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Silvia Chiletti Dottoranda in Memoria Culturale e tradizione europea I discorsi all’infinito. Un’archeologia della funzione-autore in Michel Foucault

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Silvia Chiletti Dottoranda in Memoria Culturale e tradizione europea

I discorsi all’infinito.

Un’archeologia della funzione-autore in Michel Foucault

Seminario del professor Stefano Garzonio Maggio 2007

I discorsi all’infinito. Un’archeologia della funzione-autore in Michel Foucault.

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«Cosa importa chi parla?»: questo è il leitmotiv della conferenza dal titolo Che cos’è un

autore? pronunciata nel 1969 davanti alla Société Française de Philosophie da Michel

Foucault. Egli adotta questa citazione di Beckett come paradigma del fenomeno della

sparizione dell’autore nella letteratura contemporanea e tenta di enunciare l’avvento di una

nuova metodologia di analisi, rivolta anche al resto delle discipline, in cui, al posto

dell’autore come individuo, si instaura quella che Foucault definisce funzione-autore. Nelle

parole pronunciate da Foucault in questa sede si intrecciano i discorsi intorno alla

letteratura, riferimento costante del discorso foucaultiano degli anni ’60 e le ricerche,

molto vicine alla pratica dello strutturalismo che, in Le parole e le cose, hanno portato alla

conclusione della morte dell’uomo. Per tali ragioni l’impatto delle parole di Foucault

venne sin da subito assimilato alle tesi di Roland Barthes, il quale, un anno prima, era

pervenuto alla stessa conclusione nell’articolo La mort de l’auteur. Alla luce di uno

sguardo retrospettivo è possibile tuttavia affrancare le parole di Foucault da questa

parentela istituita: esse infatti vengono pronunciate nel momento in cui egli porta a termine

le riflessioni che sfoceranno nella stesura di L’archeologia del sapere, opera in cui il

filosofo prende un netto distacco dalle sue precedenti analisi e dalla corrente strutturalista,

inaugurando una nuova fase di pensiero, in cui il ricco insieme di riferimenti alla

letteratura, che ha accompagnato la riflessione foucaultiana lungo tutta la produzione degli

anno ’60, si estingue improvvisamente. Proprio la conferenza sul tema dell’autore

costituisce una delle ultime testimonianze di questo interesse, che pur tuttavia, come vorrei

mettere in luce, accenna già, in modo più o meno velato, agli sviluppi di un pensiero

differente.

La conferenza prende le mosse della considerazione di una tendenza critica propria della

letteratura contemporanea in aperta rottura rispetto all’800: laddove si studiava un’opera

letteraria per scoprire il volto nascosto dell’autore, la sua individualità concreta e

psicologica, nella letteratura contemporanea si è fatta spazio in maniera sempre più

prorompente l’idea che un’opera non coincida con la forma di espressione di

un’individualità particolare. Al contrario, come testimonia l’opera di Maurice Blanchot,

riferimento costante del discorso foucaultiano, l’opera comporta, in un certo senso, la

morte dell’autore, il sacrificio dei caratteri individuali del soggetto scrivente all’esistenza

anonima e neutra del linguaggio. Le parole di Foucault ruotano intorno all’idea

fondamentale di una funzione-autore, che si sostituisce all’autore come individuo, ed

esemplifica così il metodo, definito da Foucault archeologico, di fare emergere le

condizioni formali di pratiche discorsive specifiche. Abbandonare la figura dell’autore non

è facile, poiché, oltre alla familiarità che ci lega a questa categoria di cui difficilmente

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riusciamo a mettere in dubbio l’evidenza, essa «costituisce il punto forte

dell’individualizzazione nella storia delle idee, delle conoscenze, delle letterature, nonché

nella storia della filosofia e in quella delle scienze» (p. 2). Prima di iniziare la mia

trattazione vorrei riconrdare brevemente come a partire dal ’66, Foucault si dedicò insieme

a Deleuze alla cura dell’edizione francese delle opere complete di Nietzsche sul testo

stabilito da Colli-Montinari. Proprio a partire da questa esperienza si rinforza

l’interrogativo sul come trattare il rapporto tra l’autore e la sua opera, sullo statuto da

attribuire a bozze, appunti, annotazioni, finanche al «conto della lavandaia» (Che cos’è un

autore?, p. 5). L’attribuzione di un autore non costituisce una funzione omogenea.

Foucault cita quattro esempi che minano la spontaneità con cui si tende ad associare

un’opera all’espressione volontaria di un soggetto parlante o scrivente, così definito

autore. Il primo di questi esempi (Che cos’è un autore?, pp. 9-10) tiene conto del carattere

storico di questa categoria: essa emerge solo dal momento in cui diventa necessario un

referente giuridico a cui la legge possa fare appello in caso di violazione di certe norme:

contrariamente ai benefici che l’autore potrà in seguito trarre dalla propria produzione, nel

momento della sua apparizione tale categoria è indissociabile dai rischi che essa comporta.

Una seconda caratteristica è la maniera diversa in cui la funzione-autore si esercita a

seconda delle discipline, caratteristica, ancora una volta, non separabile da un certo

contesto storico: prima del XVIII secolo, il nome dell’autore era fondamentale per il

discorso scientifico in quanto garante del valore di verità, mentre i testi letterari

circolavano perlopiù anonimamente. Dopo questa soglia temporale la situazione, spiega

Foucault, si è ribaltata, tant’è che il valore di un’opera letteraria si lega in maniera sempre

più salda alla fama già consolidata del nome di colui che l’ha prodotta, mentre una scoperta

scientifica viene giudicata valida e innovativa a prescindere dalle caratteristiche individuali

di chi l’ha portata a termine (Op. cit., pp. 10-11. Inoltre, per una breve considerazione del

ruolo dell’autore per quanto riguarda il discorso scientifico, si veda La situation de Cuvier

dans l’histoire de la biologie, in particolare pp. 60-61). Come terzo esempio Foucault

giudica i problemi relativi all’attribuzione di un corpus di opere alla medesima persona. La

critica moderna adotta ancora gli schemi dell’esegesi cristiana, i quali tuttavia, non

riescono sempre a rendere conto di problemi quali gli pseudonimi, gli abbozzi, le lettere e

in generale del numero infinito di tracce verbali che un individuo lascia dietro di sé, (Che

cos’è un autore?, pp. 12-13; L’archeologia del Sapere, p. 33, 124). Per concludere,

Foucault cita l’ambiguità degli elementi grammaticali presenti all’interno di un’opera, sia

essa letteraria o scientifica, i quali, lungi dal rinviare univocamente ad una sola persona,

testimoniano una pluralità di individui parlanti (Che cos’è un autore?, pp. 13-14).

