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Diritto & Diritti - Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet http://www.diritto.it ISSN : 1127-8579 PREMESSA L’argomento che mi accingo ad esaminare rappresenta senza tema di smentita un autentico “ginepraio” per gli studiosi del diritto musulmano contemporaneo: poche tematiche hanno intrattenuto i cultori della materia in così vivaci dibattiti ed aspre polemiche come gli aspetti personali e patrimoniali del diritto matrimoniale islamico. Tutto ciò coinvolge l’ intima essenza dell’ esperienza- sociale e giuridica ad un tempo- dell’ intera comunità musulmana mondiale, l’ esatta percezione che essa ha della propria identità storica e religiosa e della sua capacità di proiezione della stessa al di fuori dei suoi tradizionali confini geopolitici . Il diritto matrimoniale, e più in generale il diritto di famiglia e delle successioni, ha rappresentato da sempre l’ inespugnabile roccaforte del diritto islamico. Difatti, se la Šari ‘a non ha frapposto significative resistenze ai tentativi di modernizzazione posti in essere già a partire dai primi cinque decenni del secolo scorso in settori vitali quali quelli concernenti il diritto commerciale, amministrativo e procedurale, sensibilmente più elevati sono risultati gli atteggiamenti di chiusura registrati in ordine alle branche del diritto penale e del diritto matrimoniale. Il diritto penale islamico urtava violentemente con la coeva esperienza giuridica occidentale per il ricorso alla vendetta privata ed alla discrezionalità del sovrano: la sua riforma da parte degli stati di tradizione islamica era pregiudizialmente avvertita come condicio sine qua non per la loro ammissione al consesso di quelle nazioni occidentali autodefinitesi “libere e civili” che – lasciatesi alle spalle le squallide e tragiche esperienze coloniali - lentamente avviavano le dinamiche politiche ed economiche mondiali verso fenomeni di interdipendenza globale.

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http://www.diritto.it ISSN : 1127-8579

PREMESSA

L’argomento che mi accingo ad esaminare rappresenta senza tema di smentita un

autentico “ginepraio” per gli studiosi del diritto musulmano contemporaneo: poche

tematiche hanno intrattenuto i cultori della materia in così vivaci dibattiti ed aspre

polemiche come gli aspetti personali e patrimoniali del diritto matrimoniale islamico.

Tutto ciò coinvolge l’ intima essenza dell’ esperienza- sociale e giuridica ad un tempo- dell’

intera comunità musulmana mondiale, l’ esatta percezione che essa ha della propria identità

storica e religiosa e della sua capacità di proiezione della stessa al di fuori dei suoi

tradizionali confini geopolitici .

Il diritto matrimoniale, e più in generale il diritto di famiglia e delle successioni, ha

rappresentato da sempre l’ inespugnabile roccaforte del diritto islamico.

Difatti, se la Šari ‘a non ha frapposto significative resistenze ai tentativi di modernizzazione

posti in essere già a partire dai primi cinque decenni del secolo scorso in settori vitali quali

quelli concernenti il diritto commerciale, amministrativo e procedurale, sensibilmente più

elevati sono risultati gli atteggiamenti di chiusura registrati in ordine alle branche del diritto

penale e del diritto matrimoniale.

Il diritto penale islamico urtava violentemente con la coeva esperienza giuridica occidentale

per il ricorso alla vendetta privata ed alla discrezionalità del sovrano: la sua riforma da

parte degli stati di tradizione islamica era pregiudizialmente avvertita come condicio sine

qua non per la loro ammissione al consesso di quelle nazioni occidentali autodefinitesi

“libere e civili” che – lasciatesi alle spalle le squallide e tragiche esperienze coloniali -

lentamente avviavano le dinamiche politiche ed economiche mondiali verso fenomeni di

interdipendenza globale.

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Il diritto della famiglia ,ed in particolare specie quello matrimoniale, ha, invece, storicamente

tardato ad essere scosso dai trasversali fenomeni di modernizzazione che hanno attraversato

per più di un secolo i governi e le stesse masse musulmane.

Tale freno era (ed è a tratti tuttora) riconducibile a due ordini di ragioni.

La prima è di natura endogena agli svolgimenti propri della tradizione giuridica islamica: la

materia matrimoniale trova la propria fonte diretta di normazione nella rivelazione coranica

e,dunque, è percepita come intangibile e non derogabile neppure da inveterate regole

normative di diritto consuetudinario.

La seconda spicca per il suo carattere esogeno rispetto alla natura della società musulmana

transnazionale: le potenze straniere non hanno giammai mostrato alcun interesse più o meno

sinceramente “riformatore” rispetto al diritto matrimoniale delle popolazioni sottoposte

prima alla loro dominazione e successivamente alla loro influenza.

Anzi, scandendo le tappe di una prudente strategia, si sono sempre astenute da un intervento

sulla materia al fine di non suscitare od alimentare rigurgiti fondamentalisti (vedi

l’esperienza egiziana dei “Fratelli musulmani” ), nazionalisti (vedi l’esperienza maghrebina)

od addirittura panarabi (vedi l’esperienza mediorientale baathista).

Tuttavia, l’ora della modernizzazione è scoccata, infine, anche per il diritto matrimoniale :

ciò per mano di locali élites illuminate, ben lontane sì dalla sensibilità delle masse, ma

sufficientemente formate a progetti ideali di sensibilità giuridica squisitamente europea e

discretamente perspicaci nel percepire l’ineluttabilità dei complessi fenomeni politici e

sociali di cambiamento in atto a livello mondiale.

Lo sviluppo economico e sociale conduce, difatti, inevitabilmente al deperimento del

paradigma sociale tradizionale su cui erano modellate le regole sciariaitiche, ed

all’affermarsi della famiglia nucleare che richiede una nuova regolamentazione.

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In particolare muta la posizione della donna , chiamata a partecipare all’ attività produttiva

ed alla vita pubblica in maniera diretta ed a tratti intensa: diviene necessario esaltarne

l’individualità e liberarla dai vincoli che il diritto tradizionale le imponeva.

Si è pervenuto così a quell’ intenso processo di codificazione dello statuto personale,della

famiglia e delle successioni che ha rappresentato sicuramente, alla luce anche della recente

novella marocchina, lo strumento principe di un processo di modernizzazione della

regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali fra i coniugi.

Quest’ultima, fra luci ed ombre, avrebbe dovuto rappresentare la cartina di tornasole

dell’evoluzione delle società islamiche verso modelli giuridici, politici e sociali

tendenzialmente prossimi alla ricezione degli indefettibili principi internazionali in tema di

diritti umani e libertà fondamentali.

La presente trattazione, ben lungi da pretese di esaustività, si propone di approntare delle

risposte il più possibile dettagliate ad ineludibili quesiti che la contemporanea e multilaterale

invocazione dello sconto fra civiltà pone in particolar modo al giurista ed al cultore di

discipline storice, sociali e politologiche : siamo di fronte ad un inarrestabile anche se lento

processo di evoluzione del diritto matrimoniale islamico verso formule istituzionali

rispondenti ai canoni assiologici ormai universalmente condivisi dalla comunità

internazionale?

Fino a che punto è scientificamente corretto, senza cadere in un paradigma culturale

autoreferenziale, definire “riformisti” i moderni codificatori in materia di diritto

matrimoniale?

Quali sono gli elementi di continuità - e quali quelli di discontinuità- rispetto alla tradizione

sciariaitica della recentissima esperienza di novellata codificazione nella medesima materia

da parte del Regno del Marocco?

Per giungere alla formulazione di tentativi di soluzioni alle questioni sollevate, l’autore ha

inteso fornire un articolato percorso di lettura che, prendendo le mosse dai processi di

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elaborazione storica del diritto islamico, ha inteso soffermarsi sugli aspetti più problematici

del diritto matrimoniale anche in relazione alla disciplina nella medesima materia vigente nel

nostro ordinamento, per infine analizzare le innovazioni poste in essere dal legislatore

marocchino.

Per dovere di correttezza scientifica si deve evidenziare che quest’ultimo tratto del percorso

di elaborazione del presente lavoro è stato improntato a criteri di estrema “sperimentalità”.

Difatti, alla data di stesura del presente lavoro, lo stesso Codice dello Statuto personale e

delle Successioni (Mudawwana) del Regno del Marocco non è ancora stato ancora fatto

oggetto di commento da parte di alcun cultore della materia di lingua italiana ,inglese o

francese.

Ragion per cui l’autore si riserva successivamente di rivisitare lo specifico argomento, alla

luce della sicuramente più autorevole letteratura in seguito pubblicata.

Infine, si richiama l’attenzione del paziente lettore sulle conclusioni redatte dall’autore che,

nelle loro intenzioni, vogliono essere un alquanto modesto ma provocatorio contributo alla

creazione di uno spazio culturale di dibattito sulla materia del diritto matrimoniale nei paesi

di tradizione giuridica islamica.

CAPITOLO I

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IL DIRITTO ISLAMICO : UN PROFILO DIACRONICO DEL PERCORSO

DI ELABORAZIONE DOTTRINALE.

§ 1.1. La definizione del diritto islamico e il profeta Muhammad.

Il diritto islamico è un corpus onnicomprensivo di tutti i comandamenti di Dio che regolano ogni

aspetto della vita del musulmano 1. Esso comprende sia le norme che riguardano il culto e i riti, sia

le leggi politiche, sia le norme giuridiche in senso stretto, e costituisce la sintesi e il nucleo

essenziale del pensiero islamico2.

La tradizione islamica è unanime nel riconoscere che la fonte suprema della legge islamica, il

Corano, fu rivelata da Allah ad un uomo arabo, Maometto (Muhammad), tra il 622 ed il 632 d.C.

Egli si presentò alla città araba della Mecca nelle vesti di riformatore religioso e reagì con forza

contro i concittadini pagani che lo consideravano semplicemente un indovino. Per la sua

autorevolezza, nel 622 d.C., fu chiamato a Medina come arbitro in controversie tribali e divenne il

1 In arabo il diritto islamico è definito Šari‘a (legge sacra) mentre fiqh significa scienza della Šari‘a e faqih (pl.

fuqaha) l’esperto in fiqh, v. ALUFFI, La modernizzazione del diritto di famiglia dei paesi arabi,Giuffré Editore, 1990,

p. 217 ss.

2 Il diritto preislamico si fondava sulle consuetudini delle popolazioni sedentarie e di quelle nomadi, i beduini. Il diritto

di famiglia, successorio e penale esistenti a quell’epoca erano totalmente dominati dall’antico sistema tribale arabo. In

base ad esso un individuo non godeva di protezione giuridica al di fuori della propria tribù, la quale era responsabile per

gli atti dei suoi membri. I rapporti fra i sessi erano caratterizzati da un alto numero di divorzi, unioni libere e convivenze

promiscue, tali da rendere difficile la distinzione tra matrimonio e prostituzione, v. CASTRO, Lineamenti di storia del

diritto musulmano,Università degli studi di Venezia, 1990, p. 12 ss.

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governatore- legislatore di una nuova società costituita su base religiosa: la comunità musulmana,

detta umma 3, destinata a superare il tribalismo della società araba4.

La posizione di Profeta, che risaliva alle prime fasi della sua carriera a Medina e derivava dal

grande potere politico e militare conseguito, diede a Muhammad un’autorità ben maggiore rispetto a

quella che avrebbe potuto essere rivendicata da un qualsiasi arbitro: egli divenne il “Profeta-

Legislatore”.

Esercitò però il proprio potere pressoché assoluto non all’interno, bensì al di fuori del sistema

giuridico allora esistente: egli non fu un’autorità giuridica, ma religiosa per i credenti e politica per

gli indifferenti alla fede. La legislazione di Muhammad, il Corano, rappresentò una novità nel

diritto dell’Arabia5.

Come Profeta, egli non aveva il compito di edificare un nuovo sistema giuridico, ma di insegnare

agli uomini le norme di condotta ut ili e necessarie per poter superare il giorno del Giudizio ed avere

accesso al Paradiso.

Questo è il motivo per cui l’Islam, in genere, e il diritto musulmano, in particolare, costituiscono un

insieme sistematico di doveri, nel quale pari importanza posseggono gli obblighi di carattere

religioso, giuridico e morale, tutti sottoposti all’autorità dello stesso comandamento religioso.

La legislazione coranica fu dettata principalmente dall’insoddisfazione verso situazioni assai

diffuse a quell’epoca, quali il lassismo morale nel campo delle relazioni sessuali, e dal desiderio di

migliorare la condizione delle donne, degli orfani e dei deboli in genere, di rafforzare il vincolo 3 Cfr. GAMBARO-SACCO, Sistemi giuridici comparati, Utet, 1996, p. 467 ss.

4 Il rifiuto da parte di Maometto del ruolo di indovino comportò la sua negazione della pratica

dell’arbitrato secondo l’uso degli arabi pagani, presso i quali gli arbitri erano spesso anche indovini. Tuttavia, il Profeta

continuò a comportarsi come un arbitro ed il Corano stesso stabilì che, in caso di contrasto fra coniugi, si dovesse

ricorrere a questa figura, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 13.

5 Il Corano si compone di 114 capitoli in lingua araba detti sura, suddivisi in versetti (ayat) che vanno da un minimo di

tre a un massimo di 286, v. CASTRO, Corano, in Digesto, 1990,

p. 411.

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matrimoniale e di limitare la pratica della vendetta privata e del taglione, eliminando recisamente le

faide6.

§ 1.2. I califfi di Medina.

Dopo la morte di Maometto (632 d.C.), le prime tre generazioni costituirono per molti aspetti il

periodo più rilevante, ma anche il più oscuro - date le scarse testimonianze coeve - della storia del

diritto musulmano. In quest’epoca, infatti, si definirono molti suoi caratteri peculiari e la nascente

società islamica creò le proprie istituzioni giuridiche. Le poche testimonianze certe di cui si dispone

mostrano che l’antico sistema arabo dell’arbitrato e, in genere, il diritto consuetudinario

dell’Arabia, modificati ed integrati dal Corano, si mantennero nel periodo dei primi successori del

Profeta, i califfi di Medina (632-661d.C.)

I califfi furono i capi politici della comunità islamica, dopo la morte di Muhammad, ed ebbero

ampiamente la funzione di legislatori: nel corso di tutto il primo secolo dell’ ègira le attività

amministrative e normative del governo islamico furono indivisibili7.

§ 1.3. La sunna.

6 Alcune regole coraniche hanno avuto origine da questioni legate a situazioni personali di Muhammad come

l’abolizione dell’adozione e, conseguentemente, del divieto di sposare la figlia adottiva della moglie, e le norme

riguardanti la falsa accusa di rapporti sessuali illeciti,

v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 16.

7 L’ègira è l’emigrazione di Maometto dalla Mecca a Medina. L’era musulmana inizia dal primo giorno del primo mese

dell’anno arabo in cui l’ègira ebbe luogo, corrispondente al 16 luglio dell’anno 622 d.C., v. ALUFFI, La

modernizzazione del diritto di famiglia nei paesi arabi, Giuffré Editore, 1990, p. 2 ss.

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L’idea araba di sunna, come precedente o consuetudine normativa, si affermò fin dai suoi primordi.

Gli arabi erano legati alla tradizione e al concetto di “precedente”: ogni consuetudine era ritenuta

giusta e conveniente e diveniva degna di imitazione. Poiché vivevano in condizioni sfavorevoli, in

un ambiente ostile, essi non potevano rischiare esperimenti e innovazioni che avrebbero potuto

sconvolgere il precario equilibrio della loro vita. Inoltre riconoscevano che una sunna poteva essere

stata stabilita da un individuo in un passato relativamente recente e in tal caso, questi veniva

considerato il portavoce, la guida (imam) di tutto il gruppo. Tale concetto di sunna divenne uno

degli elementi centrali del diritto musulmano. Durante quasi tutto il primo secolo dell’ègira il diritto

islamico, nell’accezione tecnica del termine, non esisteva ancora. Come era avvenuto al tempo del

Profeta, il diritto in quanto tale ricadeva al di fuori della sfera religiosa: i musulmani guardarono

con indifferenza ai suoi aspetti tecnici, fino a quando non vi furono obiezioni di carattere religioso

o morale a dati atti o comportamenti.

Quest’atteggiamento dei primi musulmani spiegò l’adozione su vasta scala delle istituzioni

giuridiche e amministrative, nonché delle consuetudini, dei territori conquistati. Gradualmente

furono recepiti metodi di ragionamento e principi fondamentali della scienza del diritto8. Il merito

di ciò fu di persone colte, non arabe, convertitesi all’islam, le quali avevano ricevuto un’educazione

liberale, diffusa nei territori conquistati dagli arabi, che comprendeva anche una certa conoscenza

dei rudimenti del diritto.

Essi introdussero nella religione islamica i principi a loro consueti.

8 Ne è un esempio il concetto di opinio prudentium del diritto romano, che sembra aver fornito il modello per il

“consenso dei dottori” così come è stato formulato dalle prime scuole del diritto musulmano, v. SHACHT,

Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 23 ss.

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In questo modo, concetti e massime originari del diritto romano, bizantino,canonico, talmudico,

rabbinico e sasanide si infiltrarono all’interno del nascente diritto religioso dell’Islam, nella sua fase

di incubazione, per manifestarsi successivamente nelle dottrine del secondo secolo 9.

§ 1.4. Gli omàyyadi e il qadi. Dal 661 al 750 d.C., il governo passò dalle mani dei califfi di Medina a quelle degli omàyyadi. Gli

omàyyadi svilupparono numerose caratteristiche fondamentali del culto e del rituale islamico, ma il

loro principale interesse non fu rivolto alla religione e al diritto, quanto piuttosto

all’amministrazione e alla politica10. Essi, inoltre, introdussero come innovazione la nomina del

giudice musulmano (qadi).

In seguito al rinnovamento della società araba, infatti, l’arbitrato non fu più sufficiente: l’arbitro

arabo fu quindi sostituito dal giudice musulmano, che, a differenza del primo, era un delegato del

governatore 11.

Le sentenze dei primi funzionari islamici dell’amministrazione omàyyade, gettarono le basi del

diritto musulmano. I qadi giudicavano a propria discrezione,basandosi sulla pratica consuetudinaria,

9 Degli esempi sono forniti dalla massima “il figlio appartiene al letto”, la quale corrisponde a quella romana “pater est

quem nuptiae demonstrant”, e dal principio, derivante dal diritto canonico delle chiese orientali, secondo cui l’adulterio

crea un impedimento al matrimonio, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 24.

10 Gli omàyyadi si interessarono a problemi riguardanti la politica religiosa e la teologia nella misura in cui potevano

avere riflessi sulla sicurezza interna dello Stato. Nel campo amministrativo, essi puntarono all’organizzazione, alla

centralizzazione e all’ordine, contro l’individualismo dei beduini e l’anarchia, v. SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 27 ss.

11 Il governatore, entro i limiti concessi dal califfo, aveva piena autorità amministrativa, legislativa e giudiziaria sulla

sua provincia, senza che vi fosse alcuna esplicita distinzione fra queste funzioni, e poteva delegare le funzioni

giudiziarie al da lui prescelto. Tuttavia aveva la piena facoltà di riservare per sé qualsiasi causa volesse e poteva

licenziare a propria discrezione il qadi delegato, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli,

1995, p. 28 ss.

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la quale, per sua natura,comprendeva le norme amministrative, e interpretavano alla lettera lo spirito

delle regole coraniche e di altre norme religiose islamiche. La prassi consuetudinaria a cui essi

facevano riferimento era quella della comunità sotto la loro giurisdizione.

§ 1.5. La nascita del diritto religioso islamico.

Fra il 715 e il 720 d.C. circa, la carica di qadi fu di regola affidata a giusperiti, persone che ebbero

la principale preoccupazione di verificare la conformità del diritto consuetudinario alle norme

coraniche e, in generale, islamiche. Questi esperti provenivano dal novero delle persone pie, che,

per il loro profondo spirito religioso, avevano interesse ad elaborare, attraverso il ragionamento

individuale, un modus vivendi autenticamente islamico.

Costoro sottoposero a revisione tutti i settori delle attività allora praticate, compreso il diritto, e

considerarono, sotto il profilo della religione, del rituale e dell’etica, ogni possibile obiezione che

avrebbe potuto essere mossa alle pratiche riconosciute: come risultato, queste furono accolte,

modificate o rigettate. Essi impregnarono la sfera del diritto di elementi religiosi ed etici,

subordinandola alle norme islamiche, e vi incorporarono quel sistema di doveri a cui nessun

musulmano poteva sottrarsi. In tale operazione continuarono su scala molto più ampia -ed in modo

più capillare- l’opera che Muhammad tentò di realizzare nel Corano per la prima comunità

musulmana di Medina. Di conseguenza la prassi popolare e amministrativa dell’ultimo periodo

omàyyade entrò a far parte del diritto religioso islamico 12.

§ 1.6. La nascita delle antiche scuole giuridiche.

12 L’ideale teorico che ne risultò doveva essere tradotto nella pratica: questo compimento esulava dalle possibilità dei

pii specialisti e dovette essere lasciata alla cura e allo zelo di califfi, governatori, qadi,ecc.., v. SHACHT, Introduzione

al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 30 ss.

