25 gennaio 2001 Min. Lavoro e Previd. Sociale

Modifiche al decreto legislativo 19 settembre 1994, n.626, Titolo VI, "uso delle attrezzature munite di videoterminali". Chiarimenti operativi in ordine alla definizione di "lavoratore esposto" e "sorveglianza sanitaria".

Circ. n. 5 del 20 aprile 2001 - Presid. del Cons. dei Ministri

Modifiche al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, titolo VI, "uso delle attrezzature munite di videoterminali"

Commissione delle Comunità Europee contro l'Italia - 31 maggio 2001

Le conclusioni della Commissione della Comunità Europea contro l'Italia sull’inesatto recepimento della direttiva 89/391/CEE

Sentenza della Corte Europea contro l'Italia

Sentenza della Commissione della Comunità Europea contro l'Italia sull’inesatto recepimento della direttiva 89/391/CEE

D.P.R. n. 462 del 22 ottobre 2001

Regolamento di semplificazione del procedimento per la denuncia di installazioni e dispositivi di protezione contro le scariche atmosferiche, di dispositivi di messa a terra di impianti elettrici e di impianti elettrici pericolosi.

D.Lgs. 2 febbraio 2002 n. 25

Attuazione della direttiva 98/24/CE sulla protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici durante il lavoro.

D.lgs 23 giugno 2003 n. 195 Individuazione dei requisiti professionali richiesti agli addetti ed ai responsabili dei servizi di prevenzione e protezione

Dlgs. 8 luglio 2003, n. 235 Requisiti minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori.

D.Lgs. 19/09/1994, n. 626 Testo aggiornato al 31/08 2003

Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42, 98/24 e 99/38 riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro.

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Decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n. 303 Norme generali per l'igiene del lavoro.(Gazzetta Ufficiale n. 105 del 30/4/1956)

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Vista la legge 12 febbraio 1955, n. 51, che delega al Governo l'emanazione di norme generali e speciali in materia di prevenzione infortuni e di igiene del lavoro; Visto l'art. 87, comma quinto, della Costituzione; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale;

Decreta:

TITOLO I - Disposizioni generali

Capo I - Campo di applicazione

Art. 1

ATTIVITÀ SOGGETTE

Le norme del presente decreto si applicano a tutte le attività alle quali sono addetti lavoratori subordinati o ad essi equiparati ai sensi del successivo art. 3, comprese quelle esercitate dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province, dai comuni, da altri Enti pubblici e dagli istituti di istruzione e di beneficenza, salve le limitazioni espressamente indicate. Nei riguardi delle Ferrovie dello Stato e di quelle esercitate da privati in regime di concessione le disposizioni del presente decreto saranno applicate adattandole alle particolari esigenze dell'esercizio ferroviario. Art. 2 ATTIVITÀ ESCLUSE Art. 3 DEFINIZIONE DI LAVORATORE SUBORDINATO

Capo II - Obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori

Art. 4 OBBLIGHI DEI DATORI DI LAVORO, DEI DIRIGENTI E DEI PREPOSTI

I datori di lavoro, i dirigenti e i preposti i quali esercitano, dirigono o sovraintendono alle attività indicate all'art. 1, devono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze: a) attuare le misure di igiene previste nel presente decreto; b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti; c) fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione; d) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione.

Art. 5 OBBLIGHI DEI LAVORATORI

I lavoratori devono: a) osservare, oltre le norme del presente decreto, le misure disposte dal datore di lavoro ai fini dell'igiene; b) usare con cura i dispositivi tecnico-sanitari e gli altri mezzi di protezione predisposti o forniti dal datore di lavoro; c) segnalare al datore di lavoro, al dirigente o ai preposti le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di protezione suddetti; d) non rimuovere o modificare detti dispositivi e mezzi di protezione, senza averne ottenuta l'autorizzazione.

TITOLO II–

Disposizioni particolari Capo I - Ambienti di lavoro-Art. 6 ALTEZZA, CUBATURA E SUPERFICIE-Art. 7 PAVIMENTI, MURI, SOFFITTI, FINESTRE E LUCERNARI DEI LOCALI SCALE E MARCIAPIEDI MOBILI, BANCHINA E RAMPE DI CARICO -Art. 8 LOCALI SOTTERRANEI-Art. 9 AREAZIONE DEI LUOGHI DI LAVORO CHIUSI-Art. 10 ILLUMINAZIONE NATURALE E ARTIFICIALE DEI LUOGHI DI LAVORO-Art. 11 TEMPERATURA DEI LOCALI-Art. 12 APPARECCHI DI RISCALDAMENTO-Art. 13 UMIDITÀ-Art. 14 LOCALI DI RIPOSO-Art. 15 PULIZIA DEI LOCALI-Art. 16 SISTEMAZIONE DEI TERRENI SCOPERTI DIPENDENTI DAI LOCALI DI LAVORO-Art. 17 DEPOSITI DI IMMONDIZIE, DI RIFIUTI E DI MATERIALI INSALUBRI-

Capo II - Difesa dagli agenti nocivi-Art. 18 DIFESA DALLE SOSTANZE NOCIVE-Art. 19 SEPARAZIONE DEI LAVORI –OCIVI-Art. 20 DIFESA DELL'ARIA DAGLI INQUINAMENTI CON PRODOTTI NOCIVI-Art. 21 DIFESA CONTRO LE POLVERI-Art. 22 DIFESA DALLE RADIAZIONI NOCIVE-Art. 23 DIFESA CONTRO LE RADIAZIONI IONIZZANTI-Art. 24 RUMORI E SCUOTIMENTI-Art. 25 LAVORI IN AMBIENTI SOSPETTI DI INQUINAMENTO-Art. 26 MEZZI PERSONALI DI PROTEZIONE

Capo III - Servizi sanitari-Art. 27 PRONTO SOCCORSO-Art. 28 PACCHETTO DI MEDICAZIONE-Art. 29 CASSETTA DI PRONTO SOCCORSO-Art. 30 CAMERA DI MEDICAZIONE-Art. 31DECENTRAMENTO DEL PRONTO SOCCORSO-Art. 32 Art. 33 VISITE MEDICHE-Art. 34-Art. 35-

