Mille sputi di catrame

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TEORIE PERSONE&CONOSCENZE N.48 53 Goccioloni d’olio Per non farmi prendere in giro, ogni tanto facevo del gran rumore con la bocca e mi chinavo più in basso che potevo dietro al bancone, a lasciare la mia triste striscia di bava nella mia sputacchiera. Se gli altri si erano accorti del mio trucchetto non lo davano a vedere, o semplicemente non gli importava ciò che faceva un pulcino imberbe. Da noi ogni giornata di lavoro è più grigia della precedente. La mattina è buia e spenta, ruvida come la cartavetrata. Il freddo ti entra nel cervello e davanti a quel cielo grigio non puoi far altro che voltare la testa. Avevo ottenuto il posto in fabbrica nonostante fossi un dannato ragazzino perché mio zio conosceva Mr. Rich. Era un lavoro d’oro, paga sicura e culo all’asciutto. Non si do- veva far altro che piazzare il metallo sul tornio e girarlo fin quando non si era creato il pezzo, che sarebbe entrato a far parte di una macchina, o che so io. Tutto il tempo così: metallo, gira, gira, togli il pezzo e riponilo, di nuovo metallo. Per otto ore di fila, con un buco in mezzo per mangiare quello che ti sei portato da casa. Ogni tre pezzi, uno sputo. A volte mi capitava che a forza di fare sempre quei maledetti gesti, sempre quelli, mi sentivo le braccia come staccate dal corpo, che andavano per conto loro, chissà dove. Non era il suo vero nome, Rich. Nessuno in paese sapeva come si chiamasse veramente. Ogni mattina ci accoglieva tutti con il suo completo bianco, sempre lo stesso, i capelli impo- matati e le mani che gesticolavano di qua e di là. Con la sua voce squillante ci dava il buon giorno e ci esortava a correre dentro che il metallo ci aspettava. E ricordate: un pezzo in più per voi, è una gioia in più per me. Tutta la sua persona puzzava di falsità e di scommesse perdute. Era un veterano del tavolo verde e del gioco ai cavalli, lo sapevano tutti. Più che veterano lo chiamavano pollo. Se credevi alle voci di corridoio, scoprivi che scialacquava più soldi di un rubinetto aperto, e si sa che le voci hanno sempre un fondo di verità. Sfilando davanti a lui, ogni giorno, gli guardavo il vestito. Il lunedì era pulito e stirato; col proseguire della settimana, le cose peggioravano. Il venerdì sul colletto si formavano croste di sporco e di sudore e le pieghe erano ovunque. Mi sono sempre chiesto a quale lavanderia portasse il vestito di sabato mattina. Il Nero era l’unico che non salutava il capo cordialmente. Al suo buongiorno rispondeva con un grugnito e dopo tre passi sputava per terra. Era forte, il Nero. Era il più anziano, il più scorbutico e il più silenzioso degli operai. Non parlava mai, nemmeno mentre si sorseggiava tutti insieme la nostra brodaglia. Circolavano voci su di lui, leggende. Si diceva che quando morì suo figlio, venne su in fabbrica con una tale rabbia addosso che in sole tre ore creò un numero di pezzi che solitamente si fanno in tre giorni. Alcuni dicevano che un figlio non l’avesse mai avuto e che da vent’anni vivesse solo come un cane perché la moglie l’aveva lasciato. Quello che era certo a tutti era che era nato assieme alla fabbrica, quando ancora non era gestita da Mr. Rich, e che lo chiamavano Mille sputi di catrame di Marco Bruschi Eravamo in venti, ma sputavamo per mille. Ai propri piedi, ognuno aveva la sua sputacchiera personale e a intervalli regolari ci piantava dentro la saliva. Ne avevano data una anche a me il primo giorno, ma io non riuscivo a sputare bene: a me non uscivano quei grumi di polvere che erano come pugni nello stomaco. Forse era per quello che non mi consideravano un uomo, non a causa dei miei diciotto anni freschi freschi. Marco Bruschi (Carrara, 1986) è laureato in Informatica Umanistica. Collabora con riviste letterarie e culturali. Recensisce libri, spettacoli teatrali, film. Scrive storie e racconti. È un fervido lettore, spesso si innamora delle parole ed è costantemente alla ricerca di qualcosa. [email protected]

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Articolo pubblicato su "Persone&Conoscenze", numero 48, aprile 2009

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PERSONE&CONOSCENZE N.4853

Goccioloni d’olioPer non farmi prendere in giro, ogni tanto facevo del gran rumore con la bocca e mi chinavo più in basso che potevo dietro al bancone, a lasciare la mia triste striscia

di bava nella mia sputacchiera. Se gli altri si erano accorti del mio trucchetto non lo davano a vedere, o

semplicemente non gli importava ciò che faceva un pulcino imberbe.Da noi ogni giornata di lavoro è più grigia della precedente. La mattina è buia e spenta, ruvida

come la cartavetrata. Il freddo ti entra nel cervello e davanti a quel cielo grigio non puoi far altro che voltare

la testa. Avevo ottenuto il posto in fabbrica nonostante fossi un dannato ragazzino perché mio zio conosceva Mr. Rich. Era un lavoro d’oro, paga sicura e culo all’asciutto. Non si do-veva far altro che piazzare il metallo sul tornio e girarlo fin quando non si era creato il pezzo, che sarebbe entrato a far parte di una macchina, o che so io. Tutto il tempo così: metallo, gira, gira, togli il pezzo e riponilo, di nuovo metallo. Per otto ore di fila, con un buco in mezzo per mangiare quello che ti sei portato da casa. Ogni tre pezzi, uno sputo. A volte mi capitava che a forza di fare sempre quei maledetti gesti, sempre quelli, mi sentivo le braccia come staccate dal corpo, che andavano per conto loro, chissà dove.Non era il suo vero nome, Rich. Nessuno in paese sapeva come si chiamasse veramente. Ogni mattina ci accoglieva tutti con il suo completo bianco, sempre lo stesso, i capelli impo-matati e le mani che gesticolavano di qua e di là. Con la sua voce squillante ci dava il buon giorno e ci esortava a correre dentro che il metallo ci aspettava. E ricordate: un pezzo in più per voi, è una gioia in più per me.Tutta la sua persona puzzava di falsità e di scommesse perdute. Era un veterano del tavolo verde e del gioco ai cavalli, lo sapevano tutti. Più che veterano lo chiamavano pollo. Se credevi alle voci di corridoio, scoprivi che scialacquava più soldi di un rubinetto aperto, e si sa che le voci hanno sempre un fondo di verità.Sfilando davanti a lui, ogni giorno, gli guardavo il vestito. Il lunedì era pulito e stirato; col proseguire della settimana, le cose peggioravano. Il venerdì sul colletto si formavano croste di sporco e di sudore e le pieghe erano ovunque. Mi sono sempre chiesto a quale lavanderia portasse il vestito di sabato mattina.Il Nero era l’unico che non salutava il capo cordialmente. Al suo buongiorno rispondeva con un grugnito e dopo tre passi sputava per terra.Era forte, il Nero. Era il più anziano, il più scorbutico e il più silenzioso degli operai. Non parlava mai, nemmeno mentre si sorseggiava tutti insieme la nostra brodaglia. Circolavano voci su di lui, leggende. Si diceva che quando morì suo figlio, venne su in fabbrica con una tale rabbia addosso che in sole tre ore creò un numero di pezzi che solitamente si fanno in tre giorni. Alcuni dicevano che un figlio non l’avesse mai avuto e che da vent’anni vivesse solo come un cane perché la moglie l’aveva lasciato. Quello che era certo a tutti era che era nato assieme alla fabbrica, quando ancora non era gestita da Mr. Rich, e che lo chiamavano

Mille sputi di catramedi Marco Bruschi

Eravamo in venti, ma sputavamo per mille. Ai propri piedi, ognuno aveva la sua sputacchiera personale e a intervalli regolari ci piantava dentro la saliva. Ne avevano data una anche a me il primo giorno, ma io non riuscivo a sputare bene: a me non uscivano quei grumi di polvere che erano come pugni nello stomaco. Forse era per quello che non mi consideravano un uomo, non a causa dei miei diciotto anni freschi freschi.

Marco Bruschi (Carrara, 1986) è laureato in Informatica Umanistica. Collabora con riviste letterarie e culturali. Recensisce libri, spettacoli teatrali, film. Scrive storie e racconti. È un fervido lettore, spesso si innamora delle parole ed è costantemente alla ricerca di [email protected]

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‘Nero’ per due ragioni. Perché aveva i capelli come la notte nonostante l’età e perché sputava grumi che sembravano catrame, colpa della polvere del metallo.Il giorno in cui mi ero presentato per la prima volta, aveva-no tutti scosso la testa e ridacchiato; il Nero non mi aveva nemmeno guardato. L’unico ad avvicinarsi era stato Joe, che mi aveva detto: “Vattene subito ragazzo, ti spaccherai la schiena e ti brucerai i polmoni qui dentro”.Joe aveva gli occhi grandi e gentili, ma non riusciva più a reggere il ritmo. Mr. Rich, durante uno dei suoi giri di ispezione, l’aveva notato e dopo poco tempo: ciao Joe. Era stato sostituito da un uomo forte e barbuto, con gli occhi vicini.Mr. Rich ci controllava sempre. Passava fra i torni con la scusa di dover spostare delle ceste, o cose così, ma in realtà ci spiava. Quando passava, salutava e sorrideva a tutti e io sentivo il puzzo della sua falsità fin dentro le viscere.Immersi nella nostra routine, lavoravamo tutto il tempo in silenzio e i pensieri vagavano, aiutati dall’automaticità dei movimenti. Potevi immaginarti di tutto e visitare po-sti sconosciuti. Io pensavo alle ragazze che prendevano il sole sulle rive del fiume d’estate. C’era però chi si creava catti-ve immagini nella testa e ogni tanto usciva dal turno abbrut-tito come una bestia. Bisogna scegliere i pensieri come le ca-stagne, quelli bacati sono da buttare.Là dentro non era come per la strada. Quando vanno a pas-seggio le persone si guardano intorno, parlano con qualcuno che incontrano dietro l’angolo, le donne sfoderano i loro bei foulard o gli ombrellini, i bambini giocano felici, gli inna-morati si tengono per mano.Là, era diverso.La prima volta che ci entrai mi venne da piangere, per-ché avevo paura del lavoro e paura di tutte quelle facce che mi guardavano male; ma soprattutto, mi sentivo come un alieno. Era come se entrando avessi lasciato alle spalle il me stesso che camminava per le strade e rincorreva gli uccelli e avessi indossato una maschera lercia. Forse stavo solo diventando grande, forse però mi ero accorto che lì era tutto un altro mondo. Una dimensione in cui non con-tava tutto ciò che sapevi o che eri, ma solo che non facessi altro che il tuo lavoro senza dar noia a nessuno e poi te ne tornassi a casa senza dar noia a nessuno. Era diverso da tutto ciò che avevo vissuto fino ad allora, ma mi ci abituai presto. Dopo quel primo giorno traumatico divenne nor-male posizionare il metallo sul tornio, rimboccarsi le ma-niche e affogare dentro se stessi. Non importava ciò che stava al di fuori della porta della fabbrica: durante il turno esistevano solo i tuoi muscoli doloranti e i tuoi pensieri, a volte bacati.

Le giornate erano tutte uguali, dense ma piatte, e scorre-vano via come grossi goccioloni d’olio. Nessuna aveva una rilevanza particolare, nessuna era speciale: quando entra-vi, potevi dirti sicuro di ciò che sarebbe successo da lì alle cinque.Una volta, una volta sola un episodio squarciò quella rou-tine così ben consolidata. Avevo dimenticato il berretto. Eravamo usciti dal turno e io ero già in fondo alla strada quando me ne accorsi. Tornai di corsa indietro a prenderlo, altrimenti il freddo della mattina dopo mi avrebbe congelato gli incubi nella testa. Rich era ancora nel suo ufficio a decidere il modo in cui scialacquare i soldi e non aveva ancora chiuso i can-celli. Ero fortunato. Entrai negli spogliatoi, guidato da una luna piena stampata in cielo come un enorme fanale ammiccante. Quando trovai il berretto, sentii un rumore provenire dalla sala macchine. Anche se avevo strizza, la curiosità guidò i miei passi e mio malgrado mi ritrovai a sbirciare. C’era una figura seduta su un bancone, al buio. Fumava guardando in alto verso i finestroni da cui filtrava

la luna.Sembrava in pace.Quando mosse la testa, intravidi il riflesso di capelli neri come la notte e scappai a gambe levate.

Punti bianchiPoi le cose cominciarono ad an-dar male. Mr. Rich la fece spor-ca. Un bel giorno entriamo in fabbrica e lui è lì in mezzo con una gran lavagna e si mette a spiegare con un grafico incom-prensibile come gli andavano gli affari e come si sarebbe po-tuto fare per migliorare le cose.

Era un fiume di parole, che alle otto di mattina rischiava di riportarti nel mondo dei sogni. Nessuno aveva capito niente, ma era bello stare lì a non fare nulla, ascoltando quella ninna nanna parlata.“Bene, se non ci sono domande, andate pure a lavoro”.Ci stavamo muovendo tutti, ma uno rimase seduto con il braccio alzato, immobile.Era il Nero. Ci sedemmo tutti di nuovo.“Sì?”, domandò Rich.“In pratica ci sta dicendo che da oggi in poi, se non arri-viamo a produrre un certo numero di pezzi al giorno, ci abbassa la paga?”.Mr. Rich rimase a bocca aperta e si girò a guardare muto i suoi grafici pieni di linee e cifre. Il Nero sputò per terra.Eravamo troppo ignoranti per affidarci a un sindacato che ci assistesse nella protesta; molti non sapevano nemmeno bene cosa fosse un sindacato. Guidammo le cose dal bas-so, da soli, il nostro portavoce divenne il Nero, anche se avrebbe preferito tagliarsi una gamba.Ci mandarono me a convincerlo, a forza di spintoni.“Perché io?”, chiesi.

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“Perché sei l’unico che non sfascerebbe mai di botte, sei un ragazzo”.Il ragionamento fila, pensai. E allora perché avevo una paura fottuta?Il piano era questo: durante la pausa pranzo gli altri avreb-bero mangiato molto, molto velocemente e sarebbero usciti prima del solito. Io sarei rimasto solo con lui e avrei dovuto parlargli. Semplice. Come no.Quando l’ultimo chiuse la porta, io posai il cucchiaio e lo guardai. Lui fissava la sbobba, sembrava non essersi ac-corto di nulla.Mi schiarii la gola.Niente.Provai con un timido: “Ehi Nero!”.Niente.Allora alzai la voce a un livello tale che sarebbe stato im-possibile non sentirla e tutto d’un fiato gettai in mezzo alla stanza un convulso: “Senti Nero gli altri mi hanno det-to di parlarti. Volevamo chiederti se ti va di trattare con quell’infame di Rich che ci vuol fare lavorare il doppio. Lo chiediamo a te perché sei l’unico che lui ascolta”.Silenzio. Continuò a mangiare come se niente fosse. Io scappai via.Gli altri dissero: “Ha accettato”.“Come fate a saperlo? Non ha detto niente!”Appunto.Il Nero parlò con Rich in privato. Noi eravamo tutti con l’orecchio dietro la porta del suo ufficio. Il capo urlò, sbrai-tò e batté i pugni sul tavolo.“Ma chi vi credete di essere? Questa è la mia fabbrica, non la vostra!”.Poi per un po’ non si sentì più niente, parlavano a voce troppo bassa.Poi il Nero uscì e disse solo: “Le cose cambieranno”.E cambiarono.Qualche tempo dopo, ecco di nuovo Rich con quella sua dannata lavagna che cominciò a dir-ci che le cose andavano male, che alcune stupide compagnie non apprezzavano il nostro duro lavoro e bla bla bla. Quel porco voleva solo guadagnare più soldi a no-stre spese e perderli di nuovo ai cavalli o al poker, come faceva sempre.Poi disse che aveva accolto la nostra richiesta di eliminare la sudicia regola dei pezzi a tempo, sudicia l’ho aggiunto io. Ma disse anche che la nostra azienda purtroppo era malata e che aveva letto su una rivista per manager una cura per aziende malate. Come la nostra.“Dove l’ha letta?”, mi chiese quello vicino.“Su una rivista per manager”.“E che sono?”.“Non lo so”.Poi Mr. Rich cancellò gli scarabocchi sulla lavagna e co-minciò a disegnare grossi punti bianchi. Stavano a coppie: due punti qua, due là, fino in fondo. Erano venti. Anche noi eravamo venti. Quando finì ci sorrise mellifluo.“Ora vi farò delle domande semplicissime, per risponde-

re basta alzare la mano”, disse. “Allora vediamo: chi va a pesca?”.Alcuni alzarono il braccio, timorosi: erano in quattro.“Bene, allora tu da oggi in poi ti metterai nel tornio davanti al suo, e voi due in altri due torni uno di fronte all’altro”.E intanto scriveva i nomi sui primi quattro punti bianchi.

Una trovata innovativaFece altre domande del genere: chi gioca a football, chi colleziona tappi, chi gioca a carte. E scriveva. Io alzai la mano un paio di volte, ma il mio nome non venne mai scritto. Non se lo ricorda, pensai.Alla fine rimanemmo solo in due: io e il Nero, che era stato tutto il tempo seduto in disparte con le braccia incrociate.Rich mi sorrise e scrisse i nostri nomi negli ultimi due pal-lini. Io guardai il Nero, lui non si mosse.Poi il nostro caro capo ci salutò, si fece aiutare da due ope-rai a portare via la lavagna e ci lasciò lì a chiederci cosa fare. Nessuno sapeva cosa dire, ci limitammo a portare le no-stre sputacchiere ai nuovi posti assegnati.La giornata iniziò e notai subito che il Nero lavorava con movimenti scattosi e precisi, senza sosta. Non smetteva mai, non parlava mai, non alzava mai gli occhi. Si inter-rompeva solo per sputare.Mr. Rich iniziò da subito a passeggiare in mezzo a noi e a fermarsi a ogni coppia di torni. Era una sordida volpe. Faceva domande mirate agli operai riguardanti i loro inte-ressi comuni, li incentivava a parlare fra loro.Al tempo nessuno l’aveva capito, ora lo so: su quella sua

rivista per manager aveva letto che se tu metti vicine due persone che han-

no qualcosa di cui parlare esse lavoreranno meglio e di più, sentendone meno il peso.

E la cosa funzionò.Quelli lì dentro non erano animali

da salotto, erano bestie da tornio, metallo, sudore e sputi. Io non avrei scommesso un soldo bucato sull’idea del capo, invece, come un’onda improvvisa, qual-cosa cambiò nella loro mente. Forse fu grazie alla spinta di Rich che li puntellava di domande, forse tutti quanti si accorsero all’improvviso che gli veniva offerta una scaletta di corda per uscire dalla loro buca, e la afferrarono. Trova-rono un conforto nuovo nella faccia barbuta che gli stava di fronte, si accorsero che anche lui era un essere umano e non un fantoccio creato per far girare il metallo.All’inizio, nell’aria si sparse solo un borbottio smorzato e qualche rutto qua e là. Ben presto il vociare arrivò quasi a coprire il rumore delle macchine e non si sentivano più gli scrosci della saliva nel barattolo. I pezzi pronti si accumu-lavano nei cesti e perfino a pranzo gli uomini discorreva-no, fra una sorsata di brodo e l’altra.Più nessuno veniva abbruttito dai pensieri bacati.Gli unici che stavano zitti eravamo noi. Non so se Rich ci avesse messi vicini perché mi odiava o perché anche lui pensava che fossi l’unico che il Nero non avrebbe sfasciato di botte.

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Passò il tempo e le cose continuarono a cambiarci intorno. Le sputacchiere cominciarono a sparire, nessuno le usava più, e il capo girava sempre più sorridente e tronfio, evi-dentemente orgoglioso della sua trovata innovativa, quasi magica. Secondo me a risanare i conti non fu tanto la cura proposta dai manager, quanto il suo repentino allontana-mento dal tavolo verde e dall’ippodromo.Il Nero lavorava sempre più a scatti, sempre più furiosa-mente. L’unica sputacchiera in tutta la fabbrica rimase la sua.

Dannata polvereQuella volta il cielo non era grigio come al solito, c’era un flebile sole e qualche uccellino coraggioso canticchiava. Stavamo entrando tutti insieme in fabbrica, due operai parlavano della battuta di pesca che avrebbero fatto pre-sto. Confluimmo lentamente ai nostri posti, dopo aver timbrato il cartellino. C’era qualcosa che non andava: il Nero non era al suo posto e stava per iniziare il turno. Guardai verso la porta, non so perché ma ero preoccupa-to. Era chiusa e mancavano pochi secondi. Si aprì, final-mente, ma era il capo che entrava con un sorrisone a darci il buongiorno.Il Nero a lavoro non venne, senza avvertire nessuno. E così il giorno dopo, e quello dopo ancora.Rich mi convocò nel suo ufficio, scarabocchiò qualcosa su un foglio e mi disse:“Questo è il suo indirizzo, vai a vedere se è morto”.Mentre mi avvicinavo alla sua casa, sudavo freddo. Non so se avessi più paura di trovarlo stecchito oppure vivo, pronto finalmente a sfasciarmi di botte.Aveva una casa piccola dai muri lerci. Sembrava fosse un enorme pezzo di muschio smarrito da un gigante distrat-to.Bussai piano, poi più forte, poi provai a chiamarlo. Nessu-na risposta. Decisi di insistere perché non potevo tornare in fabbrica senza niente in mano.Girai intorno all’edificio, cercai di sbirciare dentro, ma i vetri erano più sporchi di un dente cariato.Poi, eccolo là, nel giardino sul retro, seduto da solo, pieno di erbacce e rottami di biciclette distrutte, con il mento ap-poggiato al petto.Scavalcai la staccionata marcia e mi avvicinai, per terra c’era una bottiglia mezza vuota.Lì in piedi, vicino a lui addormentato, mi sembra di esse-re vicino a un vecchio che va imboccato col semolino. Lo scuoto.“Nero, sono io”.Dopo un po’ si sveglia e mi rivolge uno sguardo cisposo, poi mi riconosce e dice solo:“Sei tu”.Io non so cosa diavolo fare e allora mi siedo a gambe in-crociate sul prato vicino a lui. Prendo un bel sorso dalla bottiglia per terra, ci vuole proprio.“Nero, perché non vieni a lavoro?”.“Quale lavoro?”, mi chiede guardando niente.“Giù alla fabbrica, Nero”.

“Quella non è più la mia fabbrica”.“Perché dici così?”, non capisco.Non mi risponde e allora provo a dire qualcosa per risol-vere la situazione.“Tu non puoi andartene dalla fabbrica Nero, tu sei la fab-brica. Sei il più esperto di tutti, il più saggio. Sei l’unico che ha avuto il coraggio di parlare con quella schifosa sangui-suga lecca soldi”.Bel discorso, penso.“La fabbrica è cambiata troppo”, biascica lui.“È vero, è cambiata. Non ci sono più brutti musi che pen-sano brutte cose. Ora almeno ci si parla, si comunica. Non so se sia merito di quel rospo vestito di bianco, secondo me è stato più che altro istinto di conservazione: o si cam-biava, o si diventava come bestie. La fabbrica è cambiata, ora è meglio”.Lui all’improvviso mi prende per le spalle.“Ma non lo capisci? Non lo capisci che è proprio questo il punto?”. Poi mi lascia andare.“Vattene a casa, ragazzo”.Mi alzo, scosso.“E tu che farai? Te ne starai qui a bere?”.Dice solamente: “Sì”.Mi giro per andarmene poi mi fermo e gli chiedo:“Perché, Nero vuoi andartene proprio ora che si sta me-glio?”.Lui mi guarda.“Ora non ho più niente da odiare”.Poi sputa per terra.Me ne andai senza aggiungere altro. Scavalcai la staccio-nata marcia, passai davanti ai vetri cariati, mi incammi-nai sulla strada. Sarei dovuto tornare a lavoro solo dopo pranzo, avevo ancora tempo. Costeggiai il fiume e mi im-maginai le ragazze a prendere il sole. Mangiai il mio pani-no, camminando. Comprai una spuma perché mi andava proprio. Tirai i sassi nell’acqua e a uno riuscii a far fare cinque salti prima che affondasse. Vidi un grosso uccello passare sopra la mia testa e lo salutai gridando. Mi misi a cercare lucertole ma non ce n’erano perché faceva ancora troppo freddo.Si avvicinava l’ora, mi incamminai a lavoro.Quando vidi la fabbrica, laggiù in fondo alla strada, gli oc-chi cominciarono a bruciarmi. Dannata polvere.