MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

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MICHAEL HESEMANN TITVLVS CRVCIS La scoperta dell'iscrizione posta sulla croce di Gesù Prefazione di CARSTEN PETER THIEDE SAN fftOLO

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Studio storico dell' INRI della croce di Gesù.

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MICHAEL HESEMANN

TITVLVS CRVCIS

La scoperta dell'iscrizione posta sulla croce di Gesù

Prefazione di CARSTEN PETER THIEDE

SAN fftOLO

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Titolo originale dell'opera Die Jesus-Tafel. Die Entdeckung der Kreuz-Inschrift

© Verlag Herder, Freiburg-Basel-Wien 1999

Traduzione dal tedesco di Olivia Pastorelli (Introduzione e capp. 1-6) e Marino Parodi (cap. 7 e Appendici)

Foto: Michael Hesemann: figure 2 , 1 2 , 1 4 , 1 6 , 1 7 , 22 ,23 ,24 tavole II, IV, V, VII, X Ferdinando Paladini: tavola IX L'Osservatore Romano: tavola XI Tute le altre illustrazioni: archivio Herder

© EDIZIONI S A N PAOLO s.r.I., 2000 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) http://www.stpauls.it/libri Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 -10153 Torino

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PREFAZIONE di Carsten Peter Thiede

Il famoso patrologo Hippolyte Delehaye osservò con sottile ironia che non ogni reliquia eminente sopra ogni dubbio deve necessariamente essere non autentica. In effetti molti sempli-ficano eccessivamente la questione, il loro lavoro è guidato dal-l'interesse, rinunciano alle nuove analisi critiche o conoscono fin dall'inizio di un'indagine il suo risultato finale. Non dimen-ticherò facilmente le espressioni trionfanti dipinte sul volto de-gli scienziati che avevano sottoposto la Sindone di Torino alle analisi del radiocarbonio, mentre comunicavano all'opinione pubblica che la tela risaliva al XIV secolo. La soddisfazione era evidente: essi potevano presentare il risultato che, insieme a mol-ti altri, auspicavano. E noto da tempo quanto quell'indagine sia stata discutibile, come pure la problematicità complessiva del-l'analisi del C44; da tempo sono noti gli argomenti archeologici, biologici e storici a favore della provenienza della tela dal Le-vante e della sua datazione al I secolo d.C. Ma rimane lo sgra-devole ricordo di un evento in cui si è avuta l'impressione che un metodo scientifico sia stato utilizzato con scopi ben precisi. È inoltre vero che, a indagare in maniera critica o a sollevare obiezioni quando le reliquie vengono dichiarate per principio oggetti della pietà popolare tardo-antica indegni di fede o stru-

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menti delle ambizioni di potere dei prìncipi della Chiesa, si cor-re il rischio di passare per ultraconservatori, fondamentalisti o semplicemente osservanti rigorosi. I mezzi sono tanto traspa-renti quanto efficaci. Chi per esempio non ha mai letto l'argo-mentazione con cui viene liquidata ogni reliquia della croce, se-condo cui con tutti questi frammenti si potrebbe mettere in-sieme un'intera foresta, e chi sa o osa replicare con semplicità che invece, assommando tutti i frammenti della croce, questi non basterebbero nemmeno a ricomporre il palo di una sola croce?

In uno scenario come quello descritto, ha un effetto dirom-pente l'indagine meticolosa, da parte di uno storico e antropo-logo culturale che non fa mistero della sua fede cattolica in-tensamente vissuta, su ciò che noi oggi veramente sappiamo riguardo agli elementi centrali della tradizione correlati al Ge-sù storico. Al centro dell'indagine sta l'iscrizione della croce, il titulus, che secondo la prassi giudiziaria romana descriveva il reato per cui un delinquente veniva condannato alla morte in croce. Non solo i precedenti, che non mancano nell'ambito del diritto romano, ma anche i quattro Vangeli non lasciano dubbi a proposito dell'esistenza del titulus. Proprio le sfumature nel te-nore dei quattro resoconti evangelici sottolineano la loro stori-cità: nessuno poteva avere l'intento di armonizzare le versioni o di fingere che, in quelle ore estremamente drammatiche, qual-cuno fosse rimasto ai piedi della croce con un blocco da steno-grafo. Si tramandò ciò che si era visto, prima di bocca in bocca, poi per iscritto. E, com'era già accaduto per altri episodi, era Giovanni a mostrare il maggior interesse per questo particola-re. Lo storico è subito colpito dalla precisione giuridica e dalle tre lingue in cui è riportato il testo dell'iscrizione, che molto pro-babilmente Giovanni conosceva.

