La delocalizzazione produttiva 2011
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Dott. Pugliese Nicola
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INDICE
INTRODUZIONE pag. 3
1. LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA pag. 5
1.1 Definizione
1.2 Modalità e tipologie di delocalizzazione
1.3 Motivi:Vantaggi e svantaggi
1.4 Effetti sull’economia interna: il caso italiano
1.5 Nuovi scenari
2. I CASI GIÁ NOTI pag. 30
2.1 Il caso rumeno
2.2 Il caso cinese
2.3 Il caso albanese
3. LA NUOVA FRONTIERA: LA SVIZZERA pag. 64
Introduzione
3.1 Motivi
3.2 Forme giuridiche ed imposizione fiscale
3.3 Creazione di un’impresa in svizzera
4. CONCLUSIONI pag. 87
5. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA pag. 90
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INTRODUZIONE
L’ambiente in cui noi viviamo è sempre più dedito
all’internazionalizzazione delle strutture produttive. Questo testo cerca
proprio di spiegare il fenomeno della DELOCALIZZAZIONE
PRODUTTIVA delle imprese, site nel nostro territorio, non solo
spiegando i motivi generici che portano e creano tale fenomeno, ma,
mostrando i vari casi delle delocalizzazioni, dai più noti ai più
innovativi.
Il PRIMO CAPITOLO fa un excursus generale sul tema della
delocalizzazione, spiegandone innanzitutto il significato e passando poi
a spiegare le modalità e le tipologie con cui questa può avvenire. In
seguito saranno elencati i motivi che inducono gli imprenditori italiani a
trasferire le loro imprese all’estero esponendone vantaggi e svantaggi.
Dopo aver fatto una panoramica generale, passeremo a trattare gli
effetti reali e finanziari che questo fenomeno provoca sull’economia
interna di un paese, in particolar modo dell’Italia, mostrando, tra
l’altro, i nuovi scenari in cui si sta sviluppando tale fenomeno.
Il SECONDO CAPITOLO invece comincerà a trattare i singoli casi
della delocalizzazione, mostrando i motivi che portano gli imprenditori
a preferire un paese anziché un altro. In particolar modo si
tratterranno le emigrazioni produttive nei paesi che vantano sempre
più stabilimenti d’imprenditori italiani, dando così vita al fenomeno del
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“Made by Italy”1. I paesi trattati in questo capitolo saranno Romania,
Cina e Albania. Per la prima verrà trattato il caso pratico delle imprese
Venete, in particolar modo le aziende GEOX, azienda leader nel settore
abbigliamento-calzaturiero, INTERCOLOR, stireria e coloreria veneta
che ha trasferito la sua sede in tale località. Nel 2° paragrafo, il caso
cinese, si tratterà l’esperienza pratica inerente il Distretto di Sorrento,
leader ormai da decenni nel settore ceramico. Per l’Albania, invece, si
approfondirà il testo esponendo il caso “ADORA SRL”, un’azienda
calzaturiera di Barletta che ha trasferito i suoi stabilimenti in Albania.
Il TERZO CAPITOLO mostrerà, invece, una nuova frontiera per le
delocalizzazioni produttive, la Svizzera, chiamata da alcune testate
giornalistiche come la “Nuova Eldorado per le aziende”. Nel corso di
questo capitolo saranno presentati i motivi che inducono gli
imprenditori a trasferire le loro aziende in Svizzera, che grazie alla sua
professionalità permette di mantenere la stessa qualità presente nella
produzione italiana. Saranno resi noti gli incentivi fiscali proposti a chi
decida di investire sul territorio svizzero. Infine saranno mostrate le
modalità e l’iter legislativo per poter dar vita ad una azienda nel
territorio svizzero, esaminando in particolar modo il caso del distretto
della GGBa, tramite l’aiuto di un loro rappresentante italiano.
1 � Made by Italy: sigla utilizzata per definire prodotti creati su ideazione italiana. Si distingue dal “made in Italy” che caratterizza i prodotti la cui produzione è svolta in Italia.
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1. LA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA
1.1. Definizione
L’impresa moderna nasce e si sviluppa in uno scenario sempre più
internazionale. L’economia mondiale è in continua evoluzione e ciò
comporta che Paesi, in precedenza arretrati e sottosviluppati, ora
abbiano un ruolo importante sullo scenario mondiale. Anche il
miglioramento della qualità della vita e la crescita demografica sono
fattori di stimolo dei Paesi. Uno dei fattori chiave è stato l’evoluzione
tecnologica, che in particolar modo ha mostrato notevoli cambiamenti
nei trasporti e nelle comunicazioni. Indiscutibile è, infatti, il peso che
ha avuto nel miglioramento dei servizi a disposizione delle imprese,
come la possibilità di raggiungere velocemente luoghi lontani o
difficilmente raggiungibili, la celerità delle consegne d’informazioni
tempestive che permettono comunicazioni sempre aggiornate, e la
vicinanza ai nuovi mercati.
Questo tipo di fenomeno ha subito, dopo una sua forte
accelerazione, una breve interruzione causata dal susseguirsi delle due
guerre mondiali. L’internazionalizzazione ritorna in voga, soprattutto
negli anni Sessanta, capitanata dalle imprese statunitensi le quali
disponevano di nuove e avanzate tecnologie. In questa fase si ricorre
agli IDE, in altre parole Investimenti Diretti all’Estero. Nei decenni
successivi il mutamento delle condizioni ambientali è stato molto
veloce e sullo scenario mondiale si sono affacciate le aziende europee
e giapponesi, rendendosi portavoce di nuovi modelli di sviluppo
commerciale: le Joint Venture e gli Accordi Commerciali, al tempo
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sfruttati principalmente per accedere con più facilità alle materie
prime. I Paesi del Terzo Mondo non sono rimasti a guardare, infatti gli
anni Ottanta hanno segnato l’ingresso di Brasile e India nel contesto
globale.
Dopo un breve quadro storico-introduttivo, possiamo ora dare una
vera e propria definizione al termine delocalizzazione, con il quale
s’intende il trasferimento della produzione di beni e/o servizi in altra
regione della stessa nazione o in altri Paesi, generalmente in via di
sviluppo o in transizione. Più precisamente ci si riferisce a uno
spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un
determinato paese ad altre localizzate all’estero. La produzione che si
ottiene a seguito di questo spostamento dell’attività non viene venduta
direttamente sul mercato ospitante, ma è acquisita dall’impresa che
opera nel Paese d’origine, per poi essere venduta con il proprio
marchio. Tutto ciò può anche essere definito come “Frammentazione
Internazionale della Produzione (FIP) ”. La delocalizzazione produttiva,
può quindi essere vista come il tentativo di abbassare i costi di
produzione e quello di conquistare nuovi mercati, comportando il
trasferimento d’impianti produttivi e di aziende commerciali in Paesi
fino a pochi anni fa esclusi dal processo d’industrializzazione. Infatti, il
moderno commercio internazionale all’interno del quale si sviluppa il
fenomeno della delocalizzazione produttiva, consistente nella totale o
parziale interruzione dell’attività produttiva nel Paese d’origine,
determina il contemporaneo spostamento di suddetta attività in un sito
estero allo scopo di godere dei vantaggi insiti nella nuova ubicazione.
Il fenomeno della delocalizzazione non va confuso con l’espansione
delle capacità produttive all’estero, in quanto mantiene inalterata
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l’ubicazione dell’unità produttiva e il numero degli occupati nel Paese
delocalizzante, né va confuso con la crescita degli investimenti
commerciali esteri, ma viene effettuata al fine di poter creare una
forte strategia di internazionalizzazione . I principali motivi che
spingono gli imprenditori a investire in mercati esteri, sono dovuti al
mutato contesto di concorrenza in cui si vengono a trovare
“competitor” che basano le loro scelte utilizzando le stesse dinamiche
produttive. La delocalizzazione, quindi, si configura come una
necessità per evitare di perdere quote di mercato, ed è spinta dalla
possibilità di una ricerca volta alla massimizzazione dei profitti
derivante da differenti condizioni fiscali e di lavoro, e di vicinanza alle
materie prime. La delocalizzazione sposta la produzione verso mercati
come la Romania, la Cina, l’Albania e l’Africa settentrionale, mercati
che possiedono le caratteristiche in precedenza citate. In altre parole,
economie instabili e poco sviluppate, dove ai lavoratori sono
riconosciuti scarsi o inesistenti diritti sindacali, condizioni sfavorevoli di
lavoro e salari inferiori rispetto a quelli che l'azienda avrebbe da
corrispondere nei Paesi d'origine. Questi sono i principali motivi che
spingono numerose aziende verso questi mercati che, da un lato
hanno permesso a numerose imprese di sopravvivere e di rendere i
loro prodotti competitivi nel mercato, ma d'altronde, lo spostamento di
ubicazione, ha creato numerosi danni alle economie d'origine,
causando così disoccupazione e diminuzione delle vendite dei prodotti
locali. Il fenomeno della “delocalizzazione esterna”, sempre più
accentuata, sta portando al fenomeno della “delocalizzazione inversa”,
cioè le imprese utilizzano la delocalizzazione come “minaccia” nei
confronti dei propri dipendenti “costringendoli” ad accettare delle
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condizioni di lavoro meno soddisfacenti, ottenendo un taglio dei costi,
senza la necessita di delocalizzare. Il fenomeno della delocalizzazione
delle imprese italiane all’estero è sempre più frequente, infatti, grandi
e piccoli gruppi industriali trasferiscono la loro produzione dal territorio
nazionale in altri Paesi, dove il costo del lavoro è più basso, anche del
75% rispetto alla paga di un lavoratore italiano. Questo significa che
strutture fisiche come fabbriche, impianti e call-center sono trasferiti
all’estero, diminuendo le opportunità di lavoro per i cittadini italiani e
per quelli degli altri Stati nazionali.
1.2. Modalità e tipologie di delocalizzazione.
La delocalizzazione è un fenomeno complesso e allo stesso tempo
unitario, dove per unità s’intende un insieme di parti autonome ma
componibili. E’ un processo legato all’internazionalizzazione delle
imprese e che prevede diverse forme di attuazione, tra le quali:
• Outsourcing. La modalità tradizionale di divisione della produzione è
quella che prevede di acquisire sul mercato beni intermedi prodotti
da un'altra impresa, in breve fare outsourcing. Si parlerà in
particolare di outsourcing internazionale quando, l’impresa fornitrice
risiede in un Paese diverso dall’impresa acquirente e si attiverà un
flusso cosiddetto “commercio internazionale di beni intermedi”. E’
molto facile che il flusso sia attivato tra Paesi che possiedono
standard tecnici comuni. Per adoperare questa modalità è
necessaria, ovviamente, la presenza di una convenienza economica,
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in altre parole che costi meno acquistare il prodotto sul mercato,
piuttosto, che produrlo direttamente.
• Sub-fornitura. La sub-fornitura è una tipologia di accordo
contrattuale tra imprese che rappresenta il primo livello di
cooperazione. Il sub-fornitore, in forza di una relazione contrattuale,
si sostituisce al committente per l’esecuzione di una determinata
produzione o fase di lavorazione, rispettandone le direttive tecniche.
Il committente predetermina il contenuto della prestazione, in altre
termini le caratteristiche tecniche assumendosi i rischi del mercato,
mentre l’azienda fornitrice s’incarica della produzione di una parte o
dell’intera commessa.
• Sub-contrattazione. La forma più diffusa di sub-contrattazione
consiste in un semplice accordo per l’acquisto del prodotto finale da
un produttore locale. L’impresa committente fornisce le materie
prime e le specifiche tecniche, in modo che l’azienda fornitrice
possa produrre esattamente gli stessi prodotti della prima. Inoltre
capita sovente che l’impresa committente fornisca le attrezzature
tecniche specifiche per la realizzazione di prodotti dal contenuto
altamente tecnologico. Si parla di subfornitura “full package”,
quando l’impresa committente compra in loco o fornisce gli input
intermedi necessari alla produzione; quando invece al
subappaltatore (impresa fornitrice) sono consegnati i prodotti
semifiniti, e questa ricompra successivamente i prodotti finiti, si
parla di “ assembly subcontracting”.
• IDE. Una modalità piuttosto impegnativa di delocalizzazione della
produzione è rappresentata dall’effettuazione di un investimento
diretto estero di tipo verticale, cioè relativo ad attività a monte o a
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valle di quelle realizzate nel Paese di origine comportando, quindi,
un elevato coinvolgimento dell’impresa internazionalizzata.
L’azienda tramite IDE, delocalizza le attività della “catena del valore”
per agire direttamente nel mercato estero. Con questa modalità si
stabilisce un interesse durevole in un’impresa che risiede in un
Paese straniero, in altre parole una relazione di lungo termine, in
aggiunta all’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa.
L’IDE può essere realizzato in due forme:
o Investimento di tipo “greenfield”: l’impresa s’insedia nel Paese
acquisendo nuove strutture produttive (si tratta di stabilimenti,
impianti, strutture logistiche, uffici, centri di ricerca etc.) e in tal
modo incrementa la propria capacità produttiva. Questo tipo
d’investimento può realizzarsi anche collocando la nuova
struttura produttiva in un sito non sfruttato in precedenza per
attività economiche;
o Investimento di tipo “brownfield”: l’impresa acquisisce la
proprietà o il controllo d’imprese estere esistenti o colloca le
proprie strutture produttive in un sito adibito già per l’esercizio di
attività economiche.
Bisogna distinguere, inoltre, “IDE di portafoglio”, effettuato per pure
ragioni finanziarie, spesso a breve termine, e “IDE diretto”,
caratterizzato, invece, dalla presenza di un interesse di lungo termine
nella società acquisita. Quest’ultimo tipo d’investimento risulta più
complesso, in quanto permette all’impresa di internazionalizzare le
competenze tecnico-produttive, commerciali e finanziarie. Inoltre le
filiali e/o consociate, si occupano di diverse attività, dall’assemblaggio
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di parti e componenti della distribuzione, alla distribuzione e servizio
post vendita nei mercati di destinazione.
Passiamo ora ad argomentare le varie Tipologie di delocalizzazione e
il loro impatto sul sistema produttivo. Ogni tipologia ha una
determinata conseguenza sul sistema suddetto, infatti:
• Produzione parziale o totale di alcuni semilavorati e assiemi. I
materiali sono inviati dal magazzino centrale (sede) al sito
delocalizzato. Si tratta di semilavorati che qui completano la loro
lavorazione. Il sito delocalizzato procede in loco
all’approvvigionamento di materie prime; e successivamente lavora
sempre nella stessa area tali materie, ottenendo il semilavorato,
pronto per essere ulteriormente trattato. La gestione dei materiali è
prerogativa del magazzino centrale. Questa tipologia di
delocalizzazione diminuisce i costi di produzione, ma comporta un
aumento per i costi logistici e per i lead time2. Con questa tipologia
è però possibile trasformare la produzione da MTO (Make to Order)
ad ATO (Assembly to Order.)3
2� Il lead time è un parametro che caratterizza una rete logistica a diversi livelli. E’ chiamato anche tempo di attraversamento (es. di un ordine) o "tempo di risposta". In genere si fa riferimento al “lead time di produzione”, ovvero il tempo di lavorazione necessario per fabbricare un determinato prodotto o componente, e “lead time di approvvigionamento”, cioè il tempo che intercorre tra l’emissione di un ordine di acquisto e la consegna del materiale da parte ci ciascun fornitore.
3� MTO e ATO sono due politiche di produzione. Nel caso MTO l’impresa definisce un sorta di catalogo dal quale il cliente può scegliere il prodotto; ciò comporta che essa proceda all’approvvigionamento delle risorse produttive e progettazione del prodotto basandosi su una analisi della domanda. L’intero processo produttivo, dalla fabbricazione al montaggio delle parti, invece, si avvia dopo la vendita. Per quanto riguarda la produzione ATO, essa prevede che l’assemblaggio delle componenti del prodotto finito avvenga dopo la vendita, mentre la produzione di queste e le attività precedenti sono programmate sulla base delle previsioni della domanda.
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• La produzione parziale o totale di una o più fasi del processo
produttivo. L’impresa è in grado di delocalizzare la fase finale o
quelle intermedie del processo produttivo. Questa tipologia di
produzione permette di ottenere maggiori economie di scala,
evitando l’eccesiva duplicazione di risorse. Inoltre è intenta a
promuovere la standardizzazione, rallentando l’adattamento alle
richieste di mercato e quindi evitando radicali cambiamenti in
prodotti e processi. Come la precedente, anche questa tipologia
aumenta i lead time, rendendo in ogni caso, necessario un maggior
coordinamento delle risorse. Con questa tipologia, tra l’altro, è
possibile trasformare la produzione da ATO a MTS (Make to Stock).4
Questa tipologia di delocalizzazione, quindi, focalizza le attenzioni
su obiettivi più critici, incoraggiando lo sviluppo della produzione
verso il cliente consentendo di utilizzare differenziati sistemi di
gestione.
• La produzione parziale o totale di un prodotto o una linea di
prodotti. Tramite questa tipologia di produzione è possibile
rispondere più velocemente alle richieste di mercato, facilitando lo
sviluppo economico del Paese in cui è localizzato il sito e
semplificando l’introduzione di nuovi prodotti. Tutto ciò snellisce la
gestione dei costi e del coordinamento, evitando la duplicazione
delle risorse nei vari stabilimenti e spostando l’attenzione
dall’aspetto tecnico alle capacità tecnologiche insite nel sito più
rilevante.
4� MTS : politica di produzione la quale prevede che la vendita avvenga in un momento successivoal termine del processo di produzione e quindi tutte le operations sono programmate in base alle previsioni della domanda.
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• La delocalizzazione di tutta la produzione di serie. Questa
tipologia di delocalizzazione focalizza l’attenzione su obiettivi
critici differenti, infatti, permette di sfruttare economie di scala,
incoraggiando lo sviluppo della produzione rivolta al cliente
tramite l’utilizzo di sistemi di gestione differenziati. Tutto ciò,
però, determina la duplicazione di risorse, processi e scorte
rendendo necessaria una riorganizzazione del sistema di
produzione.
1.3. Motivi: vantaggi e svantaggi.
La delocalizzazione è attuata dalle imprese a seguito di un
complesso studio di fattibilità. L’idea imprenditoriale è quella di
ricercare l’efficienza di valore nella struttura dei costi, cercando di
replicare il modo e il modello di produzione adottato nel Paese
d’origine. Per sfruttare efficacemente le opportunità business, derivanti
dalla delocalizzazione, occorre un riposizionamento operativo globale
dell’impresa che, sebbene all’inizio possa comportare momenti di
“scompiglio” aziendale, rappresenta il modo migliore per ottenere
efficientemente ed efficacemente il miglior risultato in termini di ritorni
del progetto. Per fare ciò bisogna, innanzitutto, ridefinire i processi
business, in modo da poter sfruttare le potenzialità del nuovo
ambiente operativo. Dopo di che, si dovrebbe bilanciare la produzione
interna e procedere alla localizzazione e alla specializzazione dei siti
produttivi. Una volta fatto ciò, quindi, bisognerà riposizionare l’offerta
e puntare sulla formazione del personale. La delocalizzazione
produttiva non può prescindere da un ridimensionamento della
struttura aziendale e organizzativa. Infatti, tale fenomeno rappresenta
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un’opportunità per le imprese industriali che trovano convenienza a
trasferire i loro impianti produttivi in luoghi più vantaggiosi, ossia
segmentare tra più siti i cicli di lavorazione, lasciando le funzioni
amministrative nel Paese d’origine. Le potenzialità del mercato sono
sfruttabili attraverso investimenti all’estero solo se vi sono significativi
trade-off tra riduzione dei costi e altri fattori critici, come sicurezza,
qualità, tempi e servizi al cliente.
• Vantaggi. L’impresa decide di delocalizzare la propria produzione
all’estero in quanto attratta dalla possibilità di avvantaggiarsi su
qualche fronte. L’azienda opta per la delocalizzazione per
conseguire vantaggi di vario tipo tra i quali ricordiamo:
o le riduzioni dei costi di produzione;
o la disponibilità di materie prime in loco e di manodopera a
basso costo;
o la presenza di mercati in forte sviluppo, ottenuti grazie al
superamento delle barriere commerciali e alla possibilità di
poter stabilire accordi di partnership con i concorrenti;
o la facilità di integrazione verticale;
o la presenza di agevolazione finanziare e commerciali.
Di forte attrattività è la presenza in determinati Paesi di materie
prime abbondanti o particolarmente ricercate. L’impresa, infatti, può
avere convenienza a spostare la produzione all’estero trasferendo
materialmente la propria produzione più vicino alla “fonte” delle
materie prime. La rilevanza dell’approvvigionamento delle materie
prime è nota, e sta spingendo i Paesi che ne sono ricchi a
“chiudersi”, sfruttando essi stessi la ricchezza interna che
possiedono, ovvero imponendo condizioni contrattuali non molto
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vantaggiose ai Paesi esteri, allineandosi con il resto del mondo
occidentalizzato. In genere, si punta a Paesi non sviluppati o in via
di sviluppo, in quanto possiedono una considerevole forza lavoro,
disposta ad accettare termini contrattuali “impensabili” per gli
occidentali. Tutti questi paesi, o almeno la maggior parte di loro, non
sono ancora dotati di sufficienti misure di protezione nei confronti
dei lavoratori, e le imprese sanno bene quanto sia vantaggioso non
avere voci forti a contrasto con il loro operato. Ciò è possibile,
anche, a causa dell’elevato tasso di disoccupazione e di
analfabetizzazione. Tra l’altro, non è detto che manodopera a basso
costo voglia dire scarsa qualità, visto che gli imprenditori, nel corso
dei loro investimenti, tendono a “istruire” i propri dipendenti in
modo da poter mantenere gli standard qualitativi richiesti dal proprio
mercato di riferimento.
L’impresa, inoltre, può puntare ad “attaccare” i nuovi mercati del
Paese in via di sviluppo in cui vanno a trasferire la loro produzione,
tenendo in considerazione anche il contesto istituzionale in cui va a
insediarsi e allargando, in tal modo, il proprio giro d’affari. Molti
Paesi in via di sviluppo offrono alle imprese condizioni
particolarmente vantaggiose in termini normativi, come incentivi
allo sviluppo e agli investimenti produttivi, agevolazioni fiscali e
finanziarie, forme societarie più snelle, predisposizione di particolari
aree industriali, assistenza alle imprese “entranti”, comunicazioni
frequenti tra impresa-istituzioni, programmi di sviluppo. Tutto ciò
poiché il Paese ospitante si rende conto dei forti vantaggi che
ottiene incentivando questi trasferimenti sul proprio territorio.
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• Svantaggi. Più che di svantaggi si dovrebbe parlare di rischi
connessi a una scelta di delocalizzazione produttiva. Tali, sono
numerosi, e possono essere sintetizzati in:
o Riduzione del livello occupazionale;
o Aumento dei costi logistici;
o Perdita del controllo della qualità e dell’immagine
dell’impresa;
o Perdita della produzione interna, del servizio e, di non minore
importanza, la perdita di produzione che si viene a crear
durante il trasferimento delle merci.
Non bisogna poi dimenticare che oltre a questi rischi espliciti, ce ne
sono altri impliciti, che hanno molto valore all’interno di un business
plan5. Tale è il cosiddetto “rischio Paese”, che consiste nell’insieme
dei rischi che non si sostengono se si compiono delle transazioni nel
mercato domestico, ma che emergono nel momento in cui si esegue
un investimento, di tali dimensioni, in un Paese estero. Detti rischi
sono prevalentemente imputabili alle differenze di tipo politico,
economico e sociale esistenti tra il Paese originario dell’investitore e
il Paese in cui è effettuato tale tipo d’investimento. Tale rischio si
suddivide in
o “Rischio naturale”, cioè, quello derivante da disastri naturali,
morfologia del territorio, “terremoti” di varia natura che
5 �Business plan: è un piano che viene effettuato da un’impresa che voglia effettuare una nuova strategia, o un nuovo investimento. Tale piano mette in mostra la strategia finanziaria per effettuare tale sviluppo, solitamente coprendo, solitamente, un periodo di molti anni.
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possono rendere pericoloso un qualsiasi Paese, rispetto a
quello d’origine.
o “Rischio socio-politico”, che si distingue a sua volta in rischio
“sociale”, cioè l’influenza che può avere sul governo, i
sindacati, organizzazioni non governative (ONG), associazioni
di persone o gruppi in genere; e rischio “politico”, riguardante
guerre, rivoluzioni, generale instabilità di governo, azioni delle
autorità locali a danno d’imprese estere.
Tra i fattori che possono influire negativamente, oltre a quelli suddetti,
troviamo la nazionalizzazione degli investimenti esteri, le restrizioni al
rimpatrio di flussi di capitale e le restrizioni sui pagamenti. Bisogna
tenere in considerazione, oltre al rischio di tipo politico, anche il grado
di efficienza del sistema giudiziario e burocratico e l’aderenza di tale
sistema contabile ai principi internazionali, caratterizzati da
trasparenza e regolamentazione del sistema bancario, come ad
esempio il rispetto o meno dei principi di Basilea 1 e Basilea 26. Questi
elementi contribuiscono a delineare un quadro politico del Paese
estero ed inoltre la sua adeguatezza a ospitare, a livello normativo, le
imprese. Come se non bastassero i rischi su menzionati, non possono
essere dimenticati, poiché è su ciò che si basa la scelta di un’impresa
6 � Basilea 1 e Basilea 2: sono accordi, che dettano i principi internazionali per gli intermediari. Basilea 1, in particolar modo, ha introdotto l’obbligatorietà per gli istituiti finanziari di possedere un determinato quantitativo di elementi patrimoniali primari (capitale sociale, riserve per accantonamenti di utili, etc.) e secondari ( fondo rischi su crediti, riserve di rivalutazione, etc.). Basilea 2 invece ha modificato i valori iniziali degli elementi patrimoniali suddetti, ed ha introdotto due metodi innovativi per gestire i rischi: metodo standard, tramite l’uso di rating, o metodo IRB: con il quale il grado di misurazione del rischio avviene all’interno della banca che può scegliere tra approccio base o approccio avanzato.
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nell’effettuare o meno la delocalizzazione, la presenza del “Rischio
economico”. Tale rischio si distingue a sua volta in “rischio
macroeconomico” e “rischio microeconomico”. Il primo interessa
l’intero ambito economico e ha influenza sia sulle imprese nazionali sia
su quelle internazionali. Tale rischio può essere caratterizzato da tassi
d’inflazione elevati, difficoltà di pagamento delle banche, debito
pubblico in crescita. Il “rischio microeconomico”, invece, riguarda le
singole imprese o gli specifici settori. La delocalizzazione produttiva,
infatti, comporta un aumento del numero delle facility7, che
determinano un aumento del costo delle strutture fisiche, un aumento
dei costi di trasporto primari (cioè quelli che vanno dallo stabilimento
di produzione al magazzino centrale) che dipendono sostanzialmente
dalla modalità di trasporto, dalla tratta considerata e da alcune
proprietà della merce trasportata (quali densità, pericolosità, valore,
ecc.), ed infine un aumento dei costi di gestione delle scorte. D’altro
canto, diminuiscono i costi di trasporto secondari, influenzati da fattori
assai diversi, quali ad esempio il numero e la densità dei punti di
consegna, il quantitativo medio per consegna e quelli legati al servizio
al cliente.
Scegliere di migliorare la competitività attraverso la
razionalizzazione dei costi di produzione e del costo del lavoro
preclude, o quantomeno limita, il raggiungimento di un miglioramento
duraturo della qualità dei beni attraverso investimenti produttivi. Ad
7� Facility: impianti con la particolare funzione di offrire un servizio, o per meglio dire, adempiere ad un bisogno. Consiste in una larga seri di installazioni, che siano d’agio, e che siano facili da curare.
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esempio, i prodotti “made in China” sono associati a bassa qualità e
conseguentemente basso prezzo. Tale fenomeno è molto diffuso anche
nel settore dell’abbigliamento, in quanto, marchi prestigiosi, come Gas
o Geox o Diesel, pur non facendosene vanto, delocalizzano la
produzione nei Paesi dell’Europa dell’Est per conseguire vantaggi di
costo che determinano un risvolto negativo sulla qualità. Si pensi ai
prodotti “made in Italy”, che invece sono sinonimo di qualità, infatti,
se tali prodotti, o parte delle loro lavorazioni, venissero delocalizzate
all’estero, perderebbero il loro fascino attrattivo, diventando come tutti
gli altri prodotti, in altre parole, perderebbero quella caratteristica di
qualità che li contraddistingue. Tra l’altro, come già anticipato nel
testo, le imprese che decidano di delocalizzare all’estero, sono
soggette al rischio di perdita del know-how, e gli imprenditori per
fronteggiare tale rischio hanno preso la decisione di delocalizzare solo
prodotti cosiddetti “maturi”. Ciò, in quanto è sempre presente il timore
che istruendo la gente del paese ospitante si possano perdere fette di
mercato, che come ci insegnano le teorie sulla gestione dell’impresa,
sarebbero molto difficili da riconquistare. Infatti, gli imprenditori,
hanno deciso di mantenere l’attività di Ricerca&Sviluppo sempre
all’interno del paese originario. Allargare i propri confini fa correre
all’imprenditore il rischio di perdere di vista ciò che si è già ottenuto in
un contesto più piccolo. Tra l’altro, “estendersi” in un campo più ampio
può mettere in crisi le dinamiche aziendali, creando maggiori difficoltà
nella gestione delle relazioni, tra casa madre e affiliate, e in generale
tra impresa e contesto istituzionale del Paese estero. Delocalizzando,
l’impresa si assume consapevolmente il rischio di entrare in un
mercato che magari sulla carta le lascia ampi margini di sviluppo,
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mentre nella realtà no, infatti, c’è la possibilità che tale scelta possa
avere risvolti negativi sull’immagine stessa dell’impresa, in quanto, la
quota di mercato, che teoricamente dovrebbe essere crescente, non
dispone di una tale automaticità .
1.4. Effetti sull’economia interna: il caso italiano
La presenza d’imprese internazionalizzate, ha degli effetti diretti
sull’economia del paese in cui si va ad insediare, perché, incide
positivamente, ma talvolta anche negativamente, sulla sua
produttività, sul suo grado d’innovazione, sulle sue infrastrutture, sulla
sua dotazione fattoriale etc. Tutto ciò, dipende dal fatto che l’impresa
che ha delocalizzato, introduce nell’economia del Paese ospitante un
pacchetto di risorse, come per esempio, tecnologie avanzate,
opportunità occupazionali e di mercato, capitale, competenze
manageriali e organizzative, che potrebbero non essere altrimenti
disponibili in questi luoghi, solitamente caratterizzati da povertà e
mercati stagnanti. C’è, però, da fare una distinzione sugli effetti della
delocalizzazione nel Paese ospitante e su quelli che riguardano i
Paese d’origine dell’impresa.
Per quanto riguarda gli effetti sul Paese ospitante, essi sono in
genere positivi, o fortemente positivi. La presenza delle imprese estere
multinazionali permette, a quelle originarie, un forte stimolo alla
crescita e allo sviluppo del mercato sia a livello locale che
internazionale. E’ possibile, quindi, che avvenga un aumento della
produttività delle imprese locali semplicemente perché quelle estere,
de localizzando, “disperdono” conoscenze, innovazioni e tecnologie
superiori nel tessuto produttivo locale. Per di più, le imprese che
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delocalizzano in genere procedono alla formazione del personale, un
tipo di “istruzione” che può essere trasmesso al resto delle imprese in
loco. Senza contare, poi, che tra i dipendenti delle multinazionali
reclutati nel Paese ospitante e quelli che continuano a lavorare nel
Paese d’origine s’instaura una fitta rete di interazioni sociali. Tuttavia,
pur se la delocalizzazione ha effetti benefici sul territorio ospitante, c’è
sempre il rischio che la maggiore produttività delle multinazionali
spiazzi le imprese locali. La delocalizzazione produttiva diretta verso i
paesi a basso costo del lavoro può esercitare, però, un impatto
negativo sull’economia locale non soltanto per il rapporto gerarchico
che s’instaura con i territori di destinazione ma anche perché, qualora
tale strategia sia basata esclusivamente sulla minimizzazione dei costi,
questa tende a configurarsi come una scelta di breve termine. Infatti,
in paesi a basso costo del lavoro come l’Europa centrale e orientale, i
vantaggi in termini monetari sono temporanei, infatti, si sta già
assistendo ad un processo di convergenza verso il resto dell’UE. Già
alcuni di questi Paesi, da essere delocalizzanti, hanno subito il
problema della delocalizzazione in uscita, proprio per la presenza di
luoghi più vantaggiosi, in termini di costo.
Per quanto riguarda gli effetti sulla produttività del Paese d’origine
dell’impresa, non si può esprimere un giudizio univoco, anche se gli
ultimi studi affermano che le conseguenze della delocalizzazione hanno
mostrato situazioni positive, rispetto a quelle negative. Le indagini
condotte sul campo evidenziano, infatti, la scarsa presenza di dialogo
tra lavoratori e centri decisionali (solitamente in terra d’origine)
dell’impresa estera. Alcune imprese hanno fatto gioco-forza sui
lavoratori locali, operando il cosiddetto “ricatto della delocalizzazione”,
Dott. Pugliese Nicola
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indebolendo, di fatto, il potere negoziale dei dipendenti, costretti ad
aprire la questione contrattuale, salari e orari di lavoro. Il trasferimento
all’estero delle attività produttive ha impatto sul Paese d’origine poiché
modifica la struttura della filiera. Si avranno, quindi, degli effetti
positivi, ma solo nel caso in cui l’impresa salvaguarda i posti di lavoro
delle imprese fornitrici domestiche. La scelta strategica di
delocalizzazione verticale, spinge la filiera del proprio Paese d’origine a
spostarsi su segmenti di mercato dal più alto valore aggiunto e
parallelamente contribuisce a sviluppare un settore terziario di qualità.
Gli occupati nel Paese delocalizzante si riducono drasticamente se
l’imprenditore allaccia rapporti, quasi esclusivi, con imprese estere
abbandonando i fornitori locali. Il commercio internazionale esercita
sulla domanda di lavoro una riduzione, per la domanda di attività
intensive in lavoro non qualificato, mentre aumenta la domanda e i
salari dei lavoratori qualificati, provocando così un effetto sull’elasticità
della domanda di lavoro.
Come ci mostra “Lavoce.it” con i suoi esponenti Giovanni Ferri e
Stefano Costa, la delocalizzazione è necessaria, specie per i prodotti a
marchio “made in Italy”, che hanno bisogno di allargare i propri
mercati e di ridurre i costi per potersi affacciare con più serenità nel
mercato internazionale. L’internazionalizzazione dell’attività delle
imprese è ormai costantemente richiamata nei documenti di policy
come passaggio necessario per il loro sviluppo e la loro affermazione
nella competizione globalizzata. La Finanziaria per il 2008 mira
soprattutto, con l’articolo 41, a razionalizzare alcuni strumenti di
sostegno a tale strategia, quali la sostituzione del progetto Sportelli
Italia all’estero, ponendo interventi volti alla promozione e
Dott. Pugliese Nicola
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all’eccellenza del made in Italy. Il DPEF confermava, tra le principali
preoccupazioni di politica economica, lo stimolo
all’internazionalizzazione come veicolo per la crescita dimensionale
delle PMI. I dati sul 2007 indicano, infatti, che la delocalizzazione di
PMI è un fenomeno ancora quantitativamente limitato, giacché la
presenza di sunk-costs8 agevola in particolar modo le imprese
maggiori. Persiste anche un divario territoriale tra Centro-Nord e Sud,
sebbene il fenomeno sia in lieve crescita anche nelle regioni
meridionali e insulari. I settori più interessati dalla delocalizzazione
sono tuttora quelli tipici del made in Italy, ovvero, tessile-
abbigliamento, pelli-cuoio-calzature e meccanica. Ciò che spinge le
nostre imprese a trasferire la produzione è, soprattutto, la riduzione
dei costi di produzione, che quindi ci porta verso paesi a basso
reddito. In particolare, tra le destinazioni spiccano la Romania,
l’Albania e i paesi dell’Europa centro-orientale, e va affermandosi
sempre più prepotentemente la Cina. La delocalizzazione interessa
soprattutto le imprese nelle fasi più a monte e più a valle della filiera,
dove del resto si trovano le aziende più grandi, e presso le quali è più
frequente osservare l’interruzione degli originari rapporti di
subfornitura. Tutto ciò contribuisce a rafforzare l’ipotesi che un
contesto produttivo come quello italiano sia fortemente contrassegnato
da estese reti di subfornitura.
Un altro commento in merito alla delocalizzazione da parte
dell’Italia è stato proposto da il “FORO753” che espone con forza la
8� Sunk-cost: sono costi irrecuperabili che, quindi, non dovrebbero influenzare le decisioni future.
Dott. Pugliese Nicola
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sua critica alla delocalizzazione da parte del nostro Paese, in quanto,
gli effetti negativi che comportano sul nostro Paese sono di gran lunga
maggiori dei vantaggi. Infatti il Foro753 ha immesso un articolo in cui
effettua delle argomentazioni, avvalendosi di alcuni esperti in materia,
sul fenomeno delocalizzativo riguardante in particolare il nostro Paese:
“Ernesto Maria Cirillo, giuslavorista che collabora con “Ugl
Telecomunicazioni”, ha spiegato quali azioni sono state intraprese per
porre un freno a questo fenomeno che priva il lavoro a migliaia di
italiani. Le dimensioni di questo tragico fenomeno le ha fornite
Federico Eichberg, della finiana fondazione Farefuturo, chiarendo che
in Italia le imprese che delocalizzano sono 6.426, che danno da
lavorare a 1 milione e 300 mila persone. Eichberg ha anche spiegato i
vari tipi di delocalizzazione: da quella dell’impresa “Decor” che si è
vista clonare i propri mobili a Shangai, e che di fronte all’impossibilità
di ricorrere alla giustizia cinese (ammesso ne esista una) ha reagito
acquistando le ditte “clonanti”; a quella della “Mapei”, che ha
delocalizzato per necessità, ovvero per evitare che i propri materiali si
deteriorassero lungo il tragitto verso paesi troppo lontani; poi c’è la
delocalizzazione di chi invece si avvale del marchio “made in Italy” pur
dislocando gran parte della propria produzione in paesi lontani come la
Romania e che, per fare un esempio reale, col pecorino sardo non
hanno nulla a che vedere.
Delocalizzazione è uno degli effetti della “globalizzazione”, definita da
Santangelo della Fondazione Nuova Italia, come “quella tempesta
politico culturale mediatica che ci ha travolti: un flusso di informazione,
un flusso di uomini, ma soprattutto un flusso di denaro”. Il nostro
punto di forza sono le cosiddette “4 A”: Abbigliamento, Arredo,
Dott. Pugliese Nicola
25
Agroalimentare e Automazione, ma rischiano di essere potenzialità
inutili se di fronte al fenomeno di globalizzazione l’Italia decide di
chiudersi in se stessa. Altra potenza italiana per Eichberg è l’ingegno, il
gusto italiano che si trasmette nei prodotti, non a caso siamo il primo
paese contraffatto, proprio perché ci sono nazioni che non hanno un
settore manifatturiero e che guadagnano nella falsificazione dei
prodotti. Proprio in Italia sono tante le imprese che hanno
delocalizzato. E spesso con i contributi statali, come ha denunciato
Stefano Conti: non solo le imprese hanno tolto il lavoro agli italiani, ma
hanno pure avuto agevolazioni fiscali dallo stato italiano!
“Delocalizzare è tradire l’Italia?”: dopo queste analisi approfondite,
l’unica risposta alla domanda non può essere altro che cambiare il
punto interrogativo in una manciata di esclamativi!”.
Tra l’altro, come mostrano Giovanni Foresti e Stefania Trenti, “l’Italia
è risultata, per la sua specializzazione e per la sua caratteristica
struttura industriale, particolarmente colpita dalle modificazioni in atto,
che vedono emergere nuovi modelli vincenti sia per i sistemi paese, sia
per le imprese”. Tali autori, hanno puntualizzato l’attenzione sul fatto
che alla base della delocalizzazione, non vi sono solo gli IDE, anzi, tale
forma è utilizzato pochissimo dai nostri concittadini, che invece
preferiscono mezzi alternativi come accordi di fornitura o joint venture9
9� Joint Venture: Termine inglese che indica l’unione tra due o più imprese finalizzata alla realizzazione di un determinato progetto (industriale, commerciale o finanziario). La joint venture (da joint, “unione”, e venture, “impresa rischiosa”, “azzardo”) è una società a capitale misto, in cui gli obblighi e gli utili sono ripartiti a seconda della quota posseduta. Lo scopo di questo tipo di società non è solo quello di condividere il rischio, ma anche quello di unire le diverse competenze (tecniche, economiche, organizzative ecc.) utili alla realizzazione del progetto. Infatti, le joint venture vengono di norma create in occasione di iniziative di particolare impegno, sia finanziario
Dott. Pugliese Nicola
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o relazioni di traffico di perfezionamento passivo (TPP), quindi rapporti
di mercato basati soprattutto sulla cooperazione. L’Italia, tramite la
delocalizzazione, ha perso il suo vantaggio comparato sui beni di
consumo, pur mantenendolo nei beni d’investimento, comportando
quindi un netto miglioramento nei settori a monte che va a
compensare la sensibile riduzione che invece si è avuta in quelli a
valle. I maggiori rapporti esteri italiani riguardano l’Asia e l’Est Europa,
e tali rapporti hanno di certo fatto perdere, almeno in parte, prestigio
al noto marchio “made in Italy”. Il nostro Paese, a livello
internazionale, nonostante tutto, è poco attivo, soprattutto nel campo
degli IDE. Infatti i dati che vengono riportati mostrano come tali
investimenti riguardino solo il 16,4% del PIL in uscita, e il 10,7% del
PIL in entrata. Tali dati, anche se viste le lamentele di noi italiani, che
affermiamo siano eccessivi, non reggono il confronto con quelli degli
altri paesi europei, come Regno Unito o Spagna o Francia, che
arrivano ad avere anche il 66% del PIL in uscita e il 41% del PIL in
entrata.10 Per quanto riguarda i TPP, considerando che i dati non siano
del tutto attendibili poiché le imprese non sono obbligate a dichiarare il
loro traffico (anche se si suppone lo facciano tutti in vista degli
incentivi che vengono elargiti dal nostro Paese), si è notata una
continua decrescita. Le zone italiane che intrattengono più rapporti con
l’estero, come si evince dai dati a nostra disposizione, sono Udine e
Piacenza, e i settori più delocalizzati sono l’abbigliamento e
che tecnico. Il contributo di un’impresa a una joint venture può quindi anche consistere nella semplice condivisione del know how, il patrimonio di conoscenze tecnologiche.
10� Tali dati, si riferiscono alla Gran Bretagna.
Dott. Pugliese Nicola
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l’arredamento, da sempre punti di forza del nostro Paese.
Ultimamente,inoltre, si è notato un aumento sempre maggiore
verso settori come le filiere dei metalli e le macchine.
1.5. Nuovi scenari
In un contesto globale, la delocalizzazione assume un ruolo
rilevante per i potenziali benefici che essa può apportare. Eppure non
sempre delocalizzare è sinonimo di beneficio effettivo, in quanto
esistono diversi fattori da tenere in considerazione e che determinano
la variabilità e il rischio dell’investimento all’estero. La delocalizzazione
non è associabile sempre ad un ritorno considerevole, e in ogni caso, i
guadagni in termini di risultati sono variegati, in quanto cambiano gli
assetti macro-economici, che portano all’affermazione di nuovi Paesi,
che si affacciano nell’economia a fronte di investimenti in settori
sempre più innovativi.
Secondo gli indicatori macro-economici un’ economia stabile e forte,
ma soprattutto in crescita, è quella degli Emirati Arabi Uniti (U.A.E), in
cui nonostante gli accadimenti sfavorevoli che l’hanno interessata negli
ultimi anni, come gli attacchi terroristici o come la situazione di
tensione che si presentava nel Golfo, ha avuto la forza di espandere la
propria economia in tutti i settori, dall’industria al turismo. Una volta
raggiunta la necessaria stabilità politica, sociale e legislativa, il paese
ha cominciato ad attrarre i capitali esteri, sfruttando le risorse interne
e incoraggiando lo sviluppo di infrastrutture adeguate a fronteggiare
nuove sfide. Gli U.A.E hanno intuito l’importanza di sostenere e
favorire i business emergenti oltre che diversificare i settori su cui si
Dott. Pugliese Nicola
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concentra l’economia, e quindi non solo petrolio, procedendo a creare
le Free Trade Zone (FTZ)11, mostrandosi così come una grande
opportunità per lo sviluppo del paese. Infatti tali zone danno il via
all’implementazione di insediamenti produttivi determinanti per la
crescita dei business.
Da un punto di vista geografico, l’interesse per la
delocalizzazione delle imprese europee si è indirizzato prevalentemente
verso tre grandi aree: Unione Europea, Europa Centro Orientale e
America Latina. La scelta della destinazione geografica verso la quale
indirizzare una parte o l’intero processo produttivo dipende
essenzialmente da fattori logistici, di vicinanza geografica, di facilità di
comunicazione, di trasporto e di controllo della produzione, più in
generale in un contesto geo-economico volto sempre più alla ricerca di
garanzie di affidabilità e di autonomia.
Il luogo preferito dalle imprese italiane per delocalizzare la
produzione è l’Est Europeo, con la Romania in testa, ma anche l’Est
asiatico e l’America del Sud e del Nord. L’altro paese verso il quale si
rivolge l’interesse delle imprese italiane a delocalizzare è la Cina, sia
per la manodopera reperibile a basso costo, sia per la presenza di
manodopera qualificata, sia per le prospettive di crescita del mercato
cinese. Oltre ai due Paesi appena citati, va menzionata un altro Paese
che sta diventando una meta ideale per le imprese italiane: la
11� Free Trade Zone: sono zone disciplinate da specifici regolamenti, diversi da quello generale del Paese, in cui le procedure necessarie per l’ammissione sono snelle ed elastiche. In questi luoghi la Burocrazia è ridotta al minimo, e vi è la presenza di una serie di agevolazioni fiscali e doganali, completate da infrastrutture all’avanguardia, vicinanza a importanti punti di smistamento, dalla notevole importanza per il trasporto e per la logistica in genere. Queste zone, cosiddette “franche”, si sono sviluppate anche in altri Paesi, ovviamente con connotazioni differenti.
Dott. Pugliese Nicola
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Svizzera, che con la sua vicinanza e con i suoi numerosi vantaggi
fiscali, sta assorbendo gran parte delle nostre PMI, soprattutto quelle
del Settentrione.
Il Medio Oriente, invece, è diventata la meta privilegiata per
quelle imprese che vogliono acquisire nuovi segmenti di mercato e ciò
è possibile, in particolar modo, per la presenza di una economia
vivace e per la potenzialità di sviluppo, ovvero la possibilità di
conquistare nuove quote di mercato.
Anche l’Africa, negli ultimi anni, è diventato luogo di destinazione
del trasferimento produttivo, in quanto risulta interessante non solo
per la disponibilità di manodopera a basso costo ma anche per le
prospettive di crescita di mercati quali quello del Maghreb, della
Nigeria, del Ghana e del Sudafrica.
Dott. Pugliese Nicola
30
2. I CASI GIA NOTI
Dopo aver parlato della delocalizzazione in maniera prettamente
teorica, passiamo ad esaminare i casi reali, che contraddistinguono
tale fenomeno, in modo da poterci render conto di tutto ciò che la
delocalizzazione comporta.
Come già detto in precedenza, gli italiani difficilmente effettuano
IDE, finalizzati a costituire nuove imprese o ad acquisirne una già
esistente. Gli imprenditori che hanno deciso di delocalizzare hanno,
infatti, trasferito solo le attività dal contenuto prettamente
manifatturiero, mentre, le attività ad alto valore aggiunto che
controllano l’intero ciclo produttivo vengono svolte in Italia.
I flussi migratori, come già detto in precedenza, hanno riguardato,
in particolar modo, i territori dell’Est Europeo e della Cina. Tali paesi
hanno aperto alle industrie del vecchio continente mercati di sbocco in
cui vengono offerte nuove opportunità, tramite l’utilizzo di luoghi di
produzione attraenti, con costi particolarmente bassi. Per far ciò hanno
instaurato una fitta rete di collegamenti di subfornitura, facilità dei
trasporti e competenze agevolmente disponibili, che hanno reso
semplici tale tipo di operazione. Attualmente la maggior parte delle
imprese di abbigliamento italiane fanno ricorso alla subfornitura
internazionale. Gli imprenditori hanno cominciato a trasferire solo le
fasi meno complesse, attuando specifiche economie di fase, che hanno
fatto accrescere l’economia del paese delocalizzante, facendone
sviluppare una particolare capacità economica in tale settore. Tale
Dott. Pugliese Nicola
31
fenomeno ha cominciato a svilupparsi maggiormente durante gli inizi
degli anni ’90, in cui le imprese, che hanno voluto esternalizzare la loro
produzione all’estero, hanno visto la loro curva dei profitti crescere in
modo costante, ma a tassi più bassi.
Passiamo ora ad esaminare i singoli casi che riguardano le nostre
imprese. In altri termini osserveremo il caso Rumeno, il caso Cinese; il
caso Albanese.
2.1 IL CASO RUMENO
Le imprese italiane hanno iniziato a investire in Romania nei primi
anni ‘90, delocalizzando la lavorazione delle materie prime e dei
semilavorati provenienti dall’Italia. Negli anni successivi sono venutesi
a creare, anche, degli accordi di Joint Venture tra aziende italiane
ed aziende locali. Dal 1991 fino al 30 giugno 2010 sono state presenti
in Romania 29.536 imprese che hanno investito nei settori del
commercio all’ingrosso, immobiliare, edile, agricolo, del commercio al
dettaglio e del manifatturiero tradizionale. Attualmente in Romania
sono registrate 19.659 aziende italiane, situate principalmente nelle
zone di Arad, Brasov, Bihor, Cluj, nel municipio di Bucarest e nella
provincia di Timisoara, dove le nostre aziende del Nord-Est, hanno
riprodotto il modello distrettuale della loro zona di provenienza.
La Romania, fin dagli anni ’90, è stato un paese molto appetibile per
gli investimenti stranieri, in quanto il Governo, dopo la caduta del
regime di Ceausescu, ha attivato una politica di liberalizzazione
economica, introducendo imponenti agevolazioni fiscali, tra le quali,
Dott. Pugliese Nicola
32
l’aliquota unica sui redditi (16%) ed ulteriori semplificazioni per
costituire un’impresa. Infatti, per un investitore straniero è facile
acquistare una società privatizzata o da privatizzare, poiché il diritto
societario rumeno non fa distinzione fra i soci, persone
fisiche/giuridiche romene e quelle estere. Negli ultimi anni, però, molte
aziende italiane hanno deciso di andar via dalla Romania, in particolare
modo gli imprenditori del Nord-Est (circa 35%), i quali hanno deciso di
ridimensionare, o far sparire del tutto, la propria presenza nel paese
chiudendo i propri stabilimenti. Inizialmente, i settori maggiormente
colpiti sono stati quelli tessile e manifatturiero e, successivamente,
quello delle automobili e dell’edilizia. Quest’ultimo, ad esempio, è
entrato in crisi perché il Governo romeno invece di agevolare
l’edilizia ha introdotto l’IVA sulla prima casa, pari al 24%.
La crisi è iniziata nel 2006-2007, quando la Romania è entrata
nell’ottica dell’Unione Europea, ed una parte della popolazione,
prevalentemente maschile, ha iniziato ad emigrare, causando problemi
di manodopera alle aziende. Ulteriori problemi si sono susseguiti, tra i
quali si segnalano, la corruzione dilagante e il cattivo utilizzo dei fondi
comunitari, che non hanno permesso al paese di fare quel salto di
qualità necessario allo sviluppo. La Romania non è più quella di 10
anni fa, anche se per le aziende italiane, specialmente per le medie e
grandi imprese, la convenienza ad investire in questo paese è rimasta
tale. Infatti nel primo semestre del 2010 sono state 1.386 le aziende
italiane che si sono registrate nel paese. La manodopera rumena, con
la crisi globale in atto, è sempre a basso costo e la pioggia di denaro,
proveniente dai fondi comunitari, può essere utilizzata per investire
nelle energie alternative come quella fotovoltaica.
Dott. Pugliese Nicola
33
Tra l’altro, la compressione dei redditi e l'inflazione, hanno
pressoché impedito l'accumulazione di risparmio nazionale,
ostacolando gravemente gli investimenti produttivi e la crescita
economica. Nonostante le crisi periodiche da transizione attraversate
dal Paese, la fiducia degli investitori esteri non sembra essere
diminuita in maniera significativa. Nel 1998, infatti, l'ammontare, in
milioni di dollari Usa, degli investimenti provenienti dall'estero era 50
volte più grande dello stesso dato relativo a soli sette anni prima.
Trascurando gli investimenti a carattere speculativo (non pochi, infatti,
si pensi ai massicci acquisti di terreni in vista di un aumento dei loro
prezzi dopo l'adesione all'Unione Europea) che presentano un
orizzonte temporale limitato, la forma di investimento dall'Italia, e non
solo, alla Romania assume frequentemente le caratteristiche della
"delocalizzazione". Nonostante le varie forme assunte, si tratta
sostanzialmente del trasferimento all'estero dell'intero processo di
produzione o di sue parti, solitamente quelle centrali, che necessitano
di maggiore manodopera. Ad esempio, il semilavorato viene
temporaneamente esportato, dando il compito di completare le fasi
centrali della produzione alle imprese rumene, e poi viene reimportato
nel Paese di partenza dove viene completato e commercializzato. Il 60
per cento di tutte le esportazioni rumene e il 32 per cento delle
importazioni avvengono con queste modalità. Nel settore tessile-
abbigliamento si arriva a sfiorare anche il 100 per cento. La
delocalizzazione italiana interessa soprattutto le piccole-medie
imprese. Due terzi delle reimportazioni italiane provengono dalla
Romania e l'83 per cento di questo ammontare riguarda i prodotti del
settore tessile-abbigliamento, il 60 per cento dei quali è diretto in
Dott. Pugliese Nicola
34
Veneto. Le determinanti di questo fenomeno economico sono di più
varia natura. Gli accordi internazionali, nel contesto del WTO ed in
particolar modo quelli dell’UE, hanno reso più facile il movimento dei
fattori produttivi e più difficile il ricorso al protezionismo, contribuendo,
ad abbassare i costi di trasferimento. Anche le tecnologie hanno dato
un contributo positivo, rendendo più rapidi i trasporti e le
comunicazioni, infatti, non va trascurata la presenza di affinità
linguistiche e culturali che rendono più agevoli i rapporti tra i soggetti
economici. Gli stati dell'Europa Orientale presentano certamente delle
peculiarità, tra le quali segnaliamo:
• La vicinanza ai mercati occidentali, che riduce i tempi di
trasporto, e agli emergenti mercati orientali, che costituiscono
una opportunità futura;
• La presenza di lavoratori e tecnici molto qualificati e a basso
costo;
• Il rigore nella finanza pubblica e nel miglioramento delle
istituzioni statali, che contribuiscono a creare un clima adatto agli
investimenti.
Tuttavia, il lavoro è il movente più pressante, sia in termini di
maggiore produttività che di minori costi. Riguardo quest'ultima
caratteristica, nel settore industriale ed in quello dei servizi, i lavoratori
rumeni "costano" in media 1,51 euro per ora lavorata. Per capire la
differenza, in Italia lo stesso dato si aggira intorno ai 19 euro. Nel caso
del Veneto, la regione che più frequentemente ha attivato la
delocalizzazione, il costo del lavoro pro capite è circa l'85,7 per cento
più elevato di quello rumeno. L'importanza di tali differenziali salariali
Dott. Pugliese Nicola
35
conferma la tesi secondo la quale la delocalizzazione è una strategia
per migliorare la competitività dal lato dei costi. Da qualche anno
infatti si sta osservando la tendenza a perdere quote di mercato
estero, e quindi competitività, da parte dei Paesi maggiormente
industrializzati in quelle produzioni che richiedono manodopera in
grande quantità. Il contemporaneo mutamento degli assetti mondiali,
come la caduta del blocco sovietico o la presenza sempre più
prepotente della globalizzazione o l’apertura della Cina al commercio
mondiale, ha generato la possibilità di avere manodopera qualificata
ad un costo ancor più basso. Il recupero di competitività che viene
generato in virtù dei differenziali salariali ha così contribuito ad un
elevato risparmio dei costi di produzione, che alcuni studi stimano
intorno al 40 per cento. Soprattutto nel caso italiano, questo modello
ha contribuito a contenere la lenta, ma costante, perdita di
competitività all'estero. Secondo molti, infatti, la razionalità economica,
che opera alla base del processo di delocalizzazione, ha contribuito al
miglioramento dell'efficienza sia del sistema economico del Paese che
la attua, sia di quello del Paese che la ospita. In Italia e non solo, le
industrie del tessile-abbigliamento per diverse ragioni, stanno
attraversando una crisi, e di conseguenza gli imprenditori, o sono
costretti a chiudere oppure attivano il trasferimento all'estero,
preservando parte dell'occupazione in patria e domandando nel
contempo lavoratori più qualificati. All'estero si sono avuti
miglioramenti sotto il profilo occupazionale attraverso le assunzioni di
manodopera anche con bassa qualifica e l'erogazione di stipendi che,
anche se più bassi della media europea, rimanevano comunque alti.
In alcuni casi, quando le aziende sono interessate alla crescita
Dott. Pugliese Nicola
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professionale dei loro lavoratori, possono arrivare a corrispondere ai
più qualificati più del doppio dei salari locali medi. Anche se più difficili
da valutare, vi sono anche delle ricadute positive in termini di
diffusione di conoscenze tecniche e di creazione di indotto locale. Più
in generale, vi sono benefici che, attraverso corrette politiche
distributive, la cui attivazione non è però priva di ostacoli,
potrebbero arrivare a trarre beneficio su tutta la popolazione locale.
D’altronde vi sono anche aspetti che limitano la sostenibilità, nel
tempo della delocalizzazione, per i Paesi che la attuano, rivelandone la
natura strategica di breve periodo. La scelta del miglioramento della
competitività attraverso la razionalizzazione dei costi di produzione, in
particolar modo del costo del lavoro, ne ha escluso un'altra certamente
più onerosa, ma anche più duratura, ovvero, il miglioramento della
qualità dei beni attraverso gli investimenti produttivi. Infatti, il 59 per
cento delle imprese che hanno delocalizzato, in una recente indagine,
hanno asserito come beneficio atteso non più i bassi salari, ma il
miglioramento della qualità dei beni e dei servizi offerti. Il momento
congiunturale non favorevole ha certamente contribuito a
scoraggiare queste aspettative, e la presenza di consistenti differenziali
salariali è stata un propulsore più decisivo rispetto alle politiche
monetarie favorevoli che, rendendo i tassi di interesse i più bassi dalla
Seconda Guerra Mondiale, hanno agevolato le possibilità di
investimento. La prospettiva di adesione all'Unione Europea ha
costretto i Paesi Candidati a imboccare il sentiero del miglioramento
economico ed istituzionale, creando l'ambiente favorevole alle imprese
dell'Europa Occidentale. Perciò bisogna tenere conto del fatto che la
convergenza non sarà solamente nei benefici dell'attività di impresa,
Dott. Pugliese Nicola
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ma anche nei costi: produttività e salari si armonizzeranno e, dopo
l'adesione, l'Unione Europea non tollererà più la presenza di eventuali
accordi collusivi tra imprese delocalizzate per tenere bassi i salari. Molti
osservatori concordano sul fatto che il differenziale salariale verrà
gradualmente colmato, vi è soltanto l'incertezza in merito ai tempi di
questo fenomeno ed è proprio su tali tempi che si gioca l'efficienza
della strategia di delocalizzazione. Per l'Italia, che ha cominciato a
delocalizzare più tardi rispetto alla Germania, ad esempio, il problema
si fa ancora più urgente, anche perché il caso italiano sembrerebbe più
strettamente connesso con una logica di breve periodo, tendente
all'esclusivo sfruttamento del basso costo del lavoro. Di contro, le
imprese tedesche hanno mostrato la tendenza a rimanere all'estero,
attivando miglioramenti qualitativi, anche quando sul mercato
mondiale cominciavano a comparire Paesi con un costo del lavoro
ancora più basso. Quando la convergenza sarà completa e se la
concorrenza di altri paesi, come la Cina, sarà ancora forte, il problema
di come farvi fronte si riproporrà negli stessi termini. Solo che, forti
dell'esperienza, le imprese dovrebbero avere già abbandonato la logica
di quella che è stata definita come "delocalizzazione stracciona",
basata sullo sfruttamento del basso costo del lavoro e dalle prospettive
necessariamente di corto respiro, per valutare poi le strategie migliori
per resistere e migliorare nel contesto sempre più complesso
dell'economia mondiale.
Finora abbiamo parlato della delocalizzazione in Romania, in
forma molto teorica. Ora esamineremo un caso italiano di tale
delocalizzazione. Il caso preso in esame riguarda le industrie del
Veneto, interessate nel settore tessile-abbigliamento-calzature, che,
Dott. Pugliese Nicola
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tramite rapporti di Subfornitura o tramite Investimenti Diretti Esteri,
sono la realtà italiana maggiormente presente in Romania.12 Tale
località e contraddistinta da un costo del lavoro molto basso, infatti, la
busta paga di un lavoratore rumeno e di circa un decimo rispetto a
quella di un italiano. La delocalizzazione in questo Paese comporta, in
ogni caso, dei costi aggiuntivi come ad esempio, le spese organizzative
legate ad un decentramento lontano, o come la minor produttività che
contraddistingue i lavoratori rumeni. Il differenziale nei costi di
produzione, in ogni caso, è oggi maggiore, rispetto ad alcuni anni fa, a
causa dell’aumentato know-how dei lavoratori rumeni e della riduzione
dei costi transazionali. La delocalizzazione in Romania si è molto
sviluppata nelle zone di Bucarest, e secondo molti tale fenomeno è
destinato ad aumentare.
Nonostante la maggior parte delle industrie trasferisca la sua
produzione in Cina, le imprese Venete continuano a preferire il
territorio rumeno. Il motivo principale è legato alla vicinanza di tale
Paese all’Italia, che consente l’utilizzo di un time-to-market13
abbastanza contenuto e che permette l’utilizzo di materiali italiani
inizialmente esportati e successivamente re-importati. Larga parte
della produzione delle imprese, di tale località, consiste nella
trasformazione delle materie prime in prodotti finiti, e l’Italia,
nonostante gli IDE italiani siano poco presenti, rispetto agli standard
12 � Tale caso è stato fornito da un testo scritto da Paolo Crestanello e Giuseppe Tattara.
13 � Time to market: letteralmente significa tempo di mercato, e riguarda i tempi necessari per introdurre il prodotto finale nel mercato di riferimento.
Dott. Pugliese Nicola
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europei, è il maggior partner commerciale della Romania. La forte
presenza delle nostre industrie in tale località ha fatto si che aziende
locali, come Rapsodia, da essere produttrice di confezioni si sia
trasformata in produttrice di capi d’abbigliamento su commessa
italiana, mantenendo solo una piccola parte per i suoi affari rivolti,
solo, nel mercato interno. Nel caso delle connessioni a monte14, si può
affermare che, generalmente, la domanda di materie prime è originata
da processi di delocalizzazione produttiva delle imprese italiane. Nella
maggior parte dei casi, la delocalizzazione avviene da parte di piccoli
imprenditori locali, che essendo sollecitati dai loro committenti,
trasferiscono la propria produzione in modo da poter continuare ad
offrire il proprio servigio. Un esempio pratico di tale fenomeno vede
come committenti le imprese Gas e Benetton, che possono, così
facendo, completare il loro processo di produzione in questi Paesi,
diminuendo i propri costi connessi. La produzione in Romania avviene
tramite macchinari, generalmente, più obsoleti rispetto a quelli
utilizzati in Veneto (ma sempre di origine italiana). Ciò e dovuto al
fatto che, come ci spiega un dirigente della Samtex SA, dopo la
rivoluzione svoltasi in Romania tutti i manutentori di tale azienda,
leader nel campo dei macchinari, furono licenziati, perciò, gli
imprenditori che vogliono usufruire di tali tecnici, attualmente attivi,
devono utilizzare macchinari più vecchi che i manutentori locali
conoscono. Nonostante tutto, l’imponente processo di delocalizzazione
14� Connessione a monte: una connessione è una decisione di investimento, può essere a monte, se la produzione dei prodotti finiti viene stimolata dai semilavorati, mentre può essere a valle, se la produzione di un bene intermedio induce investimenti, nei settori nei quali entra come input.
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del nostro Paese, e del resto dei Paesi dell’Unione Europea, ha
permesso una produzione di beni dall’elevato grado di complessità e
sofisticatezza, di gran lunga superiore a quella inizialmente richiesta ai
produttori locali, “obbligando” anche i produttori rumeni a rispettare gli
standard qualitativi e i tempi di consegna richiesti dal nostro mercato.
Esaminando alcune tipologie di delocalizzazione ci interfacciamo
con il caso “Geox”, che tramite IDE, produce circa l’80 per cento della
produzione delle sue scarpe in pelle nel territorio rumeno, a Timisoara,
con circa 800 dipendenti. La Geox ha scelto tale regione per svolgere
la sua attività produttiva, poiché in questo località erano presenti da
numerosi anni, dei grandi stabilimenti di calzature, il che gli ha
permesso di usufruire di personale già “esperto”. Ciò lo si nota in
quanto all’interno di tale stabilimento ci sono solo 8 dipendenti italiani,
tutti con elevate qualifiche. Inoltre, l’impresa italiana, per incentivare i
dipendenti rumeni a lavorare meglio utilizza delle “fasce” in cui ognuno
dei lavoratori viene collocato, e ai quali viene promesso uno stipendio
maggiore15. Le materie prime giungono dall’Italia, e successivamente
vengono trasformate dai lavoratori del posto. La fase della
modellistica avviene in Italia, ma vista la difficoltà di comunicazione
che c’è tra i 2 luoghi, gli imprenditori della Geox, stanno pensando di
trasferire tale attività in Romania, poiché, “Con il fatto di essere
distanti si perdono informazione all’interno del ciclo, tra la fase
concepimento e quella di produzione” commenta uno dei direttori
presenti nella località in esame. La Geox per produrre i suoi prodotti in
15� Vengono introdotte fasce di reddito che possono arrivare anche a raddoppiare gli stipendi. La più nota è la Fascia A.
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Romania, oltre ai suoi stabilimenti, si avvale di alcuni laboratori
rumeni, ai quali fornisce macchinari in “comodato d’uso” e ai quali
concede l’utilizzo di alcuni locali di sua proprietà. Il fatto di avvalersi di
piccole aziende, dipendenti soprattutto dalle commesse fornite da
Geox, non permette a produttori locali di interfacciarsi nel mercato di
loro interesse, non permettendogli quindi di poter perdere il know-how
o le fette di mercato da l’impresa italiana conquistate in questi anni.
Un’ulteriore caso è quello della ditta “Intercolor”, una
lavanderia industriale che lavora per conto di grandi aziende, tra le
quali spicca l’impresa “Benetton”. Il sig. Maule, imprenditore
vicentino titolare dell’impresa Intercolor, inizialmente trasferì la sua
produzione in Romania, senza considerare che la qualità del lavoro era
molto inferiore agli standard qualitativi richiesti, rischiando di perdere
tutto il prestigio da egli accumulato negli anni precedenti. Dopo essersi
trasferito in Romania, e dopo aver insegnato il modo con cui lavorare,
il sig. Maule ha spazzato via i suoi concorrenti, e la stessa Benetton,
ha deciso di lasciare tutta la produzione nelle mani della Intercolor.
Infatti, attualmente, gli stabilimenti Benetton in Italia sono quasi del
tutto spariti e i pochi rimasti, sono specializzati nei prodotti che
richiedono una elevata velocità di riordino. La Intercolor, visto i bassi
costi e la buona qualità insita nei suoi prodotti, ha attirato nuovi
illustri clienti come “Diesel” e “Gas”, che hanno deciso di affidargli
l’intero ciclo produttivo. Attualmente l’impresa in esame è stabilità a
Timisoara, dove si avvale di una complessa struttura organizzativa e di
una lunga serie di macchinari italiani che gli consento di mantenere
elevati gli standard qualitativi. Vista la forte domanda, il sig. Maule,
dopo aver effettuato un elevato IDE, ha stipulato con produttori locali
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dei contratti di Subfornitura, tramite i quali egli fornisce i macchinari, le
materie prime e anche alcuni operai, che svolgono il compito di
capilinea affinché si possano mantenere elevati gli standard qualitativi.
Per quanto riguarda i Subfornitori rumeni, i più importanti e
famosi, sono la già citata “Rapsodia”, la “StarMod”, e ASCO. Tali
imprese un tempo erano produttrici dirette, ma visto l’elevato numero
di aziende estere presenti nel loro territorio hanno trovato più
conveniente divenire Subfornitrici di tali imprese, e non loro
concorrenti. Le imprese suddette inizialmente producevano prodotti di
tipo molto elementare, ma vista la forte richiesta di manodopera e di
lavori sempre più specializzati, hanno deciso di lavorare su commessa,
cambiando del tutto il proprio campo di produzione. Ad esempio
Rapsodia, inizialmente produttrice di camicie, ha deciso di soddisfare
una committenza sofisticata, richiestagli dall’azienda Benetton,
cominciando a produrre capospalla molto complessi dall’elevato valore
aggiunto. Tali aziende, oltre alla forte domanda presentatagli dai loro
committenti, hanno deciso di diventare commissionarie, perché
riescono ad avere un largo giro d’affari mantenendo un forte grado di
autonomia.
2.2 IL CASO CINESE
Il mercato asiatico è un “terreno emergente”. Da qualche decennio si
sono intensificati i collegamenti con l’Asia, in particolare la Cina, dopo
aver scoperto l’oro di questi territori, ovvero la manodopera a basso
costo. Oggi , capita sovente di imbattersi in oggetti che riportano la
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dicitura “made in China”16, dall’abbigliamento al settore alimentare. La
Cina conviene, e anche parecchio, ma la complessità della nazione,
dovuta alla differente cultura, alle differenti tradizioni, ai modus
vivendi, e al differente regime, hanno condizionato negativamente
molte multinazionali, che hanno preferito trasferire la loro produzione
altrove. Nonostante l’apertura al commercio internazionale, avviare
uno stabilimento in Cina non è una delle azioni più agevoli. Per riuscire
a sfruttare il mercato cinese, l’Italia come altre nazioni occidentali,
hanno dovuto conquistare la fiducia, soprattutto delle istituzioni locali.
Dopo l’azione dei governi per stringere importanti accordi istituzionali,
l’insediamento produttivo delle imprese in Cina risulta oggi più facile,
anche se il tessuto industriale non è forte e le imprese sostengono
comunque dei costi rilevanti. Ad aiutare tutti coloro che vogliono
sbarcare in Cina, oltre alle istituzioni, ci sono imprese che hanno
raggiunto una consolidata esperienza, società di consulenza, istituzioni
non governative, consorzi d’imprese.
Ovviamente delocalizzare in Cina, visto l’elevato investimento che
comporta, risulta molto difficoltoso. Perciò un’impresa, prima di
prendere tale decisione, dovrebbe porsi delle domande tenendo
presente il luogo in cui insediarsi, la forma societaria da adottare e,
per ultimo, come organizzare i suoi processi produttivi, in modo da
poter assicurare un minimo time-to-market. L’impresa, innanzitutto,
deve scegliere se delocalizzare solo una parte o l’intera produzione,
puntando alla realizzazione di specifici obiettivi strategici, i quali
16 � Ultimamente la dicitura “Made in China” è sostituita da “Made in P.R.C.” o “Made in C.E.”
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devono essere chiari, misurabili e raggiungibili, infatti, molto spesso la
delocalizzazione avviene in modo graduale, specie per le imprese di
modeste dimensioni. Oltre al risparmio sui fattori di costo si è
constatato che le imprese hanno anche altri obiettivi, difatti, tra le altre
motivazioni, che spingono le imprese ad effettuare un così grande
investimento, vediamo la massimizzazione del servizio logistico, della
qualità dei prodotti e della capacità di innovazione. Per quanto
riguarda la location, dobbiamo distinguere tra scelta di “localizzazione
macro” e scelta di “localizzazione micro”. La localizzazione macro
interessa l’area geografica della Cina in cui si intende investire. Per
fare questo, bisogna procedere ad una analisi attenta del luogo e una
valutazione accurata, in quanto, la scelta localizzativa non è molto
reversibile, ed una volta effettuato l’investimento non si torna indietro
con facilità. Il processo di localizzazione micro, invece, riguarda
l’individuazione di un area specifica, distinguendo tra industrial park
“low cost” e industrial park “high cost”. Un’ ulteriore campo di scelta
molto delicato, riguarda la scelta della forma societaria da adottare. È
concesso, ad ogni investitore, la possibilità di valutare vantaggi e
svantaggi di ogni tipologia di accordo presente sul territorio,
soprattutto in ragione della situazione di partenza. Dalla ricerca
effettuata è comunque emerso che le imprese che delocalizzano in
Cina, nella maggior parte dei casi, si strutturano in forma di WFOE.17
Tuttavia, l’organizzazione dei processi produttivi risulta un fattore
critico. Innanzitutto, c’è da definire la trasformazione di tali processi, in
17 � WFOE: “Wholly Foreign Owned Enterprise”, cioè società ad intero capitale straniero disciplinata dal diritto cinese
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altri termini, scegliere i sistemi informativi da adottare e progettare un
efficiente sistema logistico risolvendo il problema del sourcing, in
modo che risulti coerente con gli obiettivi strategici evidenziati a monte
del progetto di fattibilità. Data l’effettiva convenienza del costo della
manodopera e un approccio all’economia cinese di tipo labour
intensive, il processo produttivo è naturalmente trasformato con
l’obiettivo di massimizzare i risultati positivi ottenibili. Molto spesso
però, la produttività degli outsourcer e i benefici della delocalizzazione
sono limitati da inefficienze di settore come l’incompatibilità delle
culture base, l’alto turnover, la bassa qualità delle materie prime.
Come tutti sappiamo, delocalizzare in Cina comporta dei
vantaggi, a livello di costo a dir poco eccezionali. Ad esempio la
retribuzione media di un operaio generico che lavora nel distretto di
Jinshan, è equivalente a circa 50 euro al mese, cioè quasi quanto al
salario giornaliero corrisposto ad un lavoratore italiano. Tra l’altro, nei
primi cinque anni di attività produttiva, per le imprese estere che
investono in Cina, viene applicata l’esenzione totale dalla tassazione. A
partire dal 5° anno e fino al 10° anno, gli utili d’impresa vengono
tassati al 3,75%. Dal 10° anno in poi, la tassazione si attesta
mediamente al 7,5%. La Cina, per di più, dispone di manodopera
specializzata e personale direttivo qualificato. Infatti, nel Paese è
presente un alto grado di istruzione e una grande disponibilità di
laureati che conoscono la lingua italiana. Oltre a tutti i vantaggi insiti
nella popolazione cinese e nella loro struttura governativa, il nostro
Stato, per incentivare tale fenomeno, sovvenziona le nostre imprese
che decidono di trasferire in Cina la produzione. Infatti, è possibile
ricorrere a linee speciali di credito che la legislazione Italiana mette a
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disposizione degli imprenditori che intendano effettuare investimenti
produttivi all’estero18. Inoltre, il Decreto Legislativo 143/1999, gestito
sempre dalla Simest, consente di finanziare le spese iniziali degli studi
di prefattibilità e fattibilità fino ad un massimo di 350.000 euro, da
rimborsare in 4 anni al tasso pari al 25 per cento del tasso di
riferimento per le operazioni di credito all’esportazione, in altri termini,
ad un tasso agevolato vicino all’1 per cento. Per di più, è possibile
attuare una ulteriore linea di credito per la gestione ordinaria
dell’azienda, tramite banche cinesi, che non essendo regolate da un
TUB19 complesso e articolato come il nostro, elargiscono crediti molto
facilmente.
Sinora abbiamo visto i vantaggi insiti nella delocalizzazione in
Cina. Ora però passiamo a vedere cosa ne pensano i cinesi. Secondo
l'intervista fatta, da Emma Lupano, a Li Shouqiang, vicedirettore della
Tianjin Xiqing Economic Development area, “Gli italiani sono i più lenti
a sbarcare in Cina”. Infatti, secondo il vicedirettore, noi italiani siamo
stati i più lenti e i meno organizzati, poiché puntiamo troppo al
risparmio. La Tianjin Xiqing è una sorta di cittadella dell'industria
dove le aziende locali e straniere che intendono stanziarsi da queste
parti possono trovare terreni, strutture e servizi. Tianjin è la seconda
18 � Ricordiamo a questo proposito la Legge 100/1990, gestita dalla Simest (Società Italiana per le imprese all’estero) che consente alle imprese di beneficiare della partecipazione di Simest al capitale di rischio nella misura massima del 25%, mentre la quota dell’imprenditore Italiano può essere finanziata fino al 90% ad un tasso agevolato.
19 � TUB: insieme di leggi e regolamenti che disciplina le istituzioni bancarie, disciplinando la concessione dei crediti secondo i principi di Basilea 1 e Basilea 2.
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area di questo tipo e dal 1992 ad oggi, è arrivata a coprire una
superficie di 100 chilometri quadrati, con circa 500 aziende registrate,
per un investimento complessivo pari a quasi 4 miliardi di dollari. In
tale territorio ci sono, per ora, poche aziende italiane. “Noi speriamo di
avere presto nuovi clienti dal vostro Paese, il problema è che gli
italiani, per quello che ho potuto vedere di persona, spesso sono lenti
nel prendere le decisioni e anche nel metterle in pratica. – continua il
sig. Li Shouqiang - Questo fa sì che, a volte, perdano delle buone
occasioni lasciando il posto a concorrenti più agguerriti di loro e solo
per mancanza di tempismo, o perché indotti ad inseguire a tutti i costi
il massimo risparmio”. Il sig. Li Shouqiang continua dicendo, “Consiglio
di venire a produrre in aree di sviluppo come la nostra, dove, le
aziende italiane, possono essere certe di essere trattate secondo le
regole e di essere assistite dal punto di vista legale, finanziario e
burocratico. Qui vi è la possibilità di utilizzare tutti i mezzi di
comunicazione, poiché molto vicini al nostro territorio. Inoltre, le
aziende da queste parti non hanno difficoltà a trovare persone da
assumere”. Per quanto riguarda i stabilimenti insiti nel territorio, il
vicedirettore, ci mostra che qualsiasi impresa ha tre possibilità, infatti
può:
• acquistare direttamente il terreno libero, per 50 anni, creando da
se la propria azienda;
• affittare stabilimenti standard da noi prefabbricati,
• comprare la terra e affidare a noi la costruzione della sede
produttiva.
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I prezzi sono certamente più bassi, infatti, l'affitto va dai 1,6 ai 1,8
euro al metro quadro e anche i servizi costano poco, ad esempio 5
centesimi di euro per kW/h di elettricità, 20 centesimi per m³ di gas.
Uno dei casi italiani che è stato maggiormente influenzato dalla
situazione presente in Cina riguarda il Distretto di Sorrento, da
decenni degno di nota nella produzione di piastrelle e di macchinari
ad esse adiacenti. Tale sistema è da anni contraddistinto da un sistema
di interdipendenza in cui i diversi attori interagiscono attraverso
molteplici livelli, con differenti temporalità ed obiettivi. Dopo 4 decenni
di leadership indiscussa, le imprese sorrentine, sono state superate
nella produzione in tale settore da imprese cinesi, spagnole e
brasiliane. La imprese cinesi, principali concorrenti delle imprese
italiane, si sono affacciate in questo mercato copiando i prodotti ed i
macchinari sviluppati nelle nostre aziende. La concorrenza cinese ha
messo in discussione uno dei punti di forza che aveva contraddistinto il
nostro territorio, ovvero la forte interazione tra produttori di
macchine e utilizzatori, cioè i produttori di piastrelle. Durante gli ultimi
40 anni, tale distretto, ha mostrato un’impressionante incremento della
produzione, accompagnato da mutamenti nella produzione, nel
formato e nel tipo di prodotto, scalzando, quasi completamente,
quote di mercato ai concorrenti tedeschi e inglesi. Ciò grazie alla forte
cooperatività tra le varie imprese, che fondarono l’ASSICERAM20.
Visto il forte progresso in tale campo, le nostre imprese hanno
20 � È una associazione di tecnici operanti nel settore della ceramica e di macchine ad esso adiacenti. Istituito negli anni ’70. Si avvale di incontri periodici tra i vari tecnici, che consentono di apportare continui miglioramenti ai propri prodotti.
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cominciato ad esportare macchinari e conoscenze, permettendo così
alla Cina , e ad altri Paesi, di aumentare la produzione, togliendo quote
di mercato agli italiani. Infatti, dagli anni ’90 al 2001, le imprese
residenti in Cina hanno incrementato di 20 volte la loro
produzione, registrando in tale anno, 1.000 milioni di m² di piastrelle.
La colpa di tali effetti è da attribuirsi agli imprenditori italiani, esperti in
produzione di macchinari per piastrelle, che hanno delocalizzato la loro
produzione per poter usufruire di condizioni economiche più
vantaggiose, ottenendo così maggiori tassi di crescita e margini di
profitto più elevati. Lo smistamento di tutti questi macchinari, in Paesi
poco tecnologici, ha portato anche al mutamento delle materie prime,
passando da argille rosse, che richiedevano più lavorazione, ad argille
bianche, contraddistinte da un processo più automatico21. Oltre alla
produzione dei singoli macchinari, le imprese italiane sono state in
grado di progettare interi impianti detti “chiavi in mano”. La domanda
di tali impianti si è incrementata a livello esponenziale nel momento in
cui le imprese orientali hanno cominciato ad affacciarsi in tale settore.
Tramite questi impianti gli imprenditori, che delocalizzavano la loro
produzione in Paesi come la Cina, dovevano avevano la possibilità di
installare il macchinario e dare il via alla produzione, senza dover
essere provvisti di un elevato know-how22. Inizialmente i singoli
21 � Nonostante le imprese italiane fossero in grado di poter continuare ad utilizzare argille rosse, si sono viste costrette a produrre sempre più macchinari che consentissero l’utilizzo di argille bianche, poiché la domanda di tali macchinari è molto elevata.
22 � Attualmente, nella produzione di tali impianti, le aziende leader sono di nazionalità italiana.
Dott. Pugliese Nicola
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macchinari e i grossi impianti in Cina, venivano acquistati solo da
imprenditori italiani che avevano delocalizzato in queste località la
loro produzione. Dal 2003, però, gli imprenditori cinesi hanno
cominciato ad acquistare i sempre più evoluti macchinari italiani,
imitandoli e successivamente vendendoli nel mercato interno o/e
internazionale. Arrivati a tali condizioni, si può sottolineare che l’unico
punto di forza, che contraddistingue le imprese italiane, sia
l’innovazione e il design, ed è proprio su tali punti che deve
specializzarsi la produzione italica per poter continuare ad avere una
certa influenza nel mercato internazionale.
2.3 IL CASO ALBANESE
Se non fossimo nel Ventunesimo secolo, dotati di mappe
geografiche dettagliate e sistemi satellitari precisi al millimetro
verrebbe da chiedersi che fine abbia fatto l’Albania. La questione è
meno assurda di quanto possa apparire, perché i nostri dirimpettai
dell’Adriatico sono scomparsi da tempo dalle pagine dei giornali e dai
TG televisivi. Resta il fatto, però, che poco o nulla sappiamo della
situazione politica ed economica albanese degli ultimi anni. Cosa
ancora più grave è che la maggioranza degli italiani ignora
completamente l’apporto che l’Italia ha dato e sta dando allo sviluppo
dell’ex feudo oscurantista di Enver Hoxha. In questo breve excursus si
cercherà di imporre tali nozioni, cominciando dalla recente evoluzione
della vita politica albanese.
L’Albania è la nazione più povera d’Europa. Questa è la frase che
sentiamo più spesso quando si parla del quadro economico albanese.
Dott. Pugliese Nicola
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Ebbene, forse è vero, ma sarebbe sbagliato non tener conto delle
situazioni di partenza e dei progressi fatti dal 1991, da quando, cioè,
Tirana è tornata ad essere la capitale di uno Stato libero, ponendo fine
all’asfissiante dittatura comunista. Ancora oggi, a venti anni di
distanza, la transizione verso un’economia di mercato non può dirsi del
tutto conclusa, nonostante alcuni innegabili passi in avanti che,
soprattutto negli ultimi anni, fanno ben sperare. La claudicante
economia albanese non ha potuto compiere la sua parabola
ascendente a causa di numerosi momenti di tensione sociale e politica
che più volte hanno portato il paese balcanico sull’orlo di una vera e
propria guerra civile. Prima lo scandalo delle finanziarie nel 1997,
poi le accuse di corruzione a politici socialisti e infine una
preoccupante crisi energetica nell’inverno del 2005. Questi sono stati
gli ostacoli principali alle trasformazioni economiche albanesi,
insieme ad una ormai tradizionale instabilità politica. Tra l’altro
l’Albania può vantare tra le sue prerogative la partecipazione al
“Agenzia Eureka”23 e dal 1995 al “Consiglio Europeo”24, che sta
spingendo il Paese ad integrarsi sempre più ai parametri richiesti
dall’Unione Europea, e quindi farle ottenere un ulteriore balzo di
qualità. Dal 2000, la situazione albanese ha cominciato ha mostrare
23 � Agenzia Eureka: Iniziativa intergovernativa che ha l’obiettivo di migliorare la produttività e la competitività dei paesi europei tramite un approccio “dal basso” all’innovazione tecnologica.
24 � Consiglio Europeo: Ente governativo con l’obiettivo di raggiungere una maggiore integrazione tra i propri membri, sulla base di un patrimonio di tradizioni comuni, tra cui la libertà politica.
Dott. Pugliese Nicola
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qualche miglioramento, infatti da tale anno il PIL albanese è cresciuto
a dismisura, tant’è che il Prodotto Interno Lordo Pro Capite, è passato
dai 1.456 dollari del 2002 ai 2.672 del 2005, con un balzo in avanti, in
soli tre anni, quasi del 100 per cento. I dati relativi al PIL, la cui
crescita è ormai abbastanza costante, ci mostrano una economia viva,
finalmente alla ricerca di una crescita attesa per troppo tempo.
Industria e costruzioni sono i settori trainanti di questo momento
positivo per l’economia albanese, infatti è particolarmente significativo
il dato del 2004 relativo a questi settori. Il comparto industriale è
cresciuto del 16,7 per cento mentre le costruzioni hanno visto
un’impennata del 15,5 per cento. Un ulteriore indicatore,
particolarmente importante, e che ci dà il senso pieno dello sviluppo,
seppur ancora instabile, albanese è quello relativo alla disoccupazione.
Si va, appunto, dai 215.085 disoccupati del 2000 ai 157.008 del 2004.
Una diminuzione costante e assolutamente sorprendente, con un
consequenziale calo del tasso di disoccupazione, che dal 16,8 per
cento del 2000 è giunto al 14,4 per cento del 2004. Quest’ultimo dato
percentuale, è un dato sicuramente non basso in valore assoluto, ma
considerando le situazioni di partenza e le condizioni economiche
albanesi è innegabile che siamo di fronte ad uno sviluppo economico
che non coinvolge solo le grandi imprese o gli investitori internazionali,
ma anche la gente comune che finalmente potrebbe essere
incentivata, grazie all’aumento di opportunità occupazionali, a
rimanere in Albania interrompendo, il già noto flusso migratorio verso
l’estero che dal 1991 è stato costantemente elevato.
Il nostro Paese ha avuto un ruolo determinante per la crescita
dell’Albania, infatti in questa località troviamo 115 aziende italiane,
Dott. Pugliese Nicola
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193 aziende albanesi a capitale italiano, numerose ONG e ONLUS25
soprattutto dedicate alla formazione e ai servizi sanitari, una decina di
uffici di rappresentanza regionale. Il rapporto economico tra queste
due sponde dell’Adriatico è solido e fondamentale. Tirana dipende
fortemente dall’Italia e il nostro paese non può fare a meno del pur
piccolo mercato albanese. Oltre la metà delle nostre aziende presenti
sul territorio albanese sono attive dall’inizio degli anni Novanta, col
governo di Salih Berisha, instauratosi dopo il crollo del regime
comunista, che ha offerto all’Italia un vicino e comodo mercato
“vergine” nel quale espandere le proprie industrie. Alla fine del
decennio, tuttavia, si è avuto un netto calo della presenza italiana.
Solo le imprese che avevano competenze reali e spiccate capacità
imprenditoriali, infatti, sono riuscite a resistere in un mercato sempre
più competitivo e vitale come quello balcanico. Le imprese italiane in
Albania rappresentano la presenza nazionale più consistente in
assoluto, e alla base di questa massiccia presenza italiana c’è il buon
clima politico tra i due paesi, la scarsa concorrenza locale e
internazionale e il basso costo del lavoro. Tra i più importanti
gruppi italiani figurano “Divella” nel settore alimentare, “Casa Isnardo”,
“Acciaierie Venete” nel settore edile, “Gruppo Enel Power” ed “Essegei”
nel settore energetico, “Darfo” e “Petrolifera Italo-Rumena”
25 � ONG e ONLUS: sono enti organizzativi volti alla tutela dell’uomo. L’ONG o Organizzazioni Non Governative sono Enti internazionali sorti in base ad accordi tra privati e dotati di finalità che possono essere realizzate influendo sull'azione dei governi. ONLUS o Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale è un Ente privato, con o senza personalità giuridica, il cui statuto o atto costitutivo prevede lo svolgimento di attività rivolte al perseguimento di finalità sociali.
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nell’estrazione e stoccaggio dei minerali, “Italstrade” e “Italcementi”
nelle infrastrutture. Le imprese italiane presenti sul territorio albanese
sono prevalentemente aziende di trasformazione, divise tra imprese a
capitale interamente italiano e italo-albanese (joint venture), con una
presenza che supera il 75 per cento. La maggior parte sono PMI nei
settori delle costruzioni (35 per cento), del tessile e delle calzature (21
per cento), del commercio e dei servizi (16 per cento), dell’industria
agro-alimentare (8 per cento). Geograficamente, invece, le aziende
italiane sono distribuite maggiormente nella zona di Tirana26, Durazzo
e Kavaja (75 per cento), seguono Valona e il Sud del paese (15 per
cento) e Scutari e la zona settentrionale (poco più del 5 per cento).
Per le imprese italiane trasferire la loro produzione è al quanto
vantaggioso, in quanto, oltre ad avere una vantaggio comparato in
merito al costo del lavoro, la presenza dell’integrità politica che c’è
tra il nostro Paese e l’Albania fa ricevere a tutti coloro che intendono
delocalizzare molti vantaggi, non solo a livello fiscale, ma anche per
quanto riguarda le direttive governative. Ad esempio un contratto di
joint venture, che in Italia presuppone molte caratteristiche dei soci,
tra le quali la collaborazione di tutti i soci allo svolgimento
dell’operazione riguardante tale contratto, in Albania è caratterizzato
da una procedura molto più snella, che prevede le norme generali in
materia di contratto, senza incrementare le disposizioni in materia, e
26� Tirana: capitale dell’Albania e capoluogo del distretto omonimo. Collegata attraverso strada e ferrovia al centro portuale di Durazzo affacciato sul mare Adriatico, Tirana è la più grande città albanese e il maggiore centro commerciale, industriale e culturale del paese. L’economia cittadina si basa sull’industria tessile, metallurgica, calzaturiera, alimentare, meccanica
Dott. Pugliese Nicola
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principalmente senza dover essere costretti ad attuare una società, e
quindi, eliminando tutte le spese che una società solo per la sua
esistenza è costretta a sopportare. Per quanto riguarda il sistema
fiscale, poi, l’Albania riconosce come persone fisiche anche le società
unipersonali, generando una ulteriore tassa, che nonostante tutto,
come possiamo ben immaginare, non va a gravare sul peso fiscale, in
quanto, risulta pur sempre minore rispetto a quello italiano. Ciò è
dovuto alla presenza di maggiori spese detraibili e deducibile, che
comportano una diminuzione della base imponibile. Il sistema fiscale
albanese è molto simile a quello italiano, disciplinato con aliquote più
basse, ed è composto da:
• Personal Income Tax, ovvero, imposta sulle persone fisiche. Tale
tributo viene applicato anche alle imprese individuali, iscritte
presso la Camera di Commercio Albanese. Tra l’altro il sistema
governativo, di tale Paese, riconosce come cittadini albanesi tutti
coloro che, anche se di altra nazionalità, soggiornano per più di
183 giorni all’interno del suo territorio. L’imposta è progressiva ad
aliquote crescenti che vanno dal 5 al 30 per cento, per coloro che
possiedono un reddito indipendente, mentre è fissa ed è del 10
per cento, per tutti coloro che percepiscono redditi da lavoro
subordinato.
• Imposte sul reddito delle persone giuridiche: il governo disciplina
diversamente le imprese in base alla loro sede. Infatti, se hanno
la sede all’interno del territorio, sono regolarmente soggette ad
imposta, mentre se la loro sede è all’estero, subiranno un’imposta
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del 23 per cento, utilizzando come base imponibile il bilancio
dell’ultimo anno.
• Value-added Tax: cioè l’imposta sul valore aggiunto, che come
l’Italia prevede una aliquota del 20 per cento. Il Governo albanese
prevede, tuttavia, l’esenzione per tutte quelle merci che dovranno
essere esportate e per i servizi postali e finanziari. Tutto ciò,
genera un grande valore aggiunto su coloro che intendono
delocalizzare la loro produzione per diminuire i costi della forza
lavoro, e che quindi una volta terminato il processo manifatturiero
faranno rientrare tali prodotti nel paese d’origine.
• Excise Tax: in altri termini le Accise sui beni importati, che
vengono riscosse contestualmente alle tasse doganali, e sono
calcolate sulla base del valore doganale, maggiorato da eventuali
dazi. L’aliquota è variabile è va dal 5 per cento al 90 per cento.
Secondo l’ex Ambasciatore Attilio Massimo Iannuci, l’Italia è la
nazione di riferimento per il popolo albanese, infatti in un suo
commento in merito ribadisce che “Il tasso di sviluppo in Albania è del
6%, non lontano da quello della Cina, oggi al centro dell' attenzione e
dell' attrazione mondiale”. Il diplomatico si è assunto il compito difficile
di comunicare all' Italia l'appeal dell'Albania, porta naturale dei Balcani,
che costituiscono un mercato potenziale di 65 milioni di persone. Tale
mercato, tra l’altro, è stato favorito da un recente accordo che abbatte
dazi e tariffe doganali per molti prodotti. Ormai sono molti, soprattutto
i giovani, che, attraverso l' Italia, guardano agli standard europei.
L’Italia è il primo “sovvenzionatore” dell' Albania, infatti la
Cooperazione ha versato, dal ' 91 al 2006, circa 650 milioni di euro
Dott. Pugliese Nicola
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in aiuti. La nostra presenza imprenditoriale, che pure c' è ed è diffusa,
non appare abbastanza qualificata, e fino ad ora sembra poco
interessata a metter radici nei settori strategici. Infatti, sono circa
500 le imprese italiane o italo-albanesi presenti sul territorio, tutte
PMI, mentre quelle di dimensioni consistenti, si contano sulle dita di
una mano. Nel 2006 infatti, la società petrolifera “Italo-rumena” ,
una delle poche grandi imprese, ha ottenuto in concessione dal
governo albanese un' area attorno a Valona, per lo stoccaggio di
carburanti. L' investimento, di circa 30 milioni di euro, prevede anche
la costruzione di un porto, e tale avvenimento può divenire la breccia
nell'importante settore petrolifero albanese, in via di privatizzazione.
Gli uffici dell' Ambasciatore Iannucci, coadiuvato dal Primo Consigliere
Ettore Francesco Sequi, si sono concretizzati anche con l'apertura dello
Sportello Unico per le imprese, portando alla risoluzione delle
controversie tra imprenditori italiani e le amministrazioni albanesi.
Infatti, come ci mostra il diplomatico, “Uno dei punti deboli della
giovane democrazia di questo Paese è l' incompletezza del sistema
legislativo e l'inadeguatezza della magistratura”. L' Albania sta
compiendo notevoli sforzi per poter far crescere il suo mercato e la sua
esperienza in tale campo. Infatti, è ancora oggi in atto, una politica
volta alla privatizzazione dei settori strategici come telefonia
(Albtelecom), assicurazioni (Insig), compagnia elettrica (Kesh), petrolio
(Armo e Albpetrol). Nonostante tutto l'Italia si muove ancora molto
timidamente, dando però un segnale d’interesse, seppur leggero,
con l'insediamento della società petrolifera Italo-rumena, e
Dott. Pugliese Nicola
58
dall’interesse rivolto alla Kesh, dove l' Enel si è già, dal 2006, resa
attiva applicando un co-management.27
Tra l’altro, l’attuale Primo Ministro, in carica dal 2005, Sali
Berisha, in occasione del Primo Forum Italo-Albanese, per descrivere i
rapporti tra i due Paesi ha espresso il suo pensiero, dicendo : “Per noi
l’Italia è un partner importantissimo e ci sono grandi possibilità per
sviluppare il nostro interscambio economico”. Infatti ha mostrato,
lungo il corso di tale forum come l’Italia sia il primo partner
commerciale dell’Albania. Il nostro Paese, infatti, ha una quota del
33% dell’interscambio complessivo, pari a 1,3 miliardi di euro nel
2009. In altri termini, è il paese che è penetrato maggiormente
nell’economia albanese, essendo il primo in assoluto per numero di
imprese con capitale partecipato. La maggior parte degli investimenti
delle PMI, come già menzionato antecedentemente, si svolgono lungo
la costa Adriatica e i riguardano i settori dell’edilizia, del tessile-
calzaturiero e del commercio. Negli ultimi anni, tra l’altro, c’è stato un
sostanziale aumento di imprese medio-grandi che hanno investito nel
settore energetico ed infrastrutturale. Tali imprese, hanno delocalizzato
la propria produzione in questo Paese, per poter espandere la propria
fetta di mercato sui territori balcanici e dell’Europa orientale. In
particolar modo, il settore energetico, sta investendo in tale territorio,
non, sfruttando le risorse ormai note da tempo, ma, incrementando le
conoscenze e l’attuazione in campo energetico di fonti rinnovabili e
gassose. Tra l’altro anche le banche italiane, visto la presenza non
27� Notizie apprese da “Il Corriere della Sera”, articolo di Marisa Fumagalli.
Dott. Pugliese Nicola
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indifferente dei nostri concittadini sul territorio albanese, stanno
trasferendo, in tale località, delle loro filiali. Attualmente, infatti, la
Banca Intesa San Paolo e Gruppo Veneto Banca hanno aperto in
Albania, complessivamente, più di 40 succursali.28
Dopo aver parlato teoricamente della convenienza, o meno, di
delocalizzare in Albania, passiamo ad esaminare un caso pratico.
Il signor Giuseppe Cascione, contitolare dell’impresa “Adora S.R.L”
di Barletta, calzaturificio specializzato in scarpe antinfortunistiche, ha
esposto la sua esperienza. Infatti, l’azienda suddetta, ha delocalizzato
la sua produzione in Albania, precisamente a Tirana, presso l’impresa
“Astra 2000” dal 1999, a seguito della rivoluzione tenutasi negli anni
precedenti. L’impresa, per delocalizzare la sua produzione, ha
stipulato un contratto di “Subfornitura”, cioè una modalità di
delocalizzazione, che avviene tramite accordo contrattuale tra imprese
e che rappresenta il primo livello di cooperazione. Il sub-fornitore, in
forza di una relazione contrattuale, si sostituisce al committente per
l’esecuzione di una determinata produzione o fase di lavorazione,
rispettandone le direttive tecniche. Il committente predetermina il
contenuto della prestazione, in altri termini le caratteristiche tecniche,
e assume i rischi di mercato, mentre l’azienda fornitrice s’incarica della
produzione di una parte o dell’intera commessa. L’impresa
committente, tra l’altro, fornisce le materie prime e le specifiche
tecniche, in modo che l’azienda fornitrice possa produrre esattamente
gli stessi prodotti della prima. Infatti, l’azienda delocalizzatrice, esporta
28� Notizie apprese da Agenzia stampa “Adnkronos”
Dott. Pugliese Nicola
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dall’Italia materie prime, esegue la lavorazione in Albania, e reimporta
il prodotto finito in Italia, pronto per essere venduto. Inoltre, l’impresa
mandataria, fornisce le attrezzature tecniche specifiche per la
realizzazione di prodotti dal contenuto altamente tecnologico.
Come rivelatoci dal signor Cascione, trasferire un’impresa in altri
Paesi, è molto difficoltoso. Infatti, l’azienda “Adora”, si è interfacciata
con un “intermediario” del posto, che gli ha proposto la possibilità di
produrre il proprio prodotto nel proprio Paese. L’intermediario propose
a molti imprenditori italiani, del settore calzaturiero, di trasferire la
attinente produzione in Albania, e visto il loro forte interessamento, si
adoperò per poter impiantare una serie di tomaifici su tutto il territorio
albanese. Come mostratoci dal sig. Cascione, il vantaggio economico a
trasferire la produzione in tali Paesi è eretta sul basso costo della
manodopera, che comporta, mediamente, un risparmio pari al 75 per
cento dei costi. Infatti, l’imprenditore, pur pagando regolarmente tutti i
vari contributi, che possiedono le stesse aliquote di quelli italiani, si
trova a dover pagare, mensilmente, circa 250,00 euro per
dipendente29. Ovviamente, da qui si riesce subito a carpire il vantaggio
economico insito nella delocalizzazione, ovvero, il forte differenziale
presente nelle buste paga, che per un italiano medio è di 1.200,00
euro, mentre per un’albanese è di 250,00 euro circa. È tale
differenziale, diventa ancora più noto visto l’elevato numero di
dipendenti (circa 500). Ovviamente, vanno anche tenuti in
29 Tra l’altro il signor Cascione, nel seguito dell’intervista, ci ha fatto notare che i salari che loro retribuiscono, trovandosi nella capitale albanese, sono superiori rispetto a quello dei loro concorrenti che invece hanno situato la loro impresa in zone più periferiche.
Dott. Pugliese Nicola
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considerazione i costi aggiuntivi che comporta una delocalizzazione di
tale dimensione. In primo luogo, bisogna tenere in considerazione il
costo di trasporto, che seppur minimo rispetto al risparmio generato
dall’operazione, va ad incidere sul costo totale, vista l’elevata
frequenza d’utilizzo30. Inoltre, come già detto in precedenza, vi è la
presenza di un peso fiscale molto simile a quello italiano,
accompagnato da un’ulteriore tassa emessa nei confronti di coloro
che risiedono in Albania per più di 183 giorni, che sono tenuti a
versare la “Personal Income Tax”. Oltre a tali costi, va tenuto in
considerazione che essendo i lavoratori albanesi poco abituati al lavoro
e poco capaci di produrre, è sempre richiesta la presenza dei soci o
dei dipendenti italiani, che li “controllino”. Il che non incide molto sul
prezzo, ma, sul sacrificio a livello emotivo, posto a carico di tutti coloro
che per una quindicina di giorni circa, non possono vedere le proprie
famiglie. Per quanto riguarda la manutenzione dei macchinari,
l’azienda si avvale di due tecnici albanesi, che sono degli
elettricisti/meccanici, in altre parole dei “tuttofare”, che nella maggior
parte dei casi trovano rimedio ai vari guasti. Solo in casi eccezionali,
ovvero quando i tecnici albanesi non riescono a sistemare
l’eventuale guasto, si ricorre a tecnici italiani che comportano, però, un
costo molto elevato, in termini di viaggio, soggiorno e prestazione.
Il signor Cascione che, ormai da più di 20 anni, effettua la sua
produzione in Albania ha mostrato come tale delocalizzazione fosse
necessaria. “Siamo stati costretti a delocalizzare, in quanto la
30� La Ditta “Adora S.R.L.” ha scelto proprio l’Albania, in virtù della vicinanza al nostro Paese, che consente di avere costi di trasporti meno elevati, rispetto a Paesi più lontani, come la Cina.
Dott. Pugliese Nicola
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concorrenza in tale settore era diventata sempre più spietata –
commenta l’imprenditore – e produrre a Barletta non sarebbe stato più
possibile. Inizialmente trasferire tutta la nostra produzione in Albania è
stato difficile ed impegnativo, poiché siamo stati costretti a trasferire
tutti i nostri impianti. Ma ancor più duro è stato istruire la gente del
popolo ad interfacciarsi con il mondo del lavoro. La maggior parte degli
albanesi non aveva mai lavorato e passava tutto il suo tempo nei bar
del posto ad ubriacarsi. Inizialmente abbiamo avuto molti problemi col
personale, che era molto indisciplinato, e che non sapeva neanche
mettere in funzione una macchina da cucire. Ora hanno acquisito i
metodi di fabbricazione, ma hanno sempre bisogno di essere
controllati, dato che alla minima occasione, rendono il processo
improduttivo. Ovviamente, per far ciò abbiamo usufruito dell’aiuto di 5
dipendenti italiani, di fiducia, tutti con la carica di responsabili di
settore, che controllano,insieme a noi soci, gli standard qualitativi del
prodotto e che la produzione non si fermi”. “Da quando siamo qui,
abbiamo potuto mostrarci anche in mercati esteri con prezzi molto
vantaggiosi – continua il sig. Cascione – e da qualche anno abbiamo
cominciato, vista la presenza di domanda, a vendere i nostri prodotti
anche nel mercato interno, dove nonostante la presenza dei numerosi
concorrenti siamo riusciti ad impossessarci di una fetta di mercato”.
Per quanto riguarda il rischio di know-how insito nella delocalizzazione,
ovvero che i lavoratori del posto possano “rubare” le conoscenze insite
nella produzione di tali prodotti, il sig. Cascione, continua dicendo che
“Negli ultimi 4-5 anni si sono venute a costituire nuove imprese
fondate da imprenditori locali, che, o avevano lavorato in Italia, e dopo
aver messo da parte un “gruzzoletto”, hanno costituito nuove imprese,
Dott. Pugliese Nicola
63
o, dalla poca gente ricca del posto che ha riconosciuto in ciò un nuovo
business dando vita a nuove imprese e togliendo a noi i dipendenti
migliori, ai quali affidano compiti di maggior prestigio e paghe
maggiori. Nonostante tutto, tali imprenditori sono riusciti a conseguire
rapporti commerciali solo con potenziali acquirenti interni, in quanto
sono sprovvisti di rapporti con il mercato internazionale, mercato dal
quale noi traiamo i nostri maggiori profitti”. Il signor Cascione, inoltre,
ci ha dato un suo parere in merito alla prospettiva futura di rimanere
in Albania, dicendoci che: “Come in tutti i Paesi, anche in Albania, col
passare del tempo e col maggior giro di moneta in circolazione, la
gente comincia ad istruirsi e ad aumentare le proprie richieste. Certo
attualmente produrre in Albania è ancora vantaggioso, anche perché
mercati come quello cinese non hanno ancora trattato questo
prodotto31, ma col passar del tempo e con un’eventuale aumento del
prezzo della manodopera o con l’ingresso dei sindacati, non sarà più
possibile rimanere in tale località, che al momento ci assicura un
risparmio del 60 per cento circa”.
31� Infatti la ditta “Adora S.R.L.”, inizialmente trattava anche calzature sportive da donna, ma visto l’ingresso dei produttori cinesi in tale mercato hanno deciso di abbandonare tale prodotto, in quanto non si era più in grado di reggere la concorrenza.
Dott. Pugliese Nicola
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3. LA NUOVA FRONTIERA: LA SVIZZERA
3.1 INTRODUZIONE
“Svizzera, torna l’Eldorado delle piccole imprese artigiane”32, cosi
intitola “il quotidiano di Como” un articolo connesso al fenomeno che
stiamo osservando negli ultimi tempi. La Svizzera torna a guardare alle
imprese, soprattutto alle piccole aziende artigiane, per rilanciare il suo
marketing territoriale. Sul tavolo ci sono tasse al minimo sul lavoro, un
mercato dell’occupazione flessibile, bassi prelievi fiscali sulle società,
sconti e incentivi economici, e pochissima burocrazia, con un sistema
bancario abituato ad accompagnare le aziende sia in patria sia
all’estero. Con il programma “COPERNICO”, la Svizzera ha introdotto
un piano riguardante la promozione economica fatta di incentivi
finanziari e fiscali, che in Ticino fra il 1997 e il 2005 ha favorito
l’insediamento di 151 imprese di cui 70 di origine italiana. Una
tassazione del 17 per cento ha messo in moto, negli ultimi dieci anni,
una delocalizzazione di imprese italiane non in Cina, non in Romania
ma a Lugano e Bellinzona. In Ticino, ad esempio, il gruppo tessile
Zegna è presente, ormai da anni, con sedi commerciali e produttive,
ed ultimamente anche le note imprese Gucci, Versace, Armani,
Boss, sono nella filiera logistico-commerciale. Le piccole imprese
hanno molti vantaggi, come fattoci notare dalle due associazioni
comasche dei piccoli artigiani, la CNA e la Confartigianato Como,
32 Articolo a cura di Simone Casiraghi.
Dott. Pugliese Nicola
65
che hanno messo in piedi un progetto per far trasferire oltreconfine i
piccoli imprenditori. Ad oggi, infatti, sono oltre 180 le imprese operanti
nei vari settori, dando così vita ad un luogo in cui è presente l’elite
delle PMI su scala mondiale. La Svizzera è un mercato interessante,
infatti, è il secondo partner commerciale dell’UE ed è il sesto mercato
di sbocco a livello mondiale del “made in Italy”, in particolar modo nel
settore tessile e del legno (arredamento). In Svizzera operano già
12.000 imprese con un titolare italiano, infatti, due prodotti su tre
importati dal Ticino provengono dall’Italia e l’export italiano in Ticino, è
un quarto dell’export totale italiano in Svizzera, il che realizza
un’ulteriore opportunità di lavoro per le nostre imprese.
Come si è potuto notare, il fenomeno della delocalizzazione in
Svizzera, si distingue molto rispetto a ciò che abbiamo esaminato
finora. Il progetto d’investimento “Copernico”, lanciato dal Ticino, in
cui il tax rate si ferma al 20% dell’utile e l’Iva è la più bassa d’Europa,
ha già attratto numerose aziende italiane, offrendo loro contributi a
fondo perduto e incentivi per le assunzioni. Così, mentre la
propaganda da tabloid accusa i nostri frontalieri di essere “topi dentro
la gruviera”, sfruttatori avidi del paese degli orologi, le istituzioni
elvetiche si attrezzano per “rubarci” imprese e competenze. “Austrian
Business Agency”, un’agenzia di commercio estera, dalla sua filiale
di Padova, continua ad ingolosire numerose imprese locali,
proponendo loro solo il 25 per cento di imposta netta sulle società;
rimborsi veloci dell’Iva; la possibilità di dedurre la maggior parte dei
costi; incentivi per investimenti produttivi fino al 25 per cento e per
ricerca e sviluppo fino al 50 per cento e prezzi dei terreni industriali tra
25 e 50 euro al metro quadro. Tale programma di incentivazione fino a
Dott. Pugliese Nicola
66
fine 2009 aveva già attirato quasi mille nostre imprese, tra le quali
risultano la “DANIELI” la “COSTAN”, la “FBS”, la “PCS”, ognuna
delle quali leader nel proprio settore. Senza ombra di dubbio, le
proposte che vengono effettuate sono iper-vantaggiose, nonostante, il
costo del lavoro risulti più caro di quello italiano. Le imprese che
decidono di affrontare un tale investimento ottengono,
sostanzialmente, vantaggi sotto il profilo dei servizi dalla pubblica
amministrazione, che consentono una celerità e una elevata
trasparenza, permettendo di svolgere nel miglior modo possibile la
propria attività.
Anche l’Unione Europea ha voluto dire la sua in merito, infatti,
questo tipo di agevolazioni, all’interno del proprio territorio, fa si che
numerose imprese dei Paesi membri decidano di trasferirsi in tale
“paradiso”. Il nuovo “dialogo” aperto dalla Commissione europea e dal
Consiglio federale, sullo spinoso dossier fiscale e sul codice di condotta
europeo contro la concorrenza fiscale dannosa, si svolge ad un livello
diplomatico definito “alto”. In tal modo, si cerca di imprimere nuovi
impulsi alla lotta contro la “concorrenza fiscale dannosa” lanciata nel
2007 nei confronti della Svizzera e di altri paesi. L'UE continua a
condurre la sua campagna in favore di una buona gestione
amministrativa a livello internazionale. Finora la Commissione si era
concentrata soprattutto su alcuni regimi fiscali cantonali che, ai loro
occhi, favoriscono in modo sleale l'insediamento di holding e altre
società europee sul territorio elvetico. Tali sistemi fiscali, secondo i
membri del Commissione, violerebbero le convenzioni stipulate
nell'“Accordo di libero scambio”, firmato nel 1972 tra la Svizzera e
l'Unione europea. La Confederazione si è mostrata favorevole alla
Dott. Pugliese Nicola
67
revisione di tale situazione, ma a mezzo di una riforma autonoma delle
regolamentazioni cantonali sulla fiscalità delle aziende. In cambio,
però, il Governo Svizzero chiede all'UE di decretare il "cessate il fuoco"
nell'ambito di questa vertenza, ottenendo come prima risposta
l’opposizione italiana. Il codice di “Buona Condotta Europeo” contro la
concorrenza fiscale dannosa è un testo giuridicamente non vincolante,
che intende porre un freno agli incentivi fiscali volti a favorire la
delocalizzazione delle imprese. Dall'adozione di questo documento nel
1997, la Commissione europea ha identificato un centinaio di norme
che violano questo codice, di cui una sessantina nei "vecchi" membri
dell'Ue, una trentina nei nuovi membri e una decina in altri paesi
europei. I ministri delle finanze dei Paesi membri, vogliono estendere
la portata del codice anche a paesi europei che non fanno parte
dell'UE, a cominciare da Svizzera e Liechtenstein, mirando, in particolar
modo, ai regimi fiscali di alcuni cantoni svizzeri, che offrono alla
aziende comunitarie intenzionate ad installarsi sul loro territorio
condizioni fiscali fin troppo favorevoli ed incentivando in tal modo
l'emigrazione delle imprese dei Paesi membri.
Da qualche tempo l’ente governativo “GreaterGenevaBernearea”
sta promuovendo all’estero l’utilizzo del territorio della Svizzera
occidentale per attività economiche straniere. Lorenzo Bessone, è
stato assunto dall'ente svizzero per procacciare imprenditori italiani
disponibili a trasferirsi con uffici, stabilimenti e/o macchinari, nella
confederazione elvetica. “Io contatto le aziende personalmente -
spiega il sig. Bessone - poi organizzo degli incontri con più imprenditori
per spiegare di cosa si tratta e quali sono le agevolazioni. Infine, li
porto sul posto per fargli vedere concretamente come funziona. Si
Dott. Pugliese Nicola
68
tratta di una iniziativa del Governo Svizzero per creare posti di lavoro
nei diversi cantoni”. Gli incentivi fiscali, come già detto
antecedentemente, sono notevoli. “Le imprese guardano con occhio
favorevole alla Svizzera, poiché è un Paese con una storia dimostrata
di competitività internazionale – continua il dott. Bessone - un paese
che fa politica industriale volta alla crescita, con i conti pubblici in
ordine, un basso rapporto debito pubblico/PIL, eccellenti infrastrutture
logistiche, scolastiche e sanitarie, IVA all’8%, multiculturalità e
multilinguismo ideali per chi opera sui mercati internazionali, centralità
europea. Se si da un’occhiata ai report della competitività globale del
World Economic Forum, e si paragona Italia e Svizzera, ci si può subito
rendere conto di ciò che offre tale sito agli imprenditori di tutti i Paesi.
Per di più, gli imprenditori che investono nella Svizzera occidentale
trovano nella nostra “Agenzia di Sviluppo Economico” un forte
acceleratore, poiché siamo un partner governativo, concreto e
totalmente gratuito pronto ad affiancare i progetti imprenditoriali
dando loro l’aiuto sul territorio per poter far partire le attività in
maniera rapida ed efficace”. Il “GGBa” gode di tutti i vantaggi del
libero scambio con l'Unione Europea, tramite gli “Accordi Bilaterali”,
ma mantiene l'indipendenza fiscale e legale a beneficio di aziende e
privati. Questa autonomia politica, amministrativa e giudiziaria da
parte del governo centrale, inoltre, aiuta le autorità a reagire
velocemente alle esigenze delle imprese nuove o di quelle già
esistenti. Tutti i cantoni, seguiti da tale ente, condividono una filosofia
ed un obiettivo comune, riguardante lo sviluppo di un'economia
competitiva basata su prodotti ad alto valore aggiunto e servizi. GGBa
offre una gamma completa di servizi, senza alcun costo per le imprese
Dott. Pugliese Nicola
69
con sede all'estero, cercando di incrementare il business di tale Paese.
Una volta che una nuova impresa si è insediata, tale ente le fornisce
un costante sostegno (ad esempio negozia, per l’azienda estera,
incentivi finanziari o fiscali).
Per quanto riguarda le prospettive future svizzere, va detto, che il
Consiglio federale ha approvato, il 1° marzo 2011, un messaggio
concernente la promozione della piazza economica negli anni 2012-
2015. Le modalità di finanziamento proposte e i disegni di legge
consentiranno alla Confederazione di proseguire la promozione delle
attività economiche esterne secondo una formula collaudata, re-
orientando la strategia turistica e portando avanti i progetti più
promettenti nell’ambito del governo elettronico. Quindi, l’obiettivo che
si pone la Svizzera è quello di mantenere a lungo termine la
competitività internazionale della propria piazza economica. La cui
promozione si avvale di strumenti quali la promozione delle
esportazioni, la promozione della piazza economica svizzera all'estero,
la politica del turismo, la politica a favore delle PMI e la politica
regionale.
3.2 I MOTIVI
Da quanto detto finora, si può subito scorgere che delocalizzare in
un tale Paese comporta elevati vantaggi. I motivi principali, che
spingono le nostre imprese a trasferire la propria produzione in
Svizzera, ed in particolare modo nel distretto della Greater Geneva
Berne area, possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
Dott. Pugliese Nicola
70
• La presenza di un contesto internazionale e multilingue. Pochi
luoghi dispongono di una visione cosi universale, come quella del
distretto di Ginevra, che da secoli intrattiene rapporti con
l’estero, vista la modesta grandezza del suo territorio e la
scarsità di materie prime. Tale località imprime molto valore al
marchio “Made in Switzerland”. La regione è stracolma di gente
proveniente dall’estero, che è giunto in questa terra per cercare
lavoro o per insediare la propria impresa. Tutto ciò, comporta la
presenza di molti lavoratori e tecnici specializzati nei settori più
all’avanguardia e la presenza di gente che sappia parlare
differenti lingue, visti i continui rapporti che si intrattengo con gli
stranieri, ormai da tempo presenti in tale località. Ad esempio, le
diversità organizzative insite all'interno del GGBa sono scioccanti.
Le più note marche dei prodotti svizzeri sono insediate nel posto
e la regione è anche sede di decine di organizzazioni
internazionali. Tale carattere, rende quindi questa regione una
dei luoghi migliori in cui poter cercare affari, specie se si decide
di interfacciarsi con interlocutori operanti a livello internazionale.
• Chiudere i rapporti con l’UE. Anche se si rimane esclusi
dall’Unione Europea, tale sito, consente di aver, in ogni caso,
rapporti con la maggior parte dei Paesi appartenenti all’UE.
Infatti tramite un sondaggio effettuato, più del 70 per cento degli
imprenditori è convinto che non entrare nell’UE comporti più
vantaggi che svantaggi. In quanto è possibile usufruire degli
“Accordi Bilaterali” concordati dal Governo Svizzero con il
Consiglio europeo, che ha garantito l’accesso a tale mercato a
più di 450 milioni di consumatori. L'Accordo di Libero Scambio
Dott. Pugliese Nicola
71
del 1972, è stato il primo di una serie di accordi bilaterali, come
le ratifiche degli Accordi Bilaterali I e II con l'UE, rispettivamente
nel 1999 e nel 2004. Questi accordi hanno assicurato la libera
circolazione delle persone e hanno fissato le condizioni per
un'ulteriore apertura dei mercati e dei finanziamenti in settori
specifici tra cui la ricerca, la sicurezza, l'ambiente, l'agricoltura, i
trasporti terrestri e aerei. L'accesso al mercato offerto da tali
accordi, che consentono di mantenere la Svizzera come un non-
membro della UE, crea le condizioni ideali per la localizzazione di
un’attività in Europa e nel mondo, anche perché confina con
alcuni dei più importanti Paesi membri, cioè Italia, Francia e
Germania.
• Ideale base centrale europea. Ginevra può essere visto come “IL”
centro strategico, dal punto di vista finanziario, di tutta l’Europa.
Possiamo quindi intenderlo come un piazza di prova eccellente
per chiunque decida di interfacciarsi in un mercato volto ad
intrattenere rapporti col mondo intero. Tra l’altro, la Svizzera è
contraddistinta da una serie di vantaggi in termini logistici.
Infatti, tale località possiede il maggior centro di stoccaggio
merci, caratterizzato da una forte presenza di trasporti, sia via
terra che via aerea.
• Un luogo ideale per poter lavorare col mercato tedesco e
francese. Ginevra, infatti, possiede i maggiori rapporti con i
mercati francesi e tedeschi, vista il plurilinguismo presente nel
territorio, facilitandone gli scambi commerciali. Ci basta dare un
occhio alla carta geografica per poterci render conto della
Dott. Pugliese Nicola
72
posizione di assoluto vantaggio che è insita in tale terra. Le forti
prospettive di lavoro hanno generato un continuo interscambio di
gente da Francia e Germania verso la Svizzera, tant’è che le
lingue “madri” sono per l’appunto francese e tedesco.
• Luogo ideale per vivere e lavorare. La Svizzera, già degna di
notorietà a livello mondiale, fa si che le sue città siano
costantemente citate come le migliori al mondo per la qualità
della vita, offrendo numerosi vantaggi, tra cui la sua aria pulita,
le comode dimensioni e la salute dei suoi abitanti. In tale
contesto è possibile attrarre i lavoratori migliori di tutte le nazioni
adiacenti, rendendo ancor migliore il livello qualitativo del Paese.
Tra l’altro, tale località è contraddistinta da un ambiente sicuro e
dalla massima assistenza sanitaria.
• Massima competenza in Ricerca&Sviluppo. I cantoni svizzeri
stanno prepotentemente assumendo la posizione di leader in tale
settore. Ad esempio, il distretto di Ginevra è uno dei luoghi in cui
sono concentrate alcune tra le migliori risorse in termini di
scienze e tecnologie. In tale località sono presenti alcuni dei
marchi più illustri, tra i quali emerge Rolex, Nestlè, Nokia,
Michelin etc. La ricerca è una priorità assoluta in Svizzera ed è
una fonte di orgoglio non indifferente. Sempre più brevetti
vengono depositati qui anziché in altre parti del mondo. Con una
base scientifica leader in prodotti farmaceutici, la spesa media
applicata al campo della ricerca è molto elevata, e tale
investimento fa si che vengano, sempre più, attirati investimenti
in settori ad alto valore aggiunto. Sempre più aziende scelgono il
Dott. Pugliese Nicola
73
territorio elvetico, in vista del potenziale di sinergie che offrono
le numerose strutture accademiche e di ricerca. Secondo l'OCSE,
la Svizzera è al top, in termini di sviluppo e conoscenze
industriali, e ben presto diventerà il gruppo di testa per
l'acquisizione di nuove competenze e tecnologie necessarie per
le industrie del futuro.
• Istituzioni privilegiate. Le ottime scuole di formazione superiore,
offrono un vantaggio comparato al Paese, facendogli acquisire
notevole importanza nel commercio internazionale e nella
finanza. La Svizzera offre una profondità sorprendente nel
campo dell'istruzione superiore, con due grandi reti di scuole
universitarie professionali basate su due fronti: la ricerca di base
e l’applicazione di tale conoscenze. L'OCSE, infatti, riferisce
costantemente che la Svizzera effettua il più elevato
investimento finanziario rispetto a qualsiasi altro Paese,
evidenziando l'impegno a finanziare un ambiente creativo che
attrae la “crème de la crème” degli insegnanti e scienziati, e
producendo i migliori studenti.
• Forza lavoro altamente qualificata. Con la sua dinamica, basata
su un’economia della conoscenza, la Svizzera è stata, per diverso
tempo, una calamita per tutti i settori ad elevato valore aggiunto.
Tale località è contraddistinta da un’elevata etica professionale e
da un basso rischio operativo (infatti gli scioperi sono molto
rari). Tra l’altro presenta, come suddetto, una manodopera
altamente qualificata, in quanto il territorio è ricco di istituti
tecnici ed università, con importanza a livello mondiale. Il fatto
Dott. Pugliese Nicola
74
che le ore di lavoro sono superiori, rispetto a quelle dei Paesi
confinanti, e la presenza sindacale è quasi sconosciuta, ha reso i
lavoratori svizzeri i più motivati del mondo. Oltre a tali
caratteristiche, va segnalato che i dipendenti in tale località sono
multilingue, e come se ciò non bastasse, il costo del lavoro, pur
presentando salari netti più elevati, comporta un costo
complessivo del lavoro in linea con quello italiano, in quanto
prevede la presenza di contributi a carico del datore di lavoro
inferiori a quelli del nostro Paese (oscillano dal 20 al 35 per
cento).
• Clima istituzionale stabile. Le caratteristiche suddette, sono rese
tali in quanto, la Svizzera è caratterizzata da una robusta stabilità
operativa, contraddistinta da un’elevata affidabilità e
competenza33. Infatti, in tale località è presente uno dei più bassi
tassi di inflazione, un sistema giuridico incrollabile, una forte
stabilità sociale, oltre alle già note efficienze nel campo bancario
e finanziario e nella sicurezza. Tutto ciò è stato possibile grazie
alla divisione in federazioni, che contraddistingue tale Paese.
Infatti, con tale sistema ogni distretto ha pieno potere politico,
come se fosse un Paese a parte. Ovviamente ciò comporta una
miglior applicazione di norme, basate sulle richieste dei cittadini.
Tra l’altro va considerato, come ulteriore punto di forza, la totale
33� Il nostro Paese, al contrario, non possiede affatto tali capacità. Si pensi al caso IKEA, che per istituire un suo punto vendita in Sicilia ha dovuto lottare con tutte le istituzioni pubbliche presenti, che a causa della loro lentezza, hanno penalizzato in termini di tempo la nota azienda.
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assenza di corruzione, che fa si che le istituzioni possano
funzionare al meglio.
• Autorità “Pro Active” pronte a fornire aiuti. Elemento cruciale di
tale Paese, ed in particolar modo del distretto della Greater
Geneva Berne Area, riguarda l’accogliente e aperta politica
effettuata nei confronti di imprenditori stranieri, che
delocalizzando in Svizzera che possono usufruire di numerosi
benefici. Ciò avviene, in particolar modo, tramite l’utilizzo di
sovvenzioni di start-up, concessi a tutti coloro che intendono
insediarsi in tale località. Tale sovvenzionamento, fa si che le
aziende assumano una posizione privilegiata, accompagnata da
una continua assistenza tecnica e amministrativa. Il federalismo,
infatti, fa si che le aziende che decidano di investire in tali
territori possono evitare spiacevoli inconvenienti, facilitando il
processo di impostazione e evitando ritardi amministrativi. Tutti i
funzionari cantonali, difatti, sono incoraggiati a mettere le loro
conoscenze a vantaggio di nuove imprese, sostenendo i loro
imprenditori ed aiutandoli ad interfacciarsi con altre imprese
internazionali, con banche, commercialisti, notai, avvocati e
consulenti. Tra l’altro, i numerosi incentivi elargiti, riguardanti
soprattutto le esenzioni fiscali ed il sostegno agli investimenti,
fanno si che questo Distretto diventi sempre più competitivo ed
incoraggi sempre più imprenditori a produrre nel GGBa.
• Infrastrutture. La Svizzera è tra i paesi leader a livello mondiale
per quanto riguarda la qualità e la profondità della proprie
infrastrutture, specie nel campo IT. I fattori a suo favore sono la
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sicurezza del supporto di internet, che ha incrementato la sua
notorietà da quando il World Wide Web ha deciso di trasferire
qui la sua sede. Oltre tutto, come già detto precedentemente,
tale località è di facile accesso ed è in grado di assicurare a tutti
coloro che si trasferiscono notevoli immobili, particolarmente
adatti per istituire uffici, unità di R&S e impianti tecnologici
produttivi34. Il Distretto di Ginevra, tra l’altro è ricco di numerose
altre infrastrutture, infatti ha la possibilità di garantire una rete di
trasporto, a dir poco, efficiente; porti franchi ed anche una fitta
rette di prestigiosi hotel dove poter tenere congressi.
• Interessanti normative fiscali. La Svizzera presenta uno dei più
favorevoli sistemi fiscali, di notevole importanza in caso di
stesura di business plan. Il reddito mensile di un dipendente
svizzero è di circa 6.298 franchi, dei quali il 70 per cento va nelle
mani del dipendente35, garantendone così un notevole potere
d’acquisto. Dato che ogni cantone può attuare un proprio
prelievo fiscale, nel corso degli anni si è venuta a creare una
sorta di concorrenza. La GGBa, ad esempio, oltre al contributo
suddetto, permette, alle imprese, in determinate condizioni, di
ottenere una esenzione fiscale totale o parziale del capitale per
un massimo di 10 anni. Tali incentivi sono concessi alle nuove
imprese che hanno investito nei settori chiave dell'industria, dalle
34� Ovviamente, se un imprenditore non volesse acquistare un immobile vi è sempre la possibilità di prender in affitto locali, anche finiti, che permettono di far partire da subito il processo produttivo.
35� In Italia, ad esempio, il peso contributo su di una busta paga è di circa il 45 per cento.
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quali dipendono numerosi posti di lavoro. Inoltre, la elevata
flessibilità permette di attuare un prelievo fiscale diverso a
seconda dei casi.
Come si è potuto notare, i vantaggi insiti nella delocalizzazione in
Svizzera sono molto evidenti e viaggiano su numerosi fronti. Infatti si
notano vantaggi in termini di costi, come le agevolazioni fiscali,
vantaggi infrastrutturali, fino a giungere a vantaggi di tipo mercantile,
tramite i quali è possibile conquistare nuove fette di mercato.
3.3 FORME GIURIDICHE E IMPOSIZIONE FISCALE
Attualmente la Svizzera è ben posizionata nella concorrenza tra le
piazze economiche. Ciò lo si deve in parte ad un politica finanziaria e
fiscale ponderata che si basa sul freno all’indebitamento, sul
referendum finanziario a livello cantonale e su una concorrenza fiscale
efficace accompagnata da una perequazione finanziaria. Infatti,
qualsiasi impresa intenda trasferirsi in un qualsivoglia cantone,
disporrà dei rispettivi incentivi fiscali. Ad esempio, chi intende
trasferire la propria produzione nella regione della GGBa, disporrà ad
esempio di incentivi in merito ad attività di trading (dal 9 al 12 per
cento, senza limiti di tempo), di esenzione alle partecipazioni, di
esonero delle imposte per l’attività produttiva (fino al 100% sull’utile e
sul capitale per massimo dieci anni). Inoltre vi è la possibilità di
usufruire di ulteriori vantaggi, comprendenti la presenza di più costi
fiscalmente deducibili, che consentono di abbattere la base imponibile,
e minori imposizioni fiscali sia sulla persona fisica che sull’azienda. Il
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tutto, quindi, genera la disponibilità per l’imprenditore di maggiori cash
flow36 e di una potenziale possibilità di autofinanziamento.
Dopo aver menzionato nuovamente, i vantaggi fiscali presenti in
Svizzera, passiamo ad esaminare le varie tipologie di forme societarie.
Tali, sono molto simili a quelle italiane e si suddividono in:
• Società anonima. La società anonima (SA) è una società
che gode di una personalità giuridica propria, per le sue
obbligazioni risponde solamente con il capitale sociale. È
adatta per tutte quelle imprese orientate al profitto. Per poter
costituire una SA, i soci devono versare un capitale minimo di
almeno 100.000 franchi svizzeri, dei quali almeno 50.000
devono essere da subito liberati. Come in Italia, anche in
Svizzera, tale società può essere costituta da un unico socio e
da un Consiglio d’Amministrazione, nel quale, almeno un
membro che abbia diritto di firma, sia residente in Svizzera.
