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Miele della Valtellina: una lunga storia ed una antica tradizione. L’apicoltura è un’attività nata e coltivata, sempre e soprattutto, per il potente e segreto fascino che il mondo dell’ape sa esercitare sulle persone intelligenti e curiose: il miele è il frutto di questa passione. Il miele della Valtellina ha raggiunto importanti traguardi nella Qualità e nell’Eccellenza percorrendo una strada, una storia che è giusto conoscere anche per rispetto di chi ci ha preceduto e ha reso possibile i successi e il cammino di oggi. Quando si osservano gli insetti sociali al lavoro, come le api ma più facilmente le formiche, si nota un forte scoordinamento: lavori iniziati e lasciati in sospeso, più individui che trasportano pesi impegnativi, la cui fatica spesso si trasforma in un tiro alla fune improduttivo più che in una collaborazione. E non manca chi disfa quanto altri costruiscono. I risultati, quando ci sono, sembrano più miracoli che altro, e in cuor nostro pensiamo che sono insetti stupidi nella loro disorganizzazione. Eppure non è così, alla fine realizzano. Così noi. Per quanto ci affanniamo a dare razionalità al nostro operato individuale, il contesto globale è coordinato da forze spesso deboli e sottoposte a contrazioni determinate da azioni contrarie o concorrenti. Forse la “stupidità” degli insetti

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Miele della Valtellina: una lunga storia ed una antica

tradizione. L’apicoltura è un’attività nata e coltivata,

sempre e soprattutto, per il potente e segreto fascino che il mondo dell’ape sa esercitare sulle persone intelligenti e curiose: il miele è il frutto di questa passione. Il miele della Valtellina ha raggiunto importanti traguardi nella Qualità e nell’Eccellenza percorrendo una strada, una storia che è giusto conoscere anche per rispetto di chi ci ha preceduto e ha reso possibile i successi e il cammino di oggi.

Quando si osservano gli insetti sociali al lavoro, come le api ma più facilmente le formiche, si nota un forte scoordinamento: lavori iniziati e lasciati in sospeso, più individui che trasportano pesi impegnativi, la cui fatica spesso si trasforma in un tiro alla fune improduttivo più che in una collaborazione. E non manca chi disfa quanto altri costruiscono. I risultati, quando ci sono, sembrano più miracoli che altro, e in cuor nostro pensiamo che sono insetti stupidi nella loro disorganizzazione. Eppure non è così, alla fine realizzano.

Così noi. Per quanto ci affanniamo a dare razionalità al

nostro operato individuale, il contesto globale è coordinato da forze spesso deboli e sottoposte a contrazioni determinate da azioni contrarie o concorrenti. Forse la “stupidità” degli insetti

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Storia dell’apicoltura valtellinese

sociali è anche la nostra ….. ma forse è anche la “nostra” (e loro) bellezza, la contraddizione, il fascino, l'asperità della vita e della democrazia. Il fare e il disfare. Un bene e un male. Uno ying e uno yang. Abbracciati ed inscindibili. Conflittuali e complementari.

Questa è la storia dell’apicoltura, metafora della Storia, con momenti di forte progresso che convivono o si succedono a quelli di disfacimento, un costruire ed un distruggere, un progredire e un fermarsi. Un andamento che è la risultante di tante piccole azioni e forze anche contrastanti, che agiscono e si combinano in modo a volte contraddittorio, a volte coordinato ed armonico. La storia è ripercorrere tali risultanti. Indagare la storia, anche quella minima dell’apicoltura, è percorrere un sentiero con umiltà e rispetto per queste azioni e forze che hanno saputo lasciare traccia di se.

Valtellina e i suoi prodotti è tutto questo …. Una lunga storia.

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UGeneralità

Il Miele – prodotto tradizionale GGeennee aalliitààrr t La storia fra le api e l’uomo è sicuramente molto antica, tanto che il saccheggio di favi di miele è stato raffigurato in un'incisione rupestre del mesolitico, 7.000 anni fa. Ma ancora oggi, nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, il miele rappresenta una risorsa alimentare attivamente ricercata. L’apicoltura vera e propria ebbe inizio quando l’uomo incominciò a salvaguardare il futuro delle famiglie di api che scopriva nelle cavità degli alberi o della roccia. Gradualmente singole famiglie che avevano trovato posto in ricoveri naturali mobili furono concentrate in primitivi apiari. L’apicoltura nacque e si radicò nelle attività dell’uomo congiuntamente alle altre attività agricole. Se le prime arnie furono i ricoveri naturali (quali le cavità nei tronchi), successivamente l’uomo utilizzò il sughero o altri tipi di corteccia e quindi cesti in paglia per costruire primitive arnie. Nell’antico Egitto, ma ancor oggi in molte aree del mediterraneo, le api venivano ricoverate nelle olle di terra cotta. Questi vasi d’argilla erano posti coricati sul terreno e potevano anche essere impilati in file sovrapposte. In Valtellina non è rimasta traccia di tale forma di allevamento, se non nella parola dialettale che designa l’arnia “Vasell degl’äv”. L’arnia, ricovero della famiglia di api, localmente viene ancor oggi chiamata vaso; tale italianizzazione è stata rintracciata anche in un documento di successione del 1594, steso dal notaio Paolo Galli di Pendolasco (odierno Poggiridenti, Sondrio), in cui vengono elencati i beni di Giovanni Galli, morto il 20 luglio di quell’anno. Nella quintultima riga di tale documento vengono citati “Vasi numero ventuno di api, co li api dentro”. Nella storia dell’apicoltura, particolare importanza riveste l’arnia in cesta di paglia o di vimini, che veniva impermeabilizzata con una copertura in creta o in creta e sterco. In questo caso si richiama l’attenzione sull’uso greco di porre i cesti rovesciati verso l’alto con una serie di legnetti ed una copertura di pietra o di corteccia. In tale caso i favi venivano spesso costruiti dalle api appesi ai legni mobili posti superiorimente e la sfasatura delle

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Storia dell’apicoltura valtellinese

pareti, analoga a quella naturale dei favi, non provocava la saldatura alle pareti tipica altrimenti di questi “bugni villici”: erano le antesignane delle arnie moderne a favi mobili. In Valtellina (e Valchiavenna) si afferma sicuramente un altro tipo di arnia o “bugno villico”, costituito da quattro assi poste a formare un parallelepipedo vagamente piramidale con un imbocco leggermente più piccolo rispetto alla parte terminale. Quest’ultima veniva chiusa da uno sportellino rimovibile. L’origine di tali ricoveri per le api si perde nei secoli e il loro utilizzo, in maniera quasi immutata, è continuato fino a qualche decina di anni fa. L’uso e l’allevamento delle api è comune a molte culture: da quella egizia, che li ha effigiati nelle decorazioni tombali1, a quella greca2 e romana, che inseriva con sapienza il miele nella propria alimentazione, codificandone l’uso gastronomico. Virgilio, nelle “Georgiche” descrive le tecniche apistiche3. Il miele è poi citato anche nelle religioni ebraiche e mussulmane dove “fiumi di latte e miele ristoreranno i guerrieri morti valorosamente per la fede”. In Valtellina, come nel resto d’Europa, nel diradarsi della cortina che avvolge l’alto Medio Evo4, troviamo gli evidenti segni di rinascita e razionalizzazione dell’agricoltura, tramite l’opera degli ordini religiosi monastici. In Valtellina un sicuro centro di tale diffusione sorge a Monastero, attuale frazione del comune di Berbenno, a cui si fa risalire la paternità dell’attuale tecnica viticola. Essa è basata sul terrazzamento e sulla capacità di utilizzare appieno il versante solivo, abbarbicando alla roccia anche minuscoli fazzoletti di terra. 1 Gli Egizi furono i primi a prelevare miele e cera dagli alveari senza praticare apicidi. L’ape e il miele assumevano anche un valore sacro. Il propoli poi era l’elemento base, essenziale per le pratiche di inumazione e preparazione delle mummie. 2 Aristotele nella sua “Storia degli animali” descrive le arnie greche a favi mobili. 3 Molti scrittori naturalisti latini trattano dell’apicoltura e tra questi Plinio, Varrone, Columella. Non viene praticato apicidio e l’allevamento è di tipo semirazionale; si assiste ad un florido commercio di miele per l’alimentazione e la cera per svariati usi tra cui per le “tabulae”. 4 Con le invasioni barbariche si perdono quelle cognizioni di allevamento delle api e i prodotti dell’alveare vengono ricavati per apicidio. Una pratica forse nata anche dalla insicurezza dei tempi e quindi da una mentalità più volta al saccheggio delle risorse che a un teorizzare le ricchezze per tempi futuri. Si selezionavano così, inconsapevolmente, solo le famiglie con una forte attitudine alla sciamatura.

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UL’ apicoltura valtellinese nel 1800

Il binomio apicoltura e religione poi, per vari motivi, rimane sempre una costante fino ai nostri giorni. Non bisogna infatti dimenticare, ad esempio, che la cera vergine rappresenta la

Globalmente la cera dà luogo ad un commercio particolarmente ricco ed attivo, tanto che nell’elenco della

materia prima delle candele che rischiarano i luoghi di culto.

“Tariffa del datio delle Eccelse Tre Leghe che si scode nella Valtellina” stampato a Coira nel 1568, ovvero le tariffe del dazio che i Grigioni riscuotono in Valtellina, si cita per la cera nuova, non lavorata, la tariffa di soldi 10.

LL’’ aappiiccoollttuurraa vvaalltteelllliinneessee nneell 11880000 nazione Grigiona e giungendo a

atistiche intorno alla Valtellina, memoria di F.