Capo IV - Servizi igienico-assistenziali-Art. 36 ACQUA-Art. 37 DOCCE-Art. 38 DOCCE-Art. 39 GABINETTI E LAVABI-Art. 40 SPOGLIATOI E ARMADI PER IL VESTIARIO-Art. 41 REFETTORIO-Art. 42 CONSERVAZIONE VIVANDE E SOMMINISTRAZIONE BEVANDE-Art. 43 LOCALI DI RICOVERO E DI RIPOSO-Art. 44 DORMITORI STABILI-Art. 45 DORMITORI DI FORTUNA-Art. 46 DORMITORI TEMPORANEI-Art. 47 PULIZIA DELLE INSTALLAZIONI IGIENICO-ASSISTENZIALI

Capo V - Nuovi impianti-Art. 48 NOTIFICHE ALL'ISPETTORATO DEL LAVORO

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TITOLO III - Disposizioni relative alle aziende agricole-Capo unico Art. 49 AZIENDE E LAVORI SOGGETTI AL PRESENTE TITOLO-Art. 50ABITAZIONI E DORMITORI-Art. 51DORMITORI TEMPORANEI-Art. 52 ACQUA-Art. 53ACQUAI E LATRINE-Art. 54STALLE E CONCIMAIE-Art. 55 LOCALI SOTTERRANEI-Art. 56-MEZZI DI PRONTO SOCCORSO E DI PROFILASSI-Art. 57

TITOLO IV - Norme penali Capo unico-Art. 58 CONTRAVVENZIONI COMMESSE DAI DATORI DI LAVORO E DAI DIRIGENTI-Art. 59 CONTRAVVENZIONI COMMESSE DAI PREPOSTI-Art. 60 CONTRAVVENZIONI COMMESSE DAI LAVORATORI

TITOLO V - Disposizioni transitorie e finali- Capo I – Deroghe-Art. 61DEROGHE DI CARATTERE GENERALE-Art. 62 DEROGHE PARTICOLARI

Capo II - Applicazione delle norme-Art. 63 VIGILANZA-Art. 64 ISPEZIONI-Art. 65 PRESCRIZIONI-Art. 66 RICORSI-Art. 67 CONTRAVVENZIONI-Art. 68COORDINAMENTO DELLA VIGILANZA-Capo III - Disposizioni finali-Art. 69COORDINAMENTO CON LE DISPOSIZIONI SPECIALI VIGENTI INMATERIA

Art. 70

DECORRENZA

Il presente decreto entra in vigore il 1 luglio 1956. A decorrere da tale data il regolamento generale per igiene del lavoro, approvato con regio decreto 14 aprile 1927, n. 530, è abrogato.

Gli strumenti per la gestione della sicurezza in azienda. Compilazione di un manuale sintetico orientativo. Fonti:

La certificazione della sicurezza. F. Fortunati, S. Sergi. Ed Il Sole 24ore

Fascicolo la sicurezza

Definizione

La gestione delle problematiche relative alla sicurezza nei luoghi di lavoro costituisce ormai parte integrante della gestione generale dell’impresa e contribuisce a migliorare l’immagine interna ed esterna dell’impresa stessa. Saper gestire coerentemente sistemi di sicurezza e di qualificazione consente nel tempo di ridurre costi e rischi, aumentando altresì i livelli di efficienza e di sicurezza dell’impresa.

Perché è importante la sicurezza?

• Per la salvaguardia della salute

• Per ridurre il costo degli infortuni

• Per definire delle responsabilità

• Per diminuire gli oneri sociali

• Per migliorare il clima aziendale interno

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• Per aumentare l’immagine aziendale verso l’ambiente esterno.

Normativa di riferimento

Le leggi in materia di sicurezza sul luogo di lavoro sono nate da più di un secolo, con laLegge n. 30 del 1 898. Essa fissava la normativa in materia di assicurazione obbligatoria.

Negli anni ‘50 si definisce il concetto di rischio specifico e l’obbligo di rendere informati i

lavoratori, anche attraverso l’approvazione dileggi sempre più specifiche ed efficaci:

• D.P.R. 27/4/1955 n. 547. Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro

• D.P.R. 19/3/1956 n. 303. Norme generali per l’igiene sul lavoro

• D.P.R. 3 1/4/1956 n. 164. Prevenzione degli infortuni nelle costruzioni

Con la crescita dell’impresa come realtà produttiva nazionale e con la maggiore sensibilità del legislatore verso tali problematiche, la sicurezza sui luoghi di lavoro ha acquisito un ruolo centrale e rilevante.

Si emanano leggi sempre più dettagliate, specifiche per tipologia di settore di attività, con l’obiettivo di tutelare il lavoratore e la sua salute e cercando di far capire anche agli imprenditori quanto la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori influisca positivamente sul clima aziendale e sulla produttività stessa dei lavoratori.

In conseguenza di questo, la Comunità europea ha emanato 8 direttive (tra cui ricordiamo la

n.89/39 1/CEE).

In Italia, stato membro della CEE (ora UE), tali direttive sono state recepite con il D.Lgs. n. 626 del 19 settembre 1994 (Miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro), che ha coordinato e integrato tutta la normativa esistente sulla sicurezza. Tale decreto è stato successivamente modificato e integrato dal D.Lgs. 19 marzo 1996 n. 242 e s.m.

Attualmente le fonti di diritto si distinguono in:

Costituzione:

• Art. 32: La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività,

• Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Codice civile:

• Art. 2050: Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per la sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

• Art. 2087: TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, la tecnica, l’esperienza sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

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Codice Penale:

• Art. 589: definisce l’omicidio colposo.

• Art. 590: definisce le lesioni personali colpose.Iter da seguire e verifiche da rispettare

L’iter da seguire e le verifiche da rispettare sono contenute nel Decreto legislativo 626/94

(Miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro)

successivamente modificato e integrato dal D.Lgs. 19 marzo 1996 n.242 e s.m.