Ma anche le versioni ridotte del titulus fornite dai tre Vange-li sinottici conservano il nucleo comune: Gesù fu giustiziato dal prefetto romano, rappresentante del diritto imperiale vigente, perché non voleva negare di essere il re dei giudei, un titolo che solo l'imperatore romano poteva sancire e conferire. Era in gra-do Pilato di comprendere che tipo di re fosse Gesù? Gli bastò

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attenersi ai fatti e renderli visibili a tutti. Perché proprio que-sto era importante: dovevano vederlo tutti, quel titulus', sulla col-lina del Golgota, nelle immediate vicinanze del muro cittadi-no da cui i curiosi si affacciavano a guardare, come pure sotto, dalla strada che dalla porta della città andava in direzione nord-ovest.

Quel titulus esisteva, e i primi resoconti dei pellegrini cristia-ni che visitavano Gerusalemme lo menzionano. Nulla depone contro il fatto che si sia conservato dopo la crocifissione di Gesù; certo non gli accenni nelle fonti più antiche, secondo le quali fu rinvenuto in un antico pozzo: ogni archeologo sa che umidità e fango sono i migliori garanti della conservazione di iscrizioni in legno, come attestano per esempio anche le tavo-lette romane di Vindolanda, nei pressi del Vallo di Adriano.

Non ultimo, l'impresa di Michael Hesemann sta anche nel-l'esame accurato e non superficiale delle diverse fonti della tra-dizione; anzi, egli ha affrontato un dispendioso, faticoso per-corso, recandosi in loco, a Roma e a Gerusalemme, per confe-rire direttamente con gli esperti. L'aspetto più significativo di queste ricerche è che anche gli studiosi israeliani di epigrafia e paleografia ritengono probabile una datazione del frammento conservato oggi nella chiesa romana di Santa Croce in Geru-salemme a un'epoca precedente a quella dell'imperatrice ma-dre Elena.

È un percorso di conoscenza che aggiunge importanti contri-buti alle mie stesse indagini - cui Michael Hesemann rimanda in questo libro. Le particolarità della scrittura mi sono sempre parse deporre a favore di una sua collocazione temporale nel I secolo. E che ci siano buone motivazioni storiche per tali con-clusioni di massima è stato dimostrato già alcuni anni or sono dallo svedese Stephan Borgehammar, che ha potuto ricostruire l'autentico reperto della storia di Elena. Tùtto ciò non è privo di conseguenze: perché se l'iscrizione risale a un'epoca preceden-te al viaggio di Elena a Gerusalemme, che segnò il rinvenimen-to della tavoletta, allora non c'è alcun momento storico in cui possa essersi verificato Un evento esterno tale da giustificare la

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sua «fabbricazione» - con un'unica eccezione, appunto: le ore precedenti alla crocifissione di Gesù.

C'è da sperare che il libro di Hesemann infonda il coraggio necessario per affrontare di nuovo la questione di principio del valore storico da attribuire alle reliquie più antiche in modo obiettivo, corretto e con la disponibilità ad accettare che il Cri-sto della fede non è separabile dal Gesù della storia.

Beer-Sheva e Basilea, Pentecoste 1999

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INTRODUZIONE

GESÙ: LA PROVA?

Roma, 19 maggio 1997

I festeggiamenti tradizionali per la Pentecoste erano termina-ti, e come tutti gli anni, alle 12, papa Giovanni Paolo lisi era pun-tualmente affacciato alla finestra della sua residenza per impar-tire la benedizione ai fedeli che attendevano in piazza San Pie-tro. Era un anno particolare, il primo di quegli ultimi tre del secondo millennio che il pontefice aveva dedicato alle tre perso-ne della Santissima Trinità. Ma il Giubileo del 2000 proiettava la sua ombra sulla città anche in un altro modo. L'intera Roma si era trasformata in un cantiere, dappertutto erano in corso lavori di ristrutturazione e di restauro, le facciate degli edifici veniva-no rivestite e le strade ripavimentate, si ripuliva la città per VAn-no Santo, in occasione del quale si attendevano fino a 30 milioni di visitatori. Allora tutte le strade avrebbero davvero portato a Roma, mentre gli abitanti della Città Santa temevano la grande confusione che si sarebbe potuta verificare in quei giorni, perché già prima il traffico era regolarmente al collasso e mancavano i posti letto negli alberghi.

Anche la strada che conduce alla basilica di Santa Croce pas-sa attraverso vie ampie ma per lo più intasate dal traffico. An-

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cora oggi il tracciato stradale e gli edifici della parte sudorienta-le di Roma conservano qualcosa della grandiosità con cui in pas-sato fu edificato questo quartiere ricco di giardini e di palazzi. Anche davanti a Santa Croce si trova un ampio piazzale con un grande prato, palme isolate e numerosi parcheggi per i visi-tatori della chiesa e per i pullman dei pellegrini. Lo stile com-posito della chiesa mi irritava. La facciata barocca mal si armo-nizzava con il campanile romanico e con la semplice, grigia fac-ciata del convento medievale. Questa «disomogeneità di stile» non è rara a Roma e ha un certo suo fascino. Molte chiese romane presentano aggiunte e «abbellimenti» accumulatisi nel corso dei secoli, pur coìiservando accuratamente intatto il nucleo origina-rio. Ma questa, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme - è questo il suo nome completo - è considerata sin dal medioevo una delle sette chiese principali di Roma e uno dei luoghi sacri più significativi di tutta la cristianità. Una fama indubbiamente da ascriversi anche alle preziose reliquie che io stesso ero venu-to a visitare.

Ciò nonostante, quando salii i gradini che conducevano al por-tale della basilica, non ero ancora consapevole di come questa vi-sita avrebbe cambiato la mia vita. Oltrepassai il chiosco delle car-toline e delle guide turistiche ed entrai dal portale principale. Rimasi subito meravigliato dalla magnificenza degli affreschi del-la volta sovrastante l'altare maggiore. Mostrano, attorno a Cristo assiso in trono, alcune scene del rinvenimento della santa croce a Gerusalemme, di quella leggenda cui la veneranda basilica de-ve la propria fama e la propria importanza. Perché, stando a un'antica tradizione cristiana, sant'Elena, madre dell'imperatore romano Costantino il Grande, avrebbe portato la reliquia della croce di Cristo da Gerusalemme a Roma. Qui, sempre secondo la leggenda, l'avrebbe collocata nella propria cappella a palazzo, sul cui pavimento sparse del terriccio proveniente dalla collina del Golgota. Su questo luogo sacro sorse nel corso dei secoli la basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

Ancora oggi le presunte reliquie della passione di Cristo so-no esposte al pubblico in una cappella appositamente eretta a

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questo scopo e il cui ingresso si trova sul lato sinistro della na-vata. Quando entrai, il mio sguardo cadde subito sull'enorme tra-ve di legno che si suppone sia appartenuta alla croce del buon la-drone, uno degli uomini che furono crocifìssi con Gesù in quel tetro venerdì sul Golgota. Piuttosto incredulo e irritato da cotan-ta sicurezza - come essere certi che non provenga invece dalla croce del suo sarcastico compagno? - oltrepassai quel reperto, protetto da robuste sbarre, e salii le tre rampe di scale, ognuna di tre gradini, che portavano alla cappella delle reliquie vera e pro-pria. Questa scalinata marmorea, contornata dalle stazioni bron-zee della via crucis, pareva una moderna reminiscenza del mon-te Calvario. Al centro della cappella cui conduceva la scalinata, c'era un altare sormontato da un baldacchino a cupola sorretto da quattro colonne marmoree. Dietro l'altare si trovavano allo-ra, incastonate nella parete dell'abside, le reliquie della passione di Cristo (dal novembre 1997 le reliquie sono esposte sull'altare a cibolum in una teca di vetro antiproiettile).

Aggirai l'altare per avvicinarmi il più possibile alle reliquie. Volevo vedere con la massima precisione possibile cos'era con-tenuto nei cinque sfarzosi reliquiari d'argento del XIX secolo, sormontati dal maestoso reliquiario della croce adornato d'oro. Secondo le descrizioni, si trattava di tre frammenti della croce, un chiodo, due spine della corona del Signore, pietrisco di Gerusa-lemme e di Betlemme, un dito dell'apostolo Tommaso e infine un frammento dell'iscrizione della croce: il titulus crucis/

Nella vita ci sono sempre situazioni in cui cuore e ragione, ani-ma e intelletto entrano in conflitto tra loro: fu ciò che mi accadde in quel momento. Il cristiano dentro di me nutriva profondo rispetto dinanzi alle mute, forse autentiche testimonianze della passione del Signore; lo studioso invece era scettico ed esigeva delle prove. E lo sapevo: proprio da questa umana, fin troppo umana esigenza di prove, di conferme fisiche alla verità della fe-de, scaturiva la venerazione delle reliquie. A maggior ragione, fin dai tempi dei miei studi di storia medievale e di etnologia eu-ropea all'università di Gòttingen, sapevo che ci si deve accostare

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alla questione con la massima prudenza. Perché per tutto il me-dioevo il culto delle reliquie produsse i frutti più assurdi, dive-nendo terreno fertile per la creazione delle più singolari falsifi-cazioni, le quali avevano un unico scopo: attirare persone in-genue che speravano in un miracolo verso i santuari, al cui fiorente rigoglio contribuivano attivamente. Questo almeno era riportato nei libri di testo ed era insegnato a noi studenti.

Ora, effettivamente numerose reliquie non possono nem-meno essere prese in considerazione. Nel monastero di San Me-dardo a Soissons, in Francia, era venerato un dentino da latte del Bambin Gesù, perso quando aveva nove anni; nel Duomo di Aachen le sue fasce; altrove il cordone ombelicale; in parec-chie chiese il suo prepuzio o resti del latte con cui si dice che la Madre di Dio l'avesse allattato. Inoltre nelle chiese medieva-li c'erano reliquie del pane per il pasto dei cinquemila (a Colo-nia), degli orci delle nozze di Cana (a Colonia e a Hildesheim), della tovaglia dell'ultima cena (a Vienna), dei peli della barba di Cristo (a Vienna), di una lacrima che Gesù versò su Gerusa-lemme (a Vendóme, in Francia) e di una piuma dell'ala dell'ar-cangelo Michele (a Liria e a Valencia, in Spagna). Di altre reli-quie si registrò una vera e propria inflazione. Accanto a innu-merevoli frammenti e particelle della croce, si esposero ben 36 presunti chiodi della croce di Cristo (tra gli altri, a Treviri, Co-lonia, Parigi, Vienna - addirittura due - Siena, Milano, Monza e via dicendo), due teste di Giovanni il Battista e dozzine di len-zuoli sacri. Umiche di Cristo sono venerate a Treviri, nella città francese di Argenteuil e in quella georgiana di Mzecheta. Solo nelle cattedrali spagnole si trovano ben 53 spine della corona di Cristo. A complicare le cose interviene la tradizione delle reli-quie divenute tali «per contatto»: si credeva che, se una più o meno precisa riproduzione della reliquia era messa a contatto con l'originale, la copia ne assorbisse tutta il potere.

Per gli uomini del medioevo le reliquie erano portatrici di forza e grazia divine. Questa convinzione era sfruttata anche dal punto di vista politico: nella Corona Ferrea dei longobardi - oggi conservata nel tesoro del duomo di Monza - è incasto-

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nato un chiodo che si ritiene appartenesse alla croce di Cri-sto; tra le insegne imperiali tedesche c'erano la croce imperia-l e - i n cui era incastonato un frammento della vera croce - e la sacra lancia. Questa all'inizio era considerata come la lancia di san Maurizio, protettore dell'impero; successivamente fantasti-cherie e religiosità popolare ne fecero l'arma con cui il legio-nario aveva colpito al fianco Gesù crocifisso. In realtà però il gioiello imperiale di Vienna è una lancia ad alette carolingia dell'VIII secolo. L'autentica lancia sacra - almeno a quanto pos-siamo supporre - faceva invece parte, insieme a molte altre re-liquie, del tesoro degli imperatori bizantini. Dopo la conqui-sta ottomana di Costantinopoli, la punta della lancia fu inviata a papa Innocenzo VIII (1484-1492) come dono da parte del sul-tano e da quel momento è conservata nella basilica di San Pie-tro a Roma. L'asta invece era già stata venduta nel XIII seco-lo dagli imperatori bizantini al re di Francia, nella cui cappella privata, la Sainte Chapelle, si trova da allora. Per ben due vol-te la «Roma d'Oriente» combatté guerre allo scopo di entrare in possesso di reliquie: la prima, per impadronirsi di un fram-mento della «vera croce», di cui i persiani si erano impossessa-ti con la conquista di Gerusalemme, e la seconda per la miste-riosa icona del volto di Cristo «non creata da mano umana» del-la città di Edessa. Non oro o altri tesori terreni, ma le reliquie dei tre Re Magi, fino a quel momento conservate a Milano, fu-rono il bottino più significativo che l'imperatore Federico I Bar-barossa riportò dalla campagna militare in Italia. Il cancellie-re imperiale Reinald von Dassel le portò a Colonia in modo ro-cambolesco, facendo diventare la città uno dei più importanti santuari nordeuropei. Infine, grazie alle crociate e alla con-quista di Costantinopoli (1204), l 'Europa fu addirittura som-mersa da vere e false reliquie, rendendo così il loro culto ancor più popolare1.

1 A. Angenendt, Heilige und Reliquien, MUnchen 1994; A. Legner, Reliquien in Kun-s( und Kult, Darmstadt 1995; Sierra-Atienza, La Espafi& extrana, Madrid 1997; Kun-sthistorisches Museum Wien, Weltliche und Geistliche Schatzkammer, guida illustrata, Wien 1987-1991.

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Non ci può dunque essere alcun dubbio sull'importanza del ruolo che le reliquie hanno giocato nella storia della religione e della cultura europea. Ma tutto ciò può davvero esser ridotto solo a un'autentica epidemia di autoillusione e fantasticherie, a un'enorme mistificazione condotta nelle diverse nazioni attra-verso i secoli? Che nel medioevo si giungesse a un grossolano abuso della fede nelle reliquie, che ci fosse una marea di falsi-ficazioni - furono spacciate per ossa dei santi persino ossa di animali - è incontestabile ed è stato riconosciuto in primo luo-go dalla Chiesa stessa: già con il IV Concilio Laterano (1215) si mise in atto ogni possibile tentativo per fermare il commercio di reliquie e le relative truffe. Da quel momento, l'acquisto e la vendita di reliquie sono stati vietati dal diritto canonico ed è sta-ta resa indispensabile una certificazione ecclesiastica della lo-ro autenticità; per compiere pellegrinaggi, inoltre, bisognava di-sporre dell'autorizzazione del vescovo2. Ma come veniva veri-ficata l'autenticità di una reliquia? Un miracolo o il giudizio divino erano allora considerati elementi di prova soprannatu-rali; inoltre l'origine della reliquia doveva essere documentata. Solo nel XX secolo sono stati introdotti metodi scientifici.

Non ci può essere dubbio che esistano anche reliquie auten-tiche. Per reliquie autentiche si intendono, per attenerci al lin-guaggio ecclesiastico, solo reliquie «di prim'ordine», provenienti dal corpo di santi o martiri o che sono testimonianza delle ge-sta di Gesù. Reliquie «di second'ordine» sono quei capi d'abbi-gliamento e quegli oggetti religiosi usati da un santo nel corso della sua vita o riproduzioni di una «reliquia del Signore» che sono state a contatto con l'originale. Tra quelle «di terz'ordine» si annoverano reliquie per contatto in senso lato, per esempio teli che sono stati a contatto con tombe di santi. Già la Chiesa delle origini venerava le ossa dei martiri, considerate «inesti-mabili più dell'oro e delle pietre preziose»3; questa tradizione è dimostrabile a partire dal II secolo. Nello stesso periodo eb-

2 Codex luris Canonici - Codex des Kanonischen Rechts, Kevelaer 1983, pp. 522s. 3T. Camelot (a cura di), Martyrium des Polykarp, 18,2, SC 10, Paris 1958*.