Voltando le spalle alla domitempi più recenti, troviamo una ricca documentazione nel corso del 1800. In “Notizie stVisconti Venosta” del 1844 troviamo interessanti riferimenti all’apicoltura. “Si calcolano a 2.470 gli alveari della Provincia, ed a 120 quintali il miele ed a 60 quelli di cera. Del primo è squisitissimo ed emulo dello spagnolo quello che si raccoglie a Bormio, l’altro ordinario”(pag. 66) e viene citato che “Chiavennaesporta la rinomata sua birra, e Bormio lo squisito suo miele” pag. 68). Mentre nella pagina successiva viene quantificata

l’eccedenza di miele, ovvero la quantità di esportazione e quindi

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Storia dell’apicoltura valtellinese

il suo contributo alla crescita del rapporto import-export ante–litteram. A pagina 74 delle citate “Memorie”, nell’ambito del capitolo dedicato all’industria, Visconti Venosta enumera, alla voce “Fabbriche di miele e di cera”, ben “6 opifici e 10 addetti”. Altre interessanti notizie sull’apicoltura, sul suo radicamento e sulla qualità e pregio del miele locale si trovano su una serie di pubblicazioni dal titolo “Cenni statistici e notizie patrie Valtellinesi con almanacco per l’anno …. “. In tali opere sono compendi di dati ed informazioni sulla Valtellina (intesa come globalità della provincia), su fatti e temi considerati di maggior rilievo dell’anno appena trascorso o riflessioni di quanti vi scrivevano.5 In quello dell’anno 1855 viene riportato uno scritto di Pietro Malsen che descrive in forma epistolare la Valtellina e con parole quasi analoghe al Visconti Venosta esalta il miele di Bormio “…Il più pregevole prodotto di questo paese si è il mele che con molta cura di quei terrazzani vi è coltivato, e per losquisito pascolo che vi trovan le api, è rinomato fra i più delicati d’Italia, da pareggiarsi con quelli di Spagna dell’Acaja” (pag. 18)

ell’anno 1857 “

.N Cenni statistici e notizie patrie Valtellinesi”, lo scritto che prende in rassegna tutto il comparto agricolo, rivolge all’apicoltura le seguenti riflessioni “Ottimo pensiero sarebbe quello di spingere con più energia la coltivazione delle api, tanto utile e tanto negletta nel nostro paese , per cui è duopo farne introduzione dall’estero, mentre se fossero bene coltivate, se ne potrebbe fare una buona esportazione.” (pag. 91).

5 La pubblicazione veniva realizzata dalla “Società Agraria della Valtellina”, una consorteria di nobili possidenti che in tali scritti riflettevano una concezione agricola per certi aspetti moderna ed imprenditoriale e per altri alquanto partigiana e classista.

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UL’ apicoltura valtellinese nel 1800

Nell’anno 1858 “Cenni statistici e notizie patrie Valtellinesi” riporta un intero articolo ricco di osservazioni e note sull’apicoltura in generale ma soprattutto promuove il nascente associazionismo in questo settore (pag. 75 – 86). In particolare si ricollega all’esperienza milanese della “Società anonima” e ne propone “una casa figlia” a Sondrio. Il compito precipuo dovrebbe essere quello di istruire all’allevamento delle api, un’opera di educazione e acculturazione rivolta essenzialmente ai contadini locali. Nell’edizione dell’anno successivo della medesima pubblicazione compare una riflessione della Società Agraria Valtellinese “Sul progetto di un’esposizione agricolo industriale in Valtellina” (pag. 55), dove ad un certo punto viene riportata la seguente frase: “Bormio esponga il suo miele, i prodotti metallurgici delle sue cave; Chiavenna la sua birra, le sue granaglie, i suoi filati di cotone e di amianto; Morbegno, i suoi formaggi e le sue saporite pesche, Sondrio e Tirano, le loro sete, i loro vini, le loro castagne, le varietà degli animali.” Colpisce come il miele in Alta Valle è divenuto un prodotto così importante per qualità e quantità da considerarlo quello che

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Storia dell’apicoltura valtellinese

contraddistingue la zona di Bormio. L’edizione del 1862 cambia leggermente il nome (oltre che tipografia) e diviene “Almanacco Valtellinese pubblicato a cura della Società Agraria della Valtellina”. A pagina 46 troviamo un articolo relativo alla partecipazione della Società Agraria Valtellinese all’Esposizione italiana del 1861 in Firenze. Nelle successive pagine è pubblicato l’elenco degli espositori locali, con provenienza e prodotti presentati. Fra vari tipi di acque minerali e i vini (questi ultimi presentati da aziende di famiglie nobili), sono riportati molti prodotti e nominativi di produttori legati all’apicoltura locale, in alcuni casi con bizzarri abbinamenti di prodotti quali, per la ditta Orsatti Francesco da Sondrio, “cera vergine, granzuolo e in candele” e quindi “uova di formiche”. La ditta Pizzatti Pietro, Sondrio, più sobriamente si limita a modello d’arnia, favi di miele, e cera vergine. Capararo Francesco, da Sondrio, presenta Miele comune, Miele sopraffino, Cera vergine e Modello d’arnia con api vive. Bottamini Bartolomeo da Bormio presenta Miele sopraffino e Favo in miele. Questo breve scritto apre alcune interessanti riflessioni. In particolare è da segnalare che vengono presentati modelli di arnie. Infatti in questo periodo, in tutto il mondo, il settore apistico registra un fermento nuovo, una storica rivoluzione. L’arnia in paglia con favi mobili di tipo greco aveva ispirato nel corso dei secoli alcuni sviluppi verso l’arnia razionale, ma si erano tutti arenati. Nel 1851 Langstroth fa proprie alcune esperienze precedenti ed inventa il favo mobile. Apre una strada. E’ tutto un pullulare di invenzioni, molte delle quali abortiscono o non vengono raccolte, ma altre determinano in pochi anni un’autentica rivoluzione, che porta all’arnia moderna. A differenza dell’arnia di antica concezione, la nuova struttura è costituita da un modulo base contenente favi mobili e un sistema modulare di melari, contenenti favetti, sempre mobili, per il periodo di raccolto. Ma le invenzioni non si limitano alle arnie: nel 1857 sono i fogli cerei, e nel 1865 lo smielatore centrifugo. Nasce la moderna apicoltura. Ci vorrà quasi un secolo però per soppiantare completamente i bugni villici e l’apicoltura di tipo più tradizionale. Il documento richiamato ci permette di proporre anche un’altra considerazione: l’apicoltura era diffusa relativamente poco fra i contadini e infatti, anche nell’elenco degli espositori, troviamo nomi di famiglie Valtellinesi che appartenevano alla borghesia (artigianato, commercio, servizi). L’attività apistica ha quindi

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UCome venivano allevate le api

spesso attirato la classe, le persone più curiose e creative, spesso con una discreta manualità: un mix che ci permette di ammirare molti piccoli adattamenti ed invenzioni anche nei più riposti apiari. Sfortunatamente l’individualismo che spesso contraddistingue gli abitanti delle zone di montagna poco ha permesso che le esperienze acquisite dai singoli divenissero patrimonio produttivo comune. In una nota di piè di pagina del libro già citato dello storico Francesco Visconti Venosta viene riportato: “La produzione di miele ha profonde radici nella cultura tradizionale: all’Esposizione di Milano del 1881 ritroviamo in questo settore tal Parravicini di Castione, Moretti di Delebio, Carlo e Marco di Chiavenna, Bottamini di Bormio, Picceni di Lanzada e Don Giuseppe Giacomoni di Cadelsasso.” Dalla relazione di Giovanni Robustelli (G. Robustelli “La Valtellina all’Esposizione di Milano” Sondrio 1881”) veniamo anche saper che il Parravicini di Castione, oltre al miele, ha esposto “vino di miele, alcol di miele, aceto di miele, cera e miele in favi, ha esposto anche attrezzi …” Per quanto riguarda la cera viene citata la ditta Raineri di Delebio, specializzata nella produzione di candele. Anche Cesare Cantù nel suo saggio “Storia di Sondrio e della Valtellina” cita l’allevamento delle api nella Valmalenco e il pregiato miele di Bormio.

CCoommee vveenniivvaannoo aalllleevvaa ee llee aappiitt L’allevamento delle api era, a prima vista, più semplice in passato rispetto ad oggi. Dalla documentazione raccolta risultano aziende che realizzavano produzioni cospicue. Queste quindi

Bormio in unastampa del ‘800

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Storia dell’apicoltura valtellinese

avevano raggiunto un livello professionale notevole, soprattutto tenendo conto delle difficoltà che dovevano sussistere nell’operare con una attrezzatura così povera. Riprendiamo la descrizione dell’attività apistica da un articolo comparso il 1° marzo 1862 sul settimanale “La Valtellina” relativo all’apicoltore Bartolomeo Bottamini di Bormio. …. “II Col ivatore adunque, quando le nevi sono dai campi dileguate, ed i fiori o le e be annunciano la primavera, trae fuori le arnie dalle oscure o rimote camere, ove passarono l’ inverno e le trasporta negli alveari già dispos i in luoghi rivolti a mezzodì,difesi possibilmente dai venti, perché questi non impediscano alle api di portare a casa il dolce cibo.

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Questi alvea i sono di forma quadrilatera, fabbricati o di legno o dì muro, coperti di tetto per difendere le arnie dalle rovinose intemperie, e davanti guardati da sottili spranghe di ferro, disposte a t averso dell’alveare, onde né belva vi possa arrecar danno, né ladri rubarle, ma in modo però di non impedire l’uscita alle api. I quattro travi angolari, che servono per tenere unito l’alveare, hanno l’estremità inferiore b sata sopra pietra cava nella parte superio e, contenente acqua, perché né ret ili, né topi e della terra possano arrampicare sulla trave e quindi entrare nel arnie. AI giungere adunque della primavera; trasportate le arnie negli alveari, Apicultore quando conosce che i fio i e le erbe dei campi possono offrire bastevole alimento alla api, leva dalle parti posteriori delle arnie tutti i favi che contengono il miele fabbricato nell’antecedente autunno, che forma la terza qualità, ossia inferiore sino al pun o in cui si trovano i novelli allievi. Qualora però sorgano intemperie a flagellare le campagne, come nevi, pruine, piogge, piogge dirotte, ven i impetuosi che riconducono giorni freddi, (la qual cosa suole accadere di frequente in queste regioni alpine), per cui le api non possono uscire a procurarsi il cibo, si deve fornire loro in sufficiente quantità, per esempio due cucchiai di miele al giorno per cadauna arnia, finché il tempo ritorni sereno e caldo. Giunto il mese di luglio, epoca, in cui in Bormio si taglia il primo fieno, e precisamente subito dopo il taglio di questo, l’Apicultore leva di nuovo i favi, dei quali con quelli levati in primavera, estrae il miele con il seguente metodo: levato il coperchio dalla parte posteriore dell’arnia si accosta ai favi un fascetto di strac i di tela acceso, ma in modo che mandifumo e non fiamma, curando che il fumo penetri tra mezzo i

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UCome venivano allevate le api

favi. Le api per fuggire il fumo, loro nocivo, vanno ritirandosi verso la parte anteriore dell’arnia, e lasciano cosi agio al Coltivatore di osservare se i favi con engono miele od allievi. Nel primo caso levano i favi, usando però la cautela di cessare dallaoperazione alquanto prima di incontrare gli allievi per non guastare la covatura delle uova; nel secondo si cessa dall’opera e

si rimette il coperchio.