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La categoria autore dunque non costituisce una base solida di argomentazione a partire

dalla quale si possono analizzare e porre altri interrogativi, quali la struttura e la coerenza

di un’opera, l’evoluzione di una mentalità, l’influenza di un pensiero; essa è al contrario,

per utilizzare la stessa terminologia di Foucault, «l’effetto superficiale di unità più

consistenti» (L’archeologia del sapere, p. 36) e presuppone un’analisi approfondita delle

pratiche discorsive entro cui essa ha validità. L’autore di una certa formulazione non è mai

identico al soggetto dell’enunciato che la esprime. Il soggetto è infatti una dimensione che

caratterizza ogni formulazione di natura linguistica; può essere quindi incarnata da una

molteplicità di individui differenti tra i quali nessuno può propriamente essere ascritto

come causa o intenzione originaria. Il tipo di studio che interessa a Foucualt, che è quello

degli enunciati e delle loro regole di formazione, non consiste dunque nell’analizzare i

rapporti tra l’individuo-autore e ciò che ha detto, dal momento che all’interno

dell’enunciato l’entità che occupa il vuoto della funzione-soggetto può benissimo variare

(L’archeologia del sapere, pp. 127-128).

A facilitare il congedo dalla centralità imperante dell’autore e dalle interpretazioni in

termini di soggettività come interiorità nascosta interviene il discorso già consolidato dello

strutturalismo, cui Foucault non è di certo estraneo. La critica letteraria di matrice

strutturalista, all’interno della quale, Roland Barthes incarna la voce più eloquente, ruota

intorno all’idea di intransitività della letteratura, principio che postula l’assenza di un senso

originario di cui l’intenzione dell’autore sarebbe la fonte, per dare spazio al proliferare di

un linguaggio infinito, di cui la letteratura rinnova eternamente il commento. Effetto

dell’importanza assunta della forma, in particolare a partire dalla svolta rappresentata da

Mallarmé, e del principio derivato dalla linguistica saussuriana del primato del significante

sul significato, tale concezione risente in particolare dell’influenza che il formalismo russo,

in cui il connubio tra pensiero formale e teoria letteraria è più che mai significativo, ha

esercitato nello strutturalismo francese del dopoguerra1. È la corrente russa del formalismo

che ha inaugurato un rifiuto del testo letterario fondato su un’analisi psicologica

dell’autore, basti pensare al saggio di Šklovskij L’arte come artificio comparso nel 1919

come sorta di manifesto programmatico. La corrente formalista russa, com’è noto, esercità

una notevole influenza sullo strutturalismo francese, basti pensare a figure come Roman

Jakobson e Tzvetan Todorov, le quali hanno costituito un vero e proprio ponte tra le due

culture2

1 In merito rimando a due interviste, Entretien avec Michel Foucault, in particolare le pp. 62-65 e Structuralisme et poststructuralisme, pp. 431-457, in particolare le pp. 431-433,in cui Foucault cita l’esempio del formalismo come momento storico in cui un pensiero teorico intellettuale tenta di emergere come antidogmatico in contrasto con l’ideologia politica dominante.2 Si vedano in particolare Tzvetan Todorov, I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino, Einaudi, 1968 e Roman Jakobson, Poetica e Poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, Torino,

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Dato il contesto di comune appartenenza, le cui caratteristiche ho appena esposto, la

conferenza di Foucault è stata assimilata all’articolo di Roland Barthes La mort de

l’auteur, pubblicato un anno prima, e le sue posizioni sono state interpretate come una

delle voci della Nouvelle critique, a cui sicuramente Foucault non era estraneo, avendo

collaborato alla rivista Tel Quel e intrattenendo, negli anni qui in questione, un rapporto di

intensa solidarietà con Roland Barthes.

Il breve articolo di Barthes, La mort de l’auteur, si colloca sulla scia delle riflessioni già

prodotte a partire dagli anni ’50 con Il grado zero della scrittura, affermando il confluire di

ogni soggettività nella scrittura, che per Barthes equivale al linguaggio, in quanto ambito

autonomo, che non pone come fine l’azione diretta sul reale ma «l’excercice même du

symbole» (p. 61). Se la nascita dell’autore secondo Barthes è un fenomeno concomitante

alla scoperta dell’individuo nell’epoca moderna, l’età contemporanea, caratterizzata dalla

messa in discussione della soggettività e del carattere antropologico delle scienze, ha

prodotto un discorso letterario di cui gli autori, in quanto individui, non sono i principali

artefici. L’autore, secondo Barthes, viene sostituito dallo scripteur, cioè il copista, il cui

solo potere è quello di «mêler les écritures, de les contrarier les unes par les autres, de

façon à ne jamais prendre appui sur l’une d’elles» (p. 65). Proprio l’opposizione tra

écrivain, che nell’articolo è sinonimo di auteur, e scripteur gioca un ruolo fondamentale

per comprendere il carattere autonomo e trans-storico del linguaggio letterario a cui

Barthes sottomette tutte le attività prodotte intorno alla letteratura.

