Minchia Di Re

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Libro - Minchia di Re

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Minchia di re

Giacomo Pilati

Mursia

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PREMESSA

Uno scandalo perduto affiora. Era un pettegolezzo antico, incastrato nella scaletta di un documentario, nascosto fra storie di isole mediterranee. Diventa un tormento, in bilico fra verità, leggenda e bugia. Non mi dà pace. Garibaldi era appena sbarcato in Sicilia coi suoi Mille. Le vicende dell’unità nazionale si dipanavano drammatiche ma piene di speranza. In una piccola isola, una donna visse una rivoluzione più grande: per sopravvivere alla scandalo della propria omosessualità, accettò di fingersi uomo. A 25 anni la sua vita diventò quella di un altro: coppola, sigaro in bocca, una famiglia benedetta dal Signore, e tanto potere per occultare l’assurda trasformazione. Raccolgo testimonianze, frugo in mezzo agli archivi. E alla fine lo trovo. Un foglio di carta ingiallito. Quattro righe, che raccontano un giorno della sua vita: quel giorno. E’ tutto vero. Lei c’è stata veramente. E poi è diventata lui. Ora so chi è. Inseguo la sua anima. Inseguo il suo corpo. Mi invento una storia tutta per lei. Per non farla morire più. Anzi, per farla vivere, come dico io. Questo racconto è la cronaca vera di una metamorfosi, il resto è pura invenzione.

La donzella di mare è un pesce ermafrodita. Quando passa nella fase maschile in molte parti della Sicilia lo chiamano così: minchia di re.

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I

Stelle grosse come fuochi avvampavano il cielo e doveva esserci la luna quella notte. Luna piena, luna che ingravida i ricci e li riempie di uova, luna che stordisce i semi e li appiccica al ventre prima della risacca. Mio padre lo voleva maschio. Doveva essere per forza come a lui, il figlio del curatolo delle cave di tufo di Cala Tramontana. Una femmina è roba di signorine, tutti sono capaci. E la vergogna è peggio della morte per un masculo così, con le polveri bagnate. L’ha fatta partorire col coltello alla gola, quel bastardo.

<<Maschio come a mia deve essere. Che se mi fai una femmina, giuro che ti ammazzo.>>

Un grido prolungato all’infinito, inghiottito dalle viscere dello stomaco e ributtato fuori come una serpe che schizza fuori dalle pietre, inseguita dalla canna di un bambino. Quella è mia madre, una bambina di 15 anni. Ha la federa del cuscino fra i denti, una lacrima le ruga il viso come una fontanella che si perde in una gebbia di fango. Mia madre, che non sa gridare, mia madre che non ha la forza per rispondere a mio padre, che è il buon Dio a decidere. Grida mamma, ti prego, almeno ora, fammi sentire la tua voce, fammi amare la tua disperazione che non può essere sempre una condanna. Riscatta la tua vergogna. Prendi quel coltello dalla gola, afferragli il polso, sarà un colpo a trafiggergli il cuore. Così il suo silenzio, la sua angoscia, saranno la tua liberazione. Ora, mamma. Silenzio. Sono nata io. Rossa e sporca come una cotognata appena fatta, un gamberone di quelli che incendiano i cuori dei pescatori. Mio padre non ha visto niente. Non lo vuole sapere. Ditegli che sono una femmina. Sono nata io. Una femmina, papà. E tu non l’hai ammazzata la mamma. Rassegnati sono io. Sono Pina. Ecco io sono nata così. E lo giuro c’era la luna piena.

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II

Nicolino è figlio di mastro Paolo, l’uomo di fiducia di mio padre giù nelle cave di tufo. La casa sua è in campagna. Con la bicicletta ci stiamo il tempo di fermarci una volta a bere alla fontana di Zucco. Io sono quella seduta sull’asse della bicicletta, con la gonna fino alle caviglie, attaccata con le mollette, coi mutandoni che mi viene da ridere. Ho i capelli corti, le sopracciglia nere e grosse che sembrano due spazzole, le gambe arrunchiate sopra i pedali, la testa incastrata sotto il mento di Nicola per fottere il vento. Le guardo ora quelle balze che mi facevano venire le vertigini, che mi chiudevo gli occhi per non cadere, e mi gira ancora la testa. Sotto, il mare che non gli importa niente se noi ci siamo o non ci siamo. Il mare che c’è sempre stato lì e che non cerca i nostri sguardi per sentirsi vivo. Ma noi ci siamo e lui è li. Ed è meraviglioso. Noi che sbattiamo le pietre della trazzera che si arrampica sull’abisso profondo dell’isola, noi che ci fermiamo e restiamo a guardarlo, a scuoterlo coi sassi per vedere chi è più bravo a lanciarli lontano. Per vedere chi sa farli rimbalzare come calci sulla sua crosta. Corriamo dietro al mare, respiriamo la sua bronchite, il suo colore. E lo tratteniamo in mezzo all’ erba, con l’orizzonte che ci scivola addosso con tutte le barche. Noi che abbiamo tredici anni e lui chissà quanti anni ha. Ecco laggiù c’è la casa di Nicolino. Ancora una pedalata e siamo arrivati. Fanno odore di erba selvatica, di sudore, di formaggio, queste ultime pedalate. Di formaggio di pecora, sicuro. Ancora un colpo di caviglia, un colpo di reni. Una corsa verso la stalla, là in fondo. Eccoci qua. Con le mani sporche di merda secca di mulo . Una bella rimescolata con la paglia, un foglia di vite di quelle grandi, ed è fatta. La sigaretta è pronta. Ne facciamo due, tre alla volta. Poi le mettiamo a seccare, per tre giorni. Ogni volta è una scoperta il fumo che si ingrossa nel petto e arriva alla testa come una botta.

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Siamo seduti fuori, con le spalle appoggiate al muro della stalla, e il fumo che si perde in faccia al mare che scende giù sotto i nostri piedi. Il mare che salta come un pazzo sul dirupo, come se il resto, i pini, i corbezzoli, i fichi d’india per lui non contano. Non ci sono. Perché lui li ha distrutti, loro hanno rinunciato a seguirlo nella sua caduta verso la libertà. Hanno alzato le braccia, si sono arresi. Vai avanti tu, che riesci a frantumare la roccia, che spezzi le ombre e ne fai quello che vuoi. Noi no, non ci stiamo a morire dietro di te. Ma ti lasciamo il nostro profumo di resina, per dimostrarti che è l’amore a renderci invisibili. Penso a quello che stanno ragionando fra di loro il mare e le piante. Non li incontro gli occhi puntati su di me. Che quello spione di Bastiano Tortorici, ‘u picuraro , niente si è tenuto di quello che ha visto. Che a mio padre non c'è parso vero di farselo riportare. Lui è un cristiano di due metri di tinturia. La barba e i capelli gli allagano la faccia e in mezzo ci sono due occhi dritti, squadrati, due sentinelle. E più giù, un naso che è un indice contro di me. E la bocca sottile, come la fessura di un caruso di terracotta. Una lama affilata che mi taglia la carne. Ha le braccia conserte. Non parla, mi chiama col naso. Lo abbassa e mi pare un dito che si muove. Sono davanti a lui. Non ho nemmeno il tempo di fissarlo negli occhi. Mi sento la guancia brillare, come i botti sulla montagna. Ha preso fuoco, come afferrata dal polpo. Coi tentacoli che si muovono ancora mentre si chiude alle spalle la porta. Come un vento che sbatte sui vetri, mi accompagna la sua maledizione: <<Il fumo è cosa di buttane. Svergognata. Che se ti vedo io, ti ammazzo>>.

Nemmeno alle altre due femmine di casa, la testa si è appuntata col perdono. Agnese è la sorella di mia madre. Doveva entrare novizia al monastero di Santo Spirito. Ma bisognava andare in città, e lei fuori dall’isola mai ci era stata. Così si è fatta monaca a modo suo. Si è cucito un abito marrone che la copre tutta, un fazzoletto pure marrone in testa, un crocifisso, i sandali. E sotto terra con tutta la forza ci ha infilato la testa della sua bellezza che ora le muore dentro. E mia madre,

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una donna santa. Sempre pronta a perdonare. Paternostri , cucina, ricamo. Mai una parola di troppo, mai un sospiro fuori posto. Tutto il giorno con il cuore a stufato, dalla mattina alla sera. Che quando arriva la notte è un fico rinsecchito ai piedi di un albero, marmellata di terra e di foglie. Questa volta mio padre ha fatto le cose per bene. Ha preso quattro pezzi di legno e coi chiodi li ha piantati alle finestre della mia stanza. Così io non posso uscire di casa, non posso scappare. Mi sento i ferri piantati sotto la pelle, mi straziano le ossa. Mia madre mi porta da mangiare con gli occhi bassi. Non parla, non dice niente. Non dice niente nemmeno quando ogni sera davanti alla porta, mio padre urla e bestemmia contro gli uomini che chiedono di lavorare alle cave. E lui impreca che lavoro per tutti non ce n’è, lui che di coscienza sua chiama gli operai. Lui che si affaccia sull’uscio di casa coi cani che ancora non hanno mangiato e molla il guinzaglio se quei poveri disgraziati si mettono in ginocchio a pregarlo per un chilo di farina, per un pezzo di terra da scavare. <<Magari per un mese, mastro Nino che i miei figli sono senza pane. E ancora la pesca è lontana.>>

E lui che chiude la porta e li lascia fuori, abbandonati ai loro miseri traguardi fatti di sarde salate impastate con la saliva, e un letto su cui piangere e maledire il giorno in cui sono venuti al mondo. Mia madre ora che la vedo ha trenta anni. Entra nel magazzino, con una ciotola d'acqua, mezzo filone di pane duro. Ha gli occhi bassi, si vergogna. Lei lo sa che tutto questo non ha senso, che non c’è una ragione. E se lo chiude dentro questo torto, come un mal di pancia. Ora la ciotola è sullo sgabello di legno, lei si è girata, non mi ha guardato. Se n’è andata.

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III

E' un bel mattino di sole sopra l’isola Lunga. La piazza con le pietre dorate , affacciata sul mare, è pronta a tirare le ancore e a partire. Fifì il muto, biondo come un normanno, con gli occhi di fuori di spirtato è al molo a riparare le reti da pesca. Inginocchiato, ricurvo sulle maglie. Guarda il palazzo dei Burruto e si fa tre volte il segno della croce. Loro sono i padroni di tutto quello che c’è sull’Isola. Lui mangia il loro pane. E quel pane è benedetto da Dio. Loro sono Dio. Sara è la figlia del custode del palazzo Burruto. I padroni stanno sull’isola cinque mesi l’anno. Vengono per la pesca delle sardine e se ne tornano in città a fine autunno. Ma quest’anno i Burruto sono rimasti di più sull’isola. E la figlia di Mario Fascella, ha più tempo per restare in piazza a guardare Fifì il muto che cuce le reti. Il barone Luigi Burrutto , quando è sull’isola, bambini fra i piedi non ne vuole. Così il custode scioglie i suoi tre figli in giro per le strade fino al tramonto. Mi sono innamorata dei suoi occhi. Verdi come le cale di Grotta Minnola, dei suoi seni gonfi come melanzane e due capezzoli appuntiti come olive verdi. E la bocca, due gelsi spiaccicati. Un incarnato bianco che pare un angelo, che sulla sua pelle il sole non ci piglia. Impermeabile alla luce. Io così me li immagino gli angeli. E così è lei. Ferma a guardare Fifì. E io pure. Sento la sua pelle che mi sfiora. Senza colpa. Sento un brivido, le bollicine che partono per la testa. Ho la febbre. Cosa mi succede? Sento il mio respiro battere insieme al cuore. E’ un animale che è dentro di me. Le labbra sono vicinissime. Ho l’odore del suo alito. Sa di muschio, di citronilla, di rondine bagnata. Lo voglio io quel sapore di vento nel mio corpo. Io mi sento un grande calore addosso. Che cos’è non lo so. Ma mi sento bene. I suoi occhi sono laghi azzurri che trapassano la pelle della montagna lassù sui pianori del castello e riflettono il cielo, il sole, il buio. Io ora per

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lei sono il buio. Non vorrebbe trovarsi qui con me. In questo pomeriggio di primavera, con i pescherecci sfiancati dentro al porto. Vorrebbe essere nel giardino della villa del barone Burruto, nascosta fra gli alberi, per non farsi vedere. E diventare aria per giocare con i trenini di legno e coi tricicli dei figli del padrone, senza esistere. L’acqua accarezza la spiaggia, le pietre si muovono lentamente. Girano sull’acqua, affondano, tornano a galla, poi affondano di nuovo. Le pietre che fanno rumore, che le sento rompere altre pietre, che le sento rompere il mare. E loro li, a bagnarsi, ad asciugarsi. E a fare morire il sole. La mia mano è ferma, il respiro pure. Solo le pietre parlano. Butto fuori l’aria.

<<Sei bella come un angelo.>>

E lo dico senza pensarci. Con il cuore nella confusione, che io vorrei non avercela addosso questa febbre per colpa di una femmina come a me. Ma ce l’ ho nella gola questo desiderio e non posso fermarlo, e mi fa parlare così, col miele sulla lingua.

<<Ma che sei pazza? Peccato è quello che dici.>>

<<Cos’è il peccato?>>

Sara ciondola la testa.

<<Una cosa che non si dice perché non si può fare.>>

E scappa portandosi dietro la mia smania.

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IV

Il castello è una mola cariata rimasta in piedi chissà come sulle gengive sdentate dell’isola. E’ in cima a una pustola della terra, lassù in fondo, dove il cielo se la spassa col mare, senza farsi guardare. Il Castello di Federico è una prigione. Ora io lo so, ma per tanto tempo ho creduto che lì dentro ci fossero mostri, anime dannate, uomini con la testa di serpe e piedi di maiale. Sull’isola si accendono i fuochi sulla spiaggia. Tutto il giorno a raccogliere legna da accatastare per la festa della Madonna delle Cave. I rosari, le mani raggrinzite che sgranano noccioli di olive dipinti di rosso, e poi tutti sulla spiaggia a gridare <<evviva Maria , evviva Maria>>, con gli occhi pieni di fumo e cenere, a sfogare le proprie rabbie di dentro. Pure mia madre e mia zia, che per una volta mio padre le lascia stare. Così in paese poi dicono quanto sono religiose le donne di casa del curatolo della cava di Cala Tramontana. A me sembrava notte, ma invece doveva essere sera. Io e Nicolino ci siamo visti al lido dei Senzapatri; per una volta l’anno possiamo fare quello che vogliamo fino a mezzanotte, con la scusa dei pezzi di legno da cercare. Non ce ne accorgiamo nemmeno ma siamo quasi ai piedi del castello. C’è vento di libeccio, e sento muovere l’erba, la sento crescere sotto di me. Nicolino si spaventa, il suo cuore è un tamburo, quando vede che siamo arrivati sopra alla montagna. Ma io sono curiosa, voglio sapere che cosa c’è là dentro, voglio guardarli in faccia questi mostri. Non posso passare tutta la vita a guardare il mio pezzo di cielo senza conoscere cosa c’è nell’altra metà, su quella gobba di animale ferito a morte. Nicolino sente qualcuno che viene verso di noi, si gira e scappa come fulmine in una notte di sereno quando la luce riga il cielo e disegna ferite d’argento. Io non ho paura. E poi anche se questi mostri mi sbranano, che cosa cambia? Nessuno si accorgerebbe che sono esistita, che ci sono stata, che esisto. E allora

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resto ferma, immobile e aspetto di vedere il mostro. Ho gli occhi bassi. Alzo le palpebre. Ecco è davanti a me. Con un piede sopra una pietra e l’altro riparato a mezza aria dal ginocchio incollato alla mano. E’ un vecchio, ha i capelli bianchi, le scarpe di soldato, per camicia un sacco, i pantaloni devono essere fatti con la stessa stoffa.

<<Chi sei?>>

<<Ho sentito rumori. Come di un animale che ha bisogno. Qua è facile incagliarsi le zampe nelle staffe di spine.>>

<<E c’hai preso per vero. Brava.>>

<<Dici menzogne. Un vecchio sei.>>

<<Sono un animale che ha bisogno.>>

<<Di che cosa?>>

<<Di compagnia.>>

<<Sei un forestiero?>>

<<Abito al castello.>>

<<Sei un soldato allora.>>

<<Sono un prigioniero.>>

Io non capisco, sono confusa. Ma chi è questo vecchio che improvvisamente mi appare? La luna gli squarcia mezza faccia. Può avere l’età di Fifì il muto, o quella del nonno di Nicolino. Ha gli occhi celesti come il cielo dei disegni che i figli del barone Burruto appendono in giardino, il giorno della festa di Santa Teresa. Una croce in alto su una curva marrone. Dietro il cielo è celeste che così bello io non l’ho visto mai nemmeno qui. E sotto ci sono loro, i figli del barone che pregano in ginocchio, davanti al loro foglio di carta.

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<<Ma perché non scappi? Non hai catene ai piedi e nemmeno alle mani.>>

<<Non posso, te l’ho detto sono prigioniero.>>

<<E cosa ci fai fuori dal castello?>>

<<Vado a bagnarmi laggiù, al laghetto dello Sparacio.>>

<<Ci sono le sanguette. Nessuno ci va.>>

<<E io per questo ci vado. I vermi si appiccicano sulla pelle e mi succhiano il sangue. Un colpo secco e come babbaluci finiscono nel sacco.>>

<<Ma non sono buone da mangiare.>>

<<Io ai soldati del castello ce le servo. Là sopra loro ci fanno salassi per i malati che hanno la divisa. Se abbiamo bisogno noi prigionieri, ci lasciano crepare.>>

<<Che schifo.>>

<<In mezzo ai vermi, non ho padroni. Penso quello che voglio, cavalli a tre teste, capre che volano. Col mare che se mi sposto un poco lo vedo. E non mi soffoca la muffa e nemmeno il carbone.>>

<<Sì, ma ti fai male.>>

<<Ogni cosa ha un prezzo.>>

Già vedo da quassù i primi fuochi avvampare. Una corsa giù per la trazzera. Salto macigni, il cuore mi batte sempre più forte, il respiro mi riempie le orecchie. Le pietre rotolano sulle mie scarpe. Cado, no, ce la faccio. Non riesco a fermarmi. Guardo la luna che precipita a mare. Le sagome dei pini mi vengono incontro veloci, mi corrono a fianco. Sono io che non controllo più le gambe. Non ho freni. Sotto, i fuochi. Mio padre mi starà cercando. Mia madre starà serrando le labbra perché non sa

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cosa dire. Sono arrivata. Ho le spalle rotte, la legna attaccata con la corda alle spalle mi ha spezzato tutta. Ancora un po’ e sono giù, alla spiaggia dei Senzapatri. Non è successo niente. Le sue spalle sono lì, non mi ha cercata. Mia madre viene dritta verso di me.

<<Disgraziata. Tuo padre sa che per punizione non sei venuta. Ringrazia il buon Dio che si è convinto così. Questo non è orario di girare.>>

<< Sono andata al castello.>>

<<Al castello? >>

<<Si, a raccogliere legna.>>

<<Qualche rotella ti manca. Una picciotta di giudizio non se li va a cercare i guai. >>

<<Per la Signoruzza nostra l’ho fatto.>>

<<Subito a casa. E non ti fare vedere da tuo padre fino a domani.>>

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V

Sara la rivedo sulla montagna. Ha un cane pastore, bianco, sporco di fango. La rivedo dopo che ci eravamo giurato in silenzio che i nostri occhi non avrebbero più parlato, non si sarebbero più detti quelle parole mute che grattano l’anima e fanno scoprire cose che nessuno ha voglia di trovare. Io ho un coltello fra le mani. Mi piego in due e taglio l’erba selvaggia, burrania, gira. Il mio padrone la vuole tenera e con tutte le radici, perché dentro dice che ci sente la terra, le prime piogge dell’autunno. Ma io la raccolgo per mia madre. Così lui quando si ritira a casa la sera non le chiede cosa ha fatto, non rovista in mezzo alla spazzatura per cercare la sua colpa. Un torsolo di mela buttato senza averlo spolpato per bene. Un pezzo di pane ammuffito. Ogni sera, gira e burrania bollite. Lui ci beve sopra un litro di vino. Si butta a letto e non parla con nessuno. E noi siamo salve. Ma ora conta solo che Sara è davanti a me. Io faccio finta di non guardarla. Ho un bastone fra le mani. Un sacco di canapa a tracollo, un berretto coi capelli legati dentro. Una camicia coi pizzi che deve essere stata della zia prima di farsi monaca. Arriva lontano il rumore della fiera di San Giovanni. Mandolini e fisarmoniche, bicchieri di vino e vestiti nuovi. E lei è bellissima. I riccioli le cadono sulle spalle e disegnano triangoli, quadrati. Una figura dentro l’altra. I suoi capelli d’oro mi annebbiano la testa. Mi cuciono la bocca. Si, la bocca quella stessa che ora vorrei stringere fra le mie labbra. Senza fare peccato. Solo per piacere. Lei ora mi guarda. Io sono dentro di lei, con gli occhi trapiantati sul suo cuore, su ogni pezzettino di carne che riesco a rubarle. Poso la sacca a terra, su una pietra per non sporcarla di fango. Il cane mi viene incontro, lei lo rincorre. E’ davanti a me. La sua buccia mi sta dando calore di nuovo . I miei occhi si stracciano per inghiottirla tutta così com’è, sana. Per mangiarla, digerirla e nasconderla fra le budella. Sara ed io siamo vicine. Il cane abbaia, la sacca è a terra

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piena di gira e di burrania. Scappo. No. L’abbraccio. Lei è mia. Non c’è nessuna storia. C’è solo questa passione, questo calore che mi prende, che non so resistere. Accarezzo la sua faccia, le dita arrotano i capelli. Lei è ferma davanti a me. Poi mi bacia, all’improvviso. Sulle labbra ho la sua ombra che si fa piccola e mi entra in gola. Ci diamo la mano e ruzzoliamo senza equilibrio col cane che ci viene dietro. Saltiamo fossi, ci teniamo in sospeso sulle pietre. Col cuore pieno di noi. Ho nel petto un cavallo stanco. Mi fermo, mi butto a terra. Lei è accanto a me. La testa è contro il cielo. C’è un grande albero di carrube che filtra i raggi di un sole pallido, malato di sangue. E noi lì sotto con le cannucce d’erba dolceamara fra i denti. Le mani tremano, il vento si fa più forte.

<<Facciamo un giuramento.>>

<<Sì, tutto quello che vuoi.>>

<<Facciamo che questa storia non la raccontiamo mai a nessuno.>>

<<Sì, sarà il nostro segreto.>>

<<Mano e parola che non ci lasciamo più?>>

<<Mano e parola.>>

<< Ora tu appartieni a me e io a te>>

<<Siamo due femmine, però…>>

<< Però come mascuolo e femmina ci vogliamo.>>

<<Ho paura che malattia brutta ci siamo prese. >>

<<Speriamo di non guarire mai.>>

Con le stelle accese sopra di noi, scivoliamo fino alla piazza che nemmeno ci accorgiamo quando siamo arrivate. La fiera di San Giovanni, ci confonde con un macello di carne che si stringe e si allarga per entrare nei budelli dell’isola. A Sara glielo dico quasi per gioco che voglio

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interrogare la sorte. Che con queste luci in testa che galleggiano sul mare d’aria e sotto di acqua, non deve essere difficile per il ciraulo prenderci. Il santo è in piedi sopra uno sgabello di legno. I capelli impomatati e i baffi pure. La pelle una volta doveva essere liscia e tenera, per farsi stringere come ora dal cuoio che non ci da pace ai polsi e alle braccia . Ogni tanto si cala, si tocca con le dita le punte dei piedi e si gonfia tutto coi muscoli che tremano come la ricotta calda. Il ciraulo scende dallo sgabello . Si avvicina ad un sacco e tira fuori i disegni con le facce dei santi. Uno ad uno coi chiodi li fa sbattere al vento che striscia la porta della baracca. Si inginocchia. Paternostri. Avemarie. Una donna che deve essere sua moglie, gli passa un barattolo che ha preso dalla borsa dei santi. Lui svita il coperchio e piglia una biscia viva, sottile e nera che deve averla cacciata in mezzo ai leoni. E se la mette a pascolare sul petto nudo fra i peli, cespugli neri come i ricci. E non si scanta nemmeno quando da un altro barattolo, un ragno grosso quanto la mano sua ci va a fare compagnia alla serpe sulla spalla. San Paolo sta sopra a lui, lo protegge e lo aiuta ad acchiappare la sorte con le mani, per portarla in mezzo a noi poveri disgraziati. Queste bestie che si porta appresso sono le stimmate della sua potenza. Se doma le serpi schifose, il dono suo è chiaro come l'acqua. Lui i sentimenti nostri li vede prima , li scoperchia e se li tiene in mano come il patriarca si porta il bambinello. Entra nella baracca. E noi lo seguiamo, impunite, che vogliamo sapere come va a finire.

Sua moglie non ha nemmeno il tempo di dire <<Venghino signori venghino>>, che noi siamo già dietro di lei.

<<E a voi chi vi ha chiamati?>>

<<Nessuno signor ciraulo, vogliamo che ...>>

<<Andate via che senza soldi nemmeno la badessa dice messa.>>

<<Ma vi scongiuro signor ciraulo.>>

<<Che hai dentro la borsa?>>

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<<Verdura amare, limoni e zorbe.>>

<<Nuccia, pigliati questo sacco. Allora vediamo cosa si può fare. Sedetevi.>>

Mi sento il sangue smosso e mi pare di sentire pure quello di Sara che è così.

<<A una sola di voi posso leggere le stelle.>>

Mi guarda negli occhi, fisso. Poi a Sara. Poi di nuovo a me.

<<Stringi la mia mano . Chiudi gli occhi e butta fuori un bel respiro.>>

Si ferma un momento. Con gli occhi suoi che guardano in mezzo fra me e Sara, la bocca aperta. Da fuori arriva il rumore che fa la gente quando vuole divertirsi e non si perde l’anima dietro il tempo che passa.

Apre gli occhi che ci vuole mangiare. Che sono due specchi, che noi due là dentro ci vediamo.

<<Andate via. Riprendetevi la vostra roba. Non voglio niente. E poi sono stanco e le stelle sono coperte dalle nuvole. Andate via. Nuccia porta il sacco.>>

<<Ma noi volevamo sapere…>>

<<Non c’è niente da fare.>>

<<Ma almeno una cosa…>>

<<Non può essere. Questa sera, San Paolo ha voglia di babbiare.>>

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VI

Lo guardo sotto il sole tiepido di questa giornata di autunno. Un bagliore fiacco gli riga i capelli bianchi appiccicati alle tempie . Coperta dagli ulivi che arrancano sulla salita che porta al lago, prendo a schiaffi l’aria cercando di spezzare le nubi di insetti che danzano sulla dolce ninnananna delle cicale nascoste sotto le foglie. Chissà perché le cicale non si vedono mai. Sento il canto, ma loro non ci sono. Forse non esistono. E questa melodia appartiene alla natura, agli alberi, agli uccelli. Un coro che canta il silenzio. Affondo le mie scarpe fra i rovi, non voglio farmi vedere. Faccio piano. Dietro di me sento il vuoto, il salto. Mi volto, il mare è una riga sottile spaccata dal cielo. La mia sacca è piena di cicoria. L’ ho strappata alla terra pensando a lui. Per questo ci ho messo tutta l’energia delle mani e delle braccia per tirarla su, per questo le foglie sono venute via con tutte le radici. Ogni volta che le sentivo fra le mani, viscide mi sporcavano le dita del loro sangue verde, era come se il cuore della terra fosse tutto nel mio pugno. Un palpito, poi un altro ancora. E poi dentro al sacco. Era il suo cuore, il cuore di quel gran figlio di buttana che quando mi vede per casa fa finta che non ci sono. Io maledetta inutile femmina. Buona solo a raccogliere verdura. Mi giro, i miei occhi sono posati sul lago. Uno stagno di rane, libellule e sanguette al centro di un pianoro addossato ad una pineta, tagliato in due da una trazzera di pecore, dannati, e soldati. Soffocato da questa montagna che si butta in avanti, con il castello che vomita le sue figure su tutto quello che incontra. Il vecchio è dentro l’acqua. Intrecciato col fango e i sudori della terra. Vedo solo la testa. Se l’inferno c’è, deve essere così. Chiude gli occhi, le guance si alzano, le orecchie si muovono. Si morde il labbro inferiore. E’ seduto dentro lo stagno, che non deve essere tanto profondo.

<<Ecco io sono qua.>>

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<<Ero sicuro che venivi.>>

<<Come ti chiami?

<<Io sono Vincenzo, ma tutti mi chiamano Cecè.>>

<<Io mi chiamo Pina.>>

Si solleva dall’acqua e le sanguette sono tutte appiccicate sul suo petto, sulle spalle. Sembrano lumache, ma senza il guscio. Le strappa dalla pelle e le infila nel sacco di canapa, come alla tombola di natale coi numeri. Ed ogni volta rimane sulla pelle una chiazza rossa, una specie di prugna aperta..

<<Ma non ti fanno male?>>

<<Certo che mi fanno male. E’ il prezzo per stare un poco lontano dalla prigione.>>

<<Perché ti hanno portato qua?>>

<<Sono stati i piemontesi. Hanno ucciso i miei figli, hanno rubato la luce dei miei occhi. E io ce l’ho fatta pagare.>>

<<Zitto che se il re ti sente…>>

<<Si guadagnavano da vivere zappando la terra.>>

<<Ma perché non stavano con quelli con le camice rosse?>>

<<Loro non stavano con nessuno.>>

<<Ma quando sono arrivati però, con tutti quei cavalli bianchi…>>

<<E che ci interessava ai miei figli. Facevano il loro mestiere.>>

La sua ombra si arrampica su di me. Il sole che va calando dietro alla testa della montagna lo fa diventare un gigante. E io lo sento sopra la mia pelle che non è solo ombra ma è proprio lui con le mani e i piedi che mi viene addosso. Mi copre come una coperta. E io mi sento protetta dalla sua

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dannazione. La sua voce è tagliata alla stessa misura dei campanacci della vacche che si sentono dall’altra parte. Si stacca. Mi vesto di nuovo di sole.

<<Prima mi hanno levato la terra. Poi volevano prendersi i miei figli per darceli alI’Italia, sangue che non è nostro.>>

Lo sento, sta piangendo. A secco, senza lacrime. Che si dispera e fa a pugni con questo pensiero. E vorrebbe farlo a pezzi, per costruirlo di nuovo questa volta come piace a lui.

<<Loro qua con me volevano restare, col frumento e le vigne.>>

<<E non potevano parlare?>>

<<Non c’è stata ragione per farcelo capire. I miei figli quando si sono trovati le mani dei soldati di sopra, non ci hanno visto più e i pugni che sono volati parevano i razzi per San Giovanni.>>

<<Potevi mettere pace, spiegarcelo pure tu…>>

<<Li hanno portarti dietro la casa. Hanno preso lo pezza dello spaventapasseri e ce l’hanno messa sugli occhi. Io davanti a loro a gridare: lasciateli stare, ve li do come è vero Dio. I soldati mi hanno levato di peso. Uno diceva agli altri: puntate.>>

E si ferma, con la testa buttata di lato e lo sciacquo marrone attorno.

Trattiene il fiato. Lo butta fuori che si vede la polvere che galleggia sopra l’aria muoversi tutta. Si infila di nuovo nella gabbia di questi pensieri.