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Dai favi estratti dalle arnie si separano i più bianchi (che danno la prima qualità del miele) dai meno bianchi, il miele dei quali, per essere mescolato ad al re materie eterogenee, come polline ed altri fecee, riesca alquanto disgustoso, più oscuro, sa di cera e forma la seconda qualità. Separati i favi più bianchi dai meno, si pongono quelli sop a una tavola di latta traforata, posta a metà altezza di una cassa la cui parte inferiore è destinata a ricevere miele che dai trafori vien colando. I favi a questo scopo vengono spazzati con una paletta di legno: con la vertenza di eseguire l’operazione in una camera chiusa ermeticamente, perché non vi possano entrare le api, che, per essere tagliato il fieno e quindi i campi sprovvisti di fiori, tratte dall’odore del miele, cercano penetrare nella camera approfittando perfino della toppa della chiave dell’uscio, o del camino, ove esista, e misere quelle che vi entrano poiché,

Bugni villici adAlbosaggia (vistaanteriore)

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Storia dell’apicoltura valtellinese

impaniate nel miele, rimangono vittima della loro gola, ovvero pel troppo cibo si rendono inette a ritornare al lavoro. Quando l’Apicultore conosce che i favi più bianchi naturalmente non danno più miele, li raccoglie dalla tavola; e in un ai meno bianchi li pone sopra un’altra tavola adattata del pari di un Cassa, come sopra. Quindi dopo aver ridotti a pezzi minuti e alquantocompressi i favi, li copre di un vetro o cristallo e li espone ai raggi solari, avendo cura che la Cassa sia collocata in modo che davanti, ossia verso il sole, sia più bassa, per esempio abbia l’altezza di 20 Centimetri, e nella posteriore di 30, onde i raggi del sole cadano perpendicolari sul vetro. Il miele che si ottiene colla forza calorifica del sole è quello che viene detto di secondaqualità.

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All’incominciare del mese di agosto la vegetazione in queste campagne cessa e quindi anche l’alimento per le api. Allora l’attento Coltiva ore perché le api non abbiano a correre pericolo di morire di fame e per riconoscere il frutto delle sue fatiche, trasporta con grande dispendio le arnie più al basso, nei dintorni di Grosio, di Grosotto, e di Tirano, ove per essere il clima ancora caldo, la vegetazione si conserva florida e specialmente abbonda dei fiori di grano saraceno, detto volgarmente formentone, i quali vengono giudicati i più opportuni dare abbondanza di miele, che sebbene inferiore di molto a quello di seconda qualità torna però molto nutritivo e salubre alle api nella stagione remale. Questo forma la terza qualità e si estrae nel modo praticato per quello di seconda qualità. E perché i favi non abbiano a soffrire alcun danno nel trasporto si fa uso di carri con molle per evitare le scosse che potrebbero distaccare i favi dalle pareti delle arnie. Le arnie hanno qual più qual meno la lunghezza di un metro, l’altezza di 25 cm e la larghezza di 20 circa; si trasportano di notte tempo, quando l’aria è quieta e fresca, e nella parte anteriore si coprono di tela alquanto rada, perché le api non rimangano soffocate, ma solo trovino impedito il passaggio. Nel mese di novembre le arnie vengono levate anche dalle campagne, ove si trasportarono nell’autunno, e perché le api passino l’inverno sicure dalle intemperie della stagione, vengono collocate in camere asciutte, oscure, lontane dai rumori le quali abbiano però alcuni spiragli per mutarvi l’aria, ma in guisa che non vi possano avere accesso topi od altri animali, che troppo danno potrebbero arrecare loro.

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UCome venivano allevate le api

Le api passano nell’inverno una vita pressoché letargica, non lavorano, usano pochissimo cibo per cui durante la fredda stagione ogni arnia non consuma più di due chilogrammi di

miele. Finalmente l’Apicultore usa speciale cura non solo nel collocare le arnie contenenti le api, ma il miele stesso, in luoghi asciutti e in media temperatura; poiché l’umidità e specialmente quella delle cantine, procurerebbe molte infermità e sicura sorte delleapi e corromperebbe il miele liquefacendolo e ciò avverrebbe del miele anche qualora si tenesse in camere soverchiamente calde.

Bugni villici adAlbosaggia (vista deglisportelli posteriori)

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Storia dell’apicoltura valtellinese

Questo sono le poche norme collo quali il nostro apicoltore Bottami coltiva le sue api, dalle quali ritrae si felice successo, che, quantunque il miele di Bormio godesse fin da prima distinta fama sia per la candidezza che per il sapore, pure avendolo egli assai migliorato ottenendone la p eferenza sopra tutti i mieli della Penisola e merito di venire distinto con medaglia alla Esposizione di Firenze, tenutasi lo scorso autunno.

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Si lode al Bottamini, il quale volle rendere di pubblica ragione ilsuo metodo, benché semplicissimo e affatto empirico, non già per vanagloria di far conoscere i miglioramenti introdotti in siffatto genere di industria ma al nobile scopo che gli altri apicoltori della nostra Valle sappiano cavarne profitto per migliorare il metodo proprio, e quindi maggiormente aumentare si utile e importante prodotto. E qualora essi trovassero modo di rendere questo metodo più perfetto, il Bottamini non solo accoglierebbe volentieri le loro osservazioni, ma sarebbe loro gratissimo. In ciò egli si mostra ben diverso da quei cultori di varie industrie, che gelosi dei propri ritrovati, li rivolgono nel mistero, dando così a dividere di avere a cuore quasi unicamente il ben proprio, e pochissimo il comune. Io vorrei pertanto che specialmente i RR. Parroci di certi villaggi si prendessero a cuo e questo genere di coltivazione, lo studiassero con tutta diligenza e ne istruissero i loro popoli, introducendo così fra loro una fonte di ricchezze, opportunissima a migliorare la condizione loro economica, resasi più t iste dacché la crittogama flagella continuamente i nostri prodotti. Un Bormiese A questa interessante descrizione dell’attività apistica tradizionale si possono aggiungere solo alcune notazioni. Fino a che non vennero adottate le arnie razionali, esisteva essenzialmente solo la sciamatura naturale. Il grappolo di api che costituiva lo sciame veniva raccolto facendolo cadere nel bugno villico appositamente preparato, provvedendo ad effettuare preliminarmente un’aspersione di vino e miele o di vino e zucchero. I vapori alcolici avevano il compito di sedare le api, mentre l’odore del miele e quello della cera delle famiglie che in passato avevano utilizzato il medesimo riparo doveva favorire l’accettazione della nuova casa. La pratica per fermare gli sciami in volo, prima che si perdessero nelle selve, era quella di inseguirli attrezzando una banda di

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UCome venivano allevate le api

ragazzi con coperchi e mestoli di latta. Suonando e soprattutto sfregando tali attrezzi le nuove famiglie arrestavano il loro volo. Esperienze dirette hanno

Bugni villici ad Albosaggia (vista degli sportelli posteriori)

effettivamente verificato che la produzione di ultrasuoni (P.

Bianchini), o l’illuminare la massa di api in volo con il riflesso del sole ferma gli sciami.

Altri testi coevi ci completano l’immagine dell’apicoltura ottocentesca in Valtellina.

“Descrizione statistica della provincia di Valtellina giusta lo stato in cui trovasi l’anno 1833” di Pietro Rebuschini (CAP. XXXVIII – API – ) “In tutti i distretti di questa provincia vengono dove in maggiore, dove in minor quantità, coltivate le api, sen a però darsi alcuna pena onde seguire i metodi migliori per la più prospera loro riescita, e pel maggior p ofitto che render potrebbero, avuto riguardo alla propizia situazione, ed alla quantità che ottenersene potrebbe.

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La qualità, la bontà ed il buon odo e del miele non sono eguali in tutti i luoghi, ciò che dipende dalla diversità di fragranza delle piante e de’ fiori delle medesime da cui le api lo raccolgono. Ed è perciò che il miele vien tenuto in differenti gradi d’estimazione,

giusta i luoghi da cui proviene. Infatti il miele di Bormio, quando non sia alterato, è il migliore di tutta la provincia eparagonabile al miglior eziandio di Spagna: esso è di un color canino che tira al bianco, granelloso, duro, di grato odore, ed assai dolce. Ciò si reputa provenire dalla qualità delle piante aromatiche da questo industre insetto trascelte, onde farne

raccolta. Ne’ prossimi comuni di Sant’Antonio di Morignone, di Sondalo e Grosio con Tiolo, la qualità del miele scorgesi tostodegradar in bontà, sebben siavi più abbondante; e ciò si attribuisce ai fiori del saraceno, dai quali l’ape lo raccoglie, i cui

L’affascinante geometria deifavi naturali

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Storia dell’apicoltura valtellinese

sughi debbono essere più scarsi di parti aromatiche e zuc herine,e rendono un miele colorito, ossia giallognolo e piuttosto tenero.

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E’ tuttavia in questi luoghi osservato il barbaro metodo di uccidere le api, onde toglier loro il miele; metodo il quale dovrebbe assolutamente bandirsi, quando non per altro, per essere dannosissimo al proprietario. Difatti il Galli fa conto che le api non solo vivano fino a sei anni, ma che pure a tal età sianonello stato primiero di produzione, e tanto miele producono nel sesto anno, quanto nel secondo; per la qual cosa è convincentemente provato non doversi uccidere le api. Lo stesso Galli osserva eziandio che, tenuto vivo un solo sciame per sei anni, levandovi anche un solo figlio per anno, se ne ricaverebbero non meno di 64; e da ciò conchiude essere imperdonabile errore il tanto danneggiar il proprio interesse coll’ ucciderle ogni anno, onde toglier da esse il miele e la cera, nonapprofittando così che della sola trentesima parte di ciò che render potrebbero lasciandoli in vita. Osservisi infatti che chi pratica tal cattivo metodo non può aumentar giammai il numero degli alveari, tranne la rara circostanza nello seiamar molto; ed arrisehia in vece spesissime volte pel cattivo governo, specialmente nella stagione jemale, di vedersene perire buona parte, od anche tutti; laddove se si fossero lasciati vivi, essendo questi d’ordinario i più forti e già sperimentati, andrebbero senza meno ad aumentarsi. Si è questo il motivo per cui nella Valtellina mantiensi scarsa lacoltivazione delle api; dal che deriva non raccogliersi nemmeno quella quantità di cera sufficien e per gl’interni suoi ‘usi. Imperocchè calcolandosi 1’ annuo consumo della medesima pertutta la provincia in libbre 9.400 grosse di Sondrio, e quindi ritenuta in libbre 1.650 quella che si ha dalla coltivazione delle api in provincia, havvi la deficienza di libbre 7.750 che d’ordinario si provvede a Milano; la quale valutata in ragione di L. 5,50 per ogni libbra fa sortir dalla provincia L. 42.625: perdita la quale evitar si potrebbe tenendo più attiva ed in miglior conto l’educazione delle api. Il miele di Bormio è assai ricercato in Lombardia, vendendovisi anche L. 5 per ogni libbra grossa di Sondrio, cioè più del doppio di quello che producono gli altri paesi della provincia; oltre la Lombardia smerciasi anche generalmente nella Svizzera e nella Germania.”

