Moda E Fuori Moda Cap Iii

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Testi di Massimo Antonucci MODA E FUORIMODA Sistema moda e subculture giovanili

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Questo terzo capitolo di moda-fuorimoda parla della scena inglese degli anni 60.

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Testi di Massimo Antonucci

MODA E FUORIMODA

Sistema moda e subculture giovanili

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La scena inglese negli anni 60 Passando alla scena europea, possiamo cominciare dicendo che solo all'inizio degli anni'60 l'Inghilterra riuscirà a strappare all'America il primato del cambiamento culturale. Durante gli anni'50, infatti, sarà impegnata nell'opera di ricostruzione, dopo i disastri della seconda guerra mondiale. Come osserva Gino Castaldo nel suo saggio La terra promessa :

Dal conflitto mondiale America e Inghilterra uscirono in modo diametralmente opposto. L'America ne uscì non solo trionfante, ma anche come la nazione che aveva pagato il minor prezzo. Il suo territorio era intatto, l'economia prospera, pronta a evolversi verso la supremazia mondiale, creando un benessere interno mai verificatosi prima. Al contrario l'Inghilterra, sebbene fosse una delle potenze vittoriose, emerse dalla guerra con ferite profonde, con le risorse allo stremo, con le città in rovina e l'ovvia esigenza di puntare alla ricostruzione. L'Inghilterra ci ha messo più tempo a recuperare la sua antica funzione di egemonia imperialista che, come vedremo, si svolgerà soprattutto in campo culturale. Anzi, il declino dell'Impero britannico procede parallelamente alla nascita dell'impero culturale.

Nel saggio La Londra dei Beatles di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo leggiamo:

Il 15 aprile 1966 la rivista americana Time usciva con una copertina intitolata a <<London: the Swinging City>>. Londra, spiegava il servizio nell'interno, era in quel momento tra le città europee la più impetuosamente sospinta dal pendolo della storia verso il futuro. <<To swing>> vale altalenare, muoversi secondo un moto pendolare, che contempla un'andata e un ritorno: e ciò verso cui spingeva il pendolo di Londra era un nuovo stile di

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vita, di cui prima di tutto la città in se stessa sembrava offrire la realizzazione e la promessa.

Da qualche tempo Londra aveva iniziato ad esportare i suoi prodotti culturali in America, facendo parlare di "british invasion":

Nel 1964 si era verificata una specie di nuova conquista dell'America... Era stato quello, infatti, l'anno del primo trionfale viaggio dei Beatles, di Mary Quant, dei Rolling Stones, al di là dell'Oceano. Sfilate, concerti, apparizioni televisive, avevano totalizzato milioni di telespettatori, battuto ogni record di popolarità. La terra del cinema doveva essere ben sazia di immagini di celluloide...se ora così entusiasticamente apriva i propri sconfinati mercati ai suoni e ai colori dell'antica madrepatria.

Ritornando alla parola swinging le autrici del saggio sopra citato approfondiscono l'analisi delle diverse connotazioni legate a questo termine:

Ma ora torniamo indietro, all'espressione <<swinging>>, già usata nel Seicento dal drammaturgo Thomas Otway, e proprio nel senso che ora viene ripreso dal servizio di Time a indicare cioè coloro che, non riconoscendo le barriere della morale convenzionale, si gettano di slancio, swinging, al di là di quelle stesse barriere, in rivolta contro una maggioranza silenziosa che rinnega la gioia di vivere. Swing era anche stata chiamata quella musica da ballo americana, di derivazione jazzistica, dunque con l'Africa dentro, al cui ritmo frenetico, esplosivo, disperato, gli alleati avevano ballato, magari in un rifugio antiareo la sera precedente una qualche operazione bellica decisiva....Sicché ora, la vistosa copertina di Time, e poi nell'interno il testo, con tutte le fotografie e le immagini che sembrano voler costruire nei dettagli i luoghi deputati del nuovo mito, le stazioni del nuovo

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pellegrinaggio ideale, troviamo un terreno già preparato, quando puntano proprio su quella parola , <<swinging>>, per far precipitare in essa tutto il complesso di sensazioni, tutta l'atmosfera, tutta la Stimmung che vogliono al tempo stesso evidenziare e far emergere, quasi creandola ex novo. La trovata veramente geniale del servizio, infatti, fu tutta in quella parola, che subito si impose, aderendo al suo tema come un'etichetta.