Esso definisce gli attori di tale processo di controllo:

• Datore di lavoro

• Lavoratori

• R.S.P.P. (Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione)

• Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza

Obblighi del datore di lavoro (art. 4 D.Lgs. 626/94)

Il rapporto di lavoro subordinato prevede degli obblighi per il datore di lavoro:

1. Relazione sulla valutazione di tutti i rischi presenti in azienda, monitorando la sede di lavoro e il ciclo produttivo. Tale documento deve essere custodito preso l’azienda ovvero l’unità produttiva;

2. Programmare l’eliminazione dci rischi, aggiornando le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza sul lavoro;

3. Organizzare la sicurezza e la gestione delle emergenze;

4. Informare e formare i lavoratori sui rischi aziendali e sulle misure adottate all’interno del luogo di lavoro per la prevenzione e sicurezza. In particolare occorre informare i lavoratori sui rischi specifici cui è sottoposto il lavoratore in relazione all’attività svolta ed alle normative;

5. Nominare il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (funzione che il datore di lavoro può svolgere direttamente in prima persona), l’addetto al pronto soccorso, l’addetto alla prevenzione incendi ed evacuazione;

6. Nominare, nei casi previsti, il medico competente.

Responsabilità in esigendo: il datore di lavoro non solo ha l’obbligo di fornire il materiale antinfortunistico, ma anche di far rispettare il suo utilizzo.

Per lavorare il datore di lavoro deve fornire a suo carico al lavoratore 4 elementi:

• un luogo (locale), che sia un posto sicuro;

• un’attrezzatura (macchinari e attrezzi) che sia a norma;

• un’organizzazione del lavoro (con procedure e misure organizzative);

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• una gestione delle emergenze.

In azienda ci deve essere almeno:

• una persona incaricata e formata per le tecniche di primo soccorso;

• una persona incaricata e formata per la gestione delle emergenze e prevenzione incendio.

Valutazione di tutti i rischi d’impresa: documento scritto tenuto in azienda, a disposizione per la visione dell’autorità competente. Va elaborato dal titolare/responsabile/direttore dell’impresa.

Consiste in un esame sistematico di tutti gli aspetti attinenti il lavoro individuando le cause probabili di lesioni o danni, la possibilità di eliminare il pericolo o in alternativa di ridurre i rischi ad un livello accettabile.

Esempio: solai, scale, finestre, impianti, porte, lay-out. Pericoli tipici dell’utilizzo di ambienti o strumenti possono essere la mancanza di ringhiereper le scale, l’aerazione insufficiente, l’impianto elettrico non collegato a terra, la mancanzadi vie di fuga (uscite di sicurezza). I rischi conseguenti sono: la caduta a terra dell’addetto, la distrazione per disagio,I ‘elettrocuzione (folgorazione), intrappolamento. Esempio: impianti, macchinari, attrezzature. Pericoli tipici: mancanza di spazio tra il posto lavoro o macchine operatrici, mancanza di schemi di protezione alle finestre. Rischi conseguenti: urti, traumi e abbagliamento. Obblighi dei lavoratori (art. 5 D.Lgs. 626/94) Ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro. In particolare i lavoratori: 1. osservano le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro ai fini della protezione collettiva ed individuale; 2. utilizzano correttamente i macchinari, le attrezzature, gli utensili, le sostanze, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonché i dispositivi di sicurezza; 3. utilizzano in modo appropriato i dispositivi messi loro a disposizione; 4. segnalano immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dispositivi, nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze e possibilità, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; 5. si sottopongono ai controlli sanitari previsti nei loro confronti. Obblighi del medico competente (art 17 Dlgs 626/94) Il D.Lgs. 626/94 stabilisce che ogni azienda debba avere almeno un medico competente (in base all’art. 55 dcl D.Lgs. 277/91) o un medico specialista in medicina del lavoro. Tra i suoi obblighi: 1. collabora con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione; 2. effettua gli accertamenti sanitari; 3. esprime giudizi di idoneità alla mansione specifica del lavoro; 4. istituisce ed aggiorna, sotto la propria responsabilità e sorveglianza sanitaria, una cartella sanitaria e di rischio da custodire presso il datore di lavoro con salvaguardia del segreto professionale; 5. fornisce informazioni al lavoro sul significato degli accertamenti; 6 visita i locali almeno una volta l’anno (D.Lgs. 25/02).

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La qualità è l’'accezione più usata, essenzialmente nell'ambito dell'ingegneria, dell'economia e della produzione, quando ci si riferisce ad un bene, materiale o immateriale, che viene prodotto per un determinato utilizzo.

In generale, la misura della qualità indica una misura delle caratteristiche o delle proprietà di una entità (una persona, un prodotto, un processo, un progetto) in confronto a quanto ci si attende da tale entità, per un determinato impiego.

L'uso che si intende fare è importante, poiché la valutazione della qualità varia a seconda dell'utilizzo. Per esempio, una persona può essere un ottimo scrittore, ma avere una valutazione molto bassa come atleta. Allo stesso modo, un gruppo di dati può avere un'alta qualità quando usati come informazione generica, divulgativa, ma una bassa qualità per un utilizzo di alta precisione.

Per questi motivi, il concetto di qualità è applicabile in quasi tutti i campi dello scibile, ogni volta che un oggetto, una persona o altro, viene confrontato con quello che ci si attende da lui.

Evoluzione del concetto di qualità ] Nonostante i presupposti teorici e culturali, che hanno contribuito all'attuale accezione di qualità, possono farsi risalire alla rivoluzione industriale, gli strumenti in grado di aumentare l'efficienza del sistema qualità hanno assunto, solo a partire dal secondo dopoguerra, un'importanza crescente in tutti i settori.

Il rilevante compito di diffusione della cultura della qualità è stato assolto dall'Organizzazione Internazionale per le Standardizzazioni ISO che, già dal 1987, aveva adottato in tema di certificazione di un sistema di qualità, le norme conosciute con il nome ISO 29000, aggiornate nel 1994 con il nome ISO 9000, fino alle recenti versioni del 2000 e del 2005. In ogni versione l'oggetto delle norme è stato notevolmente modificato.