Già in lavori precedenti Barthes aveva messo in discussione la centralità dell’autore e

l’idea di un legame causale tra questi e l’opera. Nel saggio Sur Racine del 1963 egli

individua la grandezza del tragediografo nella sua capacità di aprire un’infinità di campi

critici. Quello che definisce come «grado zero dell’oggetto critico» (Sur Racine, p. 986, si

vedano inoltre le tesi esposte nell’opera già citata Il grado zero della scrittura), e che

Racine rappresenterebbe magistralmente, sarebbe una trasparenza che lascia filtrare la

forma indipendente del linguaggio e dello stile nella sua molteplicità irriducibile dei

significati. Il linguaggio che intende qui Barthes non è quello del vocabolario, ma ne è allo

stesso tempo secondo ed anteriore: secondo in quanto è supportato materialmente dalle

parole delle lingue vive, ma originario in quanto contiene in sé l’infinità dei sensi

molteplici. Esso è costituito sul principio della natura arbitraria del segno linguistico, il

quale è il prototipo, secondo il credo strutturalista, di tutti gli altri segni. (Critique et vérité,

p. 21). Barthes propone dunque di sostituire all’autore come produttore del testo un’analisi

del discorso letterario basata sul modello della linguistica. Essa si sostituirebbe alla

filologia, intesa come critica oggettivante, ricerca del significato più giusto, più vero, fra la

Einaudi, 1985.

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schiera delle molteplici interpretazioni. La linguistica, a differenza della filologia, non mira

a ridurre le ambiguità del linguaggio, al contrario le istituisce, assume come proprio

oggetto di osservazione la polivalenza che può essere assunta dai segni (Op. cit. p. 41. Si

veda a questo proposito anche la parte finale di I regimi antropologici del senso, in Scritti,

cit. e, in generale, Elementi di semiologia in cui Barthes cerca di estendere il modello della

linguistica all’analisi di altri campi del sapere). L’autore, l’opera, sono solo il punto di

partenza di un’analisi il cui orizzonte è il linguaggio (Critique et vérité, p. 42):

all’ispirazione e il genio personale, Barthes oppone la grande logica dei simboli, le forme

vuote come vere fonti del parlare in cui il soggetto è sempre confuso (Ibid.).

Queste affermazioni sembrano riecheggiare molto da vicino la tesi della morte dell’uomo

in Les Mot set les choses e le conclusioni cui Foucault approda nel testo della conferenza.

L’autore è una figura variabile nel corso della storia, non definita tramite attribuzioni

spontanee, ma sempre legata alle pratiche proprie di una società in cui i testi vengono

trattati. Sia in Barthes che in Foucault si può ritrovare una concezione della letteratura che

la caratterizza di un’etica autonoma: questo è quanto emerge in tutta la produzione di

Barthes a partire da Il grado zero della scrittura, e così si può leggere l’interesse per la

letteratura che accompagna Foucault nel corso degli anni ’60 (a tal proposito si veda in

particolare l’intervista del 1970, Follia, letteratura, società). Per Barthes, così come per

Foucault, soggetto e autore incontrano un destino comune nel pensiero contemporaneo:

l’annullamento della loro capacità costituente e individualizzante. «un’analisi dell’opera

che non si riferisce alla psicologia, all’individualità, né alla biografia personale dell’autore,

ma a un’analisi delle strutture autonome, delle leggi della loro costruzione» (Intervista a

Michel Foucault, p. 180). Non si può negare che, in entrambi i pensatori, il discorso sulla

morte dell’autore si leghi ad una certa opposizione all’individuo della borghesia ed alla

tendenza psicologizzante che è emersa nella letteratura da esso inaugurata, così come alla

vicenda politica della ribellione anti-autoritaria del Maggio ’68. Un aspetto essenziale di

tale concezione è la problematizzazione del rapporto tra linguaggio e soggetto: il soggetto

dell'enunciato non è più la sua origine unica e assoluta, ma una funzione rivestibile da una

molteplicità di individui. Già secondo l’analisi che Foucault delinea in Le parole e le cose,

il linguaggio afferma con la letteratura moderna (la dicitura moderna in Foucualt sta ad

indicare il periodo che noi indichiamo come contemporaneo) la sua irriducibilità al

pensiero, l'impossibilità di fungere da pura traduzione delle rappresentazioni della

coscienza. Esso appare in tutto il suo essere frammentario, anonimo, disperso: mormorio

senza autore in cui esso mostra il suo essere più proprio e ritrova lo spessore che lo pone

come positività autonoma, quindi oggetto di scienza. Indipendente e dal soggetto parlante e

dagli oggetti designati, la materialità del linguaggio e la limitatezza delle parole ne

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favoriscono l'ambiguità fondamentale, aprono al linguaggio letterario un infinito spazio di

possibilità, di significati nuovi e inaspettati in cui ciò che si afferma non è più la parola di

Dio, né quella dell' uomo o dell’autore, ma il linguaggio stesso.

Tuttavia è importante non soffermarsi su queste prime somiglianze per spostare

l’attenzione sugli effetti della morte dell’autore, che in Foucault assumono un aspetto

peculiare. Una prima differenza esemplare sta nel fatto che Foucault è molto più restio nel

descrivere una storia lineare della figura dell’autore: ciò emerge nella conferenza, quando

egli mette in luce come, ad esempio nel XVII e XVIII secolo, vi siano stati atteggiamenti

diversi nei confronti dell’autorialità, ma anche già in Le Parole e le cose, in cui più che

delineare una continuità, Foucault si sofferma sui punti di rottura, descrivendo una storia

piena di décalages e di ibridi.