Swinging, il movimento pendolare con una andata e un ritorno, può essere una utile metafora per inquadrare, facendo un passo indietro, il fenomeno dell'importazione massiccia in Inghilterra dei prodotti culturali provenienti dagli Stati Uniti, durante gli anni'50. La "british invasion" degli anni'60, in altri termini, è stata preceduta da un fenomeno altrettanto forte, ma di segno contrario, durante il decennio precedente, quando gli Stati Uniti erano al centro della scena culturale. Tra i tanti prodotti d'importazione, però, solo pochi trovano il terreno adatto per affermarsi. In Sottocultura di Dick Hebdige leggiamo:

... solo la sottocultura beat, prodotto di un allineamento in un certo modo romantico con i negri, sarebbe sopravvissuta nel passaggio dall'America all'Inghilterra negli anni Cinquanta. Senza una significativa presenza nera nelle comunità della working class inglese, l'equivalente scelta hipster non fu semplicemente possibile. L'influsso degli immigrati indo-occidentali era solo appena cominciato e, quando alla fine la loro influenza sulle sottoculture della working class inglese fu sentita all'inizio degli anni'60, in genere si articolò in forme e tramite forme specificatamente caraibiche (ska, bluebeat, ecc.). Nel frattempo era avvenuta un'altra convergenza, più spettacolare, al di fuori dell'ambito del jazz, nel rock...La musica era stata tolta dal proprio contesto originale in cui le implicazioni

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dell'equazione potenzialmente esplosiva "negro" uguale "giovane" era stata pienamente riconosciuta dalla cultura della generazione immediatamente precedente e trapiantata in Inghilterra dove servì da nucleo per lo stile teddy boy. Si poteva sentire nei nuovi coffee bar inglesi dove, benché filtrato da un'atmosfera distintamente inglese di latte bollito e altri intrugli, rimase chiaramente estraneo e futuristico, barocco come il juke box che lo esprimeva. E, allo stesso modo degli altri prodotti sacri - il ciuffo, il cappotto corto, il Brylcreem e il "cinema" - venne a significare l'America, un continente fantastico fatto di cow boy e di gangster, di lusso, di eleganza e di "automobili".

Nella sottocultura teddy boy, però, intervenne una sorta di rimozione delle origini della musica rock, nata come contaminazione di forme musicali bianche e nere (basti citare come esempio le vibrazioni nel cantato), diventando ai loro occhi solo una dalle tante novità americane d'importazione insieme al jazz, all'hula hoop, al motore a combustione interna e ai pop corn. Questa rimozione dell'anima nera del rock fece sì che i teddy boy non percepirono alcuna contraddizione tra l'ascolto di questa musica e la matrice xenofoba della loro cultura. A questo proposito Hebdige afferma:

Con l'eruzione sulla scena inglese alla fine degli Anni Cinquanta, il rock sembrò frutto di una germinazione spontanea, ovvia espressione immediata delle energie giovanili. E quando i teddy boy, ben lontani dall'accogliere a braccia aperte gli immigrati di colore da poco arrivati, cominciarono attivamente a prendere le armi contro di loro, erano impermeabili a qualsiasi senso di contraddizione.

Questa vena xenofoba dei teddy boys fu un elemento determinante nel differenziarli dalla sottocultura beatnik che ostentava un'aria cosmopolita e tollerante.

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Gli stili erano incompatibili, e, quando venne fuori il "trad" jazz come punto focale di una sottocultura inglese più importante alla fine degli Anni Cinquanta, queste differenze furono evidenziate in maniera ancora più dura. Il trad jazz contava su un ambiente di rozzi bevitori di birra, che era in contrasto con le qualità del primo rock'n roll, angolose, nervose, spigolose da un lato, e l'estetica spudoratamente artificiale dei teddy boy dall'altro - una combinazione aggressiva di esotismo vestimentario (scarpe di pelle scamosciata, baveri di velluto e di pelliccia, cravatte di cordino) - viveva in un duro contrasto con il miscuglio "naturale" dei beatnik fatto di montgomery, di sandali e di CND (Campaign for the Nuclear Disarm).

I primi anni'60 vedono nascere, insieme alla formazione di comunità di immigrati che si stabiliscono nelle zone working class dell'Inghilterra, la nuova sottocultura dei mods.

Come lo hipster americano... il mod era un "tipico dandy della classe inferiore", maniaco dei piccoli dettagli degli abiti, caratterizzato come i meticolosi avvocati newyorkesi di Tom

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Wolfe, dalla forma del colletto della camicia, di una precisione esatta come gli spacchi delle sue giacche fatte su misura; dalla forma delle sue scarpe fatte a mano A differenza dei teddy boy, importuni in maniera provocatoria, i mod erano più sottili e più sottomessi in apparenza: indossavano vestiti apparentemente conservatori in colori rispettabili, erano meticolosamente lindi e in ordine. I capelli erano generalmente corti e puliti e i mod preferivano conservare il profilo elegante di un impeccabile "taglio alla francese" con una lacca invisibile piuttosto che con la banale brillantina preferita dai rocker più apertamente maschili. I mod inventarono uno stile che permetteva loro di conciliare scuola, lavoro e tempo libero e che nascondeva tanto quanto dichiarava. Interrompendo tranquillamente la normale sequenza che porta dal significante al significato, i mod minavano il significato di "colletto, vestito e cravatta" spingendo l'accuratezza del vestire fino all'assurdo.

I mods vivono una doppia vita: da una parte il lavoro o la scuola, dall'altra un mondo underground, letteralmente al di sotto del mondo normale, fatto di cantine, discoteche,

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boutique e negozi di dischi. Una parte di questa "identità segreta" è costituita dalle affinità con la cultura nera:

Il mod della Soho hard core del 1964, impenetrabile dietro i suoi occhiali scuri e il cappello a tesa piccola si degnava solo di muovere i passi (i piedi rivestiti di scarpe di tela da giocatore di pallacanestro o di Raoul originali) ai soul di importazione più esoterici: (I'm the) Enterteiner di Tony Clarke, Papa's got a Brand New Bag di James Brown, (I'm in with) The Crowd di Dobie Gray, oppure ska giamaicano, Madness di Prince Buster. Bloccati in maniera più fissa rispetto ai teddy boy e ai rocker in una grande varietà di impieghi che imponevano loro obblighi molto rigidi tanto su come dovevano presentarsi, vestirsi e sul loro "comportamento generale", quanto sul loro tempo, i mod davano un'importanza altrettanto grande al fine settimana...Durante questi periodi di tempo libero (faticosamente prolungati, in alcuni casi, grazie alle anfetamine) c'era da fare un vero "lavoro": lucidare i motoscooter, comprare i dischi, far stirare, restringere o andare a riprendere i pantaloni alle lavanderie, lavare e asciugare i capelli...

In questo nuovo stile di vita, che guarda alla cultura nera come potenziale elemento sovversivo dell'ordine dei valori costituito, si stabiliscono priorità diverse dalla norma: il lavoro è insignificante; vanità e arroganza sono qualità ammesse e desiderabili. Nel famoso articolo pubblicato su Time il 15 aprile del1966 "London: a swinging city", così Piri Halasz fotografa la scena londinese: “Questa primavera, a Londra, l'antica eleganza si intreccia alla nuova opulenza, in un'abbagliante miscela di op e di pop.” "Op" sta per optical, lo stile geometrico "ottico" che predilige il bianco e nero, o le marcature nette tra colore e

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colore, e che arriva ad imporsi, in quegli anni, nei vari ambiti del design, dall'abbigliamento all'architettura. "Pop", invece, sta per "popular", "popolare", una parola con la quale si vuole indicare la cultura popolare nel suo complesso e, quindi, i fumetti, la moda, la musica, l'arte. "Pop", così, non è tanto una particolare forma espressiva quanto uno stile di vita, un'idea del mondo: <<Noi vogliamo vestiti pop art, musica pop art e atteggiamenti pop art. Noi siamo pop art>>, aveva appena finito di dichiarare Pete Townshend, del gruppo degli Who. Di "pop" in Inghilterra s'inizia a parlare, però, ben prima del 1966. Nel collage Sono stata il giocattolo di un uomo ricco del 1947 di Eduardo Paolozzi, artista di origine italiana operante a Londra, la parola "POP" viene sputata fuori da una pistola puntata contro una pin-up sorridente. Nello stesso collage, in un angolo, compare la mitica bottiglia di Coca Cola con accanto lo slogan: "Servite la Coca Cola nell'intimità della casa!"; nell'angolo opposto, troviamo la figura di un aereo da guerra, con tanto di motto bellico "Fateli continuare a volare!".

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Si può intuire, osservando il collage, la fascinazione di Paolozzi per le immagini dell'abbondanza, provenienti dagli Stati Uniti; ben comprensibile, d'altra parte, nel momento in cui l'Inghilterra soffre pesantemente delle conseguenze del conflitto mondiale. Che quella di Paolozzi, però, non sia solo una fascinazione effimera risulta presto evidente: l'artista formerà, insieme a pittori, architetti, musicisti e critici d'arte un formidabile laboratorio di sperimentazione, denominato "Indipendent Group", in cui verranno esplorate le potenzialità dei nuovi media e delle nuove tecnologie dell'immagine made in U.S.A. . Il lavoro dell' Indipendent Group trova piena espressione nella mostra del 1956, intitolata This is tomorrow, all'interno della quale si propone una diversa sensibilità spaziale, modi dell'abitare e del vivere più liberi e più creativi.

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Tra il 1947 e il 1956 le connotazioni legate alla parola "pop" cambiano radicalmente: nel collage di Paolozzi il termine "pop" evoca, associato allo sparo di una pistola, una qualche minaccia incombente; nella mostra dell'Indipendent Group, invece, sembra che la cultura di massa, la moltiplicazione industriale degli oggetti, costituisca, anziché un pericolo, una straordinaria opportunità. A questo proposito, riprendiamo un passo del saggio, già citato, La londra dei Beatles :

Già nel '56 molte cose erano cambiate. La dura, ancorché ubertosa, America post-bellica ora transitava attraverso l' Europa, attraverso l'isola di Gran Bretagna, con ben altri prodotti, e altri umori: con Herthbreak Hotel di Elvis Presley, per esempio, che arrivò proprio quell'anno, e catturò, fra i tanti, il cuore sedicenne di John Lennon... E intorno al '56 anche l'Inghilterra aveva spostato la sua immagine dell'America. Aveva, potremmo dire, assorbito l'America, avendone fatto un proprio tema di lavoro. C'era quel gruppetto di intellettuali indipendenti, un pò sordi alla propaganda contro la massificazione, contro l'antiumanesimo che sarebbe implicito nell'idea di cultura di massa...C'erano le prime boutique di Mary Quant a Chelsea, di Vince a Carnaby Street. C'era già insomma chi si era immaginato che dalla moltiplicazione degli oggetti capaci di dar piacere giorno per giorno, ora per ora, potesse derivare non sottomissione e morte, nemmeno per gioco pubblicitario, ma libertà. L'utopia degli anni '60, l'utopia della liberazione pacifica attraverso i consumi, cominciava a prendere forma.

Intorno alla metà degli anni'50, quindi, emerge in Inghilterra una cultura "pop" che crede nel potenziale liberatorio della cultura e della produzione di massa; una cultura che vede, nell'affermarsi della società di massa,

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un'opportunità per la realizzazione di una vita quotidiana più libera e di una società meno classista:

Si sognava una vita meno opprimente, una domesticità meno spoglia di comfort: spazi meglio attrezzati, più agio nei movimenti, nessuno che ti dica dove bere la Coca Cola, orari fluidi, gioco e lavoro fusi insieme. Un modo di vestire che comunicasse immediatamente una critica all'idea tradizionale di moda come privilegio di classe. La classe d'appartenenza, anzi, non interessa più nessuno, dato che il tipo di società che si vuole costruire è rigorosamente aclassista. <<Classless>> è una parola che si incontra a ogni piè sospinto, e nei settori più disparati... Certo, c'era un pizzico d'utopia nell'immaginare che lo sparo di una pistola potesse trasformarsi in maniera così indolore nello spontaneo scoppio di allegria di chi crede di star fabbricando il proprio futuro. <<Il domani è gia qui>>, dicono gli Indipendenti, ma la loro è tutta una storia anni '50, e comunque solo una faccia della medaglia. Perché linee, suoni, colori, forme di eleganza, continueranno ad avere un loro valore di status symbol, è evidente. Tuttavia gli abiti di Mary Quant, i dischi dei Beatles, il taglio dei capelli alla Vidal Sassoon, il progetto di Casa del Futuro elaborato dai due fratelli Smithson, architetti, il programma di Londra come <<città vivente>>...: tutto questo fervore di scoperta e di cambiamento, pur disseminato in tanti frammenti materiali - in parte realizzazioni compiute in parte progetti - se è segnale d'appartenenza, simbolo di stato, non lo è per la ricchezza materiale che vi è investita, ma per la potenzialità d'immagine che rimanda. Ciascuno di quei differenti <<oggetti>> non vale in sé, ma per lo stile di vita cui allude, per le situazioni che ingloba, e di cui è pegno. Per il sapere della vita che presuppone, per le informazioni che comunica.

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Ritorniamo per un attimo all'intervista a Pete Townshned degli Who del 1965 rilasciata al Melody Maker .

L'arte pop consiste nel ri-presentare qualcosa con cui il pubblico abbia già familiarità...Noi siamo per i vestiti pop-art, per la musica pop-art e il comportamento pop-art. Questo è quello che tutti sembrano dimenticare: noi non ci cambiamo, fuori dal palcoscenico. Noi viviamo pop-art.

A giudizio di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo le parole di Pete Townshend costituiscono una testimonianza del tipico fraintendimento di quegli anni:

E' tutto in questa sorta di adamantina semplicità, di assolutezza, il fraintendimento, e proficuo fraintendimento, di quegli anni: nell'utopia di poter schiacciare l'uno sull'altro i due piani dell'illusione e della realtà, fino a farli coincidere perfettamente, senza sfrangiature né sbavature. Musica, vestiti, comportamento: campi disparati, categorie non omogenee, vengono dunque dati per comunicanti, e capaci di influenzarsi l'uno con l'altro. Ma non è un semplice amore della confusione... ad autorizzare e

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incrementare questa interna traducibilità..: se tutto - musica, vestiti, pose, comportamenti - è ripresentazione del già visto e conosciuto, tutto è già per definizione grafismo, immagine. E' al livello dell'immagine, dunque, che quelle categorie disomogenee...si rapportano tra loro, e trovano il punto di comunicazione che non potrebbero avere in <<natura>>. Sempre e comunque su un'immagine verte ogni discorso, ogni analisi: il primo livello, ingenuo, è sempre già saltato. Allora, perché affannarsi a voler separare a tutti i costi il <<reale>> dalla <<posa>>?

Una cultura che celebra la riproducibilità tecnica degli oggetti e delle immagini vive costantemente in una sorta di deja vu. Dal punto di vista degli artisti questo effetto è ricercato coscientemente - è il <<... ri-presentare qualcosa con cui il pubblico abbia già familiarità>> di cui parla Townshned - e porta, ad esempio, all'uso così frequente in quegli anni del collage, tecnica che consiste fondamentalmente nel montaggio di immagini preesistenti. A proposito della circolazione e della ri-presentazione delle immagini nella cultura pop, è significativa la testimonianza di Richard Smith:

<<I mezzi di comunicazione rappresentano una parte considerevole del mio paesaggio>> scriverà Richard Smith nella Nota aggiuntiva al suo film Trailer . Dove quello che stupisce è l'uso di quella parola, <<landscape>>, da parte di un artista come lui, non interessato al dato naturale in quanto tale: così dice <<la frutta della bancarella del mercato è per me sempre già la frutta fotografata di un'immagine pubblicitaria>>.

Si attua, così, una sorta di rovesciamento, dove è l'immagine riproducibile e riprodotta ad essere il dato su cui poggia la percezione del reale:

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Quando si guardano le cose nell'esperienza reale, sostiene Smith, si intromette inevitabilmente per l'occhio un elemento di disturbo - luce, solidità, riflessi - già solo per il fatto che quelle cose sono immerse nell'atmosfera, e reagiscono ad essa. Invece nella fotografia si ha a che fare con un'immagine depurata, dalla texture uniforme, perché sottratta ai cambiamenti di luce. Perciò, continua, anche i riferimenti a paesaggi che compaiono nei primi suoi dipinti, vanno intesi come passati attraverso il filtro di paesaggi fotografati.

Il repertorio delle immagini cui l'artista fa riferimento per le sue creazioni non è, quindi, certamente quello della realtà così come è immediatamente percepibile, ma sempre quello delle immagini filtrate e riprodotte dalle nuove tecnologie.

La possibilità che queste tecniche gli aprono di usare colori off register - <<il verde pallido insieme al giallo pallido, che produce un effetto di fresco, di "frescomenta">> - o di proiettare lettere e immagini anamorficamente... <<produce l'effetto di riportare in primo piano...il valore della superficie>>.

La sperimentazione di Smith conoscerà importanti sviluppi in ambiti come la moda e la pubblicità: si pensi ai colori acidi dei vestiti di Mary Quant, o dei cartelloni pubblicitari.

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Generalmente Mary Quant viene ricordata per l'invenzione della minigonna, anche se alcuni ridimensionano il suo ruolo in questa piccola rivoluzione del costume, affermando che l' unico merito che le va attribuito consiste nell'aver lanciato una moda che, però, di fatto era già in uso nelle strade di Londra. Nel saggioMass moda di Patrizia Calefato, ad esempio, si legge:

Quando Mary Quant, dal suo atelier londinese di King's Road, ebbe nei primi anni'60 la geniale idea di lanciare su larga scala l'uso di una gonna corta diversi centimetri sopra il ginocchio, già da un pò di tempo le ragazze della Swinging London l'avevano spontaneamente inventata e la esibivano nella loro "moda di strada" quotidiana.

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Inizia, infatti, in questi anni una nuova fase del sistema-moda: finisce il dirigismo centralistico dell'Alta Moda e si procede verso una moda aperta e policentrica, dove gli input del cambiamento possono essere di varia provenienza. Si arriva spesso ad un vero e proprio capovolgimento, come nel caso appena citato della minigonna, quando coloro che dovrebbero essere il terminale delle proposte di moda si fanno protagoniste del cambiamento, lanciando nuove proposte di stile. La stessa Mary Quant, d'altra parte, mostra di essere consapevole dell'importanza del momento culturale negli sviluppi del proprio lavoro, quando nella sua autobiografia Quant by Quant scrive:

Ci trovavamo all'inizio di un formidabile rinascimento della moda. E questo non accadeva per causa nostra. Semplicemente, come poi risultò, noi ne eravamo parte.

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La giovane stilista, in effetti, si trova a vivere da protagonista un momento di grande importanza nella storia del costume: il passaggio dall'Haute Couture al pret-à-porter, dal concetto di fashion a quello di look. Il pret-a-porter nasce intorno agli anni'50, ma arriva a piena maturazione solo negli anni '60. Lipovetsky in L'impero dell'effimero così ricostruisce l'avvento del pret-à-porter:

Nel 1949 J.C. Weill lancia in Francia l'espressione calco della forma americana ready to wear, al fine di liberare la confezione di serie dalla immagine pubblica negativa che aveva fino a quel momento. A differenza della confezione di serie tradizionale, il pret-à-porter si è impegnato nella direzione di produrre industrialmente capi di vestiario accessibili a tutti ma tuttavia di <<moda>>, ispirati alle ultime tendenze. Mentre un tempo gli abiti confezionati erano mal tagliati, mal rifiniti, di poca fantasia e scarsa qualità, il pret-à-porter vuole unificare industria e moda, vuol diffondere per le strade novità, stile e gusto del bello. (...) Il 1957 è l'anno del primo Salone del pret-à-porter femminile (...) Ma fino alla fine degli anni Cinquanta il pret-à-porter non crea una sua estetica e ripropone la logica precedente, l'imitazione giudiziosa delle nuove forme della Haute Couture. E' a partire dai primi anni '60 che approda alla sua vera ragion d'essere, elaborando abiti improntati più a criteri d'audacia, giovinezza e novità che non alla perfezione <<classica>>. Si afferma una nuova ondata di creatori che non appartengono alla Haute Couture. Nel 1959 Daniel Hechter lancia lo stile Babette e il cappotto di tipo talare; nel 1960 Cacharel reinventa lo chemisier da donna...A Londra nel 1963 Mary Quant crea il Ginger Group, origine della minigonna...

Il pret-a-porter rappresenta una rottura radicale, perché la confezione di serie con alto contenuto stilistico riduce nettamente il senso di esclusività, così legato all'Alta Moda.

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Come racconta Mary Quant nella sua autobiografia datata 1965:

Un tempo l'abito era un segno inequivocabile della posizione sociale e della fascia di reddito di una donna. Oggi non è più così. Lo snobismo è passato di moda, e nei nostri negozi le duchesse lottano gomito a gomito con le dattilografe per comprarsi gli stessi abiti.

E' l'inizio di una moda "classless", o se si preferisce di un processo di “democratizzazione” della moda. Negli anni '60, quindi, i cambiamenti sia a livello degli apparati di produzione sia del senso estetico determinano un processo di trasformazione all'interno del sistema, che vede l'affermarsi del concetto di look. A questo proposito leggiamo alcuni considerazioni tratte dal saggio La Londra dei Beatles di Colaiacomo-Caratozzolo:

Ci si libera dell'illusione del modello <<esclusivo>>, o magari della sua libera interpretazione e riproduzione, e si giura fedeltà a un design, o meglio a un look. E' <<look>> quella astrazione figurativa che si interpone, come un filtro o una mediazione, tra l'abito preso nella sua singolarità e concretezza individuale, e lo stile cui l'abito stesso fa riferimento, il suo contenuto tematico: che può essere indifferentemente rétro o folk, oppure astratto, geometrico, <<ottico>>. Tant'è vero che per alcuni anni tutte queste immagini convissero, e si mescolarono e ibridarono felicemente fra di loro. Ci si riconosceva come hip, o <<with it>> - così si diceva - a prima vista, perché l'abito lo segnalava: segnalava, a quanti avevano occhi per vederlo, che chi indossava quell'abito si era calato nel look. Ossia si era accettato in quanto <<looked at>>: guardato - in primo luogo da se stesso -

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all'interno di un determinato sistema figurativo. Ma poteva bastare un particolare veramente minimo - una sciarpa, una spilla - a dare l'indicazione: a fare folk, o hippie, o op, o pop. Non c'era bisogno del completino.

Le autrici contrappongono il concetto di look a quello di fashion, dove per fashion s'intende quella forma di rigido dirigismo dell'apparato produttivo che impone l'integrale osservanza delle mode dell'anno e di quelle stagionali. Il look come immagine della persona e forma di teatralizzazione dell'identità arriverà, però, a piena maturazione solo negli anni'80. Lipovetsky a questo proposito osserva:

E' la fine dell'era del consenso nel modo di mostrarsi... La dispersione multiforme del nuovo sistema della moda vive in sintonia con l'open society che istituisce un pò dappertutto il regno delle formule personalizzate, dei regolamenti flessibili, dell'iperscelta e del self service generalizzato. L'imperativo <<dirigista>> delle tendenze stagionali è stato sostituito dalla sovrapposizione degli stili, il meccanismo ingiuntivo e uniforme della moda dei cent'anni ha ceduto il passo a una logica ludica dell'opzione, non solo fra diversi modelli d'abito ma fra le più incompatibili concezioni del modo di mostrarsi. Questa è la moda aperta, seconda fase della moda moderna, caratterizzata da codici eteromorfi e da un antidirigismo che ha per massimo ideale ciò che oggi viene chiamato look. Contro tutte le mode <<allineate>>, contro il codice sterilizzato della gente-bene, contro la noncuranza, il gusto <<in voga>> negli anni Ottanta invita alla sofisticazione dell'aspetto, a inventare e cambiare liberamente l'immagine del soggetto, a infondervi artifici, gioco, singolarità.