L'ISO 29000:1987 offriva alle aziende soluzioni preconfezionate ritenute fondamentali per incrementare l'efficienza del proprio sistema qualità. L’utilizzo delle prescrizioni in essa contenute rappresentava per l'azienda un'occasione per analizzare alcuni aspetti della propria organizzazione. L'ISO 29000 del 1987 proponeva una visione che mirava all'assicurazione della qualità attraverso la prevenzione della non conformità.

Nella versione successiva, ISO 9000:1994, il sistema di gestione per la qualità risultava significatamente cambiato rispetto al precedente assumendo, come riferimento centrale, la figura del cliente. Questa figura assume però un'accezione più amplia. Il termine cliente indica non solo chi usufruirà del prodotto finale, il riferimento è esteso a tutti i soggetti coinvolti più o meno direttamente nel processo realizzativo, ossia coloro che nel sistema di lavorazioni o nelle procedure di un'organizzazione, trovandosi nelle varie fasi a valle del processo, può essere considerato "cliente interno" della fase appena superata.

Nelle ultime versioni, ISO 9000:2000 e ISO 9000:2005, l'attenzione della norma si è infine spostata sull'efficacia e sul miglioramento continuo.

Si è passati da un approccio basato sull'ispezione e sul controllo finale del prodotto, ad un approccio gestionale integrato in cui il coinvolgimento di tutto il personale, la pianificazione, la documentazione dell'attività e l'atteggiamento volto al miglioramento continuo, diventano i cardini del nuovo modello di gestione. La qualità diventa una vera e propria missione aziendale, il fine di un processo produttivo e progettuale.

QUALITA’

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Queste strategie costituiscono la più grande innovazione nel campo manageriale da quando, nei 50 anni tra il 1880 e il 1930, è nata l’azienda moderna. Nel mondo occidentale non si e ancora completamente consapevoli della portata di queste strategie, che nel loro insieme rappresentano una vera e propria rivoluzione manageriale. Le strategie de me individuate sono nove.

Le strategie della qualità

Le prime tre strategie Tre di queste strategie riguardano un nuovo modo di trattare i tre grandi protagonisti del sistema aziendale:

i clienti; i collaboratori dell’azienda; i fornitori.

Tutti questi tre protagonisti sono esseri umani e le relative strategie sono caratterizzate da un loro grande potenziamento proprio come esseri umani. Nel caso dei collaboratori interni e dei fornitori, essi vengono trattati come importanti risorse per competere con successo.

Con questa strategia il cliente diventa la priorità assoluta dell’azienda e prende il posto di quella che e la priorità nel modello occidentale: il profitto. La soddisfazione del cliente diventa i1 valore fondamentale che deve orientare tutte le attività dell’azienda. In questo quadro la qualità del prodotto/servizio viene a occupare il primo posto ai fini della soddisfazione del cliente, tanto da crearsi questo sinonimo: qualità uguale soddisfazione del cliente.

I clienti

È la strategia della gestione del personale per “formazione”. Con questa strategia si assume una nuova visione del collaboratore, considerato non più come uno strumento, bensì come una grande risorsa dell’azienda. Questa risorsa è l’unica all’interno dell’azienda stessa a non avere limiti, mentre tutte le altre utilizzate sono limitate. Con la strategia della gestione del personale per formazione, si fa in modo di utilizzare al massimo i serbatoi di “carburante” (i bisogni) che attiva no il grande “motore” umano. Con questa strategia il Giappone, praticamente senza risorse materiali e sottosviluppato dal punto di vista delle tecnologie, è diventato uno dei Paesi più ricchi della Terra.

I collaboratori dell’azienda

I fornitori La strategia della partnership con i fornitori porta ad una rivalutazione di questi importanti protagonisti, mai pensata né tentata prima. Anche il fornitore viene visto come una grande risorsa per raggiungere alti livelli di qualità e per collaborare alla messa a punto di nuovi prodotti sempre più innovativi. Dato che anche il fornitore è un insieme di esseri umani, le sue risorse non hanno limiti.

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La quarta strategia: il rapporto causa/effetto E’ la strategia del processo come vero “fuoco” di tutte le attività manageriali e operative. Questa strategia è un vero e proprio capovolgimento della nostra tradizionale strategia che ha il suo “fuoco” nei risultati. Con la nuova strategia la priorità della gestione si sposta sulle cause anziché sugli effetti. Lo studio delle relazioni causa/effetto in qualsiasi settore diventa la base di ogni attività. Come dice il professor Mizuno, il vero management è prevenzione ed eliminazione delle cause di disturbo.

La quinta strategia: il Controllo Qualità È la strategia dell’applicazione dei concetti del Controllo Qualità alla gestione aziendale. Applicando il Controllo Qualità alle attività produttive nel modo corretto i giapponesi si sono accorti che lo stesso approccio poteva essere applicato alle attività manageriali con risultati sorprendenti. Con questa strategia una Cenerentola tra le tecniche aziendali diventa una vera e propria principessa, con un ruolo prioritario nei confronti di tutte le altre tecniche aziendali. Si riconosce che non vi può essere gestione eccellente senza permeare ogni aspetto gestionale con le tecniche e gli approcci del Controllo Qualità.

La sesta strategia: miglioramento continuo La sesta strategia è quella del miglioramento continuo (in giapponese: Kaizen) che, proprio perché continuo, non si deve mai arrestare. Questo miglioramento continuo può essere considerato una vera e propria invenzione giapponese, una nuova dimensione che si aggiunge a quella inventata dagli occidentali, tutta centrata sui breakthroughs tecnologici. E una dimensione del miglioramento che consente di coinvolgere tutto il personale con una visone ottimistica delle capacita umane in quanto ritenute in grado di ottenere sempre più elevati livelli di qualità.