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I gruppi di specialisti,crescendo in numero e coesione, si trasformarono, nei primi decenni del

secondo secolo dell’Islam, nelle antiche scuole giuridiche. Con tale espressione non si vuole

affermare che ogni scuola avesse una precisa struttura organizzativa e una dottrina omogenea, un

insegnamento organizzato, uno status giuridico ufficiale e anche un corpus iuris nel senso

occidentale del termine. I membri delle scuole, “dottori” o “giuristi”, rimasero privati cittadini,

distinti dalla massa dei credenti per i propri particolari interessi, per il conseguente grande rispetto

in cui erano tenuti dal popolo e per il fatto di riconoscersi l’un l’altro legati da un vincolo di affinità

spirituale.

Le principali antiche scuole giuridiche di cui si hanno notizie sono quelle di Kufa e di Bassora in

Iraq, di Medina e di Mecca nel Higiaz, e di Siria 13.

Le differenze tra queste scuole furono causate essenzialmente da fattori geografici, come la

difficoltà di comunicazione fra le varie sedi, e dalle diverse condizioni sociali, tradizioni giuridiche

e consuetudini riscontrabili a livello locale, ma non vi fu un sostanziale disaccordo su principi o

metodi.

Nel primo periodo della giurisprudenza islamica esisteva un considerevole corpus dottrinale

comune che si ridusse progressivamente per effetto del processo di differenziazione tra le scuole 14.

Furono comunemente le dottrine elaborate in Iraq ad influenzare quelle delle scuole del Higiaz, e

spesso lo sviluppo sul piano dottrinale della scuola di Medina seguì quello della scuola di Kufa.

Un aspetto importante dell’attività delle antiche scuole giuridiche è che esse, per la prima volta,

considerarono scrupolosamente le norme coraniche. 13 In Egitto non si sviluppò una scuola giuridica autonoma ed il paese subì l’influenza di altre scuole,in particolare di

quella di Medina, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 995, p. 33.

14 Ciò non significa affatto che agli inizi la giurisprudenza islamica si sia sviluppata soltanto in un luogo, ma che uno

solo fu il centro intellettuale ove si compirono quei primi tentativi di teorizzazione e sistemazione che avrebbero poi

trasformato la pratica popolare e amministrativa omàyyade nel diritto musulmano: tutte le indicazioni dimostrano che

questo centro fu l’Iraq, la cui influenza sullo sviluppo del diritto religioso e della dottrina islamica continuò per tutto il

secondo secolo, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 34 ss.

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Al contrario di quanto era avvenuto nel primo secolo dell’Islam, ora le conclusioni di carattere

formale erano tratte dall’insieme dei passi coranici, di natura essenzialmente religiosa ed etica, e su

di essi venivano modellati non solo il diritto di famiglia, il diritto successorio ed, ovviamente, il

culto e il rituale, ma anche quegli aspetti della legge che non erano affrontati in modo dettagliato dal

Corano15.

Le antiche scuole giuridiche avevano in comune non soltanto l’atteggiamento verso la pratica

omàyyade ed una parte considerevole del diritto religioso positivo, ma anche gli elementi essenziali

della teoria giuridica, non tutti scontati dal punto di vista storico o evidenti sul piano sistematico.

L’idea centrale di questa teoria era la“tradizione vivente della scuola”, rappresentata dalla dottrina

costante dei suoi più autorevoli rappresentanti. Quest’idea dominò lo sviluppo della dottrina

giuridica delle antiche scuole durante tutto il secondo secolo dell’ Islam16.

Rilevante fu soltanto l’opinione della maggioranza dei dottori, quella delle minoranze era, invece,

ignorata. Il consenso (igma) dei dotti, che rappresentava il comune denominatore della dottrina

elaborata nel corso di ciascuna generazione, espresse l’aspetto sincronico della tradizione vivente di

ogni scuola 17.

15 Il massimo grado di assimilazione delle norme coraniche da parte dell’antico diritto musulmano coincide proprio con

la nascita delle antiche scuole giuridiche, all’inizio del secondo secolo dell’ Islam, v.SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 34.

16 Essa si presenta sotto due aspetti: quello diacronico e quello sincronico.

Considerata in senso diacronico, la tradizione si esprime come sunna, “pratica”, “precedente ben radicato” o come

“antica pratica”, dove il termine fa riferimento alla consuetudine della comunità locale nei suoi caratteri reali, ma

contiene altresì un elemento teorico o ideale, assumendo il significato di usi esemplari. Tale nozione di pratica ideale -

ritenuta un elemento da sempre presente, ma sviluppatosi in realtà solo quando le teorie islamiche si imposero in campo

giuridico – era espressa nella dottrina di tutti i principali dottori di ogni centro, le cui opinioni venivano accettate e alle

cui decisioni si rimetteva, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 34.

17 Il consenso dei dottori differisce, su punti essenziali, dal consenso di tutti i musulmani.

Quest’ultimo, che nella realtà riguarda l’intero mondo islamico, è vago e astratto, mentre il primo,geograficamente

limitato alla sede di una scuola, è definito e concreto, ma anche tollerante e non esclusivo, in quanto riconosce in realtà

l’esistenza di diverse dottrine in altri centri, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995,

p. 35.

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§ 1.7. I tradizionisti.

Nel secondo secolo dell’ègira comparve il più importante fenomeno nella storia del diritto

musulmano: il movimento dei tradizionisti. Esso consistette in un movimento di opposizione alle

antiche scuole giuridiche.

La principale tesi dei tradizionisti considerava le tradizioni formali derivate da Maometto di valore

giuridico maggiore rispetto alla tradizione vivente della scuola 18. Tale movimento non era presente

solo a Medina, ma anche in tutti i grandi centri dell’Islam, dove diede corpo a gruppi di opposizione

alle scuole giuridiche locali.

I tradizionisti provarono avversione per il ragionamento, la loro tendenza generale fu

l’intransigenza ed il rigore, pur non senza eccezioni: talvolta si interessarono a problemi puramente

giuridici, ma la loro preoccupazione principale fu quella di subordinare la materia giuridica a quei

principi religiosi e morali espressi nelle tradizioni del Profeta.

Per quanto riguarda la reazione delle antiche scuole giuridiche, quella di Medina e quelle irachene

opposero una forte resistenza agli elementi di disturbo rappresentati dalle tradizioni che

pretendevano di risalire a Maometto. Le tradizioni attribuite a Maometto dovettero superare

notevoli opposizioni, mentre le polemiche a sostegno o contro di esse si protrassero per quasi tutto

il secondo secolo dell’ègira 19.

18 I tradizionisti produssero dettagliate affermazioni o “tradizioni”, sostenendo la loro diretta

provenienza da chi vide o udì personalmente il Profeta: fatti o detti trasmessi oralmente attraverso una catena

ininterrotta di persone degne di fede. Ad ogni modo nessuna di queste tradizioni, almeno per quanto riguarda il diritto

religioso, può ritenersi autentica: esse furono messe in circolazione, indubbiamente per motivi di interesse, dagli stessi

tradizionisti, a partire dalla prima metà del secondo secolo, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano,

Fondazione Agnelli, 1995, p. 39.

19 I tradizionisti furono indubbiamente favoriti dall’influenza che l’invocazione dell’autorità del Profeta poteva

esercitare sui credenti; tuttavia le antiche scuole giuridiche non modificarono la loro dottrina giuridica positiva così

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Parallelamente alla tendenza dei primi specialisti e delle antiche scuole verso l’islamizzazione, cioè

l’introduzione di norme islamiche nella sfera del diritto, si manifestò la tendenza complementare

verso la razionalizzazione e l’organizzazione sistematica. Il ricorso al ragionamento fu fin

dall’inizio una tipica caratteristica del diritto musulmano e in un primo tempo si tradusse

nell’espressione di valutazioni personali e di giudizi individuali da parte dei primi specialisti e dei

qadi 20. I risultati della prima elaborazione sistematica furono non di rado espressi sotto forma di

massime e adagi talvolta caratterizzati da rime e assonanze 21. Pur non avendo origine tutte nella

stessa area e nello stesso periodo, molte massime vennero formulate nella prima metà del secondo

secolo dell’ègira, riflettendo una fase in cui le dottrine giuridiche non erano ancora espresse

sistematicamente in tradizioni, sebbene la maggior parte di esse ne acquistò progressivamente la

forma. Durante tutto il secondo secolo dell’ Islam il pensiero tecnico-giuridico si sviluppò molto

rapidamente rispetto agli inizi, quando era stato caratterizzato solo da conclusioni per analogia

approssimative e rudimentali22.

profondamente come i rivali avrebbero desiderato. Qualche volta essi riuscirono ad imporre dei cambiamenti, ma

talvolta fallirono nel loro intento, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 40.

20Quando il ragionamento del singolo è volto al raggiungimento di una coerenza sistematica ed è condotto a un istituto

giuridico od ad una decisione preesistenti, è definito qiyas, che significa analogia, equivalenza concettuale, v.

SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 41 ss.

21Alcune tipiche massime sono: “il figlio appartiene al letto” e “né divorzio né manumissione con la violenza”, v.

SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 43.

22 Ciò significa, innanzitutto, che la tendenza fu quella di un progressivo affinamento del pensiero tecnico-giuridico; in

secondo luogo, esso divenne sempre più subordinato alle tradizioni non appena queste divennero numerose e furono

riconosciute come autorevoli; in terzo luogo, nel ragionamento sistematico si fusero importanti considerazioni di natura

religiosa ed etica, che rappresentavano uno degli aspetti del processo di islamizzazione del diritto, v. SHACHT,

Introduzione al diritto musulmano,Fondazione Agnelli, 1995, p. 44.

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§ 1.8. Malik, Safi’ì e Abu Hanifa.

Ebbero grande merito nel processo di sviluppo del fiqh due rappresentanti della scuola di Medina:

Malik e Safi’ì.

Malik (morto nel 795 d.C.) cercò di conciliare il ricorso al ragionamento individuale con la

tradizione.

Con Saf’ì , (morto nell’820 d.C.), il ragionamento giuridico raggiunse il livello di massima

perfezione23. La sua dottrina fu caratterizzata dall’uso di un ragionamento giuridico esplicito, nella

maggior parte dei casi di elevata qualità, sconosciuto a qualsiasi predecessore. Inoltre egli seppe

distinguere, più coerentemente rispetto alle antiche scuole, gli aspetti morali da quelli giuridici,

anche se entrambi si riferivano ad un medesimo problema 24.

Saf’ì riconobbe in via di principio soltanto il ragionamento strettamente analogico e sistematico,

escludendo le opinioni arbitrarie e le decisioni discrezionali, e si basò sulla tesi dei tradizionisti per

cui si doveva assolutamente tener conto dell’autorità di una tradizione formale risalente a

Muhammad. Tuttavia per lui la sunna non ebbe più quel significato di pratica ideale riconosciutole

dai suoi predecessori: egli la identificò con i contenuti di tradizioni formali attribuite al Profeta,

anche nel caso in cui queste tradizioni fossero state trasmesse da una sola persona per ogni

generazione.

23 Saf’ì si considerò appartenente alla scuola di Medina, anche se fece prevalere nel diritto musulmano le tesi principali

dei tradizionisti, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 49.

24 Su questo punto Saf’ì non portò a termine il programma dei tradizionisti che avevano tentato di identificare le

categorie di “ proibito “ e “invalido”. D’altra parte, il fondamentale legame di dipendenza del giurista nei confronti

delle tradizioni fatte risalire al Profeta comportò un modo diverso, più formale, di islamizzare la dottrina giuridica. In

teoria Saf’ì distinse nettamente fra la materia ripresa dalle tradizioni e il risultato di un pensiero sistematico; di fatto,

però, i due aspetti sono strettamente intrecciati nel suo ragionamento: egli si mostra al tempo stesso legato alla

tradizione e sistematico. Questa nuova sintesi può essere considerata come un tipico aspetto del suo pensiero giuridico,

v. SHACHT,Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli , 1995, p. 50.

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Quanto alle opinioni sostenute da persone che non fossero i compagni del Profeta e alle pratiche da

loro introdotte, esse non ebbero, agli occhi di Saf’ì, alcuna autorità. Inoltre, egli ritenne che le

tradizioni fatte risalire a Muhammad non potevano essere invalidate neppure dal Corano, in quanto

era il Corano a dover essere interpretato alla luce delle tradizioni e non il contrario 25.

Infine, accanto a Malik e Saf’ì, deve essere annoverato anche Abu Hanifa (morto nel 767 d.C.),

giurista che permise alla tecnica giuridica islamica di evolversi notevolmente. Il suo pensiero,

caratterizzato da un ampio uso del ragionamento, risultò più fondato, approfondito e raffinato

rispetto ai suoi contemporanei più anziani.

§ 1.9. Gli abbàsidi.

Quando, nell’anno 750 d.C., gli omàyyadi furono spodestati dagli abbàsidi, il diritto musulmano

aveva già assunto i suoi tratti fondamentali e soddisfatto il bisogno della società arabo-musulmana

di un nuovo sistema giuridico. La tendenza all’islamizzazione, che era divenuta sempre più evidente

con gli ultimi omàyyadi, venne ripresa e perseguita con più vigore dai primi abbàsidi. Per ragioni di

politica dinastica, nell’intento di differenziarsi dai precedenti regnanti, essi enfatizzarono le

differenze che li distinguevano dai predecessori e annunciarono solennemente il loro programma di

stabilire la legge di Allah sulla terra.

Nell’ambito di questa linea politica, essi riconobbero il diritto che veniva insegnato dagli esperti in

materia religiosa come il solo diritto legittimo

25 Anche il consenso dei dottori, che esprimeva la tradizione vivente di ogni antica scuola, divenne del tutto irrilevante

per Saf’ì: egli giunse persino a negare l’esistenza di un simile consenso, in quanto riuscì a trovare sempre dottori

sostenenti opinioni differenti, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 51.

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dell’islam, e iniziarono a praticare quanto costoro teorizzarono 26.

I primi abbàsidi riuscirono ad ottenere il risultato di congiungere in modo definitivo la funzione del

qadi con la Šari‘a, e fissarono definitivamente la regola che qadi il dovesse essere un esperto nella

Legge sacra 27. La loro tendenza alla centralizzazione portò anche alla creazione della carica di

“Gran Qadi”. Tale figura rappresentò uno dei principali consiglieri del califfo e la sua funzione più

importante fu la nomina o il licenziamento degli altri qadi, tutti sottoposti all’autorità del califfo 28. I

califfi ebbero spesso occasione di emanare nuove leggi; tuttavia questa prassi, anche se, in realtà, si

trattava di un’azione legislativa a tutti gli effetti, fu da loro definita come un semplice intervento in

campo amministrativo, volto all’applicazione e all’“integrazione” della Šari‘a. Tale potere fu in

seguito definito siyasa 29.

26 Ben presto divenne chiaro che la legge di Dio sulla terra, così come veniva predicata dai primi abbàsidi, non era altro

che una formula elegante per mascherare un dispotismo assoluto, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano,

Fondazione Agnelli, 1995, p. 53.

27 Il qadi veniva scelto dal governo centrale e, da quando era nominato fino al momento in cui veniva sollevato dal suo

incarico, doveva applicare la Šari‘a senza subire alcuna interferenza governativa. Si trattava però di un’indipendenza

del tutto teorica: i qadi non solo erano soggetti al licenziamento arbitrario da parte di chi li aveva nominati, ma

dovevano comunque dipendere dalle autorità politiche per l’esecuzione delle loro sentenze, aspetto fondamentale

nell’ambito dell’amministrazione del diritto penale, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione

Agnelli, 1995, p. 54.

28 Il califfo, pur essendo il capo assoluto della comunità musulmana, non aveva il diritto di emanare leggi, ma poteva

soltanto promulgare norme in ambito amministrativo, nei limiti stabiliti dalla Šari‘a v. SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 57.

29 Siyasa significa, letteralmente, “linea di condotta”, e comprende tutto il complesso della giustizia amministrativa che

è applicata dal sovrano e dai suoi rappresentanti in campo politico, in contrasto con il sistema ideale della Šari‘a

.Anche i qadi sono tenuti a seguire le direttive che il califfo eventualmente impartisce loro nell’esercizio del potere di

Siyasa , entro i limiti posti dalla Šari‘a . Il risultato di questo processo fu la diffusione, in tutto il mondo islamico, di una

duplice forma di amministrazione della giustizia: una di tipo religioso, esercitata dal qadi, che si atteneva

scrupolosamente alla Šari‘a ., e l’altra laica, esercitata da autorità politiche sulla base della consuetudine, dell’equità e

dell’imparzialità – ma talvolta anche dell’arbitrio – delle norme governative, v. SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 58 ss.

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§ 1.10. La trasformazione delle antiche scuole giuridiche: malikiti,

hanafiti, shafiiti e hanbaliti.

Sempre nel periodo abbàside le antiche scuole giuridiche, divise principalmente in base alla loro

ubicazione geografica, si trasformarono successivamente in scuole fondate sulla fedeltà agli

insegnamenti di un maestro.

Dalla metà del secondo secolo dell’ègira, infatti, molte persone smisero di elaborare

autonomamente le proprie teorie, iniziando a seguire, per gli aspetti fondamentali del diritto,

l’insegnamento di un’autorità riconosciuta, riservandosi di divergere dal maestro soltanto su

questioni marginali.

Questo fenomeno portò, in primo luogo, alla formazione di gruppi o circoli entro l’ambito delle

antiche scuole giuridiche: nella scuola irachena di Kufa vi erano i “seguaci di Abu Hanifa”; nella

scuola di Medina erano presenti i “seguaci di Malik”. In un primo tempo, questi ultimi

rappresentarono solo una parte della scuola di Medina, così come i seguaci di Abu Hanifa furono

solo un gruppo all’interno della scuola di Kufa. In seguito, però, l’intensa attività letteraria dei

discepoli di Abu Hanifa in Iraq comportò la trasformazione dell’antica scuola di Kufa nella scuola

hanafita, mentre i seguaci di Malik diedero origine alla scuola malikita30.

Anche il movimento dottrinale iniziato da Safi’ì diede origine ad una scuola detta schafiita 31.

Un’altra nota scuola, la scuola hanbalita, fu fondata dai seguaci di Ibn Hanbal, insigne tradizionista

morto nel 855 d.C.32. 30 Questo processo di trasformazione delle antiche scuole giuridiche in scuole “personali” si concluse verso la metà del

terzo secolo dell’ègira (circa 865 d.C.), v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano,Fondazione Agnelli, 1995, p.

62.

31 In un primo tempo gli hanafiti e i malikiti non si lasciarono indurre da Safi’i a modificare nella sostanza la loro

dottrina giuridica positiva, ma in seguito accolsero una teoria di ispirazione tradizionista, permettendo però al consenso

dei dottori di stabilire fino a che punto le tradizioni risalenti al Profeta dovessero essere accettate come base del diritto,

v. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 63.

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Pur trattandosi di una scuola di matrice tradizionista, i suoi membri dovettero in seguito accogliere

la teoria “classica”, fondata non sulle tradizioni, ma sul consenso, e riconobbero il ragionamento

analogico 33.

§ 1.11. La conclusione della formazione del diritto musulmano.

La prima fase del periodo abbàside non vide soltanto lo sviluppo delle antiche scuole giuridiche, ma

anche la conclusione del periodo di formazione del diritto musulmano. Tutta la materia giuridica era

stata permeata dalle norme etico-religiose islamiche; il principio dell’infallibilità del consenso degli

studiosi favorì il fenomeno della progressiva riduzione e dell’irrigidimento della dottrina e la teoria

che negava al singolo la possibilità di far uso del ragionamento sancì ufficialmente una situazione di

fatto già impostasi 34.

32 Dall’anno 1300 sono rimaste solo quattro scuole giuridiche: quelle hanafita, malikita, shafiita e hanbalita. La scuola

hanafita è presente in Iraq, sua patria d’origine, in Siria, in Afghanistan, nel subcontinente indiano e nell’Asia centrale

turca.

La scuola malikita si diffuse dai suoi centri originari, Medina e l’Egitto, verso Occidente, comprendendo tutta l’area

nordafricana e l’Africa centrale e occidentale musulmana. La scuola shafiita fu fondata al Cairo, dove Safi’ì trascorse

gli ultimi anni della sua vita, e si impose nel Basso Egitto, nell’Arabia meridionale e nella maggior parte dell’Africa

orientale musulmana. Ebbe larga diffusione anche in Iraq, in alcune aree dell’Asia centrale, in alcune regioni costiere

dell’India, in Indonesia, in Malesia e nel resto del Sud-est asiatico. Infine la scuola hanbalita è riconosciuta

ufficialmente in Arabia Saudita, nel Golfo Persico e nel subcontinente indiano, v. SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 69 ss.

33 Secondo la teoria classica il diritto musulmano si fonda su quattro principi o “fonti”: il Corano, la sunna del Profeta

(raccolta nelle tradizioni riconosciute valide), il consenso (igma) dei dottori e il ragionamento per analogia (qiyas ). Il

diritto musulmano non riconosce invece la consuetudine come fonte del diritto, anche se essa contribuì storicamente alla

sua formazione, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 64.

