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Modelli di cooperazione e competizione tra imprese e azioni di sistema* Andrea Bardi 1. Introduzione......................................................................................... 2 2. Cenni interpretativi in chiave evolutiva .............................................. 3 3. La rete come organizzazione ............................................................... 7 4. Le forme e gli orientamenti della rete ............................................... 10 5. Esperienze di cooperazione e competizione in Emilia Romagna: luci e ombre sul modello a rete............................................................ 15 6. La costruzione di reti tra imprese focali e imprese di subfornitura: progettazione e ruolo degli attori collettivi come elementi chiave per il successo del modello.................................................................. 20 6.1 La definizione di un terreno programmatico di azione condiviso.......... 22 6.2 Il lavoro di elaborazione del progetto................................................ 22 6.3 Lo sviluppo........................................................................................ 23 7. Tendenze di fornitura a livelli ........................................................... 23 8. La miscela tra forze endogene ed esogene: l’elemento chiave per il successo della rete .................................................................... 30 9. Reti strategiche e azioni di sistema, percorsi di qualificazione del sistema di subfornitura regionale................................................. 33 10. Conclusioni........................................................................................ 35 Note ........................................................................................................... 37 1. * da Primo Rapporto Annuale dell’Istituto per il Lavoro, “Sviluppo, Lavoro e Competitività in Emilia Romagna”, Angeli, Bologna, 2000

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Modelli di cooperazione e competizione tra imprese e azioni di sistema* Andrea Bardi

1. Introduzione......................................................................................... 2 2. Cenni interpretativi in chiave evolutiva .............................................. 3 3. La rete come organizzazione ............................................................... 7 4. Le forme e gli orientamenti della rete ............................................... 10 5. Esperienze di cooperazione e competizione in Emilia Romagna:

luci e ombre sul modello a rete............................................................ 15 6. La costruzione di reti tra imprese focali e imprese di subfornitura:

progettazione e ruolo degli attori collettivi come elementi chiave per il successo del modello.................................................................. 20

6.1 La definizione di un terreno programmatico di azione condiviso.......... 22 6.2 Il lavoro di elaborazione del progetto................................................ 22 6.3 Lo sviluppo........................................................................................ 23 7. Tendenze di fornitura a livelli ........................................................... 23 8. La miscela tra forze endogene ed esogene: l’elemento chiave

per il successo della rete.................................................................... 30 9. Reti strategiche e azioni di sistema, percorsi di qualificazione

del sistema di subfornitura regionale................................................. 33 10. Conclusioni........................................................................................ 35 Note........................................................................................................... 37

1.

*da Primo Rapporto Annuale dell’Istituto per il Lavoro, “Sviluppo, Lavoro e Competitività in Emilia Romagna”, Angeli, Bologna, 2000

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Introduzione All’interno della parte del rapporto relativa alle tematiche specifiche si è

ritenuto di dover dedicare una particolare attenzione alla comprensione dei processi evolutivi propri delle imprese organizzate “a rete”. Cercheremo di descrivere quali sono i modelli di cooperazione prevalenti all’interno del ter-ritorio regionale, in quali contesti emergono, quali le forze trainanti, ma so-prattutto tenteremo di evidenziare la necessità di sostenere questi processi pur non dimenticando le criticità e i rischi potenziali che li contraddistinguono.

Il primo punto di partenza della nostra riflessione è che le reti tra imprese possono rappresentare solo a certe condizioni una possibile risposta alle spinte regressive in atto all’interno del sistema produttivo emiliano romagnolo.

Il secondo è rappresentato dalla convinzione che la tradizione di asso-ciazionismo, coesione sociale, fiducia e capacità innovativa collettiva, pro-prie del modello emiliano, rappresentano una risorsa chiave, ossia una sor-ta di rendita di posizione fondamentale rispetto alla possibilità di innescare processi cooperativi incentrati sulla logica della rete tra imprese.

Il terzo punto di partenza riguarda il fatto che vi sono vari modelli di organizzazione a rete, partendo dal presupposto che esiste una comune vo-lontà di qualificazione del sistema dell’outsourcing locale, la scelta di un modello piuttosto che un altro cambia la natura dell’evoluzione.

Di conseguenza, la comprensione della natura delle reti tra imprese nate all’interno del territorio emiliano romagnolo non può prescindere dalla comprensione delle dinamiche evolutive caratterizzanti il tessuto produtti-vo regionale, in primis quelle proprie delle “economie distrettuali”. Termi-ni come sistemi produttivi locali e distretti industriali sono profondamente connessi con il concetto di territorio e di frequente risultano essere associa-ti alla regione Emilia Romagna. Gli studi, le analisi, le ricerche e i dibattiti incentrati su queste tematiche non si contano, sia a livello accademico, sia all’interno degli organismi pubblici, sia nel mondo dell’associazionismo. La natura di questi temi è peraltro caratterizzata da una tale varietà di comples-sità che la loro comprensione non può essere completa se non attraverso l’utilizzo di strumenti di analisi di tipo multidisciplinare. Quando si discute di sistemi produttivi locali e distretti industriali si ragiona di problematiche di tipo storico, giuridico, economico, organizzativo e, più di recente, di que-stioni che trovano nell’economia della conoscenza il contesto interpretativo in grado di leggere quei processi di sviluppo connessi all’accumulazione e al trasferimento delle conoscenze.

La tematica delle reti taglia quindi trasversalmente item quali la globaliz-zazione e l’internazionalizzazione, le questioni connesse all’innovazione, gli

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aspetti più propriamente vicini ai concetti di efficienza produttiva, di eco-nomie di scala e di differenziazione, i processi di accumulazione, trasmis-sione e riproduzione della conoscenza. Ancora, oltre alle variabili socioeco-nomiche entrano in gioco elementi più propriamente soggettivi, come il con-cetto di cultura aziendale, così come quelli relativi al territorio, ad esempio per quanto afferisce al ruolo della “prossimità”.

La complessità del tema è tale per cui tenteremo di inquadrare il feno-meno non certo proponendo una modellistica o un quadro interpretativo, ma più modestamente cercando di comprendere se e in quale misura i pro-cessi di riorganizzazione attraverso la costruzione di reti tra imprese rap-presentano delle “spinte evolutive” e in quali termini sono rilevanti per lo sviluppo del tessuto produttivo locale.

2. Cenni interpretativi in chiave evolutiva

Il modello dei distretti industriali quale sistema composto da piccole e medie imprese specializzate in singole fasi del processo produttivo e inter-relate da un fitto intreccio di relazioni di tipo orizzontale, verticale e dia-gonale rappresenta, a giudizio di numerosi osservatori, un modello incapa-ce di dare risposte rapide in un contesto in forte evoluzione. I tradizionali punti di forza caratterizzanti le aree distrettuali sono di frequente indicati come elementi di vincolo al cambiamento, come ad esempio la tradizionale propensione ad instaurare relazioni fondate sull’informalità piuttosto che su accordi strutturati e formalizzati.

Le pratiche di cooperazione hanno rappresentato in passato elementi di forza dinamici del sistema, ai contenuti costi di transazione sono infatti corrisposti costi di coordinamento limitati, in ragione prevalentemente di accordi informali fondati di frequente sulla fiducia e sulla conoscenza, non di rado, personale.

Una struttura produttiva di questo tipo ha stimolato peraltro pratiche di sostegno e supporto collettivo per l’avvio di impresa, per il superamento di periodi di recessione, per lo sviluppo di nuovi accorgimenti tecnici e per far fronte all’imprevedibilità (sia qualitativa che quantitativa) nella domanda.

Inoltre, l’agevole circolazione delle informazioni che connota i contesti ad alta coesione sociale e alti tassi di fiducia e informalità ha rappresentato un elemento di incentivo all’innovazione incrementale che nelle aree di-strettuali si è espressa prevalentemente attraverso forme e pratiche di carat-tere tipicamente collettivo.

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Tali dinamiche hanno costituito l’elemento determinante della consi-stente crescita e consolidamento del tessuto produttivo emiliano romagno-lo, tuttavia, mentre le reti di imprese tecnologicamente avanzate tendono a far derivare la loro competitività dinamica dall’accesso ai risultati della conoscenza scientifica, da regole codificate, progressi tecnologici e leadership strategica, le reti di piccole imprese localizzate nel medesimo territorio tendono a puntare più sulla conoscenza informale, tacita e interat-tiva come fonte di vantaggio competitivo. In questo secondo caso il suc-cesso – a livello individuale e collettivo – si sostiene che sia il prodotto della conoscenza e dell’esperienza artigianale, dell’apprendistato, della condivisione e diffusione delle informazioni, dell’imitazione, dell’innovazione e dell’adattamento incrementale, dei meccanismi endogeni e della flessibilità operativa1.

La natura stessa del distretto è connessa ai concetti di intrinseco, inti-mo, un luogo stretto, una circoscrizione, insomma una zona limitata e de-limitata. Il concetto di identità è centrale. Un’identità costruita nel tempo ed attraverso la tradizione. Il processo di apertura dei mercati minaccia questa condizione2.

Le reti, sia operative che strategiche, sembrano svincolarsi da questo legame ed innescano processi dove all’apertura si associa di frequente il trasferimento di quote di produzione esternalizzate sul territorio verso altre regioni nazionali e internazionali. In questi casi, pur non innescandosi pro-cessi di delocalizzazione delle imprese capofila (le quali hanno di frequen-te tutto l’interesse a permanere sul territorio in ragione delle opportunità che questo mette a disposizione in relazione all’offerta di manodopera qua-lificata, di servizi per l’impresa e non, di un contesto istituzionale, associa-tivo e di politica pubblica a cui il mondo dell’impresa riconosce un ruolo e un valore non marginali), quote di outsourcing destinate in origine al terri-torio vengono a disperdersi, indebolendo il sistema di subfornitura prima e le conoscenze accumulate (vero patrimonio dei distretti) poi.

Contrariamente alla tradizione dei distretti industriali, le problemati-che connesse ai processi organizzativi, l’evoluzione tecnologica e la for-mazione professionale della rete sono presidiate in modo diretto e conti-nuativo e alla necessità di gestire in modo integrato i processi di qualità, la progettazione (codesign), nonché le fasi produttive (comakership), uti-lizzando sistemi di codifica, specifiche e linguaggi comuni, si associa l’esigenza di programmare gli impegni reciproci che, vista la portata de-gli investimenti necessari per la costruzione della rete, non possono che essere programmati nel lungo periodo. Da qui la necessità di formalizza-zione della modalità di cooperazione, non solo per quanto concerne gli im-

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pegni di investimento ma anche per quanto riguarda lo svolgimento stesso dell’attività (si pensi ad esempio a tutta la parte relativa alla gestione della qualità in rete).

Dal nostro punto di vista, la rete è in grado di organizzarsi in forme e-volute, anche in ragione del fatto che le imprese che la compongono sono parte di un contesto distrettuale all’interno del quale le prassi di coopera-zione informale maturate nel tempo rappresentano un contesto favorevole per l’avvio di rapporti sofisticati di tipo reticolare.

I network possono quindi essere lo strumento che nasce all’interno del sistema locale e che meglio permette al distretto di dare risposta agli ele-menti dinamici che lo minacciano, primi tra tutti quelli di natura economi-ca e tecnologica3.

Quelli di natura economica sono rappresentati in particolare dall’apertura dei mercati, ossia dalla necessità di ridefinire la divisione del lavoro su quat-tro dimensioni: !"interna all’impresa; !"esterna all’impresa ma interna al distretto; !"esterna ai distretti ma interna al territorio; !"esterna ai distretti e al territorio.

In tutti e quattro i casi si tratta di ripensare da una parte la divisione del lavoro rispetto alle attività già svolte all’interno del sistema regionale, dall’altra di ridefinire la struttura produttiva e il contesto di conoscenze ac-cumulate4 in ragione dell’obiettivo di internalizzare entro il territorio quel-la quota di valore aggiunto incrementale generato dalle filiere (produttive e non) presidiate dal sistema produttivo locale, ma allocato all’esterno del territorio regionale.