La settima strategia: nuovi prodotti È la strategia della “fabbrica” di nuovi prodotti. Con essa si riconosce che se è vero che l’attività operativa fondamentale è il miglioramento continuo, questa attività ha il suo “fuoco” sui nuovi prodotti. I nostri clienti, da me denominati “mostri” nel capitolo settimo, richiedono sempre più elevati livelli di soddisfazione. È quindi necessario che l’azienda metta continuamente sul mercato nuovi prodotti. Con questa strategia dobbiamo creare una “fabbrica” dalla quale i nuovi prodotti escano sempre più velocemente, con alti livelli di qualità e affidabilità. Su questa strategia convergono tutte le altre strategie. Da un certo punto di vista possiamo infatti definire il CWQC come il meccanismo che consente di mettere sul mercato prodotti sempre più nuovi e di successo.

L’ottava strategia: promozione interna della qualità È la strategia della promozione interna. Per far sì che ogni persona nell’azienda sia continuamente impegnata nella qualità e quindi il CWQC sia veramente operante è necessaria una continua azione promozionale da parte della Direzione per fare in modo che ogni persona si attivi verso la qualità. Si può dire che le regole che valgono per promuovere sul mercato i prodotti/servizi di un’azienda valgono anche per la promozione della qualità in azienda. La promozione deve essere continua, perché

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altrimenti la tensione verso la qualità tende ad allentarsi. Con il CWQC troviamo che i quadri aziendali devono sviluppare un altro importante ruolo: quello di promotori della qualità.

La nona strategia: coinvolgimento del personale.

È la strategia della partecipazione totale e quindi del coinvolgimento del personale alle attività di miglioramento e al presidio dei processi. Questa strategia è innanzitutto un grande riconoscimento del valore del personale come risorsa strategica dell’azienda ed è il frutto di una valutazione matura dell’ambiente esterno: i dirigenti, per quanto capaci essi siano, non sono in grado di assicurare da soli il successo dell’azienda. Non ho dedicato un capitolo a questa strategia sia per il suo già chiaro significato, sia perché i concetti che ne stanno alla base sono continuamente richiamati e trattati nel testo. Per concludere questa premessa desidero ribadire che queste strategie hanno almeno 25 anni di vita e alcune di esse oltre 30. Noi occidentali siamo obbligati a chiamarle “nuove” perché abbiamo impiegato molto tempo e molta fatica a capirne l’importanza e il loro profondo contenuto innovativo, In Italia la loro applicazione è agli inizi perché se è vero che alcune aziende hanno cominciato 5- 6 anni fa a lanciare programmi di Qualità Totale, solo dopo alcuni anni queste strategie vengono correttamente applicate dai dirigenti.

Diritto del lavoro Il diritto del lavoro si occupa di disciplinare tutte le materie attinenti al rapporto di lavoro inteso in senso ampio. Quindi spazia dalla regolamentazione delle relazioni tra datore di lavoro e lavoratore a quella delle relazioni sindacali (oggetto propriamente del diritto sindacale) a quella attinente alle assicurazioni sociali e previdenziali (di cui si occupa il diritto della previdenza e della sicurezza sociale)

Si tratta di una delle branche del diritto che più direttamente risente dell'influenza della situazione politica generale, occorrendo tradurre in norme e concetti legislativi le concezioni ideologiche o statalistiche del sistema di riferimento.

In Italia, negli anni 1970 fu sviluppato, principalmente ad opera di alcuni giuristi come Gino Giugni, lo Statuto dei lavoratori, contenuto nella legge 20 maggio 1970, n. 300.

La legge 14 febbraio 2003, n. 30 (da alcuni controversamente definita legge Biagi), sulla base della quale è stato emanato il D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, si può paragonare per portata e svolta a quella del 1970.

Le fonti del Diritto del lavoro

Fonti internazionali e comunitarie L'organizzazione internazionale di più antica data che opera nel campo del lavoro a livello mondiale è l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, della quale fanno parte attualmente 178 tra i 191 Stati membri delle Nazioni Unite, che svolge un'attività normativa composta da raccomandazioni indirizzate agli stati in materia di lavoro; raccomandazioni però che gli stessi stati devono recepire e ratificare in progetti di convenzioni all'interno del proprio

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ordinamento. Se questo ha portato, almeno formalmente, ventate di civiltà e principi di civiltà giuridica nei Paesi membri meno sviluppati, ha avuto meno eco nei paesi a struttura giuridica più complessa come l'Italia, spesso dotata di una disciplina giuridica ben più sviluppata del principio recepito.

Portata ben più pesante hanno invece gli atti emanati dall'Unione Europea, di cui l'Italia fa parte. Essendo infatti molto più ristretta come organizzazione (27 membri) e, soprattutto, essendo le fonti comunitarie vincolanti e, nel caso dei regolamenti, direttamente applicabili dopo la loro emanazione, ci si trova di fronte ad una uniformazione del diritto del lavoro fra gli Stati membri dell'Unione.

Costituzione Il lavoro è uno dei principi fondamentali fissati dalla Costituzione della Repubblica italiana, valore addirittura fondativo della Repubblica stessa (art.1) e criterio ispiratore dell'emancipazione sociale, oltre che oggetto di forte tutela. L'art.35 «tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», mentre gli art. successivi dettano precisi criteri di determinazione per materie delicate come retribuzione, orari di lavoro e ferie.

Legge e atti aventi pari forza Come fonte centrale (almeno formalmente) dell'ordinamento giuridico italiano, la legge ordinaria (e gli atti con forza di legge) è lo strumento principale col quale lo Stato cerca di equilibrare i delicati equilibri delle parti coinvolte nei rapporti di lavoro.

Se alla fine del XIX secolo il legislatore intervenne solo per principi generali come lo sfruttamento dei minori o delle donne, col passare del tempo gli interventi divennero sempre più frequenti e sempre più complessi. Così il Codice Civile del 1942 arrivò a dare immediatamente definizione del lavoro subordinato (art. 2094), principi generali del contratto di lavoro (art.2060) e soprattutto una disciplina organica (oggi in gran parte abrogata) generale per la tutela del lavoratore subordinato.