L’epoca che generalmente viene contraddistinta dall’emergere della soggettività

moderna, il XVII secolo, con gli sviluppi della questione riforma-controriforma e il

razionalismo cartesiano, segna, secondo Barthes, l’inizio della concezione moderna

dell’autore. Nelle descrizioni di Foucault essa resta, invece, ancora profondamente

impregnata di una concezione ordinata della natura da cui l’uomo, per effetto del dominio

della rappresentazione, non si distacca per costituire un ambito di studi autonomo (Le

parole e le cose, pp. 334-335). Allo stesso modo, quando nel XIX secolo il linguaggio

riacquisisce lo spessore che lo eleva ad oggetto di scienza, gli effetti della rappresentazione

continuano a farsi valere, creando così una situazione di alternanza continua tra commento

e critica, interpretazione e formalizzazione, per cui, secondo Foucault, a differenza di

Barthes, la filologia e la letteratura non sono altro che le due facce di una stessa medaglia

(Op. cit., p. 324) e, aspetto decisivo della singolarità della concezione foucaultiana, sono il

prodotto di una situazione storica determinata che ha avuto la sua origine nel XIX secolo.

Foucault, pur esprimendosi attraverso enunciazioni del tutto simili a quelle di Barthes,

comincia a diffidare della pretesa autonomia della letteratura rispetto al resto dei discorsi

teorici, così come del postulato strutturalista del primato del significante sul significato.

Ciò che viene interpretato come una peculiarità del linguaggio di creare effetti di

rappresentazione fondati sul puro gioco delle forme significanti, in Foucault viene letto

come modalità di un pensiero storicamente dato. Una tale concezione del linguaggio è

infatti legata ad un sistema (o episteme, o discorso) più generale avente origine nel XIX

secolo, di cui la letteratura è una delle manifestazioni. Tuttavia la letteratura, in quanto

discorso sul linguaggio puro, manifesta un certo carattere paradossale, per cui essa è allo

stesso tempo incompatibile con il discorso sull’uomo, poiché il linguaggio è sempre

anteriore al soggetto, e tuttavia costantemente ricondotta al campo del trascendentale e

all’emergere dell’uomo come oggetto di studio, dal momento che essa è uno dei prodotti di

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quella che Foucault chiama analitica della finitudine (Le parole e le cose, pp. 336 e ss.),

ovvero di un pensiero che tenta di definire le condizioni di possibilità della conoscenza a

partire dalla constatazione del limite finito della natura umana. Nell’ottica del medesimo

paradosso deve essere considerato lo statuto particolare di contro-scienza che Foucault

assegna alla linguistica strutturale (Le parole e le cose, pp. 407 e ss.): se da un lato conduce

inevitabilmente alla dissoluzione dell’uomo, dall’altro lato manifesta sempre i tratti della

riflessione trascendentale, poiché si fonda sull’opposizione significato/sistema, che emerge

solo in concomitanza con il discorso sull’uomo (Le parole e le cose, pp. 385 e ss.).

Quest’ultimo riconoscimento non può che far allontanare la posizione di Foucault da

tutte le posizioni strutturaliste, dal momento che queste, assumendo come principio il

modello linguistico del primato del significante, non fanno altro che mascherare una

ricerca di tipo trascendentale. Foucault, già in Le parole e le cose, volendo abbandonare la

ricerca del trascendentale attraverso lo studio comparato dei campi del sapere, si pone nei

confronti della linguistica alla distanza necessaria cui si pone l’osservatore e,

individuandola come momento storico di un’episteme determinata, quella moderna (o

contemporanea, vedi sopra), implicitamente mette in crisi la pretesa universalità delle sue

strutture (L’opposizione esplicita alla sovranità del significante continua ad essere presente

finanche in L’ordine del discorso, pp. 29-31). In Barthes c’è ancora una visione

fondamentalmente metafisico/teleologica, tant’è che il suo articolo si conclude sostituendo

l’autore al lettore, posizione che non risolve la problematicità dei rapporti tra letteratura e

soggettività. Date queste premesse, possiamo inoltre capire meglio la critica pronunciata da

Foucault all’interno della conferenza del ’69 nei confronti della nozione derridiana di

scrittura la quale secondo Foucault «traspon[e], in un anonimato trascendentale, i caratteri

empirici dell’autore» (Che cos’è un autore?, p. 6). Queste posizioni, qui criticate da

Foucault, in particolare l’idea di un ruolo attivo privilegiato del lettore nella comprensione

del testo letterario saranno la base che condurrà alla teoria letteraria di ispirazione

poststrutturalista radicata soprattutto negli Stati Uniti3.

Nonostante il riconoscimento di questa natura paradossale del linguaggio, che si riflette

nella letteratura e nella linguistica, non si deve tuttavia concludere che la posizione che

Foucault assume in Le parole e le cose porti ad un superamento di esse. Se da un lato si

può intuire un atteggiamento di sospensione tra il «compiere un balzo decisivo verso una

3Si vedano in particolare gli studi di Cullet: Jonathan Culler, Prolegomena to a theory of reading, in S. Suleiman, I . Crosman (a cura di) The reader in the text. Essay on audience and interpretation, Princeton, Princeton University Press 1980. Per uno sguardo panoramico sulla ricezione del poststrutturalismo negli Stati Uniti, in merito alla questione del lettore si veda: John Picchione, La rivolta del lettore: decostruzionismo e reading-response in America, Bologna, Parol 14, 1998. Per un dibattito interessante sugli sviluppi più recenti della critica letteraria di ispirazione poststrutturalista si veda il testo di Umberto Eco: Interpretazione e sovrainterpretazione. Un dibattito con Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose. Bompiani. MIlano 1995

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forma interamente nuova di pensiero oppure chiudere su se stesso un modo di sapere

costituito nel secolo precedente» (Le parole e le cose, p. 331), non si può negare che

l’intento di Le parole e le cose sia quello di mettere in risalto il ruolo fondamentale di

letteratura e linguistica nella vicenda della morte dell’uomo. Quest’atteggiamento, che

mostra allo stesso tempo un suolo di premesse comuni e la necessità di un proseguimento

in una direzione differente, emergerà in maniera distinta solo negli anni successivi e la

stessa conferenza sull’autore ne è una testimonianza dal momento che qui Foucault

dichiara esplicitamente di voler portare alle estreme conseguenze le premesse che Le

parole e le cose aveva enunciato (Che cos’è un autore?, p. 4). Allo stesso modo, se

pensiamo a L’archeologia del sapere, e allo scopo che essa si pone, cioè trovare un metodo

di indagine sulla comparsa e la produzione di queste positività epistemiche, che sigilli una

volta per tutte la scomparsa della soggettività e del trascendentale, è chiaro che le categorie

da adottare devono andare oltre il modello della linguistica.

Lo scopo di Foucault non è elaborare una disciplina che attraverso lo studio delle forme

pure permetta di fare emergere il linguaggio come l’insieme soggiacente del non detto e

dei significati molteplici. La concezione secondo cui la letteratura non fa altro che parlare

di se stessa e del proprio linguaggio, e costituisce dunque la via d’accesso privilegiata per

lo studio di quest’ultimo, non è più sufficiente. Ciò è provato dal fatto che Foucault

adotterà sempre più il termine discorso invece che linguaggio. Egli non studia il

linguaggio, ma il discorso in quanto insieme delle rappresentazioni epistemiche in un

momento storico determinato, «il fatto che alcune parole abbiano avuto luogo» (Sui modi

di scrivere la storia, p 163). Dire che i significati sono prodotti dai discorsi, e che non

esistono significati al di fuori dei discorsi, non equivale a dire che essi sono subordinati

alla forma vuota dei significanti; equivale piuttosto alla convinzione che i significati

esistano solo all’interno di un preciso contesto storico. Questa convinzione emerge in

maniera accennata già in Le parole e le cose, dove Foucault afferma la necessità di andare

alla radice dell’opposizione tra interpretazione e formalizzazione, fra l’uomo e i segni e

diventa ancor più esplicita in L’archeologia del sapere, nelle cui pagine Foucault fornisce

una struttura teorica all’idea che siano le produzioni discorsive il modo fondamentale di

costruzione di un oggetto, quindi di un’opera e della figura stessa dell’autore. In contrasto

con la tendenza astorica dello strutturalismo, esemplificata da Barthes nel momento in cui

parla di trans-storicità del linguaggio (La mort de l’auteur, p. 65) Foucault suggerisce di

analizzare come i discorsi, le rappresentazioni, e tra queste anche quella della figura

dell’autore, vengono storicizzati.

In un’intervista del 1970, molto interessante relativamente alla nostra ricerca, Foucault si

rifà esplicitamente al carattere autonomo ed intransitivo della scrittura che ritroviamo

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esemplificata negli scritti di Barthes, soffermandosi sull’aspetto trasgressivo di questa.

(Follia, letteratura, società, p. 271 e ss; il concetto di scrittura come trasgressione in

Barthes attraversa l’intera opera Il grado zero della scrittura). Se la scrittura, da Sade fino

a Bataille e Blanchot, ha potuto creare il luogo di un’etica autonoma destinata a fare

scandalo in mezzo alla rete degli altri discorsi, la possibilità di una funzione sovversiva e di

autentica trasgressione della scrittura all’interno del mondo contemporaneo è pressoché

scomparsa, dal momento che essa è stata recuperata all’interno del sistema borghese-

capitalista (cfr. Follia, letteratura, società, pp. 274-275. Questo discorso viene riaccennato

brevemente in L’ordine del discorso, pp. 25-27, in cui Foucault paragona la «scrittura» ad

una forma di assoggettamento). Oltre ad insistere ulteriormente sul fatto che l’autonomia

della letteratura sia una caratteristica puramente storica e non essenziale, Foucault afferma

qui esplicitamente la necessità di integrare l’attività letteraria con un’azione di tipo

politico. Parlando di Sade, Foucault afferma: «Mi interesso alla letteratura, nella misura in

cui è il luogo in cui la nostra cultura ha operato alcune scelte originarie» (Follia,

letteratura, società, p. 265). La condizione storica in cui la scrittura e la letteratura

potevano crearsi un mondo autonomo dalle ideologie è venuta meno: Barthes, e quelli che

come lui affermano l’intransitività della scrittura, non fanno che dilatare il discorso

appartenente ad un’epoca conclusa, di cui Blanchot, il quale ancora seppe costituire con la

letteratura «uno spazio irriducibile allo spazio reale» (Follia, letteratura, società, p. 280)

rappresenta l’ultimo grande emblema. In questa conferenza si capisce così il passaggio,

apparentemente così oscuro e immotivato, dall’interesse nei confronti del linguaggio e

delle opere letterarie allo studio delle forme di potere.

Questo tipo di discorso non è senza conseguenze riguardo al problema dell’autore. La

letteratura contemporanea, identificandosi con un luogo neutro, una zona di etica

autonoma, è diventata l’alibi che scagiona colui che scrive, alleggerendolo della

responsabilità della sua opera. Identificando nello scrittore il luogo passivo in cui si

incontra un linguaggio superiore, ha cancellato l’atto linguistico che lega l’autore alla sua

opera e che sta all’origine della figura dell’autore come referente giuridico delle parole

pronunciate o scritte (Che cos’è un autore?, pp. 9-10). L’insistere da parte di Foucault

sulla problematicità di certe caratterizzazioni tradizionali della figura dell’autore, ritenute

oggi traballanti, sulla dispersione degli elementi attraverso cui la critica tradizionale ha

individualizzato l’autore, non equivale al decretarne la sua morte assoluta. Alla luce della

critica che Foucault pronuncia nell’intervista precedentemente citata, bisognerebbe

domandarsi se egli, piuttosto che sigillare con la propria firma il verbale della morte

dell’autore, non voglia suggerire una linea d’azione diversa. Quando egli parla di funzione-

autore, infatti, si pone seriamente il problema di occuparsi dei fitti intrecci di relazioni che

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ne prendono il posto, in opposizione all’abbandono al relativismo di un linguaggio

anonimo e scevro di ogni interesse etico e politico. «Un’ermeneutica che si ripiega su una

semiologia crede all’assoluta esistenza dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto,

l’infinità delle interpretazioni per far regnare il terrore dell’indice, e sospettare il

linguaggio» (Nietzsche, Freud e Marx, p. 146). La neutralità dell’analisi dei significanti

linguistici rinnega il compito primo della filosofia, così come esso prorompe nei testi di

Nietzsche, che è quello di «impadronirsi, violentemente, di un’interpretazione già esistente

che deve rovesciare, capovolgere, fare a pezzi a martellate» (Nietzsche, Freud e Marx, p.