Questo tipo di società ha le stesse caratteristica di una SPA, e
quindi predilige l’anonimato degli azionisti, la responsabilità
esclusiva del capitale sociale ed un facile trasferimento delle
azioni. D’altro canto genera maggiori costi, in termini di
costituzione e procedure di esecuzione in corso, e presenta un
capitale minimo abbastanza elevato.
• Società a garanzia limitata. La SAGL è una società con
personalità giuridica propria, nella quale una o più persone si
36� Cash Flow: esigenze di cassa, infatti tramite tali agevolazioni, l’imprenditore dispone di più denaro liquido, il che comporta un notevole vantaggio economico.
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uniscono fondando una società. Ogni socio risponde al
massimo fino all’importo del suo capitale sociale iscritto. È
una tipologia di società particolarmente adatta alle piccole e
medie imprese, in quanto richiedono un capitale minimo di
soli 20.000 franchi svizzeri. Tale tipologia di società è molto
simile alla S.r.l. italiana e, come tale, consente la presenza di
un solo socio e amministratore, anche se quest’ultimo risulti
nella medesima persona. Come la SA, anche la SAGL consente
di avere un capitale sociale separato da quello personale degli
imprenditori, ma a differenza della prima, tale capitale è di
gran lunga inferiore. L’unico difetto consta nel dover
pubblicare ogni singola informazione in merito alle varie
quote.
• Società in nome collettivo. La S.n.c. è una società nella
quale due o più persone fisiche si uniscono sotto una ditta
comune con lo scopo d’intraprendere un’attività commerciale.
Tale tipo di società è adatto alle piccole imprese aventi più di
un socio e con forte riferimento alla persona-socio. Per poter
costituire una SNC devono essere presenti almeno 2 persone
fisiche e la società deve essere domiciliata in Svizzera, non
generando nessun obbligo di domicilio per i soci. In tale
società non vi è la necessità di un capitale minimo, e vista la
forte personalità, la regolazione dei rapporti è molto flessibile.
Tuttavia, la SNC comporta una responsabilità sussidiaria
illimitata e solidale da parte di ciascun socio. Inoltre, sempre a
discrezione dei cantoni, si possono o meno ottenere le
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indennità per i figli e per l’istruzione e i sussidi di
disoccupazione (solitamente non vengono concessi).
• La ditta individuale. Le ditte individuali sono imprese
senza personalità giuridica propria. Molti imprenditori alle
prime armi, che costituiscono una piccola ditta, optano
inizialmente per tale forma giuridica. È adatta per un’azienda
protesa al guadagno, in cui però, vi sia un unico titolare, e
che tale abbia un domicilio in Svizzera37. Con tale modalità è
possibile dar vita ad un’attività facile e priva di formalismi,
senza la necessita di rispettare le norme del diritto societario,
e senza la necessità di un capitale minimo. Tuttavia presenta
una responsabilità illimitata in seno al titolare, che in caso di
inadempimento risponde con il proprio patrimonio personale,
e, come già detto, non e possibile avere partner che
partecipino all’impresa. A pura discrezioni dei cantoni sono
previste o meno le indennità a favore dei figli e per
l’istruzione e i sussidi per la disoccupazione (solitamente non
vengono concessi).
Dopo aver parlato delle tipologie di società, passiamo ad esaminare
la formazione del sistema contributivo, che è molto simile a quello
italiano, infatti prevede l’assoggettamento all’Imposta sul Valore
Aggiunto. Solitamente a questo tipo di imposta sono soggetti tutti
coloro che esercitano un’attività lavorativa o commerciale
37� Con domicilio non si intende la residenza, ma solo un luogo fisico che eventualmente possa essere “pignorato”.
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indipendente. Nella maggior parte dei casi l’aliquota ammonta all’8 %,
anche se sono presenti diverse eccezioni che prevedono un’aliquota
inferiore. Tali eccezioni prevedono la presenza di un minimale di
fatturato, al di sotto del quale non si viene tassati, e la presenza di
esenzioni per determinati beni. Chi genera in Svizzera un fatturato
annuo di al massimo 100.000 franchi, è dispensato dall’obbligo
imposto dall’IVA. A prescindere da questa soglia di fatturato e
dell’ammontare dell’imposta c’è una lista d’eccezioni ed esenzioni
fiscali, abbastanza esaustiva. Un esempio per queste eccezioni sono le
prestazioni dei dottori, o i prezzi d’entrata degli zoo, o le prestazioni
delle agenzie di viaggio e la locazione di aeroplani.
Come si è potuto notare il regime fiscale in Svizzera, è uno tra i più
bassi d’Europa. In tale Paese, il sistema fiscale è modulato dalla
struttura federale. Persone fisiche e giuridiche sottostanno a tre diversi
tipi di tassazione: nazionale (imposta federale), cantonale e comunale.
La quota fiscale più rilevante viene riscossa dai cantoni e dai comuni,
comportando nel territorio un’intensa concorrenza fiscale, che ha
indotto i vari cantoni a far votare, in modo democratico, le proprie
leggi fiscali. Le aziende vengono tassate nel luogo in cui producono il
plusvalore, ovvero nel luogo della loro sede sociale oppure nel luogo
della propria attività economica. Paragonate alle imposte europee,
quelle svizzere sono a dir poco basse. Le imposte federali hanno
un'aliquota unica, mentre l'aliquota cantonale può variare a seconda
della sede e talvolta anche a seconda dell'ammontare del capitale o
dell'utile. L’imposizione fiscale sugli utili, infatti, viene calcolata al netto
delle imposte così, da essere dell'8,5 per cento, diventa del 7,83 per
cento. Ulteriori riduzioni, tramite modelli fiscali mirati all'ottimizzazione
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fiscale, rendono possibile un’ulteriore discesa, portando l'aliquota
fiscale complessiva, anche, al di sotto del 10 per cento. Le imprese
possono, altresì, beneficiare di una decisione preliminare vincolante
sull'onere fiscale effettivo. In Svizzera è, come se non bastasse, molto
bassa anche l’imposizione per le persone fisiche. L'imposta federale
varia a seconda del reddito, mentre le aliquote fiscali cantonali e
comunali variano a seconda del luogo di residenza, del reddito e del
contenuto. Tale imposizione avviene in modo progressivo, ma
nonostante tutto le aliquote più elevate sono utilizzate di rado. Per i
cosiddetti espatriati, ovvero stranieri soggetti a imposizione, in quanto
lavorano seppur temporaneamente in Svizzera, sono in vigore
particolari possibilità di deduzione fiscale, nell'ambito dell'imposta
federale diretta. Gli espatriati vengono trattati come casi singoli,
vengono cioè valutati nel procedimento normale oppure sottostanno
all'imposta alla fonte, in modo che il datore di lavoro la detragga
direttamente dallo stipendio.
3.4 CREAZIONE DI UN’IMPRESA IN SVIZZERA
Come abbiamo ben potuto notare, creare un’impresa in Svizzera è
molto vantaggioso. In questo paragrafo saranno mostrati i punti da
rispettare per potersi insediare in tale località. Ovviamente, alla base di
tutto deve essere presente l’IDEA, in altre parole l’imprenditore deve
aver in mente la sua nuova proposta commerciale. Tale idea può
essere innovativa o meno, l’importante che sia ben studiata. Infatti,
subito dopo si passa alla scelta della FORMA GIURIDICA più adatta per
il progetto che si intende attuare. Tale scelte dipende da molti fattori,
tipo il numero di partecipanti, l’anonimità, la responsabilità, il capitale
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necessario etc. Dopo di che si può COSTITUIRE la nostra impresa,
preparando tutti i documenti necessari, tra i quali l’iscrizione al registro
delle imprese. In Svizzera, per di più, tale procedura è resa molto
semplice con l’aiuto dei giuristi specializzati in consulenze per neo-
imprenditori38, tramite il quale tutta la procedura avviene on-line. Una
volta preparati i documenti, si dovrà VERSARE IL CAPITALE SOCIALE,
variabile in base al tipo di forma giuridica prescelta. Tra l’atro, se
l’impresa che si intende creare assume la forma di SA o di SAGL, tale
versamento deve essere effettuato presso una banca svizzera, che
confermerà l’avvenuto. Dopo aver ricevuto tutti i certificati, i neo-
imprenditori, dovranno provvedere all’AUTENTICAZIONE di tali atti
presso un notaio, che provvederà a spedire tutti i documenti presso
l’ufficio competente, effettuando l’iscrizione alla Camera di Commercio
cantonale. Dopo il controllo effettuato da tale ente, il neo-imprenditore
riceverà un documento di costituzione autenticato, che gli permetterà
di usufruire dei propri capitali.
Dopo aver visto un quadro completo, che è molto simile al
sistema italiano, esaminiamo un caso pratico, la costituzione di
un’impresa nel GGBa. Infatti, come già detto in precedenza, essendo
composta da cantoni la creazione di un’impresa varia da cantone a
cantone. Per quanto riguarda il Distretto di Ginevra e Berna, oltre ai
punti suddetti, vi è la presenza di ulteriori requisiti da rispettare.
38� Sono società di consulenza che permettono a tutti coloro che volessero insediare la propria attività in Svizzera, di facilitare le procedure. Una delle, ormai numerose, società esperte in consulenza per gli imprenditori provenienti dall’estero è la Startup.ch. Tale azienda ha da sempre avuto notevoli contatti col mercato italiano.
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• Ammissibilità. La libertà di commercio e dell'industria è garantita
dalla Confederazione. Chiunque, compresi i cittadini stranieri,
possono costituire un business in Svizzera. Tuttavia, alcune
attività, tipo alberghi, operatori sanitari, banche, istituti finanziari
etc. necessitano di un'autorizzazione particolare. Nonostante
ciò, grazie ad una presenza relativamente bassa di
regolamentazione, un imprenditore ha a disposizione molte
opzioni, per poter aggirare tali limiti.
• Struttura giuridica. In Svizzera, oltre alle tipologie classiche
come SA, SAGL, è stato reso possibile dal “Codice delle
Obbligazioni” la creazione di filiali con le forme di Società in
Nome Collettivo, Società Semplice, Joint Venture, e sempre più
spesso, la forma del Franchising. Tali forme consentono a chi
non ha a disposizione i fondi necessari per poter costituire una
SA o una SAGL di poter effettuare comunque l’investimento,
senza l’obbligatorietà di un capitale minimo.
• Disponibilità del naming. Come in tutti i Paesi, anche in Svizzera,
è obbligatorio che il nome di una impresa sia unico. Per far ciò il
GGBa, ha messo a disposizione un sito internet, tramite il quale è
possibile controllare che il proprio nome non venga utilizzato da
altre imprese. In tale località, come in Italia, ogni impresa
accanto al suo nome sociale deve mostrare la struttura giuridica
scelta.
• Amministratori e rappresentanti. Nel momento in cui si dà
origine ad una società, la legge cantonale svizzera non fa
differenze tra stranieri e residenti. Tuttavia, per la sicurezza dei
rapporti, obbliga ogni società ad avere un membro, facente parte
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dell’organo esecutivo o direzionale, di nazionalità svizzera o per
lo meno con la residenza in tale Paese.
• Costi effettivi. Per quanto riguarda le spese, inerenti la
fondazione di un’impresa in Svizzera, si può da subito notare che
a livello fiscale, tali procedure hanno un costo inferiore, rispetto
al caso italiano. Nel Distretto di Berna-Ginevra, i costi da
corrispondere per l’apertura di una new-co variano tra i 3.000 e i
5.000 franchi svizzeri, a seconda della struttura della società e
delle richieste fatte ai professionisti.
Per capire ancor meglio come avviene la delocalizzazione in
Svizzera, si è preso come riferimento un’intervista posta al Dott.
Lorenzo Bessone, rappresentante italiano per la promozione della
GGBa39. Il compito è quello di affiancare a titolo gratuito le imprese in
modo da sostenerle affinché avviino una propria attività nei sei
cantoni della Svizzera Occidentale. “In quest’area, ai benefici offerti dal
sistema-Paese svizzero si sommano quelli offerti dalla nostra struttura,
un vero e proprio sportello unico che affianca l’imprenditore in tutte le
sue necessità. - continua il signor Bessone - Questo Sportello Unico, è
gestito da Project Director del Cantone che parla la lingua italiana ed è
lo specialista della Promozione Economica, incaricato di assistere
gratuitamente le imprese ad avviare la loro attività nella Svizzera
Occidentale”. Il signor Bessone inoltre ci mostra le agevolazioni che
tale trasferimento comporta, dicendoci che “Le agevolazioni dipendono
dall’attività realizzata. In genere possiamo distinguere le attività di
39� Articolo di “Fare business all’estero” del 07 dicembre 2010.
Dott. Pugliese Nicola
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commercio e distribuzione, realizzate per la maggior parte all’esterno
del territorio Svizzero, per le quali viene offerta un’aliquota compresa
tra il 9 ed il 12% senza limiti di tempo. Per quanto riguarda i redditi
derivanti da partecipazioni, vi è una esenzione senza alcun limite di
tempo. Se, invece si tratta, di attività di produzione e servizi legati
all’industrie, che non portino concorrenza in determinate aree
territoriali e con una ventina di persone impiegate sul piano produttivo,
le imposte sono pari allo 0 per cento, durante i primi 10 anni”.
Dott. Pugliese Nicola
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CONCLUSIONE
Il percorso evolutivo del processo di delocalizzazione presentato
in tale testo evidenzia una serie di risultati, studi e fatti empirici, i quali
dimostrano che la delocalizzazione si è “complicata” nelle modalità di
espressione, nelle cause di determinazione del fenomeno e nella
numerosità dei soggetti coinvolti.
E’ sempre più rilevante il numero di aziende italiane che hanno
spostato nei mercati emergenti, come Asia, Europa dell’Est, la
produzione. Il Governo critica queste scelte ma non fa nulla per
favorire l’unico fenomeno che, in una situazione di libero mercato,
potrebbe compensare tale avvenimento, ovvero l’investimento di
capitali esteri nel nostro Paese.
Un tempo si puntava alla delocalizzazione per conseguire
vantaggi di costo. Oggi, questo fenomeno è agevolato, in quanto,
l’impresa ha la possibilità di poter trasferire la propria attività
produttiva all’estero facendo uso di modalità meno complesse in
termini di costo/organizzazione. La quota di mercato delle imprese
delocalizzate è in crescita, ma questo non rappresenta il punto d’arrivo
del processo, bensì una conseguenza. Lo studio ha evidenziato che
i territori scelti dalle imprese riguardano tutto il pianeta, non
solamente le aree sottosviluppate o le economie deboli. Ciò è stato
reso possibile, in quanto le imprese, oggi, non sono solo alla ricerca di
vantaggi relativi ai costi della manodopera, ma sono spinti
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all’acquisizione di nuove frontiere transazionali, riguardanti il mercato
internazionale.
Come si è potuto scorgere dal testo, gli effetti che la
delocalizzazione provoca sono al quanto positivi, specie per il Paese
ospitante. La delocalizzazione, però, non è fattibile per tutti, infatti,
presuppone la presenza di un’organizzazione a monte molto
complessa ed elastica. Ad esempio, il sig. Michele Tesse, contitolare
dell’azienda “Special Marmi SNC”, specializzati nella lavorazione del
marmo, ha presentato il suo caso mostrandoci la difficoltà insita in tale
fenomeno. L’impresa, appena citata, ha tentato più volte di trasferire
la sua produzione all’estero, tramite la modalità della Sub-
contrattazione, ma, essendo il marmo molto delicato, ed essendo la
qualità del prodotto finito molto bassa, è stata costretta a non
esternalizzare più la sua produzione, o almeno a non farlo più
all’estero. Il sig. Michele Tesse, ha mostrato il loro ultimo caso:
“avevamo deciso di produrre applique in marmo che necessitano di
una certo tipo di lavorazione, e nonostante la nostra ostinazione su
tale punto, il carico fu prodotto con tutt’altro schema lavorativo, tant’è
che lungo il viaggio tutto il carico andò perso, giacché, non avendo
rispettato le nostre richieste sulla modalità di lavorazione, la merce
giunse completamente frantumata”.
Tra l’altro i nostri imprenditori, almeno i micro-piccoli, non sono
entusiasti di tale fenomeno che li costringe ad attuare prezzi sempre
più inferiori. Infatti tramite un blog presente su “ICR”, siamo riusciti ad
apprendere i pareri di alcuni impresari, che lamentandosi di tale
fenomeno hanno offerto suggerimenti per il nostro Governo. Questi
ultimi, sono concentrati sul tema FISCO. Infatti i vari imprenditori, da
Dott. Pugliese Nicola
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quanto si è potuto scorgere dal blog, chiedono sostanzialmente una
detassazione sia per loro stessi che per i propri dipendenti.
Effettuando un’analisi di lungo periodo si nota come gli
imprenditori, trasferendo la propria produzione all’estero, provochino
una diminuzione di offerta-lavoro. Così facendo “sparisce” moneta
dalla circolazione, il che comporta una calo delle vendite nel nostro
Paese. A tal punto ci si comincia a chiedere, fino a che punto il
vantaggio delocalizzativo, per i Paesi delocalizzatori, rimane tale?
Attualmente, parlando con gli imprenditori che ci hanno fornito i
propri casi, si è notato che in Paesi come Cina, Albania, Romania si è
cominciata a trattare la questione dei salari, comportandone un
aumento. Ciò è dovuto sostanzialmente alla crescita dell’istruzione e
della comunicazione con i Paesi più sviluppati, ed anche alla presenza
di sempre più moneta in circolazione. Ovviamente, i nostri
imprenditori, riescono tuttora ad ottenere vantaggi economici da
questi Paesi, ma nel momento in cui tale beneficio non sarà più
possibile non si porrà fine a tale evento, ma si andrà alla ricerca di
nuovi mercati in cui accedere.
Irlanda, Spagna, Gran Bretagna hanno fatto degli investimenti in
attività ad alto valore aggiunto il centro della loro politica industriale,
attirando investimenti stranieri invece di respingerli. L’Italia deve fare
altrettanto. Se così fosse la delocalizzazione sarebbe meno
conveniente e verrebbe comunque compensata dall’entrata di nuove
iniziative.
Dott. Pugliese Nicola
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RINGRAZIAMENTI
In vista dell’elaborazione del testo antistante, mi preme ringraziare:
• Dott. Lorenzo Bessone, intermediario freelance per la GGBa, per
la continua disponibilità mostratami nel corso dell’elaborazione e
per la fornitura dei documenti trattati nel corso del capitolo
inerente il caso svizzero.
• Sig. Giuseppe Cascione, contitolare dell’azienda Adora SRL, che
con la propria esperienza personale, mi ha concesso la possibilità
di poter perfezionare il paragrafo inerente il caso albanese.
• Sig. Michele Tesse, e famiglia, titolari dell’azienda Special Marmi
SNC, che tramite la propria esperienza in tale ambito, mi ha
permesso di ultimare l’elaborazione del testo in esame.