Dopo l'entrata in vigore della Costituzione, ci fu un'evoluzione della materia divisibile in tre periodi: un primo periodo di conservazione del modello di intervento tradizionale, con l'allargamento delle tutele già esistenti (legge n.741 del 1959; legge n.1369 del 1960; legge n.230 del 1962). Un secondo periodo con la legge n.300 del 1970 (il famoso e già citato Statuto dei lavoratori), con un perfezionamento del modello di intervento, con l'introduzione dell'intervento diretto dell'azione sindacale. E, infine, un terzo ed ultimo periodo di leggera inversione di tendenza e di contemperamento della tutela del lavoratore a favore del disoccupato e nel rispetto delle esigenze di efficienza e produttività delle imprese.

Autonomia collettiva [ Un importante dibattito si è acceso in dottrina circa l'individuazione del fondamento dell'efficacia dei contratti collettivi di lavoro. Infatti, con l'abrogazione delle norme del sistema corporativo, il contratto collettivo non si poteva più considerare come un istituto pubblicistico (si veda l'art. 2077 c.c.). Occorre pertanto rintracciare tale fondamento nella autonomia privata (art. 1322 c.c.), e in tal caso risulta che l'autonomia collettiva sia, assieme all'autonomia individuale, una species del genere "autonomia privata". Il contratto collettivo produce dunque effetti vincolanti (art. 2113 c.c.) nei confronti degli iscritti alla associazione sindacale (datoriale o dei lavoratori) contraente a causa della sua natura e forza di atto di autonomia privata, destinato ad operare nell'ambito degli interessi collettivi gestiti dalle parti sociali e sottratti al potere di regolamentazione dei singoli (Scognamiglio).

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Interessi collettivi e interessi generali Gli interessi collettivi sono la somma e la sintesi degli interessi individuali di coloro che aderiscono alle associazioni sindacali contraenti. Gli interessi collettivi consistono nelle condizioni minime di trattamento economico e normativo.

Gli interessi generali sono invece gli interessi dell'insieme della cittadinanza italiana. Pertanto, occorre non confondere gli interessi collettivi e gli interessi generali, dal momento che questi ultimi sono soddisfatti dal Governo, mentre i primi possono essere soddisfatti dai sindacati. Da ciò discende che dalla concertazione tra Governo, sindacati dei lavoratori e associazioni datoriali, non possono derivare vincoli giuridici per il Governo, poiché se fosse altrimenti si avrebbe che degli interessi collettivi prevalgono sugli interessi generali della nazione. In altre parole, gli interessi collettivi hanno massima importanza sotto il profilo politico, ma non possono prevalere giuridicamente sugli interessi generali, altrimenti la stessa democrazia verrebbe messa in pericolo.

Il Governo pertanto non riceve dalla concertazione alcun obbligo giuridico che sia diretto all'adozione di atti con forza di legge. Il Governo può dichiarare di voler rispettare un dato protocollo ma poi, legittimamente, può anche decidere di non intervenire per onorarlo o addirittura può anche emanare leggi ed atti con forza di legge che contrastino con gli accordi assunti in sede di concertazione con le parti sociali. In tali circostanze, naturalmente, il Governo è responsabile politicamente per le sue scelte, e va irrimediabilmente allo scontro sociale.

Contrattazione collettiva L'altro strumento fondamentale della tutela del lavoratore è l'atto espressione principale dell'autonomia collettiva: il contratto collettivo di lavoro. La funzione primaria del contratto collettivo è quella di integrare e, se possibile, migliorare le tutele offerte al lavoratore dalla legge, adattandole ai vari tipi di contesti (professionale, merceologico, geografico..). La stessa legge spesso rimanda al contratto collettivo, fissando solo determinati principi e lasciando a quest'ultimo la peculiare disciplina. Gli attuali contratti collettivi (cd di diritto comune) non hanno efficacia generale obbligatoria in quanto contratti di diritto privato stipulati tra soggetti privati (le organizzazioni dei datori e dei lavoratori). Essi trovano applicazione soltanto per i soggetti (datore di lavoro e lavoratore) che siano membri di dette associazioni sindacali o che vi abbiano fatto espresso rinvio nel contratto individuale di lavoro. Vi sono tuttavia alcuni contratti collettivi degli anni '50 (circa 8.000 è difficile fare una stima numerica degli accordi collettivi recepiti in D.P.R. ma sono sicuramente di molto inferiori a 1000 al massimo qualche centinaio considerato che nel periodo considerato 1959-1961 e cioè prima del periodo antecedente alla sentenza della Corte Costituzionale del 1962, non si sono avuti più di 1400 provvedimenti legislativi l'anno) che hanno ottenuto efficacia obbligatoria per essere stati recepiti da provvedimenti di legge che ne hanno riprodotto il contenuto in virtù della l. n. 741 el 1959. Ma tale escamotage, elaborato al fine di superare la mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione (che permane tutt'ora), è stato dichiarato incostituzionale e non più utilizzato (rectius: è stata dichiarata illegittima la legge di proroga degli effetti della legge 741; quest'ultima aveva infatti carattere unicamente contingente, anche e soprattutto in relazione all'art. 39 Cost.). Restano ancora in vigore anche alcuni contratti collettivi del periodo corporativo, soppresso nel 1945, ma mantenuti in vigore per legge per non creare un vuoto normativo. Ma il loro ruolo è ormai praticamente inesistente.

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Casi di estensione dell'efficacia del contratto collettivo L'efficacia del contratto collettivo può essere estesa anche a chi non aderisce a una delle associazioni sindacali che lo ha stipulato, ma solo in limitate ipotesi. Se il contratto individuale contrasta con norme di legge, il giudice stabilisce il salario considerando le condizioni di trattamento economico contenute nel contratto collettivo. L'efficacia del contratto collettivo si estende anche a chi, pur non aderendo all'associazione stipulante, manifesta, con comportamenti concludenti ed in forma esplicita, la volontà di recepirne il contenuto.

Usi, equità e autonomia individuale

La discipilina del rapporto di lavoro può essere affidata agli usi normativi, nel caso in cui non ci siano disposizioni di legge o contratti collettivi relativi (art. 2078 c.c., è da considerarsi abrogato l'art. 8 secondo comma delle disp. prel. al c.c.). Gli usi possono sussistere e prevalere anche in caso di disposizione di legge se prevedono una tutela più efficiente, ma non prevalere sul contratto di lavoro. Gli usi aziendali sono da considerare come fonti del diritto del lavoro. Gli usi negoziali, rientrando nell'ambito dell'autonomia individuale, non possono essere considerati fonti del diritto del lavoro.

