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Mio figlio, un alieno Dal pianeta autismo Sandra Lupi Macrì

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La storia di un’avventura, del legame misterioso fra madre e figlio che sopravvive al taglio del cor-done ombelicale ed è ancora più stretto quando il figlio è autistico.Madre e figlio osservano la stessa realtà con occhi com-pletamente diversi: la diagnosi della malattia, l’esperien-za della scuola, il rapporto con il papà, i parenti, gli amici e la sessualità. Immaginando di far parlare Leonardo, la madre ha voluto dargli la possibilità di rivelare, almeno in parte, l’originalità della sua anima.

Sandra Lupi Macrì è nata a Rovigo nel 1936, ma è vissuta sempre a Padova. Laureata in lettere classiche, ha insegnato per molti anni al liceo classico «Tito Livio». Nel 1998, con alcuni genitori dei CEOD (Centri educativi occupazionali diurni per disabili) e della Fondazione IRPEA (Istituti riuniti padovani di educazione e assisten-za) ha sentito la necessità di costruire l’Associazione dei familiari dei disabili di cui è presidente.

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9 788825 022131

ISBN 978-88-250-2213-1

€ 8,00 (I.C.)

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Mio figlio, un alieno

Mio figlio,un alieno

Dal pianeta autismo

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Riflessi Red

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SANDRA LUPI MACRÌ

MIO FIGLIO, UN ALIENO Dal pianeta autismo

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ISBN 978-88-250-2778-5

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PrESENTAzIONE

Questa che leggerete è un’elegia familiare a quattro mani, piena di affetti, di domande, di spe-ranze. Ho conosciuto Leonardo e sua madre sul finire degli anni Novanta, nel pieno di quella che Sandra Macrì definisce come la sua «stagione dell’impegno sociale», dopo una vita intera pas-sata nella scuola come insegnante di lettere e a casa come apprendista di Leonardo, l’«alieno».

Come lei, ho incontrato altre «madri corag-gio», spesso costrette, loro malgrado, nell’angu-sto e penoso angolo della rivendicazione e della tutela dei diritti della disabilità, sempre a rischio di misconoscimento o di deriva nella semplice assistenza minima.

Conosco ora, in queste pagine, un’altra parte (ancora più bella) dell’anima di Sandra, che con Corrado, suo marito, ha atteso con trepidazione un figlio che ha fatto irruzione nella loro vita di coppia in assoluta normalità e che, all’età di due anni, si è fatto conoscere come «alieno», capace di comunicare solo per mezzo di una grammatica e di una sintassi tutte da costruire.

Lo chiamano «autismo»: qualcuno lo direbbe la più sconvolgente «provocazione a un amore senza riserve».

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Mi pare che, a dividere simbolicamente in due fasi la vita di Sandra – ed è forse fra i suoi più grandi gesti di moglie e di madre –, sia stato il riconoscimento e l’accettazione di Leo per quello che era, senza se e senza ma; non come un acqui-sto imperfetto sul quale gridare all’ingiustizia. In-somma, quel figlio era un capolavoro così, anche quando metteva a soqquadro ogni cosa e spiazza-va ignari circostanti, preso, come lui stesso rac-conta, da oscure paure.

Sandra ha deciso, un giorno, di non vergognar-si più di suo figlio, della propria intimità familia-re spesso sconvolta, e di tutte le convenienze e i perbenismi che saltavano come birilli. Tutto il racconto di Sandra, che idealmente (ma con precisa conoscenza) lascia spazio alla «voce» di Leonardo, è storia non tanto di uno sforzo per «guarire» Leonardo, ma per rendere possibile e, perché no?, qualche volta allegra e grata la vita pur in circostanze così imprevedibili, tanto di-stanti dalle attese e dai sogni.

In una casa di umanisti Leonardo è stato fortu-nato e non v’è dubbio che tutto ciò che faceva be-ne a questo «gigante buono» è stato fatto. La forza della coppia di Sandra e Corrado, il sostegno a ol-tranza dei pochi ma eccezionali amici di famiglia e dei cari e indispensabili volontari, la grandezza pro-fessionale e di cuore di alcuni sanitari, i coetanei (purtroppo perduti per strada), hanno sicuramen-te aiutato Leo a evolvere positivamente: sempre «alieno», ma amato e, a sua volta, capace di amore.