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UCome venivano allevate le api

Sono diversi i testi e i documenti ottocenteschi che ci restituiscono l’immagine dell’apicoltura del tempo, la vita e le attività che circondavano questo settore. Grazie ad alcuni articoli di questo periodo possiamo anche evincere come alcune tecniche ed alcuni accorgimenti sono ancor oggi perfettamente validi ed utilizzati.

Da “Statistiche del dipartimento dell’Adda” di Melchiorre Gioia:

Alveari Prodotti d’un alveare (pesi in libbre) Comuni

Cera Miele Novate 8 16 Gerola 4

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“Si uccidono barbaramente le api. Il miele di Gerola e Pedesina si vende uno scudo di Milano alla libbra d’once 30, essendo ricercato quanto quello di Bormio. Più il miele è perfètto, minore è la cera. Si fa uso dello zolfo per farle morire.

Ardenno. Prodotto: cera come 1, miele 2.

Chiavenna, un alveare; cera Kili 40, miele 160.

Bormio. Prodotto: miele libbre 2 1/4 di Bormio; cera libbre 1 2/4. Arnie 250. Prodotto totale: Miele pesi 55,cera 15. (n.d.r. 1 peso = 8 Kg)

Bormio. Per uso sempre vigente in questo comune si decimano le arnie in proporzione delle loro forze, e si leva il miele dalle medesime interpolatamente un anno dalla parte d’avanti, ed il susseguente dalla parte di dietro perché così facendo, oltre che riesce più perfetto il miele, perché sempre fabbricato in cera nuova, che pure è sempre migliore di qualunque cera si possa vendere, le istesse api lavorano più volentieri.

In merito poi alla separazione del miele dalla cera, qui si usa una casset a bislonga con un cristallo nel coperchio, qual si espone al sole, mediante la quale in brevissimo tempo segue la separazione. Nella medesima vien posto il miele posato sopra una latta di tela forata, inchiusa nella medesima cassetta, sotto cui sta altra casset ina per ricevere il miele colato, che viene naturalmente col solo vigor del sole; mai levato il miele colato, detto vergine, il più perfetto, paragonabile senza eccezione al qualunque miele

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Storia dell’apicoltura valtellinese

del più prelibato, si sminuzza quanto rimane nella cassetta di sopra, da cui ne proviene in seguito altro, molto più inferiore, che si conserva per somministrare il cibo alle api bisognevoli nelle stagioni critiche. La raccolta annua sarà di pesi locali 70, compresi 7 pesi locali d’inferior qualità, che si salva per il detto motivo. Valor del primo L. 2.832 italiane. 1813 Morti quasi tutti gli alveari nello sco so inverno. r

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“Statistiche del dipartimento dell’Adda” prosegue con la seguente notazione

[1, f. 144r] L’arnaio debb’essere più vicino che sia possibile alle piante, acciò producendo le api non vadino lontane. Si deve tener pronta un ‘arnia che non abbia cattivo odore formata con 4 tavole ben connesse a cui s’oppone un coperchio di dietro ed altro davanti, con una porticellina in fondo, che, quando si vuol porre in opera, si deve confricare con erbe odorifere, inzuppate nel miele liquefatto con vino buono, acciò le api entrino più volen ieri nell’arnia preparata. Posate che siano le api novelle si devono subito coprire, acciò non si partano disturbate dal sol cocente, ed alla sera t rdi si pongono nell’arnaio quietamente e ben chiuse. L’arnaio deve pur essere posto vicino alle case in maniera che siadifeso dallo parte di tramontana, qual è coperto con tetto d’assi, sporto molto in fuori e formato pure con assi. L’arnaio deve esser posto discosto dal muro delle case, che mediante li 4 piedisostenitivi di esso vien posato sopra 4 sassi incavati, che sempre debbon es ere pieni d’acqua netta, per impedirle l’introduzione de’ vermi ed insetti nell’arnaio che cagionan la distruzione delle api, ed anche acciò le medesime non siano costrette a troppo allontanarsi per bevere. In tempo estivo, acciò non vengano molestate dal sol cocente, vi si pone davanti in alto un riparo, formato di frasche con le foglie. Nell’inverno si pongon le arnie in una stanza asciutt , oscura, lontana da rumori. Quando s’espongono in primavera si deve procurare che la parte vuota dell’arnaio resti di dietro, perché le api lavoran più volentieri all’oscuro.

Sondrio 8 in 900 alveari. Il prodotto in cer pesi locali 130; miele 1300. Si vende a peso 5,37 circa.

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UIl commercio del miele e delle api

Teglio Per la longhezza del verno e durata delle nevi vanno sensibilmente diminuendosi: ragione balorda, giacché prosperano a Bormio.

Delebio Prodotto d’un alveare: cera libbre nuove 5; miele,12 a 15

Tirano Prodotto d’un arnario mediamente grande e ben tenuto:cera 15; miele 20

Chiuro Si nutrono nel verno con miele e farina di castagne

Bormio Il miele di Bormio gareggia con quello di Spagna, e benché non liquido riesce delicato al palato, quindi si stima molto nel milanese”

L’igiene delle attrezzature e dei luoghi di lavorazione di un tempo può ora far rabbrividire ma la maggior parte del miele commercializzato proviene da paesi del terzo mondo che presentano situazioni non molto dissimili

IIll ccoommmmeerrcciioo ddeell mmiieellee ee ddeellllee aappii Il documento forse più interessante rintracciato nel corso della presente ricerca è rappresentato da una piccola pubblicazione dal

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Storia dell’apicoltura valtellinese

titolo “Coltivazione delle Api nella Valtellina” scritta da Enrico Carlo Hermann e stampata a Milano nel 1860. L’autore, di origine tedesca, ha viaggiato per molti paesi europei e si naturalizza in Italia, più precisamente a Sondrio. Apicoltore appassionato, unisce alle sue conoscenze l’evidente abitudine a viaggiare, così da creare un fiorente mercato di api regine e di miele con la Svizzera e con i paesi di lingua tedesca. Dichiara ad esempio che in un solo anno ha prodotto ed esportato 1.500 regine. (dato che francamente si ritiene poco attendibile). Ma anche il miele gli procura un buon commercio con la Svizzera, dove il consumo è notevole e il prodotto è presente sul desco del ricco quanto del povero. L’analisi che compie dell’apicoltura Valtellinese è ad un tempo spietata e appassionata. Pur conoscendo gran parte dei territori d’Europa, considera la Valtellina come luogo ideale per conseguire produzioni di miele di gran pregio grazie anche all’ottima razza autoctona. La Valtellina ha quindi in sommo grado le condizioni ottimali per eccellenti produzioni ma, tranne alcune eccezioni riscontrabili a Lanzada e Bormio, Hermann lamenta una generale mancanza di cultura per una corretta pratica apistica. …. …”Una poi delle cause principali per la quale gli svizzeri non comprano, se non a basso prezzo, il miele di Valtellina, è , che ad essi non piace punto il modo che si tiene al fabbricarlo. Sanno che in Valtellina le api vengono ammazzate dai mercanti di miele, e che questi cacciano tutto il contenuto dell’ arnia, le covate, i cadaveri, la polvere di fiori (pollina) in un caldaio di rame, talvolta non stagnato; per cui la mischianza di tutte queste cose, oltre ad essere schifosa, rende ancora velenoso il miele, piùpericoloso poi, se lasciandolo un poco di tempo nel caldaio, venga a prendere l’acido di rame, per l’ossidazione che ne succede. Chiunque conosca tal modo di fabbricare il miele, non vorrà certo farne uso, mentre lo si mangia per tenersi in buona salute e non per ammalarsi.

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A Bormio e in alcuni altri paesi, come a Lanzada in Valmalengo,vi sono degli intelligenti apicultori che fanno il miele cosi bene da essere as ai apprezzato, e lo vendono per 20 franchi il peso di Valtellina. Specialmente il miele di Bormio è assai rinomato. Niun paese, in Italia, io considero così addatto alla coltivazione delle api, come la Valtellina. Le alte montagne ed i frequenti e perpetui ghiacciai, tengono nell’estate l’aria fresca, ed i prati coperti (li fiori, come di primavera, sempre olezzanti ed

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UIl commercio del miele e delle api

aromatici; da ciò ne risulta più squisito il miele e più robusta ed operosa l’ape)”. Non possiamo giudicare, a quasi un secolo e mezzo di distanza, se effettivamente fosse così diffusa questa mancanza di attenzione all’igiene e cura del prodotto. In realtà sono giunti fino a noi alcuni attrezzi e recipienti in legno. Il miele per molti aspetti veniva trattato in modo simile al vino e si giovava della diffusa esperienza dei mastri bottai. Quaranta o cinquanta anni fa erano ancora in uso manufatti in legno, realizzazioni effettuate nelle lunghe stasi invernali ed ereditate dalle generazioni precedenti. Diffuse sicuramente le “culdere” e i contenitori di rame, che a vario titolo entravano nella vita e nel lavoro del contadino (la “conca” per lo sfioramento della panna, la culdera per la cagliata, il paiolo per la preparazione della polenta e più in generale del pasto). Non a caso i “lavecc”, le pentole di pietra ollare, erano considerate ricche di molte virtù, tra cui quella di neutralizzare i veleni. Fama che probabilmente derivava dall’essere alternativa alla pentola in rame che si può rivelare tossica.

Prima della diffusione massiccia di contenitori in acciaio inox, i contenitori metallici venivano isolati sciogliendo un panetto di cera e provvedendo a spalmarlo uniformemente sulla superficie. Un metodo pratico che, se il lavoro era compiuto con la dovuta attenzione, permetteva di conservare con sufficiente cura il miele. Il contenitore doveva però essere riposto in locali freschi e asciutti. Come ultima nota allo scritto di Hermann si rileva che

Un anticosmielatore ocentrifuga

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Storia dell’apicoltura valtellinese

egli stima che, nell’anno 1860, in Valtellina fossero presenti 15.000 alveari, più del doppio della consistenza attuale. Abbiamo rintracciato un’interessante pubblicazione “Statistica Generale della Provincia di Sondrio” del Prefetto G. Scelsi edita nel 1866 in cui si legge: “I principali prodotti della provincia sono: frumento, segale, orzo, avena, grano turco, fraina, miglio, legumi, patate, castagne, frutti, ortaggi, vino, bozzoli, miele, così lodato alla recente esposizione di Dublino, canape, legna da costruzione e da fuoco, carbone, fieno, paglia e simili, il cui valore complessivo di lordo si fa ascendere in media, a circa 7 milioni di lire per ogni anno”.

AAppiiccooll uurr ee ccooll iivvaazziioonniitt aa tt Il rapporto fra apicoltura e coltivazioni non è stato facile, o almeno non sempre. Probabilmente la vera eccezione è quella del grano saraceno (Fagopyrum Esculentum) detto localmente “Furmentùn”. La coltivazione di questa pianta è attualmente pressoché abbandonata. In passato le grandi estensioni di tale Poligonacea, oltre a permettere un raccolto di miele durante la pausa estiva dei terreni, davano luogo a partite di mieli monoflorali di colore scuro e aroma carico. Questa coltivazione poteva essere effettuata solo con l’azione pronuba delle api, quindi molti agricoltori erano spesso anche apicoltori; in ogni caso questa esigenza incentivava lo sviluppo dell’attività apistica. L’abbondante fioritura, che cadeva in piena estate quando si hanno famiglie forti ma scarsissimi pascoli, incentivava un forte nomadismo, a cui partecipavano apicoltori provenienti da varie parti della provincia. Una transumanza “eroica”, effettuata su carri agricoli trascinati da buoi, ma che permetteva comunque un secondo abbondante raccolto estivo e un buon approvvigionamento per l’inverno. Questo simbiotico e mutualistico rapporto fra apicoltura e coltivazione di grano saraceno ha riflessi che giungono fino ad oggi, poiché la maggiore presenza di apiari si riscontra ancora nelle aree dove fino a pochi anni fa veniva coltivata questa Poligonacea.

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Un ape raccoglie nettaresul fiore del granosaraceno

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UIl miele in cucina

IIll mmiieellee iinn ccuu iinnaacc Per millenni il miele è stato l’unico dolcificante nella dieta umana, ma anche componente di farmaci, e elemento base di diverse bevande alcoliche. Un sapiente uso che si è incrinato nel XVIII secolo con l’introduzione dello zucchero di canna, ma che è stato obliterato in modo radicale in pochi anni con la fine della seconda guerra mondiale ed un uso massiccio di zucchero “bianco”. In realtà lo zucchero ricavato dalla barbabietola si diffonde già all’inizio del ‘900, ma il 1945, con la ricostruzione e soprattutto con il boom economico, segna un giro di boa per una rivoluzione che travolge ideologia, cultura, usanze e tradizioni. La crescita tumultuosa verso il benessere e la semplificazione delle incombenze si travasano anche in cucina, per cui i piatti tradizionali e gli ingredienti naturali non standardizzati sembrano non trovare più un loro spazio. E’ solo in tempi più recenti che si riscoprono certi valori, l’importanza dei segni della tradizione, e si rivisita il patrimonio culturale quale bene da non perdere. Come, a volte, si rimane stupefatti per l’ingegnosità delle soluzioni escogitate dagli artigiani del passato, che avevano a disposizione una tecnologia povera, così non si può fare a meno di ammirare le antiche ricette dolciarie che dimostrano, soprattutto in Valtellina, terra povera di ingredienti alimentari di base, con quanta maestria il miele veniva utilizzato per la preparazione dei dolci. Gli ingredienti impiegati sono quelli prodotti localmente, da una terra molte volte avara: farina di segale, di grano saraceno, di granoturco, di castagne oltre che di frumento, e poi burro, noci,

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Storia dell’apicoltura valtellinese

castagne, uova, uva locale appassita su appositi graticci, grappa e miele. La cucina Valtellinese, frugale e povera, era realizzata con i pochi e semplici ingredienti dei quali ciascuno disponeva e si arricchiva soltanto nelle grandi occasioni; si sfruttava il forno, già caldo per la cottura del pane, preparando qualche dolce che all’inizio aveva per base lo stesso impasto: infatti dal pane di segale si ricavavano il “panùn” (diventato poi “panettone Vafocacce. Un tipo di focac

ltellinese”) e le squisite

cia particolare è il

è sempre prestato alle

afrolle

, o più modernamente i crostini di segale, sono

miele non viene

“cicc”, a base di pasta di segale, ricoperta di burro e miele, che serviva a saggiare la temperatura del forno. Il miele siesigenze della cucina per la caratteristica di potersi sposare a qualsiasi altro alimento senza mai perdere il suo gusto originario. E così assaporiamo il miele di montagna nella tipica “cupéta”, dolce al miele e noci racchiuso tra due cialde, da consumare per tradizione il 17 gennaio, a S. Antonio, come pegno della consuetudine del “Gabinàt”. Oppure nelle past“Sebastopoli” del noto e da poco scomparso pasticciere Pietro Gianoli di Lanzada. E ancora miele nel già citato “cicc”, che in Valmalenco viene chiamato “cicc balòs”, cotto sul focolare nella piccola tazza di pietra ollare con latte, uvette, noci e farina gialla di mais, nato dall’inventiva contadina. Quel sapore in più di granoturco è inimitabile e non stanca il palato. Il pane di segaleeccellenti sposati con il miele d’alta montagna. Attualmente, per praticità di impasto, spesso ilpiù utilizzato nel “panùn”, il dolce tipico dianzi ricordato. In questi casi vengono a mancare un gusto, un profumo particolare e quella morbidezza ed elasticità che dona il miele e che gli additivi non compensano. Una freschezza trattenuta nel tempo, che ben ricorda chi ha assaggiato il dolce tedesco “Pane d’api”.

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UApicoltura e ricerca scientifica

AAppii oolltuu aa ee rriiccee ccaa ss iieennttiiffiiccaacc t rr rr cc L’apicoltura era così radicata nel panorama agricolo ed economico tradizionale della provincia di Sondrio da attirare anche l’interesse del modo scientifico. Il botanico Massimo Longa dedica un lungo studio alla flora apistica e sulla rivista “Il Naturalista Valtellinese” pubblica nell’anno 1885 a puntate (21 febbraio, 21 marzo, 18 aprile, 16 maggio, 20 giugno, 15 agosto, 19 settembre, 17 ottobre, 21 novembre, 19 dicembre) un approfondito studio dal titolo “Le piante apistiche del Bormiense”.

Api che raccolgono nettare su fiori di Buddleja

LL’’aappii oolltuu aa ddeell ‘‘990000cc t rr L’avvento dell’arnia razionale e di nuove metodologie allarga il solco fra l’apicoltura connessa alle minuscole aziende agricole, quella professionale (o semi-professionale) e quella amatoriale. La prima rimane ancorata ai tradizionali bugni villici, mentre la seconda e la terza si adeguano rapidamente alle nuove tecnologie contribuendo anche con molta inventiva ed entusiasmo al grande fervore che pervade il settore. Le Regie Cattedre Ambulanti d’Agricoltura cercano di propagandare nel mondo agricolo i nuovi fondamenti dell’apicoltura ed esperti del settore sono chiamati a svolgere lezioni financo nelle scuole elementari. Nel 1925 e nel 1927 sono promulgati due importanti Regi Decreti a tutela e sviluppo dell’apicoltura, che prevedono la costituzione obbligatori di consorzi apistici. La Valtellina rimane presto coinvolta con un ruolo attivo e partecipe in questa trasformazione. Presso l’apicoltura di Walter Nana abbiamo rintracciato una documentazione storica di notevole pregio al

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Storia dell’apicoltura valtellinese

riguardo. Fra questa, una nota del 23 ottobre del ’29 a firma del Conte Zeppi Ricordati circa la costituzione di una “Società Anonima per l’Industria del Miele Italiano”. Il comitato promotore è formato da 19 membri (probabilmente in rappresentanza delle diverse sezioni italiane), tra cui il sig. Ottavio Nana per Sondrio ,di cui parleremo fra poco. Interessantissimo documento di pregio è inoltre un registro di censimento effettuato da Ottavio Nana nel 1929 per conto della “Federazione dei Sindacati Fascisti degli Agricoltori”. Con bella scrittura Nana riporta, Comune per Comune, il nome degli apicoltori e la consistenza degli apiari ripartiti in arnie razionali e in bugni villici. In totale risulteranno censiti 378 apicoltori e 2859 arnie (di cui 1400 razionali e 1459 villici). (Nel sito internet della Associazione si riportano i dati di tale censimento). Le organizzazioni corporative nazionali, nella loro capillare organizzazione territoriale, favorirono la promozione e la conoscenza delle produzioni. Il miele locale nei primi decenni del secolo incomincia a essere insignito di premi e riconoscimenti per la sua qualità. La sensibilità verso il settore apistico, già presente nelle Cattedre Ambulanti, la ritroveremo nei successivi organismi governativi deputati al sostegno e monitoraggio del settore agricolo. Alcuni, come il dott. Forlani, capo dell’Ispettorato Agrario fino dopo la seconda guerra mondiale, furono promotori di questa attività: lo stesso dott. Forlani fu un appassionato apicoltore, con più di 120 alveari. Ma le maggiori aziende apistiche si sviluppano, come detto, al di fuori del settore strettamente agricolo - contadino. Alcune delle aziende nate all’inizio del secolo divennero un riferimento fino ai giorni nostri. Le più importanti e longeve ditte nascono e si sviluppano nei maggiori centri turistici della provincia: Bormio, Teglio, Lanzada in Valmalenco, Medesimo. Il flusso turistico non era certamente, agli inizi del secolo, di massa, ma sicuramente era un forte stimolo all’aprirsi verso nuovi orizzonti, verso nuovi contatti.

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Una pagina delcensimento realizzato daOttavio Nana

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UL’apicoltura del ‘900

Il già citato Ottavio Nana, classe 1896, di Lanzada, ad esempio, si inizia all’apicoltura nel ’23 a Intra, sul Lago Maggiore, dove lavorava presso un albergo. Una passione che tornando nella sua valle coltiva con fervore, tanto da divenire un affermato professionista che riesce ad inanellare diversi successi grazie alle sue produzioni di notevole qualità: medaglia d’oro a Bruxelles nel 1933, premio Croce al Merito sempre nel ’33 a Verona e, ancora a Verona, medaglia d’oro l’anno successivo. Per la sua attività verrà insignito Cavaliere e, con la moglie Bianca Viganò6, avrà, come in parte già detto, un ruolo molto importante nell’apicoltura locale. Un azienda che è giunta ora alla terza generazione di apicoltori differenziando i rami d’attività. A Bormio, la ditta Bottamini, che abbiamo già incontrato nella seconda parte dell'800, si distingue per il suo attivismo imprenditoriale tanto che ne troviamo traccia in pubblicità su giornali fuori della provincia di Sondrio! Un'azienda che passa, per parentela e comune passione, alla famiglia Canclini agli inizi del secolo. I Canclini hanno saputo mantenere l’alto profilo professionale dell’azienda e si sono conquistati un posto di rilievo come figure di riferimento per l’apicoltura locale. Il M° Carlo Canclini, erede di questa tradizione d’apicoltori, ha svolto un ruolo importante nel sostenere le strutture organizzative e associative. L’apicoltura diviene in molti altri casi una passione familiare che si trasmette per più generazioni (De Paoli, Annulli, Palmieri, Candiani-Del Curto, Pedeferri, Caligari, Bianchini ecc.), ma raramente il livello aziendale rimane di così alto profilo come nei casi citati.

Un miele, ma anche un’apicoltura, ricca di sfumature

6 La signora Bianca avrà nell’azienda un ruolo di primo piano per la sua straordinaria capacità e intraprendenza commerciale

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Storia dell’apicoltura valtellinese

UUnn ccaassoo ppaarrttiiccoollaarree ee ttrraaggiiccoo ddii iinniizziioo sseeccoolloo Ne l nt c e mdi prodotti apistic l d b ona -

passione che l’aveva portato a realizzare

particolare. Questa pubblicazione è

e siamo poi riusciti a raccogliere, ma

l a docume azione h abbia o rintracciato c’è un catalogo i del a itta Li rina & figlio – Talam

stampato nel 1925. Librina era un impiegato delle poste che si era appassionato all’apicoltura; una un'azienda apistica di consistenti dimensioni. L’esperienza acquisita, l’intelligenza e l’acuta capacità d’osservazione gli permisero di scrivere un manuale d’apicoltura che arricchì la scarsa bibliografia che allora caratterizzava il settore. Il libro fu accolto in tutta Italia con molte valutazioni positive. Librina non si accontentò solo di unire all’attività apistica quella didattica-letteraria; ne intraprese una terza, quella di fornitore di attrezzatura apistica. Basta sfogliare l’antico catalogo che abbiamo ritrovato per cogliere un fascinoestremamente curata: dagli ornamenti liberty per la veste grafica all’impaginazione, dai disegni delle attrezzature alle minuziose spiegazioni delle stesse. E’ soprattutto l’inventiva del Librina che colpisce mentre si sfogliano queste pagine ingiallite: alcune attrezzature sono semplici ed ingegnose considerata l'efficacia, altre talmente complesse che si avrebbe vorrebbe vederle nella pratica per valutarne la reale validità. Complessivamente si colgono le tracce di una personalità fuori del comune e l’ottimismo di un futuro positivo per l’azienda, tanto da associarne il figlio ancora ragazzo. Nel 1927, i dissapori con il Potestà di Talamona Vairetti (anche lui apicoltore), da cui lo divide tutto, non solo la fede politica, e da cui si sente perseguitato, giungono al tragico epilogo: Librina lo uccide e scappa. Giunto al cimitero del vicino paese di Sirta, forse per il terrore che il suo gesto e la fuga possano danneggiare i famigliari, si suicida. Il duplice fatto di sangue ebbe una forte eco a quel tempo: il figlio fu ritirato immediatamente dal collegio che frequentava e sulla famiglia e sulle sue attività economiche scese l’immediato silenzio. Gli articoli del tempo dipingono il delitto come “politico”; in realtà, dalle informazioni chanche dalla lettura attenta della documentazione rintracciata, compare un quadro più umano, di antiche amicizie tradite e di conseguente rancore. Il Vairetti e il Librina avevano inizialmente condiviso la fede socialista ed erano soci nell’attività apistica. Poi, quando il primo aveva intrapreso la carriera politica nel Partito

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UL’apicoltura e la vita associativa dal dopoguerra ai giorni nostri

Fascista, anche l’amicizia era venuta meno. Librina si era sentito sempre più perseguitato ed era stato vittima di due pestaggi (diretti dal figlio dell’ex amico). Il tragico epilogo fu in relazione al suo licenziamento, la vigilia di Natale, da Ufficiale delle Poste dell’Ufficio di Talamona per ordine, appunto, del Potestà Vairetti. La parabola del Librina aveva comunque aperto una strada: le aziende apistiche più grandi, anche senza l’inventiva e la professionalità del Librina, assolsero, fra luci ed ombre, anche il ruolo di approvvigionamento e vendita di attrezzature e materiale apistico per le realtà economiche più piccole.

LL’’aappiiccoollttuurraa ee llaa vviittaa aassssoocciiaattiivvaa ddaall ddooppoogguueerrrraa aaii ggiioorrnnii nnoossttrrii Assist me a p oltura locale, a rimozione dei nomi e delle parole d’ordine del

iamo nell’im di to do oguerra, anche nell’apiclla

Fascismo, ma certe strutture e quanto è divenuto patrimonio comune rimangono pur cambiando nome. Al posto della “Federazione dei Sindacati Fascisti degli Agricoltori” troviamo la sicuramente più democratica “Associazione Provinciale degli Agricoltori e dei Coltivatori Diretti”, ma anche il consorzio obbligatorio “Consorzio apistico provinciale”. In una nota dell' 8 settembre 1947, indirizzata al Consorzio suddetto, il dott. Piero Viglietti, direttore della Coltivatori Diretti, informa che ha trovato acquirenti per il miele locale a Lire 700 al Kg. (trattabile a 750) e sollecita a comunicarne le disponibilità.

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Storia dell’apicoltura valtellinese

Un prezzo questo che rimarrà abbastanza stabile per oltre un decennio!!. Non è stato possibile per ora rintracciare l’archivio

no al ministero pastorale la passione per l’apicoltura: don

tori

prof. Del Curto

li cerei che alcune piccole

del Consorzio, probabilmente disperso nei diversi trasferimenti di sede. Negli anni ’50, diverse figure di riferimento sono parroci, che uniscoLino di Triangia, don Stefano Poncetta di Verceia (e poi parroco di Madesimo) ecc. Di spicco sono inoltre Ottavio Nana, Carlo Canclini, Orfeo Palmieri, il dott. Forlani. La loro importanza non è determinata solo dalla consistenza delle loro aziende ma anche dal fatto che mantengono attivi contatti con il mondo della ricerca scientifica e con le aziende leader del settore in Italia. In quegli anni compare la peste americana e il flagello compatta il settore intorno alle figure di riferimento. Gli apicolrichiedono a questi un aiuto, una indicazione. Successivamente il Consorzio apistico provinciale viene guidato dalla signorina Silvia Bertolazzi e quindi dalCandiani. Negli anni ’60 e ’70 è domiciliato presso l’Unione Agricoltori. Fra i consiglieri troviamo molte persone che hanno lascito un'impronta ed un ricordo: Adda Primo, Nella, Ciapusci, Bianchini, Marchionni, e tanti altri. Gli anni ’70 portano molte novità. Una recrudescenza di peste americana diffusa attraverso i fogimprese artigiane hanno stampato senza provvedere alla sterilizzazione della cera ha decimato il patrimonio. Ma ha nel contempo reso tutti gli apicoltori coscienti che certe problematiche possono essere affrontate solo con azioni congiunte e coordinate. Molto più forte diviene lo spirito associazionistico, tanto che si forma una cooperativa di consumo, in primo luogo per risolvere il problema dei fogli cerei quali vettori della peste americana. La cooperativa sarà guidata da persone come Felice Paindelli, Emanuele Scilironi, Giancarlo Canovi, Ernesto Agnelli, fino ad arrivare ai nostri giorni con Enrico Moroni, Aldo Pizzatti Casaccia, Angelo Ghilardi. Questa struttura permette una piccola rivoluzione: rende facilmente reperibile l’attrezzatura necessaria e a prezzi calmierati, ma soprattutto sconvolge l’universo del fai-da-te così diffuso in apicoltura verso gli standard di misure, spessori ecc. La medaglia al merito è soprattutto per aver contribuito a rendere celere l’ammodernamento delle attrezzature di laboratorio. In pochi anni si abbandonano le poco sicure lamiere zincate ricoperte di cera per materiale tutto in sicuro ed igienico acciaio inox. Una

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UL’apicoltura e la vita associativa dal dopoguerra ai giorni nostri

cooperativa di consumo, che con il tempo ha cercato di coadiuvare la struttura associativa del settore fornendo servizi e sostenendo la vendita del prodotto dei soci. Ma torniamo alla storia del Consorzio e agli anni ’70. Nella struttura sono entrati molti giovani: Lorenzo Erini, Adriano

ma soprattutto per prendere contatto con tutti gli apicoltori e

vizio del

Maffi, Giampaolo Palmieri, Gaspare Piccagnoni. Nella sede di via Mazzini c’è come segretaria una giovanissima Luisella Nazzari, ma soprattutto c’è Ottorino Pandiani, che prende la guida dell'Istituto nel ’77. Il sodalizio professionale fra Ottorino Pandiani e Luisella Nazzari sarà oltremodo forte e fecondo, premessa perché inizi un ‘attività intensa. Tra le prime iniziative,

dare indicazioni per eliminare focolai di peste. Molti Consiglieri e volontari vengono coinvolti in questa opera che porta ad una forte sensibilizzazione degli apicoltori, fino ad ora, in maggioranza, arroccati su posizioni molto individualiste. Il censimento rilevò 301 apicoltori, n. 4.148 alveari e la presenza ancora di 68 bugni villici, una produzione totale dichiarata di 475 q. ovvero una produzione media che superava di poco i Kg. 11/arnia. I dati raccolti durante l’intervista dimostrano che la consistenza del numero degli alveari era cresciuta dal ’75 al ’77, avendo però una sensibile contrazione nel ’78 per la diffusione di alcune patologie ed in particolare della peste americana. Pandiani intrecciò buoni rapporti collaborativi con la Fondazione Fojanini. Questa importante struttura a ser

La fioritura dirododendro fornisce unprodotto di alto pregioche la strutturaassociativa si impegnò avalorizzare

un censimento capillare per conoscere la consistenza del settore

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Storia dell’apicoltura valtellinese

mondo agricolo dedicò così forze e risorse anche all’apicoltura. Pandiani fu un bravo tessitore di rapporti politici con amministratori locali e regionali (on. Vercesi), ma anche con i rappresentanti delle altre associazioni e con la F.A.I., nostra struttura di riferimento nazionale, e fu padre fondatore dell’Unione Regionale delle Associazioni Produttori Apistici Lombarde. Ottime le relazioni con il mondo della ricerca e con l’università, un rapporto che poté essere ben speso in occasione del Convegno Api e Frutticoltura dove fu presentata una ricerca ideata e coordinata da Giampaolo Palmieri ed effettuata presso la Fondazione Fojanini. Lo studio si avvalse della collaborazione e dell'aiuto di Lorenzo Erini, Giuseppe Rainoldi, Marco Moretti, Natale Giudicatti, Paride Bianchini, Felice Paindelli, Ferruccio Caligari, Mirko Bonaso, Franco Mossinelli, Az. Visini. Con tale ricerca venivano registrate le mortalità delle api nei diversi luoghi, ponendo così a confronto aree agricole specializzate a frutteto e a vigneto con aree prive di tali colture. Fu uno studio antesignano o comunque in parallelo rispetto ad analoghe ricerche svolte dal prof. Celli e collaboratori, pur con altre metodologie, nell’utilizzare l’ape come test per il rilievo dell’inquinamento ambientale. Si evidenziarono situazioni d’allarme in aree fortemente frutticole e alcuni problemi specifici in quelle vitate. Fu probabilmente un contributo che servì ad avviare quel processo di maggior attenzione all’equilibrio ecologico e alla salute dell’ambiente che ora ha raggiunto, in genere, livelli notevoli da parte delle Cooperative ortofrutticole .

Sotto la guida di Pandiani e del suo staff (fra cui bisogna ricordare Carlo Canclini e Giuseppe De Stefani), si inanellarono molti successi. Il marchio di garanzia, fu fra questi: istituito dalla Camera di Commercio venne reso operativo, funzionante ed efficace dalla tenacia e dall'intelligenza di Pandiani e dalla collaborazione della Fondazione Fojanini (che provvedeva agli effettivi controlli di laboratorio dei campioni).

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UL’apicoltura e la vita associativa dal dopoguerra ai giorni nostri

Pandiani seppe essere lungimirante negli obiettivi da perseguire, che possono essere così riassunti:

• garantire la tipicità della produzione locale; • migliorare la qualità del prodotto;

Isti t ento della qualità del pro t trade. La prima

ttutto

hl’uso dell’elicottero da e p

• contrastare la diffusione delle malattie. tui o il marchio di garanzia, il miglioramdo to fu perseguito attraverso due s

appoggiandosi al laboratorio per l’analisi del miele della Fondazione Fojanini. Qui non venivano monitorate solo le produzioni avviate al mercato, allo scopo di ottenere la concessione del marchio, ma quasi tutte le partite prodotte (circa 120 analisi all’anno), gratuitamente. Si ebbero così risultati

importanti: una mappatura floristica del territorio, una forte crescita delle competenze e conoscenze della Fondazione Fojanini in questo campo e soprattutto il generale miglioramento della qualità della produzione, sulla scorta dei risultati delle analisi e delle indicazioni dei tecnici. Ne seguì una maggiore attenzione all’umidità del miele, alla filtratura e alla decantazione del prodotto, all’uso del fumo e alla presenza di odori estranei, ecc. Ma Pandiani era convinto che la sfida sulla qualità si vincesse sopranell’incentivare la produzione del miele che ci distingue: il “Millefiori d’Alta Montagna” e il “Monoflorale di Rododendro”. Si adoperò perché e agli apicoltori le agevolazioni per

er gli alpeggi e valorizzò in molti modi questa particolare produzione d’Alta Qualità. Fondò perfino una Cooperativa – ApiNoma – per incentivare il nomadismo in alpeggio, nelle “Terre Alte”. Pandiani operò per la realizzazione di corsi per un aggiornamento professionale degli apicoltori ed organizzò alcuni convegni. Le amministrazioni da lui guidate dovettero affrontare l’urto distruttore del terribile parassita Varroa, e dovettero quindi elaborare strategie e diffondere i mezzi e le metodologie di contrasto. Questo acaro ebbe un forte impatto che trasformò il settore, riducendo le realtà produttive

fossero riconosciute anc

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Storia dell’apicoltura valtellinese

meno attente ma nel contempo rendendo più compatta e coesa la struttura associativa. Al fine di fornire una risposta puntuale a questa nuova emergenza, ma anche per salvaguardare il settore dal diffondersi di altre patologie, impostò il principio di “Condotta Apistica”. Il primo responsabile fu Carluccio Canclini. Con un andamento incerto come i finanziamenti che lo alimentavano, il concetto di assistenza tecnica “professionistica” proseguì negli anni con l’alternanza di diversi Esperti: Vasco De Luis, Enrico Moroni e molti altri.

ttttuuaalliittàà DDaallllaa ssttoorriiaa aallllaa ccrroonnaaccaa ddeellll’’aa Il cav. Ottorino Pandiani, per età e per problemi familiari, si

n et come Presidente il

mente un

siglieri motivati ed

nizzata presso una delle

dimise intorno agli anni ’90. Ven e el to dott. Alberto Baiocchi, direttore della Fondazione Fojanini e Presidente dell’Unione Agricoltori, associazione agricola che era allora nostro riferimento e presso cui avevamo sede. Il Vice Presidente era Renzo Paniga, che seguì gli aspetti operativi affiancando il dott. Baiocchi. Paniga fu sicuraorganizzatore intelligente ed un ottimo interprete degli indirizzi del dott. Baiocchi e del Consiglio Direttivo. Nel 1993 successi alla guida dell'Associazione e, con il nuovo Direttivo, formato da un gruppo di conentusiasti si cercò di portare in pieno la barra nella scia del solco tracciato da Pandiani. Si avviarono diverse iniziative quali ad esempio un Censimento – indagine degli apicoltori per poter meglio valutare e conoscere le esigenze del settore. Si provvide a creare una etichetta collettiva per tutti gli apicoltori, che reputavano troppo oneroso realizzarla per partite di miele troppo esigue. L’etichetta fu il frutto di un concorso per grafici ed artisti, un modo per avvicinare il mondo dell’arte a quello del miele. Giunsero contributi di idee da molti artisti ed in particolare dagli studenti del Liceo Artistico di Morbegno; nella scelta del vincitore ebbero una notevolespresse dal pubblico della mostra orgapiù belle e antiche “stüe” del capoluogo. Vinse la brava Elisabetta Menesatti di Morbegno, allora studentessa, che poi divenne una grafica professionista. Ripresero anche i convegni e le occasioni di inserire l’apicoltura nel contesto delle produzioni tradizionali

e importanza le votazioni

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UDalla storia alla cronaca dell’attualità

locali. Ma l’obiettivo fondamentale nato allora e tuttora valido era la nascita di una cultura del miele e del gusto analoga a quella enologica. Far nascere una consapevolezza nuova e una conoscenza delle proprietà organolettiche del miele.

Grazie ad un sindacato agricolo, che era allora di riferimento per la nostra Associazione, venivano realizzati corsi di apicoltura in diversi luoghi della provincia di Sondrio. In quegli anni si concluse anche l’apporto diretto della Regione Lombardia, tramite le USLL, nella lotta alla Varroa mediante l’acquisto di presidi sanitari specifici (Apistan). Provvedimento bollato come assistenzialismo, ma che permetteva una azione coordinata e con prodotti sicuri dal punto di vista della qualità del miele. L’esperienza amministrativa fu molto interessante per tutti i membri del Consiglio Direttivo, ma anche fin troppo coinvolgente e si quindi decise di creare un avvicendamento abbastanza radicale del gruppo di amici che si era formato: Ernesto Agnelli, Mauro Cornaggia, Paola De Pianto, Giuseppe De Stefani, Roberto entin, Carlo Mango, Claudio Miotti, Luigi

Sala Crist, Marco Sertorelli, Marcello Vaninetti, ... solo pochi rimasero per una successiva esperienza. Nel 1996 successe alla presidenza Giampietro (“Piter”) Moltoni, riconfermando Giuseppe De Stefani al

Crottogini, Battista Falcinella, Lucia Form

la Vice presidenza quale segno di continuità. Questa amministrazione centrò la propria attenzione sulla commercializzazione del prodotto e valorizzò

Corsi di

degustazione sono

iderati un stati consimportante mezzo per promuovere la conoscenza e cultura del miele

er

l’apporto delle aziende di maggiori dimensioni all’interno della Associazione. L’Associazione in quegli anni si staccò dall’Unione Agricoltori e prese sede presso la Coltivatori Diretti. La segretaria e responsabile amministrativa rimase la sig.ra Luisella Nazzari, mentre per una riduzione di finanziamenti non poté proseguire la collaborazione con il tecnico Vasco De Luis e l’assistenza tecnica alle aziende fu interamente a carico di Enrico Moroni. Negli anni ’96 – ’99 si assistette anche ad una situazione di inefficacia dell’Apistan, presidio utilizzato contro la Varroa, pl’insorgere di fenomeni di resistenza al principio attivo in esso contenuto (fluvalinate). Ne conseguì una grave perdita di

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Storia dell’apicoltura valtellinese

alveari. In quegli anni ci fu anche una recrudescenza di peste americana. Un dissesto economico e tensioni interne conclusero questa esperienza amministrativa in modo alquanto burrascoso. Nel ’99, allo scadere del mandato, si aprì un periodo di incertezza, oggettivamente difficile. Con generosità volle prendere la guida dell'Associazione Lorenzo “Renzo” Erini ma, dato il clima di incertezza e di crisi dovette abbandonare l’impresa. Nel giugno di quell’anno si giunse ad un nuova assemblea per decidere se far proseguire la vita dell’APAS o chiudere definitivamente l’esperienza associativa. Fu un'assemblea affollata, tutti si resero improvvisamente conto che, al di là delle momentanee incomprensioni, una struttura associativa è una ricchezza importante, della quale le piccole realtà produttive non possono fare a meno per poter sopravvivere, per poter dare risposte adeguate in ambiti in cui ciò che è marginale e di nicchia viene sempre più estromesso dal mercato. Ci si accollò la sfida del risanamento economico e del rilancio dell’Associazione e, con molta incoscienza e passione per questo settore, diedi la disponibilità ad assumere la guida della struttura dopo essermi assicurato di poter contare sulla collaborazione di un valido gruppo di amici. Ci fu quindi un periodo di rigore, che ci impose di non avvalerci più della collaborazione della Coldiretti e dovemmo quindi

esso, si è operato

rinunciare all’esperienza e competenza della sig.ra Luisella Nazzari. Venne anche trovata una sede più modesta e autonoma. Si riorganizzò l’assistenza tecnica alle aziende su altre basi e con altre modalità, per mantenere l’efficienza del servizio ma nel contempo conseguire le economie necessarie.