• L'equità ha una funzione sia sussidiaria che determinativa:

- funzione sussidiaria: quando il giudice, ove occorra, si rimetta a valutazioni di tipo equitativo per stabilire i connotati del giusto salario (si veda art. 36 Cost.)

- funzione determinativa: l'art. 432 c.p.c. attribuisce al giudice il potere di liquidare in via equitativa le competenze del lavoratore.

• L'autonomia individuale costituisce fonte di diritto nel senso limitato che il contratto che ne è espressione ha "forza di legge tra le parti" (art. 1372 c.c.) (Persiani-Proia).

Il contratto individuale (volgarmente "lettera di assunzione") è il contratto stipulato dal singolo lavoratore con il datore; tale contratto non può derogare alla legge, ma può contenere disposizioni in melius rispetto al contratto collettivo (ossia, oltre le condizioni minime di trattamento economico e normativo contenute nel contratto collettivo, il contratto individuale può stabilire ulteriori condizioni, ma solo a patto che siano più favorevoli per il lavoratore).

Principali argomenti della disciplina • Lavoro Forme: Lavoro subordinato Lavoro parasubordinato Lavoro autonomo

• Ricerca del lavoro: Sistema di collocamento pubblico Centro per l'impiego Ricerca del personale

• Contratto: Contratto di lavoro individuale Contratto collettivo Sindacato Contrattazione collettiva

Concertazione

• Tipologia del contratto di lavoro: Contratto di lavoro a tempo parziale Contratto di lavoro intermittente

o Contratto di lavoro ripartito Contratti di lavoro con funzione formativa Contratto di apprendistato Contratto di formazione e lavoro Contratto di inserimento Contratto di somministrazione Contratto di lavoro interinale Stage

• Tipologia di lavoro: Lavoro a domicilio Telelavoro Lavoro domestico

• Lavoro agricolo Coltivatore diretto

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• Svolgimento del rapporto di lavoro: Rapporto di lavoro Classificazione dei lavoratori Obbligo di fedeltà del lavoratore Patto di non concorrenza Orario di lavoro

o Retribuzione Superminimo Contingenza Scala mobile Contributo Trattamento di fine rapporto

o Diritti non patrimoniali del lavoratore Ferie Permessi annui retribuiti Anno sabbatico Diritto allo studio Maternità

o Vicende del rapporto di lavoro: Sospensione del rapporto di lavoro Outsourcing Trasferimento del lavoratore Trasferta Sciopero Precettazione Mobbing

o Sicurezza del lavoratore: Obbligo di sicurezza del datore di lavoro Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro Statuto dei lavoratori

o Estinzione del rapporto di lavoro: Dimissioni Licenziamento Licenziamento collettivo

Indennità di mobilità Clausola di salvaguardia Spettanze Diritto della previdenza e della sicurezza sociale Pensione Pensione di vecchiaia Pensione di anzianità Pensione sociale Pensione di reversibilità

Apprendistato L'Apprendistato è un rapporto di lavoro antico, già consolidato in Occidente nell'artigianato rinascimentale.

Nella storia recente italiana il rapporto di apprendistato ha assunto un peso crescente nel mercato del lavoro, estendendosi progressivamente in tutti i settori economici sino a diventare oggi l'unico rapporto di lavoro esistente a valenza formativa e raggiungendo a fine 2006 il numero di 564.000 contratti attivi in Italia.

In sostanza il rapporto di lavoro si basa su un patto fra datore di lavoro e dipendente, in base al quale l'apprendista accetta condizioni contrattuali peggiori (in termini ad esempio di retribuzione, di durata del rapporto, di ammortizzatori sociali) in cambio di una formazione specializzata tale da garantirgli una cospicua crescita professionale.

L'apprendistato nell'ordinamento italiano Attualmente il contratto di apprendistato è l'unico contratto di lavoro con funzione formativa ed è disciplinato attualmente dal D.lgs. n.276 del 2003, che individua tre forme di apprendistato:

• Apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione

• Apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale

• Apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.

Ognuna delle tipologie è regolata dalle regioni e dai contratti collettivi.

Il rapporto di lavoro sorto dall'accordo fra le parti è di tipo misto comportando l'onere in capo al datore di lavoro di una effettiva formazione professionale, sia mediante il trasferimento di competenze tecnico-scientifiche sia mediante l'affiancamento pratico per l'apprendimento di abilità operative, nonché la retribuzione per il lavoro svolto. L'assunzione di apprendisti richiede la stipula di un contratto di lavoro in forma scritta con allegato il Piano Formativo

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Individuale, mentre il numero degli apprendidsti assunti non può superare quello dei lavoratori dipendenti qualificati effettivi. I contratti collettivi determinano la durata del rapporto di apprendistato, comunque per legge non inferiore a due anni e non superiore a sei anni.

Possono essere assunti soggetti con età tra i 15 ed i 26 anni non compiuti.

L'apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione Il contratto di apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione è stato introdotto con l'articolo 48 del D.Lgs. 276/2003 ed è uno dei canali previsti dall'ordinamento per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione.

Il contratto è rivolto a giovani e adolescenti di età compresa tra i 16 e i 18 anni ed ha una durata massima di tre anni.

L'apprendistato professionalizzante Il contratto di apprendistato professionalizzante è stato istituito con il D.Lgs 276/2003 (Riforma Biagi) per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale. Possono essere assunti, in tutti i settori di attività, con contratto di apprendistato professionalizzante, per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e la acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali, i soggetti di età compresa tra i diciotto anni e i ventinove anni (ossia chi non ha ancora compiuto 27 anni). Il rapporto di lavoro può durare dai 2 ai 6 anni, a seconda del settore e della qualifica di inquadramento.