34 I primi segni della tendenza a negare agli studiosi la libertà di ragionamento di cui avevano goduto i loro predecessori

si potevano già individuare nel pensiero di Safi’ì, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli,

1995, p. 74.

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Da quel momento l’attività giuridica futura fu intesa unicamente come spiegazione, applicazione o

interpretazione di una dottrina già definitivamente elaborata. Inoltre fu riconosciuto il principio del

taqli d, secondo cui la dottrina giuridica non doveva essere dedotta autonomamente dal Corano,

dalla sunna e dall’ igma, ma doveva essere accettata nella forma in cui era stabilita da una delle

scuole riconosciute. Ad ogni modo, l’attività dei giurisperiti contemporanei non fu meno creativa,

nei limiti posti dalla , rispetto a quella dei loro predecessori. La vita reale presentava sempre nuove

situazioni che dovevano essere verificate e definite con gli strumenti tradizionali, forniti dalla

scienza giuridica. Tale attività fu svolta dal muft i, uno specialista in diritto che forniva pareri

autorevoli su questioni dottrinali e il cui compito principale era quello di consigliare i fedeli

sull’esatta natura degli atti umani dal punto di vista della Legge sacra 35.

L’attività dei muft i contribuì notevolmente allo sviluppo dottrinale del diritto musulmano.

§ 1.12. L’impero ottomano e la Šari ‘a.

Dopo il primo periodo abbàside, i tentativi da parte degli stati musulmani di sottoporre la pratica ai

principi della Šari‘a furono essenzialmente identici, anche se il loro esito fu ben diverso. Il più

notevole e, per un certo periodo, il più riuscito di questi sforzi venne intrapreso dall’impero

ottomano.

All’inizio del sedicesimo secolo l’ortodossia islamica – rappresentata dagli ‘ulama’ , i dotti

dell’ islam – riuscì ad imporsi completamente.

35 All’inizio la funzione del mufti era essenzialmente privata: la sua autorità si basava sulla sua

reputazione come giurisperito, la sua opinione non aveva alcun riconoscimento ufficiale ed un profano poteva

consultare qualsiasi giurista di sua conoscenza e fiducia. Tuttavia, per fornire a tutto il popolo, nonché ai funzionari

governativi opinioni autorevoli su questioni riguardanti il diritto religioso, i governi musulmani, poco tempo dopo la

definitiva costituzione delle scuole giuridiche, scelsero come mufti ufficiali giuristi di grande reputazione (detti Gran

Mufti), v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 78 ss.

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I sultani ottomani diedero al diritto musulmano nella versione hanafita, da sempre prediletta dalle

popolazioni turche, il più alto livello di efficienza mai raggiunto dal tempo dei primi abbàsidi. Essi

fondarono l’intera amministrazione della giustizia sulla Legge sacra; optarono per una formazione

omogenea di giuristi e qadi, organizzandoli in una gerarchia di professionisti; conferirono una

speciale autorità al Gran Mufti (36).

I sultani ottomani si distinsero inoltre per la loro attività legislativa, emanando codici, nella

convinzione di non abrogare né contraddire la Legge sacra, ma di integrarla con regolamenti

riguardanti una materia indifferente dal punto di vista religioso. L’ordinamento giuridico

dell’impero ottomano del sedicesimo secolo fu, anche solo per la sua omogeneità, notevolmente più

evoluto rispetto a que llo vigente allora in Europa, ma la successiva decadenza dell’impero non

mancò di ripercuotersi negativamente su di esso. I tentativi di riforma intrapresi energicamente sotto

il regno di Mahmud (1808-1839) portarono inevitabilmente allo scontro con la .Quando nell’impero

ottomano fu avviata una legislazione elaborata su modelli europei, la cui prima importante

manifestazione fu il Codice di commercio (1850), tutta la materia giuridica fu da allora

progressivamente sottratta alla sfera del diritto musulmano.

Neppure in questo caso la Legge sacra fu però ufficialmente abbandonata: al contrario, la Turchia

ottomana resta il solo paese islamico in cui vi sia stato il tentativo di codificare il diritto religioso

islamico e di applicare alcune sue parti come leggi dello Stato.

E’ questo il caso della Megelle, promulgata nel 1877 come codice civile ottomano e comprendente,

suddivisa in articoli, la disciplina dei contratti, delle obbligazioni e la procedura civile.

Essa fu abolita nel 1926 dalla stessa Turchia, unitamente all’intero complesso del diritto

musulmano, compresi i tribunali dei qadi.

.

§ 1.13. Il diritto di famiglia musulmano in Algeria.

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In Algeria, sotto l’influenza della dominazione francese i qadi continuarono ad applicare il diritto

musulmano, secondo la dottrina malikita, in quelle materie che tradizionalmente rientravano nella

loro sfera di competenza. Inoltre, le modifiche alla legislazione furono rare e si concentrarono

soprattutto sulla tutela dei minori e sulla forma del matrimonio e del divorzio 36. La giurisprudenza

francese ebbe un ruolo determinante nell’applicazione del diritto islamico in Algeria. Essa fu, a sua

volta, notevolmente influenzata dalla dottrina francese, e fu proprio un giurista francese, Marcel

Morand, a ricevere l’incarico di preparare una prima stesura del Codice di diritto musulmano

algerino, pubblicata nel 1916. L’autore inserì in quest’opera numerose modifiche al diritto malikita,

adottando dottrine di scuola hanafita solo quando queste ultime gli parvero più rispondenti ai tempi

moderni. Il Code Morand non entrò mai in vigore come legge, ma nello stato algerino fu di

notevole importanza pratica. Anche il diritto musulmano applicato in Algeria divenne un sistema

giuridico indipendente, propriamente detto droit musulman algérien.

La legge di famiglia oggi in vigore in Algeria è stata adottata il 9 giugno del 198437. Essa unifica il

diritto applicabile nel territorio dello Stato: alle sue norme sono soggetti tutti i cittadini algerini e

non, residenti nel paese. Giunge così a compimento il processo di unificazione del diritto a livello

nazionale intrapreso con l’indipendenza. Durante il periodo coloniale il panorama delle norme

applicabili in materia di statuto personale era estremamente frammentato. Le regole del codice

civile francese, cui erano sottoposti i cittadini francesi e gli algerini aventi la cittadinanza francese,

si contrapponevano alle regole locali, suddivise a loro volta in tre ceppi: il diritto musulmano (di

scuola malikita), il diritto ibadita e il diritto consuetudinario cabilo. Dopo il 1962, la giurisprudenza 36 Esse culminarono in un’ordinanza del 1959, la quale stabilì che il matrimonio doveva essere

concluso con il consenso di marito e moglie, fissò l’età minima per il matrimonio e dichiarò che questo poteva essere

sciolto, oltre che per morte, soltanto da una sentenza pronunciata sulla base di precisi motivi, su domanda del marito o

della moglie o di entrambi, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 105.

37 Nonostante questo titolo, la legge non disciplina soltanto il matrimonio e la filiazione, ma tutte le materie

tradizionalmente comprese nello statuto personale: la rappresentanza degli incapaci, le successioni, gli atti di ultima

volontà, le donazioni e i waqf (le fondazioni pie), v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli,

1995, p. 11 ss.

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optò per la disapplicazione del diritto cabilo a favore di quello musulmano e il legislatore estese le

riforme, già introdotte dalla Francia limitatamente ad alcuni gruppi, al popolo algerino e regolò

certe specifiche questioni in modo uniforme per tutti i cittadini. Nel 1973 furono abrogate le

disposizioni in materia di statuto personale e, per colmare il vuoto legislativo che si creò, si fece

ricorso al diritto musulmano. Su questo sfondo fu adottato il codice dello statuto personale del 1984

38.

§ 1.14. Il diritto di famiglia musulmano in Egitto.

In Egitto, nel corso del diciannovesimo secolo, fu promossa da Muhammad Qadri Pascia la

codificazione del diritto di famiglia e delle successioni hanafita39. Tuttavia, essa non fu mai emanata

ufficialmente. Dal 1920, l’Egitto fu condizionato dalla dottrina modernista e dal movimento

legislativo ad essa ispirato: le pietre miliari del nuovo modello di legislazione furono le leggi n.25

del 1920 e n.25 del 1929, nell’ambito del diritto di famiglia; la n.77 del 1943 sul diritto successorio;

la n.71 del 1946 sulle disposizioni di ultima volontà; la n.462 del 1955 che abolì i tribunali dei qadi

ponendo l’amministrazione della giustizia completamente nelle mani dei tribunali secolari. Nel

1962 fu annunciato il completamento del progetto di un nuovo Codice dello statuto personale che

portò ulteriori innovazioni.

38 Esso è composto da 224 articoli e, in caso di lacuna della legge, rinvia direttamente alle regole sciaraitiche, v.

ALUFFI, Le leggi del diritto di famiglia degli stati arabi del Nord Africa, Fondazione Agnelli, 1995, p. 12 ss.

39 Gli effetti del contatto con l’Occidente sul diritto musulmano culminarono nell’adozione della forma occidentale dei

codici con la relativa suddivisione in articoli. Ne è un esempio, oltre al codice egiziano, la Megelle ottomana, v.

SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 78 ss.

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§ 1.15. Il diritto di famiglia musulmano in Libia e in Tunisia.

In Libia il diritto islamico nella sua forma tradizionale restò a lungo l’unica fonte regolatrice delle

materie dello statuto personale.

Dopo il rovesciamento della monarchia nel 1969, il legislatore libico intervenne con la legge n.176

del 1972 in materia di capacità matrimoniale, di potestà paterna sui figli, di divorzio per danno e di

ripudio dietro corrispettivo. Questo testo fu però abrogato dalla legge del 1984 in materia di

matrimonio e divorzio, oggi in vigore 40.

Una legislazione fondata direttamente sulla dottrina musulmana, pur essendo destinata ad essere

applicata dai tribunali secolari, è stata introdotta sotto gli auspici francesi in Tunisia. In questo

paese, fin dal 1899, David Santillana elaborò, per conto della Commissione per la codificazione del

diritto tunisino, una prima stesura di un codice civile commerciale: il Code Santillana 41.

Infine, con il codice dello statuto personale tunisino, adottato nel 1956, la Tunisia si pose

all’avanguardia del movimento modernista in campo legislativo. Tale legislazione, denominata

Magalla, fu ampliata con l’aggiunta nel 1959 del libro sull’atto di ultima volontà, e nel 1964 del

libro sulla donazione 42.

La Magalla spicca per il radicale riformismo, rimasto insuperato nel panorama delle legislazioni

arabe, a cui contribuì il presidente tunisino Bourghiba. 40 La sua travagliata elaborazione fu il risultato dell’acceso confronto tra istanze radicalmente

riformiste e resistenze conservatrici, fautrici di un profonda spaccatura nel paese, v. ALUFFI, Le leggi del diritto di

famiglia degli stati arabi del Nord Africa, Fondazione Agnelli, 1997, p. 18 ss.

41 Sempre in Tunisia, un Gran Mufi malichita, divenuto ministro della Giustizia nel 1947, nominò una commissione

con il compito di elaborare un codice del diritto musulmano di famiglia volto ad armonizzare le dottrine delle scuole

malikita e hanafita, ma questo tentativo rimase vano per ragioni di ordine politico, v. SHACHT, Introduzione al diritto

musulmano, Fondazione Agnelli, 1995, p. 114 ss.

42 L’ultimo intervento del legislatore risale al 1993: esso modifica la maggiore età e innova in materia di mantenimento

e di poteri dei genitori sui figli, v. ALUFFI, Le leggi del diritto di famiglia degli stati arabi del Nord Africa, Fondazione

Agnelli, 1997, p. 24 ss.

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CAPITOLO II

IL DIRITTO MATRIMONIALE ISLAMICO : ASPETTI GIURIDICI ,

CONNOTATI SOCIOLOGICO-RELIGIOSI E PROSPETTIVE

COMPARATISTICHE .

.

§ 2.1. Il Nikah: negozio contrattuale formale e condizione di liceità religiosa delle unioni

eterosessuali.

E’ opportuno premettere una considerazione che rappresenterà la chiave di comprensione dell’

istituto sottoposto alla presente disamina. L’ Islam –contrapponendosi al sentimento tribale

predominante al tempo della rivelazione del messaggio coranico – tende a sviluppare fra i membri

della umma un vincolo di solidarietà e di appartenenza che, in linea di tendenza, dovrebbe risultare

superiore rispetto a quello basato sulla consanguineità od affinità.

Ciò nonostante lo stessa Šari‘a regolamenta in maniera puntuale il vincolo matrimoniale,

riconoscendone così l’ irrinunciabile valenza di strumento di aggregazione sociale, ed ad un tempo,

il lodevole merito sul piano religioso43.

43 Cfr. G. VERCELLIN , Istituzioni del mondo musulmano, Ed. Einaudi ,Torino, 1996 : “Ben più importante però

sottolineare come il matrimonio,esercizio legittimo dell’ eros, sia la condizione consigliata ed obbligatoria per i

credenti: “Ed unite in matrimonio quelli che fra voi che son celibi e gli onesti fra i vostri servi e le vostre serve ; e se

saran poveri certo Dio li arricchirà della Sua Grazia, ché Dio è ampio e sapiente. E quelli che non trovano moglie si

mantengono casti finché Dio li arricchisca della Sua Grazia” (Corano XXIV,32-33).”

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Il termine arabo per indicare il matrimonio ( al-nikah) significa letteralmente “coito” ed in tale

accezione si contrappone a qualsiasi altra unione sessuale che viene considerata sempre considerata

adulterina (zina’) con l’eccezione del rapporto fra il padrone e la schiava.

La promessa di contrarre matrimonio futuro (al-hitba) non crea un vincolo giuridico tra le parti e

non implica azione in caso di inadempimento.

Secondo l’articolo 1 della legge libica n. 10 del 1984, ciascuno dei due promessi sposi ha la facoltà

di recedere dalla promessa di matrimonio; chi recede per necessità può chiedere che i doni fatti gli

siano restituiti in natura o secondo il valore che essi avevano al momento della consegna, salvo

accordo o consuetudine contrari. Se il recesso dalla promessa di matrimonio causa un danno, chi lo

ho provocato deve risarcirlo.

L’oggetto del matrimonio risulta essere duplice: per il marito concerne i diritti conferitigli sulla

persona della moglie e che sono sussumibili nell’ autorità matrimoniale e nel godimento sessuale;

per la moglie invece esso riguarda le spettanze che il marito le deve sotto forma di donativo nuziale

(marh o sadaq) ed al soddisfacimento di altri obbligazione di natura patrimoniale quali la garanzia

del vitto, dell’ alloggio, della servitù in modo conveniente allo stato sociale di lei.

Col matrimonio la donna rimane completamente capace di agire ed il suo status non si modifica,

eccezion fatta per il caso della minorenne che invece si emancipa.

Dal punto di vista della Šari‘a il matrimonio è un contratto formale. Infatti, essendo espressione

esplicita di un consenso , esso impegna le parti ed una volta concluso validamente non possono più

impugnarlo.Il matrimonio islamico, dunque, annovera quattro elementi essenziali (arkan al- zawj)

di validità:

a) la capacità giuridica delle parti;

b) l’ intervento del tutore (wali);

c) il consenso dei futuri coniugi;

d) la costituzione del donativo nuziale (mahr o sadaq)

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E’ interessante,infine,osservare come la celebrazione religiosa del rito nuziale abbia come scopo

precipuo la mera pubblicità dell’ atto , in modo tale da distinguere l’unione sessuale legittima da

quella priva di questo requisito. Solo in questa accezione si può giustificare la presenza –

segnatamente richiesta dalle tradizioni giuridiche di scuola malikita – di due testimoni con compiti

di natura notarile(‘adl) .Difatti le funzioni religiose mantengono la loro natura strettamente privata ,

tale quindi da non coinvolgere la umma islamiya, ovverosia la comunità dei credenti44.

§ 2.1.1. La capacità giuridica delle parti e l’ intervento del wali.

In prima battuta possiamo rilevare come i coniugi non coincidano necessariamente con le parti del

contratto matrimoniale. Difatti, secondo la Šari‘a, ogni persona può essere titolare di un rapporto

matrimoniale, perfino il bambino appena nato. Se l’individuo, a causa dell’ età immatura ,non è in

grado di concludere il matrimonio interverrà in suo nome e per suo conto il tutore matrimoniale

(wali) ,ossia il parente maschio più prossimo al nubendo. Detto ciò si può subito evidenziare un’

incolmabile asimmetria fra la posizione della donna e quella dell’ uomo. Difatti, durante l’intera

vita la donna si trova costantemente sottoposta al potere più o meno intenso di un uomo. Dalla

nascita al matrimonio la titolarità del potere (al-wilaya) esercitato su di lei è attribuita al padre e

solo in sua mancanza all’ agnato più prossimo. Con il matrimonio la donna passa sotto la potestà

del marito ( al-‘iŠmah) del marito. Infine in caso di vedovanza o ripudio, la donna torna alla

44 Di diverso avviso ALAMI EL DAWOUD, in The marriage contract in Islamic law,Graham e Tratman ed., Oxford,

1999 (trad. a cura dell’ autore): “[…]Ritengo comunque che la partecipazione del qadi o dell’ imam alla formazione

dell’ atto non serva soltanto a dare pubblicità all’atto stesso, giuridicamente richiesto per la sua validità, ma serva

piuttosto a mettere in luce che la famiglia , considerata d’istituzione divina , si forma nell’unica forma di unione

legittima che è appunto il matrimonio (al–nikah): per il requisito della pubblicità dell’ atto basterebbe la sola presenza

dei due testimoni qualificati (‘adl) senza l’ulteriore bisogno dell’ intervento del qadi come giudice e funzionario

religioso. Così il matrimonio, inizialmente concepito come un mero contratto privato, ha subito una rilevante modifica

assumendo un aspetto pubblicistico che è fuori discussione specie nell’ambito sunnita.”.

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famiglia originaria o, se questa si è nel frattempo estinta ,verrà sottoposta al potere del proprio figlio

maschio maggiorenne fino alla morte od ad un eventuale matrimonio.

Tale stato di soggezione- fatto segno da parte dei moderni legislatori arabi di plurimi tentativi di

riforma tesa a contenere il potere maschile sulla donna- si riverbera anche sul fenomeno dei

cosiddetti matrimoni precoci.

Difatti,il padre o l’ agnato più prossimo è titolare della wilayat al- igbar, ovverosia il potere di

costrizione al matrimonio 45. Quest’ultimo - solo teoricamente applicabile anche ai figli maschi

impuberi- risente di considerazioni di natura economica46 che tuttavia sono state a buona ragione

ritenute irragionevoli dai vari riformatori dei codici dello statuto personale che hanno teso a fissare

un’ età minima valida per entrambi i nubendi ,al di sotto della quale il matrimonio è da considerasi

invalido.Età minima che coincide per lo più con la pubertà dei futuri coniugi.

§ 2.1.2. Il consenso dei futuri coniugi.

Per il diritto musulmano , il potere del padre di costringere il figlio al matrimonio (wilayat al-

igbar) cessa di regola al momento in cui questi raggiunge la pubertà. A questa regola generale-

adottata dalle scuole giuridiche di rito hanifita ed hanbalita- fanno eccezione i giureconsulti malikiti

e sciaifiti per i quali la verginità della donna -allo stesso modo che la giovane età- giustifica,

45Cfr. ABAGNARA VINCENZO, Il matrimonio nell’ Islam, Edizioni Scientifiche Italiane,Napoli, 1996. “La scuola

malikita ed hanbalita riconoscono al solo padre , ad esclusione di qualsiasi altro agnato il potere di costrizione. Le

dottrina sciafiita ritiene che esso spetti anche al nonno e gli hanafiti lo riconoscono ad ogni agnato.”.

46 Cfr. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA , La modernizzazione del diritto di famiglia nei paesi arabi, Ed. Giuffrè,

Milano,1990 : pag. 86 “D’altra parte […] la giovane età delle bambine fa aumentare l’ importo del mahr .Inoltre, con il

matrimonio precoce, il padre della ragazza può liberarsi quanto prima dall’obbligo di mantenere la figlia , che è a carico

del marito dal momento della consumazione o dal momento , a quello precedente , in cui è a disposizione del marito ed

entra nella casa di questo , magari bambina per esservi educata.Al contrario il padre del maschio non ha nessun

interesse a sposarlo in giovane età,dato che il matrimonio comporta per lui immediatamente il pagamento almeno

parziale del mahr.

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l’esercizio del potere alla costrizione al matrimonio. Tale assunto trova la sua ragione nella

considerazione dell’illibatezza quale scarsa conoscenza della vita e conseguente incapacità di

valutare gli interessi di natura personale e patrimoniale correlati al nikah.

Il wilayat al- igbar ,tuttavia, è stato espunto da tutte le attuali legislazioni statuali, sopravvivendo

per lo più in alcune aree geografiche come un potere fattuale ma sprovvisto di assistenza giuridica.

Unica eccezione fino all’ 8 marzo del 2004 era costituita dalla previgente Moudawwana (codice

dello statuto personale e delle successioni) del Regno del Marocco che all’articolo 4 manteneva il

wilayat al- igbar per il caso in cui si temesse la condotta sconveniente (al- fasad) della donna 47.