143).

Per comprendere come l’analisi cosiddetta archeologica assume d’un colpo un posto così

determinante a discapito dell’interesse per la critica letteraria è infatti indispensabile citare

Nietzsche, come riferimento costante delle riflessioni foucaultiane. Nietzsche infatti, nel

momento in cui, nella Genealogia della Morale, vede nel linguaggio, e in chi lo detiene, il

fondamento del potere che genera i discorsi filosofici e morali, pone per primo la domanda

sul «chi parla» come centrale per la filosofia. A tale interrogativo la letteratura ha

controbattuto con il motto già citato «Cosa importa chi parla?». Foucault parla qui di una

distanza mai colmata (Le parole e le cose, p. 330) entro cui si situano tutti gli studi sul

linguaggio che hanno portato alla dissoluzione dell’uomo/soggetto/autore. Vorrei tuttavia

soffermarmi un momento sull’aspetto contradditorio di questo botta e risposta, per mettere

in luce come la risposta non annulli l’attualità della domanda sul «chi parla». Quando

Foucault vi insiste, nel corso della conferenza sull’autore, non può fare a meno di citare di

seguito l’autore/autorità, cioè Beckett, che ha emesso tale enunciazione; così facendo,

volutamente o meno, Foucault non fa che enfatizzare lo statuto problematico, ai limiti della

contraddittorietà, della questione sull’autore. Non è così semplice sbarazzarci di lui,

sembra volerci suggerire Foucault: il vuoto lasciato dal soggetto deve fare scattare una

ricerca ancora più approfondita che risponda dell’impegno filosofico che la domanda di

Nietzsche ha posto.

Abbandonare la letteratura significa inaugurare una teoria delle pratiche discorsive che

non poggi esclusivamente sullo studio delle forme di linguaggio. Se il linguaggio continua

ad incarnare uno dei luoghi privilegiati in cui il sapere si manifesta, la questione centrale

non consiste nello studiare le sue forme: esso non è altro che una superficie di una trama

molto complicata che si apre dietro di esso. Ciò, più che costituire una vera e propria svolta

all’interno del pensiero foucaultiano, costituisce piuttosto la radicalizzazione di una pratica

che era già presente sin dalle primissime opere. Il problema del linguaggio in Foucault non

è mai separabile da altri due temi fondamentali, follia e trasgressione, che si incrociano

continuamente, delineando, nel punto della loro intersezione, il vuoto lasciato dal soggetto.

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Per questo motivo si può capire come il linguaggio in Foucault non assuma lo stesso

statuto autoreferenziale che ritroviamo nello strutturalismo di Barthes. Esso non pone le

condizioni formali dello studio delle altre discipline, con le quali, al contrario, non cessa di

intrecciarsi. Al linguaggio subentra il discorso, alla letteratura, l’archivio.

Queste sono le ragioni per cui, benché l’interesse per la letteratura in l’Archeologia del

sapere sia scomparso dagli elementi del primo piano, Foucault continua a fare ampio

riferimento al discorso sull’autore. A testimonianza del fatto che il suo interrogarsi non si

limita ad un problema che riguarda esclusivamente il linguaggio letterario, comparabile

pertanto con le tesi di Barthes. Il problema dell’autore è un caso particolare della ricerca

metodologica cui Foucault offre un dispiegamento teorico nell’Archeologia del sapere:

come trattare certe unità epistemologiche a noi familiari, quali quelle di autore, libro,

scienza, teoria, all’interno di un’analisi che procede proprio smembrandole? Foucault

risponde facendo entrare in gioco, a fianco delle pratiche discorsive, delle pratiche non-

discorsive (L’archeologia del sapere, pp. 68 e ss; 89 e ss.). Per comprendere la funzione-

autore è dunque indispensabile concentrarsi sul regime e i processi di appropriazione del

discorso, ovvero sul come si definisca il diritto di qualcuno a parlare e ad essere

competente nella comprensione di un certo tipo di discorso, chiamando in causa elementi

esterni quali il desiderio, gli interessi e i rapporti di potere. Lo statuto di autore comporta

innanzitutto un sistema di differenziazione e di rapporti a diversi livelli: con altri individui

che hanno anch’essi lo stesso statuto, con il potere politico o, come si è visto, con quello

giuridico.

Non a caso nel discorso foucaultiano è del tutto rilevante il ricorso all’esempio della

filosofia analitica, a cui Foucault comincia ad interessarsi già dall’anno della pubblicazione

di Le parole e le cose, (si veda la bibliografia indicata in Archivio Foucault 1, p. 41) e alla

tradizione degli atti linguistici. Gli studi degli analitici permisero a Foucault di

comprendere meglio il linguaggio nel suo funzionamento concreto, quindi la definizione

del discorso in quanto pratica (L’archeologia del sapere, p. 63). Si prenda l’analisi dei

nomi propri enunciata da Searle (Atti linguistici, pp. 212 e ss.): essa descrive la

problematicità che lega il nome dell’autore alla produzione che gli viene attribuita.

Secondo Searle il nome proprio non è una funzione puramente denotativa né tantomeno

descrittiva, in quanto tale distinzione ne presume un’opposizione sostanziale tra oggetti e

proprietà, individui e predicati, rinviando inevitabilmente ad una metafisica platonica. Il

nome, secondo Searle, designa piuttosto un criterio elastico di identificazione (Atti

linguistici, p. 223-224). Foucault adotta le riflessioni di Searle per concludere che l’atto

linguistico da cui si ottiene il nome dell’autore implica una pratica diversa dal nominare un

semplice elemento del discorso. Quindi se l’autore come individualità scompare, resta la

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funzione classificatoria che permette di fare luce sui rapporti di omogeneità, di filiazione,

d’autentificazione, di spiegazione reciproca o concomitante tra differenti testi che si

ritengono attribuibili alla stessa persona: essa permetterebbe di delineare la figura

dell’autore dall’esterno, come sagoma vuota che si crea dall’intersezione delle diverse

pratiche che compongono la funzione-autore.

La funzione-autore indica inoltre che un certo tipo di discorso assume una valenza ed

un’importanza specifica; segnando una rottura con il discorso da cui ha preso le mosse,

essa «dà vita a un certo gruppo di discorsi e al suo modo di essere [singolare]4 […] è

quindi caratteristica di un certo modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di

certi discorsi all’interno di una società» (Che cos’è un autore?, p. 9). Si potrebbe associare

questi procedimenti alle categorie elaborate da Foucault in L’archeologia del Sapere, in

cui si propone un’analisi degli enunciati in base ad un principio di rarefazione, il quale si

propone di filtrare tutto ciò che rimanda ad un’intenzione soggiacente per fare emergere la

singolarità dell’enunciato in quanto evento, così come esso si presenta nel suo aspetto più

esplicito e superficiale (Cfr. L’archeologia del sapere, pp. 159 e ss.). La funzione-autore,

sprovvista delle caratteristiche di interiorità e intenzionalità, si collocherebbe precisamente

entro questo tipo di pratiche. In un’intervista di qualche anno prima Foucault insiste,

citando non a caso l’esempio di Blanchot, sul nome come funzione primordiale: «è

attraverso il nome che in un’opera si segna una modalità irriducibile al mormorio anonimo

di tutti gli altri linguaggi» (Sui modi di scrivere la storia, p. 161). Tuttavia se il nome

dell’autore si oppone all’anonimato del linguaggio, esso è funzione primordiale non in

quanto costituisce un’interiorità originaria o un’intenzione soggiacente, ma in quanto è una

costruzione fondamentale che permette di comprendere il funzionamento della cultura e

delle istituzioni contemporanee.

La funzione-autore sostituisce al nome di un’individualità la molteplicità dei discorsi

sulla modalità di circolazione, di valorizzazione, di attribuzione, di appropriazione dei

discorsi; è per questa ragione che Foucault propone di sostituire all’autore il ruolo di

fondatore di discorsività (Che cos’è un autore?, pp. 15 e ss.), concetto piuttosto

enigmatico, il quale, a mio avviso, potrebbe essere parafrasato come moltiplicatori di

discorsi. Un fondatore di discorsività, ad esempio, Marx o Freud, segna l’avvento di una

nuova metodologia per lo studio del sapere dal momento che, come già Foucault rilevava

in una conferenza del 1964, nel suo pensiero «più ci si inoltra nell’interpretazione e più ci

si avvicina, contemporaneamente, a una regione molto pericolosa nella quale non solo

l’interpretazione incontra il suo punto di capovolgimento, ma dove essa stessa scompare

4 Il traduttore omette qui inspiegabilmente il termine «singulier» presente nel testo originale (Dits et écrits, p. 798) e a mio avviso non trascurabile.

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come interpretazione, portando forse con sé la scomparsa dello stesso interprete»

(Nietzsche, Freud e Marx, p. 142). Benché la distanza che separa il Foucault del 1964 a

quello del 1969 sia notevole, resta, a mio avviso, in Foucault la convinzione che vi siano

alcuni casi in cui la funzione-autore esercita un ruolo particolare. Paradossalmente,

nell’intento di porre fine all’autore come individuo, Foucault si rivolge alla peculiarità di

certe figure, quali Freud e Marx, le quali, rendendo possibile un discorso fondato non tanto

su analogie quanto sulle differenze (Che cos’è un autore?, p. 15), permettono la

proliferazione infinita di altri discorsi e delineano quindi la condizione formale

dell’esistenza delle discipline (Cfr. L’ordine del discorso, p. 21).

Questa tematica sul proliferare infinito dei discorsi ci richiama da vicino alle tesi esposte

in L’ordine del discorso. È dunque possibile rintracciare già nella conferenza qualche

accenno allo studio del controllo delle pratiche discorsive, che si fa spazio nella prolusione

tenutasi un anno dopo, quindi alla questione dei rapporti di potere? Sicuramente questa

tematica non emerge improvvisamente nel pensiero foucaultiano: l’idea del moltiplicarsi

all’infinito dei discorsi non può essere separato dall’interrogarsi sui rapporti di potere. Già

in un’intervista del 1968 Foucault afferma che ciò che caratterizza la cultura

contemporanea non è voler sapere tutto, ma voler dire tutto, moltiplicare all’infinito gli

oggetti dei discorsi (Intervista a Michel Foucault, p. 189). Il discorso ha un legame molto

stretto sia con il desiderio sia con il potere, non tanto poiché nasconde il desiderio o perché

è strumento ideologico del sistema dominante: il discorso stesso è in primo luogo oggetto

di desiderio, ciò di cui il potere cerca di impadronirsi (L’ordine del discorso, p.13).

L’unico modo per impadronirsi del discorso, immettersi nel suo grande anonimato, è

isolarlo, delimitarlo, definire l’opposizione (partage5) per cui esso può essere vero o falso,

imporre dei nomi, così come quelli degli autori, la cui autorità ostacoli questo proliferare.