Il contratto di apprendistato professionalizzante deve avere forma scritta, contenente indicazione della prestazione oggetto del contratto, del piano formativo individuale, nonché della eventuale qualifica che potrà essere acquisita al termine del rapporto di lavoro sulla base degli esiti della formazione aziendale od extra-aziendale.

Il datore di lavoro ha possibilità di recedere dal rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, anche se permane il divieto per il datore di lavoro di recedere anticipatamente dal contratto di apprendistato in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo.

La regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante e' rimessa alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, d'intesa con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale e nel rispetto dei seguenti criteri e principi direttivi: a) previsione di un monte ore di formazione formale, interna o esterna alla azienda, di almeno centoventi ore per anno, per la acquisizione di competenze di base e tecnico-professionali; b) rinvio ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative per la determinazione, anche all'interno degli enti bilaterali, delle modalità di erogazione e della articolazione della formazione, esterna e interna alle singole aziende, anche in relazione alla capacità formativa interna rispetto a quella offerta dai soggetti esterni; c) riconoscimento sulla base dei risultati conseguiti all'interno del percorso di formazione, esterna e interna alla impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali; d) registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo; e) presenza di un tutore aziendale con formazione e competenze adeguate.

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Apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione Il contratto di apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, anch'esso introdotto dal D. Lgs. 276/2003, è finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, pari a titoli di studio universitari e di alta formazione, nonché per la specializzazione tecnica superiore ex. articolo 69 Legge 144 del 1999.

La sua particolarità riguarda il fatto che per l'attivazione dei profili formativi le Regioni e Province autonome devono coinvolgere anche le Università.

L'evoluzione della normativa

Principali tappe legislative L'evoluzione normativa italiana in merito a questo istituto contrattuale può articolarsi in tre tappe legislative fondamentali:

• La Legge del 19.01. 1955 n. 25, che per prima disciplina compiutamente l’apprendistato introducendo importanti sgravi fiscali a favore del datore di lavoro

• La Legge del 24.06.1997 n. 196 recante “Norme in materia di promozione dell’occupazione", il cosiddetto "Pacchetto Treu", che riforma ampiamente l'istituto contrattuale scendendo nel merito della formazione da impartire all'apprendista e che per prima introduce la "formazione esterna" all'azienda, delegandone il coordinamento alle Regioni

• Il Decreto legislativo 10.09.2003 n. 276 "Attuazione delle deleghe in materia occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30", ossia il decreto di attuazione della cosidetta Legge Biagi, che articola ulteriormente l'apprendistato in tre fasce: l'apprendistato per l'espletamento del diritto/dovere di istruzione e formazione, l'apprendistato professionalizzante e l'apprendistato per l'acquisizione di un diploma o percorsi di alta formazione.

I conflitti di competenza Stato/Regioni L'evoluzione normativa dell'ultimo decennio non si è però svolta in maniera lineare, a causa soprattutto della contemporanea implementazione della cosidetta Devolution, ossia dell'attribuzione di ampie competenze alle Regioni in materia di formazione e lavoro in attuazione delle modifiche all'articolo 117 della Costituzione. Il quadro normativo ha così richiesto numerosi interventi da parte della Corte Costituzionale per dirimere i conflitti di competenza Stato/Regioni, con particolare riferimento ai contenuti formativi e alla regolamentazione dei profili formativi. In particolare con l'entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003 si è assistito ad una serie di ricorsi presso la Corte Costituzionale presentati:

• da un lato da amministrazioni regionali, governate in quel momento da coalizioni di centro-sinistra, che contestavano una presunta lesione delle proprie competenze da parte dello stato in merito alla disciplina della formazione formale;

• dall'altro lato da parte dello Stato nei confronti delle medesime Regioni che avevano legiferato in proprio la possibilità di rilasciare qualifiche professionali e relativi crediti formativi.

Con una serie di sentenze la Corte Costituzionale ha in sintesi stabilito che, mentre la formazione da impartire all’interno delle aziende attiene precipuamente all’ordinamento civile, la disciplina di quella esterna rientra nella competenza regionale in materia di istruzione professionale, con interferenze però con altre materie, in particolare con l’istruzione, per la quale lo Stato ha varie attribuzioni in termini di norme generali e di determinazione dei principi fondamentali. Inoltre la sentenza n. 50/2005 ha richiamato il principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni nel comporre e risolvere costruttivamente

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eventuali sovrapposizioni di competenze, evitando quindi una legiferazione unilaterale dell'istituto.

La formazione formale Alla luce di queste sentenze possiamo tracciare questo quadro in merito alla formazione per l'apprendistato professionalizzante:

• il rapporto di lavoro può essere istituito solo in base ad un profilo professionalizzante già formalizzato nel CCNL di riferimento o da parte della Regione;

• nel corso del rapporto di lavoro devono trovare spazio 120 ore di formazione formale annua;

• le regioni hanno competenza nel decidere come deve essere organizzata tale formazione, se totalmente a carico dell'azienda oppure in parte o completamente esternalizzata secondo quanto specificato dalla legislazione regionale.

Principali riferimenti normativi Legge del 19.01.1955 n. 25, così come modificata dalla Legge del 02.04.1968 n. 424 che disciplina l’apprendistato;

• Legge del 24.06.1997 n. 196 recante “Norme in materia di promozione dell’occupazione”;

• Decreto del Ministero del Lavoro del 08.04.1998 recante “Disciplina dell’apprendistato - Disposizioni concernenti i contenuti formativi delle attività di formazione degli apprendisti”;

• Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 07.10.1999 n. 359 recante disposizioni per l’attuazione dell’art. 16 della Legge n. 196/1997;

• Decreto del Ministero del Lavoro del 28 febbraio 2000, n. 22 - Disposizioni relative alle esperienze professionali richieste per lo svolgimento delle funzioni di tutore aziendale ai sensi dell’articolo 16 della legge 196 del 1997 recante "Norme in materia di promozione dell’occupazione";

• Decreto legislativo del 10 settembre 2003 n. 276 "Attuazione delle deleghe in materia occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30" e s.m.i.;

• Legge 247 del 24 dicembre 2007 recante “norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale"