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96 Manuale di Antropologia COLLANA DI STORIA E ANTROPOLOGIA Manuale di Antropologia EDIZIONI E IMON S Gruppo Editoriale Esselibri - Simone Michela Zucca

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Collana di storiae antropologia

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Finito di stampare nel mese di aprile 2011da «Pittogramma s.r.l.» - via santa Lucia, 34 - Napoli

per conto della esselibri s.p.a. - via F. russo 33/d - 80123 Napoli

Grafica di copertina di Giuseppe Ragno

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Premessa

L’antropologia, come dice il termine stesso (dal greco ànthropos uomo, e lògos parola, discorso) è la scienza che studia l’uomo sotto diversi punti di vista: so-ciale, culturale, morfologico, psico-evolutivo, artistico-espressivo, filosofico-religioso e in genere dei suoi comportamenti all’interno di una società.Questo manuale cerca di abbracciare in maniera sintetica i numerosi aspetti che costituiscono questa materia: l’evoluzione e le caratteristiche fisiche degli esse-ri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie (primatologia); le reti di relazioni sociali, i comportamenti, gli usi e i costumi, gli schemi di parentela; le leggi e le istituzioni politiche; le ideologie, le religioni e le creden-ze, gli schemi di comportamento; i modi di produzione, di consumo o di scam-bio dei beni; i meccanismi percettivi e le relazioni di potere. alcuni capitoli sono corredati di schede di approfondimento.data l’enorme varietà di fenomeni che ricadono nell’ambito degli studi antro-pologici e che genera, di conseguenza, una molteplicità di sottodiscipline, il volume pone l’attenzione soprattutto al rapporto tra: cultura e società. da qui derivano infatti le definizioni di antropologia culturale, di antropologia sociale, di antropologia simbolica ecc. L’utilizzo di queste etichette comporta diverse letture teoriche dell’antropologia, che possono essere in linea di massima messe in relazione con le diverse tradizioni di studi, per cui da qui la differenziazione tra antropologia inglese, francese, tedesca, statunitense e italiana.

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Parte PrimaStoria di una disciplinarelativamente giovane

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Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico»  9

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Barbari, selvaggi, primitivi:le «società di interesse etnografico»

1. Nascita dell’antropologia

La maggior parte degli studiosi fa risalire la nascita dell’antropo-logia «in quanto scienza» alla seconda metà del XiX secolo. in realtà, nonostante l’etnocentrismo presente in tutte le culture del mondo, l’uomo ha sempre avuto chiara la coscienza di non essere il solo sulla superficie della Terra. e, probabilmente, da quando ha iniziato a ragionare, ha dimostrato interesse verso i propri simili. interesse mischiato a paura, spesso mascherato da sentimento di superiorità verso gli altri, ma comunque interesse.dai maori australiani agli inuit eschimesi, dai bantu ai cheyenne, ai cinesi, è significativo come numerose popolazioni abbiano conservato, nella propria lingua originale, un vocabolo con cui indicano se stessi che significa «gli uomini». Questo ha portato allo sviluppo di regole diverse all’interno delle comunità e all’esterno: ciò che era permesso, e addirittura incoraggiato fra «gli uomini», era sconsigliato e talvolta proibito a chi veniva da fuori. ancora oggi, in europa, nei piccoli paesi, nessuno ruba e si lasciano le automobili aperte: il controllo sociale è fortissimo perché essere disonesti «coi paesani» sarebbe fortemente con-dannato. ma imbrogliare sui prezzi i turisti è talvolta considera-to titolo di merito, e la furbizia viene ritenuta una qualità positi-

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va. Questo atteggiamento può provocare meccanismi di esclusione e di giustifi-cazione del rifiuto che possono portare fino alla guerra.Nonostante la paura, però, quando ci si riunisce sotto le tende, attorno ad un bivacco, al riparo di un igloo, all’aperto vicino alle bestie, così come in salotto o in una cucina attorno al fuoco, e si comincia a raccontare, le storie riguardano quasi sempre loro, gli altri: i diversi, che possono essere gli spiriti dell’altro mondo, i morti, i santi, i demoni; ma che spesso e volentieri sono uomini che vengono da lontano, che appartengono ad altre tribù. e così si parla di come vivono, delle case in cui abitano, di quello che mangiano, dei vestiti che si met-tono addosso, degli dei che adorano, dei loro strani costumi matrimoniali e sessuali.il bisogno di conoscere, e di confrontarsi con gli altri, è tanto profondo nella specie umana, che popolazioni molto isolate, prive di scrittura, hanno conserva-to attraverso la storia orale, il mito, la leggenda eventi isolati ed eccezionali di incontro con genti di altre culture. Quando non esisteva la possibilità di muo-versi, si ricorreva perfino all’uso di sostanze psicotrope per poter viaggiare, per poter incontrare «persone che vengono da lontano». ricordi curati e tramanda-ti come tesori preziosi, eredità conoscitiva essenziale per le generazioni future, che magari non potranno godere delle stesse opportunità.L’antropologia è nata con l’uomo. da sempre sono esistiti specialisti in grado di raccontare e analizzare le differenze e le somiglianze delle varie razze uma-ne, di spiegarle secondo teorie prodotte dalla cultura di origine e dall’esperien-za accumulata: sciamani, griots, cantastorie, ma anche filosofi, viaggiatori, commercianti, soldati. da erodoto a marco Polo, da Giulio Cesare ai missio-nari cristiani, molti uomini, partiti con la consapevolezza della superiorità della propria etnia, conosciuti popoli diversi da vicino, sono stati lontani da casa il tempo sufficiente per dimenticare, almeno in parte, l’educazione e la forma-zione ricevuta in patria, e acquisire quello sguardo distante e tranquillo che consente di vedere gli altri come entità culturali autonome, straordinarie, por-tatrici addirittura di elementi di civiltà in molti casi più avanzati di quelli di provenienza.Ognuno di loro, a modo suo, ha composto un report scientifico, che è stato letto e riletto, oppure ascoltato, raccontato e cantato innumerevoli volte, commentato, confutato e discusso e confrontato con altre fonti, più recenti o più antiche, per decenni secoli e millenni.

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Ognuno di loro, a modo suo, è stato un antropologo. Che poi l’antropologia sia stata codificata come scienza solo poco più di un secolo fa non ci esime dal dovere di un rapido excursus nel passato, per cercare di capire come i nostri predecessori interpretassero l’esistenza di altre civiltà.anche l’antropologia è un prodotto culturale della storia, e come tale va studia-ta e compresa nel suo sviluppo.

2. Le antiche cronache di viaggio

Tutte le società sono di interesse etnografico. Basta saperle analizzare, coglien-done peculiarità e differenze, ma anche ricchezza culturale e comune apparte-nenza al genere umano. È chiaro che, a differenza di oggi, epoca in cui ci si sposta facilmente, gli uomini del passato conducevano una vita molto più seden-taria. O meglio, ci si muoveva per ragioni ben determinate, che non avevano nulla a che spartire con la ricerca antropologica: interessi commerciali, spedi-zioni militari, motivi religiosi. i viaggi duravano anni, e durante il tragitto si incontravano altri uomini. spesso si imparava un’altra lingua e si comunicava direttamente; comunque si aveva il tempo di parlare a lungo, di conoscere a fondo gli usi e i costumi dei popoli che si incontravano nel corso del cammino.ricordiamo che il substrato culturale comune da cui esce l’Occidente conside-rava chiunque vivesse al di fuori dell’impero — greco, romano e poi cristiano — barbaro, e quindi incivile; e in seguito, infedele, cioè bisognoso di conver-sione, in ogni modo, inferiore. si mettevano sullo stesso piano civiltà struttura-te, urbane, dotate di governo centralizzato e di apparato burocratico vecchio di secoli, con eserciti e flotta commerciale, come quella egiziana e persiana, e tribù nomadi che vivevano di caccia e di raccolta, o dei frutti della foresta, senza conoscere la proprietà privata, come i celti. erano tutti, e comunque, barbari.il viaggiatore però, proprio come l’antropologo (e forse come chiunque altro costretto ad un lungo soggiorno lontano da casa), subiva una trasformazione esistenziale. superate le resistenze culturali, si accorgeva, oltre che della diver-sità degli altri, anche del valore della loro civiltà rispetto alla propria. infine, li accettava come simili nella loro differenza, riconosceva loro il diritto di esistere nella loro specificità e li apprezzava.al ritorno in patria, raccontava cose favolose, che dai più magari non venivano nemmeno credute.

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ma qualcuno di loro ci ha lasciato documenti fondamentali per ricostruire la storia e la mentalità degli antichi popoli, documenti che costituiscono, di fatto, i primi trattati antropologici, le prime monografie etnografiche.

2.1 L’intellettuale: Erodoto

Perché erodoto si mise in cammino, nessuno lo sa. si sa invece che nacque ad alicarnasso (Caria), colonia greca, fra il 490 e il 480 a.C., da antica e ricca fa-miglia. Fra il 455 e il 447 si collocano, secondo l’ordine più probabile, i suoi viaggi a Babilonia, in scizia, Colchide, Peonia, macedonia, siria, Libia, Cirene, egitto. È attestato che la pubblica lettura dei propri scritti ad atene gli procuras-se compensi: siamo di fronte ad un intellettuale di professione. Ci ha lasciato un’opera in otto libri, in cui racconta le guerre dell’impero persiano contro ate-ne, e in cui, intercalate alle vicende belliche in senso stretto, ci dà le più com-plete descrizioni dei popoli europei e asiatici che incontrò, o di cui ebbe notizia da altri viaggiatori.il suo interesse principale è costituito dalla terra e dagli uomini che la abitano e, poiché essi vivono nel tempo, dagli avvenimenti. Geografia, etnografia, storia. Nel proemio, erodoto presenta la propria opera come «esposizione di un’inda-gine». i mezzi di cui dispone per la sua ricerca sono la visione diretta in primo luogo e poi ciò che apprende da altri, direttamente oppure mediatamente; infine la voce, la fama, l’opinione: e spesso onestamente distingue fra le varie fonti da cui attinge per la narrazione. sembra che conoscesse solo il persiano: quindi, ignorando le lingue dei paesi visitati, non poté che rimettersi a racconti di greci, dove ne trovava o a quelli, naturalmente interessati e ottenuti attraverso inter-preti, di informatori locali. Le parole scritte (iscrizioni, papiri) erano mute per lui. Tuttavia, non accetta ad occhi chiusi quanto gli viene raccontato: sottopone a critica (o semplicemente al buon senso) molte tradizioni, manifestando aper-tamente la propria incredulità. di fronte a versioni varie e in contrasto fra loro, le riferisce in maniera imparziale, ritenendo esaurito il proprio compito e lascian-do la responsabilità della scelta al lettore.erodoto considera l’osservazione personale il mezzo principale per capire la realtà. ma non solo: i dati forniti dalla propria esperienza e dalle deposizioni di altri costituiscono una materia che offre risultati utili solo attraverso una valu-tazione critica. Cioè una decodificazione antropologica. il risultato però non è

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l’affermazione della superiorità della civiltà greca, ma la giustificazione della relatività culturale, come nel famoso episodio in cui riferisce le diverse usanze di greci e indiani nel trattare i cadaveri dei propri morti. Gli uni li bruciano, gli altri li mangiano: ed entrambi ritengono disgustose e impraticabili abitudini diverse dalle proprie. ed entrambi sono più che comprensibili all’interno della società di origine: per ogni popolo le proprie tradizioni sono le migliori. e tutte meritano rispetto, in quanto espressione specifica e unica di diverse concezioni del mondo.Le digressioni, i racconti, gli episodi, tutto quello che arricchisce le storie ero-dotee, hanno sempre lo scopo di ampliare e approfondire, anche indirettamente, la conoscenza dell’elemento umano. È l’uomo il centro della sua opera: e da qui scaturisce il fascino ineguagliabile e la simpatia che ancora oggi, dopo 25 seco-li, suscitano in noi queste descrizioni di genti lontane.

2.2 Il condottiero: Cesare

il «figlio più grande di roma» nacque verso il 100 a.C., da un’aristocratica fa-miglia romana. inizia giovanissimo una carriera militare e politica che lo porta in breve tempo ai vertici del potere. Cesare è una personalità fuori del comune, non solo e non tanto per le sue capacità di statista, ma anche e soprattutto per la sua cultura. Con l’intuizione precoce del genio, aveva compreso l’insostenibilità dei vecchi ordinamenti, e la precarietà del regime oligarchico, che pure in quegli anni celebrava il suo trionfo. La funzione del princeps, con un’autorità pari a quella dei monarchi ellenistici, sin dal principio apparve a lui come il necessario punto d’arrivo della sua ambizione e della crisi costituzionale romana. il servizio militare lo condusse — per anni — a viaggiare in ogni angolo di quello che poi sarebbe diventato uno dei più estesi, e più longevi, imperi della storia.Fra una campagna e l’altra, un dibattito in senato e una congiura, l’assunzione di importanti cariche pubbliche (questore, edile, pontefice massimo, console) e l’elaborazione della riforma agraria, Cesare trova anche il tempo di scrivere, e di diventare uno dei più originali e raffinati scrittori latini. La sua prosa è la più limpida del mondo antico.Quando dalla zona nord occidentale dell’impero arriva la minaccia dell’invasio-ne cimbrica e si profila quella dell’irruzione degli elvetici, Cesare si fa assegna-re un quinquennio di proconsolato nella Gallia Cisalpina, poi un altro quinquen-nio in cui si occupa di consolidare le proprie conquiste, passando prima il reno,

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e poi addirittura la manica, spingendosi fino in Britannia. Nello spazio di pochi anni, respinti gli elvezi, ricacciati i germani di ariovisto che avevano occupato la Gallia oltre il reno, domate le tribù guerriere della Gallia Belgica, assogget-tate l’aquitania e le regioni occidentali, sconfitti i germani e il gallo vercinge-torige, riuscì a sottomettere tutte le Gallie al dominio di roma. di quegli anni gloriosi restano i sette libri del De Bello Gallico, un capolavoro della letteratura memorialistica. Le sue descrizioni dei costumi dei «barbari», le sue ricerche storiche sui popoli da sottomettere, sono condotte per scopi politici e militari: ciononostante, anni di permanenza in un ambiente completamente diverso, il contatto diretto e quotidiano con le orgogliose tribù celtiche e germaniche, la conoscenza approfondita delle loro abitudini e del loro modo di pensare, riem-piono il conquistatore di stupore e di ammirazione.Nel libro vi del De Bello Gallico, Cesare lascia descrizioni sulle terre e i costumi dei galli e dei germani che ancora oggi fanno testo per stile e per metodo. Pur av-valendosi di letture per informarsi sulle zone che avrebbe visitato (anzi, sicuramen-te, servendosi di qualunque fonte avesse a disposizione), Cesare fornisce informa-zioni di prima mano, basate sull’osservazione diretta, riferite in terza persona. e riconosce il valore del nemico, oltre che in campo militare, anche da un punto di vista culturale. i barbari non sono poi tanto barbari quando li si conosce a fondo.

2.3 Il funzionario statale: Tacito

secondo una lettera di Plinio il Giovane, Tacito nacque fra il 55 e il 60 d.C. È sconosciuto il luogo di origine della famiglia. Fu educato a roma; professò l’eloquenza e fu investito di tutte le magistrature fino al consolato. Fu il più grande storiografo e annalista romano. ad un certo punto, per ignote ragioni, lasciò la capitale per diversi anni, per recarsi non si sa bene dove né con quale funzione: forse come propretore in Germania o nella Gallia Belgica. il soggior-no fra i germani spiegherebbe la conoscenza approfondita di quei popoli, che lo spinse a scrivere quella che si può considerare la prima monografia antropolo-gica dell’antichità: il De Germania.L’argomento del libro esula dal carattere della produzione storiografica tacitiana. È un piccolo trattato su un popolo straniero, e si presenta come qualcosa di unico e di singolare. La prima parte parla dei germani in generale, dei confini e della condizione del paese, della vita pubblica e privata dei suoi abitanti. La seconda sezione si occupa delle singole stirpi.

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Tacito non esprime giudizi negativi sui germani, anzi. spesso si è considerato il De Germania come un documento in cui Tacito avesse voluto offrire ai degene-rati romani degli esempi di sani costumi: quasi una specie di pamphlet dal contenuto politico e morale. in realtà, la Germania è «semplicemente» uno stu-dio geografico, etnografico, antropologico di grande precisione e rigore.

2.4 Il mercante: Marco Polo

marco Polo, nato a venezia da una famiglia di mercanti nel 1254, compie, prima col padre Niccolò e con lo zio matteo, poi da solo, lunghi viaggi in Oriente, arrivando fino in Cina e in Giappone. alla corte del Gran Khan, il condottiero tartaro che era riuscito a conquistare la Cina, ricopre incarichi amministrativi e diplomatici di primaria importanza, che lo portano a viaggiare da un capo all’al-tro dell’impero, ad imparare numerose lingue, a conoscere a fondo luoghi e genti di cui nessuno, in europa, immaginava l’esistenza. Tornato in patria dopo ventiquattro anni di assenza, viene fatto prigioniero durante una battaglia e in carcere detta le sue memorie, che costituiscono Il Milione, suggestivo libro di viaggi ma anche documento antropologico di eccezionale valore. Le sue descri-zioni di nazioni e di città, di riti, tradizioni, modi di vivere e di intendere la vita, ognuno ugualmente giustificato e giustificabile, tendono a confrontarsi con la cultura di origine, ponendo gli «infedeli» quanto meno su un piano di parità — e talvolta di superiorità — con i cristiani. alla sua epoca ma anche nei secoli successivi, si conquista un’enorme popolarità, contribuendo in maniera rilevan-te ad accrescere il patrimonio delle conoscenze geografiche. Tanto che Cristo-foro Colombo, in base alle informazioni ricavate dal Milione, quando sbarcò in america, credette di essere arrivato in Giappone.marco Polo percorre quei paesi lontani, ancora favolosi per gli uomini del tem-po, cogliendone sì il lato meraviglioso e fiabesco, ma con animo aperto, dotato di una curiosità inestinguibile per tutti gli aspetti della vita umana, specie per quelli economici. È sempre pronto a mettere in discussione credenze tradizio-nali, a sfatare pregiudizi, a riferire quanto ha visto con i suoi occhi così come lo ha potuto osservare.L’educazione cristiana che ha ricevuto da bambino non costituisce, per marco Polo, uno schermo nella comprensione del diverso. il tipo di culto praticato da ciascun popolo è uno degli elementi ricorrenti nelle sue descrizioni. Le quattro religioni fondamentali dell’universo medioevale (cristianesimo, islamismo,

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ebraismo, buddismo) sono collocate allo stesso livello, mentre viene sospeso il giudizio, con una posizione che sfiora l’agnosticismo, su quale sia il vero dio. La tendenza di marco Polo è quella di rappresentare il fatto religioso come fatto magico.il centro della sua ricerca è comunque l’uomo, la sua cultura, le civiltà che co-struisce. Il Milione descrive la ricchezza: non soltanto quella che si misura nel diametro delle pietre preziose e nella purezza delle perle, ma specialmente quel-la che deriva dalla straordinaria diversità umana, dalla capacità di adattarsi all’ambiente in maniera creativa e produttiva, di sfruttare le sue risorse per riu-scire a vivere meglio.

3. Il Rinascimento e la scoperta di umanità «altre»

il rinascimento corrisponde alla convalescenza economica, politica e demogra-fica di un’europa devastata dalla guerra dei Cent’anni e dalla peste nera. ma questa «guarigione» si nutre di apporti esterni che digerisce lentamente: viaggi in paesi lontani, conquista di Costantinopoli nel 1453. dopo la fuga dei lettera-ti bizantini verso l’europa meridionale, l’Occidente si scopre incivile. uomini come rabelais, erasmo, montaigne pensano che la civiltà si sia degradata, per-dendo la memoria dell’antichità classica; da cui l’urgenza di riappropriarsi, at-traverso la lettura, della cultura dei grandi uomini del passato: Platone, aristo-tele, Plutarco, seneca. i politici illuminati, da enrico il Navigatore a isabella la Cattolica, da elisabetta i d’inghilterra a Francesco i, si appassionano per le in-novazioni tecniche che arrivano dal mediterraneo orientale, come la bussola, il timone di poppa e la vela triangolare, che permettono alle navi di risalire il vento e le correnti, tecnica perduta dopo i vichinghi. il mare si apre alla naviga-zione oceanica. dopo essersi lasciati trasportare dagli alisei lungo le coste afri-cane, e più lontano ancora, si saprà anche ritornare.Nel giro di cinquant’anni, dal 1460 al 1510, le coste dei continenti del pianeta sono cartografate dagli europei. vengono scoperte umanità fino ad allora scono-sciute, diverse, che pongono dei problemi: sono degli uomini come noi? Possie-dono un’anima immortale anche loro? discendono da adamo? La genesi della riflessione antropologica è contemporanea alla scoperta dell’america. il rina-scimento esplora degli spazi — geografici ma anche mentali — fino ad allora ancora inimmaginabili, e inizia ad elaborare dei discorsi sugli abitanti dei nuovi

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territori. Purtroppo però l’estrema diversità delle società umane raramente viene considerata come un dato di fatto, di cui prendere atto: di solito, viene vista come un’aberrazione nei confronti di una civiltà superiore, che richiede una giustifi-cazione.Ogni giorno di più si diffondono i racconti dei primi professionisti della comu-nicazione: i missionari. si levano voci in difesa delle culture americane, tentan-do di dimostrare la loro peculiarità e ricchezza. accanto ad una conversione imposta dei popoli del Nuovo mondo, e spesso largamente criticata, trova spazio anche lo studio della lingua degli indios, in particolar modo del nàhuatl, e dei loro costumi, fin da subito.La figura dell’altro, dell’uomo di cui si ignorava l’esistenza, dell’alieno, comin-cia ad assumere due aspetti: quella dell’antico saggio, dotato di una sapienza e di un’esperienza arcaica, legata alla natura, molto superiore alla nostra, e quella del selvaggio semi-umano. entrambi fanno pesare sull’Occidente il loro sguar-do critico e mettono in dubbio i suoi sistemi di riferimento culturale. L’uno partendo da ragioni filosofiche, l’altro dall’innocenza naturale.La questione, purtroppo, non era solo culturale, ma prevalentemente politica ed economica. se l’altro è semi-umano, a metà fra l’animale e l’uomo, e se oltre ad essere una specie di bestia adora i demoni, allora può essere usato o eliminato secondo i bisogni dei più civili e dei più forti. Cosa che puntualmente accadde, con la riduzione in schiavitù e lo sterminio di milioni di americani, prima, e con l’etnocidio (che, in molti casi, continua fino ad oggi) poi.ma, anche se a livello accademico il dibattito continuò, e gli intellettuali discus-sero per secoli sulle testimonianze che venivano da oltre oceano, in realtà la percezione comune dei «popoli nuovi» si formò sulla paura e sul disprezzo.

3.1 Il prete: Bartolomé de Las Casas

Nasce a siviglia nel 1474, figlio di Pedro de Las Casas, uno degli uomini che avevano partecipato alla seconda spedizione di Colombo nelle indie. dal 1502 è a santo domingo: partecipa alle azioni contro gli indios e comincia a svolgere attività missionaria. diventa cappellano militare, ottiene incarichi importanti, ma nel 1515 rinuncia perché li ritiene incompatibili con la sua missione religiosa. da quel momento, si dedica completamente alla difesa e all’evangelizzazione dei nativi americani, fino alla fine dei suoi giorni. scrive la Historia de las Indias, in cui descrive magistralmente i popoli americani, e sostiene vittoriosamente una

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disputa pubblica con Ginès de sepùlveda, contro il diritto di conquista. Barto-lomé de Las Casas è un uomo dell’establishment, un domenicano, non un rivo-luzionario. il suo sforzo di relativizzazione culturale è intenso e sofferto. ma il prete cristiano ha viaggiato per anni, ha visto e conosciuto, ha condiviso il de-stino e tentato di dare un futuro diverso a popolazioni che i re consideravano solo manodopera a basso costo per le miniere d’oro. Per questo fa affermazioni che, anche dopo secoli, suscitano scalpore. È un uomo che è andato a vivere in un universo totalmente diverso dal suo, con compiti assegnati di repressione, conqui-sta, distruzione culturale, con un background personale di provenienza di disprez-zo e di senso di superiorità. Però è uno che ha visto, e che è cambiato, schieran-dosi contro la sua stessa civiltà di origine. Può essere considerato il prototipo dell’antropologo impegnato in difesa delle minoranze, o dei popoli in via di estin-zione. Non perderà mai la speranza (anche contro l’evidenza dei fatti, che davano ragione agli schiavisti) nella possibilità di un destino diverso per gli indios.Le sue pagine più belle e più interessanti descrivono i costumi, le consuetudini, la vita degli indios. Cerca di difendere strenuamente le capacità razionali dei nativi, giudicati come entità umane, culturali e storiche, e comincia una lenta rivalutazione dell’indigeno. mostra le correlazioni che esistono fra ambiente fisico, organismi viventi — uomini compresi — e sistemi di adattamento cultu-rale alla natura; indaga sull’artigianato, sul commercio, sulle istituzioni religio-se, civili, politiche, militari. Certo, questa gente ha «qualche difetto» anche per il buon frate: è dedita all’antropofagia, ma egli la difende citando Plinio; alla sodomia, che l’autore spiega ricorrendo a Galeno; ai sacrifici umani, che, del resto, la spagna stessa non è immune dal compiere o dall’aver compiuto. ma le leggi degli indios, benché diverse dalle sue, sono «molto giuste e buone».

3.2 L’umanista: Michel de Montaigne

michel de montaigne nasce in Francia nel 1532. dall’infanzia, viene educato a parlare latino, e viene cresciuto nel culto degli antichi. Figlio di un magistrato, seguirà le orme del padre, alternando l’assunzione di importanti cariche pubbli-che e lo svolgimento di delicati incarichi politici a lunghi soggiorni nel castello di famiglia per potersi dedicare agli studi e scrivere i Saggi, opera fondamenta-le della cultura europea, che comincia a mettere in crisi la centralità dell’uomo rinascimentale. È l’inventore del giro d’europa, che diventerà presto un’istitu-zione e una moda etno-filosofica per tutti gli scrittori dei secoli seguenti.

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montaigne è, prima che filosofo, umanista: prova a realizzare in se stesso l’idea-le della persona onesta e saggia. Cerca di riscoprire i tratti comuni della condi-zione umana fra i vari popoli, ma, ribaltando la concezione di fiducioso antro-pocentrismo del rinascimento, denuncia la fragilità dell’uomo, alla perenne ricerca di verità e di certezze che gli sono precluse per i suoi stessi limiti. ac-cetta una realtà multiforme, magmatica, in cui la verità non esiste; e approda alla tolleranza: accetta usanze e credenze, leggi e forme di vita non perché vi presti fede, ma semplicemente perché esistono. i selvaggi non sono superiori né infe-riori a noi, sono solo differenti. È uno dei primi intellettuali a rifiutare l’idea di superiorità della civiltà occidentale ed europea, a favore delle società conside-rate incivili appena scoperte nel Nuovo mondo: ecco perché possiamo inserirlo fra i fondatori dell’antropologia.Nel 1580, quando escono i Saggi, i contatti con l’america (e la crisi culturale europea) duravano da quasi un secolo. anche se l’etnologia come scienza non era ancora nata, ne esistono già, in montaigne, alcune problematiche: la confu-tazione dell’etnocentrismo, la contingenza delle civilizzazioni, l’analisi compa-rata delle società. Nel saggio dedicato ai «cannibali», dopo aver difeso gli indios americani, racconta del suo incontro a rouen con tre indiani americani, fra i quali un capo tribù, che, di loro volontà, avevano attraversato l’atlantico per visitare l’europa, ed erano stati ricevuti dal re. Carlo iX li accoglie e mostra loro la città. in quell’occasione, conduce una vera e propria inchiesta etnografica. Le interviste e lo scambio di pareri sulle leggi, sui costumi e le tradizioni degli indios, le loro critiche di fronte alla gioventù del re francese, che comanda persone tanto più anziane di lui per diritto ereditario, lo stupore davanti al contrasto, per loro inconcepibile, fra la povertà dei mendicanti e la ricchezza dei notabili, ri-empiono montaigne di ammirazione verso i «barbari», per la loro «purezza», perché crede che obbediscono ancora alle leggi di natura. È nato il mito del «buon selvaggio» e l’interesse per i popoli «esotici».

3.3 Il professore: Giovan Battista Vico

Giovan Battista vico rappresenta uno dei pensatori più originali del periodo preilluminista. Non lo si può definire un difensore dei popoli extraeuropei o uno studioso delle culture indigene: anzi, una delle sue maggiori preoccupazioni riguarda l’esistenza di grandi civiltà del passato, che realizzarono insigni sco-perte nelle arti, nella scienza, nella letteratura, dimostrando di sapersi reggere

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politicamente senza conoscere l’esistenza del vero Dio. ma fu il primo ad enun-ciare la teoria di un passato comune dell’umanità, di evoluzioni parallele di ci-viltà diverse, e di possibili progressi non lineari, ovvero di regressi («ritorno alla barbarie»). in altre parole, malgrado la sua formazione cattolica, è uno dei pochi occidentali che non concepisce la vicenda umana come il necessario cammino verso il miglioramento e la redenzione finale, ma come qualcosa di molto più complesso, ancora tutto da studiare e da capire. in quest’ottica, la «scienza nuo-va» è proprio la storia, che cerca di capire le motivazioni delle azioni dell’esse-re più complicato e più misterioso di ogni altro: l’uomo.vico nasce a Napoli nel 1668. Grammatica, logica, filosofia scolastica, discipli-ne giuridiche sono le basi della sua educazione, come di tutti gli intellettuali del tempo. Poi trova un posto da precettore, e così riesce ad approfondire gli studi umanistici e politico-giuridici. Nel 1695 apre uno studio privato di retorica e ottiene la cattedra di eloquenza all’università. È straordinariamente informato e conscio della rivoluzione scientifica che sta avvenendo in Francia e in inghilter-ra in diversi campi: dalla geografia alla fisica, dalla medicina alla chimica, dall’astronomia alla geometria. riesce ad individuare, con sconcertante chiarez-za mentale, l’«insufficienza degli umani sforzi» nell’indagare il comportamento dell’uomo, per eccesso di fiducia nella scienza: fiducia che andrà accrescendosi nei secoli; divario, fra «sapere umanistico» e «sapere scientifico», ancora ben lontano dal colmarsi, oggi.

secondo lui, la storia passa attraverso tre età:• quella degli dei, in cui in cui si afferma la fantasia e la creazione poetica, e

in cui si crede negli dei;• quella degli eroi;• quella degli uomini, in cui trionfa la ragione e l’intelligenza.

i «selvaggi» non sono i depositari di una qualche sapienza arcaica e originaria. il loro non è un mondo super-storico, ma pre-storico. in sintesi: non si possono attribui re loro le nostre stesse idee, ma comprenderli nella loro realtà così distin-ta dalla nostra e tanto difficile da decifrare. il primitivo è assimilato al fanciullo: le tribù dei nativi rappresentano l’infanzia del genere umano, dominate dall’im-maginazione, incapaci di spiritualità e di astrazione, assoggettate ai bisogni del corpo e dei sensi, governate dalle passioni. ma si tratta di una fase in cui è pas-sata ogni civiltà, anche la più grande e, soprattutto, la ricaduta nella barbarie è

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un pericolo reale, anzi probabile, per la teoria dei cicli storici, che ogni società dovrebbe cercare di evitare.

3.4 Il mito del (buon) selvaggio

dopo il barbaro, il selvaggio: la cultura occidentale rielabora, a partire da diversi presupposti, la figura dell’altro, del non conosciuto, dell’inconoscibile. il selvaggio, a differenza del barbaro, non è più chiunque sta al di fuori dei confini fisici dell’im-pero: è colui che è depositario di una cultura non paragonabile alla nostra. È diven-tato qualcosa di più dell’infedele da convertire. i cinesi sono pagani, ma nessuno oserebbe mai mettere in dubbio la loro civiltà. anche perché, a parte la religione, le due società sono confrontabili l’una con l’altra: entrambe sono dotate di uno stato, di istituzioni, di regole morali e sessuali ben definite. i selvaggi invece sono definiti e descritti non secondo la presenza di qualità, ma secondo l’assenza: senza morale, senza religione, senza scrittura, senza legge, senza stato, senza coscienza, senza ragione, senza scopi, senza arte, senza passato, senza avvenire. una vera e propria metafora zoologica, che cerca di scaraventare nel regno animale le tante tribù di nativi che, grazie all’evoluzione dei sistemi di trasporto e alle conquiste coloniali, sempre di più venivano in contatto con gli europei, in ogni continente. si formano così quei pregiudizi che, nel bene o nel male, impiegheranno secoli per sparire, e che non sono ancora totalmente cancellati dalla storia della nostra men-talità. e quindi i selvaggi possono essere sintetizzati da queste caratteristiche:• l’apparenza fisica: vanno in giro nudi, o vestiti di pelli di animale;• i comportamenti alimentari: mangiano la carne cruda, e spesso sono addirit-

tura cannibali;• il linguaggio: parlano una lingua incomprensibile.

ma l’incubo di una natura malvagia in cui vegeta un selvaggio abbrutito è evi-dentemente suscettibile di capovolgersi nel suo contrario: il sogno di una natura benigna, che prodiga i suoi doni ad un selvaggio felice. i termini dell’attribuzio-ne restano rigorosamente identici, e anche se cambia il giudizio morale, non per questo la conoscenza della realtà aumenta. La figura del buon selvaggio non troverà la sua formulazione più sistematica e radicale se non due secoli dopo il rinascimento, con rousseau, l’illuminismo e poi il romanticismo.Tanto più la società europea, e le sue classi intellettuali e dirigenti, si allontana-no da un rapporto quotidiano con l’ambiente, e si urbanizzano in metropoli su

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cui la rivoluzione industriale incombe, tanto più cresce la nostalgia di una natu-ra incontaminata, non più selva oscura da combattere fra mille pericoli, ma pa-radiso perduto che dava i suoi frutti senza bisogno di lavorare. il clima cultura-le è cambiato, e gran parte del pubblico è infinitamente più disponibile di prima a lasciarsi persuadere che a società costrette all’astrazione, al calcolo e all’im-personalità dei rapporti umani, se ne contrappongano altre, basate sulla solida-rietà comunitaria, cullate dall’abbondanza di una natura generosa. Nasce la «nostalgia del neolitico», che spingerà tanti antropologi a recarsi negli ultimi recessi inesplorati del globo.La parola etnografico (etnographisch) appare per la prima volta nel 1792, dalla penna dello storico tedesco schläzer: definiva «un metodo lineare per trattare la storia particolare (dei popoli)», e suggeriva un sistema di descrizione e classifi-cazione dei popoli analogo a quello di Linneo per le specie animali. in francese, il termine «ethnologie» si incontra per la prima volta nel 1787, nel libro di Cha-vannes Saggi sull’educazione naturale col progetto di una scienza nuova. Que-sta etnologia oscilla fra due modelli: lo studio delle scienze della natura — co-noscenza della materia inerte di Newton o Lavoisier, e di quella vivente di Linneo — e il modello letterario dei racconti di viaggio, dei saggi filosofici o politici.La comparsa della parola che cerca di delimitare un campo di studio non è indi-zio della sua nascita (ciò che noi intendiamo oggi con etnologia è qualcosa di molto diverso), ma è la dimostrazione di un’esigenza sociale e culturale condi-visa: quella di spiegare, in qualche modo, la differenza, l’alterità di alcuni po-poli che si sono incontrati sulla terra.

L’immagine che l’europa si fa dell’alterità (e di conseguenza di se stessa) non cessa di oscillare fra i due piatti di una bilancia ideale. alternativamente, si è pensato che il selvaggio:• era un mostro, una bestia sotto spoglie umane, a metà strada fra animalità e

umanità; ma anche che eravamo noi i mostri, e che lui poteva darci delle lezioni di umanità;

• viveva un’esistenza dolorosa e miserabile, o al contrario viveva in uno stato di beatitudine, appropriandosi senza sforzo dei prodotti della natura, quando l’Occidente era costretto al duro lavoro nell’industria;

• era lavoratore e coraggioso, o essenzialmente pigro;

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• non aveva anima e non credeva in nessun dio, o era profondamente religioso;• viveva nel terrore perpetuo del sovrannaturale, o, al contrario, nell’armonia

e nella pace;• era un anarchico sempre pronto a massacrare i propri simili, o un comunista

deciso a condividere tutto, fino e comprese le sue mogli;• era straordinariamente bello, o spaventosamente brutto;• era mosso da un impulso criminale di cui non ci si poteva fidare, o doveva

essere considerato come un bambino bisognoso di protezione;• era sessualmente un bruto, che conduceva una vita orgiastica di perversione

continua, o un represso, che obbediva strettamente ai tabù e ai divieti impo-sti dal gruppo;

• era arretrato, stupido e di una brutale semplicità, o profondamente virtuoso e intelligente;

• era un animale, un vegetale, una cosa, un oggetto senza valore, o rappresen-tava un’umanità da cui avevamo tutto da imparare.

in effetti, questa alterità fantastica non ha molto a che spartire con il reale. L’al-tro — l’indiano, il tahitiano, ma anche, più recentemente, il basco, il bretone, l’alpino, il contadino — è utilizzato come supporto di un immaginario in cui il luogo di riferimento non è l’america, Tahiti, i Paesi Baschi, la Bretagna, o le alpi. i selvaggi costituiscono degli oggetti-pretesto che possono essere utilizza-ti in vista dello sfruttamento economico, della conversione religiosa, dell’emo-zione espressione delle proprie speranze. Osservando gli altri, e cercando di descriverli, secondo un’ideologia piuttosto che un’altra, non si capisce come sono veramente, e come vivono. in compenso emergono i sogni, le paure, le idiosincrasie della società europea occidentale, che cerca di rifiutare il diverso per pau ra, in nome della propria superiorità, o di esaltarlo per poter credere nell’esistenza di una società in cui gli uomini non sono corrotti dalla civiltà.d’altra parte, in questo periodo, attraverso l’osservazione diretta di una comu-nità, o la riflessione a distanza su un gruppo umano, gli intellettuali meno orto-dossi cominciano, molto timidamente, a gettare le basi se non di una scienza antropologica, quanto meno di un sapere antropologico.

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I GermanI dI TacITo: una socIeTà maTrIfocale

Tacito si stupisce perché i Germani lasciano qualsiasi loro affare alle loro donne: ammini-strazione del patrimonio, conduzione dell’azienda di famiglia, gran parte delle professioni a parte alcune, molto specifiche; e poi tutte le decisioni importanti. I maschi, quando non sono in battaglia, passano la giornata in stato semi catatonico, ad oziare, lasciando fare ogni cosa alle mogli, fidandosi ciecamente di loro senza controllarle né preoccuparsi di ciò che fanno. La religione, poi, è matriarcale; sono le donne che gestiscono il rapporto col divino e inter-pretano i presagi. Si tratta della descrizione di un sistema sociale matrilineare tipico di una società guerriera, come quella irochese per esempio, dove la figura importante in famiglia non è il padre, ma il fratello della madre (1).

Non hanno fretta di far sposare le ragazze; esse hanno lo stesso vigore giovanile dei maschi, e simile la statura: prendono marito quando hanno la medesima prestanza e robustezza del loro compagno, e i figli rinnovano la forza dei genitori. Lo zio materno onora come un padre i figli delle sorelle. Ritengono anzi che nelle donne vi sia qualcosa di inviolabile e di provvi-denziale, non osano sottovalutare i loro consigli o trascurare i loro responsi. Abbiamo visto sotto l’impero del divo Vespasiano Veleda, a lungo ritenuta dea da parecchie persone; ma anche un tempo venerarono Albruna e parecchie altre donne, non per adulazione tanto meno per farne delle dee (2).

È difficile credere che le donne dei Germani non combattessero: è significativo il fatto che i fidanzati si scambino doni fra i quali i più apprezzati consistono appunto in armi, dei quali entrambi devono essere degni; armi che poi vengono passate alle nuore, quindi in linea fem-minile; e che una donna non pensi di essere estranea alla guerra! È quanto meno improbabi-le che gentili fanciulle che come dono di nozze si scambiassero spade daghe e lance con la suocera, oltre che farne e riceverne come pegno d’amore, poi non toccassero e non fossero allenate ad usarle… È anche comprensibile come tali mariti si accontentassero di una sola moglie…. (3).

Sono soddisfatti di una sola moglie, ad eccezione di pochissimi. Non è la moglie a portare la dote al marito, bensì il contrario. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni, scelti non per soddisfare i piaceri femminili o affinché la novella sposa se ne adorni, ma che consistono in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada. In cambio di questi doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta qualche arma al marito: questo è il legame più solido, questo l’antico rito, queste le divinità nuziali. E affinché la donna non si ritenga estranea ai pensieri di gloria militare o esente dai pericoli della guerra, quando si celebra il matrimonio le viene ricordato che viene come compagna nelle fatiche e nei peri-coli, per subire e affrontare la stessa sorte, così in pace come in guerra. Questo significano i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così morire: sappia di ricevere armi che dovrà consegnerà inviolate e degne ai figli, che le nuore riceveranno a loro volta, per trasmetterle ai nipoti (4).