Varcato il secondo millennio, è storia recente e si giunge in un soffio all’oggi. E’ stato risanato il debito pregrnel campo della promozione con campagne televisive, giornalistiche, si è stati presenti in tutti gli spazi informativi e in tutte le occasioni che gli Enti Locali hanno intelligentemente creato per la promozione dei prodotti locali e si è data piena visibilità al miele quale prodotto dell’enogastronomia locale.

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UDalla storia alla cronaca dell’attualità

Abbiamo intrapreso e portato avanti il percorso per il conseguimento della DOP - Denominazione Origine Protetta e soprattutto si è data una nuova dignità all’apicoltura, che siede ora, a pieno diritto, al tavolo dei Consorzi di Tutela dei Prodotti Locali (Vino, Bresaola, Mele, Formaggio). Il nostro settore è divenuto parte attiva nel contribuire alla definizione delle politiche per l’immagine della Valtellina e dei suoi prodotti.

confezionamento, convinti chSi è dato sempre più risalto ed importanza al packaging, ovvero al

e un prodotto di qualità necessita

ntro di

di una presentazione accurata ed adeguata. Abbiamo cercato così anche di creare buoni presupposti per l’ingresso del miele nel mondo della regalistica. Molta attenzione è stata rivolta al mercato turistico e si sono favoriti tutti quegli eventi che permettessero di essere presenti e visibili in questo mercato. Ma soprattutto si è badato a “fare sistema” con gli altri Consorzi nella presentazione dell’immagine Valtellina e dei suoi prodotti. L’unica nota negativa è il rimanere sempre un po’ sotto traccia l’uso del marchio di garanzia in attesa del completamento dell’iter della DOP - Denominazione d'Origine Protetta. Fra gli elementi forti e di spicco della storia recente si deve però prima di tutto menzionare la realizzazione del CeApicoltura Montana, ovvero la ristrutturazione di un vecchio edificio – l’ex scuola elementare del Torchione di Albosaggia per adibirlo a sede dell’Associazione, della Cooperativa e del laboratorio di smielatura consortile. L’APAS, sempre protesa a fornire servizi ai propri soci, ha così potuto aggiungere un nuovo importante tassello grazie al sostegno degli Enti Locali ed in particolare della Comunità Montana Valtellina di Sondrio e della Provincia di Sondrio. Le piccole realtà produttive che non

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Storia dell’apicoltura valtellinese

potevano commercializzare il proprio prodotto per la mancanza di locali e strutture idonee ai sensi di legge possono trovare qui una risposta alle loro esigenze. Un passo importante, che ha creato basi sempre più solide per la commercializzazione del prodotto degli associati.

L’Assistenza Tecnica, grazie al supporto e al sostegno della Regione Lombardia, è ritornata a buoni livelli, dando stabilità all’azione dell’ APAS negli anni 2000, dopo che si era azzerata con il finire del secolo precedente. Dal 2003, per razionalizzare la spesa, la Regione Lombardia ha richiesto l’aggregazione delle associazioni nel fornire Assistenza Tecnica e quindi l’APAS collabora con altri partner in questo campo pur mantenendo un ruolo di autonomia nella scelta delle priorità. Anche la didattica e l’aggiornamento tecnico sono ritornati ad essere una costante della nostra Associazione con un corso di

Analisi

“Apicoltura di base” di 12 – 13 lezioni attuato da febbraio ad aprile. Ogni anno si sono registrate presenze superiori a 40 iscritti frequentanti, il che dimostra l’interesse che il mondo dell’apicoltura suscita. Alcuni ripetono il corso anche l’anno seguente, segno che non si sono annoiati!! I seminari o corsi di aggiornamento tecnico hanno invece caratteristiche che variano di anno in anno: dal corso di “sensoriale del miele” del 2002 tenuto dalla dott.ssa Maria Lucia Piana a quelli che presentano più appuntamenti e relatori. Dal 2000 al 2004 lo stato dell’arte nel campo della ricerca in apicoltura è stato presentato da importanti figure di riferimento, quali il dott. Massimo Spreafico, Marco Lodesani, Giorgio Della

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UDalla storia alla cronaca dell’attualità

Vedova, Pierantonio Belletti, Gisella Cremonesi, Sara Marogna. Nel campo delle attività delle altre associazioni, si sono organizzati incontri con i sigg. Giacomo Lorandi, Attilio Cortesi, Davide Zeni,... Importanti gli apporti anche di esperti di prestigio per il loro bagaglio di esperienza quali, ad esempio, il dott. Angelo Sommaruga, i sigg. Cabrini, Paride Bianchini, Massimiliano Fasoli.

Nel campo dell’informazione ricordiamo la nostra testata storica, fondata da Ottorino Pandiani, “Apicoltura Alpina” con Alberto Baiocchi direttore responsabile e redatta dal Presidente e dal Tecnico dell’Associazione ed aperta a tutti i contributi. A questa si è affiancato nel 2004 un altro mezzo di comunicazione. E’ stato realizzato un sito internet quanto mai ricco di informazioni ed immagini: www.apicoltori.so.it . Il sito è stato creato dalla ditta Nerealcom di Claudio Frizziero, mentre testi ed aggiornamento sono a cura di Giampaolo Palmieri.

Grazie ad un progetto INTERREG e alla collaborazione di tecnici quali Angelo Ghilardi, Cleto Longoni, Giuseppe Mottalini, a cui si sono affiancati altri bravi apicoltori come Luigi Pozzi, si è avviata con successo la produzione di regine selezionate dai nostri ceppi genetici di riferimento. Abbiamo effettuato controlli in tutti gli allevamenti coinvolti nel nostro progetto per verificare che non ci fossero malattie a carico della covata ed effettuato prelievi ed analisi per accertare che non fossero stati

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Storia dell’apicoltura valtellinese

utilizzati antibiotici o sulfamidici. Un progetto che ha portato alla diffusione dei ceppi genetici autoctoni e ha contrastato l’impiego di specie più o meno esotiche e la diffusione di malattie, e a cui soprattutto, va riconosciuto il merito della nascita di una professionalità di tutto rilievo e della differenziazione delle produzioni delle aziende.

Non si può infine dimenticare l’ottimo rapporto con Slow Food, importante riconoscimento per chi costantemente vuole lavorare nella qualità e nella serietà professionale. Ottimo rapporto anche con le altre esperienza locali che valorizzano i prodotti tradizionali che, almeno per ora, hanno un’importanza economica limitata, quali il Grano Saraceno, in particolare con il dott. Piero Roccatagliata e con la dott.ssa Ornella Mammola.

Concludiamo questo viaggio nella storia dell’apicoltura fino ai nostri giorni, con quello che si definisce come mission, ovvero lo spirito che ci guida, quello che è forse meglio definire come “il Sogno” :

Abbiamo un piccolo sogno: trasformare l’attuale settore apistico in un vero comparto produttivo che possa essere una proposta interessante per i giovani che hanno voglia di cimentarsi in un’attività imprenditoriale. Con questa idea in testa siamo riusciti ad aggregare tanta gente che, come noi, condivide la passione delle api: come a volte capita, non è solamente importante la meta ma è soprattutto il viaggio, il percorso con le sue difficoltà e con le soddisfazione

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che riserva che fornisce motivazioni e slancio. Siamo riusciti a creare progettualità intorno ad un’idea, trovare le sinergie e le condivisioni, superare le difficoltà e suscitare interesse. Abbiamo unito apicoltori che vogliono, con orgoglio e soddisfazione, valorizzare, con il frutto del loro lavoro, la Valtellina. Il miele vuole contribuire con i “grandi” di Valtellina, ovvero con Bresaola, Bitto, vini DOC e Pizzoccheri, a dare

sempre più lustro e rinomanza a questa nostra terra. La cura e la dedizione che gli apicoltori profondono per ottenere un prodotto di alta qualità fa loro meritare i giusti riconoscimenti che costantemente il loro miele ottiene nei diversi concorsi nazionali ed esteri. I nostri progetti nascono e si realizzano per creare e fornire servizi a chi opera nel settore o vuole avviarsi a questa attività. Cerchiamo di creare condizioni favorevoli di sviluppo per le piccole realtà imprenditoriali ed avvicinare giovani e meno giovani ad un settore che appassiona e può divenire un' attività o rappresentare

un’interessante integrazione economica. Fra i nostri obiettivi ricordiamo la valorizzazione del prodotto e la salvaguardia della qualità, nonché il suo forte collegamento con il territorio. Noi non dobbiamo vendere semplicemente miele ma un pezzo di Valtellina, della sua cultura, della sua specificità e quindi massima deve essere la cura alla qualità del prodotto.

Giampaolo Palmieri

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Storia dell’apicoltura valtellinese

Testi e foto

Giampaolo Palmieri

Ringraziamenti per la collaborazione a:

Donatella Fay

Walter Nana

Franco Palmieri

Alberto Pacchi

Franca Prandi

Inoltre un ringraziamento per l’aiuto nella realizzazione a

Emma Daniela Fendoni

Angelo Ghilardi

Guido Mazzetta

Massimo Pizzatti

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