<<Ho gridato sparate a me . Non mi è rimasto più niente. Una cicala cantava. Fuoco. Due volte. Fuoco. I miei picciriddi come scorpioni scrostati dal muro sono caduti.>>

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Un’altra volta è sospeso. Con le parole che gli scendono nel fegato. E si sente il rumore che fanno quando una ad una le porta di nuovo all’aria.

<<Ho scavato dentro il petto per squartare dalla carne le palle di piombo che li avevano uccisi. Avrei voluto inghiottirmele, morire della loro stessa morte. Con le mani sporche di sangue, del sangue dei miei figli. >>

<<Il cuore dovevi strapparci a questi bastardi…>>

<<Erano morti, capisci, erano morti. Li hanno ammazzati . Avevano la tua stessa età. E me li hanno finiti, come a due grandi.>>

<<Ma perché ti hanno messo qua in prigione?>>

<<Lacrime di sangue ci ho promesso alle loro madri e qualche volta ci sono riuscito.>>

<<Allora sei un assassino?>>

<<Ho fatto quello che era giusto. Ce l’avevo giurato sulla loro testa.>>

L’acqua si schiuma di bianco e di azzurro. Con un fascio di montagna che finisce giù in mezzo ai vermi attaccati alle pietre. Cecè si alza e il cielo torna a specchiarsi nello stagno Un sorriso divide la sua faccia. Non capisco se è di dolore.

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VII

Ho gli occhi di Nicolino addosso. Trattengo il fiato. Sono confusa. Posa il mio sguardo dall'altra parte. Non vuole più giocare con me.

Le sue mani raccolgono la trottola, se la portano dietro la schiena. Mi guarda e sento che anche lui non è più mio. Anche lui è diventato un pezzetto di tutte le cose che ho visto, che ho perso. Sono ad un passo da lui. Sono una macchia che sporca questa strada di pietre gialle. E lui si confonde con le pietre. E io che sporco la vita di chi non ha dubbi, di chi è sicuro di essere sempre nel giusto. Sono una bambina , ma non lo vedete? Sono una bambina. Lasciata. Senza promesse. Con l’angoscia di sentirsi sempre qualcosa di diverso dagli altri. Ho imparato a sentirmi esclusa, a non chiedere nulla. Anche se non so leggere, scrivere, non so quanto fa due più due. Ci sarà tempo, giuro su Dio, che ci sarà tempo. E allora, sputerò a mare questi sguardi che mi inseguono dappertutto, gli occhi di chi mi maledice, perché non sono come i loro figli. Perché sono una femmina che ride, che gioca coi maschi. Perché corro con la faccia scossa dal vento da Punta Longa a Cala Nera, col sudore che mi bagna la camicetta, con la gonna per aria. Senza scarpe. Con i piedi pieni di sangue. Io che mi invento chissà cosa. Io che so cos’è il piacere. Io che ho i brividi, e loro non sanno nemmeno che cosa sono i brividi. Mi brucerebbero viva. Loro che non hanno storia. Loro che non sanno vivere. Mi brucerebbero per i miei brividi di vita.

<<Mio padre dice che non ti devo più vedere.>>

<<Ma perché? Se il mio migliore amico. >>

<<Ma ora siamo cresciuti.>>

<<E che vuol dire?>>

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<<Significa che tu sei una femmina . E io no.>>

<<Ma noi siamo amici.>>

<<Ma tu c’hai le minne.>>

<<E per questo non ci possiamo vedere più?>>

<<Si, per questo.>>

<<Ma noi siamo amici.>>

<<Non siamo più amici>>

E se ne va . Senza rumore. Si scioglie fra le traiettorie della piazza quadrata. Come il mio cuore che batte quattro botti diversi, come quattro tamburi. Come il campanile che dall’alto sorveglia il nonno di bronzo del barone Burruto al centro della piazza. Che sorveglia un cane vecchio come questo pomeriggio senza coraggio, disteso ai suoi piedi. Che guarda malinconico sfilare questo niente impastato col sale. Mi infilo la testa sotto la camicetta. Non voglio più vederlo. Rimango sola al centro dell’isola che gira come la sua trottola rubata ai nostri giochi, sacrificata. Devo fuggire. Via. Un’altra volta. Senza voltarmi. E quando riapro gli occhi sono già da un’altra parte. Coi piedi sul campo dove raccolgo la verdura. Staccata dal mare. Sento che qui ci sono tutte le ragioni che cerco. Lontana dalle suggestioni che vengono dall’orizzonte, lontana finalmente da altre isole, da altri sogni. Che è una dannazione vivere circondata dall’acqua. Sempre dalla mattina alla sera, con il tormento di affogare, sempre con la gola arsa di sale, con la sete che divora il cervello. Qua io ci sto bene. Io sono come loro, erba, alberi, lumache, insetti, scarafaggi, millepiedi. Sono come loro. Libera, ma dannata ad essere schiacciata. Raccolgo burrania, nivia, cicoria, qualeddu. Mi piace guardare il sole quando sono in mezzo alle verdure. Mi apro gli occhi, mi metto le mani ai fianchi e sfido la luce. Fino a sentirmi bruciare il cervello. Non abbasso la faccia, perché lui mi deve

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scivolare davanti, come tutta l’altra gente che vorrebbe non vedermi. Perché se io riesco a resistergli, allora ho vinto . Se resisto al calore del sole dentro gli occhi, resisto pure allo sguardo di mio padre. Quando le fiamme mi incendiano l’anima, io non ci penso che sono una maledizione per tutti, che tutti vorrebbero che io non ci fossi. Siamo solo noi due, io e il sole. Lui mi vuole bruciare e io so che lo guarderò fino a vederlo nero. E poi sarà il buio. E non importa se sono io che non lo vedrò più. Quello che conta è che io spengo il sole, con i miei occhi. E lui non c’è più. Perché io l’ho ucciso un poco alla volta. Come il soffio di un bambino quando dorme, che sembra il lamento di un moribondo è invece è una dolce cantilena. Mio padre come il sole deve morire. Fino a sfumare nell’oscurità.

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VIII

La ciarmavermi è sopra gli occhi miei. Il parrino dice che non è potente come a Ciccina che per lei vengono pure da Agrigento a farsi passare le malattie. Ma poco ci manca. L'ha toccata San Giovanni che è solo uno scalino sotto del paternostro. A Mimmo l'arabo, in due colpi l'ha graziato dalla malaria che si era presa a Tunisi. Ai piccirddi ci leva lo scantu, che quando gli spirti mettono paura agli innocenti, si vestono di vermi e abitano dentro il loro stomaco. Coi budelli e la carne che li pasciano, si scapricciano a sviare sangue e aria, e non li fanno ragionare più i picciriddi. Ciccina è una donna secca secca , con la faccia come un tufo scavato senza rispetto a mazzate . I capelli sono stoppa per accendere il fuoco nelle bocche di pietra dove cuoce il pane, fini e slavati. Mia madre mi ha portato qua perché dice che a me l'invidia della gente me li ha entrati nella pancia i vermi e per questo ora non ragiono giusto. La faccia è piegata in avanti come uno zucco di vigna segato dalla tramontana. La veste mia è alzata fino al mento e sono coricata sopra il letto del matrimonio suo. Le mani ruvide e leggere camminano sulla pancia nuda.

<<Ci sono, ci sono. Li sento muovere qua sotto. Maria santissima questa picciotta è piena.>>

<<Ma come fate a dirlo? Io bene mi sento.>>

<<Come le formiche fanno. Si spaventano di me, lo sentono che io ora li comando.>>

Mia madre è in piedi in un angolo della stanza. Vicina alla tenda ricamata con l'angelo che porta il bicchiere del vino santo a Maria santissima.

<<Zia Ciccina, chi è stato a metterceli alla picciridda?>>

<<Un momento, datemi un momento.>>

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La ciarmavermi si gira , allunga la mano sulla spalla di una sedia impagliata e se la tira sotto. Le mani non si staccano dalla pancia. Non dice più niente, si chiude gli occhi e dalla bocca escono due rutti che pure la vetrina della credenza singhiozza. Il petto si gonfia con due respiri che non finiscono mai.

<<Si, li ho visti. Hanno le facce di veleno e sono fimmine.>>

<<Picciotte che volevano a mio marito prima di mia, non è vero?>>

<<Si, loro sono.>>

Mi metto in mezzo con un colpo di tosse.

<<Ma come fate a vedere queste cose?>>

<<Io volo Pina.>>

<<Ma come fate, senza ali?>>

<<Esco fuori da questo corpo e l'anima mia si mette a guardare dal cielo, dentro le case dell'isola. E ci entro in ognuna per vedere chi parla male. E sento ogni cosa.>>

<<Ma se non vi siete mossa da qui.>>

<<L'anima vola, capisti? L'anima.>>

Si avvicina alla credenza e torna con un bicchiere vuoto e una brocca di olio. Ci bagna il dito, poi lo gira sopra il bordo del bicchiere. Lo alza sopra la fronte, lo attraversa con gli occhi e con un colpo forte come un pugno lo piomba sulla bocca dello stomaco.

<<Paternostro a luglio agosto e settembre salvaci l'anima ai penitenti. A ottobre novembre e dicembre tiraci il collo ai miscredenti. E per tutto l'anno facci passare u scantu a questa povera figlia tua che avi u malannu.>>

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Stacca il bicchiere e con la lingua si lecca l'olio. Bacia il fondo e se lo passa sul petto.

<<Tutto a posto. Ora è sciolta, come una creatura.>>

<<E i vermi dove sono?>>

<<Li ho incantesimati con le mani. Poi me li sono sucati col bicchiere

<<Ma io non vedo niente.>>

<<E perché tu ai santi li vedi forse? No, eppure ci credi.>>

<<Si, ma i vermi…>>

<<Domani mi viene a ringraziare che ti senti meglio.>>

Mia madre si avvicina e tutte e due si perdono risucchiate da una linea di luce. Rimane l’odore delle bucce d’arancia che si consumano sul braciere accesso.

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IX

Ora abito in una casa che è come me: sola, maledettamente sola. Ma ricca dentro di infinito . Una casa che di fuori è una punizione e invece dentro è un giardino di benedizioni e di illusioni svergognate. Non c’è un motivo per costruire una casa sugli scogli di Cala Torta, non c’è una ragione per stare qui ad abbracciare il vento, a squagliarsi per le mareggiate che quando sono forti accarezzano la strada, e leccano pure i gradini. Come una mano che naviga su un corpo nudo che dorme e che non sa quanta dolcezza si è persa. Il padre del barone Burruto l’ha lasciato scritto nel testamento prima di morire che questa casa doveva essere per Nino, per premiare la fedeltà alla sua famiglia. Che senza di lui non sarebbe così ricco, che senza di lui i suoi figli tutti incipriati e con i vestiti di pizzo, non disegnerebbero un cielo più bello di quello che c’è sopra l’isola. E’ un’altra prigione, ma almeno questa volta è quella che piace a me. Che se uno deve scegliersi come farsi male almeno lo fa guardando dritto, con la testa persa fra il cielo, le nuvole, le barche, le maree. Quella col tombolo sulle cosce è mia madre. E’ seduta sulla sedia di paglia, sul ballatoio di pietra che si affaccia sul giardino che è una mano aperta affondata nel tufo. E in mezzo alle dita, una esplosione di melograni, limoni, fichi. Colonne di pietra che si sbriciola, divorate alla terra, che si stringono forte agli alberi, per difendersi dalle tempeste che quando si scarcerano non risparmiano neanche Dio. Lei non ha nessuna espressione. E’ lì sospesa, col tombolo fra le mani; ogni tanto si ferma e a cosa pensa lo sa lei. A cosa farà per cena, se il suo padrone si addormenterà prima o dopo di chiederle cosa c’è da mangiare. Prima o dopo di buttarsi sopra di lei senza domandarsi cosa c’è sotto e a cosa è servito questo amore che è un colpo di catarro. Un follia piatta come questa sua vita trascinata. Che in principio lei, nica e sprovveduta, deve averlo voluto veramente se per non perderlo più, con la cosa fatta se l'è

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legato al collo. Mio padre ce lo rinfaccia ad ogni levata di sole, che per lui non c’era casa sull’isola che non avrebbe fatto carte false per averlo sopra l’altare. Mia madre si rosica la ragione per non avere dannato sua madre che con Ciccina spirugghia spirti si era messa a comunione, per incantesimarlo. E quando sospira non ha perdono per nessuna delle due. Ciccina pure ora che è vecchia, non ha perso confessione con gli spirti. A Matteo, il figlio del capo pesca della tonnara , per farci sposare la sorella di Nicolino, la strega due gocce di sangue della natura della picciotta ci ha messo nel caffè. Lui se l'è bevuto e prima della mattanza con velo in chiesa se l'è portata.

Mia zia suora è due passi più in là, raggomitolata su una sedia di paglia. Ha i capelli lunghissimi, acchiappati sotto il velo, appuntati da uno spillone che è un pugnale con la testa di perla che sembra una lacrima. Ha il volto chino sul crocifisso che le poggia sul petto, girato dall’altra parte, con le spalle che non si vedono. Che magari lui si vergogna a guardare in faccia questo suo povero mondo fatto di frittate, rammendi, secchi d’acqua riempiti al pozzo. E paternostri con gli occhi svagati da passioni lontane da lui. Attaccata alla stessa collana, pende pure una medaglietta smozzicata come l’ostia in chiesa spartita in due. Che a chiedercelo perché ci manca l’altra metà, lei ci dà la colpa a un ramo di mandorlo che maledetto, con le sue dita di legno l’ ha ridotta così che nemmeno pare una cosa di chiesa. Inghiotte saliva e culla i suoi fantasmi che non la fanno dormire perché io la sento la notte girarsi e rigirarsi e gridare nel sonno. Che una volta mio padre si è svegliato e le ha detto di che ti lamenti se qua non ti manca niente. E io sono là, seduta in cima alla colonna di tufo più alta, a guardarmi questo inganno. Senza parole, con la bocca amara di fiele. Di paura e di non c’è più niente da dire. Da quassù loro due sono come tutto il resto, senza colore. Per colpa di questo cielo di febbraio che stende un velo di dannazione sui colori infiniti di questo pomeriggio che è come la carta moschicida: le mosche ci muoiono sopra prima di avere l’ultima possibilità di uscire, una pezza

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che le rincorre fino a spalancare l’ aria. E io che volo come un gabbiano che torna dall’orizzonte su questa eternità che per un istante è mia. Il velo di mia zia pugnalato da una lacrima, mattoni rossi, il muro biondo, il tetto della casa, il comignolo del forno, le colonne di tufo rimaste in piedi, dopo che centinaia di uomini ci hanno buttato sopra il sangue, le foglie dei fichi, un melograno spaccato a terra con i suoi coralli persi sulla sabbia. Il muro, la strada, la roccia , il mare. E io che volo ancora sul mare. Io che sono dentro questo attimo, dentro questo pomeriggio. Io che non ritorno più. Ormai sono lontana, dall’altra parte del mare, per vedere cosa c’è.

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X

La Madonna chiusa nel mantello nero è davanti a me, col cuore straziato dalle pugnalate che sono lame, coltelli che squarciano di dolore la sua e la mia anima. Io sono all’angolo della casa del barone Burruto, di fronte al mare. La Madonna abbassa le spalle e vedo un triangolo del vecchio stabilimento dove salano il pesce, scolpito su uno scoglio, dirimpetto al porto. Poi di nuovo la spalla, poi ancora il camino dello stabilimento dove le sarde vengono schiacciate sotto sale. Si abbassa e si alza questo mio strazio, si avvicina e si allontana come un’illusione, come una notte che non vuole sputare il mattino, come una vertigine. Lei è sospesa sull’aria, sull’acqua, sui miei pensieri, sul tramonto. Dagli occhi lentamente una lacrima di vernice ruga la pelle di cartapesta. E io sono quella lacrima, quel pugnale, quel cuore divorato dal dolore. Ma sono anche la sua fierezza, la sua dignità di madre che non si piega, che gira il collo al tormento e alla maledizione. Lei che è tragedia ma anche amore e salvezza. Meravigliosa come la pace di un campo di papaveri mosso dal vento, bagnato dalla pioggia che scende come sbarre sull’aria. Dramma di chi ha perso il figlio e non le importa nulla se è Dio, perché lei lo vuole vivo. E perché altrimenti non soffrirebbe così.

Mio padre ha il vestito buono, quello delle promesse tradite dalla dimenticanza, quello del matrimonio e di quando esce col calesse la domenica. Quello vicino a lui è il padre di Sara, Mario Fascella. Loro, gli uomini del barone, sono due blocchi di pietra di quelli che servono a non fare sbattere le ruote dei carretti sui muri delle case, dentro i budelli stretti dell’isola. Hanno la testa allungata verso il molo, i capelli impomatati, i giummi rossi stretti al collo della camicia, come finimenti di giumenta. Sono obliqui, Imbalsamati ad un passo dall’acqua, pronti a salire sulla barca che fra poco attracca, col piede sospeso a mezz’aria. E insieme a loro gli uomini delle cave, quelli più vicini al padrone, e i capi

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pesca. Si dividono davanti e dietro, sotto le aste che sfilano sotto i piedi nudi della Madonna. Attraversano la corsia di legno e sono sul molo. La banda accompagna la paura di questa madre con il cuore spezzato. La paura di mia madre, di mia zia la suora. La mia paura che è diversa da quella loro. Perché io sento l’erba crescere e volo sul mare. La musica è’ un grido secco, scavato nei suoni dell’isola, aggrappato agli urli tolti con forza alla provvidenza in cambio del quieto vivere. Una musica lenta, lenta. Poi torna indietro, come un’onda. E si sentono i tamburi, le trombe; poi ancora lenta, lenta come un giorno che nasce da dietro un muro altissimo. Ora è veloce come il battito di un bambino appena nato, un giro di testa, un singhiozzo. Di nuovo lenta, un perdono, una confessione, un bicchiere d’acqua bevuto a sorsi per non farsi soffocare dalla tosse. Mio padre è il primo dei massarioti che si piegano la spalla sotto i bastoni della madre misericordiosa. Sul suo collo altre mani, braccia che si stringono per sopportare meglio il peso di questo gigante a lutto con la faccia insanguinata di lacrime e ricordi, di baci e di addii, di preghiere e di probabilità. Si fermano sotto il balcone dei Burruto. E si fanno tre volte il segno della croce. Perché Dio è in cielo ma loro sono in terra. Mi passa davanti, il naso di mio padre, un pezzo della sua faccia, la spalla, il collo abbrancato da altre dita. I capelli biondi di Sara si stagliano fra il mantello della Madonna e il cancello della camperia dove i pescatori ci tengono le reti , sotto il porticato sporco di catrame. Mi infilo dentro la processione, non mi vede nessuno, io sono un fastidio ai piedi e ai fianchi che si fa spazio fra questa carnezzeria di anime dannate a restare per sempre muscoli e grasso. Sono dall’altra parte. Vicino a lei.

<<Ti ho desiderata tanto sai.>>

<<Ma che dici? Stai zitta!>>

<<No. Ti ho pensata sempre.>>

<<Zitta.>>

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<<Sei la vita mia .>>

<<Non ti fare sentire.>>

<<Andiamo da un’altra parte.>>

<<Ma che dici.>>

<<Andiamo.>>

<<Ma tu sei pazza.>>

<<Voglio abbracciarti.>>

<<Ma quando?>>

<<Ora, subito. Ti prego.>>

Io stringo forte la sua mano, come una fionda. Con la mia paura tesa. Per scagliarla lontano da qui. E poi cercarla insieme a lei. Ha gli occhi che ho sempre pensato, non è diversa da come ogni volta me la immagino. Lei è come vorrei essere io. Bella, e desiderata. Io voglio lei, perché voglio essere io. Sara non mi allenta la mano, se la lascia stringere.

<<Sulla spiaggia. A quest’ora è deserta. Non mi rispondere. Io ti aspetto là. Tutta la notte. Poi un altro giorno, un mese, un anno, tutti i giorni, tutte le notti. Mi lascio morire fino a quando non ti vedrò.>>

La strada è buia, in un altro mondo. La Madonna da qui è il pendolo di un orologio che si affatica a battere le ore. La musica non si sente più, piombata dal respiro del mare che questa sera è un tappeto nero. Sono sola sulla spiaggia, con le gambe incrociate, so che l’acqua c’è, ma non la vedo, impastata com’è con questo cielo senza velo. Ora arriva, ora è qui. Mi gonfio il petto di vento e lo lascio così per un poco, fino a quando so resistere, con l’aria nella pancia per scacciare i fantasmi dell’attesa.

Ecco, i piedi sulla spiaggia, i suoi capelli biondi. E’ venuta.

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<<Ma cosa vuoi da me?>>

<<Niente. Solo starti accanto, lontana dai rumori. Tu sei la mia fidanzata.>>

<<Ma chi te l’ha detto?>>

<<Te lo dico io.>>

<<Ma non può essere. Io sono femmina come a te.>>

<<Ma un giorno me l ’hai giurato.>>

<<Ma è successo tanto tempo fa. Eravamo bambine. Era un gioco.>>

<<No, era amore. E’ amore.>>

Si siede, è accanto a me. E ride. E io le prendo ancora la mano e la stringo. E non ci diciamo più niente. Noi due da sole, dentro il buio. Con il cielo che ci casca addosso e il mare che si prende il ritmo dei nostri affanni e li fa diventare musica. Noi che da lontano sentiamo solo i colpi dei tamburi della banda, noi che da lontano vediamo un puntino nero col cuore spezzato. E non ci diciamo niente. E poi io che l’abbraccio. E noi che restiamo abbracciate non so per quanto tempo, schiacciate contro la notte che ci culla e ci perdona.

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XI

Nessuno aveva dubitato che il figlio della Turca, mio padre se l’era preso per farci uno sfregio alla buttana. Che quando i gendarmi sono venuti a cercarlo a casa mia, lui una risata si è fatto. E’ entrato nella camera, ha preso un sacco di monete. Ne ha contati tre a testa. E loro contenti se ne sono andati.

La prima volta che l’ho visto entrare dentro questa porta segnata dalla vergogna, forse era giusto che dovevo provare fastidio. Nessuno metteva parola che la turca era l’amante di mio padre. Che lui nessun mistero faceva che con lei ci piaceva divertirsi. La turca è una buttana. E lo sanno tutti che si piglia i tonnaroti quando le femmine dei pesci hanno la bava sulla bocca per la voglia che ci scoppia dentro e rimangono incarcerate nella camera a lutto. Si una buttana, ma nessuno deve parlare, perché si finisce nel fuoco solo a pensarlo. A dirlo già uno è bello e bruciato come un porco sulla brace. I soldi che non le bastano mai, mischina. Con tutti quei figli maschi che vanno correndo a destra e a mancina per l’isola. Un’ora ogni sera prima di tornare a casa. E certe volte ci dorme pure. Che povera madre mia pure questo dolore deve avere sulla coscienza. Da quando si è messo in testa che un figlio maschio deve nascere dal suo seme, non c’è stato giorno che non è venuto qua. Un figlio di buttana ha la sorte dalla sua parte. E lui dalla turca vuole farselo fare. Lei è sperta a fare masculi, un picciriddo ogni due anni è la prova provata che la sua non è solo abilità. E' destino.

Pure stasera è dietro questa porta. Io lo aspetto qua fuori, tanto non può starci tanto ad uscire. Quando sente quello sono venuto a dirle, la turca fra le mani mi cade come un fico dalla ficara. Io ogni mattina gli occhi di sopra ci metto, ma senza malizia. Passa a pigliarsi il pane da mastro Michele, alle spalle della chiesa della madre della pietà , nel fosso

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dei pescatori che qua loro ci tengono i gozzi ad aggiustare. I capelli sono neri che manco la notte li vede. E la carne, scura ma così scura che per questo la chiamano turca. Squagliato nel sangue deve averci un saraceno con la testa e i piedi, che non ce lo leva nemmeno Dio. Sull'isola, quando è arrivata, era una cosa di niente, dodici, tredici anni. Dicono che ce l' hanno lasciata gli zingari, che qua se li ricordano ancora per l'orso che abballava e la donna cannone, una femmina così grossa che dieci seggiole non bastavano a metterla seduta. I malaventurosi l' hanno rubata a Palermo in una casa grande con lo scudo sulla porta. Suo padre, chi dice principe, chi dice marchese, l'ha cercata per mare e montagne. E sull’isola l'ha trovata, grazie alle conoscenze del barone Burruto. Ma non c'era più niente da fare, la picciridda non era più sana come l'avevano presa. E suo padre di averla così non voleva saperne più niente. E che doveva fare sull'isola una femmina che non ha più rispetto di Dio? La buttana. E questo fece. I figli sono di tutto il paese. Uno assomiglia al macellaio, spiccicato, ma pure un poco al rais, però con la stessa voglia di caffè in fronte che ha il farista di Punta Calamisa. Un altro pare gemello del figlio del maniscalco. Il terzo ha gli occhi di spiritato del farmacista e le orecchie a paracqua del cardatore. Ma di mio padre, neanche l'unghia del piede Lei questa soddisfazione non ce la vuole dare. Lo sa, la buttana che se ci fa un figlio, lui se lo prende e il pane gli altri se lo possono scordare. Ma il padrone non è fesso. E due giorni fa, alla moglie di Sasà manipisciate, che tiene obbligo a lui per la pasta e il pane - che se fosse per suo marito, con un bicchiere di vino le farebbe passare la fame-, il sacco le ha fatto svuotare. Se l'è portata alla Grotta dello Scorfano, con la scusa di farla pulire perché vuole infilarci due carretti, e dalla bocca pure l'anima le ha tirato fuori. Lei parlava e io che a quell'ora mi metto lì dietro con la canna da pesca, sentivo.

<<Don Nino, quella è il maligno in persona.>>

<<Ditemi quello che sapete.>>

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<<La femmina persa, tutte le volte che si infila nel letto con vossia, un bicchiere di una cosa verde si mette nello stomaco, che ce l'ha preparata con le sue mani Ciccina in persona .>>

<<Hai capito l'arrusa…>>

<<Don Nino è tempo perso. Questa figlio non ve ne fa. La sua paura è che vossia ce lo leva per darlo a crescere a vostra moglie.>>

<<Ora ci penso io. Lei non me lo vuole fare? E io me lo piglio.>>

L'ho seguito come un cane di caccia. Ero sicura come la morte che andava a finire da mastro Berto che è uomo di panza e di fiducia suo. E cosi fu . Li ho sentiti con queste orecchie mettersi d'accordo per levarle il picciriddo. Per farcela pagare perché a lui per fissa nessuno deve prenderlo. Lo hanno portato al vecchio mulino, al figlio della buttana, del farmacista e del cardatore. E da tre giorni là lo tengono chiuso. La finestra a fianco alla porta si è accesa. Lui ora esce. Si aggiusta i pantaloni, attraversa la strada, si guarda attorno ed è sopra il carrozzino. Busso.

<<Che vuoi da me a quest'ora. Vattini. >>

La turca da vicino è più bella di quando la vedo entrare nel fornaio. Mi fa pena, come San Sebastiano in chiesa. Gli occhi sono ancora più neri del niuro della siccia. E dentro, montagne all'incontrario.

<<Voi cercate a vostro figlio?>>

<<Vattinni, non so niente.>>

<<Andate al vecchio mulino a prendervelo.>>

<<Ma tu, tu sei la figlia di …>>

<<Al vecchio mulino, ma non dite che ve l'ho detto io.>>

<<E poi signuruzzo mio , che faccio? Mi scanto, se mi ammazza.>>

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<<I gendarmi li avete mandati voi a casa mia?>>

<<Si, ma pure tu stai zitta…>>

<<Non vi fidate di loro. Lasciate l'isola. Domani, col postale. Il vostro lavoro lo potete fare pure da un'altra parte.>>

<<Si, domani. Non ce la do vinta a lui. Si, domani. U picciriddo, tutti e tre cu mmia. >>

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XII

Se n’è andata un’altra estate dall’ultima volta che l’ho baciata, sotto le stelle e con la Madonna come un’onda lontana. Non me la posso sbucciare dalla testa a Sara. La cerco pure oggi. Come ho fatto ieri e cento altre volte. Col fastidio per non averla vista. Sono davanti alla sua casa, la piccola guardiania di Palazzo Burruto. E lei finalmente c’è. Bella, col vestito a fiori, quello che piace a me. La sua mano è nascosta dentro quella di sua madre che fa finta di non vedermi. Si lascia alle spalle il cancello e strattona Sara dall’altra parte. Le serra la mano, le deve fare male, se lei non ha nemmeno la forza di girarsi la testa verso di me. Le corro dietro. Faccio il giro del palazzo, così me la ritrovo giù al porto ancora davanti. Sulla banchina una lunga catena di prigionieri appesi come chicchi d’uva al raspo è al guinzaglio di un uomo secco e lungo, con il berretto quadrato. Uno di quelli che ho visto su per la trazzera che porta al castello. Fra i prigionieri riconosco tre cavatori che lavorano per mio padre. Ma che hanno fatto? Ora sono fra la folla, fra le facce che accompagnano questo addio lungo come un lutto . Non ho perso Sara. Sua madre ha un fazzoletto in mano, se lo porta agli occhi. La mano regge come un pilastro portante la fronte, per non farla cascare a terra. Suo padre, mastro Mario è in mezzo ai prigionieri, la catena gli lega le mani e i piedi. E’ seduto a terra e guarda il postale, come un incubo che si avvicina. Sara lascia la mano e come una scheggia schizza fra la braccia di suo padre prigioniero. Io vorrei essere lì in mezzo a loro e gridare, salvare suo padre, salvare lei. Tenerla stretta fra le mie braccia. Liberare tutti. Come a nascondino. Riesco a gridare solo una parola

<<Perché?>>

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Non ci penso neppure a quello che sto facendo. Una guardia si avvicina. E mi chiede come mi chiamo e di chi sono figlia. Io dico di nuovo << perché?>>, ma questa volte a voce bassa.

<<Perché non sono dei buoni italiani>>,mi sussurra all’orecchio con un mezzo sorriso stampato sulle labbra.

<<Ma dove li portate?>>

<<Ma stai zitta e vattene a casa.>>

<<Lasciateli stare, non hanno fatto niente.>>

E questa volta mi sentono tutti. Pure Sara che si gira, sua madre, i prigionieri. Il soldato mi tappa la bocca con la mano e mi allontana con uno strattone. Finisco a terra. Lui è dritto sopra la mia testa.

<<Non sono fatti tuoi >>

<<Assassini siete.>> .

Un calcio mi inchioda la pancia alla schiena. Con lo stivale duro come la pietra, che mi sento muovere le budella dentro, che mi viene da vomitare. E attorno a me quelle facce pronte per l’addio che non si muovono, che continuano a guardarsi lo spettacolo dei prigionieri che se ne vanno. La caserma dei gendarmi è all’angolo del porto. Sara non la vedo più ormai. Per il dolore mi tengo chiusi gli occhi e la bocca spalancata per afferrare l’aria senza fare fatica, perché appena la pancia la inghiotte, le ossa si muovono e mi sembra di morire. Cammino piegata in due, non posso raddrizzarmi. Mi fa male tutto. Un altro calcio. Ma io non cado resto così some sono. Mi porta dentro una stanza buia, puzza di canfora e di piscio. C’è un tavolo di legno e un vaso da notte. Mi butta dentro. Sento solo il rumore del chiavistello che si chiude. Quando vedo mio padre parlare col capitano dei gendarmi, non deve essere passato molto tempo. Forse ho dormito oppure il dolore mi ha accecato la testa, la ragione.

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<<Svergognata, ti sei fatta mettere pure in prigione.>>

Io non alzo la testa

<<Cosa hai fatto, cosa hai rubato?>>

Ed io muta , raggomitolata sul tavolo.

Non lo so cosa si dicono i due bastardi. Ma sento il chiavistello riaprirsi.

<<Esci e vattene a casa. E non farti più vedere da me.>>

Io non riesco a camminare. Un gendarme mi aiuta a rimettermi in piedi, con le mani sotto le ascelle. E lui, guardando quello che mi ha preso a calci:

<<La prossima volta spezzatele le gambe.>>

Non gli importa nulla di me. Nemmeno davanti a un sopruso, accende la luce della memoria per guardarmi nel buio della sua vita. Io non gli appartengo. Io che vorrei un padre, una mano fra i capelli. Un sorriso che perdona, il dito che mi dice vieni qua, un altro che si apre e diventa un abbraccio. Io sono una bambina. Dove sono le carezze, chi me le ha mai fatte? Sono figlia di nessuno, non sono sua figlia. Io sono nata dal vento, dal mare, dalle stelle. Dove sei Sara? Salvami. Non rinuncerò a te. Il cielo non è di mio padre. E’ nostro. Che il nostro amore ci porti via da qui. Mi metto in piedi. Mi alzo la camicia, una chiazza rossa di sangue è spalmata sul fianco ed ha i contorni dello scarpone del gendarme. Scappo, corro, con tutto il fiato che ho in gola. Mi fermo alla fontana, dietro la chiesa. Mi lavo la faccia. Mi guardo attorno, al porto non c’è più nessuno. Come un cardo spettinato e piegato dallo scirocco che quando viene il sereno si aggiusta un poco alla volta, mi raddrizzo. A casa trovo la porta aperta. Lui è dentro. Io non voglio vederlo. Passo da dietro, la finestra si apre con una spinta. Mi butto sul letto.

Mia madre entra con la testa bassa.

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<<Che hai fatto?>>

<<Niente.>>

<<Tuo padre mi ha detto che sei andata a sfottere i soldati al porto.>>

<<Hanno arrestato il padre di Sara.>>

<<Non voleva partire soldato.>>

<<Ma Sara e sua madre piangevano.>>

<<E tu che c’entri? Non sono fatti tuoi.>>

<<Ma io amo Sara.>>

<<Ma che dici, svergognata. Tu sei una femmina come a lei.>>

<<Ma lei è l’unica che mi ha dato un bacio, che mi ha abbracciato.>>

<<Basta, zitta. Non voglio sentirti. Tu sei malata.>>

<<Tu, mamma perché non lo hai mai fatto?>>

<<Basta!>>

<<Perché non mi hai mai spettinato?>>

<<Zitta!>>

<< Mi hanno presa a calci, mamma. E tu non c’eri.>>

<<Non dire più niente.>>

<<Perché lui non mi vuole.>>

<<Ancora?>>

<<Perché tu hai paura di lui. E per questo ora sto male. Ma io ti giuro che ti libero da questa vipera che hai nel fegato. Ti giuro che ti libero. Ci aggiustiamo le ossa e poi voliamo pure noi, come la ciarmavermi.>>

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Le sue spalle si alzano, lei vuole camminare, un lampo e mi sfiora con una mano. Si, lei vuole stringermi. Ma perché non lo fai? Cosa ti tiene? Mamma stringimi, abbracciamoci. Ho paura. Niente , la porta si chiude e lei non c’è più. Il cucchiaio che sbatte sul piatto, il bicchiere che sbatte sul tavolo. Come ogni sera. Silenzio.

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XIII

Il padrone mi ha restituito la sacca per strappare la verdura. La punizione gli è sembrata sufficiente. La lezione mi è bastata. Pane, acqua, buio. E io che ho dormito sprofondata nel sonno. E io che non ho avuto paura di lui, nemmeno col pensiero. Ho bruciato ricordi, presente, emozioni, brividi. E mi sono confusa nel sonno. Sono tornata di nuovo all’aria, a cavallo dell’isola. Un colpo di vento solleva la polvere. Una nuvola di sabbia e di sale, si infrange sul mattino. Un velo si alza come un fantasma dalla terra, attorcigliato, inginocchiato. Disteso lungo lungo come un morto. E quando sembra finito, perduto, è in piedi per dissolversi nel cielo. Sul lago resta solo un soffio, una sottile increspatura come una mano che naviga sull’acqua. Cecè è annegato nel suo brodo, con questo scirocco che gli ronza attorno. Coperto dal sudario di fango e di vermi. Dorme. No, si muove. Piccoli movimenti. Di castigo. Di vita. Come il polpo morso alla testa che finisce nella pentola, sul fuoco. Che pare che è morto e invece bisogna tenergli la testa sotto con un coperchio per non farlo uscire, per fargli dimenticare il mare. Ma lui sta dentro l’acqua, cuoce, ed è vivo. Il vecchio dovrebbe insegnarlo ai polpi come si fa a resistere al dolore di quest’acqua e a restare vivi. Si salverebbero anche loro. Che a nessuno verrebbe in mente di addentare i tentacoli di un polpo vivo. Vivo che si muove sul piatto prima di finire in bocca. E si mette a duellare con la lingua per schizzare fuori, per squagliarsela insieme agli altri pezzi di carne, per ritrovare la testa piena di inchiostro nero e rimettersela sopra. E giù, fino al mare. Con la saliva della forchetta appiccicata addosso.

<<Ti aspettavo>>, mi dice con gli occhi piccoli e svagati dalla tortura. La mano appesa su un pezzo di carboncino danza su un foglio di carta.

<<Anche io>>, e alza gli occhi su di me

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Ora posso vedere cosa fanno le sue mani. Sopra un foglio di carta disegnano il mare e una barca. E in fondo un’altra piccola isola.

<<Ma da qui non si vede l’isola delle Lucciole…>>

<<Si, ma io so che lei c'è. E’ un mio pensiero.>>

Lo gira e si mette a disegnare la mia faccia. Ci sta un momento.

<<Tieni è tuo.>>

<<Ma io non sono così bella.>>

<<Il desiderio che hai di scappare ti fa così bella.>>

A tradimento, piove. Le gocce piegano la sua carne, colpiscono il lago come palle di cannone. Cecè tossisce due volte. Si stacca due sanguette dalla pancia. L’ultima si è appiccicata con tutte le radici, le sopracciglia finiscono sul naso. Le dita sono temperini che si affondano fra la coda del verme e il capezzolo. Il pollice e l’indice si stringono e tirano. Si sente un rumore di bottiglia. Un rivolo di sangue si perde nel fango. Come un torrente che muore nel fiume, ma prima si è divertito a giocare coi sassi e le cascate.

<<Aiutami ad uscire dal fango.>>

Lo sorreggo dalle spalle, dritta, sopra un pezzo di tufo dimenticato. Si alza, coi pantaloni attaccati con lo spago , inzuppati di questo sugo schifoso. E ‘ la prima volta che lo vedo così, fuori dall’acqua, di giorno. E’ più vecchio ancora. Ci sediamo vicini, con la testa appoggiata su un tronco, al riparo.Trema come una foglia prima di scomparire nel vento.

<<Ma tu chi sei?>>

<<Una picciotta come tante .>>

<<No, chi sei veramente?>>

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<<Una picciotta, sola>>

<<E perché?>>

<<Perché le uniche persone che amo sono prigioniere.>>

<<E di chi?>>

<<Uno è un vecchio che si strappa il sangue per farsi morire ogni momento, per non appartenersi. L’altra è una picciotta che non posso amare perché non è possibile. Perché io sono una femmina. E lei pure.>>

<<Io non sto morendo. E il tuo amore è li, vivo.>>

<<Non potrò mai vivere felice con questo difetto. Senza Dio.>>

<<Ma tu sei una Viola.>>

<<Una Viola? Chi il fiore?>>

<<La Viola è un pesce e lo ha voluto Dio. Quando è maschio si chiama Minchia di Re Per amore diventa femmina e ha i colori del fiore. Torna di nuovo maschio, dopo che l’acqua si è presa le sue uova.>>

<<Ma io sempre questa resto.>>

<<Tu devi solo morire un poco, per tornare a vivere come vuoi tu.>>

<<Ma come si fa, senza farsi troppo male.>>

<<A mare il calamaro dopo che ha perso le uova, muore di disperazione. I pesci briganti sono lì attorno, con la bocca aperta per sbranarselo, piccolo e tenero. Ma se lui resiste alla paura è salvo. E muore di vecchiaia. Perché ora è lui, grosso com’è, che fa paura agli altri.>>

Il vecchio si inclina , con il pugno sulla terra. Mi accarezza. Le sue dita ruvide strisciano sulla mia testa. E io resto senza cose da dire. Piena di vento e di pace.

<<Si, ma tu muori veramente , vecchio.>>

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<<No, vieni ti faccio vedere una cosa. Prendimi quel bastone.>>

Camminiamo su per la montagna. Passiamo per una stradina che non faccio mai, una lingua di roccia addossata ad uno sperone, proprio sotto il castello.

<<Vedi quella pianta?>>

<<Si. È burrania.>>

<<Di fuori è uguale alla burrania. Ma dentro, il suo nettare è veleno. Prendi queste quattro sanguette. Aiutami ad attaccarle alle foglie.>>

<<Ma a che serve?>>

<<Le sanguette si infettano il sangue. Così i bastardi, coi salassi si bucano il fegato.>>

Il vecchio ride. La bocca spalancata. Ride con il vento che entra ed esce dalla sua bocca. E il vento che mi accarezza la faccia è il suo vento, la sua risata, i suoi occhi piccoli che lanciano aria. Che mi riscaldano.

<<Ora vattene. E’ tardi. Devo portare il veleno ai miei prigionieri.>>

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XIV

Il padrone spalanca la porta del mio giaciglio, io dormo, non è nemmeno l’alba. Non mi guarda, sulla sua spalla c’è qualcosa, un vestito da femmina. Lo tira e finisce sul mio letto. Come un aquilone senza vento. La voce è un tuono di metallo che si spezza nel vuoto.

<<Ti fici zita. E le zite non puzzano di erba morta e di merda di vacche come a tia . Profumati e mettiti questo vestito.>>

E’ la prima volta che lui mi parla senza insultarmi, ma sento i suoi occhi accesi contro di me. Io illuminata dal suo disprezzo.

<<E senza fare storie che questa volta ti ammazzo.>>

E rivolto alla zia e a mia madre: <<Pensateci voi.>>

La porta di casa sbatte contro il telaio di legno due volte. La zia suora e mia madre sono in un angolo, di fronte alla mia stanza, con il palmo delle mani spiaccicato sul ripiano della cucina a legna. I loro piedi battono il tempo della mia disperazione.

<<Hai sentito tuo padre?>>, dice la zia. <<Stasera ti fai zita.>>

<<Ma io non voglio farmi zita.>>

<<Buonaventura è un bravo ragazzo.>>

<<Buonaventura?>>

<<Il figlio di Ciccio Lo Presti.>>

<<E che ci devo fare io con Buonaventura?>>

<<Tuo padre ti ha fidanzata a lui.>>

<<E tu, mamma non dici niente?>>

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Non dice niente, punta dalla solitudine, innamorata del suo dolore che le tiene compagnia come un’ossessione. Muta sta, sprofondata nella pace di questa casa che è più rumorosa dell’inferno. Le onde del mare sono polmoni di vecchio, il vento grido di gabbiano ferito, le foglie che si muovono dappertutto, spiriti maligni. Ed io che guardo mia madre che non ce la fa a sfidare la mia condanna che è la sua consolazione.

<<Io non voglio.>>

Singhiozzo, piango ma di dentro . Che loro non devono saperlo che io sto male, che ho i pugnali nel cuore come la madonnuzza.

<<Basta. Oggi ti fai zita. E poi ti mariti. Come tutte le femmine.>>

Mia madre, piano con un sospiro: <<Se non ci vai ti ammazza.>>

E la zia come una rincorsa.: <<Non se ne parla più. Stasera tu e tuo padre andate a casa di Ciccio Lo Presti.>>

Il mio padrone è avanti, nemmeno si volta per vedere se ci sono. E’ sicuro lui che io sono cosa sua, che col bastone si ammaestra l’asino. Come un cane che ha ancora i segni del nervo sulla schiena, mi avvicino al mio dolore, senza prendere però le distanze dalla ferita; questa volta sono io il sangue. Con i pensieri pieni di paura, di non so cosa fare. Mi hanno riempito di profumo, che me lo sento addosso, che mi germogliano le narici. Buccie di mandarino fermentate dall’aria bruciata dell’inverno e appiccicate sotto le unghia, naftalina spalmata sul vestito grigio di lana che mi arriva alle scarpe e me le copre. E c’è pure il profumo dell’isola di quando comincia a fiorire la notte: vaniglia, lavanda, mare, il sole che se n’è andato e lascia il posto vuoto e questo vuoto lassù in cielo che fa odore di cenere e di rosa canina. La casa di Buonaventura è in fondo alla stessa strada mia; sotto si sente il mare muoversi, poi non c’è più affondato dalla roccia che più sopra diventa montagna. Questo rumore di ali schiantate contro il vento sono i pipistrelli. O forse sono io che volo sopra uno di loro. Chi sono quei due punti laggiù che si muovono? Uno lo

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conosco degenerato che è , ma l’altra chi è? No, non posso essere io. Che ci faccio vestita in quel modo. Dio mio dove vado? Che il mare mi fermi, apra una voragine e mi inghiotta. Io che odiavo Ventura che era il figlio che mio padre avrebbe voluto avere: ubbidiente e lavoratore. Io che quando ci vedevo la fionda nel pugno, non lo guardavo neppure e andavo a giocare con Nicolino. E lui rimaneva da solo con la fionda incarcerata fra le dita. Certe volte però mi faceva pena e quando lo incontravo da sola, mi piaceva correrci assieme sulla spiaggia, perché sapevo che ero più forte io. E staccavo salti sull’acqua della riva con le mani in cielo, perché io l’avevo battuto. E ora lui è davanti a me per diventare mio marito. Come un mulo che con l’obbligo deve sposarsi una mosca. Non sta fermo un momento. La sua sedia, ha una gamba più corta delle altre. Fa peso sulla spalla, poi sulla pancia. Ora è sospesa sui mattoni fiorati del salotto buono. Io non me lo ricordavo così grande.

<<Si è fatto un uomo tuo figlio.>>

<<Nino, a Sfax le spugne non sono cose di signorine. Ci vogliono muscoli per prenderle. Tre anni l’ho fatto stare là, in Tunisia. A desiderare il sole che ce l’aveva in testa ma non poteva guardarlo per non accecare, con gli occhi buttati nello stomaco del mare a pugnalare spugne. Ventura diccillo tu a Nino come te la sei passata.>>

<<Mi sono rotto le ossa, ma ora ho un lavoro, ho soldi miei.>>

<<E tu Pina te lo ricordi a Ventura, vero?>> , mi dice suo padre

<<Certo che me lo ricordo.>>

<<Allora Ventura, quando vuoi, valla a trovare a Pina.>>

<<Vieni quando vuoi, Ventura>>, dice mio padre con un occhio accesso sopra di lui e l’altro spento sulla mia ombra.

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E io? A me non chiede niente nessuno? La mia bocca è terra senza acqua. Ventura mi stringe la mano. Ma non se le ricorda le corse sulla spiaggia?

<<Ci vediamo lunedì. Ti porto i cannoli, ti piacciono i cannoli, Pina?>>

Non rispondo. Abbasso gli occhi e sono già a letto.

Questa è la seconda volta che prego. La luna trafigge il buio che c’è nella mia stanza, e mi fa compagnia vederla uscire a soffi dai buchi delle persiane e disegnare gabbie di bagliori sul muro

Dio mio, io non so cosa sei. Ma oggi devi stare vicino a me, ho bisogno di te. Io non lo voglio a Ventura. Io voglio a Sara. Lo so che in chiesa lo dice pure il prete che i maschi devono volere le femmine e nel timore tuo devono fare figli. Ma dice pure che dobbiamo amarci tutti. Dio mio, lei è l’unica persona che io amo. Non lo so come è successo, ma lei mi fa venire in testa baci, abbracci, carezze. Non è il diavolo. E’ la natura e così mi hai fatta tu. Io con rispetto parlando sono una Minchia di Re. Un pesce, che come ti è venuto in testa di farlo, solo tu lo sai. E io precisa come a lui sono. Fammi trovare il coraggio di dirgli che non posso farmi zita. E se poi mio padre mi vuole ammazzare, giurami che almeno tu lassù mi terrai un poco fra le tue braccia e mi spettinerai i capelli, e mi bacerai, e mi perdonerai. Perché se sei il padre di tutti, allora sei pure il mio. Amen.

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XV

La sacrestia della chiesa Madre è una stanza ammuffita ricoperta di sedie di legno che arrivano fino al soffitto. I muri trasudano il profumo dei dolci delle suore di Sant’ Antonio che qua dietro hanno il convento. Cannella, formaggio, mandorle. Legna bruciata, nostalgia. Si, c’è dentro pure il profumo della nostalgia. L’odore del pane fatto a casa, la cenere e l’acqua per il bucato, il carbone per i ferri da stiro, la naftalina per il corredo. Nostalgia di una vita normale lontana dalle regole volute dagli uomini e non da Dio. Suor Speranza lucida con il cotone e la soda un crocifisso d’argento. La vedo dalla porta della sacrestia, vicina al confessionale. Mi guarda fisso e le mani vanno per conto loro. Si vede che è curiosa di sapere che ci faccio io qua, io che in chiesa ci vado quando me lo ordinano, ma senza voglia perché Dio ce l’ho con me ogni giorno, ogni momento. Le lacrime sono la mia chiesa. E Dio l’unico consolo che ho. Di fronte c’è un Cristo di cartapesta, appoggiato a un tronco di albero trafitto di spine che si conficcano sulla sua crosta. Ha una corona di chiodi e una barba di paglia e mi guarda come se da me pretendesse pietà. Padre Pantaleo è un uomo basso, coi capelli bianchi e la faccia quadrata. Ha un neo sulla fronte grosso come una nocciola. Sento i suoi passi che partono da lontano. Mi metto in piedi, mi sistemo la gonna. Fisso la suora che non ha smesso di guardarmi per un solo istante e questa volta decido di non staccarmi nemmeno io da lei. Fino quando non entra Padre Pantaleo. E lei che abbassa gli occhi e si sposta sull’altra sedia a pulire l’argento, per non farsi vedere.

<<Allora signorina, ti devo fare gli auguri.>>

<<Che auguri?>>

<<Come? ti facisti zita.>>

<<Ma perché mi ha fatto chiamare?>>

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<< Perché ora ti aspettano nuovi doveri e tu devi cominciare a pensare alla comunione.>>

<<E quali sono questi doveri?>>

<<Devi comportarti bene col fidanzato. Ventura è un bravo ragazzo, timorato del Signore. E poi devi pensare pure che un giorno dovrete sposarvi e dovete arrivare puri a quel giorno.>>

<<Ma io sono pura così.>>

<<E’ meglio parlare chiaro figlia mia. Tu e Ventura ora che siete ziti non vi dovete baciare, non dovete desiderarvi. Mi sono spiegato?>>

<<No.>>

<<Sarò più chiaro. Se Ventura ti dice dammi un bacio, oppure toccami sotto che mi piace. Tu ci devi dire no, non lo possiamo fare, il parrino non vuole. Andiamo all’inferno.>>

<<Ma io con Ventura non ci devo fare niente. E poi io non lo voglio, parrino.>>

<<Questo è un guaio figlia mia. Ventura è un bravo ragazzo e a lui devi volere bene. Così ha deciso tuo padre. >>

<<Ma mio padre può decidere per lui. Io che c’entro?>>

<<No, figlia mia, queste cose non si dicono, non si pensano nemmeno. Dio non vuole. Vuoi fare arrabbiare il Signoruzzo nostro?>>

<<No. Ma lui non deve fare nemmeno arrabbiare a me. Io niente ci ho fatto a lui.>>

<<Tu devi ubbidire a tuo padre. C’è scritto nei comandamenti.>>

<<Si, ma io non so leggere.>>

<<Ma che ragionamento è?>>

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<<Dio ha fatto i comandamenti per chi sa leggere.>>

<<Ma chi ti ha contato queste fesserie che non hanno piedi?>>

<<Le penso io parrino.>>

<<Vade retro Satana. Suor Speranza, Suor Speranza. Venite presto.>>

La suora apre la porta ed è come se non avesse aspettato altro, tutto il tempo dietro la porta.

<<Vostra serva, reverendo, mi comandasse.>>

<<Portate l’acqua benedetta.>>

Apre lo sportello di un ‘armadio grande quanto tutta la parete, intarsiato con le facce di santi e cherubini ed esce fuori una coppa di acqua.

<<Ora potete uscire Suor Speranza.>>

<<Ma che mi fate parrino?>>

E comincia a battersi il petto, a segnarsi con la croce, a girarmi attorno con una ciotola sopra la mia testa. Fa scattare la mano come un ragno aperto sulla mia faccia e mi bagna tutta di acqua benedetta . E ripete come una cantilena frasi che non capisco, come quelle che dice a messa che mia madre mi ha contato che è la lingua di Dio.

<<Ma parrino che fate?>>

<<Vade retro principe degli inferi. Vade retro. Vade retro.>>

<<Ma io non c’entro niente col diavolo. Io voglio bene alla madonnuzza nostra.>>

<<E allora ubbidisci a tuo padre. Dimmi che ubbidisci a tuo padre.>>

<<Ma io sono mia.>>

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<<No, tu sei di tuo padre e tuo padre è come Dio, lo rappresenta dentro le quattro mura della tua casa. Se non ubbidisci a tuo padre non vuoi bene al nostro signoruzzo e lui poi ti manda all’inferno.>>

Mi alzo, inzuppata come il pane nel latte dalla testa ai piedi.

<<Stai seduta che non ho finito.>>

<<Me ne vado parrino. Quello che voglio fare io non è cosa sua e nemmeno del suo Dio. Appartiene a me e al mio Dio che è quello giusto e che perdona senza volere niente.>>

<<Sei presa dal maligno, figlia mia. >>

<<Lui è morto in croce. Aveva la barba e i capelli lunghi. Quello suo, non lo so che fine ha fatto.>>

<<Povero Nino, povera madre tua! Non gli dirò nulla per non farli morire, Cristo mi dovrà essere vicino per negargli questo dispiacere, per nascondere questa tragedia.>>

<<Gesù non c’è vicino a lei, parrino. Lei è solo. Come me.>>

La suora mi vede sbattere la porta e correre per il corridoio. Verso il mio Dio lontano.

Il sole è quasi scomparso. I prigionieri con la catena ai piedi si trascinano stanchi su per la strada della Madonna della Cava . Fanno rumore i ferri che si avvitano come vermi sul terreno. Grida e stridori appestano i suoni di questa sera che va al patibolo. Le parole rimangono come assorbite dalla catene che le consegnano ad altri rumori che qui non hanno più nulla di umano: il vento che fischia fra le zabbare e si perde nell’alito del mare, il cigolio lontano di una bicicletta, una mamma che da qualche parte sta urlando il nome del suo bambino per farlo tornare a casa perché è tardi ed è ora di mangiare. Mi fermo e guardo il cielo. Non mi interessa se mi stanno cercando oppure no . Questa sera non ho

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voglia di tornare a casa. Le stelle, quelle sì che mi possono stare a sentire. Mi apro la testa e faccio uscire come cani arraggiati i miei pensieri per vedere dove arrivano. Se vanno a finire fino a lui, che ha orecchie e occhi dove ci sono disgraziati come a me. Ma non sento niente, silenzio. Pure il signoruzzo nostro dorme a quest’ora. E non lo conto il tempo che se ne va . Così col naso dall’altra parte della testa, a succhiare la notte . Un’ombra devo diventare. Nera come questo buio. Nera come la sputazza della seppia. Che lui nemmeno mi deve vedere che ci sono. La porta è aperta, stesa sul maestrale che infuria sulle onde che si ammazzano fra gli scogli, sotto a Cala Torta.

<<Entra dentro, e racconta a tuo padre cosa hai detto a padre Pantaleo.>>

Sento solo la sua voce, mi ha visto arrivare, mi ha aspettato.

<<Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome tuo e venga il tuo regno…>>

<<Sì, brava, brava, prega. L’abbiamo religiosa questa figlia.>>

E’ fuori sulla veranda, con gli ami e la lenza.

<<Vieni, che noi due dobbiamo parlare, giusto?>>

<<Dov’è la zia?>>

<<Facciamo a modo mio. E così vediamo se ti piace o non ti piace Ventura.>>

<<Mamma, zia, aiuto.>>

Ho gridato aiuto. E’ la prima volta che lo faccio. Sono una vigliacca. Dai bastarda, diglielo che vuoi essere lasciata in pace, che tu sei una Viola. Diglielo.

<<Lasciami stare.>>

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<<No, non ti faccio male. Voglio solo darti una lezione. Così te lo ricordi chi comanda qua, a casa mia.>>

Mi afferra il collo, la testa è sotto la sua ascella.

<<Ora stai ferma. Se ti muovi ti finisco.>>

Mi manca l’aria, mi uccide.

<<Allora lo vuoi o no a Ventura?>>

Mi gira la testa, mi fa male la bocca dello stomaco.

<<Che hai detto? Non lo sento.>>

Mi molla piano.

<<Dio mio.>>

<<Lascialo stare a Dio. Rispondimi: lo vuoi o no a Ventura?>>

<<Dio mio>>, grido

Le urla fanno uscire la zia suora dalla camera.

<<Lasciala stare. Così l’ammazzi.>>

<<Meglio è. Ci siamo tolti questa vergogna di mezzo i piedi. Devi ringraziare Dio che sei nata da me. La gente ha la mano trattenuta dal mio santissimo nome. Buttana e svergognata che sei. Stai attenta a cosa fai domani con Ventura.>>

Mi sputa in faccia il suo odio che sembra scirocco. Mi appiccica sulla fronte, ovunque.

<<Rispondimi. Lo vuoi a Ventura?>>

<<Sono una Minchia di Re.>>

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<<Minchia di Re e che c’entrano ora le minchie di re? Tu sei pazza, una pazza ci ho dato al figlio di Ciccio Lo Presti. Perdonami madonnuzza mia. Perdonami. Ma io questa la scanno.>>

La zia suora è fra me e lui. Io piantata sul muro della cucina con le sue mani grosse e sudate che si azzuffano sulla mia faccia.

E io sempre più forte; <<Sono una Mischia di Re, papà.>>

<<A mare allora devi stare. E ti ci butto io, con queste mani, se fai la pazza con Ventura. Devi ringraziare a padre Pantaleo se ti lascio viva.>>

Mi chiudo la porta alle spalle. Sono salva.

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XVI

<<Mangiatevene un altro zio Nino che questi cannoli mia madre li ha fatti questa mattina con le sue mani. Alle cinque ha tirato dall’olio bollente le ultime scorze. Io non ho resistito al profumo di frittura che c’era a casa, mi sono alzato e con la paletta di legno magari io ci ho messo il cuore a riempirli di ricotta. E preciso a come facevo da bambino, di nascosto due in bocca sono finiti. Che povera madre mia, alla fine i conti non ci tornavano. Ma che ci posso fare? davanti alle cose duci , sono una creatura.>>

<<Hai ragione Ventura, zucchero sono. Peccato che tutto questo mangiare ci ha levato pititto . Ma più tardi un altro colpo ce lo diamo.>>

Il mio cannolo è massacrato sul piattino di quando si è sposata mia nonna; il servizio buono piglia aria solo a Natale e quando ci sono visite importanti: il parrino, la superiora del convento, il dottore. Stramazzato sulla porcellana fra i fiorellini rosa del bordo e la faccia incipriata di una dama con il tupé in testa, velata da un reticolato grigio come i terreni quando l’acqua non ci arriva. Ho mangiato per forza, un pezzettino alla volta per non avere mai la bocca vuota. Ventura ha un vestito di velluto marrone, la brillantina in testa che la puzza che fa è più forte di quella del pecorino coi vermi, il naso storto come a suo padre, due occhi azzurri che sono l’unica cosa che c’è da pigliare. Non mi ha guardato nemmeno un poco durante il pranzo. Io sono seduta di fronte a lui come si conviene alle promesse spose, con le mani incrociate sulla gonna e il rosario che pende dalla tasca.

<<Io ora mi metto un poco a letto>>, sbadiglia il padrone stirandosi le braccia e le gambe.

E facendomi segnale col dito: <<Tu accompagna Ventura a pescare le anguille nella gebbia.>>

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Scendiamo le scale secche di tufo, una rampa, la seconda, la terza. Siamo soli. La luce del pomeriggio è stanca, allampanata, sbiadisce i colori del tufo e lo fa diventare bianco come la calce. Lui si ferma a raccogliere una canna e con un pezzo di ferro filato si fa un amo.

<<Io con i soldi di Sfax ho comprato una casa a Capo Mulino. Ti piacerà starci vedrai.>>

<<Si, ma io non lo so se ci vengo.>>

<<E perché?>>

<<Io non lo so se ti sposo.>>

<<Ma tuo padre, mio padre, loro hanno detto che era tutto fatto fra noi due.>>

<<Loro non sanno niente di noi due, se ci vogliamo bene, se vogliamo sposarci. Tu che ne sai di come sono fatta io?>>

<<No, non lo so. Ma mio padre mi ha detto che la tua è una buona famiglia.>>

<<E che vuol dire?>>

<<Che tuo padre è un lavoratore, che avete soldi e terreni. Che tu hai una buona dote. Che siete servi di Dio. Che tuo padre porta sul collo la madonnuzza.>>

<<Tutto sacrosanto. Questo è quello che si vede. E quello che c’è dentro?>>

<<Dove c’è vista non ci vuole prova.>>

<<I funghi velenosi sono quelli più belli.>>

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<<Basta, Pina. Peschiamo. Non ho più voglia di parlare. E poi se non ti piace stare a Capo Mulino, la vendo e ne compro un’altra dove piace a te.>>

<<No, non c’è nessuna casa che mi piace. Perché a me sei tu che non mi piaci.>>

<<Ma io sono un lavoratore. Io ti voglio bene.>>

<<Non mi piacciono i maschi.>>

<<Tu sei pazza. Passami un’altra lenza.>>

<<Ti sposi una masculotta. Tutta l’isola ti riderà dietro.>>

<<Tu farai come dico io. Se non mi vuoi a letto non fa niente. Io sono un uomo di parola: ho detto a tuo padre che ti sposo e ti sposo. E poi io conosco un medico che dopo ti guarisce.>>

<<Ma io non sono malata.>>

<<E io ti faccio visitare lo stesso. Io ti devo sposare. Lo capisci? Sono tornato apposta per questo dalla Tunisia.>>

<<E allora godiamoci questo fidanzamento. L’hai voluta tu. Ricordatelo sempre.>>

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XVII

L’unica cosa buona è che non mi devo alzare più all'alba per andare a raccogliere le verdure. Mio padre dice che mi devo fare le mani belle e delicate e la verdura me le rovina. Mia madre ora mi guarda negli occhi e non si vergogna più di me, mio padre mi dà il permesso di mangiare con lui la sera, che se viene Ventura mi deve trovare a tavola come tutti i cristiani. Questa domenica a pranzo c’è il nuovo parrino, viene da Palermo e si chiama Angelo Prinzivalli. Mio padre l’ha invitato per la zia suora, che è lui che ci deve dare il permesso di stare col velo senza i voti presi. Ha studiato a Roma e poi è stato a Torino. Non parla come noi. Ogni tanto a messa dice “ne, ne, ne”. E io scoppio a ridere. Ho sentito pure dire che è aricchione, che gli piacciono i maschi. Ma io non ci credo perché qua tutti quelli che non sono dell’isola o parlano diverso da noi dicono che sono aricchioni. Ventura è a Sfax a ritirare gli ultimi soldi che gli devono dare per le spugne, e torna martedì.

<<Sono stato al castello questa mattina. I soldati lo hanno lasciato senza fare danni.>>

<<Perché>>, dico io. <<Cos’è successo al castello?>>

<<Non sono cose tue Pina, stai zitta. >>

<<No, Nino lasciala parlare. Pina è grande. E’ giusto che sappia che cosa succede sull’isola. Vedi Pina qua c’era una guarnigione di soldati. Ogni anno ne morivano quindici, venti. Tutti giovani, come te. Senza ragioni, nemmeno i medici ci capivano nulla. Così hanno abbandonato il castello, perché pensano a una maledizione.>>

<<E chi è rimasto?>>

<<Il custode, due vecchi prigionieri che non possono più fare male a nessuno, due soldati ammalati, segnati dalla stessa malasorte.>>

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<<Ma che ti interessa Pina ?>>, con le labbra a culo di gallina mi dice il padrone.

<<Niente, niente. Curiosità è. Mi scusate parrino, me ne vado nella camera. Non mi sento bene.>>

<<Vai figlia mia. Ci vediamo domenica in chiesa.>>

Aspetto che il parrino se ne va . Mia madre entra nella stanza dove faccio finta di dormire. Tutti sono a letto. Buco la notte con un salto dalla finestra e col cuore in braccio scalo la montagna. Col vecchio negli occhi. Ho paura di non fare in tempo. Di averlo perso. Al cancello non ci sono guardie. Scavalco il muretto; in piazza d’arme, su un piccone sventola ancora un brandello di bandiera. Sento passi dietro di me. Deve essere un soldato, ha gli stivali, sicuro.

<<Alto là. Chi va là?>>

<<Sono la figlia del curatolo di Cala Tramontana.>>

<<Non ti voltare. Che vuoi?>>

<<Voglio sapere se Cecè è vivo.>>

<<E tu che ne sai di Cecè’?>>

<<Sono come sua figlia.>>

<<Voltati.>>

E’ un vecchio con una camicia bianca sbottonata e un fucile. Non capisco nemmeno che faccia ha. E’ un’ombra.

<<Cecè è morto.>>

<<Come morto?>>

<<Morto. L’hanno ammazzato loro.>>

<<Ma come ?>>

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<<Era in fila con gli altri al porto , pronto per salire sul vapore per Palermo. E si è messo a gridare come un pazzo. Che se non ci voleva andare a Palermo poteva dirlo, che a noi vecchi non ci vogliono più nemmeno le prigioni.>>

<<E invece che ha fatto?>>

<<Gridava, che pareva un maiale scannato. Gli ultimi tempi non scendeva più al laghetto. Dava i numeri, straparlava. La notte non dormiva. Quando gli hanno detto che doveva lasciare il castello è diventato più bestia ancora. Al molo aveva due palle arrugginite in una mano. Nell’altra una fionda che chissà come ce l’aveva. Ha tirato il piombo in faccia al capitano della guarnigione.>>

<< Un vecchio così a nessuno può fare paura.>>

<<Il capitano ha preso la pistola e ha sparato. Ma Cecè non è morto subito. <<Vi ho fottuti a tutti io>>, ha detto e lo hanno sentito tutti. A mare lo hanno gettato, come un pesce. I soldati hanno detto che era lui la strega, la maledizione del castello.>>

<<Ma tu, tu chi sei?>>

<<Io sono il custode. Un prigioniero come a lui che non serve più a nessuno. Ma tu come lo conoscevi a Cecè?>>

Quando dice Cecè, io sono già fuori dal castello, giù per la trazzera che si precipita a Cala Torta. Salto dalla finestra, mi stringo il cuscino nelle orecchie e sprofondo nel buio bagnato dalle lacrime e dall’alba affilata come un pugnale.

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XVIII

Conto i minuti che mi separano da lui, da loro. Mio padre è andato al porto a prenderlo col carrozzino. Questa sera Ventura è a casa mia. Lui pensa che come al solito facciamo finta di volerci bene. Noi due soli in giardino, con la zia che ci scarica gli occhi di sopra. Noi due che parliamo e che stiamo al patto. Amici, ma niente altre cose. Sono loro, il carrozzino, i cavalli. Mi bacerà sulla fronte. Cosa faccio?

<<Papà devo dirti una cosa.>>

<<A tavola parliamo. Ventura è stanco deve andare a casa a lavarsi. Poi ritorna. Quanta fretta che hai di vedere lo zito.>>

<<Papà io a Ventura non lo sposo più.>>

<<Scherzi? Dimmi che scherzi?>>

<<No, papà.>>

Una randellata sulla testa gli avrebbe fatto meno male. Io come un santo senza sudore, non ho parole e nemmeno pensieri. L’ho detto, finalmente. Non mi importa cosa succede ora.

Ventura scende dal calesse e scappa verso casa con la faccia fra la mani. Mio padre non parla per non so quanto tempo. E’ incantato, forse si sente male. Muore? Io pure sto ferma davanti a lui, aspetto la sua reazione che non arriva. Sono pronta a morire. Il gesso si scioglie, diventa un mostro di argilla, ronfa, si dibatte, dentro i tuoni e i lampi si accendono. Mi afferra per il colletto del vestito. Io non tocco terra e mi ritrovo giù nel vecchio rifugio. Sbattuta dentro. Con le ginocchia insanguinate e i capelli strappati Sento la botola chiudersi sulla mia testa. Penso che da qui non uscirò più viva. Chiudo gli occhi e non sento più niente. Sepolta qua sotto. Questa è la mia fine. Sono tornata

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nel ventre della terra, nello stomaco di quest’isola che è femmina come me perché è condannata come a me. Il grembo che non mi voleva nemmeno fare uscire fuori dalle cosce di mia madre, ora invece mi ripiglia grande, con i capelli lunghi e la sabbia negli occhi. La pancia della terra non mi può ammazzare perché già una volta mi ha condannata e non c’è una seconda volta per le sventure. Pure il signoruzzo nostro una volta sola è stato messo in croce e poi è resuscitato che pareva un’altra persona, col vestito bianco della festa, la bandiera in mano e la musica degli angeli che ci suonavano dietro la testa con le trombe del paradiso. Questo rifugio la vita al padre del barone e a tutta la sua famiglia ci ha dato. Che quando i borboni hanno lasciato l’isola e tutti aspettavano i picciotti di Garibaldi, lui non si poteva levare dalla testa che avrebbe fatto mala fine e con lui tutta la sua combriccola. Il barone servo dei borboni era stato, e qualche traditore poteva raccontarlo a quelli che dovevano arrivare a posto loro. Mio padre ha avuto la pensata di questo rifugio. Scavato nel tufo, sotto una parete del giardino ricoperta di fichi selvatici che se uno non lo sa non ci arriva al nascondiglio né ora né mai. Una galleria lunga lunga che striscia sotto la casa. Nessuno li avrebbe visti. Ma loro dalle botole che da sopra sembrano grate per l’acqua potevano sentire e capire le intenzioni degli invasori. Tutto era pronto per trasferire bagagli e masserizie qua dentro; i garibaldini hanno fatto prima della sua tremarella e al barone subito amico se lo sono fatti in cambio di un sacco d’oro per il generale. Che lui era persuaso che questi con gli ideali nella baionetta venivano e che per Garibaldi e il re combattevano. E invece come quelli di prima pure questi ai soldi e solo a quelli pensavano. Quando il padre del barone è morto e ha lasciato la casa a mio padre, lui voleva riempirla di sabbia questa galleria perché diceva che così i muri rimanevano dritti e in piedi se la terra si muoveva. Ma quando ha dato il primo mozzicone al pecorino stagionato qua sotto nel tufo, due avemarie ha buttato fuori, che lui formaggio buono così mai l’aveva mangiato. E qua sotto l’ha riempito di formaggi. Ci sono finiti pure i

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bauli della zia, il corredo di mia madre chiuso dentro le cassapanche, il petrolio per il lumi, l’aratro della giumenta che però è morta. E ci sono finita pure io, in mezzo alle cose che non servono più. Con gli occhi segnati sui bidoni di luce che bucano il buio della galleria, cerco di abituarmi agli odori che rilascia questa caverna di lutto. Il pecorino che punge la testa, la canfora dei cassoni che stringe le narici e fa venire il giro alla testa. E pure alle distanze. Che questa prigione è grande sotto la botola, si stringe fino a diventare un budello e poi un verme che striscia, sotto la casa. In fondo sale come una biscia quando è colpita dalle pietre e diventa il muro della cucina e più sotto quello della stanza da letto. E alla luce, che c’è solo quando il tempo è bello, perché se piove mio padre i legni ci mette di sopra per non allagare la galleria. Ma se c’è sereno come stasera, la luna illumina pure la coda della biscia che sale sopra i muri. Non sono disperata. Tanto male non mi fa avere confessato come al parrino in chiesa che io a Ventura non lo voglio per sposo. Mi sono levata un peso dalla bocca dello stomaco. La prima volta che faccio di testa mia. Che guardo a mio padre e non è lui a dire l’ultima parola. Che se la parola è libertà, sono io più libera di lui perché il punto questa volta io ce l’ ho messo e lui niente ha detto. Come a briscola che se uno all’ultima mano non piglia niente, quello che ha preso prima si acchiappa bastoni, coppe, denari , spade . Non ho voglia di trovarmi un posto per dormire, sono stanca. Mi sdraio a terra, con la faccia aperta sulla luna a quadretti che mi cade addosso come un dispiacere, io perduta fra il desiderio di imparare a vivere qua sotto e l’angoscia di non uscire più viva.

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XIX

La botola di legno si apre che sembra un lamento. Un rumore in principio affilato, come una forchetta strisciata sul piatto. Il sole deve ancora spuntare, le stelle tremolanti raffreddano il cielo gelido e senza colore. Il blu filtrato dalle fronde dei fichi e dei limoni è un’ombra che si allunga e mi colpisce la faccia. La zia suora questa mattina è senza velo. Ha capelli neri, lunghi e lucidi, sembra un’altra, pure il suo viso ora non è segnato da quel senso di disamore, di coscienza in subbuglio che la possiede. Svuota il vaso da notte in giardino, mi porta il pane, una bottiglia d’acqua, i resti della cena, due ali di pollo, un uovo. Come tutti i santi giorni che sono sepolta. Che ormai non li conto più.

<<Chiedi scusa a Dio.>>

<<E di che cosa?>>

<<Di avere disubbidito a tuo padre.>>

<<Io qua sotto ci sto bene.>>

<<Ma che sei un animale?>>

<<No, sono una santa.>>

<<Non bestemmiare.>>

<<Santa Rosolia pure lei viveva rinchiusa dentro una grotta.>>

<<Non dire queste cose che fai peccato.>>

<<Il mio peccato è quello di essere nata.>>

Mi avvicino, apro il baule delle cose sue.

<<Ma che fai?>>

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Tiro fuori dalla cassa un groviglio di pezze legate da uno spago. Lo sciolgo. Dentro c’è una federa di cuscino, avvolta attorno ad un barattolo. La zia suora si siede, crolla su uno sgabello di tufo, senza forze, le mani a penzoloni, il rosario stramazza a terra.

<<Cos’è questo?>>

Sul palmo della mano stringo un barattolo di vetro di quelli che mia madre ci fa le melanzane sott’olio per l’inverno. Dentro, in un liquido giallo galleggia una specie di verme, con la faccia di bambino.

<<Come l’hai trovato?>>

<<Ieri sera cercavo i fiammiferi per accendere il lume. Nel baule le mie mani hanno afferrato questa palla di pezze, dentro c’era questa cosa.>>

<<E’ mio figlio. Lui non poteva morire, lo capisci, non doveva morire>>, singhiozza.

<<Ma chi è stato?>>

<<Io l’ho infilato dentro a questo barattolo.>>

<<Ma è quanto una lucertola.>>

<<Io vengo a vedermelo il figlio mio. Mi è rimasto solo lui in questa vita.>>

<<Ma quando è successo?>>

<<In un tempo che non c’è più.>>

<<Chi è stato?>>

<<Padre Pantaleo. Quel disonesto di un parrino che ora che è morto si è acquietato lui e le picciridde che ci andavano dietro per un tozzo di pane.>>

<<E tu , perché ci sei andata?>>

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<<Lui mi piaceva. Ma non come uomo, mi piaceva perché era un parrino e mi diceva che il nostro figlio un altro Gesù bambino era.>>

<<Ma tu l’hai fatto morire.>>

<<E che dovevo fare. Il parrino per pazza mi ha preso. Mi ha negato tutto quello che c’era stato fra noi due.>>

<<Il bambino potevi tenerlo, dovevi farlo nascere. Gli davi a succhiare il latte dalle tue minne, gli asciugavi le lacrime se la notte piangeva.>>

<<Tuo nonno mi avrebbe ammazzata, qua tutti mi avrebbero ammazzata.>>

<<E se aveva freddo te lo potevi stringere al petto.>>

<<Pure a lui avrebbero ammazzato.>>

<<Lo potevi lasciare davanti al convento, lo crescevano le suore. Che ci potevi andare pure tu da loro a fargli da mamma senza che nessuno lo sapeva che eri veramente sua madre.>>

<<Si, me lo potevo stringere al petto, e asciugargli le lacrime. Era mio, lo capisci? L’unica cosa buona che ho fatto. >>

Io le alliscio i capelli e la mia mano scivola piano sulla testa, come una carezza sopra un gatto.

<<Il signoruzzo non mi perdona. E io non lo cerco il suo perdono. Voglio soffrire la mia pena qua in questa casa senza amore, sola con la mia memoria che mi rode e mi scava dappertutto, senza lasciarmi mai in pace. Affogata nel vostro odio .>>

<<Ma nessuno ti vuole male, magari mio padre…>>

<< Che ne sapete voi di un bambino che è nato solo per un pezzettino? Che ne sapete voi di una pezzo di carne che la mammana mi ha strappato dalla pancia , con le unghia e con i polsi?>>

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<<Ma la tua vita è del signoruzzo nostro.>>

<<No, non è così.>>

<<Ma tu sei suora, zia, tu con lui ti sei sposata.>>

<<No. Io mi sono legata i peli, mi sono raschiata il cuore. Io mi sono sepolta come a te dentro questo velo.>>

<<Ma il rosario, le preghiere. Tutte le sere.>>

<<Io mi danno l’anima, Pina. Ogni sera il demonio mi viene a trovare e mi fruga sotto questa veste. E io non so resistergli. Perché più mi faccio male e più voglio farmi perdonare dal signoruzzo mio.>>

<<E tutti i giorni al vespro, in chiesa.>>

<<Io sono troppo distante da lui. Lo cerco, per farmi perdonare. Ma non lo trovo mai. Che certe volte penso che è tutta una bugia per buttare a mare lo spavento della morte.>>

Sbuffa che pare il mantice che attizza i carboni.

<<Io ti voglio aiutare Pina. Io ti lascio questo buco aperto. Scappa. Nasconditi nella prima barca che va a Palermo. E poi scappa ancora, lontano. Prima che quest’isola uccide pure a te.>>

Si chiude dietro le spalle lo sportello e non sento il paletto che entra dentro l’occhio di ferro. No, non mi muovo da qui. Io questo sazio a mio padre non ce lo do. La mia prigione la sua colpa deve essere. Non lo deve fare dormire il pensiero, che io sono qua per colpa sua.

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XX

<<Si fa come dico io e basta. Chi non ci sta, il sangue deve buttare. Il sangue deve buttare.>>

Le urla di mio padre riempiono tutto il rifugio. Salgo come un animale a quattro zampe su per la gola che impalma il muro della stanza da pranzo e vado ad ascoltare questa tempesta di parole, con l’orecchio steso sulla parete fredda.

<<Ma io ce l’ho detto a loro, Don Nino>>, è la voce del soprastante .

<<Che cosa ?>>

<<Ci ho detto che se questo mese non potevano pagare, vossia li buttava in mezzo alla strada.>>

<<E loro?>>

<Che vi vogliono parlare di persona.>>

<<Io non parlo con nessuno. Lavorano alle cave per me. Sanno che mi devono dare la metà della paga. E me la devono dare. Se così non ci piaceva, potevano continuare a fare i pescatori.>>

<<Ma mastro Nino, vi hanno chiesto solo un altro mese di tempo. Poi tutto quello che vi spetta vi danno.>>

<<Io non gioco a tressette. Il pane si deve meritare. E non può essere per tutti. Se domani i soldi non sono su questo tavolo, possono andarsene a lavorare da un’altra parte.>>

<<Ma don Nino…>>

<<Queste bestie sono, mastro Berto. E noi da bestie dobbiamo trattarle. Che forse voi ci parlate coi somari ? Alzano le corna solo davanti al

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fieno. E chi ce lo mette sotto la bocca, il padrone loro diventa. Vede Mastro Berto, io posso pure capire che questi disgraziati questo mese sono senza soldi. Ma dopo? Che succede se io vado incontro al loro dispiacere? Ditemelo voi che succede?>>

<<Vi baciano le mani e un salmo per voi e per la vostra famiglia non ve lo leva nessuno.>>

<<I cani da guardia li avete visti come sono feroci, attaccati alla corda, che quando passa un povero cristo ci farebbero la festa? E loro così sono, attaccati al palo di legno, fanno il loro dovere. Una bastonata due ossa e una tazza di acqua, e sono contenti.>>

<< Le bestie, non hanno ragione e sentimento.>>

<<Mangiano, dormono, fanno figli. Perché è la loro natura così. Un cane da guardia che il padrone lo accarezza, lo fa sentire uno di casa, fissa diventa. E così comincia a non volerne più di lavorare E poi sapete che fa? Scappa con la prima cagna che gli passa sotto il naso e addio cane.>>

<<Ma questi poveri cristi come a noi sono. Che ne sanno di catene e di carezze?>>

<<Le carezze col pane non vanno d’accordo. Quando il padrone ti dice sì una volta vuol dire che ti vuole perdere, che non ha più bisogno di te. E allora è meglio che stanno attaccati al palo. Loro sono sicuri e io pure.>>

<<Ma io ho visto pure cani scappati dalle catene, così forti da strapparle dal palo…>>

<<Belli questi, mastro Berto. Sapete che fine fanno? Ve lo dico io. Muoiono di fame o sotto i colpi di un fucile. Abbaiano magari ai lampioni, pazzi escono. Perché non sono abituati a cercarsi il pane da soli. Un giorno incontrano un massarioto che si è stancato di sentire tutto il giorno bau bau e pum, addio cane.>>

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<<Ma questi sono cristiani.>>

<<No, bestie sono. Non ve lo scordate mastro Berto. Bestie sono.>>

<<E noi che siamo don Nino?>>

<<Io e voi uomini. Che è un’altra cosa. E poi Mastro Berto, vede se noi non li teniamo così, come cani da guardia, loro selvaggi diventano.Il tufo sull’isola non lo prende più nessuno, loro muoiono di fame e noi pure. Voi volete questo?>>

<<No. Questo no.>>

<<Don Nino ti ha cancellato dal libro, cercati un altro lavoro. Così gli dovete dire. E loro si calano le corna e i soldi li trovano.>>

<< Ma don Nino, la moglie di mastro Filippo, non vi piaceva?>>

<<Sì, ma che c’entra?>>

<Mastro Filippo ve la dà, quando volete.>>

<<Sì e i soldi?>>

<<Poi dal mese prossimo tutto come prima torna.>>

<<Aspetto altre due settimane. Non un giorno di più. E dite a mastro Filippo che domani sera non ci torna a casa a dormire. La signora, fimmina che vuole tempo è.>>

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XXI

Selvaggia come i frutti dei boschi che sono dolci in bocca ma a stanarli le mani di sangue si riempiono, io ascolto i battiti inquieti dell’inferno, che non mi appartiene più. Colpe e remissioni sono mani lontane che si dileguano nell’oscurità dei miei pensieri. Io che vivo rumori e voci della casa che non è più mia e che aspetto. Un‘alba, un tramonto, il fresco del pomeriggio, parole che conosco. Aspetto Sara che arriva invisibile e mi copre di baci. I figli del barone che mi portano i colori per dipingere di celeste tutta la grotta. Che tutto è solo un sogno e poi mi sveglio e non c‘è nessuna zia, nessuna Sara, e nessun padre che vuole togliermi la vita. Oppure che invece ci sono tutti e io sono con loro libera di esserci e di vivere la mia vita come voglio io. E già è la seconda volta che vedo da qua sotto i mandorli fioriti. No, non è questo rifugio a darmi fastidio, è l’obbligo di dovere ascoltare ogni giorno lui che ripartisce sapienza a modo suo, che divide consigli che sono regole. Sto con l’orecchio attaccato alla parete della cucina da quando lui arriva a casa dopo il lavoro, fino a quando se ne va a dormire. Ieri per la prima volta ho sentito mia madre parlare di me. Non sapevo se essere felice o abbandonarmi allo strazio di chi non sa resistere al desiderio di dimostrare di non esserci più per nessuno. Il coltello che sbatte sul piatto, il vino versato dentro al bicchiere, la sedia che striscia sul pavimento.

Poi piano piano, un sussurro.

<<Falla uscire da là sotto. Due anni di prigione, le sono bastati.>>

<<E tu chi sei che mi dici cosa è giusto o non è giusto fare?>>

<<Tua moglie.>>

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<<Tua figlia è come a te. Una faccia e due figure precise. Non avete il coraggio di chiedere le cose. Poi quando lo trovate, diventate agnellini. Chiedete perdono, non lo fate più. Gli agnellini mi piacciono solo a Pasqua, con le patate.>>

<<Ti sto chiedendo di farla uscire.>>

<< Perché che fai?>>

<<Stasera stesso, la faccio uscire io.>>

<<E vacci, vacci. Che poi a te ci metto insieme a lei là sotto.>>

<<Tu non l’hai mai voluta, l’hai sempre disprezzata>>

<<E tu invece l’hai sempre coperta, e lei per questo è diventata masculo. Che quando me l’ha detto Ventura, ero più contento di saperla buttana. Lo sapevi tu, madre buona, che a tua figlia le femmine ci piacciono?>>

<<Ma che dici, ti pigliasti la malaria…>>, e lo sento dal mio sepolcro che lei fa finta di offendersi. Non può rivelargli una confidenza così, l’unico segreto che abbiamo avuto.

<<Lo sai tu che a Ventura due sacchi di monete d’oro ho dovuto dargli per farlo stare zitto. No, la madre buona queste cose non le sa. Lo sai tu che la tua piccolina, fotteva come una cagna con un vecchio prigioniero del castello? No, tu non sai niente.>>

<<No, non può essere, non è così.>>

<< Io un masculo volevo e tu mi hai fatto questa specie di mostro metà buttana e metà delinquente .>>

<<Zitto, basta.>>

<<No, e ora devi sentirla tutta. Tua figlia se la fa con Sara Fascella, l’altra buttana che è come lei. Che se aveva prurito poteva strofinarsi a muro, come le bestie, dannata che è, invece di farmi perdere la faccia. >>

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<<Ma chi te l’ha detto?>>

<<Chi l’ha vista>>

<<Tu lo dici apposta perché vuoi ucciderla.>>

<<Ma non l’hai capito che già è morta. Lei non esce viva.>>

<<Prendi il tuo coraggio e valla a uccidere.>>

<<Troppo facile, madre buona. Lei sola deve morire. Come la candela si deve squagliare.>>

<<La faccio scappare.>>

<<Tu non vai da nessuna parte. Questo coltello nella gola ti faccio entrare.>>

<<Lasciami stare. Tu sei pazzo, pazzo.>>

Sa tutto. Mio padre sa tutto. E pensa di uccidermi, anzi pensa che io mi uccida. E io invece uccido lui restando viva. C’è ancora tanto tempo per vedere come va a finire.

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XXII

<<Mio marito la vuole ammazzare parrino. Da due anni la tiene prigioniera, in una grotta sotto questa casa. >>

<<Padre santo. Così non può essere. Una soluzione, dobbiamo trovarla.>>

<<Vede parrino a Pina ci piacciono le femmine?>>

<<Dio mio, ma che dici?>>

<<Si, parrino è vero. Per questo lui la vuole finire.>>

<<Ma è malata, povera creatura.>>

<<No, lei dice che dentro si sente masculo.>>

<<Con le preghiere possiamo aiutarla.>>

<<No, parrino. Io è da un mese che non ci dormo per questa idea che ho in testa.>>

<<Dimmi, dimmi…>>

<<Facciamola diventare masculo.>>

<<Ma come?>>

<<Cambiamo il certificato di nascita e quello di battesimo.>>

<<Dio mio, ma che dici?>>

<<Preferisce avere sulla coscienza una bugia o un omicidio?>>

<< Dio mio.>>

<<Però lo deve dire lei a mio marito , che lei è l’unica persona che ascolta. Pina diventa Pino e nessuno dice niente. Il medico la visita e dice che è

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maschio, vossia scrive sul registro delle nascite che padre Pantaleo si è sbagliato quando nascio a scrivere il sesso.>>

<<Si, ma dopo che succede?>>

<<Succede che mio marito ha il suo erede e lei ha tre sacchetti d’oro per la chiesa . E io prima di morire sono finalmente madre.>>

<<Si, ma se don Nino non ci sta?>>

<<Ci sta, vedrà che ci sta. Lo conosco bene.>>

<<Ma è peccato, figlia mia. E’ una cosa contro natura.>>

<<E non è forse contro natura per un parrino mettere incinta una suora?>>

<<Ma che dite?>>

<<Padre Pantaleo, parrino. E se volete mia sorella ve lo fa vedere il bambino che galleggia ancora nello spirito.>>

<<Nel nome del padre, del figlio e.. Sei pazza. Tuo marito ragione ha.>>

<<Che mia sorella le lettere d’amore ancora le tiene fra il rosario e il vangelo. Ve le porta in chiesa, le legge all'offertorio. Forse prenderanno pure a lei per pazza. Ma vi giuro che nella casa di Gesù per un poco le campane non suonano.>>

<<E’ il diavolo che ti fa parlare così. Dov’è suor Agnese? Ditele di

venire, ora, subito.>>

<<Agnese, vieni che c’è il parrino che ti vuole confessare.>>

I passi sono quelli della zia suora. Si chiude una porta, un’altra, una sedia striscia sul pavimento. Un secchio sbocca l’acqua nel lavabo di marmo, sbatte sul ballatoio. Una porta si apre.

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<<Sorella, ditemi la verità, come in confessionale, io sono vostro fratello. Ditemi se è vero che voi avete avuto un figlio da padre Pantaleo. Vi scongiuro ditemelo.>>

<<Era giovane come voi ed era bello. Aveva due labbra che erano fragole da mordere. E i suoi occhi. Che occhi che aveva, due stelle che mi spalancavano tutta. Che mi aprivano come un riccio di mare spaccato in due col coltello.>>

<<Basta sorella, basta!>>

<< Non lo so nemmeno io quanto tempo ci ho messo a pulire le scale della chiesa, a quattro zampe come un armalo. E a lui me lo sono trovato in piedi che mi guardava. Non erano occhi di cristiano, parrino. Erano occhi infettati di piacere, lampi che mi esplodevano sotto le gambe. Che io a terra mi sono buttata, come le novizie che chiedono perdono al signore.>>

<<Non dite più niente. Non voglio sentire più niente. Il signore è misericordioso e voi sarete perdonata. Domani, fate venire a Don Nino in chiesa. Ma voi sorella giuratemi la vostra dimenticanza.>>

<<Io non posso, parrino. Lo vedo il figlio mio, ci scendo qua sotto dove l’ho nascosto e lo accarezzo. Certe sere ci racconto pure le favole. Lui è l’unica cosa che mi è rimasta. Come faccio a dimenticarlo, che io l’ho fatto morire.>>

<<Voi, voi non avete colpa sorella. Figlio del diavolo era.>>

<<No, era la mia carne. La mammana dal ventre me l’ha strappato.>>

<<Tre atti di dolore, quattro avemarie, e dieci paternostri, all’alba, a mezzogiorno e al tramonto. E non ci pensate più.>>

<<E che figlio vostro era? Che ne sapete voi parrino di quale dolore si nasconde sotto questo velo? Che ne sapete dell’amore di una madre per

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un morso di figlio affogato dentro un barattolo? Chi mi ha fatto questo torto, fra le fiamme deve cuocere, con tutta la tonica.>>

<<Domani prima della messa delle sei. Va bene gli parlerò.>>

<<Sia lodato Gesù Cristo.>>

<<E sempre sia lodato.>>

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XXIII

Entra lento, e si ferma davanti a me come un cane che fiuta la selvaggina. Io sono arrotolata nella mia tana. Il suo fiato è vapore, vedo una nuvola di fumo e di polvere, scontornata sul viso. In controluce la sua sagoma è un ritaglio di carta paglia incollato sul buio. I suoi passi scricchiolano sulle pietre, una mano mi scuote dal torpore della mia rassegnazione. Mi alzo la testa e me la ricaccio sotto il cuscino.

<<Ti faccio uscire.>>

E mi strattona per la camicia

<<Ti ho detto che puoi uscire.>>

Lo guardo attraverso il vetro del lume e la sua faccia ha i rilievi della montagna dell’isola, tutta rocce e abissi.

<<Il parrino devi ringraziare. E’ lui che mi ha fatto capire che è meglio per tutti se ti lascio stare.>>

<<A Ventura non lo sposo.>>

<<Ventura? ma quale Ventura. Il picciotto di nuovo a Sfax è tornato. No, non lo sposi più. Però devi fare quello che ti dico io. Tu diventi masculo.>>

<<Ma se lo sanno tutti che io sono femmina.>>

<<Ti ho detto che tu diventi masculu. Tu non ci stai bene nei vestiti di femmina. Giusto è?>>

<<Giusto è>>, e sprofondo coi piedi incrociati sulla cerata. Lui afferra un tufo e si siede davanti a me.

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<<Io sono vecchio e alle cave non ci posso andare per sempre. Così tu diventi masculo e prendi il mio posto. Io già ci ho parlato col barone e lui felice è.>>

<<Ma in paese, lo sanno che io sono femmina.>>

<<Nessuno parlerà. Io a te ti faccio subito padrone. Capisti? Non hanno nemmeno il tempo di ragionarci che subito ti devono dire vossignoria binirica e servo suo. Capisti?>>

<< No.>>

<<Se resti così che non sei né carne e né pesce, lo sai cosa succede, quando io non ci sono più? I cani di mannara ti sbranano, si pigliano la casa e tu, così come sei, la fine del topo fai.>>

<<Ma io che devo fare?>>

<< Ti metti addosso queste robe di masculo e quando sei pronta andiamo dal vescovo che lui apposta per te viene domani sull’isola. Il barone e il dottore ci mettono le firme che tu sei masculo, e nasci di nuovo.>>

<<Ma nessuno ci crederà.>>

<<Le carte a posto noi mettiamo. Tu davanti alla legge ti chiami Pino. E’ stato uno sbaglio di quel rincoglionito di padre Pantaleo che non si è accorto che in mezzo alle cosce, dentro al sacchettino delle palle, una fava c’era.>>

<<Ma non è così. Io sono femmina.>>

<<Qua, tutti pensano quello che voglio io. Se domani decido di abbaiare perché sono diventato un cane, a tutti bau bau ci faccio fare.>>

<<E se ti dico che io non mi voglio vestire da masculo perché sto bene così come sono?>>

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<<Sei grande. Che cosa ci abbuschi a rovinarti la vita? Io libera ti lascio lo stesso, che ormai al crocifisso l’ho giurato. Ti metto su una barca e ti lascio a mare.>>

<<Ci devo pensare.>>

<<No, tu niente hai capito. Questa è l’unica cosa che puoi fare, per salvare la faccia tua e quella dell’isola.>>

<<E che c’entra l’isola ?>>

<<A me le gambe non mi tengono più come prima e il barone lo sa. Appena io lascio, lui chiude le cave. Lo sai che fanno questi poveri disgraziati che io ci do il pane per mangiare? Muoiono di fame.>>

<< Ora tu li fai morire di fame. Se te ne vai, loro solo bene possono averne, che nessuno ci mette le mani sui loro soldi.>>

<< Io quello che è di più ci tolgo, che loro niente potrebbero farsene. Che sull’isola ci sono caffè, osterie?. Niente c’è. E loro di quello che il barone ci dà di più, niente se ne fanno.>>

<<E tu che te ne fai?>>

<<Io case e terreni ci compro. E loro ci dormono. Che senza di me le stalle coi muli ci spetterebbeo.>>

<<Ti pagano per dormire nelle case che tu hai rubato a loro.>>

<<Ma loro neanche se travagliassero due vite potrebbero mai comprarsela una casa.>>

<< Ma tu gli rubi i soldi.>>

<<Io mi piglio quello che mi spetta, io ci do a lavorare.>>

<< Ma che te ne fai delle case, dei soldi. Che te ne fai?>>

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<< I soldi sono i remi che fanno camminare questa barca. Il barone tiene aperte le cave, io ci do soddisfazione perché lo faccio sparagnare, gli operai hanno un tetto e una minestra ogni sera. E tutti siamo felici.>>

<<Ma noi non siamo felici.>>

<<Questi discorsi di femmina sono. Noi uomini non cerchiamo la felicità, cerchiamo il potere. Sopra alle femmine, sopra a chi lavora , magari sopra il signoruzzo nostro.>>

<<Ma lui che c’entra ?>>

<<Pure sopra a lui, sissignore. Noi preghiamo perché lo vogliamo vicino quando abbiamo bisogno. Lui ci aiuta e noi accendiamo ceri in chiesa, lo portiamo sopra le spalle in processione. Ma lui ci aiuta perché noi siamo potenti. E siccome lui fa quello che vogliamo noi, noi siamo più potenti di lui, perché lo abbiamo al nostro servizio.>>

Il padrone si allontana dentro la nuvola di fumo del lume. Io sboccio nella sua assenza, come un fiore che di notte allarga i petali e spande i suoi odori allentati , per un dispetto al sole, per colmare le essenze del buio, che fuori profuma di citronella, di cera e di sonno. I miei polmoni scricchiolano a restare sotto terra, con la falce della luna e la palla del sole sopra la testa, avvolta come un animale negli angoli di questa grotta, a spiare i rumori che vengono dalla casa, le voci, a distillare le parole. Non ce la faccio più. E se devo morire almeno muoio fuori da qui, prigioniera in un altro corpo che in ogni modo sempre il mio è. Signoruzzo mio fatemi fare un bel sogno, domani così col sorriso vado a tagliarmi la testa per farmene dare una nuova. Un sogno di guerrieri mi piacerebbe. Io col cavallo bianco e con la spada, attraverso prati rossi, gialli e marroni. Poi arrivo in una casa sperduta negli ulivi, tutta di vetro e dentro ci trovo Sara vestita come a me che mi aspetta. Io che mi levo l’armatura, lei che si leva la sua. Noi che ci abbracciamo, noi che ci

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stingiamo nella carne, noi che i nostri sospiri non ci fanno parlare. Un bel sogno, patruzzo santo, un bel sogno.

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XXIV

Il labbro di sotto del vescovo pare lo scivolo scavato nella roccia per fare slittare i blocchi di tufo sulle barche. E’ più basso di me, grasso e con quattro peli in testa. Aggrappato addosso all’abito rosso squarciato da una fettuccia viola che gli gira i fianchi, è incastrato sulla sedia di velluto pure rossa che io dico gliel’hanno cucita sotto il culo. Il crocifisso dondola che pare una creatura, sulla pancia. E’ seduto in fondo ad una stanza lunga, foderata di seta bianca e celeste. In tetto gli angeli ricoprono il vestito azzurro della madonnuzza nostra di facce rotonde di bambini con le ali al posto delle orecchie. Il padrone, col carrozzino suo mi ha portata fino qua. Lui con le redini fra le mani e io dritta dritta dentro i pantaloni , la camicia e il cilecco. Nemmeno una parola ha detto, quando mi ha vista così. Mia madre, si. Col nodo scorsoio del dolore che andava e veniva sulla sua gola, mi ha detto: <<non ti potevo perdere.>>

E io: <<masculo e fimmina, sempre figlia tua sono.>>

Mi ha spremuto fra le sue braccia come un limone, e io con le mani la testa le ho accarezzato. E ci siamo messe a piangere. Con le lacrime che si perdevano sul mento, mi ha tagliato i capelli. Che ogni pugno che cascava, ogni fondo di rumore che nasceva, mi sembrava che una ferita si lacerava e un’altra si chiudeva. Il crepitio delle menzogne, i disegni della mia vita mozzati da una forbice.

<<Entra figliolo, non avere paura. Entra e siediti.>>

Le finestre sono tanto lunghe che tutta la montagna ci entra. La luce è smozzicata da quest’ombra che pare sera e che strozza il giorno che non ha nemmeno un’ora.

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<<Tu sei Pino. Padre Angelo tante cose belle mi ha detto di te. Magari il barone mi ha raccomandato la tua anima.>>

<<Servo suo sono , eminenza.>>

<<Tu sei un’anima importante. Io so che da te dipendono le bocche dei bambini di quest’isola.>>

<<Un peccatore, sono eminenza. Il più peccatore di tutti.>>

<<Vivace, irrequieto. Si mi hanno detto pure questo. Ma non sei cattivo. E la tua anima pura è.>>

<<Come vuole vostra eminenza benedetta.>>

<<Lo sai perché sono venuto qua per te oggi?>>

<<No, eminenza.>>

<<Nostro signore mi ha parlato di te questa notte.>>

<<E cosa vi ha detto di me?>>

<<Che per colpa di un parrino orbo, sei stato incarcerato dentro un corpo che non era quello tuo.>>

<<Vero è vostra eminenza.>>

<<E io sono qua per liberarti.>>

<<Per mettere le carte a posto.>>

<<Noi siamo a fianco di chi ha paura. Per questo sono davanti a te.>>

<<E lei non ha paura eminenza?>>

<<Vieni più vicino. Così. Si io ho tanta paura di sbagliare. Ma vicino a me c’è il Signore ad aiutarmi. Tu lo vuoi bene al nostro Signore, vero?>>

<<Vede eminenza se voi mi permettete e avete voglia di saperlo io vi dico come mi sento.>>

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<<Sì parla, parla.>>

<<Io mi sento, con rispetto parlando, come nostro Signore prima di resuscitare.>>

<<Ma che dici?>>

<<Prima di ritornare in cielo, Gesù morto era, che forse per un momento pure a lui sarà venuto il dubbio, ma allora non sono Dio?>>

<<Il mistero della resurrezione, è meraviglioso, carico di significati e tu sei ignorante per poterlo capire. Certe volte è difficile anche per me che sono suo servo.>>

<<No, per me non è così complicato. Sentite eminenza. Lui è morto in croce e ha aspettato tre giorni prima di riconoscersi Dio. In questi tre giorni lui è morto. Capite morto. Come mio nonno, come suo nonno, come a Cecè. Io sono così. Sono morto e ora comincio a vivere perché lei mi dà la sua benedizione.>>

<<Ed è una grande gioia, figliolo.>>

<<Si ma io per un momento che può essere di tre giorni ma anche di dieci anni, morto sono. Ecco io così mi sento, eminenza.>>

<<Va bene, va bene, ho capito. Io ti benedico nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Ecco ora tu sei Pino e hai una nuova vita davanti. Solo una promessa voglio da te.>>

<<Chiedetemi tutto, eminenza.>>

<<Il tuo comportamento, deve essere regolare, senza colpi di testa. Insomma mai devi farmi pentire di averti dato questa benedizione. Masculo fino in fondo. >>

<<Sicuro. Avete la mia parola. Anzi ve ne do due. Quella di femmina e quella di masculo. Ma io posso farvela una domanda eminenza?>>

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<<Certo figliolo, io e te soli per questo siamo.>>

<<Ma lei ci crede che padre Pantaleo si è sbagliato quando io sono nato?>>

<<Come vescovo ci credo, come uomo so quello che è vero. E’ il rovescio di un tappeto. Da un lato l’ultima cena con gli apostoli e Giuda traditore. Dall’altra parte nodi e grovigli che da vicino non si capisce niente. Ma basta allontanarsi un poco per comprendere nella grandezza della trama lo stesso disegno. E ora vai, figlio mio. Che il signore ti benedica sempre.>>

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XXV

<<Pino, Pino, Pino!>>

Il dottore Puglisi, è alle mie spalle. Lontano. Piccolo, piccolo infilato nella bocca della galleria che dal giardino sbuca sulla spiaggia e taglia melograni e fichi selvatici con una scia di terra rubata al tufo. Il sole a quest’ora del pomeriggio è già freddo, confuso fra scanalature biancastre che precipitano sul mare e si distendono come stelle appese ai fili. Uno sputo d’acqua torchiato da bocche di roccia intagliate da frammenti di conchiglie, riflette la mia faccia. Un passo indietro e ci sono dentro tutta. La mia faccia che fine ha fatto la mia faccia? Dove sono le gote mie rosse che sembravano pesche di maggio? Dove sono? Dove sono io? Dentro questa pozzanghera ci sono bugie, facce sconosciute, cambiamenti e bellezze sospese. Dentro ci sono pure le mie passioni che ardono sui legni della mia vita come tizzoni ardenti sotto i carciofi. Lenti, ma basta una goccia d’olio per fare scintille e fumo. Io sono diventata così, per salvare l’isola, per salvare mio padre, per salvare me stessa. O forse sono così solo per difendermi. Sono nata di nuovo, che bugia. Prigioniera di un corpo che non è mio, un’altra bugia. Io, Pina, sono diventata Minchia di Re. E' una cosa naturale, ci devo fare il callo.

<<Pino. Sono qua. Arrivo.>>

Mi volto, si asciuga la fronte con un fazzoletto bianco. E’ fermo appoggiato su un muretto. Stanco morto.

Lui è da poco sull’isola, ha preso il posto del dottore Sinacori, che è morto di vecchiaia e fino all’ultimo ci portavano i malati a casa. A lui che non c’era più niente da fare. Il nuovo dottore è nato qua, ma ha lavorato per tanti anni a Palermo.

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Mentre mi abbraccia, vedo due bambini che salgono sulla sporgenza di uno scoglio, con una rete fra le mani dove vibrano i tentacoli di un polpo. Gli ultimi stracci di sole bagnano la loro pelle di velluto che è un manto pezzato. Nei loro visi vedo quello mio e di Sara, sento la nostalgia dell’età bella, di quando i brividi percorrevano la mia schiena e avevo voglia di toccarmi dalla mattina alla sera per essere sicura di essere viva.

<<Pino, sono felice di trovarti bene. Io sono qua solo per dirti che sei guarito.>>

<<Dottore, io non sono mai stato malato.>>

<<Sì, sì lo so. Ma ora che ti vedo, sono sicuro che non hai più niente

e prende un quaderno e si mette a scrivere. Ogni tanto solleva gli occhi su di me, e poi continua a scrivere.>>

<<Dottore l’hanno preso per fesso.>>

<<Pino, io ti sto solo aiutando. Non credere che per me è facile questa storia.>>

<<Ho paura di non farcela, dottore. Ho paura di sbagliare a parlare, di non rispondere a chi mi chiama Pino. Avete visto poco fa? Voi mi avete chiamato, ma io non ci pensavo che Pino sono io.>>

<<Datti tempo. Tutta un’abitudine è. Il mare tu nemmeno te ne accorgi più che ce l’hai sempre attorno. Ma basta che stai un poco lontano dall’isola e ti manca. Vedi, l’abitudine è quando non ti accorgi delle cose che hai attorno. Certe volte è un bene, certe volte è un male. Prima ti abitui che sei masculo e prima guarisci.>>

<<Io non sono malata>>

<<A te sembra figlio mio. La tua malattia è rara e complicata. Ci sono libri che non finiscono mai che parlano di come sei tu. Ma perché a te pare normale una femmina che corre dietro alle altre femmine? Ti pare

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normale una femmina che non si vuole sposare, perché non le piacciono i maschi? Senti a me che ho studiato, tu sei un poco malato. No, assai, un poco.>>

<<E le viole? Le viole pure malate sono?

<<Le viole, ma chi i fiori?>>

<<No, dottore, i pesci, le Minchie di Re, va.>>

<<Per queste cose bisogna essere pescatori, e io il dottore faccio. Ma so che certi animali sono masculi e femmine. E certo pure loro sono malati.>>

<<Ma io non mi sento la febbre, non sputo sangue, non mi sento morire. Io sto bene.>>

<<E io sono qua per scriverlo: Pino sta bene.>>

<<Ma io voglio vivere senza catene. Questa pure una malattia è?>>

<<Su quest’isola è quella più grave. Che la tua una fesseria da niente è a confronto. Loro qua non lo sanno e pensano di essere sani.>>

<<E invece?>>

<<Vedi da un’altra parte si vive di poco e si può essere perfino liberi. Ma qui il poco è niente. E senza niente non si può vivere. E allora si cerca di non morire di fame. E si finisce col tendere la mano a chi ti offre poco. E ti promette molto. Ma anche questo poco è un poco alla volta. Così ti tengono in sospeso e loro sono sempre di più padroni e i poveri sempre più schiavi.>>

<<Ma mio padre, il barone non sono loro a tenere quest’isola sotto chiave ?>>

<<Loro ci credono. Ma in realtà sono schiavi di altri padroni in una catena che non finisce mai.>>

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<< Ma in cima ci sarà qualcuno che la tiene questa catena?>>

<<E‘ una collana, come quella delle femmine, chiusa da tutte le parti. Come un’isola che è chiusa dal mare.>>

Arriva padre Angelo. Mi abbraccia. Io resto a guardarlo, mentre saluta il dottore con un inchino. Mi mette la mano sulla spalla.

<<Abbiamo fatto la cosa migliore. Entriamo dentro. Io e il dottore mettiamo due firme e ci beviamo un bicchiere di rosolio. Per lei è tutto a posto, dottore Puglisi?>>

<<Si , Pino un masculazzo di quelli buoni è. Padre Pantaleo, pace all’anima sua, ci colpa. Ma poi Pino, lo vogliamo dire al parrino se tu ti senti mascuolo o femmina?>>

<<Masculo, masculo. Ma…>>

<<Ma che cosa Pino?>>

<<Ma col cuore di femmina, quello me lo lasciate stare com’è. Nessuno me lo può cambiare. >>

Saliamo i gradini che sbucano sulla veranda, il parrino posa la borsa e tira l’aria che pare che se la prende tutta lui.

<<Basta , basta. Signora il rosolio, che dobbiamo brindare.>>

Mia madre entra con un vassoio di dolci di mandorla fatti dalle suore del convento, lo posa sul tavolo di marmo. Poi va di nuovo dentro. Io la vedo aprire la credenza , tirare fuori i bicchieri , si cala per prendere il rosolio. Io mi alzo e la raggiungo. Le passo una mano sul viso

<<Mamma ora sei contenta di me?>>

<<Ero contenta pure prima, per me tu resti sempre Pina. Io a te quando siamo sole sempre così ti chiamo. Non te lo scordare. Per me niente è cambiato. Sono contenta perché ora ti puoi difendere. Sangue mio.>>

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<<E allora questo rosolio?>> , grida il medico

<<Arriva, arriva.>>

XXVI

Sara non abita più nel palazzo bello vicino al mare. Suo padre per il barone non è più degno di entrarci. Ha preferito la galera alla giubba dei piemontesi, e il barone si è preso un altro custode. Alla sua famiglia per pietà non l’ha cacciata subito in mezzo alla strada; ha aspettato a lui che tornava. E il giorno dopo tutti i bauli erano sul carro. Lei non è stata di nessuno. Me l’ha giurato suo cugino Peppe, che quando ce l’ho detto che volevo vederla si è preso due giorni di tempo, prima dell’appuntamento, alle nove di sera, al faro. Sara, che non l’ho dimenticata mai, che la luna e il sole lo possono dire se c’è stata una volta che io li ho guardati senza pensare a lei. Un’assenza che è un colpo di sangue sulla mia testa , che mi pulsa nelle orecchie e mi scalda tutta. Come una borsa calda troppo piena che sta per scoppiare fra le mani e allora è meglio non toccarla e lasciarla fra le coperte nel letto, così è il cuore mio. Se lo tocco salta in aria, se lo lascio stare così mi fa calore. Il cielo stanotte è piastrellato di stelle e non soffia uno sbuffo di vento. Tutti sanno chi sono, tutti fingono di non saperlo, ognuno si inventa un passato, con la candela della memoria spenta , che al buio la menzogna è verità. Verità per legge, per fame e per religione. Arrivo lenta a piedi sul groppo della salita che scivola dritta sulla strada del mare fino al faro, dove mi aspetta Sara. E mi chiedo, mi tormento semmai lei, la vita mia, mi ingannerà come gli altri. Se come gli altri tradirà i nostri ricordi, per vergogna. Se i suoi capelli biondi, i suoi riccioli si sbrogliano ancora come vipere sotto la pietra, per tutto il suo volto. Che penserà di me? Ora che sono senza capelli, che il destino me li ha strappati via uno ad

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uno, ora che i pantaloni e la camicia mi sfregiano il corpo. Mi fermo a guardare il mare. Ho bisogno di respirare piano, per non farmi tremare le mani, per seppellire queste domande che mi accorciano il fiato. Io e il mare da soli. E dietro e davanti la notte che mi riempie i buchi. Tutto è deserto profondo. Sento solo il rumore dell’acqua che finisce fra gli anfratti, sotto la strada, un gorgoglio come quello dei bambini quando ancora non sanno parlare e giocano con la sputazza. E le stelle che si gettano a testa in giù nel buio e mi cascano addosso , coprendomi di polvere di luce. Sospeso nel cielo, il faro è un vuoto del tempo irrigidito da questo prolungamento infinito del mare. Coperto dal silenzio. Che io me lo immagino proprio così il silenzio: una luce nel mare che va e che viene. Io sono dentro questo spazio, nel chiarore di un attimo che ora è eterno. Perché ho paura di vederla. Perché le gambe si piegano e hanno le ossa rotte. Sara. E io vestita da masculo. Le gambe riprendono a sforbiciarsi perché io comando sopra di loro, e ora devono muoversi, altrimenti a terra si butterebbero, la fine di un sacco di paglia mi farebbero fare. Non penso più a niente. Mi chiudo gli occhi e cammino, con la testa persa nella dimenticanza. Che ogni tanto il lampo del faro mi colpisce gli occhi e io vedo ragni rossi, e blu sotto le palpebre spente.

<<Pina, sono qua.>>

E’ la voce di Sara, devo riaprire gli occhi. Gesù mio ti prego fammeli aprire che io voglio vederla, io voglio che il cuore si spezzi, un tuono deve essere, che uno si sveglia e si sente morire . E per questo, si sente vivo.

Li riapro. Ci riesco, sono impastati. Ci riesco.

<<Sara.>>

E’ lei. Bella, più bella di come ce l’ho avuta dentro per tutto questo tempo. .

<<Sara>>, e non riesco a dire niente.

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Ancora silenzio.

<<Ho pianto tanto per te>>, sussurra con un filo di voce.

<<E io ho buttato il mio sudore per te. La mia carne piangeva nel freddo della tana dove mio padre mi ha rinchiusa. Perché gli occhi miei, lacrime non ne avevano più.>>

<<Io ti avrei riconosciuta pure con gli occhi chiusi. Il tuo odore, la tua pelle.>>

<<E io con gli occhi chiusi ti ho vista. Con gli occhi chiusi ho respirato la tua emozione, ho sperato in questo momento mentre tenevo gli occhi serrati che i peli delle ciglia si sono impastati col sale che mi buttava addosso il mare.>>

Restiamo con gli occhi che si rincorrono. Senza parole restiamo, appiccicate sugli scogli con la luce del faro che ci divide e poi ci unisce lasciandoci al buio. Allargo le braccia

<<Non avere paura. I miei baci, ti ricordi i miei baci? E le mie carezze? Le mie mani, la mia bocca sempre quelle sono. Abbracciami amore mio.>>

<<Si, Pina, tua per sempre sono.>>

Le sue braccia sono dieci, venti cento, mille. La sua bocca è una gabbia di serpenti.

<<Che ti hanno fatto amore mio?>>

<<Questo è il momento che cercavo, che ho smaniato di notte e di giorno, il premio che volevo. I tuoi baci, sono la mia ricchezza. Ora tu sei mia. E io sono libera perché sono quello che sento. Finalmente senza bugie.>>

<<Ma così coi calzoni, senza i capelli. Così è pure una bugia.>>

<<No, nessun amore vero è menzogna. Io per te sono Pina, io per te sono l’amore e tutto il resto non vale niente..>>

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<<Si, ma tutti lo sanno che tu sei femmina.>>

<<A tutti gli altri faccelo credere che io sono quello che vogliono loro. Quando si rimane dentro alla gabbia, si conoscono solo le cose che i padroni fanno vedere. E poi io ti sposo Sara.>>

<<Ma che sei pazza?>>

<< Io ti sposo. Così nemmeno ci pensano più.>>

<<Ma il parrino, tuo padre, tua madre...>>

<<Felici saranno. Questo per loro è il sigillo della verità che si sono inventati. Senti a me, un piacere ci facciamo.>>

<<Ma il signoruzzo nostro, lui sa la verità.>>

<<E lui magari contento è. Lui così mi ha fatta e a te pure. Che se ci voleva diverse non ci faceva innamorare. No, senti a me, lui è contento. E vedrai il parrino pure la benedizione in chiesa ci dà.>>

XXVII

<<Il tufo, è pietra viva. Dentro ci trovi le arterie, le vene, e magari i nervi. E poi sentilo sotto le dita, accarezzalo, non è duro come le altre pietre, il tufo ha la pelle, come quella di una persona.>>

Le cave dove mio padre comanda gli uomini del Barone, sono sotto gli occhi miei. Nessuna femmina ci ha messo mai piede. Questa è roba di masculi. Fa freddo, la falce della luna è ancora incerta sulla testa del castello. E per spuntare il nuovo giorno ci vuole ancora un poco.

<<Devi imparare presto, tu con gli uomini ci devi parlare, li devi sentire. Ma poi solo quello che dici tu è legge.>>

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Le cave sono palazzi di pietra a testa sotto, che mi pare la bocca di Fifì il muto quando ride e si vedono solo quattro denti gialli affacciare dal buio della gola.

I tagliapietre camminano davanti a noi, una fila che si allunga fino alle labbra della prima galleria. Ognuno con la sua torcia di acetilene fra le mani per farsi spazio nella notte, come incubi che navigano in un mare che non appartiene a questo mondo. Perché è del barone pure lui.

<<Assabbinirica Don Nino. Baciamo le mani Pino. Un gran giovanotto ti sei fatto!>>

<<Pino questo è mastro Giulio, il sovrastante . Con lui ogni sera devi contare i blocchi di tufo che hanno tirato sopra i tagliapietre.>>

Sono nella grotta. E dentro mi appare uno spettacolo che nemmeno se me lo spiegavano per filo e per segno io potevo crederci mai. I tagliapietre sono tronchi appesi ai blocchi di tufo che arrivano in cielo, come a dirci al signoruzzo nostro che pure i disgraziati una mano in paradiso ce l’hanno. Si arrampicano e scavano col piccone che disegna i blocchi come vuole il padrone. Che pare un formicaio, salgono e scendono come le formiche che con una mollica di pane ci stanno tutto il giorno a passarsela, fino all'ultima che la porta dentro la tana. Con questa luce sembrano blu, come certe notti senza luna. Nudi, con le spalle grandi e le gambe corte e secche

<<Tu ogni sera, quando loro finiscono di lavorare, ti pigli un pezzo di carta e segni con le aste i blocchi che ogni tagliapietre ha scavato. Poi la domenica mattina ce li paghi e ti tieni la metà. E a fine mese il barone ti squadra i conti.>>

<<Ma quando comincio?>>

<< Prima cominci meglio è.>>

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La galleria è un labirinto centrato nella pancia della terra. Che nemmeno si vede la spina di questo intestino, tanto è lungo e profondo. E attaccati ci sono con le mani e con i piedi i tagliapietre che sembrano vermi. Come quelli che là sotto nella galleria si mangiano il pecorino .

<<Ti sembrano cristiani questi?>>

<<Perché che sono ? Non mi sembrano bestie.>>

<<Lo so. Ma come animali vivono. Nudi, che non hanno vergogna. Arrivano a casa e nemmeno acqua per lavarsi hanno. E sotto le lenzuola la puzza che fanno lo sa solo Dio.>>

<<E noi due, pure. >>

<<Senza di me sarebbero già morti di fame.>> >

<<Hanno paura.>>

<<Più ci tieni la catena al collo e più dicono grazie. Questi sono abituati a baciare la mano di chi ci dà a mangiare. E questa mano deve essere forte, non te lo scordare mai.>>

<<Meglio una mano giusta però.>>

<<La mano forte è pure quella giusta. Hai visto mai una giustizia senza la forza? No, non si è sentita mai.>>

<<Ma noi non siamo la giustizia.>>

<<Noi siamo la vita. L’isola c’è perché noi lo vogliamo. Se buttiamo a mare le cave, il barone si piglia i suoi soldi e sull’isola non resta più nessuno. E loro, le bestie, lo sanno. E ci vogliono bene.>>

Usciamo fuori e vedo di nuovo la luna. E la sento mormorare. Come un bisbiglio senza parole. Una cosa che assomiglia ad un pianto. Mi tocco la faccia e una lacrima mi resta fra l’indice e il pollice.

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XXVIII

La porta della casa di Sara è più grande di quella che pensavo. Pare Il portone della chiesa di San Giacomo. Il mare sputa l’acqua fino al cancello. Sopra, le nuvole rincorrono l’orizzonte perché hanno paura di essere prese dal sole, che se le acchiappa le rovina. Che non ne può più, mischino, sempre sopra di loro, che ci leva l’aria. Pure il castello è sospeso in questo tempo magro che si vede l’osso che non è fatto di minuti e di ore, ma di rassegnazione. Mio padre e mia madre sono dietro a me. E io con i pantaloni marroni, la camicia a quadri, il mantello verde di mio nonno, e la coppola in testa. Con la fascia che mi spiaccica il petto, perché così le minne non si vedono, e una palla di stoffa dentro le mutande, perché così là sotto che ho qualche cosa, si vede. Sara apre la porta ed io trattengo il fiato. Bella, bellissima. I capelli d’oro, la faccia di porcellana, le labbra di amarena. Un fiore sbocciato che si apre e si chiude ad ogni sguardo

<<Entrate, entrate. Questa pure casa vostra è.>>

E per me, un sorriso, una promessa di felicità. La faccia della madre di Sara, è una maschera di quelle che a carnevale ci mettevamo noi picciotti per fare spaventare i vecchi seduti ai tavolini della piazza, sotto il monumento del nonno del barone. Che ci sembrava di fare paura pure a lui. Mi stringe la mano. E mi fa un mezzo inchino. Come se è la prima volta che mi vede. Poi tocca a mia madre e a mio padre che ora sono davanti a me, la mano e anche per loro l’inchino. Sul tavolo ci sono ciambelle di zucchero e due brocche di caffè che dall’odore, io dico che con la cicoria secca l’ha fatto. Ci sediamo. Lei è di fronte a me, vicino a sua madre. Ci sono riuscita. Sono Pino. Lo so non sono io quella che c’è fuori. Ma sono io lo stesso, con la mia anima che è qua, dall’amore mio. E per sposarla. E non mi importa se sua madre ha dimenticato per legge e per

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religione chi ero io prima di mettermi i pantaloni. Se questo tossico che si chiama comandare, ce l’ha fatto scordare a tutti per forza, questo veleno mi piace. La fine delle lumache devono fare. Che si fanno il callo sopra la testa per l’inverno, poi d’estate non riescono più a uscire fuori e muoiono soffocate dentro la loro casa, affogate nella schiuma. Fanno finta che io sempre masculo sono stata. E sono contenta così. Tanto siete voi che vi fottete la testa. Che vi siete ammazzati i pensieri, per farmi nascere di nuovo, perché vi fa comodo, spegne le vostre inquietudini e ne partorisce altre. Più sottili e meschine, che nessuno deve sapere niente. Perché il pane è pane. E bugie e verità non la riempiono la pancia. Ho la bocca piena di saliva e la testa leggera. Sono pronta.

<<Prendete qualche cosa. Pino accomodati. Sara mi ha detto che le ciambelle ti piacciono. E lei signora una tazza di caffè se la prende?>>

Sara passa col vassoio dei dolci fra le mani. Le sue mani mi accendono, bianche, delicate. Che mi toccano quando voglio io. Che per lei io sono Pina e non mi importa degli altri. Che io sono Viola, Minchia di Re , arruso, arrusa. Io per lei sono Pina. E questo basta al mio amore, all’anima mia che si nutre di questo latte. Mio padre si schiarisce la voce, un colpo di tosse.

<<Signora Fascella, io ci vorrei parlare di questi nostri ragazzi.>>

<<Se a lei sta bene quello che vuole Pino, io contenta sono.>>

<<Si, ma i ragazzi parlano di matrimonio.>>

<<A me presto mi pare. Ma se a lei sta bene e Pino ha da guadagnarsi il pane, io ci do la mia benedizione a tutti e due.>>

<<Si, ma Sara è pronta per sposarsi?>>

<<Qualche cosa ce l’ha. Ma non vi aspettate Don Nino, corredi di principessa. Suo padre ad Aden in mezzo al sale è. I soldi li manda una volta l’anno e quando arrivano mi servono per pagare i debiti.>>

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<<A Mario lo avete detto dei nostri figli?>>

<<Mi ha scritto che per lui l’importante è il pane. Se c’è quello tutto va bene.>>

<<Ma che sono io ce l’avete detto?>>, mi infilo fra loro due.

<<Mi ha detto che è contento.>>

<<E che avete per Sara?>>, riprende mio padre

<<Piglia quella carta Sara.>>

Sara si gira, apre il cassetto del mobile da pranzo e tira fuori una busta.

<<Tre tovaglie da tavola pizzo San Gallo, tre camicie da notte, mezza dozzina di lenzuola e federe, due tende fatte a mano dalle suore di Agrigento. >>

<<E poi?>>

<<Basta, Don Nino. Un altro poco di tempo volevo per farci cucire qualche altra cosa.>>

<<Noi ci sposiamo l’anno prossimo . Scusatemi devo andare un poco fuori. Mi manca l’aria.>>

Esco fuori la porta, infilo le mani nei pantaloni e tiro fuori le palle di pezza che mia madre mi ha cucito nelle mutande. Entro dentro. Mio padre si appunta sulle mani che sono due pugni chiusi . Stacco il pollice e l’indice e lui si accorge che ho le palle di Pino nelle mani.

<<Papà. Fra un anno. Io piglio il tuo posto nelle cave e Sara diventa mia moglie.>>

<<Ma…>>

Mi avvicino e piano piano.

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<<Papa se non me la fai sposare, io Viola torno. E se devo morire là sotto, prima ammazzo pure a te.>>

E lui rivolgendosi a mia madre.

<<Ma tu non hai il corredo che è nuovo nuovo?>>

<<Ancora dentro il baule. Immacolato è.>>

<<E allora tutto è risolto. Se lo prende Sara. Così i picciotti si sposano quando vogliono loro.>>

<<Come volete voi Don Nino. Ma ora pigliatevi un poco di caffè.>>

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XXIX

Lui e la zia suora ora sono due corpi senza pensieri, senza niente nella testa, col cuore svuotato che dentro c’è rimasto solo polpa e sangue. Due cocci di carne sdraiati sulla pietra. Che io vorrei dare l’alito mio per fare tornare viva la fragilità chiusa da quel velo. E a mio padre tutto il mio spavento che è diventato rabbia e veleno, per farci compagnia all’inferno. Li hanno presi dentro al pozzo, dopo due giorni che nessuno sapeva più niente di loro. E mia madre come una pazza faceva, che non sapeva più dove cercarli. Col pensiero che erano stati i banditi ad ammazzarli, che ci ballava nella testa. Non si dava pace, per sua sorella. Lei che cosa c’entrava coi farabutti? Lei che aveva pagato le sue colpe, che si era incarcerata dentro la tonaca, per farsi scuoiare il peccato dall’anima. I tagliapietre per due notti non sono andati a dormire, che se lo sentivano già sotto il culo il cavallo Sanfratellano che il barone aveva promesso a chi li riportava a casa. Se non era per Ninetta, la serva che mia madre si è presa in casa, ora ancora a cercarli stavamo. Deve essere stato un colpo d’occhio, un fulmine rapido come una distrazione a scovare la collana della suora impiccata ad una spina di ortica , sotto la bocca del pozzo. La medaglia tagliata a metà come mozzicata dai topi, con la faccia dell'angelo che ci mancava un occhio e l 'ala, dondolava spinta dal vento da un fiore all’altro fino a quando la mano giovane di Ninetta non l’ha raccolta e me l’ha fatta vedere. Il ragazzo più secco della cava è sceso giù a vedere se dentro al pozzo c’era qualcosa. Quando è salito sopra, con le spalle attaccate alla corda, ha guardato mia madre e non ha detto niente. E nemmeno lei. E’ sceso di nuovo laggiù, nel buio tormentato dalle anguille. Ho contato fino a cento; è spuntato dal parapetto del pozzo che pareva un pesce soffocato dall’aria. Due parole è riuscito a dire: <<li tuccai>>. Gli hanno dato altre corde e dopo un poco li ha tirati fuori. Mastro Giulio, il sovrastante prima ha preso mio padre, poi

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la suora. Altri due picciotti li hanno messi così come sono ora, che sembrano due bambini piccoli che per non svegliarli la mamma li corica a letto dopo che si sono addormentati sul divano. Un filo di schiuma naviga fra lo zigomo e la tempia di mio padre, un rivolo di sangue che sgorga dal naso si unisce a questo solco e si perde nella sabbia del tufo infuocata dal sole. E resta un segno arancione, di sangue secco, cotto nel sole infuocato di questa mattina d’estate gravida di zagara e di polvere. Mia madre è seduta sullo sgabello verde che al giardiniere serve per quando innesta le piante, i piedi nudi sfiorano i capelli di sua sorella, come a volerne accorciare le distanze, come un tramonto breve che si apre alla notte per spingere il sole a risorgere prima. Scalza, si guarda i piedi e non ha nemmeno un filo di fiato per addentare questo tormento che le sfugge da tutte le parti. Io la vedo scappare via coi pensieri da questo lutto, sedotta dai rimorsi schiusi dal dolore. Immobile, sono in piedi dietro di lei, con gli occhi spalancati sulla morte che ora è silenzio e sole, zagara e sangue. Lui ha finito di sfidarmi e di umiliare l’anima mia. Leggi e regole non ce ne sono più, sono finiti dietro questi occhi chiusi, dentro questa sua faccia che mi ha condannata ad un’altra storia, per liberarmi dalla maledizione delle sue rovine. Mi viene incontro il mare che da sotto libera la sua brezza di alghe sfatte e di vento leggero come una carezza. E Agnese. Vicino a lui, di fianco, col velo perso in fondo al pozzo, coi brandelli della sua tonica che è la gabbia di una bellezza ostaggio di un incubo. E la vedo serena, libera nell’aria, con le ali sospese sui sogni, uno stacco sulle inquietudini, distante dalla vita che ora per una volta è completamente sua. Come la vita mia che me la sento fra le mani, resuscitata da quella faccia vermiglia abbandonata dagli sguardi che erano frecce contro la mia natura. E’ la morte che mi fa venire i brividi, che non è liberazione, ma abbandono della vita, l’assenza dei sentimenti che è peggio dell’odio. E per questo non riesco ad essere contenta a fare uscire fuori la gioia di chi sta per recuperare la vita che era perduta, affondata dai tremori. Che quando l’hanno tirato fuori, io

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ho visto una bambina che ha bisogno di amore e di tenerezze scappare da quella bocca di pozzo, in mezzo alle cosce di mia madre.

<<Madre>>, le sussurro

<<Madre, andiamocene da qui. Torniamo dentro.>>

Lei solleva gli occhi allampati da quella morte in ginocchio ai suoi piedi e con il dito mi chiede di accostarmi l’orecchio:<<Se la sono meritati>>.

<<Ma che dici mamma?>>

<<Si, ti dico.>>

<<Ma lei, la zia Agnese non c’entra.>>

<<Fidati Pina. Due diavoli erano.>>

<<Ma la zia…>>

<<Erano due diavoli e sono morti.>>

<<Piano mamma, non farti sentire.>>

E lei sempre più forte, con la gola arsa dalla voglia di gridare e di buttare fuori tutta l’aria di dentro.

<< Erano due diavoli, per questo sono morti. Tutti lo devono sapere cos’erano questi due.>>

Mastro Giulio e sua moglie si avvicinano alla sedia, prendono mia madre sotto le braccia.

<<Lasciatemi stare. Che ne sapete voi?>>

<<Pino chiama il dottore, presto.>>

E io ferma, come all’inizio di una rivoluzione, con le orecchie foderate di silenzio

<<E perché?>>

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Arriva Nicola Gulino che è cugino di mia madre, mi piglia da dietro le spalle, me le sento scuotere, ora è davanti a me.

<<Ma non l’hai sentita. Sta male. La testa non ci ragiona per il dolore.>>

<<E per questo ci serve il medico? No, lasciatela stare, sfogarsi è un bene.>>

Mia madre si chiude dentro al suo silenzio che è condanna, misura e distanza dalla vita, da quella che le sta dietro e da quella – se ne è rimasta un’altra - che si apre davanti.

Sara è seduta fuori, sul ballatoio del cortile. Quando la chiamo, lei si alza ed è bellissima, vestita di nero, con un velo di pizzo che le esplode sulla testa come una ventata di scirocco. Con le mani sulla faccia che si chiudono come un fiore di sera, si alza e mi viene incontro. E ci abbracciamo, il mio petto ingessato dalla menzogna sopra quello suo pieno di latte e caldo, con due punte dure come i chiodi. Le accarezzo la testa, io voglio solo a lei ora. Desidero accarezzare la sua pelle, baciarla sulla bocca, sui suoi petali, sentirla morire di piacere. Questi morti che un momento fa mi hanno fatto venire i brividi, non esistono, non ci sono. Nella mia testa c’è lei. Soltanto lei che mi gira dentro, come un rumore che non fa sentire soli. Restiamo così strette, in equilibrio sulle nostre vite che stanno cambiando.

XXX

A mio padre l’hanno coricato sul letto grande, con la pancia affacciata sul tetto ricamato dalla muffa. Quelli che hanno portato la cassa da morto, lo hanno girato quattro volte per vestirlo, che ora pare un pupazzo con il mal di denti. Gli hanno chiuso la bocca, che buttava ancora acqua di pozzo, con un fazzoletto che è una cornice posata sulla faccia. Non riesco a stare dentro, questa puzza di morte mi fa stare male,

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mi impiccano gli odori della morte: uova bollite e rose sfatte. Sto fuori, in cucina che così posso vedere pure mia madre che è una candela spenta, illuminata dal finto dolore delle mogli dei tagliapietre, che nessuno a mio padre qua lo poteva vedere. La zia è dentro la stanza mia, col velo e la tonica di suora, col crocifisso addormentato sul petto. Attorno al suo letto, le quattro suore del convento di Sant’Antonio, sono in ginocchio, col rosario fra le mani, che non si capisce una parola di questo lamento. E in piedi , il parrino che si segna con la croce ogni volta che entra qualcuno nella stanza.

Arriva il barone, si alzano tutti, mia madre resta seduta, al centro della cucina. Il barone si piega e le bacia le mani. Poi si avvicina a me

<<Abbiamo preso il farabutto che ti ha levato tuo padre e tua zia. Io te lo metto nelle mani e tu mi dici cosa devo fare.>>

E mia madre, sempre più forte

<<Erano due diavoli e sono morti.>>

E vicino a lei il dottore Puglisi con gli occhiali sulla fronte e la pompetta delle gocce che guarda il fondo del bicchiere.

<<Prendete queste, vi fanno stare bene.>>

Fuori , la notte è un cane lontano che abbaia. Io mi sento assorbita dai vapori di questo momento. Il barone è davanti a me e fa strada verso le cave. Quando arriviamo nella cava più piccola, la più lontana dal mare, riconosco il sovrastante di mio padre, suo figlio, il carpentiere e altri tre tagliapietre. Il barone con un gesto fa entrare da un vuoto fra due pareti rosicchiate dai picconi, un picciotto con un’ombra lunghissima che si spalma a terra e sulle sporgenze della cava. Lo tengono stretto fra i fianchi i due guardaspalle del Barone.

<<Eccolo Pino, lui ha buttato nel pozzo tuo padre e tua zia. Dimmelo tu che devo fare.>>

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<<Posso chiedere qualsiasi cosa ?>>

<<Sì.>>

<<E allora lasciatemi parlare con lui da solo.>>

<<Ma è pericoloso.>>

<<Vi prego…>>

<<Si, ma noi staremo qua fuori e al minimo rumore…>>

<<Va bene.>>

Sono sola io e lui. Con l’acetilene che squadra le pietre e ricalca le nostre sagome che si abbracciano sfumate all’infinito. Lo riconosco. No, non può essere lui. Questi occhi, il naso, i capelli lunghi che pare una femmina. Nicolino, no. Le corse in bicicletta, le sigarette dietro il muretto con la faccia buttata nel vento, i bagni nell’acqua. I tramonti che erano spettacoli e noi due con la bocca aperta fino a quando il sole scompariva. Lui mi guarda con due occhi pieni di inferno e di affanno, che è un rantolo di chi sa che la vita non è più niente. Le mani non stanno ferme, si annodano, si girano, si infilano nelle tasche, diventano pugni. E io che ho più paura di lui. Non trovo la resistenza per misurare il fiato che serve alle parole per diventare suono, morsa dai crampi che come rintocchi di campana mi scuotono tutta di dentro.

<<Nicolino, ma come facisti…>>

<<E’ stata una i disgrazia, io non c’entro.>>

<<Tu eri come mio fratello.>>

<<Te lo giuro. Io non ho ammazzato nessuno.>>

<<Io ho mangiato a casa tua. Ho giocato con te. Ci siamo fatti male assieme.>>

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<<Te lo giuro, Pino.>>

<<Ma il barone è sicuro.>>

<<Mio padre si è buttato a mare perché era disperato.>>

<<E che c’entra ora tuo padre? A quello mio stiamo piangendo stasera.>>

<<Tuo padre ci ha rubato il sangue con la paga che era un’elemosina. E non ce la facevamo più nemmeno a mangiare; la casa se l’è giocata la malasorte.>>

<<Le cose si sistemano come i cristiani.>>

<<Io ero sopra le barche che vanno a corallo in Sardegna. Tuo padre prima di levarci i muri e il tetto, con un giuramento l’aveva lasciato: alla cava il posto per me era cosa fatta. E io ci ho creduto e sono tornato. La sua faccia, le sue parole, mi pare cosa di cinque minuti fa. << Posto, ma quel posto? Avete capito male. Per voi non c’è più niente.>>

Nicolino resta muto a fissare l’ombra del fuoco. Mentre le mani continuano a muoversi e a dare corpo a questa memoria. E io entro dentro questo silenzio. Sento rumore di carne sbattuta, di polvere e di vento.

<<Continua Nicolino. E poi ?>>

<<Mio padre non ha detto una parola, una lacrima si è messa a correre sul suo naso e poi è scivolata sul mento. Non ha resistito alla vergogna, e in mezzo agli scogli di Punta Sapone l’ho trovato che pareva un gatto schiacciato dalla ruota di un carro.>>

<<E poi hai ammazzato a mio padre, per vendicarti.>>

<<Ho perso la testa, ho preso il fucile. Lui era a Cala Torta , vicino al pozzo, e c’era pure la suora . Col velo posato a terra e la tonica alzata fino

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alla pancia. E lui con le mani che la stringevano. E lei dritta, ferma come un crocifisso, che si diceva il rosario.>>

La ragione che ha di dentro mi sfascia il cuore. La sua voce è sottile, come quella di un bambino che ha gli incubi e non vuole dormire da solo . E cerca inutilmente sul cuscino la mano della madre.

<<Io sono diventato una statua. Mi sono girato e stavo per andarmene; la voglia di ucciderlo mi era passata, che mi sembrava che già la condanna di Dio per quello che stavano facendo bastava pure alla doppietta.che avevo in mano. Ma lui mi ha visto e io sono venuto fuori da dietro il carrubo. E gli ho puntato il fucile.>>

Trema, come la fiamma che ci illumina. Il sudore gli riga la fronte incorniciata dai capelli di leone. Un sospiro profondo lo fa alzare e poi abbassare. Uno più lungo, ora tocca il cielo. Poi è di nuovo sgonfio, perduto fra le spalle e la terra.

<<Tua zia si è messa in ginocchio. Tuo padre davanti a lei a farle da scudo, in piedi sul gradino più alto del pozzo.>>

Scuote la testa. I pugni strappano l’aria della notte e la conficcano nel petto. Si muove come il mare quando si spolpa gli scogli, un tiro dopo l’altro.

<<Io non ho avuto nemmeno il tempo di dire bi, che lui ha perso l’equilibrio ed è finito là sotto. Tua zia si è messa il velo, pareva un uccello senza penne, caduto dal nido. In piedi pure lei. Si è voltata e ho visto il buio che se l’inghiottiva.>>

La testa mia ora è un uovo sbatacchiato dalla forchetta dentro la ciotola di coccio. E non lo so se io sono la forchetta, l’uovo o il coccio. Così mi sento mentre lui si gira e si nasconde la testa fra le braccia, e piange, e singhiozza e mi chiede perdono. Era lui, mio padre, il demonio che tutte le sere andava a trovare la zia suora e le frugava sotto la veste. Era lui

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che imputridiva la sua anima irresistibile al perdono, alla tentazione e alla clemenza. E le imbiancava il peccato per sporcare la sua colpa , per buttare fango sul dolore che nel suo cuore rotto diventava amore, preghiera, grazia.

<<Ti prego, non mi fare uccidere.>>

Lui è attaccato ai miei piedi, con i capelli lunghi spersi nella sabbia della cava. Io mi abbasso, gli prendo la testa e me la metto sul petto.

<<Io ti perdono, Nicolino.>>

<<Ma che dici.>>

<<Si, Io ti perdono. Lui era un bastardo. E lei ha scelto di essere libera. Esci con me.>>

Una nuvola di fumo si impasta con le geometrie dell’acetilene che si tuffano sullo smalto argentato del mare; il sigaro del barone fa un mezzo giro ed è davanti a me.

<<Barone, non è stato lui.>>

<<Ma i miei uomini…>>

<<Non è stato lui. E’ mio fratello, siamo cresciuti assieme.>>

<< Mastro Ciccio lo ha visto uscire dalla galleria, la sera che sono scomparsi tuo padre e tua zia.>>

<<Mastro Ciccio si è sbagliato.>>

<<Ma poi lo hanno preso i miei uomini che stava scappando di notte con la barca.>>

<<Con mio padre ha avuto discussioni, e pensava che questo bastava ad incolparlo.>>

<<Ma…>>

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<<Barone, non è stato lui. Avete la mia parola. Che vale quanto quella di mio padre.>>

<<Sì, ma allora chi è stato?>>

<<Una disgrazia. Non parliamone più. Signor Barone , Nicolino, da domani mattina lavora con me. Che è bravo a fare i conti e dentro all’ufficio uno bravo ci voglio.>>

<<Come volete voi Pino. Allora buonanotte.>>

<<Buonanotte signor barone.>>

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XXXI

I muri della stanza da pranzo del palazzo sono foderati di seta rossa che nemmeno il re io dico così belli ne ha visto mai. Il piano della tavola è tutto boccioli di rosa e cani da caccia, intarsiati sopra legnami che hanno il colore della carne. Attorno, conto 27 sedie alte e nere come quella del vescovo in chiesa per Natale. Sopra il tavolo, dentro una campana di vetro c’è Gesù bambino, coi vestiti di pizzo e crinoline sulla testa e la faccia e le mani di cera. Ci perdono la vista le monache di Santa Teresa, su questi nasi piccoli piccoli, sulle orecchie sagomate con l'ago dell'uncinetto, mani sante imprestate ai benefattori del convento. E la moglie del barone non c’è festa che alle monache non ci fa regali e offerte per le povere sorelle che non hanno dote e vogliono prendere i voti; che pure per sposare il signore ci vogliono corredi e denari. Mentre aspetto con il libro dei conti sotto il braccio che la porta davanti a me si apre, mi incanto con gli occhi appuntati sul tetto nel trionfo della madonna, alta, con il velo azzurro sopra una piramide infinita piena di angeli e di santi. Più giù fra le facce della famiglia Burruto - che loro sono i discendenti della Madre santissima per parte di padre - riconosco il nonno del barone, i suoi figli e in fondo vicino alla porta sull’ultimo pezzo di velo, un manto azzurro che aspetta altre facce di signori e di padroni. La porta si spalanca e la baronessa mi sorprende con il naso per l’aria. La pelle d’ambra, la faccia un velluto morbido e incipriato, ha due occhi che sono perle nere rubate a chissà quale mare. Cammina che pare una regina e mentre si avvicina, sento i buchi del naso che si aprono e si inghiottono tutto questo profumo di borotalco e di rose che si muove assieme a lei.

<<Pino, finalmente ti conosco. Tutti mi dicono che sei più bravo di tuo padre a tirare le cave. Ero veramente curiosa di vederti.>>

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<<Il signore vi benedica Donna Giovanna. Spero che le cose che vi hanno detto di me non sono cattive.>>

<<No, no. Mi hanno detto che hai imparato a leggere e a scrivere dopo che tuo padre è morto. Mi hanno detto che ti piacciono le cose belle. Che hai confidenza con i libri>>.

<<Si, donna Giovanna, se questo è peccato per voi, perdonatemi.>>

<<Ma quale peccato. Mettiti comodo.>>

Mi tiro le tasche e mi siedo a terra sul tappeto di lana coi giardini disegnati che sembrano rovi di more quando sono tutti pieni di frutti.

<<No, sulla sedia mettiti.>>

<< Se lei mi dà il permesso.>>

<<Tua madre, com'è?>>

<<Certi giorni è normale come a me e come a lei. Poi una mattina si alza e per sette, otto giorni diventa muta. Si intoppa la vista in un angolo della stanza da letto e non si muove più. A mangiare, come una bambina, un cucchiaio alla volta, ci pensa Ninetta che è una santa a starle dietro.>>

<<Come sono quest'anno i conti della cava?>>

<< Il signor barone non si può lamentare. Col vostro permesso se il signor barone non c'è io torno più tardi.>>

<<No, sta venendo, e' una questione di minuti. Lui mi ha detto di farti aspettare qua con me. Lo sai, quanti vorrebbero essere ora al posto tuo?>>

<<Me l'immagino baronessa. La vostra bellezza confonde la testa.>>

<<E tu fortunato sei. Che a mio marito sei l'unico che non ci fa venire pensieri strani di gelosia.>>

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<<Io servo della vostra famiglia sono.>>

Si avvicina alla tenda e con un colpo secco che pare una fucilata la chiude. Le barche, un pezzo di giardino, il molo coi carretti che a quest'ora c'è rimasto solo il pesce per la zuppa, in un momento spariscono. Pure gli angeli e i santi sul tetto sfumano nella polvere argentata che balla sospesa sui fasci di luce che bucano la tenda e accoltellano il tavolo e la seta rossa delle pareti fino allo zoccolo di maiolica. Da un cassetto della credenza tira fuori una bottiglia.

<<Che fate baronessa?>>

<<Ti faccio bere una cosa che ti fa salire in cielo. E' assenzio. Un liquore che fanno in paradiso. Un bicchiere per te e uno per me. Tutto in un sorso, senza respirare.>>

<<Buono è signora Baronessa. Ma vi prego aprite la tenda che il buio mi fa paura.>>

<<Io sono curiosa. Mio marito dice che tu sei femmina e masculo. E io certe notti non ci dormo per questo pensiero che mi stringe il ventre, che certe mattine mi sveglio tutta piena di rugiada.>>

<<Ma signora baronessa che dite...>>

<<Dico che voglio vederti come sei fatto sotto. Un uccellino mi ha detto che tu hai uno strumento piccolo e bello duro fatto apposta per fare contente le femmine.>>

Mi sento circolare nelle orecchie un vento caldo, un fuoco che arde e che per un momento non mi fa pensare a niente. E vedo solo i colori forti, belli, che escono fuori dalle forme e suonano nella testa mia confusa, come bicchieri di cristallo. La baronessa mi piglia le mani e ce ne andiamo dietro un'altra porta. Mi sdraio a letto sotto il baldacchino e lei mi spoglia piano. La cinta, i pantaloni. Che pare una bestia affamata,

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con gli occhi che sono cambiati di forma e il fiato corto e potente che va e viene come un’onda .

<<Ma tu…>>

<<Si, baronessa, io sono femmina come a voi.>>

E scoppia a ridere e a singhiozzare che un treno a vapore a confronto è pianto di creatura. E le dita sottili come fusi, che mi toccano, che non si fermano, che salgono sopra, passeggiano sulla pancia, pascolano sulla camicia, liberano il petto mio di femmina prigioniera. Poi tornano indietro e si infilano sotto i pantaloni. Io serro le labbra ed è una scossa che sento dentro la bocca dello stomaco, come l’elastico della fionda che quando si tira non sta fermo, trema, fino a quando la mano non lo rilascia e ritorna mollo.

<<Pino, Pino. Svegliati.>>

La voce del barone. Signoruzzo mio devo fare di fretta, che se mi scopre. Devo rivestirmi. Apro gli occhi. I tremiti e le palpitazioni che mi tiravano da tutte le parti, ora non ci sono più. Sopra la mia testa non c'è il baldacchino, gli angeli continuano a sorridere e i santi a piegarsi sul velo azzurro della Madruzza.

<<Ti sei fatto un sonno, Pino?>>

<<Signor Barone sono senza assoluzione. Con tutto questo paradiso che c'è qua sopra, una saetta mi ha rapito.>>

<<E ti sei fatto un sonno.>>

<<Si signor barone, ma questione di poco sarà stata.>>

<<Giovanna, vieni che ti faccio conoscere Pino.>>

Entra dalla porta piccola ed è vestita precisa a come l'ho sognata.

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<<Mentre ti aspettavamo, ho scoperto che è pure bravo a chiacchierare.>>

<<Allora vi siete già conosciuti.>>

<<Io me lo ricordo quando era picciriddo e camminava con sua zia, povera suor Agnese che questa brutta fine non se la meritava.>>

La baronessa sorride, mi posa una mano sulla spalla e si allontana. Si siede sul divano, con un giornale in mano.

<<Allora prima di fare i conti, un bicchierino ce lo facciamo?>>

<<Come dite voi signor barone.>>

Apre la credenza. Una delle bottiglie è la stessa che nel sogno mi ha dato la baronessa. Sono tutte sul tavolo coi bicchierini poggiati sul vassoio d'argento. Ma quella della baronessa non c'è, è rimasta dentro al mobile.

<<E quello signor barone che liquore è?>>

<<Questo è roba forte, che costa un sacco di soldi. Me lo faccio arrivare apposta dalla Francia.>>

<<Ma che erbe sono?>>

<<Si chiama assenzio. Tu ce ne dai una goccia a una femmina e quella perde la testa, non capisce più niente. E fa cose che nemmeno le buttane si sognano.>>

<<Signor barone sempre voglia di scherzare avete?>>

<<E se non ridiamo un poco Pino, che cosa ci resta di questa vita? Niente.>>

<< Ragione avete Barone, ridiamo che è meglio.>>

<<I conti delle cave sono precisi?>>

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<< Manco una virgola è fuori posto.>>

<<Ma la parte tua, perché ce l’hai tornata agli operai? Qua non ce ne sono santi, Pino. Tutti peccatori siamo. E come faceva tuo padre era giusto, perché gli operai sentivano la mano pesante che li governava.>>

<<E’ giusto così Signor Barone. A me bastano i soldi che voi mi date per tenervi a posto le cave. Le case, i terreni li avete forse visti in chiesa a pregare per mio padre?>>

<<Gli operai troppo contenti non li devi tenere, Pino. Senti a me, che questa gente la conosco bene.>>

<<Ma perché Signor Barone non è forse giusto che un poco di contentezza spetta pure a loro ?>>

<< Se tu li tieni contenti, loro non ti ubbidiscono, si fanno i fatti loro, non hanno pensieri. E chi ha la testa leggera, lavora male. E se lavorano male noi non abbiamo interesse a tenere la cave aperte. Tu mi dici che i soldi non bastano più per pagarli. Io chiudo le cave, finiamo tutti col culo a terra.>>

<<Ma non è cosi’ però.>>

<<Ora non è cosi. Ma tu l’isola la devi vedere fra dieci, venti anni. Io non ci voglio nemmeno pensare.>>

<<Ma loro ora lavorano col sorriso, scherzano, possono parlare.>>

<<E questo è il torto. Ma lo capisci che se a questi non ci manca niente, loro non hanno più bisogno di noi.>>

<<E che ci fa signor Barone?>>

<<Ci fa, ci fa. Che qua sempre con le promesse l’isola ha tirato a campare.>>

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<<Ma voi avete visto i conti. La raccolta è meglio di quella dell’anno scorso.>>

<<Pino, domani quando tu ed io avremo bisogno di loro, cosa ci diciamo, - Mastro Carlo per favore facissi questo, facissi l’altro? No, noi dobbiamo comandare e per comandare dobbiamo promettere. Se manteniamo le promesse come ce li diamo gli ordini agli uomini nostri? Se ci dai la libertà, questi pazzi diventano.>>

<<Signor barone, lei mi faccia fare quello che voglio. Se sbaglio sarò io il primo a pagare il prezzo del vostro disprezzo. Ma vi prego fatemi fare quello che ho in testa.>>

<<Tu vuoi diventare santo.>>

<<No, signor barone questi hanno conosciuto l’inferno. Hanno visto le fiamme alte mangiarci il fegato. E pure io c’ero in mezzo a loro. Signor barone io a questi ci voglio insegnare a vivere senza tenere sempre la mano aperta in cerca di un pezzo di pane.>>

<<Ma non ci sono abituati.>>

<<Io ci voglio fare provare l’assenzio.>>

<<Ma che dici.>>

<<Per modo dire, signor barone. Io voglio che loro si mettono a fare cose che nemmeno lei – che con rispetto parlando è una buttana vecchia della vita- ci ha pensato mai. Un tuffo a mare da Cala Tramontana, una partita a briscola, una mangiata in campagna .>>

<<Ma Pino questo è veramente troppo. Tu vuoi rovinarti. Li vuoi perdere.>>

<<Signor Barone io li voglio salvare.>>

<<Io non so se ti posso…>>

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<<Signor Barone, facciamo così: alla prima occasione che i conti diminuiscono, io cambio sistema e tutto come volete voi ritorna.>>

<<Ma poi sarà troppo tardi e…>>

<<Ve lo chiedo perché io posso mantenere quello che vi ho detto.>>

<<Va bene. Ma questa libertà solo per voi devono tenerla. A me gli uomini mi dovranno sempre reverenza e obbedienza. Quello che fate voi io non so niente. Ditecelo che il padrone a chi sbaglia lo butta a mare.>>

<<Come comandate voi signor barone.>>

<<Ma quel libro che hai sotto il braccio, non è quello che tuo padre..>>.

<<Si signor barone, ve l’ho portato per chiedervi l’ultima preghiera. Leggendo le carte di mio padre ho scoperto che le case e i terreni di questa povera gente li avete voi al riscatto per un quarto di quanto valgono. E il resto appartiene a me.>>

<<Giusto.>>

<<Bene, io per la mia parte ci rinuncio e vi chiedo – sempre con rispetto parlando.- di fare la stesa cosa a voi.>>

<<Ma Pino come ti permetti…>>

<<Luigi, Pino ha ragione. Con tutto quello che abbiamo che ce ne facciamo di queste pezze vecchie>>, interviene la baronessa, seduta sul divano, alzando gli occhi dai figurini di moda

<<Giovanna, ma questa è la fine.>>

<<Io rinuncio alla parte mia delle cave. E ce la regalo a Pino.>>

<<Si, ma gli operai che diranno?>>

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<<E noi, signor barone niente ci facciamo sapere. Voi non c’entrate niente.>>

<<Giovanna sei sicura di quello che stai facendo?>>

<<Luigi, non ci perdiamo niente. Ne abbiamo abbastanza per i nostri figli, i nostri nipoti e per i nipoti dei nostri nipoti. Per due case e due terreni senza valore, non ne vale la pena di parlare.>>

<<E va bene. Ma ti giuro Pino che se alle cave non mi dai soddisfazione, io con queste mani ti butto a mare.>>

<<Signor barone io ci sono abituato a morire e a nascere di nuovo. E voi lo sapete. Non ho paura, per questo sono sicuro di quello che faccio.>>

<<Va bene, va bene. Giovanna accompagna a Pino alla porta.>>

Scendo le scale e di nuovo mi sento avvolto dalla nuvola del profumo della baronessa. Mi accompagna fino al calesse, e prima di schioccare la frusta sul mulo, mi dice piano all’orecchio.

<<Quando vuoi venire a sognare con me sai cosa fare.>>

<<Grazie signora baronessa, ma i miei sono sogni diversi dai vostri.>>

Il mulo gratta con lo zoccolo le pietre piatte della strada, e in un momento il palazzo è lontano.