Per quanto concerne invece gli elementi dinamici di natura tecnologica, questi riguardano solo in parte le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In generale, la dinamica tecnologica si muove più veloce-mente delle innovazioni incrementali prodotte dal distretto. I cicli di vita del prodotto, così come quelli delle tecnologie produttive erano, nel passa-to, molto più lunghi e dilatati nel tempo. In tale dimensione temporale, tutti gli aggiustamenti continui, le incessanti migliorie del prodotto e delle tec-nologie produttive, trovavano nel distretto industriale il loro ambiente fe-condo. Attualmente, il progresso tecnologico procede talmente velocemen-te che appare rendere insufficiente il sapere, le conoscenze e le tecniche produttive degli operatori all’interno del distretto5.

Che la tradizione del distretto rappresenti una risorsa per la costruzio-ne di reti avanzate per lo sviluppo è dimostrato dal fatto che multinazio-

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nali, imprese estere e fondi pensione internazionali, sempre più spesso acquisiscono imprese locali radicate sul territorio, frequentemente loca-lizzate all’interno dei distretti industriali emiliani romagnoli tecnologi-camente più sofisticati, ed avviano processi di ridefinizione nei rapporti con il sistema dell’outsourcing locale, a volte introducendo logiche avan-zate di organizzazione a rete. Questo processo non di rado viene avviato per accrescere il controllo sulle fasi critiche della filiera esternalizzate ad imprese locali. Occasionalmente la scelta strategica ha un orizzonte molto più ampio, volto a strutturare rapporti per i quali la crescita del su-bfornitore possa rappresentare un percorso finalizzato a metterlo nelle condizioni di proporre lui stesso innovazioni di prodotto, piuttosto che rispondere semplicemente (seppur in modo esaustivo e tempestivo) alle specifiche richieste del committente.

Nonostante il permanere di numerose incognite, talvolta i processi di acquisizione di imprese locali da parte di strutture estere contribuiscono a diffondere sul territorio competenze, professionalità, cultura manageriale e modelli organizzativi tradizionalmente non appartenenti al patrimonio ge-netico detenuto dal tessuto produttivo regionale.

Le tradizionali competenze tacite allocate in regione e legate al saper fare possono in questo caso incontrarsi con competenze manageriali di provenienza esogena, generando virtuosi processi dinamici di scambio cir-colare tra conoscenze tacite e codificate6.

Tutto ciò, insieme al fatto che gli organismi pubblici hanno preso co-scienza della necessità di sostenere, attraverso l’introduzione di misure specifiche di finanziamento7, processi di strutturazione di reti strategiche, può rappresentare il preludio all’avvio di un percorso di ridefinizione del sistema distrettuale nel suo complesso, percorso in grado di permettere ai distretti regionali di capitalizzare i tradizionali punti di forza sottoposti a frizioni e scompensi al fine di avviarsi, all’insegna della continuità, verso nuovi percorsi evolutivi.

Gran parte delle ricerche svolte dall’Istituto per il Lavoro mettono in luce un contesto all’interno del quale le spinte all’internazionalizzazione e l’avvento delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione risul-tano essere elementi di frizione tali da mettere in discussione molte cer-tezze consolidate.

Queste dinamiche rappresentano da un lato opportunità uniche soprat-tutto per contesti ad economia diffusa, d’altro canto, proprio all’interno di quelle aree ad alta frammentazione di impresa questi processi rischiano di innescare spirali regressive di portata ben maggiore rispetto ad altri conte-sti territoriali a minor densità di piccola e microimpresa. In particolare,

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all’interno di contesti organizzati nella forma distretto, l’impatto delle tra-sformazioni risulta essere duplice. Da una parte investe l’impresa in modo diretto, dall’altra la investe attraverso la rottura degli equilibri che conno-tano le forme distrettuali, ossia in modo indiretto. La somma di questi vet-tori rischia di impattare sulla singola impresa in termini esponenziali.

Tuttavia, all’interno del contesto emiliano romagnolo sembrano altresì emergere modelli di risposta alle dinamiche evolutive del mercato, i quali rappresentano da una parte esempi di buone pratiche, dall’altra segnali di una capacità di reazione del territorio spesso embrionale, ma tuttavia pre-sente. Le reti si collocano appieno all’interno di questo panorama e risulta-no ormai essere una risposta a numerose dinamiche regressive. All’interno dei distretti regionali sono tuttavia ancora rare le esperienze di costituzione di reti ristrette ma avanzate, fondate su accordi strategici per lo sviluppo comune nel lungo periodo e orientate all’innovazione di prodotto.

3. La rete come organizzazione

Le reti tra imprese si costituiscono in ragione dell’individuazione di possibili aree di cooperazione. Ciò non esclude che sulle aree nelle quali non vi è un accordo o un vantaggio alla cooperazione possano avviarsi processi puramente competitivi. Al contrario, ciò rappresenta non di rado elemento di dinamismo e apprendimento per la rete nel suo complesso. Le imprese di una rete, pur essendo autonome, presentano una distribuzio-ne del potere diseguale. Lo stesso in genere vale per quanto concerne l’allocazione delle risorse. Ciò rappresenta un aspetto di forte diversità ri-spetto alla forma distretto, questo elemento colloca la rete in una posizione intermedia tra la dimensione dell’organizzazione di mercato e quella ge-rarchica. La diversa distribuzione del potere all’interno della rete può rap-presentare da un lato un elemento di dinamismo del sistema nel suo com-plesso, d’altro canto occorre essere consci del fatto che la dimensione del governo della rete deve permettere alle singole unità che la compongono la possibilità di partecipare alle decisioni, esprimere l’eventuale dissenso, ma allo stesso tempo predisporre strumenti di sanzione nei confronti di azioni di free riding. Mentre all’interno del distretto queste dinamiche erano rego-late attraverso pratiche informali, incentrate su fiducia, coesione sociale, conoscenza diretta, la rete deve prevedere forme di gestione di altro tipo, formali su alcune dimensioni, informali su altre, in grado in ogni caso di garantire la flessibilità del sistema nel suo complesso.

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La componente organizzativa è quindi importante non solo rispetto alle modalità di gestione delle attività produttive, ma anche relativamente al “go-verno” del network. Certo è che l’esperienza insegna che mai una rete percor-re le tappe del suo sviluppo esattamente come si erano pensate, le funzioni di governo devono quindi essere progettate tenendo in considerazione questo e-lemento dinamico. Ancora, dal momento che la rete deve essere connotata da elementi di permeabilità non solo all’uscita ma anche all’ingresso, la sua conformazione dipenderà fortemente dalla portata di tali processi. Dal punto di vista organizzativo, gli elementi fondamentali che caratterizzano una rete di imprese sono il numero e la tipologia degli appartenenti, nonché il conte-nuto, la natura e l’intensità delle relazioni esistenti. Tali elementi risultano essere cruciali, perché da questi dipendono da un lato la capacità della rete di sprigionare conoscenze tacite e codificate in ragione dei processi cooperativi esistenti, dall’altro la possibilità che tali conoscenze si diffondano sul territo-rio in ragione dell’attrattività del network nei confronti di altre imprese e-sterne alla rete ma appartenenti al territorio.

Lo schema seguente rappresenta un quadro interpretativo volto a de-scrivere i differenti stadi nell’intensità della cooperazione tra imprese, an-che in riferimento alle diverse possibili implicazioni rispetto ai processi di condivisione della conoscenza (Fig. 1).

Il passaggio dal semplice scambio di informazioni allo sviluppo di mo-delli ad alta intensità di contenuto cooperativo, determinano implicazioni anche sul versante delle conoscenze che da individuali divengono distri-buite. Contrariamente alla forma distretto, nella quale la circolazione non controllata delle informazioni rappresenta l’elemento cardine della diffu-sione delle conoscenze tacite, i modelli di cooperazione propri delle reti tra imprese rendono necessario un forte presidio delle conoscenze (e un impe-gno particolare nella codifica delle tacite), ed è proprio questo il presuppo-sto affinchè possano essere distribuite all’interno del sistema di imprese organizzate a rete. In ogni caso, ciò non toglie che dalla rete si diffondano conoscenze tacite verso il sistema territoriale nel suo complesso e, vicever-sa, che il network possa appropriarsi delle conoscenze accumulate, patri-monio del tessuto produttivo locale. Presidiare queste dinamiche significa essere in grado di utilizzare tecniche di knowledge management di tipo in-ter-organizzativo, cioè relative alla conoscenza che non è né pubblica né firm-specific, come finora trattata.

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Fig. 1 - Intensità nei livelli di collaborazione ed integrazione

Fonte: Fraunhofer Institute for Industrial Engineering (Stuttgart) - Seminario di presenta-zione tenutosi a Bologna presso la Ducati Motor S.p.A., il 21 Settembre 1999

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4. Le forme e gli orientamenti della rete

Possiamo individuare tre forme idealtipiche di collaborazione: 1. collaborazione orizzontale tra aziende dello stesso tipo, in altre parole

“un accordo concentrato su un solo stadio della catena del valore, per esempio al fine di sfruttare economie di scala o raggiungere la massa critica di risorse necessaria per assicurare una determinata funzione”8;

2. collaborazione orizzontale tra aziende di tipo diverso, ossia quella “tra fornitori per lo stesso gruppo di clienti o di prodotti complementari e interdipendenti che costituiscono un sottogruppo del prodotto finito (i quali ad esempio pervengono ad un accordo al fine di produrre in ma-niera coordinata e collaborativa i pezzi richiesti dal cliente)”9;

3. collaborazione verticale, in altre parole “quella esistente tra aziende che appartengono a diversi stadi della catena del valore. Gli obiettivi perse-guiti in questo caso riguardano, ad esempio, il miglioramento della qua-lità e della flessibilità, oppure il superamento delle barriere per lo svi-luppo di nuovi prodotti o l’accesso a nuovi mercati, attraverso una maggiore integrazione delle competenze interne ed esterne”10. A queste possono corrisponderne altre di tipo misto. Come è ad esem-

pio nel caso in cui il committente richieda la fornitura di sottogruppi ad un fornitore selezionato, sottogruppi che quest’ultimo compone servendosi di altre imprese, in parte segnalate dal committente. In questo caso trattasi di accordo sulla dimensione verticale che però riguarda un processo di inte-grazione di tipo orizzontale.

Ognuno di questi processi collaborativi può avere orizzonti puramente operativi oppure strategici.

Le reti strategiche11 vengono avviate tra attori specializzati detentori di competenze tecniche specifiche, impegnati in forme di collaborazione a lungo termine, con una notevole interdipendenza e un intenso scambio. “Il rapporto è spesso sostenuto da meccanismi di garanzia che preservano la stabilità. Anche gli investimenti relazionali sono elevati e sono volti a for-malizzare e programmare lo scambio di informazioni e materiali tra le componenti della rete”.

Le reti operative12 riguardano invece attori specializzati in una fase del-la creazione del prodotto, impegnati in una collaborazione stabile, ma “la minor interdipendenza tra le parti richiede la presenza di un’unità con un forte ruolo di coordinamento e di alcuni meccanismi di garanzia più solidi.

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A seconda della durata del rapporto, la formalizzazione degli accordi e il meccanismo di supporto possono essere frequenti”.

La Figura 2 indica le tappe che connotano il passaggio da una coopera-zione di tipo tradizionale ad una più prettamente strategica, passando da una fase operativa.

Fig. 2 - Fasi di integrazione fra imprese

Fonte: Garibaldo F., Reti tra aziende e piccole e medie imprese, Istituto per il Lavoro, Working Paper n. 3, Bologna, 1999

Il primo è il caso in cui un committente, a fronte dell’indicazione delle

specifiche di prodotto al subfornitore, riceve una risposta in ragione dell’input dato. In questo caso trattasi di outsourcing di tipo appunto tradi-

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zionale. Il committente utilizza lo strumento dell’esternalizzazione della produzione come elemento di flessibilità in termini sia di differenziazione di prodotto sia come strumento di risposta alle fluttuazioni della domanda. Il rapporto non è paritario, il committente infatti detiene le risorse strategi-che, il contatto con la domanda finale, la gestione dei processi di innovazio-ne. Spesso in questi casi il rapporto di subfornitura è gestito dall’impresa fi-nale in modo tale da impedire che la crescita del subfornitore divenga una potenziale minaccia per il committente, come ad esempio accadrebbe se il fornitore uscisse dalla condizione di contoterzismo per posizionarsi come follower del committente sul suo stesso mercato di riferimento. La competi-tività di prezzo sul mercato finale è garantita frequentemente dallo schiac-ciamento dei margini dei subfornitori a basso potere contrattuale, ossia quelli in genere distanti dalle risorse strategiche (conoscenza del mercato finale, learning e skill specialistici, controllo di licenze e brevetti).

In antitesi con il caso dell’approccio tradizionale, quello strategico prevede non solo la partecipazione del subfornitore alla progettazione del prodotto (codesign) o un ruolo di comakership strategica, ma la necessità di una crescita del fornitore sia in termini di specializzazione sia in ter-mini di capacità innovativa, al fine di metterlo in grado di assumere un approccio propositivo e trainante rispetto alle possibili innovazioni da in-trodurre nel processo, ovviamente per la parte relativa alla sua area di competenza specifica.

Questa crescita, oltre ad implicare una riqualificazione delle competen-ze e della struttura organizzativa interna, impatta non di rado sugli aspetti più puramente tecnologici, il cui aggiornamento prevede di frequente la necessità di elevare la capacità produttiva del fornitore, cui deve seguire un aumento nei volumi prodotti. La crescita di fornitori comuni a più imprese concorrenti localizzate nel medesimo territorio è quindi spesso perseguibi-le unicamente attraverso accordi collaborativi in grado di assicurare ai for-nitori una domanda tanto ampia e continuativa nel tempo da permettere lo-ro di ammortizzare l’investimento.

Questi processi di progressiva specializzazione non devono in ogni caso intaccare gli elementi di flessibilità. Al contrario, non solo è necessario che il fornitore effettui frequenti consegne nei tempi stabiliti, ma occorre che assicuri la flessibilità rispetto al piano di produzione concordato. Anche in questo caso, tali percorsi sono attuabili unicamente attraverso una parteci-pazione all’investimento da parte del committente, non solo in termini di capitale finanziario, ma anche in termini di impegno in capitale umano. Quindi, alla flessibilità connaturata alla rete occorre abbinare una crescita nella flessibilità interna alle singole imprese.

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Nel caso dell’integrazione strategica il committente, pur detenendo un ruolo di rilevanza tale da rendere diseguale la distribuzione del potere all’interno dei processi della rete, assume, nei confronti dei subfornitori ad essa appartenenti, un approccio diametralmente opposto al caso dell’orientamento tradizionale. Nel caso dell’ integrazione strategica, grazie ad importanti in-vestimenti nella costruzione della rete, il sistema riesce ad assicurarsi una maggior efficienza complessiva di lungo periodo, tagliando sui tempi di at-traversamento (lead time) e distribuendo i benefici. Tutto ciò implica una ridefinizione nella visione dei processi di esternalizzazione secondo un o-rientamento di tipo puramente strategico. In sostanza occorre passare da un modello di outsourcing di tipo tradizionale a forme di comakership e copro-gettazione evolute.

Inutile dire che questo approccio si fonda sulla qualificazione e valo-rizzazione del lavoro nel lungo periodo e non significa semplicemente formazione continua lungo tutto l’arco della vita. L’integrazione strategi-ca è perciò perseguibile attraverso l’adozione di un concetto di flessibili-tà interna piuttosto che esterna13, non quindi fondata sulla segmentazione degli addetti in un gruppo centrale permanente e svariate forme di lavori precari, come i lavori temporanei, i contratti a termine e i subcontratti, ma su una qualificazione continua che non può essere sganciata da quegli elementi più direttamente connessi con i concetti di protezione e sicurez-za del posto di lavoro.

La flessibilità diviene quindi, da un lato esterna all’impresa ma interna al sistema distretto (in ragione degli elementi di cooperazione e competi-zione), dall’altro interna anche alla singola impresa in ragione della flessi-bilità funzionale. Il valore della prossimità, sia dal punto di vista della fles-sibilità sistemica, sia da quello delle conoscenze accumulate, risulta quindi essere cruciale14.

Il punto centrale che connota le integrazioni di tipo strategico è che queste non si fondano su ipotesi di cooperazione incentrate sull’abbattimento dei co-sti unitari in ragione delle maggiori economie di scala tecniche e monetarie raggiungibili grazie all’aumentata massa critica.

In diversi settori, in genere maturi, questa scelta produrrebbe benefici marginali nonché di breve periodo. Se infatti l’obiettivo è quello di svi-luppare reti in grado di appropriarsi di quelle quote di valore non presi-diate dalla filiera locale, concentrarsi sulle economie di scala significhe-rebbe aumentare i margini su una parte della filiera che ha perso nel tem-po quote di valore all’interno della catena complessiva. La sfida è allora quella di integrarsi non tanto per accrescere le economie di scala sistemi-che, bensì per appropriarsi di nuove quote di valore a discapito di compe-

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titori esterni al territorio regionale e di acquisire una capacità evolutiva dinamica in grado di generare innovazione.

Questa opzione non può essere perseguita se non avviando modalità cooperative di tipo strategico piuttosto che incentrate sull’aumento dei margini in ragione dell’abbattimento dei costi unitari.

Su questo versante, il rischio che si inneschino spirali regressive non è certamente estraneo alla nostra regione. Recenti studi15 hanno dimostrato che anche in Emilia Romagna vi sono sistemi produttivi al bivio, un esem-pio è certamente rappresentato dal settore del mobile imbottito di Forlì. Il comparto è infatti interamente concentrato sulla parte della catena del va-lore relativa alla manifattura, mentre non presidia (ad eccezione della ven-dita diretta a un limitato per quanto saturo mercato locale) la parte finale della sua sfera di attività economica (a valle della filiera di produzione), ossia la commercializzazione.

Ciò rappresenta un elemento di particolare criticità anche in ragione del fatto che la parte non produttiva a monte della filiera, ossia quella di idea-zione-progettazione, non risulta essere una fase ad alto valore aggiunto.

L’ideazione, nella migliore delle ipotesi, consta nella mera imitazione di modelli ideati da produttori leader esterni al territorio forlivese, ma più di frequente la grande distribuzione organizzata impone stili, rivestimenti e numero dei modelli da produrre.

La progettazione invece è praticamente inesistente, si pensi che la sem-plicità delle tecnologie di produzione è tale per cui uno schizzo o a volte una semplice descrizione di quello che si desidera realizzare, rappresenta-no il supporto sufficiente per la realizzazione operativa del prototipo. Per finire, la fabbricazione di quest’ultimo richiede le medesime competenze che occorrono nella produzione vera e propria.

Il valore aggiunto generato dalle fasi immateriali del ciclo risulta perciò risiedere all’esterno del territorio forlivese e in particolare, per quanto con-cerne la parte a monte delle fasi produttive, presso coloro che dettano la moda; per quanto riguarda invece il valore a valle del ciclo produttivo, presso chi detiene la visibilità sul mercato, quindi il marchio. Dal momen-to che entrambe le fasi a monte e a valle del ciclo di produzione risultano essere strategiche e sono in prevalenza appannaggio delle reti di distribu-zione organizzate, la filiera produttiva rischia di divenire l’anello debole della catena. Dal momento che il contatto con il cliente finale risulta es-sere cruciale, sia per le scelte di innovazione di prodotto, sia rispetto alla visibilità sul mercato, diventa essenziale prendere coscienza del fatto che perdere il collegamento con il consumatore espone a rischi non certo di scarso rilievo16.

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In sostanza, le imprese del mobile approcciano la dinamica del “gioco competitivo” riferendosi a regole ormai cambiate, non più valide perché superate. La struttura organizzativa del sistema forlivese (la divisione del lavoro) non è perciò più appropriata rispetto alla ormai mutata dimensione della competizione (estensione del mercato)17.

Una ipotesi di politica industriale volta a superare questi rischi poten-ziali potrebbe allora essere quella di promuovere inizialmente la costitu-zione di reti operative18 in grado di centralizzare funzioni produttive, ma soprattutto managerialità esterna al comparto, allo scopo di ridurre rispet-tivamente le diseconomie tecniche che derivano dalla piccola dimensione e al fine di riappropriarsi di quella riconoscibilità sul mercato ormai intera-mente appannaggio della distribuzione; la quale, oltre a imporre ai produt-tori forlivesi il proprio marchio, impone di frequente anche i modelli, i prezzi, i tempi di consegna e le modalità di pagamento.

In conclusione, posto che le reti tra imprese possono avere orizzonti di-versi, è comunque opportuno sottolineare che una rete di tipo strategico è spesso il risultato di un processo di carattere progressivo il quale nasce da processi di cooperazione in grado di generare a breve vantaggi tangibili, ma che in ragione di un successo iniziale, divengono in un secondo momento di carattere strategico, i cui orizzonti, nonché i riscontri, sono solitamente di lungo periodo. È perciò importante, proprio al fine di sostenere reti strategi-che, incentivare integrazioni di stampo puramente operativo. Tra l’altro, questo approccio è stato recepito dal governo regionale nell’ambito delle mi-sure di sostegno per la creazione di reti tra imprese19.

5. Esperienze di cooperazione e competizione in Emilia Romagna: luci e ombre sul modello a rete

Il territorio regionale presenta svariati esempi di collaborazione tradi-zionale tra imprese. Le esperienze di cooperazione fondate sul modello della rete come strumento per l’integrazione di tipo strategico sono tutta-via rare. Vi sono altresì alcuni tentativi volti ad avviare processi del tipo di quelli sopra detti, sia in settori manifatturieri sia, cosa certo meno fre-quente, nel comparto dei servizi. Le esperienze avviate si ritrovano pre-valentemente nel settore della produzione di macchine per l’agricoltura, in quello delle macchine per il legno e nel settore packaging. In quello motoristico si stanno innescando percorsi di integrazione di orizzonte in alcuni casi operativo e in altri strategico. In provincia di Ravenna, nel comparto delle produzioni meccaniche, vi è in corso un tentativo volto ad

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integrare orizzontalmente alcune imprese artigiane, al fine di metterle nelle condizioni di entrare in mercati non presidiati, grazie allo sviluppo di un macchinario progettato e prodotto da un gruppo ristretto di imprese organizzate a rete. Infine, nel settore dei servizi di impiantistica e instal-lazione si sta tentando di far decollare un progetto il cui obiettivo è quel-lo di strutturare un modello di cooperazione tra alcune imprese romagno-le, allo scopo di permettere loro di gestire in modo integrato i servizi di manutenzione del patrimonio immobiliare di proprietà di enti pubblici locali.

Queste esperienze, nate prevalentemente all’interno di contesti distret-tuali, rappresentano semplici esempi e sicuramente non esauriscono la to-talità delle esperienze in atto, in procinto di essere avviate o in corso di progettazione. Peraltro, non è neppure agevole avviare una comparazione tra le varie esperienze, infatti, quando si parla di reti tra imprese, si inten-dono spesso concetti tra loro profondamente diversi. Spesso infatti si ra-giona sulla rete in termini prevalentemente di questioni connesse alla tele-matica, altre volte in termini esclusivamente organizzativi, di gestione del-la qualità tra imprese integrate ma autonome, altre ancora con accezioni puramente filosofiche.

Una delle caratteristiche che a parer nostro dovrebbe contraddistinguere le esperienze delle reti tra imprese da altri processi di tipo più puramente cooperativo, consortile o associativo consiste nel fatto che l’introduzione di un modello di networking tra aziende autonome dovrebbe produrre una ridefinizione della divisione del lavoro interna alle singole imprese appar-tenenti all’organizzazione a rete.

Uno degli elementi di innovazione cruciali che connotano i network stra-tegici è rappresentato dal fatto che l’introduzione di modelli cooperativi in grado di internalizzare vantaggi potenziali che altrimenti rimarrebbero inap-propriabili da parte della singola azienda, implica, necessariamente, una ri-definizione della divisione del lavoro all’interno delle singole aziende appar-tenenti alla rete. Ciò rappresenta un non marginale elemento di novità, infat-ti, in passato, le azioni di sistema sono in genere state pensate per produrre economie di gruppo evitando tuttavia che questo impattasse sulle singole imprese appartenenti alla rete. Si sono ossia progettate architetture esplici-tamente pensate per produrre un puro vantaggio per il sistema nel suo com-plesso, evitando accuratamente che ciò determinasse ricadute all’interno del-le singole imprese partecipanti al sistema.

Ci riferiamo in particolare all’esperienza dei consorzi che, pur essendo stata cruciale per lo sviluppo regionale, non ha spesso portato ricadute tangibili in termini di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro interna all’impresa. Un

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esempio sono i consorzi fidi e di acquisto, il cui vantaggio strategico è im-perniato esclusivamente sull’incremento delle economie di scala monetarie in ragione della maggior capacità di lobbying detenuta da una coalizione di imprese. In questa situazione: !"il vantaggio per il singolo prescinde dalla riorganizzazione del singolo; !"le maggiori economie di scala internalizzate grazie alla nascita della coa-

lizione non determinano una ridefinizione della divisione del lavoro complessiva, nonostante la ricomposizione dell’offerta dei singoli possa esprimere una nuova estensione del mercato.

Una vera evoluzione del sistema è invece raggiungibile esclusivamente attraverso il salto di qualità delle singole imprese ad esso appartenenti o meglio, che gli danno vita.

La veridicità di quanto detto è dimostrata dal fatto che, all’interno del territorio regionale, si assiste ad attività volte ad introdurre modelli di or-ganizzazione a rete ristrette di tipo evoluto in strutture che già nel passato avevano sperimentato processi di cooperazione tra imprese o che addirit-tura, come nel caso dei consorzi, erano nate in ragione della volontà di sviluppare azioni sistemiche. In questi casi il nuovo ruolo del consorzio diviene quello di integratore della rete, in ragione per esempio della volontà comune di introdurre modalità di cooperazione incentrate sull’utilizzo delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In questo caso il consorzio viene ad assolvere una funzione di coordinamento e gestione dei processi comuni e condivisi da mettere in campo. Il ruolo di fiducia riconosciuto alla struttura consortile da parte delle imprese socie rappre-senta spesso l’elemento chiave per avviare processi di cooperazione evo-luti. Nel caso della creazione di reti tra imprese all’interno di consorzi è necessario partire con un gruppo ristretto di imprese ed eventualmente diffondere in un secondo momento la pratica già sperimentata verso le altre imprese appartenenti alla struttura. In certi casi le imprese iscritte al consorzio possono addirittura rappresentare un bacino di aziende privile-giato su cui sperimentare e validare le modalità e le pratiche definite all’interno del gruppo ristretto.

Pur consci della portata dei vantaggi potenziali ci preme sottolineare che, in generale, troppo di frequente la rete è intesa come ricetta per la so-luzione del problema della forte frammentazione del tessuto produttivo, addirittura spesso proposta come “soluzione”, ossia modello “chiavi in mano” in grado di permettere il superamento delle diseconomie di scala connaturate alla piccola dimensione. Più che una soluzione il network rappresenta a parer nostro un processo, lungo, sempre diverso, in grado

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di permettere il superamento di criticità di tipo efficientistico come stra-tegico. D’altro canto, chi ha operato in questo ambito, sia all’interno del mondo della rappresentanza datoriale, sia dell’istituzione pubblica e della consulenza privata, ben conosce le difficoltà connesse alla strutturazione di reti tra imprese. Infatti, a fronte della necessità di dare ai rapporti di coope-razione una valenza strategica con ricadute nel lungo periodo, piuttosto che legarla esclusivamente all’internalizzazione di economie di scala esterne al network, occorre attuare processi cooperativi in grado di fornire nel breve periodo ritorni economici alle aziende partecipanti alla rete, affinché que-ste continuino a sostenerla.

Inoltre, la già richiamata varietà delle problematiche legate alla creazione di network tra imprese rendono necessaria la strutturazione di pool misti di professionisti e esperti in diverse discipline che spaziano dalla strategia di impresa all’organizzazione, fino ad arrivare alla progettazione e implemen-tazione delle architetture informatiche per il lavoro cooperativo (Computer supported co-operative work)20.

A seconda dell’oggetto della cooperazione è inoltre necessario utilizza-re competenze tecniche specifiche, per esempio in riferimento a quelle par-ticolarità connesse alla definizione delle specifiche di un prodotto piuttosto che un altro.

Ancor più critici sono quegli aspetti legati al tipo di architettura di re-te da implementare, questo rappresenta infatti un elemento in grado di determinare l’allocazione delle risorse (economiche, di potere, di gestio-ne dei flussi informativi) tra le aziende coinvolte. L’architettura della rete è quindi sempre da definirsi in ragione di percorsi che partono dalle esi-genze dei singoli membri che ne sono parte, ossia attraverso processi dal basso (bottom up).

I processi dal basso devono in ogni caso sempre prevedere elementi top-down, nonché una struttura di regole in grado di garantire la democraticità nella costruzione dello schema interpretativo e dei percorsi programmatici, al fine di evitare il rischio che prevalgano le tesi del “più forte”.

La costituzione di gruppi di lavoro misti imprese-esperti rappresenta un utile modello al fine di raggiungere schemi condivisi dalle singole imprese della rete.

Il forte impegno degli imprenditori e del personale dipendente che mate-rialmente opererà nel network ha quindi una rilevanza non accessoria al fine della costruzione dell’architettura della rete. Infine, la formazione è sempre un punto cardine del processo di preparazione e avvio, ma deve rappresentare un’attività continuativa anche dopo l’assestamento del sistema.

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Il ripensamento della logica di relazione tra imprese secondo il modello della rete mette quindi in campo una vasta serie di complessità che partono dalle dinamiche giocate sul livello meso, ma riguardano anche le dimen-sioni di livello macro e micro.

Come rappresentato nello schema seguente (Fig. 3), la ridefinizione dei modelli di cooperazione abbraccia un’ampia serie di problematiche.

Fig. 3 - Modello esplicativo

Specifici fattori nazionali #

$ Organizzazione $ $ $

Riduzione del time-to-market

$ Relazione

tra fornitori $ $

Riduzione del lead time

$

$

Introduzione di pratiche

per la progettazione simultanea cuncurrent engineering

$

$ Politiche delle risorse umane

$

$

Passaggio da un’organizzazione

gerarchico-funzionale a

un’organizzazione a flusso non confinato

$

Strategie delle imprese e delle industrie

$ Sistema infor-mativo e di co-municazione

$

Modelli di cooperazione

all’interno delle catene del processo

$ Sostenibilità sociale $

Cambia-menti nelle

strutture e nelle

strategie

% Apprendimento tra imprese e nazioni

Fonte: nostra elaborazione da Ulrich Jürgens, Comunication and Cooperation in the new product and process development networks: an international comparison of country – and industry – specific patterns, in “Jürgens U. (ed.), New product development and production networks”, Springer, Berlin, 2000.

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6. La costruzione di reti tra imprese focali e imprese di subfornitura: progettazione e ruolo degli attori collettivi come elementi chiave per il successo del modello

Come accennato nel paragrafo precedente, l’articolazione del sistema di governo della rete deve essere un prodotto che parte dalle esigenze di o-gnuna delle singole imprese che la compongono.

Analogamente, “dal basso” devono essere determinate una serie di re-gole condivise le quali diverranno principi regolatori per tutti i membri del gruppo. Questi principi devono essere trasferiti in un documento pro-grammatico che ne certifichi la fattiva condivisione di tutti i partecipanti.

All’interno di ogni rete, insieme agli elementi di vantaggio reciproco alla cooperazione, permangono elementi di competizione. Allo stesso tempo, i vantaggi alla cooperazione hanno sempre gradi di intensità differenti. Ossia per alcuni il vantaggio può essere maggiore che per altri. Ciò rappresenta un elemento di rischio potenziale per lo sviluppo della rete in chiave strategica.

Far emergere in modo preventivo le diverse intensità del vantaggio alla collaborazione rappresenta un passaggio cruciale, da affrontare nella fase di progettazione della struttura della rete.

I “punti di vista”, cioè gli interessi, le strategie ed il regime di vincoli ed opportunità dei diversi “attori” non coincidono “naturalmente”.

Solo un progetto condiviso può determinare condizioni di coesistenza dei punti di vista, cioè una condizione a somma positiva o comunque non a somma zero delle strategie dei diversi attori.

Si tratta quindi di elencare gli attori in gioco, comprenderne le ragioni, farli dialogare attorno ad un nucleo di idee base che determinino una trama sulla quale sia possibile tessere un rapporto di fiducia o quantomeno di atte-se razionali positive.

Le tecniche e le metodologie di progettazione che a tal fine possono esse-re utilizzate sono “i gruppi di discussione” e “le conferenze di ricerca”, sia nella loro forma canonica, sia in forme riviste ed adattate alle circostanze specifiche21.

Le categorie collettive di attori che detengono un qualche interesse legit-timo in materia di riorganizzazione secondo il modello della rete tra impresa focale e imprese di subfornitura sono, per successive approssimazioni: !"l’impresa focale; !"i fornitori; !"i lavoratori ed i sindacati; !"le pubbliche istituzioni.

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Ognuno di questi attori ha interessi legittimi relativamente al tema dell’organizzazione della catena di subfornitura.

Ognuna di queste categorie collettive contiene più di un punto di vista: • l’impresa focale contiene la proprietà, il management, i lavoratori e le

loro rappresentanze sindacali-Rsu; a sua volta il management ha punti di vista diversi a seconda che si occupi di produzione piuttosto che di acquisti, ecc. In fase di progettazione, per ragioni di semplificazione e di fattibilità, è auspicabile considerare solo due punti di vista, quello del management e quello della Rsu, considerando che tutti gli altri pun-ti di vista, pur legittimi, si rapportino in modo dialettico con questi due attori collettivi;

• i fornitori sono divisi sia in base al loro ruolo verso l’impresa focale – siste-misti, conto lavorazioni, ecc. – sia tra di loro rispetto al loro posiziona-mento di mercato, alle tecnologie impiegate, ecc. Nei casi di proget-tazione di reti a livelli è importante non prendere in considerazione i soli punti di vista dei fornitori di primo livello, bensì considerare al-meno due aree di interesse, ossia quelle espresse dai fornitori di pri-mo e secondo livello;

• i lavoratori ed i sindacati sono articolati tra impresa focale e le altre a-ziende coinvolte, tra rappresentanza aziendale e rappresentanza di cate-goria a livello generale del territorio provinciale e/o regionale, ecc. Oc-corre in questo caso prendere in considerazione almeno tre punti di vista: l’Rsu dell’impresa focale, i sindacati di categoria del territorio provincia-le e della regione. Le altre Rsu o rappresentanze possono invece parteci-pare se e quando esse entreranno in gioco direttamente e non in modo presuntivo;

• le pubbliche istituzioni dei territori nei quali le imprese della rete sono localizzate (Comuni, Province, Regione) potrebbero non esprimere inte-ressi sempre coincidenti, sia pur in presenza, come è nel caso dell’Emilia Romagna, di un piano triennale votato dal Consiglio Regionale ed ap-provato in sede di preventiva consultazione delle forze sociali.

La nostra ipotesi generale è che un progetto di rete possa trovare la for-za intrinseca per potere elaborare un percorso che consenta una somma po-sitiva degli interessi espressi da tutti gli attori in campo, secondo una logi-ca di Pareto-efficienza. Ciò naturalmente non va solo presupposto bensì organizzato e dimostrato.

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6.1 La definizione di un terreno programmatico di azione condiviso

Da quanto già detto consegue la necessità di giungere alla definizione di un’ipotesi progettuale, che definiamo “documento programmatico”, che possa rappresentare la trama sulla quale poi operare.

Il documento programmatico per essere credibile deve contenere delle regole operative. Va definito un documento programmatico, in questo senso forte del termine, per quanto riguarda i rapporti tra impresa focale, Rsu e sindacati di categoria, sia a livello provinciale che regionale (nel caso di reti multiprovinciali). Vanno poi realizzati sia quello tra impresa focale e fornitori, sia quello tra impresa focale, fornitori, sindacati e pub-bliche istituzioni.

A tal fine, un possibile percorso rispondente a criteri di coerenza può prevedere le seguenti tappe o fasi: • prima di tutto l’impresa focale e i fornitori, da valutazioni fatte nell’ambito

di progetti analoghi svolti dall’Istituto per il Lavoro22, emergono, in svariati settori regionali, situazioni ad alto tasso di complessità e conflittualità poten-ziale sia tra imprese focali e fornitori di primo livello, sia tra fornitori di primo e secondo livello, sia tra imprese di secondo e terzo livello;

• successivamente imprese, sindacato e pubbliche istituzioni. Il metodo utilizzato è in genere quello della costruzione congiunta di un

documento programmatico con le metodologie già indicate.

6.2 Il lavoro di elaborazione del progetto

Il progetto si articola in generale in una fase di “analisi” ed in una di “sviluppo”. Per quanto riguarda la prima si opera attraverso l’elaborazione di strumenti di analisi sul campo. Questi strumenti devono ovviamente ri-guardare sia i fornitori che l’impresa focale. Analoghi strumenti devono essere predisposti per l’analisi e la rilevazione degli interessi espressi dagli altri attori in campo, in primis sindacato e pubbliche istituzioni.

I risultati vengono poi sintetizzati all’interno di un articolato comune, discusso in due conferenze di ricerca separate: la prima tra impresa focale e fornitori, la seconda, relativamente solo alle parti di competenza diretta, tra imprese, sindacato e pubbliche istituzioni. Questa attività darà origine alla seconda fase progettuale: lo sviluppo.

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6.3 Lo sviluppo

La fase di sviluppo si articola in genere in tre filoni: • lo sviluppo del percorso di integrazione strategica tra impresa focale e un

pool di aziende di subfornitura; il prodotto è il decollo della fase iniziale di integrazione;

• lo sviluppo della parte telematico-comunicativa; il prodotto è costituito dalla sperimentazione dei prototipi e la messa in funzione della rete telematica;

• lo sviluppo delle azioni formative, con il supporto pubblico, e di tutte quelle concordate con il sindacato e le pubbliche istituzioni.

7. Tendenze di fornitura a livelli

Sulla spinta della progressiva integrazione dei mercati e in ragione di processi di riorganizzazione del sistema di subfornitura avviati da importanti imprese finali localizzate nella nostra regione, si stanno diffondendo prassi e modelli volti a determinare una semplificazione nel sistema di relazioni tra imprese committenti da una parte e subfornitori e contoterzisti dall’altra.

L’idea è quella di gestire la parte di quote di produzione in outsourcing se-lezionando diversi livelli di fornitori con funzioni, responsabilità e intensità nel livello di condivisione del rischio, differenti. Ma con alcune attività, quali la gestione della qualità, compatibili. Così come compatibili debbono essere le configurazioni informatiche per la gestione dei processi informativi.

In sostanza l’impresa finale esternalizza parte dei propri compiti di rac-cordo, coordinamento e controllo ad alcune imprese “selezionate”, a cui viene delegata (ma non ceduta) la fornitura di gruppi preassemblati.

Questi fornitori, cosiddetti di primo livello, divengono “gestori” della fornitura di un prodotto non più singolo ma complesso e allo stesso tempo si assumono il compito di coordinare l’attività di quei produttori di com-ponenti e lavorazioni specializzate che partecipano alla composizione dei gruppi sopra detti. Il fornitore di primo livello assume quindi compiti di organizzazione e gestione di tutti coloro che appartengono ai livelli suc-cessivi. Perciò, il produttore finale, anziché dialogare con ogni singolo su-bfornitore, ristruttura il proprio sistema di relazioni coinvolgendo parte dei propri fornitori storici nello svolgimento di quelle attività di gestione e monitoraggio originariamente svolte direttamente e che ora vengono in parte decentrate verso imprese di fiducia. L’impresa committente riduce in questo modo la complessità gestionale in ragione dell’esternalizzazione di

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quegli oneri connessi ai controlli diretti, all’organizzazione del sistema della logistica, ai costi di magazzino (solo per dirne alcuni). Con l’avvio di pratiche di fornitura “a livelli” il committente viene quindi ad esternalizza-re parti rilevanti dei processi primari dell’azienda e non a svolgere più un mero outsourcing di capacità.

Nel complesso il committente di gruppi riduce il numero delle interfac-ce, dal momento che si ritrova, nel caso dell’organizzazione della fornitura “a livelli”, a dialogare esclusivamente con il primo livello piuttosto che con la totalità delle imprese che compongono la rete di subfornitura. Ciò, tuttavia, non significa che a questo corrisponda per definizione una ridu-zione nella numerosità delle imprese che partecipano, sui vari livelli, al si-stema di subfornitura. In sostanza, invece di tanti fornitori “semplici” (es-senzialmente “produttori”) da coordinare in maniera complessa (anche in relazione ai segmenti del processo produttivo mantenuti “in casa”), si pre-ferisce interloquire con pochi fornitori “complessi” (essenzialmente degli “intermediari” verso altri “produttori”) cui viene delegato il coordinamento verso la sub-rete di fornitori.

Le Figure 4 e 5 descrivono il passaggio dalla fase di outsourcing tradi-zionale all’organizzazione “a livelli”. Fig. 4 - Sistema di outsourcing tradizionale

Fonte: nostra elaborazione da P. Maggiolini, Materiali di ricerca interni dell’Istituto per il Lavoro, Bologna, 2000

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Fig. 5 - Sistema di outsourcing “a livelli”

Fonte: nostra elaborazione da P. Maggiolini, Materiali di ricerca interni dell’Istituto per il Lavoro, Bologna, 2000

Allo stesso tempo, a questa attività di semplificazione nel sistema ge-

stionale se ne affianca una complementare, cioè quella di riduzione del numero di componenti a parità di differenziazione di prodotto, ossia un processo di standardizzazione dei componenti intermedi a parità di prodotti offerti sul mercato. Quindi un percorso volto ad accrescere le economie di scala produttive a parità di economie di scopo.

Lo schema seguente (Fig. 6) propone una rappresentazione grafica di que-sto secondo percorso. Se le fasi A, B, C e D rappresentano quattro diverse fasi produttive appartenenti a un ciclo di prodotto eterogeneo23, al tempo T1 le fasi B e C prevedono la produzione rispettivamente di 3 e 4 componenti intermedi “in parallelo”.

Il percorso di standardizzazione permette di ottenere, al tempo T2, una riduzione del numero di componenti prodotti nelle fasi B e C (si passa infatti rispettivamente da 3 e 4 a 2 e 3), a fronte però del mantenimento di una dif-ferenziazione di prodotto del bene finale analoga a quella al tempo T1.

Nel momento T2 si ottiene quindi una maggiore capacità di interna-lizzazione delle economie di scala produttive, a fronte di una invarianza di quelle di scopo.

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Fig. 6 - Economie di scala e di scopo

Percorsi di fornitura a livelli, così come l’internalizzazione di economie di

scala tecniche a parità di economie di scopo, non possono essere avviati dal committente se non all’interno di una logica di integrazione strategica, nella quale il subfornitore assume un ruolo di innovatore/specialista/propositivo piuttosto che di specialista/contoterzista/passivo.

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Il diffondersi di questi processi ha innescato sul territorio alcune dina-miche, non ancora quantitativamente percepibili, ma in prospettiva in gra-do di mutare, in alcuni comparti produttivi in particolare, l’allocazione del-le risorse. Le direttrici del cambiamento individuate sembrano descrivere una situazione per la quale la riallocazione del valore aggiunto prodotto dal territorio si sposta dalla piccola alla media impresa. La grande, prevalen-temente in alcuni settori, perde occupati, anche in ragione del fatto che e-sternalizza quote di produzione, in origine prodotte all’interno del territo-rio, verso imprese extraregionali.

Come in tutti i processi di trasformazione, il passaggio da un sistema di fornitura tradizionale ad uno imperniato sulla fornitura “a livelli”, non av-viene in modo indolore. Alcune direttrici sembrano però essere chiare: • le imprese committenti locali sono spesso indotte ad abbandonare i forni-

tori storici perché non in grado o non interessati a seguire la strategia del produttore finale;

• i fornitori abituali si trovano a dover ridefinire il loro ruolo e passare da contoterzisti ad assemblatori di gruppi in grado di presidiare quelle com-plessità più propriamente legate all’organizzazione.

Non di rado, alla domanda di fornitura di gruppi da parte di produttori fi-nali locali, la rete di subfornitura regionale non è in grado di rispondere con un’offerta corrispondente.

In altri casi, individuati prevalentemente attraverso analisi sul campo, i contoterzisti emiliani romagnoli dimostrano difficoltà non solo nell’acquisire quelle competenze organizzative in grado di permettere loro la gestione della fornitura di gruppi piuttosto che di singoli componenti, ma anche relativamen-te al rispetto degli standard qualitativi richiesti dal committente sui singoli componenti. Nonostante la forte specializzazione nelle produzioni locali24 legate al comparto della meccanica rimanga il vero punto di forza del territo-rio regionale, si assiste a casi in cui il subfornitore perde la commessa sui componenti, ossia quella legata al core business dell’azienda, per divenire fornitore di gruppi composti da componenti prodotti da imprese esterne al territorio regionale, attraverso la modalità del conto lavoro.

In questi casi il subfornitore viene sì ad internalizzare il valore derivato dall’assemblaggio, ma perde tuttavia quello connesso alla produzione del componente divenuto qualitativamente non corrispondente agli standard del produttore. Dal punto di vista strategico ciò rappresenta un indeboli-mento da due punti di vista: • da quello dell’impresa subfornitrice, ciò viene ad edulcorare il suo punto

di forza storico legato alla specializzazione produttiva di componenti e

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lavorazioni meccaniche, per divenire un assemblatore in grado di gestire in modo efficiente la logistica e lo stoccaggio;

• dal punto di vista del territorio si rischia di interrompere quel circuito di trasmissione delle conoscenze tacite che ha rappresentato nel passato il vero punto di forza del tessuto produttivo regionale.

L’ipotesi peggiore è che l’impresa committente trovi vantaggioso sosti-tuire il fornitore storico qualitativamente affidabile ma incapace di gestire la fornitura di gruppi, con fornitori esterni all’area regionale già alfabetiz-zati nell’uso degli strumenti gestionali (per il controllo della qualità e per la gestione della logistica, solo per dirne alcuni) propri della fornitura di gruppi secondo la logica dei livelli.

Per ipotesi, nel caso l’accordo tra Fiat e General Motors si riveli in-centrato sulla crescita delle economie di scala tecniche e monetarie di gruppo, ciò potrebbe comportare un maggior orientamento delle due im-prese automobilistiche alla fornitura su scala globale secondo la logica del global purchasing e questo potrebbe determinare lo spostamento di quote di subfornitura esternalizzate dalla Fiat a fornitori localizzati in Lombardia verso fornitori di altri paesi, ad economia avanzata come in via di sviluppo.

Il sistema della subfornitura Fiat appartenente al primo livello libere-rebbe in questo modo una quota rilevante di capacità produttiva e diver-rebbe un potenziale fornitore delle imprese finali emiliane romagnole che, in ragione dell’avvio di percorsi di riorganizzazione fondati sulla modalità della fornitura “a livelli”, ricercano imprese in grado di gestire l’offerta di gruppi preassemblati (le cosiddette imprese di primo livello). Il fatto che l’indotto Fiat abbia raggiunto una rilevante capacità organizzativo-gestionale rispetto alla fornitura di gruppi, rappresenta una minaccia per il sistema della subfornitura emiliano romagnolo, in particolare quello il cui sosten-tamento è direttamente legato alle commesse provenienti dalle imprese fi-nali localizzate nella nostra regione e appartenenti ai settori auto, motoci-clo, ciclomotore, motori diesel e a scoppio, macchine agricole e per il tra-sporto pesante di merci (camion) e persone (bus)25.

Ciò si riverbererebbe a cascata su tutti i livelli della rete e non solo, deter-minando effetti devastanti sia per il distretto motoristico (in particolare nella zona di Bologna) sia per i distretti ad esso collegati, attraverso l’impatto che si determinerebbe sul sistema della subfornitura comune a più distretti, sia infine per la rete di servizi legata al tessuto produttivo locale.

L’ipotesi dell’esistenza di difficoltà dal punto di vista del rispetto degli standard qualitativi è dimostrata dal fatto che alcune importanti imprese

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finali regionali le quali esternalizzano quote consistenti di produzione ed utilizzano la modalità del free pass (ossia un sistema di accesso senza con-trolli per quei componenti e semilavorati prodotti da subfornitori ricono-sciuti affidabili dall’azienda committente), concedono questo riconosci-mento prevalentemente ad imprese localizzate all’esterno del territorio re-gionale. Indagini svolte dall’Istituto per il Lavoro hanno infatti rilevato che non di rado la percentuale di fornitori emiliani romagnoli in free pass è, in alcuni importanti settori produttivi ad elevata presenza di imprese commit-tenti che utilizzano sistemi evoluti di monitoraggio delle quote di outsour-cing in ingresso, circa la metà della percentuale dei fornitori extraregionali (nazionali e esteri) a cui è concessa la medesima formula di accesso privi-legiato.

Un possibile percorso finalizzato a contrastare questi rischi potenziali è quello di intensificare lo sviluppo di reti strategiche.

Queste ultime rappresentano il modello entro il quale schemi di coo-perazione incentrati su coalizioni progressive divengono lo strumento per il quale:

la diffusione delle conoscenze tacite e dello spin-off spontaneo non viene ad interrompersi;

si convogliano nel sistema competenze logistiche evitando che le singole imprese vengano a privarsi della quota di produzione storicamen-te presidiata;

si introducono sistemi di formalizzazione nell’ottica dell’evoluzione qualitativa di prodotto senza elevare in modo sensibile i costi di transazio-ne, ma soprattutto senza compromettere gli elementi di cooperazione e competizione propri della tradizione distrettuale;

le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione acquisiscono un ruolo chiave per quattro ragioni: 1. in ragione del fatto che offrono la possibilità di scambiare informazioni

in modo tempestivo, completo e affidabile, ma soprattutto perchè sono in grado di compensare l’aumento dei costi che la crescita della forma-lizzazione scarica sugli oneri di coordinamento;

2. elevano l’intensità della collaborazione tra imprese grazie all’introduzione di modalità di cooperazione sincrona e asincrona;

3. accrescono la capacità di diffusione delle conoscenze originariamente tacite che la formalizzazione delle pratiche, attraverso l’utilizzo di si-stemi di knowledge management, permette di codificare;

4. permettono ai network locali di espandere la loro rete di cooperazio-ne. Infatti, le nuove Tecnologie dell’informazione e della comunica-

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zione (Tic) “configurate in una architettura di rete, non solo estendono la portata delle informazioni legate al mercato, come nel passato, ma rafforzano la ‘densità’ e la ‘funzionalità’ delle informazioni legate al mercato, generando quel tipo di economie di agglomerazione che sino ad ora erano disponibili solo in mercati geograficamente locali e ben compatti”. Ciò dipende tuttavia non solo dalle loro capacità tecniche, ma anche dalla progettazione delle loro architetture, così come dalle regole che governano il loro accesso ed il loro uso. Per definire e ren-dere esecutive tali regole, e per risolvere i conflitti rispetto ad esse, è necessaria una qualche forma di governance operante a tutti i livelli. In assenza di un sistema di governance, le reti elettroniche non ridur-ranno i costi di transazione, ma, invece, genereranno una maggiore in-sicurezza26. In ogni caso, la possibilità di spiccare il salto verso la rete strategica è intimamente legata alla capacità del sistema di acquisire quelle competenze in grado di permettergli di appropriarsi delle op-portunità che tale modello offre. Il problema non è solo quello di ac-quisire il know-how legato alle conoscenze informatiche, ma è soprat-tutto quello di costruire un’architettura in grado di mettere le unità che la compongono nelle condizioni di contribuire nel migliore dei modi alla crescita del sistema. È quindi fondamentale individuare le aree di integrazione forti all’interno delle singole imprese della possibi-le rete e su queste costruire l’architettura. Allo stesso tempo, come meglio vedremo di seguito, a fronte dell’individuazione di una possibile area di in-tegrazione forte tra un gruppo di imprese disposte a strutturare un’attività di tipo cooperativo, è anche necessario definire un equilibrio fra forze endogene alla rete e contributo esogeno complementare. Il tipo di equi-librio dinamico che viene a comporsi non è strumentale rispetto al suc-cesso di lungo periodo dell’attività della rete.

8. La miscela tra forze endogene ed esogene: l’elemento chiave per il successo della rete

Le tappe da seguire per la strutturazione di una rete tra imprese possono essere così definite: 1. individuazione di un’area di integrazione “forte” tra un pool ristretto di

imprese; 2. presa di coscienza da parte delle imprese delle opportunità di sviluppo

derivanti dalla possibile integrazione; 3. individuazione delle forze esogene da introdurre all’interno del sistema

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di organizzazione a rete, definizione delle modalità di relazione di tali forze e le singole unità di rete;

4. accurata analisi del grado di appropriabilità degli elementi esogeni in-trodotti da parte delle singole unità che compongono la rete;

5. definizione del modello di cooperazione condiviso; 6. strutturazione di accordi specifici e generali tra i detentori (o loro rap-

presentanze) di interessi legittimi al riguardo; 7. progettazione dell’architettura, ossia del sistema di governo della rete e

della sua architettura informatica; 8. definizione dei moduli formativi per le imprese e le strutture di coor-

dinamento dell’attività del network; 9. implementazione e sperimentazione; 10. avvio; 11. verifica e introduzione dei riaggiustamenti necessari.

I punti tre e quattro meritano a nostro avviso una particolare attenzione progettuale. Se è vero che la quasi totalità delle reti nate negli anni passati hanno imboccato percorsi che coloro che le avevano progettate e pensate non si erano immaginati, è altrettanto vero che la scarsa attenzione proget-tuale nella conformazione della rete può rappresentare l’elemento di insuc-cesso della stessa.

Pensiamo per esempio alla configurazione informatica, il fatto che io scelga o meno di far partecipare un gruppo di imprese a una certa tipologia di informazioni può rappresentare un elemento di disgregazione della rete su due dimensioni, la prima riguarda gli aspetti legati alla democraticità del si-stema, la seconda si riferisce invece alle problematiche più propriamente connesse alla circolazione delle informazioni. Nel primo caso rischio di in-nescare conflittualità tali da determinare l’exit di pezzi di rete, nel secondo posso rischiare di non far condividere informazioni a gruppi che invece ne gioverebbero, e con loro le conoscenze della rete nel suo complesso.

D’altro canto, non selezionare modalità di circolazione delle informa-zioni e non definire criteri di esclusione significa riversare una mole di in-formazioni di portata tale da non mettere in grado gli operatori di selezio-nare quelle realmente necessarie, o in alternativa costringerli a dedicare in-genti risorse ad un’attività impropria.

Ancor più importante è, dal nostro punto di vista, il “chi” mettiamo nella rete, ossia l’equilibrio endogeno-esogeno. Prendiamo il caso del comparto della logistica e trasporti a Cesena.

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Recenti ricerche27 indicano che il 75% delle imprese di autotrasporto sono aziende monoveicolari (di cui il 65% gestite da un solo imprendito-re), per lo più riunite in consorzi, e che il 46% delle imprese locali sono monocommittenti. Tra le criticità più evidenti si rileva una elevata percen-tuale (superiore al 30%) di ritorni a vuoto, uno scarso impiego delle tecno-logie intermodali, una scarsa integrazione tra funzioni diverse (ad esempio spedizionieri e vettori), una bassa capacità di offerta di servizi integrativi il trasporto quali il deposito, la movimentazione, il magazzinaggio e il trat-tamento della merce.

A tutto ciò si sommano una serie di dinamiche di mercato le quali con-tribuiscono ad acuire le criticità sofferte dal comparto dell’autotrasporto cesenate. I committenti sono sempre più concentrati, cresce costantemente il numero degli articoli e vi è una sempre maggiore frequenza di prodotti immessi nel mercato, solo per indicarne alcune.

La forte frammentazione del sistema dell’autotrasporto cesenate è tale per cui, su specifiche attività si avrebbe tutto l’interesse ad avviare proces-si di integrazione tra imprese locali.

Ma con la partecipazione di quali attori? Essendo il “padroncino” un prestatore d’opera e non un’impresa, il pro-

blema del sottodimensionamento si pone solo per le imprese maggiori, non per quelle monoveicolari, ossia i cosiddetti “padroncini”. Nel settore dell’autotrasporto la numerosità è una variabile che va tenuta in considerazio-ne solo in riferimento al reale numero dei centri decisionali28.

Sostenere l’integrazione della microimpresa come via di uscita alla crisi del “padroncino” è quindi fuorviante, sia perché il “padroncino” come forma di prestazione d’opera non è affatto in crisi, sia perché l’integrazione di per sé non è il primo passo verso lo sviluppo di un’impresa fornitrice di sevizi logistici.

Il caso di Cesena dimostra come la presenza di una domanda potenziale non sia in grado di per sé di attivare un’adeguata fornitura di servizi logi-stici di livello, nonostante sul territorio sia presente un fitto tessuto di im-prese di trasporto.

L’opportunità di far sì che tale tendenza possa invertirsi non può allora essere perseguita se non attraverso la creazione di reti tra imprese di tra-sporto che già mostrano una certa competenza in materia di “logistica” e produttori finali in grado di definire standard, specifiche, tempi e modalità. A ciò deve poi aggiungersi un know-how specialistico di natura esogena. Solo questo mix può permettere al settore di “appropriarsi” di una capacità che ad oggi non detiene. Competenze logistiche precipitate su una rete in-tegrata di “padroncini” rappresenterebbero invece un’operazione non in

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grado di determinare la possibilità per questi ultimi di appropriarsi di un know-how a loro completamente estraneo.

Occorre quindi costruire nuovi equilibri dinamici al fine di strutturare reti di imprese composte da aziende di trasporto vere e proprie, produttori in grado di definire le specifiche e “attori della conoscenza” in grado di immettere nel sistema competenze logistiche “alte”, che per loro stessa na-tura non possono scaturire da pratiche endogene. In sostanza occorre co-struire modelli di integrazione misti, dove insieme al mix tra integrazione orizzontale e integrazione verticale si associno nuovi mix tra competenze endogene ed esogene.

La miscela delle competenze da immettere nella rete, insieme alle mo-dalità con cui sono connesse e interagiscono, rappresentano quindi variabi-li progettuali chiave da non sottovalutare nel momento della definizione dell’architettura, così come non possono essere sottovalutate le questioni connesse ai sistemi di governance.

9. Reti strategiche e azioni di sistema, percorsi di qualificazione del sistema di subfornitura regionale29

Le ormai classiche teorie sul rapporto evoluto fornitore-cliente asseri-scono che il passaggio dai molti piccoli e “semplici” fornitori, magari fa-cilmente sostituibili addirittura con unità interne all’azienda, a pochi forni-tori di sottosistemi complessi e magari unici, aumenta notevolmente il po-tere contrattuale dei fornitori “strategici”, “unici”, il rischio di un loro comportamento opportunistico, la perdita della capacità di controllo delle fasi e delle competenze “critiche” da parte dell’impresa finale.

Insomma, gli elevati costi di coordinamento (e in parte di produzione e stoccaggio) espulsi dalla porta possono rientrare dalla finestra in termini di costi di contrattazione, controllo, contenzioso.

Il fatto è che la trasformazione predetta dai molti fornitori semplici e in-tercambiabili a pochi, complessi e “strategici” presuppone un’evoluzione da tradizionali rapporti di mercato a rapporti di partnership di lungo periodo, solo formalmente “di mercato”, più spesso fondati su rapporti di fiducia e interessi condivisi costruiti nel tempo, non di rado accompagnati da attività di codesign e comakership adeguatamente infrastrutturate da sistemi infor-mativi sia per la gestione operativa che per lo scambio e condivisione delle conoscenze e da adeguati strumenti di programmazione e controllo.

Nel caso in cui, come è non di rado, non si interpreti questo sistema con logiche volte a definire modelli di cooperazione di lungo periodo di tipo

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progressivo, piuttosto che di breve e volte a “scremare” l’onere della ge-stione e coordinamento delle attività verso fornitori di primo livello che a quel punto non potrebbero che fare lo stesso verso gli altri fornitori dei li-velli successivi, si ricomporrebbe la rete semplicemente distribuendo in altro modo le inefficienze strutturali del sistema nel suo complesso.

L’orientamento al breve che caratterizza alcuni produttori finali da una par-te e un sistema di fornitura locale spesso incapace di produrre, se non fornito di dettagliate specifiche dall’altra, portano all’insorgere di grossi ostacoli all’implementazione della strategia della riorganizzazione della rete di subfor-nitura secondo la logica dei livelli. Infatti, in Emilia Romagna: • non esiste un mercato di “grossi” fornitori (produttori-intermediari) di

“gruppi” ben organizzati; • i “piccoli” non sono in grado di evolvere da lavorazioni in conto terzi ad

imprese che si fanno carico degli acquisti, della programmazione e del controllo interno. E questo per tradizione, scarsa cultura manageriale e dimensioni inadeguate;

• i “piccoli” fornitori attuali non hanno spesso alcuna disponibilità a “for-malizzare” i loro processi per renderli più trasparenti al committente.

Non di rado si verificano défaillance in rapporto agli standard qualita-tivi richiesti dal committente alla rete di subfornitura, anche a causa dell’esigenza di avviare investimenti in impianti e competenze spesso dif-ficilmente sostenibili. In questo caso sarebbero forse possibili se pensati per un mercato più ampio di quello offerto alla sua rete regionale da ogni singolo committente30.

Se lo strumento della comakership è spesso un concetto accademico condiviso ma non diffusamente applicato nella realtà, le pratiche di code-sign, se esistono, sono puramente informali.

Possibili interventi volti alla qualificazione e allo sviluppo della rete di subfornitura emiliana romagnola dovrebbero quindi concentrarsi su: !"sviluppo e certificazione del sistema di qualità dei fornitori, anche attra-

verso la formula della certificazione della rete; !"sviluppo delle competenze progettuali dei fornitori; !"crescita manageriale del fornitore (passaggio dal conto terzi al conto pie-

no, gestione autonoma dell’acquisto di materiali, ecc.); !"sviluppo di reti orizzontali tra i fornitori al fine di:

a. favorire lo scambio di conoscenze tecniche e/o gestionali; b. incrementare i volumi e/o le competenze del fornitore, affinché questo

possa fornire gruppi o sottoinsiemi complessi;

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!"avvio di possibili interventi di integrazione cliente-fornitore finalizzati a: a. sviluppare metodologie e processi di codesign; b. sviluppare modalità congiunte di gestione della conoscenza; c. definire procedure e protocolli di scambio di informazioni; d. sviluppare percorsi di integrazione operativa (programmazione della

produzione, consegne, standard di qualità, ecc.); e. sviluppare percorsi di integrazione tecnologica (modalità di progetta-

zione congiunta); f. sviluppare percorsi di integrazione informatica (eventuale sviluppo di

una piattaforma business-to-business per lo scambio di ordini, infor-mazioni, specifiche via Internet);

g. sviluppare strategie e strumenti di gestione di lungo termine della re-lazione con i fornitori (sistema di Vendor Rating, misura e controllo delle prestazioni, forme di accordo/contratto);

h. introdurre strumenti per il lavoro cooperativo a distanza (Computer supported co-operative work).

10. Conclusioni

Risulta a questo punto chiaro il perché si è partiti dai distretti industriali e dai sistemi produttivi locali e si è giunti alle organizzazioni a rete. Queste ultime sono connotate da schemi di relazione profondamente diversi da quelli caratterizzanti le connessioni tradizionali tra aziende localizzate all’interno del medesimo distretto industriale o appartenenti a distretti industriali colle-gati. Riteniamo tuttavia che la genesi stessa, nonché la miscela di coopera-zione e competizione propria dei distretti, rappresenti un contesto favorevole per la strutturazione di reti progressive impostate su obiettivi strategici di ti-po win-win piuttosto che su logiche imperniate su un gioco a somma zero. Il presupposto affinchè la rete rappresenti lo schema in grado di assicurare il mantenimento dei vantaggi derivanti dalla specializzazione in un contesto di flessibilità produttiva è quindi l’orientamento progressivo, entro il quale tutti vincono, non solo perché la rete internalizza valore aggiunto, ma anche per-ché questo viene redistribuito all’interno della stessa.

Il distretto dovrebbe quindi essere l’ambiente, all’interno del quale gli e-lementi di fiducia, di coesione sociale, di sanzione delle pratiche opportuni-stiche e di riduzione dell’area di incertezza nelle relazioni (elementi che de-terminano una riduzione dei costi di transazione a fronte però di contenuti

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costi di coordinamento), possono rappresentate un contesto favorevole per la creazione di reti strategiche progressive. Se invece le frizioni innescate dalle dinamiche economica e tecnologica determineranno la strutturazione di reti difensive oppure, nella peggiore delle ipotesi, nessuna forma di cooperazio-ne che esca dallo schema tradizionale, i punti di forza propri dei sistemi ad economia diffusa saranno possibili elementi di disgregazione del tessuto produttivo locale. Le tradizionali economie di agglomerazione, ossia quelle esterne alla singola azienda ma interne al sistema, diverrebbero in questo se-condo caso vere e proprie “economie di disgregazione”.

In ogni caso, posto che il contesto di fiducia locale rappresenta un valo-re in grado di aumentare la probabilità di avvio di reti strategiche per lo sviluppo, è certo vero che tali processi, per loro natura non spontanei, non potranno produrre ricadute tangibili a meno che non vi sia un consistente impegno da parte dei detentori di “quote di fiducia” nei confronti delle im-prese locali, le associazioni di rappresentanza degli interessi in primis. Queste ultime dovranno investire queste quote, accettandone evidente-mente anche i rischi collegati, sponsorizzando e sostenendo la nascita di reti progressive, che altrimenti il mercato, autonomamente, non sarebbe in grado di avviare.

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Note

1 Amin A., The Emilian Model, Working Paper n. 1, IpL, Bologna, 1998. 2 Poma L., La nuova competizione territoriale, in Politica e Organizzazione, n. 1,

Pendragon, Bologna 1998. 3 Poma L., La nuova competizione territoriale, in Politica e Organizzazione, n. 1,

Pendragon, Bologna 1998. 4 Per maggiori approfondimenti relativamente alle modalità di trasmissione e ac-

cumulazione delle conoscenze all’interno dei contesti produttivi caratterizzati da una struttura economica “diffusa” si veda: A. Bardi, Produzione, riproduzio-ne, accumulazione e circolazione della conoscenza all’interno del contesto emi-liano romagnolo, nel presente rapporto.

5 Poma L., La nuova competizione territoriale, in Politica e Organizzazione, n. 1, Pendragon, Bologna 1998.

6 Nonaka I., Takeuchi H., The Knowledge Creating Company, Oxford University Press, Oxford 1995.

7 Regione Emilia Romagna, Assessorato alle attività produttive, Crescita, qua-lità e innovazione delle imprese e del lavoro in Emilia Romagna, Programma triennale per lo sviluppo delle attività produttive 1999-2001, in particolare Asse 1: sostegno a progetti di investimento per l’innovazione e la competiti-vità, misura 1.2: progetti di qualità e innovazione organizzativa: piano qualità regionale. La Regione promuove il Piano Qualità Regionale con il quale indi-ca un complesso articolato di azioni volte a sostenere la adozione diffusa del-le metodologie di certificazione e gestione di sistemi di qualità, nei processi organizzativi e produttivi nell’ambiente interno ed esterno alle imprese e nel-la sicurezza. Il piano prevede interventi a sostegno di progetti che coinvolgo-no i seguenti ambiti: sistemi di gestione aziendale della qualità, anche ambientale, e loro certifica-zione; !"sistemi aziendali integrati della qualità, organizzativa, ambientale e per la

sicurezza; !"reti di imprese (si intende una aggregazione tra Pmi; o un’aggregazione di

fornitori); !"sistemi produttivi (si intende un comparto o un distretto).

In particolare, per quanto concerne l’azione c, interventi per reti di imprese, gli obiettivi e l’oggetto dell’intervento sono così sintetizzati: nel quadro del Piano Qualità Regionale la Regione sostiene progetti di reti di imprese, intese come

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aggregazioni tra Pmi, costituite a fini di comakership o come reti di fornitura; i progetti prevedono il conseguimento di obiettivi quali: il perseguimento di mi-gliori capacità produttive, la realizzazione di attività di servizio comuni per la attività e la qualificazione della rete.

8 Cagliano R., Smiraglia A., Collaborazioni orizzontali tra piccole imprese de-terminanti e forme organizzative, in Atti del Workshop “I processi innovativi nella piccola impresa”, Urbino, 21-22 maggio 1998.

9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Garibaldo F., Reti tra aziende e piccole e medie imprese, Working Paper n. 3,

IpL, Bologna, 1999. 12 Ibidem. 13 La flessibilità esterna è legata a un concetto di flessibilità numerica. L’azienda

modifica la quantità di lavoro vivo che usa al fine di fare coincidere produzione fatta e da farsi. Ciò può essere fatto operando sulla natura del rapporto di im-piego (part-time, temporanei, contratti a termine e lavori precari) in modo tale da disporre di un numero più elevato di lavoratori, quando necessario, senza cambiare la dimensione minima stabile di produzione che garantisce il punto di pareggio nei momenti di bassa del mercato. Questa, in Italia, è stata la scelta della grande distribuzione. Oppure operare sull’orario di lavoro attraverso lo straordinario, l’orario annuo di lavoro e la creazione o eliminazione di turni di lavoro. Questa è stata, in Italia, la scelta della industria metalmeccanica. La flessibilità interna è legata a un concetto di flessibilità funzionale. Consiste quindi in un intervento sulla struttura organizzativa e i lavoratori; la eterogenei-tà di cicli produttivi in parallelo. È quella che viene studiata dai due rapporti Nutek sulla Svezia e da quello Disko sulla Danimarca, da Epoc, ecc. La flessi-bilità origina da una capacità flessibile strutturale data da una organizzazione elastica a sufficienza da adattarsi alle varianze. La fase più matura di questa strategia è la innovazione di prodotto. Per maggiori approfondimenti in merito ai concetti di flessibilità interna e flessibilità esterna si veda, tra l’altro, Peter Brödner, Francesco Garibaldo, Paul Oehlke, Ulrich Pekruhl, Work organisation and employment, the crucial role of innovation strategies, Working Paper n. 5, Instituts Arbeit und Technick 1998.

14 Cfr. Bardi A., Produzione, riproduzione, accumulazione e circolazione della conoscenza all’interno del contesto emiliano romagnolo, nel presente rapporto.

15 Bertini S., Staticità e declino di un distretto industriale in una regione avanzata: il caso del distretto del divano di Forlì, in Ires Materiali n. 1, Ediesse, Roma 1997. A. Bardi, Il settore del mobile imbottito a Forlì, un comparto a cavallo tra

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crisi e immobilismo, Una proposta di politica industriale, in Economia e Socie-tà regionale, Oltre il Ponte Nuova Serie, n. 1, Franco Angeli, Milano 2000, in corso di pubblicazione. O. Marchisio, Il macrosettore come “frame”per la poli-tica industriale, Franco Angeli, Collana Istituto per il Lavoro, Milano, in corso di pubblicazione.

16 La politica strategica condotta dalle imprese di mobili imbottiti di Forlì sembra essere volta ad internalizzare il valore aggiunto che scaturisce dalle fasi produt-tive, in particolare le fasi del taglio del rivestimento e la cucitura dello stesso. Ciò tuttavia implica che: le imprese forlivesi competono per internalizzare quel valore che ormai rappresenta la parte marginale del valore totale generato dalla catena nella sua interezza; la competizione giocata a questo livello fa sì che le imprese di Forlì, anziché concorrere insieme contro sistemi di imprese localizzati in altre aree territoriali, finiscano sempre più per competere tra loro. Tali dinamiche regressive possono rivelarsi esplosive in quanto in grado di pro-vocare: - una situazione di path dependent in un contesto che vede il valore spostarsi all’interno della catena verso fasi immateriali non tradizionalmente presidiate e ad alto contenuto di managerialità; - la perdita di quei sensori in grado di suggerire la direzione del cambiamento (ad esempio nel caso di mutamento dei gusti dei consumatori); - la minor capacità di seguire tempestivamente le opportunità derivanti dall’introduzione di innovazioni e una scarsa capacità di innovare il prodotto.

17 Cfr. Smith A. (1975), La ricchezza delle nazioni, a cura di Anna e Tullio Ba-giotti, Utet, Torino.

18 La struttura produttiva locale è ancora fortemente legata a modelli di outsour-cing di tipo tradizionale. Ciò implica che orientarsi da subito verso una rete di tipo strategico renderebbe necessaria una evoluzione troppo consistente per le singole aziende della zona, tanto ampia da essere difficilmente perseguibile. Per questo è più logico pensare di arrivare a modelli di networking strategico solo dopo l’avvio e la sperimentazione di attività di networking di tipo operativo.

19 Regione Emilia Romagna, Assessorato alle attività produttive, Crescita, qualità e innovazione delle imprese e del lavoro in Emilia Romagna, Programma trien-nale per lo sviluppo delle attività produttive 1999-2001.

20 La rete non è solo uno strumento per l’abbattimento dei costi (in ragione della internalizzazione di economie di scala, di scopo nonché monetarie, in prece-denza esterne al network) o una pura e semplice opportunità commessa alle nuove tecnologie e le possibilità che da queste derivano rispetto alla maggiore tempestività, completezza e affidabilità delle informazioni da scambiare con le imprese partner. L’infrastruttura informatica della rete è anche strumento per

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l’implementazione a distanza di processi di cooperazione interpersonale per la progettazione, la formazione e lo sviluppo di prodotti e processi per mezzo di interazioni sincrone e asincrone distribuite.

Stesso momento Momento diverso

Stesso luogo Interazione faccia a faccia Interazione asincrona

Luogo diverso Interazione sincrona distri-buita

Interazione asincrona distri-buita

Una riformulazione della matrice spazio temporale sopra riportata tramite l’ausilio del mezzo informatico potrebbe essere la seguente

Stesso momento Momento diverso

Stesso luogo Posta elettronica tramite formato MIME

Luogo diverso Videoconferenza con

l’ausilio di textboard e whiteboard

Posta elettronica tramite formato MIME

Con l’implementazione di questi sistemi è perciò possibile abbattere le inefficien-ze dovute ai movimenti del personale, cancellate dall’utilizzo del mezzo infor-matico, stimolare l’apprendimento attraverso processi collettivi, accrescere la rapidità nella diffusione di conoscenze tacite (che attraverso i sistemi di comu-nicazione tradizionali come telefono e fax non possono essere percepite, perciò trasferite), elevare le conoscenze in materia di utilizzo di sistemi telematici a-vanzati. L’uso della videoconferenza coadiuvata dalla whiteboard e dalla te-xtboard mette a disposizione tutti i mezzi per una comunicazione efficace ed efficiente a distanza. Anche se l’utilizzo del linguaggio naturale non risolve il problema della mancanza di rigorosità, tramite la posta elettronica o la textbo-ard si eliminano i rischi associati alla riscrittura dei documenti. L’uso di un ri-conoscitore vocale può inoltre permettere di avere copia scritta delle conversa-zioni vocali, così come di far partecipare alle conversazioni anche ospiti non dotati delle necessarie strutture informatiche.

21 Le conferenze di ricerca originano da un testo di Fred e Evelyn Emery degli anni ’70, poi rivisitato varie volte, ad esempio da David Morley e Eric Trist nel

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1981. Esse vengono usate per determinare le condizioni che consentono di trat-tare in modo cooperativo le molteplici dimensioni di un problema complesso (in modo molto più approfondito dell’usuale) dai membri dei molteplici gruppi ad esso interessati, gruppi che spesso hanno interessi divergenti. Scopo delle conferenze di ricerca è quello di ottenere una nuova prospettiva sul problema in modo tale da generare nuove opzioni e, attraverso esse, di creare nuove possibi-lità di una relazione più coesiva tra i molti che non erano stati sino ad allora in grado di cooperare per una manifesta incompatibilità.

22 La Fondazione Istituto per il Lavoro ha di recente curato un’analisi volta a de-finire le linee guida per l’avvio di un progetto per la riorganizzazione della rete di subfornitura regionale della Ducati Motor S.p.A.

23 Per quei beni che non richiedono una lavorazione organica, cioè quei manufatti la cui produzione avviene attraverso la combinazione meccanica di prodotti parziali indipendenti (manifattura eterogenea), è infatti possibile suddividere il processo produttivo in numerose fasi ciascuna delle quali può essere eseguita in modo efficiente da piccole imprese specializzate per fasi o componenti. Tale scomposizione è invece improponibile nel caso della manifattura omogenea, la quale è svolta attraverso una serie di processi e di manipolazioni tra loro in re-ciproca relazione. Per maggiori approfondimenti in merito al concetto di produ-zione organica e eterogenea di veda: K. Marx, Das Kapital. Kritik der Politi-schen Oekonomie, Londra, 1867; prima ed. it. in Biblioteca dell’economista, Torino, Utet 1886. Per approfondimenti relativi alla connessione tra tipologia di prodotto e organizzazione della produzione organica, in linea che cresce per moltiplicazione da un lato e il modello opposto, ossia eterogenea, in parallelo che cresce per somma, si veda: P. Bianchi, Produzione e potere di mercato, E-diesse, Roma 1991 e F. Garibaldo, F. Sbordone, V. Telljohann, Forme della di-visione del lavoro e i processi di cambiamento del lavoro e delle sue modalità organizzative, nel presente rapporto.

24 Connesse alle conoscenze diffuse di tipo settoriale come intersettoriale. 25 Il settore motoristico rappresenta indubbiamente uno dei comparti di punta del-

la regione Emila Romagna, dal punto di vista dei fatturati sviluppati come da quello dell’impatto occupazionale. La rilevanza del settore è peraltro cruciale non solo per le attività produttive specifiche ma anche per tutta quella rete di servizi che in qualche modo è connessa alle attività manifatturiere. Nell’ambito di una indagine curata dall’Istituto per il Lavoro è stata svolta una mappatura del settore motoristico allargato regionale. L’analisi si è concentrata esclusiva-mente sulle attività legate alla fabbricazione ed ha definito il settore partendo dall’elemento "motore endotermico" e dalle sue applicazioni più dirette o quan-tomeno fortemente collegate. Sono stati così individuati i seguenti settori di ap-plicazione o comparti: motori a scoppio e diesel per applicazione trazione (2 e 4

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ruote); motori a scoppio e diesel per applicazioni industriali ed agricole; moto-ciclette, motoscooters, motocicli, karts; automobili; autobus; carrozzerie per al-lestimento veicoli industriali; trattori su ruote e cingolati; macchine agricole semoventi o guidate a terra (motocoltivatori, motozappatrici, ecc.); motopompe e generatori di energia. Nel settore sono ricomprese aziende committenti come subfornitrici/partners, che forniscono: prodotti finiti con marchio (come Ducati Motor, Bimota, Vm, Lombardini, Minarelli, Lamborghini, Lombardini), gruppi completi (Marzocchi, Verlicchi, Comex), componenti, accessori, ricambi, parti-colari a disegno, lavorazioni meccaniche, trattamenti e finiture, assemblaggi e cablaggi. Dall’analisi è emerso che il settore allargato, nell’accezione sopra de-scritta, si compone di 600 imprese, occupa oltre 36.000 addetti e sviluppa un fatturato complessivo di circa 14.900 miliardi. Le imprese committenti sono ol-tre 120. Le province forti risultano essere Bologna per il motociclo; Modena per le macchine agricole, trattori e auto; Reggio Emilia per i comparti delle macchine agricole e trattori. Il settore motoristico ristretto (che comprende le sole imprese appartenenti ai comparti motori a scoppio e diesel per applicazio-ne trazione; motori a scoppio e diesel per applicazioni industriali ed agricole; motociclette, motoscooters, motocicli, karts; automobili) si compone invece di 390 imprese, che complessivamente sviluppano oltre 7.000 miliardi di fatturato ed occupano più di 21.000 addetti, ossia il 57% dell’occupazione totale del set-tore motoristico allargato regionale. Nel complesso, rispetto ai dati del censi-mento Istat 1996, il settore allargato rappresenta in Emilia Romagna oltre il 15% della totalità degli occupati nei settori della fabbricazione di prodotti in gomma, plastica, metallo, macchine agricole e industriali, mezzi di trasporto e altre industrie.

26 Garibaldo F., Materiali di ricerca interni dell’Istituto per il Lavoro, 1999. 27 Bologna S., Curi S., Char H. O., Problemi e opportunità dei trasporti e della logi-

stica in Emilia Romagna, Franco Angeli, Collana Istituto per il Lavoro, in corso di pubblicazione.

28 Bologna S., Curi S., Char H. O., Problemi e opportunità dei trasporti e della logi-stica in Emilia Romagna, , Franco Angeli, Collana Istituto per il Lavoro, in corso di pubblicazione.

29 Il contenuto di tale paragrafo è basato sulle riflessioni del Prof. Piercarlo Mag-giolini del Politecnico di Milano, svolte nell’ambito di un progetto di ricerca promosso dall’Istituto per il Lavoro.

30 Il caso della biella è emblematico. Cinque tra i più importanti produttori finali del settore motoristico emiliano romagnolo esprimono complessivamente una do-manda di bielle che supera la cifra di 1.200.000 unità all’anno. L’assenza in re-gione di una offerta di bielle adeguata agli standard sia quantitativi che qualitativi della domanda, fa sì che una parte consistente di commesse venga ad essere dirot-

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tata verso fornitori extra-regionali. Un percorso di integrazione della domanda di bielle espressa dalle imprese finali potrebbe permettere il raggiungimento di eco-nomie di scala e di scopo tali da poter agevolare la nascita di subfornitori specia-lizzati in grado di produrre bielle a costi competitivi, alti livelli di differenziazio-ne e capacità innovativa autonoma. Ciò sarebbe di tutto vantaggio sia per i com-mittenti, sia per il sistema della subfornitura, sia per la qualificazione del lavoro e delle competenze specialistiche di settore. Tutto ciò non potrebbe tuttavia deter-minarsi nell’ambito di una logica puramente di mercato, ma dovrebbe implicare la partecipazione di tutti quegli attori che hanno un qualche interesse in proposito, in ragione della predisposizione di un progetto “complesso”. Il caso della biella rappresenta un esempio privo di carattere di eccezionalità. Infatti, all’interno del solo settore motoristico regionale, le possibili aree di integrazione tra produttori di motori, motociclette, ciclomotori e auto riguardano una consistente varietà di componenti e semilavorati quali testa, pistoni e segmenti, valvole, volani, radiato-ri, batterie, marmitte, tubi di scarico, serbatoi, selle e sedili, pannelli di strumenta-zione, fanali, forcelle, ammortizzatori, cerchioni, pneumatici, cablaggi, impianti frenanti, flange, pompe e indicatori, solo per ricordarne alcuni.