Ma se la donna non può essere più legalmente costretta al matrimonio in via generale non le tuttavia

è riconosciuta la possibilità di concludere in completa autonomia il contratto di matrimonio senza

l’assistenza del wali la cui volontà concorre con quella della donna nella scelta dello sposo.

Né tale considerazione può essere superata dalla considerazione che parte dalla constatazione che la

scuola hanafita concede alla donna di contrarre personalmente il matrimonio.Difatti anche se è solo

la donna ad esprimere il consenso , il contratto è gayr lazim : esso non obbliga definitivamente,

potendo essere sciolto ope iudicis su richiesta del wali che lamenti l’inadeguatezza dello sposo o

l’esiguità del mahr.

§ 2.1.3. La costituzione del donativo nuziale (mahr o sadaq), la sua determinazione ed il suo

corrispettivo.

Il donativo nuziale rappresenta il quanto elemento essenziale del nikah. La sua imprescindibile

rilevanza è testimoniata dal fatto che nikah e mahr nel Libro sacro dell’ Islam sono sempre

47 Da notare,inoltre, che il Codice dello Statuto Personale della Tunisia (Magalla) - improntato ad un radicale

riformismo rimasto superato dalle legislazione arabe vigenti- insiste (art.3) sulla necessità del consenso delle parti

quale elemento essenziale del matrimonio precisando che la volontà può essere espressa personalmente dalle parti od

attraverso un mandatario di loro scelta (art.9).

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strettamente coniugati48. Il donativo nuziale costituisce l’elemento sinallagmatico cui si

contrappongono i diritti potestativi sulla moglie imputabili al marito ed in particolar modo quelli

che hanno ad oggetto il godimento sessuale su di lei.

Esso quindi si configura come un autentico prezzo o compenso (ajr) per il consenso che la donna da

al marito per l’uso che egli fa della sua potestà matrimoniale. Fissato di comune accordo fra il

nubendo ( o la sua famiglia) ed il wali della donna, esso viene attribuito unicamente alla donna, alla

quale deve essere obbligatoriamente pagato e nella cui esclusiva sfera patrimoniale rimane. Da ciò

si evidenzia un dato incontrovertibile : nel dar al-Islam la donna ha sempre goduto di una situazione

patrimoniale particolarmente protetta : le spese (ogni spesa ) per il mantenimento (al-nafaqah) suo e

dei figli gravano unicamente sul marito.

Il mahr o sadaq assurge quindi al rango di parametro di serietà dell’ intenzione dello sposo e segno

di visibilità sociale e giuridica della legittimità dell’ unione matrimoniale 49.

L’ammontare del mahr deve essere esplicitamente definito nel contratto matrimoniale, deve aver ad

oggetto un bene religiosamente lecito e, soprattutto, deve avere un valore economico quantificabile

con certezza.

La determinazione del sadaq ,tuttavia, non attiene tanto ad un assioma di eterna verità religiosa

quanto a precise scelte politiche di interpretazione della Šari‘a.

Le scuole di rito hanafita e malikita definiscono un ammontare minimo del valore del sadaq sotto il

quale non è possibile stipulare validamente il contratto matrimoniale; mentre gli shafi‘iti e gli

hanbaliti si sono nei secoli astenuti dal quantificarlo.

48 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R., Milano 1996: (II,229,237); (IV, 4) ; (XXXII,50); (LX,10).

49 Cfr. G. VERCELLIN, Op. cit. pag. 143 “Siamo perciò esattamente all’ opposto della nostra <<dote>>, concetto che

indica il complesso dei bei portati dalla moglie per sostenere il peso del matrimonio, un’ istituzione che[…]esisteva […]

ma solo a livello di pratica consuetudinaria.Infatti insieme ed accanto al mahr divenne consuetudine comune nella sfida

sociale sottesa ai matrimoni per l’onore delle famiglie e per l’ostentazione delle ricchezze che i padri offrissero doni che

la giovane portava con sé nella nuova casa. Appunto vere e proprie <<doti>> come quelle europee: il jihaz , chiamato

anche in Tunisia shawar.”

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Di converso non è mai stato possibile quantificare (od addirittura imporre) un limite massimo al

donativo nuziale, stante un precetto coranico50 sulla base del quale è stato universalmente

riconosciuto l’impossibilità di fissare alcun tetto massimo all’ ammontare del mahr ,anche se tutti i

giuristi hanno avuto sempre premura di raccomandare di non esigere doni nuziali troppo elevati.

E’ consuetudine pagare parte del mahr subito e rinviare il pagamento del resto. La parte non pagata

è comunque dovuta alla morte dello sposo e sempre in caso di ripudio se il matrimonio è stato

effettivamente consumato.

Dalle considerazioni appena svolte emerge sorprendentemente un dato di incontrovertibile

evidenza:se lo statuto personale e familiare è uno dei campi dove più incisiva è risultata la

nomopoiesi da parte della Legge divina, parimenti si deve constatare che quest’ambito è stato anche

quello dove maggiori sono le discrepanze tra princìpi e prassi.

Una testimonianza indiretta di quanto sopra affermato risiede nella presenza costante ed attuale –

perfino nei paesi di più ortodossa pratica ed osservanza-accanto alla giurisdizione religiosa di una

giurisdizione (siyasa) politico-amministrativa che si faceva carico dell’ applicazione più o meno

ampia sia del diritto consuetudinario locale sia dei regolamenti emanati dalle legittime Autorità.

Entrambi in chiave derogatoria o di interpretazione elastica dei rigidi precetti della Šar i‘a.

D’altro canto il diritto della donna ad essere mantenuta è fondato sul suo atto di sottomissione ed è

irrilevante il suo stato di bisogno.E’ degno di nota inoltre che a far sorgere il diritto della moglie al

mantenimento non è sufficiente la valida costituzione del vincolo matrimoniale, ma la

consumazione delle nozze o, più genericamente, il mettersi a disposizione del marito. La

conservazione di tale diritto, conseguentemente, è subordinata alla costante,diuturna ( ma comunque

ragionevole) sottomissione ed obbedienza della moglie al marito. Tale obbedienza si concretizza, a

50 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R., Milano 1996 . IV,20 : “ E se vorrete scambiare una moglie

con un’altra ed avete dato ad una di esse una quantità d’oro, non riprendetene nulla; ne detrarreste forse qualcosa con

calunnia o con colpa evidente?”.

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titolo meramente esemplificativo , nell’ acconsentire all’atto sessuale 51, al dovere di abitazione nella

casa del marito, al divieto di uscire o ricevere visite senza il suo permesso, al dovere di seguirlo nei

viaggi o nel trasferimento in altra città.

Nell’eventualità in cui la moglie contravvenga agli obblighi sottesi alla potestà maritale il marito è

titolare di una serie di poteri che vanno dall’azione in giudizio alla sospensione del mantenimento52.

Un altro rimedio che il diritto musulmano colloca nell’ ambito dell’ esercizio della potestà maritale

è il diritto di correzione corporale sulla moglie (al-ta’dib)53, i cui eccessi nelle moderne legislazioni

sono rimessi in termini di censura e sanzione al prudente (e per lo più parziale) giudizio del qadi..

Tuttavia, la risorsa più decisiva per ottenere obbedienza e sottomissione da parte della moglie

recalcitrante è –nella maggior parte delle legislazioni statuali riconducibili al diritto islamico - il

ripudio od anche la semplice minaccia di ripudio da parte del marito.

Tuttavia, nell’ ipotesi in cui sia il marito a contravvenire ad i suoi obblighi correlati al

mantenimento della moglie, alla donna viene riconosciuta - in maniera unanime da parte di tutte le

scuole giuridiche islamiche – il diritto di convenire in giudizio il marito al fine di costringerlo a

versare la nafaqah .

Se l’uomo non adempie spontaneamente all’ ordine del giudice si procede all’ esecuzione forzata

sul suo patrimonio, ovvero alla sua incarcerazione nel caso in cui quella risulti impossibile. E’ da

51 Cfr. BORRAMNS MAURICE, Cours de Droit Familial musulman, Pontificio Istituto di Studi arabi e d’ Islamistica

,Roma, 1977, (traduzione a cura dell’autore) pag. 77: “[…]La donna può rifiutarsi di unirsi all’uomo soltanto nel caso in

cui questi non le abbia versato il mahr o non abbia predisposto l’abitazione coniugale[…]”.

52 Cfr. BORRMANS MAURICE, “Matrimonio e Famiglia nel mondo arabo musulmano” in Pedagogia e Vita, LIX/3 (-

maggio-giugno 2001), Ed. La Scuola , Brescia, pp. 61-62. “[…]E’ opportuno notare che le moderne codificazioni

specificano che il marito non può decidere personalmente la sospensione del mantenimento, ma deve ricorrere

all’organo giudicante per fare accertare l’insubordinazione della donna. Un esempio di quanto sopra specificato si trova

ad esempio nell’ art. 11 ter della Legge egiziana 25/1929 , l’art. 87 del codice kuwaytiano […]”.

53 BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996: (IV, 34) “[…]quanto a quelle di cui temete atti di

disubbidienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro giacigli ,poi battetele;ma se vi ubbidiranno, allora non cercate

pretesti per maltrattarle; ché Iddio è grande e sublime.”

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sottolineare che lo stato di detenzione non ha alcun fine afflittivo essendo esclusivamente

preordinato ad indurre il marito ad adempiere. Tuttavia la condanna alla detenzione può essere

evitata dal marito qualora questi dimostri al giudice la sua inequivocabile indigenza. Provata

quest’ultima la donna può soltanto chiedere il divorzio54.

§ 2.2. Le condizioni apponibili al contratto di nikah.

E’ senza dubbio anche attribuibile al carattere comunque indeterminato della potestà maritale sulla

donna che i moderni legislatori, pur non abbandonando il principio dell’ obbedienza della moglie al

marito, hanno comunque accettato di limitarne convenzionalmente l’estensione per mezzo di

stipulazioni accessorie (al-Šurut) apposte al contratto di matrimonio 55.

Il contenuto di tali clausole può avere ad oggetto l’impegno del marito a non contrarre altri vincoli

matrimoniali in costanza di quello che ha come parte l’apponente , l’impegno a non trasferire il

domicilio coniugale dalla città di origine, a permettere alla moglie di esercitare una professione o di

partecipare alla vita pubblica. In caso di mancato adempimento della clausola risolutiva espressa la

moglie può chiedere il divorzio.

Le parti inoltre possono concludere stipulazioni di questo genere anche fuori di un contratto di

matrimonio od addirittura dopo la sua conclusione.

54 Cfr.: MALLAT C., Islamic family law, Graham e Tratman ed.,1990: “[…]Ne l caso in cui la sentenza del giudice

risulti ineseguibile, la scuola hanafita arriva a teorizzare la possibilità che la donna venga autorizzata a contrarre debiti

in nome del marito (al-istidanah)[…]”.

55 Cfr.: UTHMAN M., The essential of Islamic family law, Dar al- atqua ed.,2003 (traduzione a cura dell’ autore) p.45

:“[…]Si è accolto su questo punto l’atteggiamento della scuola hanbalita, che mostra estrema flessibilità nell’

ammettere che le parti possano modificare gli effetti tipici del contratto purché nel quadro dei principi generali della Šar

i‘a[..]”.

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In tal caso,però, la violazione dell’accordo non conduce allo scioglimento del matrimonio ma ad un

mero risarcimento del danno.

L’unica clausola in relazione alla quale non rileva la sua apposizione al contratto di matrimonio o la

sua stipula successiva è il tafwid, ovverosia il mandato che l’uomo dà alla donna di autoripudiarsi

quando lo voglia. Per sua stessa natura,evidentemente, la clausola di autoripudio è idonea a

garantire

un’ampia tutela della donna nei confronti delle più diverse condotte del marito,non essendo

necessaria una preventiva loro individuazione.

§ 2.2.1. Il caso limite dell’ apposizione del termine al contratto di nikah :

la mut ‘ah .

Un peculiare istituto del diritto matrimoniale islamico tendenzialmente avversato dai giuristi sunniti

ma adottato dalle scuole giuridiche shiite è la

mut‘ ah , o più correttamente il al-nikah al- mut‘ ah , letteralmente traducibile come matrimonio di

piacere. Si tratta di un unione legalmente contratta per un periodo di tempo determinato di cui si

rinviene traccia soltanto in un passo coranico56. In epoca moderna la mut‘ ah è stato utilizzato nell’

Iran

pre-rivoluzionario dalle donne di condizione sociale più elevata per legittimare relazioni sessuali

altrimenti illecite . In tempi più recenti, sembra che la

mut‘ ah si sia risolta de facto in una forma di prostituzione legalizzata.

56 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996: (IV, 24): “[…] ed a quelle di cui godiate come

spose date loro la dote come prescritto, anzi non sarà male che di comune accordo aggiungiate ancora qualcosa al

prescritto;che certo Dio è saggio e sapiente […]”. Tuttavia è da notare che i musulmani sunniti credono che il

precedente versetto sia stato abrogato da un altro passo del Libro sacro (XXIII 1,5-7): “Beati i credenti che si

accontentano dei rapporti con le loro mogli e con le loro prigioniere. Non si può quindi biasimarli;mentre coloro che

desiderano altre donne oltre a queste sono trasgressori”.

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Sulla mut‘ ah gli hadit sono ricchi di insanabili contraddizioni che non sono state composte dagli

studiosi moderni. Su un punto,tuttavia, vi è piena concordanza : il contratto di mut‘ah57 deve

contenere tutti gli elementi essenziali e costitutivi del tradizionale nikah cui deve essere

esplicitamente apposto un termine preciso (ajal).Tale è la previsione degli artt. 1075-1077 del

codice civile della Repubblica Islamica dell’Iran.

§ 2.3. Gli impedimenti al nikah.

Secondo il diritto matrimoniale islamico vi sono diversi impedimenti al matrimonio tutti fondati sul

rapporto di parentela o sulla diversità di religione.

Innanzi tutto è proibito contrarre matrimonio con ascendenti e discendenti, le mogli di costoro

(anche dopo lo scioglimento del matrimonio), la sorella e le discendenti della sorella e del fratello,

le zie paterne e materne e le zie degli ascendenti, la suocera e le altre ascendenti della propria

moglie, ed infine la figliastra e le altre ascendenti della propria moglie (quest’ultimo gruppo solo

quando il matrimonio non sia stato consumato).E’ quindi permesso sposare le proprie cugine di

primo grado e la sorellastra del fratellastro (concepito cioè nell’ambito di un altro matrimonio).

Alla parentela di sangue come impedimento matrimoniale si affianca – ma con minore rilevanza- la

parentela di latte. Affinché dall’ allattamento derivi un rapporto di parentela di latte è sufficiente

che un bambino sia stato allattato anche per un brevissimo periodo nel corso dei primi trenta mesi di

vita.

E’ inoltre proibito il matrimonio simultaneo con due donne imparentate fra loro entro i gradi

proibiti di consanguineità, affinità58 o parentela di latte .

57 E’ il caso di precisare che il nikah al- mut‘ ah è chiaramente distinto dalla mut‘ ah intesa quale dono dato dal marito alla donna ripudiata : “O voi che credete! Quando sposate delle credenti e poi le divorziate prima di averle toccate non avete da osservare alcun termine, provvedetele quindi del necessario e congedatele di grazioso congedo” (Corano, XXXIII,49). 58 NEGRI AUGUSTO, “Legge Islamica e diritto islamico” in Conferenze del Centro Peirone, VIII, Torino, 1994, “[…]

è da rilevare come il grado di affinità in termini di impedimento al matrimonio si costituisca non solo in base ad un

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Per quanto concerne gli impedimenti derivanti dalla diversità di culto professata dai nubendi ,è

opportuno premettere che il diritto islamico classifica gli esseri umani dividendoli

fondamentalmente in quattro gruppi principali ed orinandoli in via gerarchica.

Al vertice di questo assetto piramide troviamo ovviamente i musulmani per nascita o conversione,

seguiti dai credenti delle religioni monoteistiche: cristiani ed ebrei, ma anche le ormai sparute

minoranze rappresentati dai sabei e dai samaritani, cioè i seguaci di religioni rivelate che credono in

un profeta e possiedono un libro sacro (ahl al-kitab).

Subito dopo si collocano i seguaci delle religioni politeistiche o delle comunità non riconosciute (i

bah’ai, ad esempio).

Alla base troviamo gli apostati che hanno abbandonato l’ Islam per aderire al credo di una delle

confessioni religiose sopraccitate59.

Sulla base della superiore classificazione il diritto islamico consente che un musulmano può sposare

qualsiasi donna, qualunque sia la sua religione, a condizione che non sia né politeista,né membro di

una comunità religiosa o apostata. Di converso, qualunque uomo non musulmano (kafir) che osi

matrimonio valido od in base ad una mera unione sessuale. Difatti è sufficiente essersi baciati in maniera poco casta

[…].”

59 Cfr. BORRMANS MAURICE, “Convergenze e divergenze tra la Dichiarazione dei Diritti dell’ Uomo del 1948 e le

recenti Dichiarazione dei diritti dell’ Uomo nell’ Islam”, in Rivista Internazionale dei Diritti dell’ Uomo , XII (gennaio-

aprile 1999),pag. 56: “[…]Sanzioni penali e civili affliggono il musulmano che abbandona l’ Islam. Nel diritto

musulmano classico , l’uomo che abbandona il credo musulmano e rifiuta di ritrattare deve essere messo a morte.

Quanto alla donna , deve essere imprigionata fino alla morte, a meno che non ritratti.Tuttavia se si eccettua il codice

penale del Sudan del 1991 (art.126), nelle legislazioni arabe moderne non esiste testo legale che preveda tale pena e la

pratica giudiziaria varia da un paese all’ altro.[…].Inoltre l’apostata perde la capacità matrimoniale, e se l’apostasia

avviene dopo il matrimonio , questo è da ritenersi sciolto. I figli vengono sottratti alla potestà dell’apostata;

i beni vengono confiscati a favore di soli eredi musulmani od, in assenza di questi, a favore dello Stato.In caso di

conversione all’ Islam se è l’uomo a diventare musulmano può tenersi la moglie non musulmana, a condizione che non

sia né politeista ,né membro di una comunità non riconosciuta, né apostata;se è la donna a diventare musulmana, il

marito musulmano non può continuare a vivere con lei a meno che anch’egli si converta all’ Islam. Le legislazioni arabe

non fanno sempre menzione dei principi sopraccitati. Questo non significa che siano caduti in disuso: esse rinviano al

diritto musulmano “classico” per le questioni che non vi siano regolamentate”.

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sposare una musulmana commette un atto contrario alla legge,quindi nullo, e perde la protezione

politica (dimma) dello stato musulmano che lo espone anche alla pena capitale.

Il matrimonio con un appartenente ad una confessione politeista o comunque non riconosciuta ,poi,

è severamente vietato.

§ 2.4. La poliginia.

Il sistema matrimoniale islamico può correttamente definirsi come monandrico, poliginico e

simultaneo.

L’istituto della poliginia rappresenta senza tema di smentite uno degli ambiti di maggiore confronto

e scontro all’interno del mondo islamico e nei suoi rapporti con le altre tradizioni giuridiche.

Una considerazione occorre premettere: esiste un solo versetto del Corano (IV,3) che autorizza la

poliginia e la cui esegesi è di prioritaria importanza al fine di affrontare con criterio scientifico

l’istituto de quo : “Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate fra di loro le donne che vi

piacciono, due , tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola,o le ancelle in

vostro possesso60: questo sarà più atto a non farvi deviare”.

E’ opinione comune fra i giureconsulti musulmani che il versetto in questione sia stato rivelato al

Profeta dopo la battaglia di Uhud contro i meccani avvenuta nel 625 d.C. e che si concluse con una

clamorosa quanto inaspettata disfatta di Maometto e dei suoi seguaci. Da quel drammatico episodio

bellico originarono notevoli problemi in ordine al sostentamento delle numerose vedove ed orfani.

A testimonianza di quanto sopra esposto depone anche la considerazione che i versetti

immediatamente successivi a quello sottoposto al nostro esame si intrattengono proprio sulle

questioni di tutela dei beni dei caduti in battaglia e sulla divisione degli stessi fra gli eredi.

60 E’ da osservare che il numero di quest’ultime è illimitato come illimitato è il numero delle donne che il Libro sacro

consente al Profeta di sposare: Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996: (XXXIII,50) e

(IV,3 e 25).

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Da ciò ne deriva che la poliginia islamica più che essere un istituto recepito dal coevo costume

tribale degli abitanti della penisola arabica sembra essere stato dettato da una contingente esigenza

di guerra.

Ma anche se si ritenesse fin troppo benevola l’interpretazione di questo fenomeno sopra prospettata

si dovrebbe comunque riconoscere che è comunque corretto interpretare il versetto coranico

sopraccitato alla luce dei principi di equanimità e giustizia che secondo i precetti islamici

dovrebbero governare le condotte del marito verso la moglie (o le mogli).

Difatti l’ inciso “[…] e se temete di non essere giusti con loro, una sola” potrebbe essere accostato

ad un altro versetto del Libro Sacro (IV,129): “Anche se non lo desiderate non potrete agire con

equità verso le vostre mogli; però non seguite in tutto la vostra inclinazione, sì da lasciarne una

come sospesa. Se trovate un accordo e temerete Iddio, Dio è misericordioso e clemente”. E’ in base

a quest’ultimo versetto che addirittura alcuni giureconsulti musulmani arrivano all’ affermazione

paradossale che la poliginia è di fatto interdetta61.

D’altronde nel mondo musulmano la forma più diffusa di poliginia è sempre stata quella diacronica:

più mogli successivamente o comunque due (o più) donne sposate a grande dis tanza di tempo. A

testimonianza di ciò basti una considerazione di apodittica evidenza: se la potestà maritale sulla

moglie può giungere fino al diritto di infliggere alla stessa pesanti punizioni corporali, di converso

per il summenzionato principio di equanimità e giustizia che deve parimenti regolare l’assetto dei

rapporti del marito nei confronti della moglie, questi è obbligato ad essere equo con ognuna. Ciò

significa che a ciascuna di esse deve garantire un adeguato e pari mantenimento e soddisfacimento.

61 Cfr. WELCHMAN L ,Women's Rights & Islamic Family Law: Perspectives on Reform, Zed Books ed.,2004 , pag 89

(traduzione a cura dell’ autore): “ […] Muhammad ‘Abduh (186-1905) teologo e giurista egiziano specifica che il

permesso a sposare fino a quattro donne è sottoposto prima ancora di temere l’ingiustizia tra le mogli, a quello di avere

paura di non essere giusti con gli orfani. Il versetto che premette la poligamia si riferisce esclusivamente all’ uomo che,

trovandosi ad essere tutore di un orfana,desideri sposarla, privandola del mahr ed impossessandosi del suo patrimonio.

Meglio è per lui sposare più donne piuttosto che togliere all’ individuo indifeso ciò che gli spetta. La regola che

permette la poliginia,avendo carattere eccezionale, non può essere interpretata estensivamente:è chiaro che con queste

premesse essa avrà minime possibilità di venire applicata[…]”.

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Condizione questa intuitivamente insostenibile per gli uomini appartenenti alle classi meno abbienti

e comunque onerosa anche per i più facoltosi. 62

§ 2.4.1. Le limitazioni alla poliginia.

Tutto ciò premesso bisogna ricordare che la maggior parte delle legislazioni dei moderni stati arabi

hanno tentato non già di proibire esplicitamente la poliginia ma di limitarla attraverso ostacoli posti

alla realizzazione l’effettivo esercizio del diritto coranico ad esso sotteso63.

Queste misure variano da un ordinamento statuale all’altro ma sono così sussumibili. Da un canto,

da parte di taluni legislatori si è copiosamente riconosciuto alla donna – conformemente alla

tradizione sciariitica- il diritto di inserire nel contratto matrimoniale delle clausole (al-Šurut)64 che

escludano un nuovo matrimonio, conferendole il diritto di chiedere il divorzio nel caso che detta

clausole condizionali non vengano rispettate dal marito (la c.d. limitazione convenzionale).

62 Cfr. MALLAT C., Islamic family law, Graham e Tratman ed.,1990 pag. 45 (trad. a cura dell’ Autore) : “[Difatti]

l’unanime esegesi dei precetti coranici non solo imputa al marito obblighi di equità in ordine al sostentamento

patrimoniale a favore delle mogli, ma impone allo stesso anche doveri anche di natura personale, ivi incluso quello di

soddisfare sessualmente in maniera eguale tutte le mogli.”(!).

63 Eccezioni opposte sono rappresentate dalle abolizioniste Turchia e dalla Tunisia ,da un lato, e,dall’altro,dal Regno

dell’ Arabia Saudita dove la poliginia è priva di restrizioni ed ampiamente adottata. Difatti la poliginia in Turchia è stata

abolita fin dal 1926 ed in Tunisia attraverso l’adozione nel 1956 della Magalla (codice dello statuto personale) che

vieta la poligamia giungendo ad affermare (art.18) che essa integra una fattispecie delittuosa.

“Tuttavia il tenore di quest’ articolo fu insufficiente ad indurre gli interpreti a considerare il matrimonio poligamico

invalido e privo degli effetti normalmente attribuiti dalla Šar‘ia.

Fu necessario che il legislatore intervenisse includendo espressamente il matrimonio poligamico tra quelli dichiarati

nulli (art.21)”. V. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del

Nord Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997 , pag.25. 64 Vedi supra : § 2.2.

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Dall’altro canto,poi,si è conferito alla donna il diritto di chiedere il divorzio secondo la legge nel

caso che il marito si risposi, anche in assenza di clausole contrattuali (la c.d. limitazione legale)65.

Infine, alcuni ordinamenti hanno sottoposto la possibilità da parte dell’ uomo coniugato di contrarre

nuovamente matrimonio ad una serie di condizioni dettate dalla prudente valutazione del qadi,

condizioni che dovrebbero scongiurare il timore di ingiustizia nel trattamento delle mogli.

Quest’ultima soluzione solleva enormi perplessità. Difatti, come può un terzo accertare- rectius,

prevedere- il futuro comportamento di un uomo nei confronti delle diverse mogli od addirittura

porre in essere -come vuole ad esempio il legislatore libico, quello irakeno e quello marocchino- un

pronostico in ordine alla capacità finanziaria dell’ uomo di sostenere l’onere del mantenimento

morale e materiale delle diverse mogli e dei figli che da queste potrebbero nascere.

In realtà, al di là di un insana retorica falsamente modernista, bisogna centrare l’analisi su un altro

aspetto.

L’esperienza del secolo precedente al nostro ha abbondantemente dimostrato che i tentativi di

ridimensionare la portata della poliginia nelle società musulmane è andata sempre di pari passo

rispetto ad un contenimento dell’ istituto del ripudio66.

Infatti il divieto della sola poliginia si risolverebbe in un fatale e più frequente ricorso alla cd.

poligamia successiva, che si ottiene ripudiando una moglie per sposare un’altra donna. Difatti, la

condizione della donna ripudiata non è certo più favorevole della moglie costretta a convivere con

un’altra donna sposata dal marito successivamente. Si pensi,ad esempio, alla circostanza che la

65 Ad esempio il legislatore egiziano (art. 11 della L. 25/1929 introdotto dalla L. 100/1985) ha previsto il diritto della

prima moglie di chiedere il divorzio se dal nuovo matrimonio del marito, da lei mai approvato neppure tacitamente, le

deriva un danno materiale o morale che rende impossibile la prosecuzione della vita matrimoniale. La medesima facoltà

è riconosciuta alla nuova moglie, alla quale l’uomo abbia tenuto nascosta la precedente unione. Sul punto v. MIR-

HOSSEINIZ, Marriage on Trial: a study of Islamic family law; I B Tauris ed., 2000 p.89. 66 Sul punto v. BORRMANS MAURICE, “Documents sur la famille au Maghreb de 1940 à nos jours (avec les textes

législatifs marocain, algérien, tunisien, et égyptien en matiére de Statut Personnel) ” in Oriente Moderno, LIX/1-5, Ed

Istituto per l’Oriente, Roma,1979.L’Autore si sofferma abbondantemente sull ’interconnessione dell’abolizione della

poliginia e del ripudio nell’ esperienza legislativa della Magalla tunisina.

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donna ripudiata- nella maggior parte dei casi- è indotta da ragioni di natura finanziaria a ritornare

presso la famiglia di origine con uno status sociale certamente deteriore. Inoltre la donna ripudiata,

trascorso il breve periodo di ritiro legale, perde ogni diritto successorio o di mantenimento nei

confronti del marito. Drammatica è anche la possibilità che alla donna ripudiata possano essere

sottratti i figli al termine del periodo di custodia67.

Infine, occorre rilevare che i legislatori che hanno scelto di porre il matrimonio poliginico sotto il

controllo preventivo del giudice sono stranamente reticenti circa il limite massimo di quattro mogli

che il diritto pone tradizionalmente all’esercizio della poliginia. D’altra parte , nel regolare la

procedura diretta ad ottenere l’autorizzazione a contrarre validamente un nuovo matrimonio in

costanza di uno precedente valido ed efficace, i moderni legislatori si riferiscono immancabilmente

ad un matrimonio con “un’altra” donna. A tal proposito qualcuno ipotizza che in tal modo si sia

posta un’opzione tacita per il modello biginico, suggerendo ai giudici l’opportunità di limitare a

massimo due il numero delle mogli68.

§. 2.5. Il ripudio (al- talaq) e le sue varianti.

Il diritto islamico “classico” riconosce fondamentalmente tre modi di scioglimento del legame

coniugale tra sposi viventi: l’annullamento del matrimonio (al-tafriq)69 davanti al quadi richiesto

67 Cfr. SCHACHT JOSEPH, An introdution to Islamic law, Clarendon Press, Oxford, 1964 (trad. it a cura di Paola

Guazzetti ed Enrico Lanfranchi in Introduzione al diritto musulmano, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli,Torino,1995)

pag 174: “Il diritto della madre nei confronti del figlio prevale su quello del padre (nasab) e lei ha diritto a prendersene

cura (hadana): se è maschio fino sette o nove anni, se è femmina fino alla maggiore età. Non si tratta di un dovere ma

solo di un diritto che la madre perde se conclude un matrimonio con una persona diversa da un mahram (parente entro i

gradi proibiti) del bambino: in questo caso e nel caso che la madre muoia, il diritto di hadana passa alla parente più

prossima, innanzi tutto della madre del bambino ed in secondo luogo del padre del minore. 68 Sul punto v. in particolare AN –NA’IM A, Islamic Family Law in a Changing World , Zed Books ed.,2002 pp. 71 e

ss.

69 Riconosciuto soltanto –a dir il vero- dalla scuola malikita, Si noti che il singolo musulmano può appartenere alla

scuola da lui prescelta o modificare la sua appartenenza senza alcuna formalità; può persino , per interesse o per

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dalla sposa quanto dallo sposo solo per gravi motivi (sterilità, impotenza, gravi maltrattamenti,);il

divorzio per mutuo consenso (al-khul‘) ed infine il ripudio unilaterale (al-talaq)70.

Quest’ultima forma di scioglimento o di sospensione (nel caso di ripudio revocabile, v. infra) del

vincolo coniugale –riconosciuta esclusivamente al marito- è un istituto previsto dal Corano il quale

ne sancisce rigorose e dettagliate modalità, oltre a tempi di effettuazione relativamente lunghi e

complessi.

Per la Šari‘ a, il diritto di ripudiare la moglie deriva all’uomo dalla conclusione del contratto di

matrimonio; esso non dovrebbe essere esercitato che in caso di necessità. Difatti secondo un hadit

del Profeta “Dio non ha permesso nulla che Gli fosse più odioso del ripudio”.

Il ripudio può assumere carattere di revocabilità (rag‘i) ovvero di definitività (ba’in) a seconda

dell’ espressione formale pronunciata dal marito. Esso è fondamentalmente un atto che non

necessita di motivazione alcuna ed è unilaterale e non recettizio: non occorre che la donna sia

presente al momento della sua pronuncia né che sia informata71. Non occorre neppure che sia

l’uomo personalmente a dare ripudio, potendo a tal scopo fornire mandato a chiunque.

Al fine di contenere di contenere l’uso sconsiderato del ripudio, e combattere il consequenziale

fenomeno dell’ instabilità matrimoniale delle tribù residenti nell’Arabia preislamica, l’ Islam limitò

qualsiasi ragione personale , con riferimento ad alcuni atti giuridici , adottare la dottrina di un’altra scuola rispetto a

quella che segue abitualmente.Questa procedura è detta taqlid. In ogni caso , egli dovrebbe seguire ogni condizione

della dottrina prescelta fino alla conclusione dell’atto e non dovrebbe combinare le dottrine di più scuole (talfiq).I

legislatori modernisti hanno ampiamente disatteso quest’ultima regola.

70 Cfr. ESPOSITO JOHN L., Women in Muslim family Law, Syracuse University Press, New York, 1982, pag. 55

(traduzione a cura dell’ autore): “ […]Il matrimonio può essere sciolto anche dal li‘an: il marito afferma sotto

giuramento che la moglie ha avuto rapporti sessuali illeciti o di non essere il padre del figlio che le è nato; la moglie, se

si presenta l’occasione, afferma sotto giuramento il contrario.[…]”

71 Va segnalato che accanto al fenomeno dei ripudi occulti vi è quello dei ripudi non avvenuti ma registrati per aggirare

gli ostacoli frapposti alla poliginia.

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a tre il numero dei ripudi che il marito poteva pronunciare contro la propria moglie. Il terzo ripudio

è quindi irrevocabile e definitivo 72.

Tuttavia assai presto accanto alla forma coranica di ripudio -definita non a caso sunni

(tradizionale)- le scuole coraniche ne introdussero un’ altra che non conosceva i limiti imposti dal

Libro sacro73. Secondo tale costruzione giuridica il ripudio può essere pronunciato anche quando la

donna è in periodo mestruale, o dopo avere avuto rapporti sessuali con lei, o durante il periodo di

continenza ( ‘ idda ) od infine proferendo in una sola volta , anziché ad intervalli inframmezzati da

lunghi periodi, la triplice formula che lo rendeva irrevocabile.

L’uso del triplice ripudio è stato fatto segno di rigetto da parte dei moderni legislatori.

Parimenti sono state introdotte delle riforme atte a garantire che la dichiarazione di ripudio sia

accompagnata da una corrispondente volontà liberamente formatasi. Così il ripudio dato con

espressioni metaforiche è valido solo se si riesce a provare con evidenza la volontà di ripudio,e più

in particolare se l’uomo conferma che la propria intenzione era proprio quella di provocare lo

scioglimento del matrimonio. E’ poi generalmente vietato il ripudio posto in essere dall’ ubriaco,

dall’incapace per infermità di mente od alterazione emotiva.

Inoltre, il ripudio c.d. condizionato ( ta’liq al- talaq) per cui il ripudio ha automaticamente effetto al

verificarsi di un dato evento, così come il ripudio sottoposto a termine sono stati decisamente

proibiti.

72 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996 (II,229-230): “Il ripudio vi è concesso due volte

: poi dovete o ritenerla con dolcezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza[…]. Dunque se uno ripudia per la terza

volta la moglie essa non potrà più lecitamente tornare da lui se non sposa prima un altro marito; il quale se a sua volta la

ripudia , non sarà peccato se i due coniugi si ricongiungeranno, se pensano di potere osservare le leggi di Dio. Questi

sono i termini di Dio che Egli dichiara a uomini che comprendono .”.

73 Il ripudio per essere sunni doveva esere unico e pronunciato in momenti ben precisi ed in particolare nell’intervallo

tra due successivi flussi mestruali, durante il quale non vi fosse stato alcun rapporto tra i coniugi. Non era inoltre

possibile ripudiare due volte la donna durante un unico periodo mestruale. V. sul punto SANTILLANA DAVID,

Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardi anche al sistema shafiita, Istituto per l’oriente, Roma vol. II,

pagg. 77-78.

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Tuttavia, le riforme più incisive sono state quelle che hanno attratto l’istituto del ripudio nella sfera

del controllo –più o meno incisivo- del giudice. In tal caso, muovendo le fila da un procedimento

esegetico che si appunta su un preciso riferimento coranico che obbliga ad una procedura di

tentativo obbligatorio di conciliazione su base arbitrale 74 in caso di istanza di divorzio, i legislatori

dei moderni stati arabi sono giunti ad affermare che il giudice deve sempre essere informato dell’

avvenuto ripudio e che questo può essere registrato solo dietro sua autorizzazione. Dal canto suo la

registrazione, oltre a fornire prova certa in ordine al ripudio stesso, garantisce anche che la donna

venga informata dell’ avvenuto ripudio attraverso una vera e propria procedura di notifica.

Nella sentenza il giudice fissa inoltre gli obblighi che dallo scioglimento del matrimonio derivano

ai coniugi: il mantenimento durante il ritiro legale (‘idda)75, gli alimenti e l’affidamento dei figli ed

il diritto di visitarli.

In alcuni ordinamenti positivi al giudice è attribuita anche il potere di accertare l’esistenza di un

eventuale danno ingiusto derivato alla donna dal ripudio e quindi condannare il ripudiante a

risarcirlo.

Tale forma di risarcimento è –si badi bene- da tenere distinta dall’ istituto del diritto islamico del

dono di consolazione (al-mut‘a)76.Quest’ultimo trova riferimento nel Corano (II,237) dove parlando

del ripudio è detto “[…] Non dimenticate mai la generosità nei rapporti tra voi, ché Dio osserva ciò

74 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996: (IV, 35) “ E se temete una rottura fra marito e

moglie, nominate un arbitro dalla parte di lui e dalla parte di lei , e se i due coniugi desiderano riconciliarsi , Dio

metterà armonia fra di loro ,poiché Dio è sapiente e di tutti ha notizia”.

75 Cfr. PASQUINI ROSARIO, La famiglia nell’ ordinamento islamico della società, Ed. Del Calamo,Milano, 1997,pag

84: “Ogni scioglimento di un matrimonio consumato, anche solo attraverso una del tutto indisturbata intimità coniugale,

comporta per la donna un periodo di ritiro legale (‘idda) che la moglie dovrà trascorrere prima di risposarsi. La ‘idda di

una donna in gravidanza dura fino alla nascita del bambino; se la donna non si trova in stato di gravidanza essa dura

quattro mesi e dieci giorni;in tutti gli altri casi (anche dopo un rapporto sessuale al di fuori del matrimonio) il periodo

dura l’arco di tre cicli mestruali. Infine se la donna non è mestruata la ‘idda avrà la durata di tre mesi.

76 A sua volta da non confondersi con il matrimonio “di piacere” o a termine, oggetto di trattazione. V. § 2.3.

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che voi fate”. Da tale precetto tradizionalmente i giuristi musulmani hanno sempre dedotto-

indipendentemente dalla scuola di appartenenza- che era meritorio (ma non obbligatorio) attribuire

alla donna un dono di consolazione che avesse carattere risarcitorio. V’ è da notare che alcuni

legislatori arabi (segnatamente quello siriano, kuwaitiano e marocchino) nel sancire l’obbligatorietà

del mut‘a, ne hanno esaltato anche il carattere previdenziale a favore della donna e di deterrenza a

carico dell’uomo in ordine ad un esercizio immotivato od arbitrario del diritto di ripudio.

Inoltre, occorre ricordare che una variante di particolare rilevanza al tradizionale al-talaq ,elaborata

nel corso dei secoli dai fuqaha ed abbondantemente utilizzata nella prassi, è rappresentata dal tafwid

, ossia dal conferimento alla moglie del potere di ripud iare se stessa.

Infine, per dovere di esaustività è necessario ricordare l’hul‘, ossia la possibilità conferita alla donna

di richiedere al marito il suo ripudio dietro il versamento di un corrispettivo.Di solito il compenso

attribuito al marito per il ripudio consiste nella restituzione del mahr già versato. Non è tuttavia

escluso che la donna sia costretta a rinunziare alla custodia dei figli od ad accollarsi il loro

mantenimento. Da ultimo risulta interessante porre in evidenza che i legislatori contemporanei

hanno assai raramente recepito alcune tipologie di ripudio quali lo zihar o la ila’: nella prima il

marito paragona la moglie ad una donna a lui proibita, dicendo per esempio “tu sei per me come la

schiena (zahr) di mia madre”; nella seconda il marito giura di astenersi da ogni rapporto sessuale

con la moglie per quattro mesi.

§ 2.6. Il divorzio (al-tatliq)77.

Al potere unilaterale dell’ uomo di ripudiare la moglie il diritto islamico fa corrispondere la facoltà

concessa alla donna di chiedere al giudice il divorzio.Tale facoltà, di regola circoscritta entro stretti

limiti, è pressoché sconosciuta nella tradizione giuridica hanafita. 77 E’ bene precisare che nel presente capitolo con il termine divorzio si indicheranno indistintamente tutti i diversi tipi di

scioglimento del matrimonio ottenuti , per iniziativa di uno di coniugi, attraverso il ricorso al giudice.

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Difatti, l’unica causa di divorzio riconosciuta da tutti i fuqaha’,compresi gli hanafiti,è rappresentata

da tutti quei vizi che rendono impossibile il rapporto sessuale (castrazione,evirazione,impotenza ma

non sterilità). Una seconda causa generalmente ammessa è il mancato pagamento di quanto dovuto

alla donna a titolo di mantenimento. Tale regola è caratteristica del rito malikita ,

sciafiita ed hanbalita ma sconosciuta a quello hanafita che, a differenza degli altri, nega alla donna

perfino il diritto di agire in giudizio per ottenere il divorzio nel caso in cui il marito sia affetto da

patologie psichiatriche tali da rendere impossibile la vita matrimoniale.

L’assenza prolungata ed ininterrotta del marito è unanimemente ammessa come causa di

scioglimento del matrimonio dai codici attualmente in vigore , sulla base del presupposto che la

lontananza dell’ uomo cagioni alla donna un danno che riveste eminentemente un carattere non

tanto economico (difficoltà al mantenimento proprio e dei figli) quanto morale ed affettivo. Difatti ,

la donna, privata dalla compagnia del marito può trovarsi esposta a tentazioni adulterine 78.

Meno diffusa delle precedenti è un ultima causa di divorzio ripresa dalla tradizione malikita: il

mancato pagamento di quella parte di sadaq che si ci era obbligati a pagare alla stipula del contratto

di matrimonio e comunque prima della sua consumazione 79.

78 Cfr. BORRMANS MAURICE, “Documents sur la famille au Maghreb de 1940 à nos jours (avec les textes législatifs

marocain, algérien, tunisien, et égyptien en matiére de Statut Personnel) ” in Oriente Moderno, LIX/1-5, Ed Istituto per

l’Oriente, Roma,1979. “Secondo la tradizione malikita, successivamente adottata dal legislatore ottomano, la moglie

può ottenere la dichiarazione di morte presunta dopo quattro anni dalla denuncia della scomparsa ed essa deve rispettare

prima di contrarre nuove nozze il ritiro legale della vedova (tre mesi e dieci giorni) e non già quello della divorziata (tre

cicli mestruali).” Ben più deteriore è la condizione della donna dell’ assente secondo il diritto hanafita che rimane legata

al marito fino a che non venga dichiarata la morte presunta dello stesso. Cosa che non può accadere prima di

novant’anni dalla sua nascita”.

79 Cfr. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA, “Il diritto di famiglia islamico: tra modernità e tradizione” in Conferenze

del Centro Peirone, XII, Torino, p.18:“E’ da notare la specuarità di questa ipotesi di scioglimento del matrimonio

rispetto a quella prevista nel fiqh hanafita riguardo lo scioglimento del matrimonio per inadeguatezza economica dello

sposo.”

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Inoltre, in alcune legislazioni statuali il divorzio può arrivare a sanzionare alcune condotte del

marito particolarmente riprovevoli quali il tradimento del coniuge (Irak, Ageria ,Tunisia e Marocco)

oppure l’ usuale ubriachezza (Yemen).

Tuttavia bisogna registrare la moderata tendenza da parte di tutti i moderni codificatori ad

ammettere il divorzio come rimedio generale utilizzabile per lo scioglimento del matrimonio 80.

A tal fine i legislatori hanno recepito e diversamente combinato due rimedi caratteristici della

scuola malikita: il divorzio per danno (lil-arar) e quello per dissenso (lil- Šiqaq).

Il primo era stato sviluppato a partire dal principio generale per cui ogni danno va riparato: se la

donna ritiene di patire un danno morale e/o materiale cagionatole dal marito, può ricorrere al

giudice il quale, ottenuta la prova del danno, pronuncia il divorzio.

L’altra procedura è di elaborazione coranica (IV, 35) ““ E se temete una rottura fra marito e moglie,

nominate un arbitro dalla parte di lui e dalla parte di lei , e se i due coniugi desiderano riconciliarsi ,

Dio metterà armonia fra di loro ,poiché Dio è sapiente e di tutti ha notizia”. La procedura

conciliativa proposta dal Corano, è stata successivamente elaborata dai giuristi malikiti in un vero e

proprio arbitrato, integrato in una procedura giudiziaria.

E’ da notare che gli arbitri, se non riescono a ristabilire l’armonia fra i coniugi decidono lo

scioglimento del matrimonio, valutando le cause del dissidio e sanzionando conseguentemente il

coniuge colpevole.La decisione degli arbitri è definitiva ed inappellabile:il giudice deve senza meno

conformarsi ad essa.

Per il diritto islamico la domanda di divorzio può essere proposta di regola dalla sola

donna.Tuttavia è stato sempre riconosciuto all’ uomo , già titolare del potere unilaterale della

80 Come gia precedentemente ricordato (v. supra 2.4.1 ) un esempio di radicale riformismo in questa direzione è

rappresentata indubbiamente dalla Magalla tunisina che, abolendo il ripudio, ha ammesso marito e moglie su un piano

di parità per quanto concerne il divorzio giudiziale (artt.29-33).Quest’ultimo, d’altronde rappresenta in

quell’ordinamento l’unica modalità di scioglimento del vincolo coniugale.

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dichiarazione di ripudio, la legittimazione ad avvalersi del rimedio divorziale ogni qual volta lo

ritenesse un rimedio utile alla tutela dei propri interessi81.

Infine risulta interessante porre in evidenza che i legislatori contemporanei hanno raramente

recepito alcune tipologie arcaiche di divorzio come il li‘an o giuramento imprecatorio.

Secondo quanto stabilito dal Corano 82 il marito attesta quattro volte in nome di Dio che la moglie ha

commesso fornicazione, e quindi invoca su di sé la maledizione di Dio se ha mentito; la donna

attesta per quattro volte in nome di Dio che il marito mente, e quindi invoca su di sé la maledizione

di Dio se l’uomo ha detto il vero.Il giuramento imprecatorio, quindi , oltre a sciogliere il vincolo

coniugale sortisce l’effetto di un vero e proprio disconoscimento di paternità, che anzi spesso non

può essere ottenuto altrimenti.

§ 2.7. I rapporti patrimoniali tra i coniugi . Per quanto riguarda la questione dei rapporti patrimoniali tra coniugi, nel diritto islamico sussiste il

regime della netta separazione dei beni.

Parte della dottrina sostiene, però, che, tramite l’apposizione di una clausola, gli sposi possano

concordare la comunione degli acquisti.

Inoltre, le leggi musulmane consentono l’istituto della donazione tra

coniugi.

81 Cfr. UTHMAN M., The essential of Islamic family law, Dar al atqua ed.,2003 p.34 (traduzione a cura dell’autore) :

“[…] Un tipico esempio di istanza di divorzio presentata dal marito era quella in cui egli , avvedendosi di un vizio

attinente alla capacità di assolvere agli intimi doveri coniugali, non ricorreva al ripudio. Infatti nel caso in cui egli,

scoprendo il difetto prima della consumazione avesse ripudiato la moglie, avrebbe dovuto pagare la metà del mahr

secondo le regole generali. Chiedendo invece il divorzio, e dimostrando che il rifiuto della moglie non era immotivato, a

nulla era tenuto e gli veniva restituito quanto già pagato.”.

82 Cfr. BAUSANI ALESSANDRO, Il Corano, Ed. B.U.R.,Milano 1996: (XXIV,6-9) : “E coloro che accusano le loro

donne, e poi non hanno testimoni altri che se stessi , dovranno comprovare l’accusa con quattro attestazioni ciascuno,

fatte in nome di Dio, attestanti che dicono il vero. E la quinta attestazione sia che la maledizione di discenda su di lui, se

ha mentito. Ed alla donna sarà risparmiata la punizione se attesterà con quattro attestazioni fatte in nome di Dio che il

marito mente, e la quinta sarà che l’ira di dio scenda su di lui, se il marito ha detto il vero”.

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§ 2.8. Il diritto matrimoniale islamico ed il regime dei rapporti personali fra

coniugi nell’ordinamento italiano.

Si è posto recentemente il problema del rapporto tra gli istituti del matrimonio islamico che

prevedono la poliginia e/o lo scioglimento del vincolo matrimoniale ad nutum con i principi

fondamentali cui è ispirato l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento dove il matrimonio ha

una sua base genetica consensuale e la sua rimozione può avvenire soltanto a seguito di una

pronuncia giudiziale e per una delle cause espressamente previste dalla legge.

Si è affermato, in proposito da taluno che, prevedendo il matrimonio islamico, la poligamia ed il

ripudio, nessun effetto esso potrebbe avere nell’ordinamento italiano, perchè tali caratteristiche

contrastano con l’ordine pubblico ed il buon costume trattandosi di matrimonio privo del requisito

dell’assunzione dell’obbligo reciproco di fedeltà, da ritenersi essenziale per la sua giuridica

configurabilità nel nostro ordinamento, sì da impedire la produzione di qualsiasi effetto, anche

indiretto, proveniente da esso.

Le norme che vengono in considerazione in proposito sono l’art. 31 delle nostre Preleggi ed, a

partire dal 1° settembre 1995, l’art. 16 della legge n. 218/95.

L’esame della questione va preceduto da alcune considerazioni preliminari.

La nostra Corte di legittimità ha avuto più volte modo di affermare che, a mente dell’art. 115 c.c. ed

in armonia con quanto previsto dagli artt. 17 e 28 delle Preleggi e 50 dell’ordinamento dello stato

civile, il matrimonio del cittadino italiano all’estero secondo le forme ivi stabilite e sempre che

sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dal nostro

ordinamento, è immediatamente valido ed efficace anche in Italia, indipendentemente

dall’osservanza delle norme italiane riguardanti le pubblicazioni matrimoniali, che possono dar

luogo soltanto ad irregolarità suscettibili di sanzioni amministrative e la trascrizione nei registri

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dello stato civile, la quale ha natura meramente certificativa e di pubblicità-notizia e non costitutiva

del vincolo83.

Dall’affermazione di principio secondo cui la poliginia e/o il ripudio, quali caratteristiche e

connotati del matrimonio islamico, sono contrari all’ordine pubblico interno e al buon costume, non

è possibile trarre automaticamente la conseguenza che esso non dispieghi validità nel nostro

ordinamento, semprechè il matrimonio sia stato contratto secondo le forme stabilite dalla lex loci e

che sussistano i requisiti di stato e capacità dei contraenti.

In tal caso, infatti, il giudice italiano non viene a riconoscere effetti giuridici ad un atto nullo ma

accertata la validità formale e — nei limiti precisati — sostanziale di esso, si limita a rilevare

l’estraneità, ai fini della validità dello stesso matrimonio, sotto il profilo del contrasto con i principi

posti dall’art. 31 delle Preleggi ed dell’art. 16 della legge n. 218/95, della poligamia e del ripudio

unilaterale di uno dei coniugi.

Ma, a parte questa impostazione, l’insostenibilità della tesi secondo cui ad un matrimonio contratto

da cittadino italiano all’estero, nel rispetto delle forme ivi stabilite ed in presenza delle persone, non

potrebbe riconoscersi alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, ove la lex loci preveda

caratteristiche dell’istituto matrimoniale contrastanti con i principi fondamentali del nostro

ordinamento, discende dal principio del c.d. favor matrimonii, alla cui stregua l’atto non perde

validità se non sia stato impugnato per una delle cause previste dagli artt. 117 e segg. c.c., nelle

quali, peraltro, non può essere compresa quella del matrimonio contratto secondo un rito che

preveda la poligamia e/o lo scioglimento del vincolo per volontà unilaterale di uno dei coniugi, non

traducendosi ciò in un vizio del consenso o comunque in un vizio genetico del matrimonio.

Nè assume rilievo l’argomento che, nell’ipotesi di matrimonio islamico ed in ogni caso contratto

secondo una legge che ammetta la poligamia ed il ripudio unilaterale, l’atto non potrebbe essere

83 Cfr. Cass. n. 9578/93 in "Rep. Foro Ital.", 1993 voce "matrimonio" n. 138; idem n. 569/75 in "Foro Ital.", 1976, I,

794; idem n. 1298/71 in "Foro Ital.", 1971, Rep. voce "matrimonio" n. 115.

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qualificato come matrimonio nel senso voluto dal nostro ordinamento perché il vizio atterrebbe al

consenso stesso manifestato dai nubendi, è sufficiente osservare che il favor matrimonii e quindi

della sua validità interinale non soffre eccezioni neppure in altre situazioni, che pur configurano la

medesima incompatibilità ontologica con l’ordine pubblico ed attengono, in diversa misura, alla

validità del consenso, quali il matrimonio contratto in violazione degli artt. 84, 86, 87 e 88 c.c., in

ipotesi, cioè, espressamente previste dall’art. 117 c.c., come motivo di impugnazione del negozio

matrimoniale e con la conseguente necessità di una pronuncia di nullità o di annullamento.

Né, inoltre, potrebbe obiettarsi che la contrazione di un matrimonio secondo il contenuto della legge

islamica caratterizzato dalla possibilità dello scioglimento del vincolo secondo la volontà unilaterale

di ciascuno dei coniugi verrebbe a configurare un negozio matrimoniale difforme dal modello tipico

del matrimonio tipizzato dal nostro ordinamento interno e quindi inefficace sotto il profilo degli

effetti che esso è destinato a produrre.

La nostra giurisprudenza, invero, nell’affermare la necessità di un preventivo riscontro dei requisiti

minimi per la giuridica configurabilità del matrimonio contratto all’estero, tali requisiti ha

chiaramente individuato nella manifestazione della volontà, da parte di due persone di sesso

diverso, ad un ufficiale celebrante, senza alcun riferimento ad altri profili riguardanti l’ordine

pubblico84

In altre parole, anche il mero atto di celebrazione all’estero del matrimonio del cittadino, nel

rispetto delle forme previste dalla lex loci e sussistendo i requisiti di stato e capacità delle persone,

ben può costituire prova della qualità di coniuge e dell’esistenza di un matrimonio immediatamente

efficace nel nostro ordinamento, pur quando si tratti di far valere un diritto ricollegato

indirettamente a detta qualità85.

Non sembra superfluo aggiungere, in proposito, che la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi

sugli effetti successori in Italia di un matrimonio islamico contratto da cittadino italiano all’estero,

84 Corte Cassazione n. 1304/90 in "Rep. Foro Ital.", 1990 voce "matrimonio" n. 150 85 Cass. n. 3599/90 in "Foro Ital.", 1990, I, 2177.

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ha ritenuto che la circostanza che la legge islamica consenta la poligamia e preveda l’istituto del

ripudio, non impedisce, sotto il profilo dei limiti dell’ordine pubblico e del buon costume di cui al

previgente art. 31 disposizioni sulla legge in generale, che la cittadina islamica (nella specie:

somala), la quale abbia contratto con un italiano matrimonio nel proprio Paese secondo le forme

previste dalla lex loci, faccia valere dinanzi al giudice italiano i diritti successori derivanti dal

matrimonio medesimo.

A tale principio si è attenuto anche il Ministero di Grazia e Giustizia nella circolare n.

11/54/FG/3(86) 1395 del 4 febbraio 1987, emanata per impartire direttive agli uffici di stato civile

sulla trascrizione di matrimoni islamici.

Al contrario, però, di quanto si è in precedenza rilevato, è lecito pensare, invece che il limite

dell’ordine pubblico impedisca di riconoscere effetti nell’ordinamento italiano, in forza dell’art. 16

della legge n. 218/95 e fino ad ieri in forza dell’art. 31 delle Preleggi, al ripudio unilaterale

dell’altro coniuge che venga ad incidere, nell’ordinamento di origine, sul matrimonio islamico86 i

cui effetti sono destinati a ripercuotersi nel nostro ordinamento ovvero al successivo matrimonio

contratto in costanza del primo.

86 In tal senso, cfr. Trib. Milano, 11 marzo 1995 in "Foro Ital. Rep." 1996, voce "Diritto internazionale privato n. 46)

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CAPITOLO III

LA RIFORMA DEL DIRITTO MATRIMONIALE DEL REGNO DEL

MAROCCO TRA TRADIZIONE E MODERNITA’.

§ 3.1. Una prospettiva diacronica sull’ evoluzione del diritto di famiglia marocchino.

In Marocco, durante gran parte del secolo precedente, l’amministrazione del diritto musulmano si è

svolta secondo le forme tradizionali della scuola malikita.

Alcune questioni di diritto civile, commerciale e penale furono sottratte alla competenza dei qadi,

mentre le tribù berbere, conformemente ad una plurisecolare tradizione, continuarono a seguire il

proprio diritto consuetudinario, escludendo la Šari‘a persino nella materia del diritto di famiglia e

delle successioni. L’applicabilità di tali consuetudini era stata confermata da un dahir (decreto) del

1914, ma il fondamento giuridico formale dei tribunali di diritto consuetudinario fu posto solo con

un dahir del 1930 87.

87 Un dahir del 1938 regolò la tutela dei minori e, su ispirazione della dottrina hanafita, introdusse informa mitigata

provvedimenti di legislazione modernista, v. SHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli, 1995,

p. 115 ss.

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Il Regno del Marocco, raggiunta l’indipendenza nel 1956, avviò speditamente un’ opera di

codificazione delle regole della Šari‘a in materia di statuto personale.

Il codice dello statuto personale venne promulgato attraverso cinque successivi decreti, nel

linguaggio giuridico marocchino dahir, tra il 1957 ed il 195888.

Il titolo dato al processo di codificazione (Mudawwana) tradì immediatamente la volontà da parte

del legislatore di mantenersi fedele al diritto di rito malikita seguito tradizionalmente dal Paese.

Mudawwana, difatti, significa “raccolta” e la terminologia adottata dal compilatore denotò uno

spirito riformatore alquanto contenuto e modesto. Ciò ha rivelato inequivocabilmente il peso

preponderante avuto dai fuqaha all’interno della commissione incaricata di predisporre il progetto

di codificazione. Nonostante l’evoluzione sociale ed economica vissuta dal Marocco negli ultimi

quarant’anni, la Mudawwana è rimasta n vigore pressoché inalterata:gli emendamenti proposti

erano stati più volte respinti in Parlamento e tre successivi progetti di riforma ,rispettivamente del

1961, del 1965 e del 1981 erano rimasti privi di seguito.

D’altronde la stessa giurisprudenza aveva mostrato segni di spiccato conservatorismo, denotando

uno spirito assai poco incline a sviluppare nuove soluzioni alle insorgenti questioni sociali

riguardanti il rapporti coniugali e la dignità della donna.

Tuttavia, il 10 settembre del 1993, sorprendendo gli osservatori internazionali, il Re Hassan II

promulga diversi dahir con cui vengono introdotte innovazioni significative non solo al codice dello

statuto personale, ma anche al codice delle obbligazioni e dei contratti ed al codice di procedura

civile.Tali interventi intesero migliorare la condizione della donna relativamente ai crediti di

mantenimento che vantava nei confronti del marito ed alla procedura di ripudio. Gli intenti

riformatori del defunto monarca si espressero successivamente con il Plan d'Action National pour

l'Intégration de la Femme au Développement (Panifd). Questo è un documento elaborato dal

88 I primi due, in vigore dal 01.01.1958 sono stati promulgati rispettivamente il 22.11.1957; gli altri entreranno in vigore

dalla data di promulgazione, avvenuta rispettivamente il 25.01.1958, il 20.02.1958 ed il 03.04.1958.

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governo marocchino nel 1998 e che ha impresso una dinamica nuova alle politiche per la

promozione della donna. Per la prima volta infatti si è ricorso alla nozione di "genere" per

identificare i meccanismi sociali che sono alla base delle discriminazioni e delle disuguaglianze che

opprimono le donne. Inoltre, per l'elaborazione del progetto e per stabilire le finalità del Panifd, si è

ricorsi- per la prima volta nella storia del Marocco- alla collaborazione delle Organizzazioni non

governative.

In seguito all'adozione del piano è nato un dibattito che ha coinvolto la società civile, la classe

politica ed il mondo religioso.

Gli esiti di tale dibattito sono stati raccolti alla morte di Re Hassan II -avvenuta il 23 luglio 1999-

dal figlio e successore Mohammed VI intronizzatosi nello stesso giorno.

I sentimenti modernizzatori del nuovo monarca si sono manifestati immediatamente all’atto della

pronunzia del discorso di insediamento nella carica ,sottolineando la cura che l’azione della Casa

reale aveva intenzione di intraprendere verso la tutela e promozione della dignità della donna in

seno alla famiglia ed alla società.

Il primo passo viene compiuto anche se in via del tutto indiretta attraverso l’istituzione della

Commission nationale pour la moralisation publique .Questa avvia una campagna per "la

promozione dei valori che sono alla base della moralizzazione della vita pubblica". Questa

iniziativa, che ha avuto inizio il 18 aprile 2002, ha mirato in primo luogo alla sensibilizzazione

dell'opinione pubblica su temi quali il senso civico, la trasparenza, il rispetto della legge, l'utilizzo

corretto delle risorse nazionali, il rispetto delle differenze (anche tra uomini e donne), attraverso

l'organizzazione di convegni e conferenze, la distribuzione di opuscoli, la trasmissione radio-

televisiva di messaggi promozionali.

Ma il punto di svolta avviene il 10 Ottobre 2003: il Re Mohamed VI, in occasione dell'apertura

della II sessione legislativa del Parlamento, presentava il progetto di riforma della Mudawwana col

fine dichiarato di adottare una legislazione più moderna in materia di diritti e dignità delle donne.

Precedentemente il Re aveva nominato una commissione consultiva con l'incarico di elaborare il

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progetto di riforma del Codice. Il Re annunciava, inoltre, che il Parlamento, per la prima volta,

sarebbe chiamato ad esprimersi sulla materia dello statuto personale e delle successioni , ad

esclusione delle sole disposizioni a carattere religioso, che sono di competenza reale.

Si perviene così alla emanazione della Legge di riforma della Mudawwana n. 03/70 promulgata

con il dahir n. 1-04-22 del 3 febbraio 2004 pubblicato in lingua araba sul Bollettino Ufficiale del

Regno del Marocco,edizione generale, n. 5184 del 5 marzo 2004.

Il nuovo codice,composto da sette libri e da quattrocento articoli ,è entrato in vigore l’ 8 marzo

2004.

§ 3.2. Le principali riforme sul piano degli aspetti personali del contratto di matrimonio (al-nikah

) 89.

L’ art. 4 della riformata Mudawwana recita che “il matrimonio è un contratto legale per il quale un

uomo ed una donna acconsentono ad unirsi in vista di una vita coniugale comune e duratura” e che

essa fra l’altro “ha come obiettivo la […] costituzione di una famiglia stabile, sotto la direzione di

entrambi i coniugi”90. E’ indubbio che la portata della presente disposizione appare davvero una

rivoluzione copernicana nella considerazione dell’istituto matrimoniale. Viene espunta, infatti la

figura del capo famiglia ed agli sposi viene riconosciuta la stessa autorità all’interno del nucleo

familiare. D’altronde tale disposizione fa da contraltare rispetto all’art. 51 dove viene proclamata

89 Per la disciplina normativa anteriore alla promulgazione del nuovo testo v. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a

cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed.

Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997,pag. 22: “[…] Il matrimonio fonda la famiglia;capo della famiglia è l’uomo

(art.1).Il contratto è concluso mediante lo scambio del consenso tra il marito, od il suo rappresentante , ed il tutore

matrimoniale della sposa (art.11) è da considerarsi suo mandatario. Lo scambio del consenso ha luogo alla presenza di

due ‘adul, che ricevono le dichiarazioni e redigono un atto destinato a fornirne la prova (artt.5 comma 2,41-43): esso

sarà sottoposto al giudice per il visto, dopo di che verrà registrato nell’apposito registro del Tribunale.Copia dell’atto è

trasmesa allo stato civile […]. Soltanto se maggiorenne od orfana la sposa può concludere direttamente il contratto,

oppure designare come tutore (wali) la persona di sua scelta (art. 12 comma 4). Anche se il contratto è stipulato dal

tutore,il consenso della sposa al matrimonio è necessario.[…] Il tutore non può costringere ala donna al matrimonio

(art.12) né opporsi immotivatamente al contratto (artt. 13,23).[…]”.

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l’uguaglianza di diritti e di doveri dei due consorti in ordine alla gestione degli affari di famiglia,

dei figli e della pianificazione familiare. La posizione della donna,quindi, se da un lato viene ad

essere privata di certezza in ordine all’obbligo di mantenimento del marito , dall’ altro viene esaltata

in quanto non è più richiesta alla moglie quella soggezione stabile alla potestà maritale che - sulla

scorta del tradizionale diritto islamico- era la condizione posta per l’assolvimento da parte del

marito di precisi obblighi di sostentamento nei suoi riguardi.

Una seconda osservazione discende dall’esegesi dell’ art. 4 della riformata Mudawwana: l’avere

posto l’accento sul consenso dei coniugi ([…] acconsentono ad unirsi[…]) deve infatti essere posto

in relazione alla radicale riforma della tutela matrimoniale (al-wilaya) esplicitata dall’ art.24.

Secondo quest’ultima disposizione, infatti, la wilaya diviene un diritto esclusivo della donna del cui

esercizio la stessa diviene titolare al raggiungimento della maggiore età (18 anni)91.

Rimane ferma la facoltà discrezionale in capo alla donna di farsi comunque assistere nella stipula

del contratto di matrimonio dal proprio tutore, da lei stesso scelta e che può essere il padre od uno

dei suoi agnati più prossimi.

Al raggiungimento della maggiore età ,inoltre, si acquisisce la capacità matrimoniale (art.19) che

viene così agganciata ad un criterio di precisa scelta politica di consolidamento della dignità della

donna (e di protezione dell’infanzia) svincolata da retaggi tradizionali che la volevano legata alla

presunzione di maturità sessuale92.L’art. 20 prevede i casi in cui è possibile ottenere una dispensa

per l’età. Tale dispensa –valevole sia per gli uomini che per le donne- è sottoposta

all’autorizzazione del giudice per la famiglia. Quest’ultimo redige una decisione motivata in cui

spiega l’interesse e le ragioni che rendono ragione alla concessione della dispensa .Il matrimonio, 90 (n.d.r .: sottolineatura a cura dell’autore). 91 L’art. 24 estende quindi il contenuto del previdente art. 1.2.4 che accordava alle sole donne orfane ma maggiorenni il

diritto di concludere da sole il proprio matrimonio.

92 Il testo di legge precedentemente in vigore (art.8) determinava l’acquisto dell’attitudine matrimoniale generale al

compimento di dei diciotto anni per l’uomo e di quindici della donna, rimettendo al prudente apprezzamento del giudice

la possibilità di dispensa a favore dell’uomo “se si temono gravi difficoltà”.

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infatti, non deve costituire una minaccia per l’equilibrio psico-fisico del minore;in questo senso al

giudice è fatto obbligo di richiedere e depositare una perizia medica e che giustifichi la sua

decisione.

Al fine, poi, di evitare qualsiasi tentativo di esercizio della wilayat al- igbar (prevista dalla

previgente Moudawwana all’ art. 4 per il caso in cui si temesse la condotta sconveniente della

donna)93,ossia del potere di costrizione al matrimonio attribuito al padre od in sua assenza al suo

agnato più prossimo,la domanda di dispensa deve essere firmata e dal minore e dal suo tutore legale

(art.21).

L’autorizzazione del giudice rappresenta uno dei documenti necessari per presentare la richiesta di

matrimonio del minore ,giusta quanto previsto dall’ art.65. Una norma di chiusura (art.66) sanziona

penalmente (art. 366 del codice penale) qualunque tentativo di frode diretto ad ottenere

l’autorizzazione del matrimonio del minore, su richiesta della persona lesa che è legittimata inoltre

ad agire in giudizio per annullare il matrimonio e chiedere il risarcimento del danno subito.

E’ degno di nota come l’impegno alla fondazione di una famiglia stabile sotto la responsabilità

congiunta di entrambi gli sposi è assunto dai nubendi già durante il fidanzamento. L’art. 5 considera

il fidanzamento come una promessa di matrimonio, anche se continua a garantire il diritto

unilaterale di recedere dal fidanzamento considerato alla stregua di un mero “periodo di prova”

(art.6). D’altra parte se il/la fidanzato/a, che viene a subire la rottura del fidanzamento, ritiene di

essere stato leso ingiustamente nei propri diritti può chiedere il risarcimento del danno (art.7).

Inoltre, il bambino che viene concepito nel periodo di fidanzamento è considerato figlio/a

legittimo/a del fidanzato (art. 165). Nel caso in cui ci sia disaccordo a questo proposito, le parti

possono presentare tutte le prove a loro disposizione per confermare o negare la filiazione.

Per quanto concerne il pagamento del donativo nuziale (mahr) il nuovo codice (art. 26-34) non

apporta novità di rilievo, limitandosi a raccomandare che il suo importo abbia un contenuto

93 V supra nota n. 47

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simbolico e lasciando pressoché inalterate le disposizioni contenute nel testo previgente che, a loro

volta, si rifanno pedissequamente ai costrutti della scuola malikita.94

Da ultimo, è degno di evidenza l’assoluta novità rappresentata dall’art. 3 del codice vigente che

inserisce nella dinamica del diritto di famiglia marocchino la figura ed il ruolo del pubblico

ministero il cui ricorrente e variamente disciplinato intervento d’ufficio lo qualifica come garante

dell’interesse pubblico e generale all’ applicazione delle disposizioni della riformata Mudawwana .

§ 3.3. Ostacoli sostanziali e deterrenze processuali poste alla poliginia95.

Gli artt. 41-46 del vigente codice delineano un percorso legale a dir poco impegnativo al marito che

volesse esercitare la poliginia.

Difatti quello alla poliginia cessa di essere di essere un diritto dell’uomo rimesso alla sua esclusiva

volontà: l’intervento dell’organo giudiziario è pregnante ed essenziale.

Innanzitutto, conformemente alla migliore interpretazione della Šar i‘a posta in essere dalla

tradizione malikita già recepita nella precedente codificazione, la poliginia è interdetta allorché si

tema ingiustizia fra le mogli96 ovvero allorché la moglie abbia ottenuto dal marito l’impegno a non

94 V. supra: 2.1.3.

95 Per la disciplina pregressa all’approvazione del nuovo codice v. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le

leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni

Agnelli ,Torino,1997,pag. 22: “[…]La poligamia è ammessa nei limiti quantitativi tradizionali (art. 29 comma II).

L’uomo deve ottenere tuttavia l’autorizzazione al nuovo matrimonio, che gli sarà negata se vi è ragione di temere un

ingiusto trattamento delle diverse mogli (art. 30 e 35 comma II). La sposa precedente e quella futura devono essere

informate della poligamia.La donna può chiedere l’inserimento nel contratto di matrimonio della clausola di

monogamia che se violata,apre la via del divorzio (art. 31). Anche in mancanza di espressa pattuizione la donna può

chiedere al giudice di accertare che il nuovo matrimonio le cagiona un danno (art.30) ed ottenere su questa base il

divorzio (art.56).[…]”.

96 v. supra § 2.4; 2.4.1.

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contrarre ulteriori nozze (art.40 della Mudawwana che rimanda a quanto già disciplinato dagli

artt.30 e 31 del previgente codice).

Tuttavia, anche se la sposa non ha preteso preventivamente alla contrazione del matrimonio la

rinuncia alla poligamia, il marito che desidera ricorrervi deve avanzare istanza al tribunale della

famiglia menzionando dettagliatamente i motivi che la giustificano ed accompagnandola da una

dichiarazione relativa alle proprie risorse finanziarie e patrimoniali (art. 42).

Il Tribunale, esaminata l’istanza ed i relativi allegati, la rigetta qualora non ritenga sufficientemente

provata la necessità addotta dal richiedente ovvero qualora quest’ultimo non dispone di sufficienti

risorse finanziarie per provvedere al mantenimento morale e materiale delle due famiglie e non

garantisca ad entrambi i nuclei familiari i medesimi diritti in ordine alla decorosità della dimora

domestica ovvero alla permanenza di condizioni di vita adeguate allo status sociale di entrambe le

mogli.

Al fine di porre in essere gli accertamenti di cui al precedente capoverso il tribunale convoca la

sposa del richiedente97.

L’udienza ha luogo in camera di consiglio alla presenza di entrambe le parti: se anche dall’ esame

orale degli sposi vengono avvalorate le giustificazioni addotte dal marito e vengono ritenute valide

le garanzie finanziarie dallo stesso prestate, il giudice -qualora la prima moglie dissenta dalla

decisione del marito di contrarre nuove nozze- tenta una conciliazione fra gli sposi. Se questa non

ha buon esito il tribunale autorizza la poliginia con decisione motivata e non suscettibile di ricorso :

nel decreto devono essere precisamente individuati e precipuamente espressi i presupposti e le

97 E’ da osservare che qualora la donna ha ricevuto personalmente la convocazione e si è astenuta o rifiutata di assistere

il tribunale a mezzo di ufficiale giudiziario le notifica una seconda convocazione in cui verrà specificata il giorno

dell’udienza con l’avviso che in caso di sua assenza si perverrà ugualmente a deliberazione su domanda del marito. Si

noti inoltre che anche in assenza della consorte, qualora il pubblico ministero -il cui intervento è obbligatorio- è

nell’impossibilità di conoscere il domicilio od il luogo di residenza della sposa, si perverrà a deliberazione.Tuttavia se la

donna non riceve la convocazione per falso indirizzo comunicato in cattiva fede dal marito o per falsa comunicazione

da parte dello stesso del nome della sposa , si applicano alle sposo le sanzioni penali previste dall’ art. 361 del codice

criminale (art. 43).

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garanzie di cui al combinato disposto degli artt. 41 e 42 (art.44). Tuttavia, prima ancora che si

pervenga all’ emissione del suddetto decreto, alla moglie che risulti irremovibile dal proprio

dissenso in ordine alla scelta poliginia del marito, l’ordinamento assicura una serie di diritti di

natura personale e patrimoniali di significativa pregnanza.

La moglie può, difatti ,inoltrare – a sua volta- apposita istanza di divorzio: il

tribunale,allora,ingiunge al marito il deposito di una precisa somma che lo sposo, entro sette giorni,

è tenuto a versare a titolo di garanzia delle spettanze matrimoniali della moglie e dei figli nati dalla

loro unione (art.45).Qualora la somma di cui sopra non venga depositata dall’ istante entro il

termine convenuto, “ciò è considerato come una rinuncia alla domanda di autorizzazione alla

poligamia” (art. 46 III comma).

Se invece la consorte , pur non fornendo il proprio consenso all’ opzione poliginica del marito, non

avanzi istanza di divorzio, il tribunale applica ex officio la procedura di separazione prevista dagli

artt. 94 e 97 della riformata Mudawwana (art. 46 IV comma).

§ 3.4. Lo scioglimento del vincolo coniugale: la novellata disciplina del ripudio98.

98 Per la disciplina pregressa all’approvazione del nuovo codice v. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le

leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni

Agnelli ,Torino,1997,pag. 23: “L’uomo conserva la facoltà di ripudio tradizionalmente riconosciutagli dalla Šari‘a.

L’esercizio di tale facoltà è tuttavia subordinato dal legislatore del 1993 all’ autorizzazione del giudice (art. 48 comma

2). Il codice di procedura civile specifica all’ art. 179 che il giudice, prima di autorizzare il ripudio , deve tentare la

riconciliazione dei coniugi, eventualmente ricorrendo all’ opera di due arbitri. Se il tentativo fallisce, il giudice dà la

autorizzazione, dopo avere fissato il deposito con cui marito garantisce dell’ adempimento delle obbligazioni che

nasceranno a suo carico dal ripudio. Effettuato il deposito, la dichiarazione di ripudio è raccolta da due ‘adul […]. L’

atto di ripudio così redatto è omologato dal giudice che fissa con ordinanza il mantenimento della donna durante il

periodo di ritiro legale, il dono di consolazione (art. 52 bis) e le questioni relative ai figli (art. 179 c.p.c.)[…].I due

coniugi si possono accordare sul ripudio dietro corrispettivo (art. 61-65);è altresì consentito alla donna chiedere

l’inserimento nel contratto di matrimonio della clausola di autoripudio, in virtù della quale il marito le dà mandato a

chiedere il ripudio contro se stessa (artt. 38 e 44).[…]”.

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L’art. 78 della novella Mudawwana testualmente recita: “Il divorzio è la dissoluzione dei legami del

matrimonio, esercitato dallo sposo e dalla sposa secondo le condizioni alle quali ciascuno di essi è

sottomesso, sotto il controllo del giudice e conformemente alle disposizioni del presente Codice”.

Si tratta di una norma che ,ad una prima disamina, qualificherebbe il divorzio come rimedio

generale predisposto dall’ ordinamento per la dissoluzione del vincolo matrimoniale azionabile su

di una piano di parità da entrambi i coniugi.

Alla stessa stregua quindi di quanto disciplinato dalla Magalla tunisina.99

Tuttavia, le speranze di un una nuova edizione del riformismo politico-normativo maghrebino che

aveva portato all’abolizione in Tunisia del diritto di ripudio rimangono deluse dalla lettura dell’

articolato successivo al già citato art.78.

L’art.79 testimonia a favore del mantenimento del diritto di ripudio in capo al marito100, anche se il

suo esercizio è ancora più pesantemente condizionato dall’ intervento dell’Organo giudiziario.

Difatti, il coniuge che intenda ripudiare la sposa deve avanzare istanza di autorizzazione al tribunale

territorialmente competente depositando la medesima istanza presso due ‘adul abilitati a tale scopo

(art.79).

Tale istanza dovrà essere opportunamente corredata anche dai dati identificativi dei coniugi e delle

loro professioni,ed indicare altresì il numero dei figli minorenni, la loro età, il loro stato di salute e

la loro situazione scolastica (art.80). Tali dichiarazioni, qualora risultassero mendaci, esporrebbero

il coniuge istante alle sanzioni previste dall’art. 361 del codice penale (art.81 ult.comma). Quanto

99 Cfr. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord

Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997,pag. 188 “ Art. 29. Il divorzio è

lo scioglimento del contratto di matrimonio.[…] Art. 31. Il divorzio è pronunciato: 1) con il consenso dei coniugi; 2)su

domanda di uno dei due coniugi a motivo del pregiudizio subito;3)per desiderio del marito o domanda della moglie.”.

100 L’ asimmetria della posizione della donna rispetto a quella del marito viene appena stemperata dall’ art .89 che

regolamenta il c.d. tamlik ’: la sposa acquisisce il diritto a ripudiare sé stessa se nel contratto matrimoniale ha ottenuto

di iscrivere la clausola “Io ripudio me stessa”, oppure può chiedere al marito di ripudiarla dietro compenso (khol’)

(art.120) che- in ipotesi dovrebbe corrispondere al mahr versato ed ancora da versare da parte dello sposo.

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sopra per consentire al giudice la possibilità di avere una cognizione preliminare anche se sommaria

dell’ assetto complessivo dell’intero nucleo familiare.

Esaurita la fase istruttoria, il Tribunale convoca la sposa per esperire un tentativo obbligatorio di

conciliazione che si svolge in camera di consiglio dove avviene anche l’audizione dei testimoni e di

ogni altra persona che il giudice riterrà utile convocare. Al fine della composizione del dissidio

l’Organo giudicante può procedere alla designazione di due arbitri,di un consiglio di famiglia o di

chiunque stimi come persona qualificata al fine di poter portare a buon fine il tentativo di

riconciliazione dei coniugi (artt.81-82).

La novità rappresentata dal Legislatore del 2004 è sicuramente una maggiore attenzione nella fase

di patologia del vincolo matrimoniale alle esigenze dei figli minori: qualora i due coniugi abbiano

prole, il Tribunale intraprende due tentativi di riconciliazione, distanziati da un periodo minimo di

trenta giorni101 (art.82).

Nell’evenienza in cui i tentativi di riconciliazione esperiti non diano esito positivo il Tribunale

stabilisce una somma che lo sposo deve depositare entro trenta giorni.(art.83). L’importo di tale

deposito deve tenere conto delle spettanze matrimoniali dovuti alla sposa ed ai figli minorenni. Più

precisamente deve includere la parte di mahr eventualmente ancora non versata, un assegno di

mantenimento per il periodo di ritiro legale (‘idda) ed il dono di consolazione ( mut‘a).

Quest’ultimo sarà valutato in funzione della durata del matrimonio (indipendentemente dalla sua

consumazione), della situazione finanziaria dello sposo (e non già della sposa) di motivi del

divorzio e “del grado di abuso verificatosi nell’esercizio di tale diritto[ n.d.r. al ripudio] da parte

dello sposo” (art.84)102.

101 E’ il caso di osservare che una serie di obblighi e decadenze processuali gravano su entrambi i coniugi di natura del

tutto analoga a quelle disciplinate nel procedimento di autorizzazione alla poliginia . V. § 3.3.

102 L’ 85 ,poi, si affretta a statuire che “I diritti alla pensione alimentare dovuti ai figli sono a carico sono

fissati[…]tenendo conto delle loro condizioni di vita e della loro situazione scolastica”.

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Inoltre,durante il periodo di ritiro legale, la sposa ha diritto ad alloggiare nel domicilio coniugale od

in un alloggio conveniente per lei, avuto riguardo alla situazione finanziaria del marito. Nel caso

non possa provvedere alle esigenze di alloggio della moglie (e dei figli posti a suo carico) secondo

la procedura suddetta, il Tribunale individua un’ulteriore somma per le spese di alloggio che il

ripudiante deve depositare presso la Cancelleria del Tribunale (art. 84 ultimo comma).

Se lo sposo non deposita le somme così determinate entro il termine perentorio stabilito dall’art.83

la sua istanza di ripudio è da dichiararsi come rigettata.

E tale circostanza -ciò rappresenta un assoluta novità- “è registrata dal Tribunale” (art. 86).

Se, invece, lo sposo deposita la somma determinata dal giudice, il Tribunale lo autorizza a registrare

il ripudio presso i due ‘adul di cui all’art. 79.

§ 3.5. La regolamentazione del divorzio per pregiudizio subito (lil-arar).

Il legislatore del 2004 ha comunque avuto il merito storico di ampliare la casistica in base alla quale

la donna può chiedere ed ottenere lo scioglimento del vincolo coniugale.

Innanzi tutto l’ art. 99 esordisce con una definizione tendenzialmente generale del concetto di

“pregiudizio subito” definendo tale quello che origini da“ogni atto o comportamento infamanti

mesi in atto dallo sposo, ovvero contrari ai buoni costumi, o che arreca un danno materiale e morale

alla sposa mettendola nell’ impossibilità di continuare la vita coniugale” e giungendo anche ad

includere “ogni mancanza anche ad una delle condizione apposte al contratto matrimoniale” (art.

99).

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Si rammenti che l’ art. 51103 della Mudawwana fa riferimento ai diritti ed ai doveri reciproci dei

coniugi, scegliendo una tecnica normativa che tradisce una scelta politica nelle intenzioni

egualitaria e di svolta rispetto alla precedente codificazione che indugiava nell’elencazione dei

diritti del marito nei confronti della moglie e viceversa. Elencazione che, tradizionalmente,

individuava nell’obbedienza della moglie verso il marito la controprestazione rispetto all’ obbligo di

mantenimento dell’altro coniuge posto in capo al marito e che, ai sensi dell’art. 56 del codice

previgente, circoscriveva il “pregiudizio subito” esclusivamente alle sevizie a carico della moglie.

Viene mantenuta pressoché inalterata la disciplina avente ad oggetto il divorzio per vizi redibitori

104, assenza prolungata del marito (art.99-101)105, per abbandono del letto coniugale da parte dello

sposo (art. 112-113)106.

Ampia libertà è concessa in ordine ai mezzi di prova del danno subito che può giungere fino

all’audizione di testimoni in camera di consiglio (art.100 I comma).

Infine, se si perviene ad una pronuncia di divorzio “il Tribunale può fissare, nello stesso giudizio, la

somma dell’ indennità dovuta [alla sposa, n.dr] a titolo di risarcimento del danno patito”(art.101).

§ 3.5.1. Il nuovo regime del divorzio per mancato mantenimento.

103 Diritti e doveri reciproci a carico di entrambi i coniugi che sono dall’ art.51 individuati:

“a) nella coabitazione legale basata sui buoni rapporti coniugali, sulla giustizia, e sull’uguaglianza di trattamento in

caso di poligamia, di fedeltà reciproca, di purezza e di preservazione dell’onore e della progenie; b) buona

coabitazione, mutuo rispetto, l’affetto e la preservazione dell’integrità della famiglia; c) la presa in carico della moglie

insieme al marito della responsabilità della gestione degli affari di famiglia e dei figli e della pianificazione familiare;d)

i buoni rapporti di ciascuno nei confronti di parenti dell’altro, rendere loro visita e riceverli nei limiti della

convenienza”;e) i diritti di successione .”.

104 V. Cfr. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord

Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997,pag. 146.

105 Ibidem, p. 147. 106 Ibidem, p. 147.

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Un’altra tipologia di scioglimento del matrimonio che è stata cautamente novellata dal legislatore

marocchino del 2004 è senza dubbio rappresentata dal divorzio per mancato mantenimento, la cui

disciplina si rinviene nell’ art. 102 della Mudawwana. Istituto già disciplinato nel codice previgente,

il divorzio per mancato mantenimento viene dai commentatori individuato come una species

rispetto al genus del tatliq per pregiudizio subito.

Senza tema di smentita, si può agevolmente esordire che la sua permanenza nel riformato Codice

tradisce la permanenza di un paradigma sociale assolutamente ben radicato nel tessuto sociale

marocchino e che vede nell’autosufficienza finanziaria della donna rispetto al nucleo familiare e

parentale più un obiettivo da perseguire che una meta raggiunta per un mero riformismo giuridico.

L’art. 102 accorda alla sposa la facoltà di avanzare istanza di divorzio qualora lo sposo non

provvede alle necessità materiali sue e della prole a suo carico107.

Qualora l’istanza risulti fondata allo sposo cui è contestata l’inadempienza il Tribunale ingiunge di

procedere alla somministrazione del mantenimento entro e non oltre trenta giorni108. Se

l’inottemperanza permane, e questo non è dovuto a forza maggiore od a circostanze eccezionali

(l’onere della cui presenza incombe sul marito) il Tribunale pronuncia il divorzio.

Qualora dalle risultanze istruttorie si individuano dei beni di proprietà dello sposo idonei ad

assicurare il mantenimento della moglie, il Tribunale “vi si riferisce e non dà , di conseguenza,

corso alla domanda di divorzio (art. 102 I comma). Si tratta di un vero e proprio procedimento

ingiuntivo, avente carattere propedeutico rispetto all’esecuzione forzata sui beni del marito,

analogamente a quanto disposto dall’ art. 53 II e III comma del previgente codice . Tuttavia, qualora

107 Da evidenziarsi la nuova disciplina della tutela contenuta nell’ art.166 I e II comma che supera la tradizionale

distinzione fra il nasab paterno e l’ hadana materna: “La tutela sia per il maschio che per la femmina vige fino al

raggiungimento della maggiore età. Al momento dello scioglimento dei vincoli matrimoniali, i figli che hanno raggiunto

l’età di quindici anni compiuti possono scegliere di essere affidati alla tutela sia del padre che della madre”

108 Di tutt’altro tenore il comma IV dell’ art. 53 “Se insiste nella propria indigenza e la prova, il giudice gli accorderà

una scadenza ragionevole che non oltrepassi tre mesi”.

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lo sposo inadempiente non fornisce prove della sua momentanea incapacità finanziaria e persiste nel

non somministrare quanto dovuto alla sposa ed ai figli, “il Tribunale pronunzia il divorzio seduta

stante” (art. 102 ultimo comma).

§ 3.6. Il divorzio consensuale (lil- Šiqaq) ed il divorzio dietro compenso.

Una delle innovazione che hanno suscitato più scalpore alla promulgazione del nuovo Codice dello

statuto personale e delle successioni del Regno del Marocco è senza dubbio rappresentato dall’

introduzione dell’ istituto del divorzio consensuale. In questa occasione lo spirito riformatore che ha

animato i compilatori ha segnato un elemento di assoluta discontinuità rispetto alla tradizione in

materia di scioglimento del vincolo matrimoniale accolta dalla scuola malikita109.

Difatti, l’art. 114 del testo in vigore consente agli sposi di porre consensualmente fine allo loro

relazione coniugale, anche apponendo nel ricorso clausole accessorie condizionali. Il legislatore si

affretta a precisare,però, che la forma e la sostanza di quest’ ultime non potranno arrecare

pregiudizio all’ interessi che fanno capo alla prole o comunque essere contrarie alle disposizioni

contenute nella Mudawwana.

Dinnanzi al consenso manifestato attraverso la presentazione di un ricorso congiunto il giudice può

limitarsi ad esperire un tentativo di riconciliazione di contenuto la cui incisività è certamente

109 Negli ordinamenti dei paesi di tradizione islamica l’ unico riferimento di natura analoga rimane l’ istituto

coraggiosamente introdotto nel 1956 dal presidente Bourghiba nella Magalla della Repubblica Tunisina. V. ALUFFI

BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa” in Dossier

Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997, pag. 25 : “La Magalla abolisce il ripudio. L’unico

modo di sciogliere il matrimonio durante la vita dei coniugi è il divorzio giudiziale, a cui marito e moglie sono ammessi

su un piano di parità (art. 29-33). Il divorzio può essere consensuale, oppure può venire richiesto da uno di coniugi per

il danno arrecatogli dall’ altro, il quale abbia ad esempio, commesso adulterio,violato una clausola matrimoniale (art.11)

od omesso di pagare il mantenimento (art. 39-40).La domanda di divorzio può anche essere immotivata: si tratta di un’

estrema evoluzione del diritto di ripudio che è reso accessibile tanto all’uomo che alla donna”.

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depotenziata rispetto a quello previsto in caso di istanza di ripudio o di divorzio per mancato

mantenimento o per pregiudizio subito.

Il divorzio dietro compenso (khol’) risulta certamente un’ evoluzione del ripudio dietro corrispettivo

(al-hul) già disciplinato dal testo previgente agli artt. 61-63.

L’ hul poneva lo sposa in una condizione di evidente sottoposizione all’arbitrio del marito per due

ordini di ragioni. Il primo si appunta sulla totale assenza di un controllo giudiziale sull’intera

procedura di ripudio i cui effetti venivano mitigati dalla riconosciuta assistenza del wali alla sposa

minorenne e dalla petizione di principio che obbligava la donna (maggiorenne o minorenne) al

versamento del corrispettivo solo nel caso in cui il suo consenso sia stato prestato spontaneamente e

senza avere subito violenza o maltrattamenti .110

Il secondo trova riferimento sul sostanziale arbitrio maritale cui era rimessa la determinazione del

khol’ .

L’art.120 della novellata Mudawwana afferma la cognizione del Giudice qualora i coniugi vogliano

divorziare dietro il pagamento del Khol’ ma non raggiungono un accordo sul suo ammontare.

Ancora una volta al Tribunale sono affidati preliminari obblighi di esperimento di un idoneo

tentativo di conciliazione. Se questo non ha buon esito il Tribunale “ordina l’esecuzione del

divorzio a mezzo compenso”, provvedendo tuttavia lo stesso Organo giudicante alla determinazione

dello stesso “prendendo in considerazione l’ammontare del mahr , la durata del matrimonio, le

ragioni che giustificano il ricorso,oltre alla situazione finanziaria della sposa” (art. 120 II comma).

110 Cfr. ALUFFI BECK-PECOZ ROBERTA (a cura di), “Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord

Africa” in Dossier Mondo Islamico 4, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli ,Torino,1997, pag. 147: “ARTICOLO 62. La

donna maggiorenne acconsente personalmente al ripudio dietro corrispettivo. Se la donna che acconsente al ripudio

dietro corrispettivo è minorenne, il ripudio ha luogo, ma ella non è tenuta al corrispettivo se non vi è l’accordo del wali

patrimoniale.[…] Art.63 “in caso di indigenza della moglie, non può costituire corrispettivo del ripudio un bene cui

abbiano diritto i figli,”.

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§ 3.7. Il regime della costituzione e dello scioglimento del matrimonio dei cittadini marocchini

residenti all’estero.

Il matrimonio dei marocchini residenti all’estero era un aspetto del diritto matrimoniale che il

Legislatore reale aveva volutamente ignorare in sede di compilazione del testo della precedente

versione della Mudawwana111.

Il vigente Codice dello statuto personale e delle successioni tenta una prima articolazione giuridica

di questo fenomeno la cui incidenza - sicuramente resa esponenziale dopo le ricorrenti ondate

emigratorie che negli ultimi trent’anni hanno modificato il tessuto socio-economico del Regno del

Marocco- aveva causato non pochi problemi legati per lo più al riconoscimento della costituzione e

dello scioglimento dei vincoli matrimoniali da parte di cittadini marocchini residenti all’estero

secondo le norme degli ordinamenti dei medesimi Stati di residenza.

L’art. 15 della Mudawwana obbliga i marocchini che abbiano stipulato il contratto di matrimonio in

conformità alla legislazione del Stato estero di residenza a depositare il medesimo contratto entro

tre mesi presso l’apposito ufficio della rappresentanza consolare competente per il territorio dove

l’atto è stato stipulato. In assenza di una struttura consolare a loro prossima, i coniugi sono tenuti

ad inviare una copia dello stesso atto di matrimonio al competente dipartimento del Ministero degli

Affari Esteri sempre entro trenta giorni dalla celebrazione delle nozze.

Tale Dipartimento, quindi, procederà “alla trasmissione della copia in questione all’ Ufficiale dello

Stato Civile ed al Tribunale dei diritti della Famiglia del luogo di nascita di ciascuno dei due

coniugi.” (art. 15 comma II).

111 Il matrimonio fra uomini di cittadinanza marocchina e donne straniere, e viceversa tra donne marocchine ed uomini

stranieri è stato successivamente disciplinato dal Dahir n. 1.0.20-60 del 04.03.1960. V . MERNISSI SALIMA

«Quelques aspects de la codification du statut personnel marocain » in Bastenier, et al., Le Statut personnel des

musulmans : Droit Comparè e Droit International Privè, Travaux de la Facultè de Droit de l’ Universitè Catholique

deLouvain, ed. Bruylant, Bruxelles,1992, pp. 247-273.

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Se i coniugi non sono nati in Marocco, la copia dell’atto di matrimonio deve essere trasmessa alla

“Divisione dello Stato Civile del Dipartimento incaricato degli Affari interni ed al Tribunale della

famiglia della città di Rabat.” (art. 15 ultimo comma).

Tali procedure di mera trascrizione concernono i matrimoni contratti dai cittadini marocchini

residenti all’estero che non risultino in contrasto con i principi essenziali dell’ istituto matrimoniale

così come disciplinati dal legislatore marocchino, con particolare riferimento agli elementi del

consenso , della capacità matrimoniale, del mahr, ed avuto riguardo anche alla disciplina degli

impedimenti legali.

Di analogo tenore è la disposizione che concerne i procedimenti di scioglimento del matrimonio

(ripudio e divorzio ) conclusisi fra i coniugi in conformità con le legislazioni degli stati di residenza.

Difatti dal combinato disposto degli art. 14 e 128 discende il principio che i cittadini marocchini

residenti all’estero possono adire l’organo giudiziario od amministrativo preposto allo scioglimento

del vincolo matrimoniale solo se i provvedimenti di tali organi non risultino in contraddizione con

le disposizioni della Mudawwana .

§ 3.8. La nuova disciplina del regime patrimoniale fra i coniugi.

Per quanto riguarda la questione dei rapporti patrimoniali tra coniugi, nel diritto marocchino -

conformemente alla tradizione sciaraitica- sussiste il regime della netta separazione dei beni.

Non esiste, difatti tra gli sposi alcuna associazione di interessi patrimoniali: ognuno continua a

gestire autonomamente i propri beni senza obbligo alcuno di rendicontazione, eccezion fatta per le

donazioni liberali di notevole entità.

Tuttavia, l’ art. 49 II e III comma del novellato Codice dello statuto personale e delle successioni

dispone che “i due sposi possono,nel quadro della gestione dei beni da acquisire durante il

matrimonio, mettersi d’accordo sulla loro ripartizione e fruizione.Questo accordo è registrato in un

documento separato dall’atto di matrimonio”. Si tratterebbe,quindi, di una novità assoluta nel diritto

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islamico di famiglia che si concretizzerebbe nella previsione di un regime che potremmo definire di

“comunione convenzionale”, analogamente a similari istituti presenti negli ordinamenti dell’

Europa continentale (segnatamente in Italia : art. 210 c.c.).

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CONCLUSIONI

Il mondo arabo comprende ventidue paesi ed il diritto matrimoniale di questi paesi registra tre

costanti che sono altrettante sfide: disparità tra uomo e donna, disparità tra il musulmano ed il non

musulmano, assenza di unità giuridica.

Se le prime due sono state analizzate nel corso del presente lavoro ,avviandoci alla conclusione

dello stesso, non possiamo esimerci dal disaminare l’ultima.

Difatti, l’assenza di unità giuridica, ad avviso dell’autore, rappresenta la chiave di volta per

comprendere il rischio di collasso del sistema matrimoniale islamico ma anche le possibilità di un

suo sviluppo verso riforme che- lungi da un radicalismo “di maniera”- possono consentire un

processo di autentica modernizzazione giuridica rispettosa delle tipicità del sistema sociale di

riferimento degli ordinamenti di tradizione musulmana.

La popolazione dei Paesi arabi è in larga maggioranza musulmana, ma è composta anche di un

certo numero di cristiani, di ebrei ed altre minoritarie comunità religiose. La maggior parte di

questi Paesi non dispone di un codice unificato in materia di diritto matrimoniale (o più in

generale, di famiglia).

Nello Stato musulmano classico le comunità non musulmane hanno conservato alcune prerogative

legislative e persino giudiziarie in virtù degli accordi conclusi con l’autorità politica dopo le

conquiste degli eserciti islamici.

Per quanto concerne la comunità musulmana, lo Stato non ha fatto che soprintendere alla

fissazione del testo coranico e degli Hadit del Profeta lasciando alle scuole giuridiche il percorso

di elaborazione e di ermeneutica del diritto di ispirazione divina. Solo in rari casi accanto ad una

giurisdizione giocoforza “confessionale” e particolare si è affiancata-senza mai sostituirla- una

giurisdizione “laica” e tendenzialmente generale.

Tale mancanza di unicità legislativa e giudiziaria ha nel corso dei secoli portato alla posizione di

soluzioni giuridiche sui medesimi casi eminentemente contraddittorie.

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A tutt’ oggi accanto a Stati che hanno stabilito in tema di statuto personale e coniugale un sistema

unificato legislativo e giudiziario (la Tunisia ed in parte oggi il Marocco) altri ( è il caso , ad

esempio dell’ Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein) non dispongono di un diritto

di famiglia codificato neppure per i loro sudditi musulmani.

Si arriva anche a situazioni limite in cui in alcuni ordinamenti ( quello libanese, ad esempio) gli

stessi musulmani sono soggetti a giurisdizioni particolari a seconda dell’ appartenenza alla

comunità sunnita od a quella sciita.

Un caso estremo è tuttora rappresentato dall’ Irak che giunge a riconoscere ufficialmente la

potestà normativa e giudiziaria in materia matrimoniale -oltre alle comunità musulmane sunnite e

sciite- quella di ben diciassette comunità religiose non islamiche.

D’altronde non si può omettere di segnalare che per talune comunità non musulmane l’accesso ai

documenti di ricognizione normativa risulta estremamente difficile. In molti Stati, inoltre, i

tribunali pubblicano raramente le loro decisioni, fatto che aggrava il problema in quei Paesi che

non dispongono di una raccolta codicistica in materia matrimoniale.

Si aggiunga che, talvolta, l’organo di ricorso per alcune comunità non musulmane (segnatamente

quella cattolica) è situato fuori dai confini nazionali, ed è quindi praticamente inaccessibile.

Questo impianto legislativo e giudiziario non unificato in materia di diritto matrimoniale (e più in

generale della famiglia), se in teoria può essere inteso come un segno di tolleranza, dall’altro si

risolve sul piano fattuale in una situazione di autentica incertezza del diritto che apre le porte ad un

uso politico del diritto islamico come strumento di generale controllo sociale e religioso.

Tale sistema spesso agisce come fattore di disgregazione sociale, specialmente in considerazione

dell’assenza di legami di sangue fra i membri delle diverse comunità religiose che insistono sullo

stesso territorio statuale.

D’ altronde i timidi tentativi di unificazione posti in essere da alcuni legislatori (uno per tutti quello

egiziano) non rendono giustizia ad un’esigenza la cui portata è diventata ineludibile.

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Un’ unità che dovrebbe essere sancita sotto le insegne del ricezione delle Convenzioni e

Dichiarazioni in tema di diritti umani che vengono percepite dalla maggior parte degli ordinamenti

statuali di tradizione islamica come allogene rispetto ai propri retaggi culturali , se non addirittura

come ostili strumenti di controllo occidentale sugli affari interni dei singoli Stati musulmani.

Né più solide prospettive sembrano emergere da Organizzazioni sopranazionali quali la Lega

araba.

Quest’ultima,attraverso un organismo creato nel 1981 (il Consiglio dei Ministri arabi della

Giustizia) aveva adottato un piano in vista dell’ unificazione delle leggi sullo statuto delle persone

e della famiglia dei singoli Stati membri sulla base del solo diritto islamico, pur tenendo conto delle

“aspirazioni di modernizzazione e di sviluppo alle quali tendono gli stati arabi in questi settori e

che vadano di pari passo con le convenzioni e gli accordi internazionali più moderni che

regolamentano queste materie”.

Questo Organismo ha potuto mettere a punto un progetto adottato nella sessione conclusiva di

lavori svoltasi nel Kuwait il 4 aprile 1988 dal titolo “Documento del Kuwait riguardante il Codice

arabo unificato dello statuto personale” che, tuttavia, è rimasto privo di alcuna forma di ricezione

da parte degli Stati nazionali firmatari.

Se si vuole individuare le cause che hanno reso vano quest’unico tentativo di unificazione della

materia dello stato personale del diritto matrimoniale e della famiglia non si può omettere di

individuare alcuni vizi genetici dello steso.

Difatti nonostante la denominazione “ Codice arabo unificato” il progetto non comprende che

norme di diritto islamico ed è stato elaborato da una commissione di sette membri , tutti uomini e

musulmani.

Che ne sarebbe stato quindi delle comunità non musulmane? Su questo il Consiglio ha volutamente

taciuto: l’unificazione del diritto di famiglia nei termini prospettati dal Documento avrebbe senza

dubbio comportato una levata di scudi in particolare dalle comunità cristiane ed ebraiche che

avrebbero correttamente inteso l’applicazione del Progetto come un tentativo di genocidio

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culturale. D’altronde lo stesso Consiglio, dal canto suo, avrebbe dovuto coerentemente ammettere i

membri delle comunità non islamiche a delicate funzioni (quali quelli di giudice e testimone,ad

esempio) su un piano di parità rispetto ai musulmani.

Uguaglianza impensabile per le correnti islamiche conservatrici e dominanti le dinamiche

politico-sociali degli Stati firmatari.

Un Documento quindi foriero,nella migliore delle ipotesi, di insuperabili aporie!

Allo studioso e cultore del diritto matrimoniale islamico , sulla scorta di quanto avvenuto con

l’approvazione della novellata Mudawwana del Regno del Marocco, non resta quindi che confidare

nell’ intrinseca anche se modesta capacità interna di riforma del pensiero giuridico musulmano.

Quanto sopra facendo memoria delle parole del giureconsulto ed imam Mahmud Šaltut (1983): “

Colui che si immobilizza nelle opinioni dei suoi predecessori e si accontenta del loro sapere, delle

loro conoscenze e del loro sistema di ricerca ed indagine commette un crimine contro la natura

umana, priva l’uomo del dono della ragione che lo caratterizza, distrugge il criterio di Dio nei

confronti dei suoi fedeli e si attacca a ciò che è privo di valore agli occhi di Dio”.

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