La traduzione italiana della conferenza sull’autore omette le varianti che Foucault

pronunciò, pochi mesi dopo, nel marzo del 1970, a Buffalo, negli Stati Uniti. Tuttavia ve

n’è una in particolare (Dits et écrits, p. 811) che è piuttosto significativa, in quanto

inaugura esplicitamente una terminologia e un approccio nei confronti dell’autore, intesa

come figura ideologica, che saranno poi ripresi in L’ordine del discorso, quando l’analisi

delle forme di controllo delle produzioni discorsive diventa più esplicita. Foucault, davanti

al pubblico di Buffalo, parla di un proliferare pericoloso dei discorsi (Cfr. anche L’Ordine

del discorso, p. 12), in opposizione al quale l’autore si pone come principio di economia,

di rarefazione, secondo l’espressione adottata in seguito (L’ordine del discorso, pp. 19-23). 5 Il termine francese partage, nell’accezione usata da Foucault, non ha un equivalente italiano che possa restuire la molteplicità di significati che esso comporta. Esso indica, infatti, al contempo un’opposizione a partire da un campo già condiviso (e in questo senso si potrebbe tradurre con ripartizione) e, soprattutto per quanto riguarda la connotazione foucaultiana, l’istituzione di campi di applicazione in cui l’opposizione si esercita come meccanismo di potere.

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C’è dunque una doppia tendenza che emerge dall’accostare il tema dell’autore allo studio

dei rapporti di potere, tendenze che emergerà più tardi in maniera esplicita (si veda ad

esempio La volontà di sapere così come l’introduzione di L’uso dei piaceri): non c’è

separazione fra il proliferare di un discorso, il rapporto che questo detiene con il desiderio

di moltiplicarsi all’inifinito, e il discorso sul potere che per impadronirsene lo limita.

Questa volontà di impadronirsi del discorso, volontà di dire, viene letta da Foucault come

la chiave fondamentale che ha permesso che, nei diversi contesti storici, si producessero

certi tipi di opposizioni (partages) tra il discorso vero e quello falso (L’ordine del discorso,

p. 17). La funzione-autore deve essere considerata pertanto all’interno del metodo critico-

genealogico che Foucault applica allo studio dei sistemi di verità che delimitano le pratiche

discorsive, funzione che non si manifesta mai in maniera omogenea nel corso della storia

né tanto meno nei diversi ambiti del sapere: l’autorialità scientifica ha un effetto di verità

diverso rispetto a quello incarnato da una figura come Freud nei confronti della

psicoanalisi. Questo progetto abbozzato da Foucault negli anni successivi si tradurrà in uno

studio molto approfondito sui rapporti di potere e sugli effetti di verità che essi producono;

sebbene il tema esplicito dell’autore tenda a scomparire, in concomitanza con lo

scomparire dell’interesse nei confronti della letteratura, sarebbe sbagliato vedere in esso un

concetto ininfluente nella produzione successiva: al contrario esso permette di abbordare

certi concetti come quello di proliferazione, rarefazione e controllo dei discorsi che nel

Foucault degli anni ’70 sono fondamentali.

Per concludere vorrei citare una frase divenuta ormai celebre per il suo carattere

paradossale, posta da Foucault alla fine dell’introduzione di L’archeologia del sapere, la

quale, a mio avviso, riassume efficacemente le posizioni che il filosofo elabora intorno alla

figura dell’autore: «non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una

morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di

scrivere» (L’archeologia del sapere, p. 20). L’autore non scompare, continua a scrivere,

nonostante la sua individualità sia stata travolta dal partage tra il desiderio, che moltiplica i

discorsi, e il potere, che li limita.

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Bibliografia delle opere citate:

· Roland Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Paris, Seuil, 1953

· Roland Barthes, Sur Racine (1963) in Oeuvres complètes Tome 1, 1942-1965,

Paris, Seuil, 1993,pp. 983-1106.

· Roland Barthes, Critique et vérité (1966), in Oeuvres complètes, tome 2, 1966-

1973, Paris, Seuil, 1994

· Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968), in Le bruissement de la langue, Paris,

Seuil, 1984, pp. 61-67

· Roland Barthes Scritti, a cura di Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi 1998.

· Michel Foucault, Le parole e le cose (1966), Milano, Rizzoli, 1998

· Michel Foucault, Michel Foucault, Le parole e le cose (1966), in Archivio Foucault

1. 1961-1970, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di Judith Revel, Milano,

Feltrinelli, 1996, pp. 110-116

· Michel Foucault, Nietzsche, Freud e Marx (1967), in Archivio Foucault 1, cit., pp.

137-146

· Michel Foucault, Sui modi di scrivere la storia (1967), in Archivio Foucault 1, cit.,

pp. 153-169

· Michel Foucault, Intervista a Michel Foucault (1968), in Archivio Foucault 1, cit.,

pp. 178-190

· Michel Foucault, Que est-ce que un auteur?(1969), in, Dits et écrits, Paris,

Gallimard, 1994, pp. 789-821. Traduzione italiana a cura di Cesare Milanese, Che

cos’è un autore?, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 1-21.

· Michel Foucault, L’archeologia del sapere (1969), Milano, Rizzoli, 1997

· Michel Foucault, Follia, letteratura, società (1970), in Archivio Foucault 1, cit.,

pp. 262-286

· Michel Foucault, La situation de Cuvier dans l’histoire de la biologie (1970), in

Dits et écrits II, Paris, Gallimard, 1994, pp. 30-66

· Michel Foucault, L’ordine del discorso (1971), in Il discorso, la storia, la verità,

Torino, Einaudi, 2001, pp. 11-41.

· Michel Foucault, Entretien avec Michel Foucault (1980), in Dits et écrits IV 1980-

1988, Paris, Gallimard, 1994, pp. 41-95.

· Michel Foucault, Structuralisme et poststructuralisme (1983), in Dits et écrits IV,

cit., pp. 431-457

· John Searle, Atti linguistici (1969), Torino, Bollati-Boringhieri, 1976.

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