E' bene specificare che per moda dei cent'anni Lipovetsky intende la moda che si afferma intorno alla seconda

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metà del XIX secolo, dominata dalla Haute Couture parigina, e termina proprio intorno agli anni '60 del XX secolo. Negli anni'60, così, si verifica una profonda trasformazione del sistema moda: dal dirigismo centralista dell'Alta Moda al policentrismo della moda aperta; dalla rigida codificazione delle mode dell'anno e stagionali alla molteplicità degli stili e alla loro libera combinazione. Un altro elemento di grande importanza caratterizza, però, questa fase di grandi cambiamenti: l'affermarsi dell'estetica <<giovane>>. Leggiamo ancora alcune considerazioni di Lipovetsky:

Negli anni '60 l'effetto Courreges e il successo dello <<stile>> e dei creatori della prima ondata di pret-a-porter sono espressione, nell'ambito della moda, dell'ascesa dei nuovi valori del rock e di idoli giovani: in pochi anni ciò che è <<junior>> è diventato prototipo di moda. L'aggressività delle forme, la mescolanza e il sovrapporsi degli stili, la trasandatezza, hanno potuto imporsi soltanto grazie ad una cultura dominata da ironia, gioco, gusto per sconvolgimenti emozionali e libertà comportamentale. La moda si è vestita da ragazzina, esprime uno stile di vita liberato dalle costrizioni e disinvolto nei confronti dei regolamenti statuiti. Questa costellazione culturale di massa ha minato il potere sovrastante della Haute Couture; l'immaginario giovanile ha determinato la freddezza verso l'abbigliamento di lusso, apparso di colpo come simbolo del mondo <<vecchio>>. L'eleganza <<distinta>>, di buon gusto, di classe, della Haute Couture, è stata screditata da valori che cantavano l'abbandono delle convenzioni, l'audacia e la velocità...Un rovesciamento più completo è avvenuto nei comportamenti: <<Prima le figlie volevano somigliare alle madri, ora è il contrario>>.

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La minigonna è il capo d'abbigliamento che meglio rappresenta questo nuovo clima culturale. Non è, infatti, semplicemente una nuova moda, ma il segno tangibile di una radicale trasformazione a livello del costume. A questo proposito Patrizia Calefato osserva nel suo saggio Mass Moda :

Nella storia del costume e nella storia delle donne la minigonna rappresenta sicuramente un intoppo, un intralcio, una rottura, in una logica dell'abito femminile che prescrive per tradizione che questo abbia innanzi tutto la funzione "morale" di coprire, cancellare, nascondere il corpo. La minigonna è un segno femminile "forte", che condensa nella sua storia valori di libertà rispetto alle censure e alle false ipocrisie. L'accorciamento dell'orlo dell'abito ha infatti sempre coinciso nel nostro secolo con momenti di emancipazione femminile: negli anni '20 le gonne "charleston" segnarono in maniera provocatoria la crisi definitiva delle crinoline, delle doppie balze, dei mutandoni e anche la messa in discussione di una pruderie modellata sull'immaginario maschile che assegna a "ciò che non si vede" un valore erotico più intenso rispetto a ciò che si vede... Coco Chanel, simbolo e artefice in moda della liberazione femminile dei primi decenni del nostro secolo, indicò da parte sua una forma di liberazione che riguardò soprattutto le lunghezze delle gonne e dei capelli. Se qualche decennio dopo, intorno agli anni '50, la gonna al ginocchio fu introdotta come capo funzionale al ruolo produttivo delle nuove generazioni di donne lavoratrici, la minigonna degli anni'60 fu invece un vero segno di emancipazione e portò con sé una ventata di anticonformismo nell'ambito della moda istituzionale di quegli anni.