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E destreggiandosi tra le proprie paure, la pro-pria perfetta pronuncia inglese, un sano appetito, le divertenti locuzioni e l’attaccamento alla mam-ma, è diventato a suo modo un uomo, capace di ricambiare i doni ricevuti, come quello di saper riconosce e «perdonare» i limiti fisici della mam-ma che già ha corso quanto poteva. Da un po’ di tempo Leo vive, consapevole, in una comunità assistita, e, nel fine settimana, va trovare la mam-ma, come si fa con i vecchi.

E che cosa si sarebbe potuto desiderare di più ?

Danilo Salezze

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PrEMESSA

Prima di essere trascritta sulla carta questa storia è scritta da sempre nel mio cuore. È la storia di un’avventura, del legame misterio­so fra madre e figlio che sopravvive al taglio del cordone ombelicale ed è ancora più stretto quando il figlio è lui stesso un mistero.

Facendo parlare Leo e assegnandogli pen­siero e riflessioni non sono sicura di aver colto sempre nel segno, ma dato che sono la persona che meglio lo conosce ho voluto dargli la possi­bilità di rivelare, almeno in parte, l’originalità della sua anima.

SanDra lupi Macrì

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1.

L ' ArrIVO DI LEONArDO

Mamma

Questa storia è dentro di me da molto tempo, ma probabilmente, se non fossi stata sollecitata da due gentili giovani amiche non avrei mai rac-contato l’avventura più grande e difficile della mia vita, quella che ho vissuto con un alieno, mio figlio Leonardo.

Sì, secondo me, mio figlio è un alieno; viene dal pianeta autismo, da una galassia lontana, la galassia della solitudine. Eppure, quando è nato, sembrava un bambino normale come tutti gli al-tri. L’avevamo tanto desiderato, l’avevamo atteso sei anni.

Ogni mese avevo vissuto con sofferenza il ripetersi del mio ciclo; ma dopo un bel pianto riprendevo a ripetere tra me con un’insistenza maniacale: «Io avrò un figlio». Ancora oggi, a più di settanta anni, nei momenti di distrazione, mi accorgo di ripetere tra me questa frase.

E finalmente è arrivato, quando ormai non speravo più: è un bel bambino, sano e robusto, allegro e socievole.

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Le tappe del suo sviluppo sono quelle di tutti i bambini. All’età di un anno cammina, a un anno e mezzo comincia a dire qualche parolina, a due anni conta fino a cento. A due anni e mezzo si comincia a delineare la tragedia: lo sviluppo si arresta, anzi si nota un lento regredire. Leonardo è sempre più scontroso, rifiuta il contatto anche con me. Non posso neppure dargli un bacio e coccolarlo, perfino vestirlo diventa un problema. Anche dalla scuola materna che frequenta, ben-ché non abbia compiuto i tre anni, torna a casa stanco e irritabile.

Le suore (Dio le benedica!) continuano a ras-sicurarmi, a dire che sono una mamma troppo ansiosa, che si tratta di una tappa dello sviluppo che ben presto il bambino supererà.

A me sembra, invece, che l’orario dell’asilo prolungato fino alle 16 sia stressante per lui, ma alla mia richiesta di andarlo a prendere alle 12.30 le suore rispondono che, anche se pagassi il pa-sto (cosa che mi dichiaro disposta a fare), non possono concedermelo perché creerebbero un precedente.

La prima crisi si verifica durante lo spettaco-lo di carnevale. Leonardo, spaventato da qualche cosa (forse le candele accese che le sue compa-gne avevano sulla testa per imitare le sante Lucie svedesi), scappa via, urlando come impazzito. Di fronte alla mia angoscia, le suore continuano a rassicurarmi, salvo, parlando con mia cognata, definirlo un «povero bambino handicappato».

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Leonardo

Sono arrivato! Vengo da un luogo buio, ma caldo e felice, dove sentivo battere il cuore della mia mamma. Come sarà il pianeta terra? Mi sento come un alieno che sbarca su un pianeta sconosciuto.

Ma qui, sulla terra, tutto va bene, tutti mi accolgono felici. Il papà e la mamma mi aspet­tavano da tanto tempo e sono al colmo della fe­licità per il mio arrivo. E ne gioiscono anche altre persone.

Del resto io sono considerato molto intelli­gente e simpatico, sono socievole con tutti. Il ge­nerale che abita al secondo piano dice che non ha mai visto un bambino così precoce.

Ho ormai due anni, so contare fino a cento e comincio a parlare. A un anno e mezzo so­no andato in vacanza a Cerlongo, il paese della nonna Ida; ho conosciuto le galline, di cui so imitare il verso («codedé» dico io), ho mangia­to i fagiolini che chiamo «pettíne» e la polenta che per me è la «biscotta».

Anche a San Cassiano, in Val Badia, dove sono andato in vacanza sono coccolato da tutta la pensione e ho fatto amicizia con molte per­sone.

A un tratto, però tutto è cambiato; niente è più come prima, il pianeta terra è diventato ostile; anche la mamma non è più un tutt’uno con me.

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Frequento l’asilo dove incontro tanti bam­bini (finalmente! pensavo io, saranno simili a me); invece sono molto diversi e mi mettono a disagio; gridano, fanno rumore, c’è troppa luce e io non sopporto le sensazioni così forti.

La mamma paragona la mia reazione di di­sagio al comportamento delle falene intorno al­la luce, una specie di perdita dell’orientamento, uno sbattere qua e là come impazzito.

La tragedia scoppia il giorno dello spettacolo di carnevale. Le suore, con il perfezionismo che le distingue, lo stanno preparando da ottobre con prove continue che spesso impediscono il riposino che mi aiuta a rilassarmi dopo una mattinata per me stressante.

Io non ho nessuna parte nella recita; di que­sto sono contento, perché tutta la manifestazio­ne mi risulta incomprensibile e mi mette in tensione.

Sono uno spettatore piuttosto agitato e la mia sofferenza esplode quando entrano sulla scena le bambine con le loro lunghe vesti e sul capo candele accese per imitare la tradizione delle sante Lucie nordiche. Chissà che cosa scatta nel mio cervello in quel momento: ho paura che si brucino (tra parentesi: è un timore proprio ir­razionale?). In ogni modo, comincio a urlare e la mamma, mortificata, deve accompagnarmi fuori.

Da questo momento tutto va male. Le suore, che avevano sempre rassicurato la mamma per

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le mie stranezze, dicendo che è troppo ansiosa e apprensiva, cominciano, anche se con caute­la, a parlare di handicap e comincia per me, la mamma e papà un cammino di sofferenze e delusioni.

A questo punto devo aprire una parentesi. Io continuo a usare i pronomi di prima persona, ma per molti anni ho usato solo la seconda e poi la terza persona e per parlare di me dicevo «tu» o il «bambino». Ironicamente la mamma, che ha ancora voglia di scherzare malgrado tutto, dice che mi do del tu. Sembra che io non abbia ma­turato come avviene negli altri bambini «nor­mali» – parola che diventerà il mio incubo –, la consapevolezza della mia identità, quell’io che mi permetta di distinguermi dagli altri, o meglio: ho un piccolo io che resterà bambino, che si chiuderà in se stesso, dapprima rifiutan­do di separarsi dalla mamma, poi respingendo ogni contatto con gli altri.

Le seconde vacanze a San Cassiano non sono come quelle del precedente anno. Questa volta deludo tutti, anche se gli amici che ci siamo fat­ti non hanno il coraggio di comunicarci le loro impressioni negative su di me (ce le diranno molto più tardi).

La mia passione per la seggiovia diventa ossessiva: per me è animata, mi interessa più delle persone, ho paura che si bagni quando piove, che soffra il freddo, e ogni sera dobbiamo andare a darle la buonanotte.

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Questa ossessione, tuttavia, sarà, col tempo, la mia salvezza. Continua infatti anche dopo il mio ritorno in città. Cerco e vedo seggiovie dap­pertutto. In Piazza dei Signori a Padova, per esempio, le ruote di un’immaginaria seggiovia sono, secondo me, l’orologio monumentale e il rosone della chiesa di San Clemente. A casa le faccio raffigurare dalla mamma e a poco a poco divento più autonomo nel disegnare quest’uni­co soggetto, purché la mamma mi tenga il polso mentre disegno. Anche il tavolo del soggiorno resterà deturpato per sempre da questa mia feb­bre artistica.

Intanto la situazione precipita; io sono sem­pre più chiuso, il normale sviluppo non procede; sono fermo a poche parole molto strane. Resterà per anni il dubbio sul significato di «pispello» (cabina elettrica) e di «pepo pepo» (fazzoletto da taschino).

Io sento la delusione intorno a me e sono tri­ste; a volte, seduto in un angolo, piango come un adulto, con lacrime silenziose.

Non gioco (non so proprio giocare), non sop­porto più che nessuno, neppure la mamma, mi tocchi. A poco a poco, mi esprimo solo con cen­ni e grugniti e la mia diversità diventa sempre più evidente.

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2.

LA DIAGNOSI

Leonardo

Il papà si informa per sottopormi a una pri­ma visita; ci rechiamo da un noto psicologo che ci dà subito la diagnosi. Si tratta di autismo, parola per noi assolutamente ignota. Che cos’è? L’esperto risponde: «Non si sa. Si pensa che sia un arresto del normale sviluppo dovuto a un evento traumatico, per esempio a un allontana­mento dalla madre o una malattia infantile o un ricovero ospedaliero. Il bambino si rinchiu­de nel suo io piccolino che non cresce. Alla do­manda dei miei se la situazione sia disperata la risposta del luminare è: «Questo bambino sorride e il sorriso in un fanciullo è tutto, lire diecimila».

Questo incontro, pur avendo dato un nome alle mie stranezze, non solo non risolve nul­la, ma ritarda ulteriormente qualsiasi cura e intervento. Papà e mamma sono rimasti così delusi dall’incontro con l’esperto che non vor­rebbero incontrare nessun altro. Tuttavia deci­dono di fare un secondo tentativo. Andremo a Roma dove il fratello di una zia ha la cattedra

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di pediatria all’Università «La Sapienza»; for­se potrà indicarci qualche specialista esperto di autismo. Saremo ospiti di parenti di papà, una coppia di anziani molto gentili e affettuosi.

Mamma

Fin dall’inizio la spedizione si rivela un falli-mento. Leonardo sembra indemoniato.

Già in treno disturba tutti, urlando e agitan-dosi; per fortuna i vicini di cuccetta sopportano, compiangendoci e comprendendo che si tratta di una situazione grave e particolare.

A casa del professore, mentre lo attendiamo, Leonardo decide di prodursi nella sua migliore performance: versa una tazza di cioccolata su una poltrona di velluto azzurro, distrugge una au-tomobilina che fa parte di una preziosa collezio-ne, fa pipì su un copriletto di seta. Infine, quando il professore arriva, gli si butta addosso, susci-tando una reazione violenta: il poveretto aveva ancora aperta la ferita di una laparotomia esplo-rativa per un tumore. Il parere del professore è sbrigativo; ci consiglia di riempire di Valium Leo e di rivolgerci al più presto a uno psichiatra.

Quello è stato, fra tanti momenti difficili, forse il più difficile. Ero piena di vergogna per il com-portamento, per me ancora incomprensibile, di Leonardo che, anche a casa dei parenti che ci ospitavano, in preda a una crisi, si scatenò, di-

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struggendo una radio, urlando e spaventando la coppia di anziani. Di fronte a questa scena, mentre Corrado reagiva più razionalmente, io ero scon-volta. Chiusa in bagno, giunsi a sbattere la testa contro il muro; la disperazione era così grande che avrei voluto morire e quasi ci riuscivo.

Leonardo

Dopo questo secondo tentativo, miseramente fallito, i miei genitori non vorrebbero neppure tentare altre vie.

La mamma, intanto, è riuscita a farmi tra­sferire in un'altra scuola materna, questa volta comunale, dove, grazie all’impegno appassiona­to delle maestre, mi sento, se non più compreso, più amato. La mamma è tutta felice quando tor­no a casa con il grembiulino bianco tutto spor­co di colore, perché capisce che io, che a casa non voglio neppure toccare una matita, all’asilo partecipo in qualche modo alle attività. Eppure non è un bel periodo; c’è tra me e i miei genito­ri un continuo stato di guerra: la mamma, con una cattiveria che rivela tutta la sua delusione per essere stata colpita nella sua aspirazione più grande, mi definisce un «vegetale urlante».