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XXXII

<<Pino, per fare una mossa così importante ci vuole tempo.>>

<<Ancora tempo? Mi volete prendere per fissa, forse?>>

<<No, non è questo. Ma tu sai che nelle condizioni in cui…>>

<<Quali condizioni, parrino. Dovete parlarmi chiaro. Qua non siamo in chiesa, perciò…>>

<<Tu non puoi fare figli e poi…>>

Me lo dice piano, con un colpo di catarro, per non farlo sentire a nessuno. E’ come una foglia che se la spassa con lo scirocco, la voce del parrino, mi tocca e si allontana come un braccio che tira un pesce che è più forte della lenza e fa fatica a portarlo a terra. Fa vento, su questa vecchia strada di mare incrociata dai gabbiani. Contro il cielo lavanda si stagliano i rilievi grigi delle cave di tufo dell’isola delle Lucciole, cattedrali sull’acqua che mutano i contorni col sole e con l’ombra, come la pelle delle serpi in primavera. Il barone ha insistito a portarsi il parrino sulla barca perché davanti all’isola ci sono spiriti maligni. Chi li ha visti, ancora la pelle d’oca ci viene solo a farlo questo pensiero. Che l’acqua si mette a roteare come quando dalla tinozza l’ultimo litro se ne scende nel buco e pare un imbuto con la galleria in fondo che viene voglia di metterci il dito per vedere se è bello bucare l’acqua senza bagnarsi. In mezzo al mare, quattro schifazzi ci possono finire inghiottiti se i pescatori non sono bravi a scansarli. Malefici, figli del demonio sono, incantamenti di streghe sfacciate e senza coscienza nemmeno per la miseria. E il parrino oggi ci deve buttare sopra l’acqua benedetta per ammazzarli questi spiriti. Sull’Isola delle Lucciole, la pietra è la più buona del mondo. Dura e morbida come le femmine. Qua i borboni ci tenevano una caserma e la chiesa. Due capannoni li aveva tirati su il nonno del barone

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per quando c’era maestrale e gli operai restavano a dormirci. Ci colpa lo spavento di Orfeo, un soldato calabrese della guarnigione, se per tutto questo tempo le cave sono rimaste abbandonate. Mentre era di guardia in una notte senza luna, ha visto due streghe tutte vestite di nero con i capelli lunghissimi sciolti a mare. E con questi fili duri come la corda, le arpie davano comandi ai venti e, come pesci buttati dal cielo, li imbucavano nell’acqua. Il mare ferito dalla diabolica potenza, si inginocchiava alle buttane ingannatrici, aprendo un varco per l’inferno. Questo il soldato ha raccontato alla taverna del porto, dopo due bottiglie di vino, in una notte senza luna. E i suoi occhi dovevano essere così pieni di orrore che nessuno da quella sera ci ha messo più piede sull’Isola delle Lucciole. Magari le barche di Garibaldi l’hanno cancellata dalle mappe; che pure là sopra agli uomini il coraggio non ci doveva mancare, se ai figli di Cecè a sangue freddo li hanno ammazzati solo per fare vedere che erano loro i nuovi padroni. Che a comandare sui poveri e sui miserabili poco ci vuole; è sulla paura che è difficile ragionarci e dare ordini. Che ci vuole a fare inginocchiare un uomo con la pistola puntata in testa? Niente. Il coraggio vero è morire con la schiena dritta, senza prima piegarsi alla morte. Sono in piedi sulla prua di questa barca che si avvicina alla riva veloce. Come una sfida al terrore e all’abbandono. Il parrino è tornato dentro la gabbia di legno dove c’è il timone e ha preso una ciotola di coccio con l’acqua benedetta. Il barone da quando siamo partiti non si è mosso dalla panca di legno che gira attorno alla barca. Ogni tanto si sposta più avanti, si fa il segno della croce e borbotta una preghiera che da qua io non sento niente.

<<Cosi malefici, figli della morte, lasciate quest’isola e ridateci la pace nel nome del Signore.>>, grida padre Angelo dalla prua con un ramo d’ulivo in un pugno e il coccio nell’altra mano. Con la sottana al vento che pare una bandiera nera come quella dei pirati.

<<Cosi malefici andate via. Cristo ve lo ordina.>>

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Scendiamo sull’isola. Ormai è giorno, le cave di tufo escono fuori dalla terra come funghi di faggio dal sottobosco, dopo una giornata di pioggia e tre nottate di sereno.

<<Ma perché parrino? Perché non posso sposarmi? Io non mi do pace.>>

<<E tu ci pensi ancora?>>

<<Io non ti posso sposare, Pino. Sono vecchio, ho poca strada da fare per arrivare in cielo. Non voglio farlo questo peccato.>>

<<Quale peccato è?>>

E si infila la bocca nel mio orecchio

<<Tu figli non ne puoi fare. Lo capisti?>>

<<Pino, che te ne pare di questo posto?>>, mi dice il barone.

<<Magnifico è, signor barone.>>

La pineta si allarga dalla riva come un abbraccio. Camminiamo lungo i sentieri disegnati dal sole e dalle nuvole.

<<Ce ne vuole lavoro, non è vero?>>

<<Altri uomini ci servono.>>

<<Hai ragione Pino, gli uomini nostri non ci bastano.>>

<< Il prossimo anno qua tiriamo più tufo dell’Isola Lunga. Ve lo prometto signor barone. >>

<<Pino, tu mi porti fortuna. E io a te ci credo.>>

<<Ma voi un piacere mi dovete fare.>>

Mi fermo per fare passare il parrino. Sono sola con lui.

<<Che cosa vuoi Pino?>>

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<<Io mi voglio sposare.>>

<<E io che sono parrino?>>

<<Voi dovete dire al vescovo che io mi voglio sposare con Sara.>>

<<Ma il vescovo, io non so. Tu lo sai…>>

<< Se esco pazzo e dopo che voi avete speso i vostri soldi, ci dico a tutti che Orfeo aveva ragione e che pure io le ho viste le streghe, lo sapete che succede? Qua non ci mette più piede nessuno.>>

<<Si ma così tu mi manchi di rispetto.>>

<<No, signor barone io voglio solo che voi parlate al vescovo di me e di Sara.>>

<<Si, Pino. Ma al parrino, tu ce lo devi dire. Io domani sono con sua eccellenza a Palermo. Stai sicuro che la buona parola ce la metto. Ma non per la storia di Orfeo. Solo perché te lo meriti e sei bravo.>>

Padre Angelo è fermo davanti alla chiesa abbandonata. Rubata agli alberi che la sovrastano con le fronde. Prova le chiavi nella serratura arrugginita.

<<Ci sperimento io parrino?>>

<<Si, Pino.>>

<<Ecco questa è.>>

La chiesa è una stanza vuota, ovale. In fondo, sulla parete una macchia scura ha la forma di un crocifisso. Ai suoi piedi, c’è un inginocchiatoio.

<<Parrino dovete sposarmi.>>

<<Ancora con questa storia, Pino? Basta non ne parliamo più. Non si può fare.>>

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<<Parrino, la domenica quante messe dite?>>

<<Tre messe, ringraziando il cielo.>>

<<E ringraziando pure a me. Che se io ci dico agli uomini che Dio non esiste e loro ve lo giuro che mi credono, voi solo restate la domenica. E una chiesa a Stromboli non ve la leva nessuno.>>

<<Pino, ma che sei pazzo?>>

<<Dipende da voi parrino. Voi volete che io divento pazzo?>>

<<No, no.>>

<<E allora sposatemi.>>

<<Ma il vescovo…>>

<<Il vescovo è avvisato.>>

<<Ma la gente…>>

<<E alla gente che ci interessa se io faccio o non faccio figli. Che se mi vene in testa un figlio vero ce lo faccio fare a Sara.>>

<<Il Signore mi perdoni.>>

<<Vi perdona parrino. Un’opera buona state facendo. E poi un uomo e una donna non lo dice pure lui che sono fatti per sposarsi nel nome suo?>>

<< Si, ma tu..->>

<<Tu che cosa. Io masculo sono. E Sara è femmina. Avete qualche dubbio forse?>>

<<No, no.>>

<<E allora fatemi gli auguri.>>

<<Sì, sì andiamo.>>

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Il parrino dice giusto. Io non avrò un figlio. Mai. Ma loro lo stesso mi devono sposare. Perché io di fuori sono Pino, il curatolo delle cave di Cala Tramontana e dell’Isola delle Lucciole. E il matrimonio si fa per la figura di fuori. Di dentro, amo Sara che è il fuoco che mi riscalda il cuore. Che da quando è morta mia madre, due volte tanto è diventato, che pare un incendio. E di dentro il matrimonio per l’amore si fa. Dentro e fuori sono sicura che il signoruzzo è dalla parte mia. Che lui vuole l’amore. Alle Viole di mare non ce l’ha chiesto se ci piaceva diventare Minchia di Re. E nemmeno a me. Lui se l’è voluta.

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XXXIII

<<Sergente. Guardate che io il soldato non lo faccio.>>

<<Intanto entrate. Che qua è il medico che lo decide se voi siete buono per servire la patria.>>

<<E il re? Il re non dice niente?>>

<<Che c’entra il re, ora. Qua dobbiamo vedere se ce l’avete le palle per fare il soldato. Oppure se siete malato e allora non abbiamo bisogno di voi.>>

<<Ma all’età mia, Sergente. Che se ne fa il re di uno come me, con tanti picciotti freschi come fili d’erba dolceamara?>>

<<Dunque vediamo>>, e apre un libro sopra un tavolo vecchio e tutto pieno di croste che pare il dorso di uno scorfano con le squame impennate.

<<Voi avete saltato tutte le chiamate alle armi. Magari siete raccomandato dall’onorevole Badalucco.>>

<<Ma quale raccomandato. Io ero malato quando mi sono arrivate le altre cartoline.>>

<<E ora come state? State bene?>>

<<Sto come mi pare e piace. E non devo dirvelo a voi.>>

<Chi v’ha morso una vipera? Sedetevi e aspettate il vostro turno, che così il fiele vi scende.>>

Il Sergente, è una figurina scappata dagli abbecedari che insegnano a leggere e a scrivere, tutti pieni di disegni e di lettere grosse quanto una pagina. Che c’è il bambino col cappello a spicchi colorati, che tiene

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l’aquilone che svolazza fra le casette di campagna. E la mamma con le treccine bionde che cucina la minestra per le creature sedute a tavola. E lui che in una pagina vende i palloncini e in un’altra è l’orco cattivo. Ha due baffi a manubrio disegnati sotto un naso che è una patata americana. Una ragnatela di fili rossi, sottili, si afferra alle guance. Si dirada solo fra le rughe della fronte, alta e spianata fino alla metà della testa. Quando la cartolina è arrivata , io non ci volevo credere. Due giorni dopo il matrimonio, ho detto questo è uno scherzo di Nicolino, che con la calligrafia non lo batte nessuno. Ninetta, il fischio del postino per richiamo di caccia l’ha preso. E quello, povero cristo, non lo so per quanto tempo è stato in mezzo al freddo e al mare che gli sputava addosso il sale. Ninetta quando arriva qualcuno a casa, si mette a gridare. La cagna pure lei comincia ad abbaiare e non si capisce più niente. Io stavo a letto con Sara che non mi pareva vero che il matrimonio mio e di lei consacrato era stato, con tanto di ostia benedetta e di vino santo. E per premio, io ce l’ho detto al signor barone: per un poco non mi vedete alla cava, una settimana a casa senza fare niente, serviti come il re e la regina. Che a Ninetta ci piace essere devota. Ora io me ne starei ancora a letto a toccarmi con Sara che quando la mia mano scende sotto l’ombelico, io ce lo vorrei avere veramente il masculo in mezzo alle cosce per farcelo sentire quanto è bello. E invece del dito si deve accontentare, che quando tocca a me, mi bastano i baci di Sara; i brividi già mi sono finiti e pure la brina ha lasciato il fiore. Lei la mano scende, e a me sembra pure brutto dircelo che dopo che la pelle di gallina mi finisce, pure la voglia mi passa. Che per la fretta di scatenarmi il cuore, faccio presto e veloce. E la lascio fare. Così, con la mano sua che risaliva sul petto, io ero quando Ninetta ha gridato che c’era una carta per me. Sono passate da poco le due del pomeriggio. La luce di novembre buca questa stanza del distretto militare, buttandosi a capofitto sul pavimento grigio da una finestra che tocca il solaio. Io con la cartolina subito dal

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barone sono andata questa mattina e lui mi ha detto: <<Tu il militare non lo fai. Tu servi a me qua alle cave. Su quest’isola io sono la patria>>.

Il Sergente si alza, apre la porta. E poi con un piede ancora dentro la stanza del dottore, mi chiama.

<<Tocca a voi, signor sto come mi pare e piace>>.

Il medico è biondo coi capelli con la riga in mezzo, basso e tutto pieno di lentiggini. Mi vede e si fa un mezzo sorriso, con la faccia di chi sa la mezza messa e l’altra mezza la vuole sentire da me.

<<Voi, voi siete Pino Maniscalco, la persona dell’onorevole Badalucco.>>

<<Per servirla dottore.>>

<<Si faccia vedere bene che di lei tanto mi ha parlato il segretario dell’onorevole. So che il suo è un caso molto particolare.>>

<<Se lo dite voi dottore…>>

Con uno scatto, che mi pare un gatto quando si avventa sul topo, va a chiudere la porta a chiave. E con la punta del camice si pulisce gli occhiali rotondi e dorati con l’indice e il pollice.

<<Sì, vediamo. Dovete spogliarvi Sapete la visita, quella la debbo fare. Entrate dentro questa stanzina, così state più caldo.>>

La stanza è una specie di armadio grande incassato a muro, un lettino e sopra una carta con un corpo umano tutto impolpato di muscoli e di carne.

<<Cosa mi devo levare, dottore?>>

<< I pantaloni, la camicia, la maglietta, in mutande dovete restare.>>

<<Ora potere entrare.>>

<<Pure quella fascia dal petto dovete togliervi.>>

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Rimango nuda e senza che lui mi dice niente, pure le mutande mi tolgo, così la vede la femmina che ho sotto. Che se c’è qualcuno che si deve vergognare lui deve essere.

<<Mamma mia, che meraviglia che siete Pino. Una creatura perfetta.>>

E si avvicina con un martelletto.

<<Sdraiatevi sul lettino che vi devo visitare bene.>>

Mi tocca le minne, ma non come dottore . Come masculo me le tocca, che mi stringe le funce in mezzo all’indice e al dito lungo.

<<Respirate profondo. Così, bravo. Ora giratevi che devo vedere se avete le emorroidi.>>

<<Che gran pesca…>>

<<Che avete detto dottore?>>

<<No, niente, niente. Ora dovete tossire. Di più. Di più. Secondo me qualcosa può esserci. Tossite ancora.>>

E strofina le mani sul culo come le femmine quando incocciano la semola per il cuscus.

<<Voi non siete normale dottore.>>

E lui col fiato sempre più corto.

<<Pino se mi fate fare una cosa che io penso, il congedo è vostro.>>

<<Dottore, ma che siete arruso? A voi i mascoli vi piacciono. Appena esco di qua a tutti ce lo dico che siete arruso. E ne sono capace sapete.>>

<<No, zitto, fai piano che fuori il Sergente ci sente.>>

<<Mi posso vestire di nuovo, dottore? Oppure mi devo mettere a

gridare che voi mi avete toccato l’uccello?>>

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<<No, no, per carità rivestitevi. Io pensavo che pure a voi poteva piacervi.>>

<<Ma perché a voi pare normale che a un masculo ci piacciono i masculi?>>

<<No, è che voi siete bello come una femmina.>>

<<Io ve l’ho detto voi non siete normale. Allora la visita è finita?>>

<<Certo , certo.>>

<<E il congedo?>>

<<No, il congedo non ve lo posso dare. Però vi posso riformare.>>

<<E per che cosa mi riformate?>>

<<Per quella cosa che mi ha detto il segretario dell’onorevole.>>

<<E che vi ha detto?>>

<<Che avete i piedi piatti e gli stivali non ve li potete mettere.>>

<<Allora che devo dirvi dottore. Grazie. E fatevi vedere che la vostra una brutta malattia è. Che se lo sanno i vostri capi, mala fine fate.>>

<<Ma voi non parlerete vero?>>

<<Siete sposato dottore?>>

<< Sì e ho pure due bambini.>>

<<E allora lo faccio per i vostri bambini. Muto come una pietra . Per me voi siete normale come a me. Solo che io ho i piedi piatti e voi no.>>

<<Sergente, metteteci riformato sulla cartolina. E fate entrare un altro.>>

XXXIV

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Voglio un figlio, prima che poi è troppo tardi e Sara non me ne può fare più. Sì, un figlio. Non me ne importa niente se è maschio, femmina, o cosa vuole Dio. Un figlio, che deve essere mio e suo. Che io e lei lo vogliamo, carne nostra, benedetta. I figli sono di chi se li cresce; che è forse un colpo di minchia a dire di chi è un figlio? No, questo fiore deve sbocciare nella pancia di Sara. E io col mio cuore lo faccio crescere. Ogni giorno me lo guardo e lui diventa pianta. Che mi viene voglia di girarmi gli occhi e spostarli di dentro per vedere se sono degno di averne uno. Mi viene fuori questo pensiero, mentre di fronte a me nell'ufficio della cava, Nicolino fa i conti con una macchina a manovella che pare un trattore. lo guardo e mi sento ancora tredici anni. Negli occhi suoi ci sono tutti i miei ricordi e io sono tutte le cose che mi voglio nominare. E perciò ora mi vedo picciotto di quando avevamo la stessa età. Un figlio, sì un figlio che mi fa restare sempre giovane. Che io penso poi che a tenerlo in braccio uno si deve sentire di nuovo piciriddo e poi cresce piano piano un'altra volta. Nicolino ha la camicia bianca col colletto rotondo e una cravatta nera col nodo piccolo. Gli occhi ce li ha tutti sui numeri che ieri sera ci hanno portato i tagliapietre dall'Isola delle Lucciole.

<<Nicolino tu contento sei di essere nato?>>

<<Certo che sono contento. Ma perché me lo domandi?>>

<<Niente così. Perché pensavo a una cosa…>>

<<Tutti siamo contenti di essere nati. Non è cosi’?>>

<<No, Nicolino non è cosi. Chi nasce libero, resta libero per sempre, pure se lo mettono in una gabbia. Chi nasce imprigionato come sono nato io, fa fatica a liberarsi.>>

<<Ma poi ti sei liberato, per fortuna.>>

<<Si, ma io ero un’altra cosa quando eravamo picciriddi.>>

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<<Non ci pensare più. Acqua passata è. Ora tu sei Pino. Sbaglio ci fu, no?>>

<< Quando l’ape regina si mette in testa che vuole un figlio,lo sai che fa? A tradimento si mette a correre come una pazza ed esce dalla casa che è un fulmine e si butta nell’aria. Gli alberi la superano vicino e lei nemmeno li vede per come corre forte. In un lampo di magnesio arriva in cima alle nuvole. Solo i maschi che se la sognano pure la notte dopo che hanno finito di sucare il miele, la vedono scappare e ci corrono dietro. E lei , in alto, sulla nuvola, si ferma e aspetta il più forte dei suo amanti. Perché la regina solo al più potente di tutti ci apre le cosce; solo lui che è stato il più veloce degli altri si merita questo premio. E, sopra al cielo, la regina e l’ape fanno all’amore. E quando lui sta per avere i brividi di piacere e le ali diventano di carta velina, la regina ci stacca la minchia e lui muore . E ci dà pensiero al vento di levarci questo corpo afflosciato e condannato dal piacere.>>

<<Ma che c’entra con te, Pino?>>

<<C’entra. Perché l’ape regina è la libertà. E io sono l’ape che se l’è fottuta.>>

<<Ma poi l’ape muore.>>

<<E perché tu sei convinto che io sono vivo. No, Nicolino. Io sono morto quel giorno che mi è rimasta la minchia attaccata nelle cosce dell’ape regina. Ma poi il vento mi ha guarito. E io di nuovo sono nato.>>

<<Niente ci ho capito, Pino.>>

<<E per questo io voglio un figlio mio.>>

<<Per insegnarci a scopare l’ape regina?>>

<<Bravo. Ci sei arrivato. Solo un padre è buono a spiegare al figlio come si fa a ficcare una regina. Che dentro all’alveare le api sono tutte uguali. E

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se uno non ci ha messo il sangue , l’ape giusta per dirci la lezione nemmeno se vive dieci volte la trova.>>

Prendo il cappello e mi lascio alle spalle le luci di Cala Tramontana. Sul mulo, con le mani agguantate alle redini, non riesco a levarmelo dalla testa che voglio una creatura mia.

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XXXV

A Salvatore Laferla, i tagliapietre dell'Isola delle Lucciole lo chiamano tutti Centomogghi. Quando le cave hanno cominciato di nuovo a buttare tufi, il barone ci ha dato una mannara e un piciotteddo che governa le capre che sono cento e qualcuna di più. Era picciriddo e con una testata un toro di Modica che doveva essere uscito pazzo, gli occhi con le corna si è mangiato, che al loro posto ci sono rimasti due pozzi di gesso. Che se non era per il marchese Bastiano Angileri che se l'è preso a casa, a quest'ora in bocca ai cani era, cieco e a mendicare una lisca di pesce salato. A Salvatore subito capo dei campieri l'ha fatto e se qualche massarioto sbagliava , che si nascondeva il grano per non darci la parte al padrone, lui chiamava il campiere e ordinava di bruciarci il raccolto. Le cose sono andate così fino al giorno che Centomogghi, che non gli bastava più di mettere incinte le serve, si è messo in testa di saltare sopra alle cosce della moglie del marchese. E lei vecchia e storta che pareva il piede di un ulivo, con tutti i riguardi se l'è fatto entrare dentro che è ancora attaccata al cielo per la contentezza della carne che lo sa solo Dio da quanto tempo nessuna mano ci riposava. Sull'isola è arrivato come una scheggia di legno che salta dalla pialla, inseguito dagli uomini del marchese che fino al giorno prima mangiavano dove lui sputava. Il barone se l'è preso a copertura , perché a lui un uomo così ci serviva, uno che sa a chi deve chiederlo un piacere che una persona perbene non sa dove mettere le mani. E Centomogghi , al barone è fedele come una vedova davanti alla croce; che se c'è da mettere paura ai massarioti degli uliveti di Cubastacca, lui lo sa che deve fare. E quelli senza farselo dire due volte pure la loro parte di olio ci danno a chi si presenta. Da quando c'è lui sull'isola , le suore di Sant'Antonio hanno dovuto aprire altre due conservatorie femminili con tutti i bastardi lasciati sulla ruota, e

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davanti alle porte delle chiese. E alla taverna del porto ci mettono la mano sul fuoco che quasi tutti figli suoi sono, che per certi periodi le figlie dei tagliapietre non mettono il naso fuori dalle loro case per la vergogna. E certe volte pure le madri hanno vomitato a pezzi il loro bastardello nelle mani della mammana che ce l'ha rubato dentro la carne.

Io a Centomogghi due parole ci ho detto quando ieri sono venuta sull'isola: << domani vi porto una femmina>>.

E lui seduto a tavola col coltello in mezzo al formaggio.

<<E che ci devo fare, Don Pino?>>

<<E' muta . Ci dovete fare venire la voce.>>

<<E perché me la portate voi?>>

<<E' la figlia di un massarioto di Castelmoro. Suo padre ci dà ragione alla zingara che guardandola negli occhi ci ha detto che un mulo se la deve ficcare per farla parlare di nuovo.>>

<<E io che sono un mulo?>>

<<Salvatore, le femmine che sono state sotto le coperte con voi tutte cambiate sono tornate a casa. Che si dice che voi in mezzo alle gambe tenete un cannone che non sbaglia un colpo.>>

<<Ma se lei non vuole che faccio?>>

<<Voi dateci un bicchierino di questo liquore che vi metto nelle mani. Ma solo un poco che questo è una cosa che fanno gli angeli in paradiso.>>

<<E a che serve, don Pino?>>

<<A farci avvelenare la paura.>>

Sono sul molo, io con le gambe piegate e con le mani a sciogliere le corde. E lei che ancora non arriva e mi affoga in questi pensieri. Sento il

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suo avemaria che è non è il primo da quando ho cominciato a chiamarla, che si è fatto tardi e la barca col buio non è cosa mia governarla.

<<Sara>>, apro da fuori la persiana della finestra <<se non sei sicura, lasciamo stare.>>

<<Non è questo. E’ il peccato che mi rosica le budella.>>

<<Andiamo che il cieco ci aspetta. In due colpi tu sei incinta.>>

<<Ma è peccato, lui non è mio marito, a lui il signore non mi ha consacrata col matrimonio.>>

<<Tu quando lui si mette a fare il mestiere suo, devi pensare forte forte a me. Così pure la vergine santa non ci vede niente di male.>>

<<Ma la gente lo sa che…>>

<<Io agli altri ho insegnato che la verità, ciascuno ce l’ha dentro come il tramonto che si appassisce sul mare e c’è solo perché noi lo vediamo. E gli altri hanno creduto a quello che hanno visto. E nostro figlio è quello che loro vedranno.>>

<<E se mi fa male?>>

<<Il cieco ha uno sciroppo che mi ha dato il barone E' una medicina che serve per volare.>>

<<Ma come ?>>

<<Te ne prendi un bicchierino e non hai più soggezione e turbamento. Ti senti in cielo. Andiamo che è tardi. Due colpi e ce ne torniamo col figlio nostro nella pancia. E ti raccomando di non spiccicare manco una parola, che tu sei muta.>>

Il mare è olio, questa sera e la barca scivola sullo scirocco che lo accarezza. Salvatore ci aspetta con l'asino sulla spiaggia.

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<<Bella è la picciotta Don Pino?>>

<<Bellissima che è un peccato che non la potete vedere.>>

<<Vi ho sistemato due letti nella mannara.>>

<<E il picciotteddo che è con voi?>>

<<Ci ho detto di andarsene per due giorni a Palermo.>>

<<Bene avete fatto.>>

<<Ma quando devo cominciare Don Pino?>>

<<Questa sera stessa, prima ci viene la voce, prima ce la porto a suo padre.>>

La mannara è una casa di pietra così distante dalle cave, che bisogna andarci apposta per trovarla. Ma dalla spiaggia è a cinque minuti di carretto. L'origano e la menta profumano l'aria sbattuta dal mare. Le torce a petrolio mi fanno spazio nella notte. La porta è aperta , entro con Sara, infilo la torcia dentro ad un vaso di terracotta in mezzo al tavolo.

<<Salvatore io questa notte non ci dormo qua. Vado alla cava, che li c'è la casa del custode che è sempre aperta e lui non c'è.>>

<<Ma vi ho preparato la stanza.>>

<<Fate il vostro mestiere. E fatela parlare.>>

E gli ultimi occhi sono per Sara che aspetta che io esco, come una foglia che cadendo dall'albero sa che l'aspetta il vento.

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XXXVI

Forse mio figlio è ancora con lei. . Forse è ancora dentro questa pancia che mi tocca il braccio, che le mie mani vorrebbero entrarci fino a toccare il fondo per salvare l'energia che si nasconde in questa palla di carne, di ossa e di anima. E prenderne un pugno di quello che riescono ad afferrare per darmene cibo prima ancora che lui esca fuori. Sara è accanto a me, sul letto dell'ospedale Dorme. Il petto si alza e si abbassa con una cadenza che è una preghiera, lenta, sempre la stessa, senza fine, una fede che i polmoni sgranano come una noia, come un pomeriggio senza fare niente. Mi sono fatta crescere i capelli; da quando sono masculo è la prima volta che mi piace farmeli spuntare sulla testa. Lei si è addormentata con la mano aggrappata ad un ciuffo grigio che mi scavalca l'orecchio e si posa sulla guancia. L'ostetrica ha detto che dobbiamo aspettare che passa questa notte, per essere sicuri che tutto è a posto e che non ci sono pericoli. Ieri sera per i dolori a Sara, la faccia nera ci è diventata. Che questo che ha nello stomaco, un figlio di buttana deve essere se per coscienza sua, Sara si è già amminchioluta. Che è così mezza addurmisciuta, già dalla seconda notte che me la sono portata a casa, incinta. Centomogghi non l'ha fatta parlare la muta di Castelmoro, e lui testardo male c'è rimasto che voleva finire il lavoro.

<<Don Pino c'è stato un momento che la parola stava per nascerci nella gola>>, mi ha detto quando dopo due lune, ho bussato alla porta e gli ho detto che era finita.

<<Senza quel liquore niente avrei fatto. Ieri sera , un pezzo di legno pareva. Io sopra, e lei che non si muoveva, nemmeno per buttare fiato. Questo liquore l'inferno ci mette dentro alle femmine.>>

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Sara me l'ha giurato sopra la testa di questo picciriddo che a Centomogghi la faccia mia col pensiero ci ha messo, e per questo ha potuto servire questo dovere, pure con l'assenzio che ci confondeva i sensi. Ma ora che succede? Cos’è questo respiro d’asma? Sento il suo cuore uscire dal petto, come il tamburo di una processione lontana. Questa faccia bianca, questa bocca spalancata, questo filo di sangue che scende dalla coperta.

<< Aiutooooo!>>

Arriva scivolando l'ostetrica.

<<Esca. Devo visitarla.>>

Passeggio avanti e indietro per questo corridoio coi tetti che sembrano quelli di una cattedrale. A muro mi fisso sugli occhi di un bambino disegnato su un foglio di carta appiccicato vicino alla finestra. E penso a mio figlio che non voglio che se ne va . Perché io e lei come una pianta ce lo siamo cresciuti dentro al vaso, col cuore gonfio di gioia e di emozione per questa attesa. No, no, non lo deve perdere, madruzza santa. Che ti prometto? Quale vita mia vuoi che mi impegno? Dimmelo tu che cosa devo fare per avere questo figlio, per crederci ancora. Io a lui lo amo prima ancora di esserci. Lui è l'impossibile che viene a liberarmi dalla rabbia che io ho per non essere stato lui, per non avere avuto un padre come a me. Io ogni notte me lo sono sognato. C'è l'avevo dentro già quella sera che Centomogghi la semenza sua mi ha prestato per darmi questa grazia. Lo so, tu vuoi una cosa da me. Dimmelo madruzza cosa vuoi. Ti chiedo un segnale, ti prego. La cosa più bella che ho nella vita, sì te la consegno , te lo giuro. Se tu mi strappi mio figlio dalla morte io a Sara non la tocco più, se questo per te è peccato io un parrino divento. Preghiere, rosari cinque volte al giorno e a letto due sorelle, senza fare mai più una mossa che non è conveniente per te. Ho lo stomaco che pare che dentro c'è uno che mi dà i pugni, la bocca è salata, gli occhi due

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buchi profondi fino al cuore, due occhi che ora non vorrebbero vedere. L'ostetrica esce fuori di corsa

<<Ma che succede?>>

<<Sta male, sta male. Un medico, un medico>>, si mette a gridare nel corridoio

Io sono fuori con la testa sul muro, mi mordo le mani, non penso a niente. Che prego la Madre Celeste e ci faccio di nuovo gli stessi giuramenti di prima. Li sento parlare, si agitano come le vacche prima di essere ammazzate al macello. Ora, due colpi, due pugni, Poi uno sferragliare di forbici. E ora il silenzio. Che è già lutto, notte, buio, persiane che si chiudono in una casa che va a dormire. Esce l'ostetrica con un secchio coi pezzi di carne e di sangue che galleggiano in un liquido giallo. E io non ce l'ho l’anima per chiederle che cosa è successo. No, non ce l'ho. E poi il dottore che mi dice che non c'è stato niente da fare. Che i loro cuori non ce l'hanno fatta.

<<Ma come, Sara…>>

<<Si deve fare coraggio. Fino all'ultimo ha lottato per tenerselo, ma alla fine la natura ha vinto sulla volontà. Alla sua età una gravidanza ha rischi altissimi.>>

<<E sia fatta la volontà di Dio. E per tutte e due la gloria celeste scenda su chi resta>>, dice l'ostetrica.

Io sono rimasta sola. Io che ho accettato di mortificare la mia carne per averla, io ora non ci sono più. La mia libertà è là dentro nella mani delle infermiere che portano l'acqua calda per lavare un corpo morto che non è più Sara. Per cancellare i segni del suo martirio che è il mio, il sacrificio della mia vita. Non c'è resurrezione per farla tornare come prima, perché non c'è il corpo, avvilito e annientato dalla mia presunzione di essere pure un pensiero. Signoruzzo mio io tutto questo per lei l'avevo fatto,

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per sposarmela, per avere la mia felicità. E tu che hai fatto? Me l'hai rubata. Per darmi la colpa, per gettare fango sulla mia libertà. Signore che c'entrava darti pensiero per me? E mi potevi aiutare che io te l'ho chiesto, e tu questa maledizione per risposta mi hai dato. Ma sì hai ragione, in questo silenzio devo comprendere che c'è la mia colpa. Tu non mi hai parlato e me l'hai uccisa per confondermi, come il vapore di una nave che arriva al porto e si ingarbuglia col fumo di un'altra nave che sta partendo, per ingannare chi aspetta.

<<Vuole che mandiamo a chiamare qualcuno?>>, mi dice il dottore mentre si asciuga le mani con una pezza.

<<Si , Ninetta a Cala di Torta. E diteci di avvisare il barone. E Nicolino.>>

Di questo silenzio è morta Sara. Un rumore sordo di pozzo con l'acqua che nemmeno si vede, di galleria dopo una pioggia, al mattino. Lo sento. È un tuono vuoto di rumore. Una folgore di pace che è la cenere su cui germogliano le fiamme dell'inferno. Io volevo sfidare l'isola, e il silenzio mi ha battuta. Pino ‘u masculo fici? E bravo Pino! Volevo cancellare il dubbio della prepotenza e sostituirlo con la certezza arrogante della sfida. E mentre ho perso Sara. Che io insieme a lei volevo invecchiare, con lo stomaco gonfio di minestra di patate, con le luci che dalle finestre si spengono quando è ora di andare a dormire e sorprendono l'alba come una ribellione sulla luce stentata. Si, una punizione è stata, per la mia corsa verso il cielo, io che le stelle le volevo toccare senza chiedere aiuto a Dio. Io che sono figlia del demonio e volevo diventare angelo e non ci sono riuscita. Scritto in cielo c'era che dovevo fare soffrire la persona che più ho amato, per patire di più le turbolenze della coscienza di questo cuore mio che è un macigno attaccato con una corda al collo .

<<Pino non devi piangere. Te ne devi fare una ragione. Non hai colpa. >>

Il barone è arrivato . La sua voce è una puntina che salta su un disco. Con un fazzoletto mi asciuga il viso.

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<<Io ci sono passato con mia moglie. E uno non se le dimentica mai queste ferite che sono cicatrici che appena si toccano bruciano sempre. Pure ora che io sono più di là che di qua.>>

Mi tira la faccia fino al suo orecchio

<<Io mai niente ti ho chiesto. Ma ora te lo voglio domandare: Come facisti a metterla incinta a Sara?>>

<<Signor Barone, io masculo sono. Ve lo siete scordato.>>

<<Si va bene, va bene. E allora te lo dico quello che penso.>>

<<Che pensate?>>

<<Lo sai perché è morto questo picciriddo e magari Sara?>>

<< Ditemelo…>>

<<Perché era un bastardo. Ma io non ce lo dico a nessuno perché tu per me come un figlio sei. >>

<<Signor barone, era mio. Io e Sara lo abbiamo voluto.>>

<<Ma è contro le leggi della chiesa.>>

<<Non le ha scritte Dio. Sono vostre a come vi conviene. Che nemmeno pigliarsi l’assenzio assieme alle buttante è legge di chiesa, signor barone.>>

<< Ma Pino. Sei disperato, non sai quello che dici.>>

<< Lasciatemi perdere signor barone. E fatemi piangere Sara e questo mio bastardo che è figlio mio. >>

<< Si, ma non ti arrabbiare . Io come un padre ti ho parlato.>>

Il barone si trascina lungo il corridoio fino al portone. Lo vedo scomparire nel baratro del mattino. Sara oggi non ci sarà accanto a me. E nemmeno

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mai. Schiaccio il naso sulla finestra e mi smarrisco nelle vene dell'aurora cercando nell'eterno una ragion per placare la mia pena .

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XXXVII

Il barone fino all'ultimo dei suoi giorni ha voluto conto dei blocchi di tufo tirati a Tramontana e all'Isola delle Lucciole. Io ce lo dicevo : Signor Barone, voi dovete pensare alla vostra salute. Alle cave ci penso io. E lui con gli occhi che parevano papere dentro allo stagno, guardava a me e poi a suo figlio, come a segnarmi in questo spazio vuoto fra i miei occhi e i suoi, l'angoscia per il futuro di tutte le cose che gli sopravvivevano. Che per morire contento a lui dentro alla tomba ce le dovevano mettere, per non spartirle con nessuno nemmeno dopo che gli occhi restavano chiusi per sempre. E invece al figlio maschio sono toccate tutte queste ricchezze, e alla femmina i terreni e le ville di Palermo. Se avesse potuto, il barone Antonio volentieri il cambio avrebbe fatto con Maria Benedetta, che lui sull'isola si sente male, ci manca l'aria e nemmeno quando suo padre era vivo ci veniva a piacere. Dall'ultima volta che ci siamo parlati al funerale del signor barone sono trascorsi quattro anni. Io tre lettere ci ho mandato per dirci che qua lui si deve fare vedere dagli uomini, perché loro la faccia del padrone non se la devono dimenticare . E lui ogni volta un telegramma, sempre preciso: " Fate voi come se ci fosse papà stop. Io sarò lì quando possibile stop”. Ogni decisione presa da voi est pure mia stop ". L'ultimo di una settimana fa mi ha messo il cuore in subbuglio: <<Domenica sarò costì stop. Importante decisione che vi riguarda stop. Arrivo con traghetto ore tre pomeriggio. stop Mi fermo solo una notte stop>>. E oggi finalmente è qua , che a me manco vero mi pare. Il mare è una tavola, io sono affacciata dal terrazzo del palazzo e vedo l'orizzonte sfilacciato sulla sagoma della nave che sta arrivando. Ninetta e sua sorella questa mattina alle quattro hanno messo le mani dentro al palazzo per farci pigliare aria, che la polvere e l'umido se lo stanno mangiando. Che le case sono come le creature che ti danno quello

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che ricevono, carezze o bastonate. Una casa senza anima che dentro la illumina di vita, si gonfia di silenzio e il buio si attacca ai muri e ai mobili che ci vogliono tonnellate di luce per illuminarli di nuovo. Scendo le scale di marmo e i miei passi riempiono il vuoto che qua dentro avvolge ogni cosa e si fissa sul silenzio . Al molo la scaletta come un tuono si scaraventa sulla balaustra di cemento. Don Antonio Burruto è il primo a scendere. Ha un vestito celeste di tela e una camicia bianca.

<<Don Antonio, assabinirica a vossia.>>

<<Eccomi qua. Come vedete non mi sono dimenticato di voi.>>

<<Un Burruto, la strada da dove viene non se la può levare dalla testa dall'oggi al domani. E poi qua tutte cose vostre sono.>>

<<Si avete ragione. Don Pino. Ma sbrighiamoci e andiamo al palazzo. Ho un sacco di cose da dirvi.>>

<<E vostra sorella, come sta, signor barone?>>

<<Bene, bene. A lei l’acqua la bagna e il sole l’asciuga. Può caderle il mondo sopra la testa, lei si sposta e tira avanti per la sua strada.>>

<<Ognuno ha il carattere suo. Ma vostro padre che il signore lo benedica dove si trova, vi voleva bene allo stesso modo.>>

<<Don Pino, non dite bugie che poi vi fa male il fegato. Mio padre per Maria Benedetta aveva il sentimento più grande. Sapeva che con le proprietà ci sapeva fare meglio di me. Lo sa solo Dio cosa avrebbe fatto perché lei fosse maschio e io femmina.>>

<<Non dite queste cose signor barone. Suo padre aveva ammirazione per vostra sorella perché capiva gli affari e ammirazione pure per la vostra testa piena di scienza.>>

<<La verità è che mio padre mi avrebbe voluto come voi.>>

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<<Perché io come sono?>>

<<Mio padre diceva sempre che voi siete speciale.>>

<<Signor barone un frutto è buono se l’albero è maestro. Io con la semenza della vostra famiglia sono cresciuto. Io sono sicuro che la vostra guida, sarà oro per l’isola.>>

<<Ecco Don Pino. Io di questo sono venuto a parlarvi.>>

<<Prima di parlare, entriamo dentro. Voglio che vi fate un riposino nella stanza vostra. Che Ninetta e sua sorella ve l’hanno messa a posto. Con un’ora di sonno dietro le spalle si parla meglio.>>

<<Ma io, volevo dirvi subito che…>>

<<Signor barone, ora siete stanco. Avete fatto un viaggio di un giorno. Vi prego riposatevi.>>

<<Va bene. Ma voi aspettate. Io mi faccio un bagno, mi metto cinque minuti a letto e scendo subito.>>

<<E chi si muove. Servo vostro sono.>>

l giardino è una discesa a mare di palme e di spine che si stringono al palazzo per non scivolare nell’acqua. Le nuvole imbrogliano il cielo e lo precipitano dentro questo pomeriggio che è fermo sopra la testa del signor barone. Raccolgo due rose e vedo per un istante nel giardino due bambini che colorano con le matite di legno un foglio di carta. Mi avvicino e dentro due piccole pagine di quaderno rivedo quel cielo che da bambina mi aveva catturato gli occhi perché così bello nemmeno la madonnuzza lo aveva visto mai. E quando alzo gli occhi lui è preciso dietro due nuvole che sdrucciolano sul mare.

<<Don Pino. Mi chiamano da fuori il cancello.>>

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Mi volto ed è Furio, lo scimunito Dicono che il vecchio barone con una serva lo ha fatto. Prima che gli angeli se lo sono portato al cospetto del padre santo, al notaio un sacchetto di monete per lui ci ha dato. Io mai niente ho saputo e una volta che ce l’ho domandato, il signor barone mi ha detto che al sangue suo non ci appartengono gli scimuniti . Dopo la morte del signor barone, Furio al cimitero si è fatto una cappella che più bella solo i Burruto ce l’hanno. Che nemmeno lui lo sa come ha trovato questi soldi: una volta dice che erano dentro un guscio di melone davanti alla porta, un’altra che una sirena sopra uno scoglio ce li ha messi dopo che con lui ci ha fatto all’amore.

<<Furio che vuoi?>>

<<Don Pino, mi date due soldi?>>

<<E che ci devi fare Furio?>>

<<Ce li devo portate a Furio dentro alla cappella.>>

<<Ma tu vivo sei!>>

<<Don Pino, io la cappella me la sono fatta perché da morto , a mare mi avrebbero buttato.>>

<<Ma chi te le dice queste scemenze…>>

<<Don Pino, io non ho nessuno. Chi volete che si ricordi di me dopo che sono crepato? Nessuno. E allora io magari la domenica ci porto i fiori sulla mia tomba. E certe volte sapete, mi metto pure a piangere.>>

<<Tu sei vivo Furio. Lo capisti? A chi piangi se là dentro non c’è nessuno?>>

<<Io piango a me. Che dopo morto nessuno mi piange. E poi sapete, che soddisfazione avere una cappella così bella, che tutti passano e dicono chissà chi era Furio Filingeri. Un principe, un barone, un marchese? E

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invece io sono solo uno scimunito.>>

<<Tieni queste rose e portacele sulla tomba di Furio.>>

<<Me le posso portare veramente?>>

<<Sono tue.>>

<<Grazie, grazie che il signore vi benedica.>>

Dalla scala vedo scendere Don Antonio.

<<Don Pino, ora non avete scuse. Mi dovete ascoltare.>>

Entro dentro, prendo due sedie.

<<Parlatemi.>>

<<Don Pino, io ho deciso di dare a voi le cave e il palazzo.>>

<<No, signor barone, voi non avete riposato abbastanza.>>

<<Io ho portato un contratto che ora voi mi dovete firmare Mancherò dall’Italia per molti anni e prima di andarmene voglio sistemare ogni cosa.>>

<<E dove andate?>>

<<In Africa a studiare la malaria.>>

<<E le cave?>>

<<Avevo pensato di chiuderle. Ma poi ho pensato a quanta gente ci lavora. E allora ho deciso che sarete voi ad occuparvene.>>

<<L’ho sempre fatto.>>

<<Voi da quando metterete la firma su questi due fogli di carta diventate il nuovo padrone.>>

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<<Ma io ho poco da darvi.>>

<<Voi mi darete solo un piccolo vitalizio, un quarto dei vostri guadagni mi basteranno.>>

<<No, voi non state bene.>>

<<Non preoccupatevi, io sto benissimo.>>

<<Ma come farete a controllare i libri, la contabilità?>>

<<Io vi sto in fiducia. E alla vostra morte, speriamo il più lontano possibile, voi queste proprietà potete lasciarle a chi volete. Sono vostre Don Pino. Mio padre le ha lasciate a me apposta: sapeva che non era cosa mia guidare le cave ed era sicuro che le avrei date a voi. Credetemi era tutto scritto.>>

<<Ma signor barone, io non lo merito.>>

<<Voi buttate il sangue sulle cave da trenta anni. Siete vecchio quanto me e le cave sono anche vostre. Perciò firmate, che ho sonno e voglio andare a dormire>>

<<Ma signor barone.>>

<<Ve lo ordino Don Pino.>>

<<Allora, allora va bene, firmo.>>

<<Bravo. Ora siete il nuovo padrone delle cave.>>

<<Spero che la madruzza santa mi sia vicina per essere degno di quello che mi avete dato.>>

<<Ora andate. E prendete la copia del contratto. Le chiavi del palazzo le avete già.>>

Esco dal cancello dei Burruto, con la testa che è una macina di olio. I miei pensieri sono olive, noccioli e carne. E tutto gira così veloce che

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nemmeno riesco a vedere che cosa sto macinando. Mi siedo sul muretto e mi perdo sulle onde che arrivano a sfiorare il giardino. Passa di nuovo Furio. Lo chiamo. Un filo di saliva gli cola lentamente dall’angolo della bocca

<<Furio, ogni domenica entra dentro al giardino e pigliati le rose più belle.>>

<<Ma se lo sa il signor barone?>>

<<Tu pigliatele che al signor barone ci parlo io.>>

<<Bello, bello. Le rose a Furio, le rose a Furio.>>

E se ne va cantando. Senza sapere che mi ha regalato la mia prima libertà.

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XXXVIII

Quando la superiora del Convento di San Domenico mi ha fatto vedere per la prima volta a Lucia, il cuore mio si è messo a battere in un modo che così io mai me lo sono sentito. Come a fermarsi per un momento per fare largo ai suoni che nascono di dentro e per destino sotto questo orgoglio del petto, finiscono per sfumarsi. Come davanti a un ricordo mascherato da emozione, io mi sono sentita fragile e senza difese, consumata dal desiderio di non averla mai voluta questa smania . E lui che la ragione ce l'aveva nascosta dietro qualche pompa del sangue, non mi ha ingannata. Io ce l'ho detto alla superiora che volevo per me la più disgraziata fra tutte quelle ricoverate nella conservatoria femminile. Che le rose selvatiche sono quelle più profumate, nessuno le raccoglie, perché sono in mezzo alle spine e per strapparle alla terra ci vuole il guanto di crine. Io a Lucia, come una figlia mia da Ninetta l'ho fatta servire. Che ci ho insegnato a leggere, a scrivere, a fare in conti nelle cave al posto di Nicolino. Alla madre superiora non ci dava pace il pensiero che io nel palazzetto già tre serve ce l'ho.

<<E che ci dovete fare con un'orfana così grande ? Ve la volete sposare, Don Pino?>>

<<Madre reverendissima non è forse cristiano aiutare chi ha bisogno?>>

<<Certo, certo, ma voi di che cosa avete bisogno?>>

<<Come una figlia me la voglio coltivare. E voglio lasciarle tutte le cose mie. Ma lei non lo deve sapere.>>

<<E che se ne fa una femmina di cave e picconi ?>>

<<Perché forse il nostro Signore, non se ne fa niente della sua grazia e devozione?>>

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<<Il signore, le cave, ma che dite?>>

<<Sull'isola per mangiare c'è bisogno di pane di grano e della carne la domenica. E una femmina è devota come lo siete voi reverendissima madre.>>

<<Ma noi siamo devote al signore.>>

<<E le femmine- più forte è la disgrazia che le ha tormentate e meglio è la pasta - sono devote alla libertà.>>

<<Libertà? Ma non lo sapete che questa è parola vietata?>>

<<E da chi? Dagli altoparlanti della piazza che la domenica ci danno il cambio alle campane del Signore? O dal principe Solina che con la camicia nera pare un corvo? No, madre reverendissima, la libertà è un nervo. Diventa duro quando è sotto pressione.>>

<< Ma voi Don Pino siete un comunista . Io non credevo che…>>

<<Ma quale comunista. Vedete madre reverendissima qua il pane è già un'idea. Di tutto il resto ora ognuno può farne quello che vuole, proprio perché il pane ce l'ha senza mendicarlo.>>

Quando la superiora mi ha dato Lucia, aveva le lacrime che le imperlavano gli occhi. Che pure a me, ora che sono passati dieci anni, la gola si gonfia ancora di pianto

Da tre giorni sono sepolto dalle coperte di lana in questo letto, che pure le vele del baldacchino del signor barone mi sembrano una condanna e non il vanto di chi c'è riuscito a prendere il suo posto. Il dottore dice che alla bronchite io mi devo abituare, ma come si fa a stare con una bestia sul petto dalla mattina alla sera, che la tosse mi rosica la gola e le viscere? Mi sento i giorni che si contano da soli al contrario, partendo dalla fine, senza avere più nessuna pensata di sommarsi per crescere e diventare tanti. Questa sera a Lucia ci debbo parlare, prima che il sonno

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mi carica sulle sue spalle e mi porta davanti alla madruzza santa. Quando il giorno di Natale, lei mi ha fatto vedere la medaglietta che si è portata con le sue cose dal convento di San Domenico, io mi sono sentita morire. Se questa è la morte, un tuffo del cuore dentro la pancia, io non ho paura, perché già lo so com’è. Lei era seduta nella sua stanza in mezzo ai libri dei conti, pure il giorno che Gesù è nato. E io sono entrata per portarle il mio regalo, un anello che era della mia povera Sara, che coi primi soldi delle cave l'avevo comprato. E lei senza respirare, ha aperto la mano e mi ha mostrato una cosa. Ancora prima di vedere l’anello.

<<Io questa a voi ve la regalo Zio Pino. Era di mia madre. L'unica cosa che mi appartiene di lei. Che quando lei mi ha messo sulla ruota del convento, io ce l'avevo legata con un filo al collo del piede.>>

Era la metà di un ciondolo, un occhio d’angelo e un pezzo di ala. Io non ce l'ho avuta la corda per di piangere, perché avevo la notte dentro gli occhi. L'ho abbracciata e sono scappata via dalla sua stanza. Mi sono buttata nelle scale fino alle cantine del palazzo. Il baule della zia suora, ecco è là, sotto la volta, ho tirato per aria veli, camice, crocifissi, lenzuoli, calici, messali. E alla fine l'ho trovata, la medaglietta che Ninetta aveva preso attaccata alle spine vicino al pozzo e che apparteneva a lei, Suor Agnese. La metà che ci mancava era quella di Lucia. Sono salita di corsa, mi sono affacciata dalla terrazza e l’ho rovesciata a mare. Che quando i due pezzi di medaglia si sono sciolti fra le onde, ho visto spegnersi una luce su una ferita. E mi sono sentita meglio, guarita. E chi può essere stato? Mio padre, sicuro, che quel fituso la guardava picciridda con gli occhi di serpente. Oppure un’altra volta padre Pantaleo. Suor Agnese troppo bella era per mettersi il velo. A 16 anni, era un poco più grande di me e parevamo sorelle. Lei bellissima, nascosta sotto gli occhi di Dio, e io un fulmine che voleva bucare il cielo per vedere di che colore erano gli occhi di Dio. Ho freddo, anche se fuori c’è il sole. La tosse mi striscia

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l’anima e si scuote tutta come una scatola dove dentro c’è solo una moneta.

Lucia con la mano scosta la porta socchiusa e fa entrare dentro la stanza un filo di sole che attraversa i miei pensieri. Con lei c’è Saverio Tranchida, il figlio del macellaio che fa l’infermiere. E’ da quando mi sono messa a letto che lo porta ogni mattina davanti a me per il clistere.

<<Lucia, ringrazia Saverio, dagli dieci lire e per favore fallo andare via.>>

<<Ma zio Pino, il dottore ha detto che è pericoloso.>>

<<Lucia, lascia perdere i dottori. Fai come ti ho detto e non mi fare arrabbiare.>>

<<E va bene. Ma vi giuro che se anche domani fate così, io vi faccio portare di peso all’ospedale.>>

Lucia si perde nel chiarore che sgorga dall’ingresso del palazzo, lascia la porta aperta e io sento entrare il profumo del mare e di vaniglia.

Per me non ci sarà nessun dottore. Questa bronchite mi lascerà morire quieta , senza debiti sul conto della vita, perché io devo andarmene al contrario di come sono arrivata, tranquilla, serena, senza coltelli sulla gola, senza cercare conforti. Senza mostrare la menzogna su cui ho costruito la vita di questa isola, il castello che ha ingannato tutti con la forza che solo i sogni veri danno.

Ritorna Lucia e si siede sul mio letto. La sua mano percorre le rughe della mia faccia e si ferma sulla fronte. Con un fazzoletto mi asciuga gocce di luce. E’ bellissima come a sua madre, gli occhi due crateri di vulcano incendiati di fuoco, la bocca due pomodori senza pelle, i capelli neri e mossi come il mare di notte, abbagliato dall’assenza della luna e da una riga di vento.

<<Perché non volete farvi aiutare?>>

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<<Io ora mi riprendo. Non è la prima volta che mi sento male.>>

<<Se vi fate vedere dal medico, io più tranquilla vado a lavorare la mattina.>>

<<Lucia, io devo dirti una cosa importante. Prendi quella busta che è dentro al cassetto della scrivania e leggila a voce alta.>>

<<Si, zio, eccola. Dunque. Io sottoscritto Pino Maniscalco nel pieno delle mie facoltà mentali affido dopo la mia morte tutti i miei beni a Lucia Sandomenico. La casa e il terreno di Cala Pizzitola a Ninetta per i servigi resi alla mia famiglia. In fede firmato Pino Maniscalco.>>

<<Ma che siete pazzo zio?>>

<<No, figlia mia, sono felice.>>

<<Ma io non sono figlia vostra.>>

<<Io appena ti ho visto dalle suore, ho pensato che io una figlia

bella come a te avrei voluto avere.>>

<<Ma io non ho fatto niente per avere tutte queste cose.>>

<<Mi hai voluto bene come un padre. E questo è tesoro che nessuna terra o casa può ricambiare. Perciò, io sono sempre in debito con te.>>

<<Ma io sono femmina e là sotto nelle cave non ci sono andata mai.>>

<<E non c’è bisogno. Per questo ci sono i masculi che hanno braccia forti. Tu fai girare il cervello. Perché se tu sei più sperta di loro, tu a tutti per fessi li pigli. E te li metti nel tascapane. Come ho fatto io.>>

<<Ma voi siete masculo…>>

<<Tu hai i soldi e chi ha questi, qua comanda. >>

<<Ma io non lo so se ci riesco.>>

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<<Ce la fai. >>

<<Ma il paese che dirà?>>

<<Penseranno che sei stata la mia amante. Ma nessuno avrà mai il coraggio di dirtelo in faccia. Sono vermi, hanno paura di uscire la testa perché sanno che c’è un piede pronto a schiacciarli. E si nascondono in mezzo al fango. E tu a questi l’anima ci devi strappare.>>

<<Si, ma come li riconosco?>>

<<Vivono solo per fare capire che sono importanti e invece non contano niente. E cambiano idea ogni volta che il cielo scatena una bufera. Non ti guardano mai negli occhi; ti stringono la mano come se agguantassero una serpe; e sei ci fai un piacere o ti dicono mille volte grazie e ti baciano la mano oppure restano muti. Il babbìo che hanno è conveniente solo alla loro parlantina.>>

<<Zio, io sono sicura che voi alle cave comanderete per altri cento anni e che io…>>

<<Lucia, prendimi la mano e dammi un bacio. Poi lasciami solo che ho sonno.>>

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XXXIX

Ci sono pure io sul mantello della signoruzza, sul soffitto del palazzetto del signor barone. Io ce l’ho detto a Lucia che volevo il pittore più bravo di tutti e lei da Palermo l’ha fatto arrivare. Quando io gli ho dato il disegno che Cecè sessanta anni fa mi ha fatto ai piedi del castello invasato com’era dalle sanguette, lui e Lucia sono rimasti zitti e di pietra, che ci pareva che io il ritratto mio volevo fatto.

<<E questa bambina chi è zio?>>

<<Mia sorella. E’ morta di poliomelite tanto tempo fa.>>

E ora che mi guardo con il naso sopra il tetto, chiusa dentro a questa poltrona, mi sento veramente viva. Io in mezzo ai baroni, principi e marchesi, io che da oggi discendo per lato di padre dalla stessa famiglia della Vergine Santa. Lucia mi sorprende con una risata in faccia mentre rivedo i miei quindici anni di picciridda, appesi al cielo di questa stanza.

<<Zio Pino c’è il capitano. Lo faccio entrare oppure lo accompagno nello studio?>>

Ieri è venuto Peppe Zinnenti, il presidente della società della pesca a dirmi che un soldato americano mezzo siciliano, vuole dirmi una cosa qua al palazzo.

<<Fallo entrare, Lucia.>>

Il capitano è biondo, che neanche sangue nostro pare che ha nelle vene. Lo vedo sbiadito, come un’alba che spaventa i colori del mare che hanno ancora il tramonto nelle vene.

<<Don Pino, il comando americano desidera conferirle l’incarico di sindaco di questa isola.>>

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<<A me? Grazie, grazie, ma la politica non è cosa mia. Credetemi non sono un buon affare.>>

<<Domani mattina la banda americana e il generale saranno qua per consegnarle le chiavi della città. Don Pino, la prego, accetti. Tutti qua sono contenti che lei fa il sindaco.>>

<< Ma con tutti i giovani che ci sono.>>

<<Non dica di no, per il bene della sua isola, per la democrazia.>>

<<Ma io sono malato…>>

<<E’ un incarico d’onore. Un nostro colonnello penserà alle cose di ufficio.>>

<<Va bene. Ma io che camicia mi devo mettere da domani?>>

<<Questa sua vestaglia va benissimo…>>

<<No, il colore.>>

<<Quello che piace a lei.>>

Rubo uno sguardo di Lucia verso il capitano come per fagli intendere che la mia testa ogni tanto perde colpi come un vecchio orologio scordato. Ma non ci fa niente. Domani l’isola avrà un sindaco che è una Minchia di Re e che discende da parte di padre dalla nostra signora dei cieli. Ma solo per poco.

<<Apri il balcone. Lucia. Voglio respirare il mare.>>

Il capitano si mette sull’attenti e si gira che pare un pupo con la molla.

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XL

Sono io quella sul letto. Non mi muovo più. Gli occhi sono spalancati, ancora pieni di vento e di sole. Una fiondata di luce taglia in due la stanza. Il letto con le vele rosse, la coperta marrone piena di bollicine di lana buttata a terra, lo scrittoio, il vaso giallo con le rose. Questi sono i tamburi della banda che sta arrivando sotto il palazzo, un suono che rimbalza sul muro come una cantilena lontana. Io sono morta. Non mi posso alzare in piedi, non posso mangiare, non posso parlare. Non posso camminare fra i limoni, raccogliere un fico, tuffarmi a mare. E’ così allora la morte? Quanto dura questo prolungamento della vita? Il cielo, gli angeli dove sono? Se non fosse per la faccia rinsecchita che pare la pelle di una pecora e per le mani attorcigliate dai tubi neri delle vene, mi piacerebbe credere di essere rotolata dentro un sogno. Una notte infinita per passarmi davanti agli occhi le immagini della vita mia che forse è quella di un'altra. Mi sono sentita male, avevo un gatto accozzato sul petto che non mi faceva dormire. Mi sono svegliata di colpo, ho acceso la lampada. Sono uscita fuori ed ho visto il mare, le luci delle lampare che ritornavano da chissà dove, la luna piena che mi ha partorito. Il fresco entrava nella mia pelle e lo sentivo combattere contro i brividi della febbre. E poi le ombre del castello in alto sulla montagna che scendevano giù sulle pareti del palazzo. Come se la notte mi stesse piombando addosso con tutta la sua dolcezza. Con tutta la sua forza. Il gatto maledetto, con gli occhi di fuoco continuava ad affliggermi, non mi lasciava in pace. Ecco, allora ho capito che stavo morendo. Sono scesa in cantina, sono caduta a terra, mi sono alzata. Si, quel gatto mi avrebbe ammazzata; ma prima dovevo fare una cosa. Una cosa che avevo in testa da cinquanta anni. Ho aperto il baule vecchio, pieno di polvere, inzuppato di ragnatele e tarli. E ho tirato fuori i vestiti di mia madre. Una gonna, una camicia, lo scialle. Adesso nemmeno me li ricordo più quei gesti. E’

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come se qualcuno arrivata giù mi avesse spogliata ed aiutata. Io ho solo alzato le mani e la pelle si è svuotata per coprirsi di nuovo. Poi la bestia ha ricominciato a tormentarmi, a scavarmi il petto con le unghia. Mi sono assopita di nuovo. I tamburi mi hanno fatto tornare viva. Dentro a questa maschera di femmina che domani a tutti un colpo ci piglia a vedere quello che sono. Agli occhi di Lucia chiedo perdono; ma a tutti gli altri la verità una condanna da espiare deve essere. Questo tempo infinito che non lo so se è durato un giorno, un mese, o solo un momento, mi ha fatto dono della memoria. Un regalo, si, un’occasione. Che un cinema così io mai l’avevo visto; col proiettore negli occhi e il sentimento all’indietro veloce come un pugno di Carnera. No, non devo addormentarmi, non posso dargliela vinta a questa carcassa di carne e ossa. Lei è morta, ma la mia testa è ancora forte. Mi metto a ragionare, a farla parlare di nuovo. A inseguire altre visioni dimenticate. Non ci riesco. Tagliata in due da un colpo timido di sole, aspetto che il sonno strazi fino all’ultima goccia di luce questo mattino che mi sbrana gli ultimi brandelli dei sensi. Il respiro, non lo sento più, non mi sento più. Il buio, le vele sopra il letto, il buio. Il mattino che mi muore dentro, la notte improvvisa e spietata che mi porta via. Sono pronta. Ancora un momento e la vedrò negli occhi l’ape regina che mi ha spezzato il cuore.