Le ricerche continuano ma non si riesce a trovare un professionista che sappia risponde­re ai nostri dubbi e trovare un rimedio alle mie paure.

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Finalmente l’incontro con una dottoressa, una neuropsichiatra infantile che ci prende «in carico», come si usa dire, non come un caso burocratico e scientifico, ma come una realtà familiare da sostenere e da guidare senza au­toritarismi.

Qui lascio la parola alla mamma, perché io non posso parlare di quello che per dieci anni, con una cadenza quindicinale, avveniva nello studio della dottoressa; è un segreto che lei si è portata nella tomba e che io non potrei mai rivelare.

Mamma

Finalmente un incontro positivo: una dotto-ressa del centro di neuropsichiatria infantile. Ho detto positivo anche se all’inizio con lei c’è stato uno scontro devastante.

Già il colloquio con un’assistente mi fece ca-pire che contro di me, come madre, c’erano dei pregiudizi. A me si facevano domande, di cui si davano per scontate le risposte.

Assistente: «Lei non ha desiderato questo fi-glio, vero?».

E io: «L’ho atteso per sei anni».Assistente: «Lei non l’ha allattato, vero?».Risposi: «Veramente io l’ho allattato per sei

mesi».Assistente: «E i rapporti con suo marito?».

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Io: «Sono buoni».E lei: «Dovrà rivederli».Evidentemente la teoria della madre intellet-

tuale e fredda era ancora molto in voga.Ma la sorpresa più deludente fu il comporta-

mento della dottoressa. Non ho mai capito per-ché la persona che poi ci diede un grandissimo aiuto si sia all’inizio comportata così ferocemen-te. Forse aderiva anche lei alla teoria della madre frigorifero, troppo fredda e intellettuale.

L’équipe del centro aveva già esaminato Leo-nardo, ma non era ancora giunta a formulare una diagnosi. Mio marito doveva partecipare a un congresso e chiese esplicitamente di essere presente alla comunicazione dei risultati; la dot-toressa ci rassicurò: Leonardo doveva essere esaminato per un’altra settimana; naturalmente, nel frattempo, io avrei accompagnato il bambino al centro.

Non so per quale motivo invece la dottoressa decise di comunicare la diagnosi a me sola, pro-prio durante l’assenza di mio marito da Padova. E lo fece in modo veramente brutale. Conferman-do la diagnosi di autismo fatta precedentemente dallo psicologo, mi spiegò che si trattava di una grave forma di chiusura nei confronti del mondo e degli altri. Non si conoscevano casi di guarigio-ne vera e propria; alcuni autistici, molto pochi, raggiungevano un’apparente normalità, però con comportamenti strani e manie; un altro gruppo (sempre molto ridotto) poteva raggiungere qual-

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INDICE

Presentazione (Danilo Salezze) . . . . . . . . 5

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8

1. L ’ arrivo di Leonardo . . . . . . . . . . . . . . . 9

2. La diagnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

3. La paura di comunicare . . . . . . . . . . . . 22

4. La scuola media . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

5. Il ceoD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

6. Leonardo e il papà . . . . . . . . . . . . . . . . 42

7. Non solo rose e fiori . . . . . . . . . . . . . . . 45

8. Leonardo e gli amici . . . . . . . . . . . . . . 51

9. Leonardo, l’amore e la sessualità . . . . 58

10. Leonardo e la musica . . . . . . . . . . . . . . 61

11. Leonardo e i parenti . . . . . . . . . . . . . . . 64

12. Gli accompagnatori . . . . . . . . . . . . . . . 66

13. Le vacanze al mare . . . . . . . . . . . . . . . . 71

14. Una Cinquecento per l’eternità . . . . . 75

15. Leonardo e l’autismo . . . . . . . . . . . . . . 79

16. Un bilancio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

17. Le associazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

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Gabriel de Saint Victor, La morte conciliata. Messag-gio di speranza di chi se ne va a coloro che resta-no, pp. 152

Jean-miGuel GarriGueS, Nell’ora della nostra morte. Accogliere la vita eterna, pp. 168

FranceSco Farronato, Parola di prete. Pensieri in margine all'anno sacerdotale, pp. 152

Sandra lupi macrì, Mio figlio, un alieno. Dal pianeta autismo, pp. 96

Finito di stampare nel mese di giugno 2010Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova

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