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bero luogo i primi, per quanto sporadici, pellegrinaggi alle tom-be degli apostoli e nei luoghi che erano stati teatro della predi-cazione di Gesù. Questa tradizione ha sicuramente radici ebrai-che. Ancor oggi gli ebrei venerano le tombe di Abramo a He-bron, di Rachele a Betlemme e di Davide a Gerusalemme; già in epoca biblica alcune reliquie, come le tavole della legge di Mosè, la verga di Aronne e la brocca contenente la manna del deserto, erano conservate nel tempio, nell'arca dell'alleanza. I tre Vangeli sinottici raccontano la storia dell'emorroissa, la qua-le «si era detta: "Se riuscirò a toccargli anche solo le vesti, sarò salva"» (Me 5,28), fornendoci in questo modo una testimonianza biblica della fede nell'efficacia delle reliquie per contatto. Ne danno conferma gli Atti degli apostoli quando raccontano co-me i primi cristiani «applicavano su malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie si allontanavano da loro e gli spiriti maligni fuggivano» (At 19,12). Si noti che qui il riferimento è a indumenti appartenuti a san Paolo. Tanto più preziosi per loro dovettero essere quegli oggetti che erano sta-ti a contatto con il corpo e con il sangue del Dio fattosi uomo. Già da ciò possiamo dedurre con sufficiente sicurezza che la gio-vane comunità cristiana - la quale, stando agli Atti degli apo-stoli, solo cinquanta giorni dopo la risurrezione di Cristo an-noverava già 3000 membri (At 2,41) - si sia sforzata con gran zelo di entrare in possesso di tutte le testimonianze in qualche modo reperibili della vita e della passione di Gesù.

Ma com'è possibile separare «il loglio dal grano»? Come iden-tificare, nel profluvio di false reliquie, le poche autentiche? Il cri-terio decisivo è innanzitutto l'«albero genealogico» della reli-quia stessa: fino a che punto può essere ripercorso a ritroso il suo cammino, com'è giunta nel luogo in cui è attualmente con-servata, con quanta precisione è documentato il suo rinveni-mento e in quali circostanze ebbe luogo. Ugualmente impor-tante è la loro verificabilità scientifica: quanti anni ha in realtà la reliquia? Potrebbe risalire all'epoca in questione, nel caso del-le reliquie del Signore ai tempi di Gesù?

Tutti questi interrogativi mi passavano per la testa mentre,

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nella cappella delle reliquie di Santa Croce, osservavo con de-vozione e al contempo con cura le reliquie della passione. Lo sa-pevo: il frammento della croce, il titulus crucis (l'iscrizione del-la croce) e il chiodo sacro erano citati già nelle Storie della Chie-sa coeve e nei resoconti, redatti anch'essi in quel secolo, della morte di sant'Elena, alcuni dei quali forse riconducibili ai rac-conti di testimoni oculari. Queste reliquie si differenziano così da numerose altre, il cui rinvenimento e trasporto in Europa è ugualmente attribuito alla madre dell'imperatore, come ad esem-pio la scala santa di Roma, i tre Re Magi di Milano e Colonia o la tunica di Cristo di Treviri, che tuttavia non sono menzionate da alcun autore coevo; in questi casi le tradizioni che ne de-scrivono il rinvenimento risalgono solo al medioevo. Anche le spine della corona e il dito di san Tommaso non sono citati da alcuna fonte antica e sono perciò di dubbia origine, in quanto quest'ultima non è documentata. L'esistenza delle autentiche reliquie della passione di Santa Croce - croce, chiodi, titolo - e le circostanze in cui Elena le fece trasportare nel suo palazzo a Roma sono invece attestate da oltre 1600 anni, per cui la tra-dizione che le riguarda è molto più antica di quella della mag-gior parte delle altre reliquie della cristianità. Questo natural-mente non esclude di per sé che si possa trattare di falsifica-zioni risalenti al IV secolo o al medioevo, in quest'ultimo caso forse come «reliquie di second'ordine» confezionate sulla base delle tradizioni riguardanti la vita di Elena; tuttavia la loro au-tenticità è almeno ipotizzabile.

A questo punto si deve far ricorso alla metodologia scientifi-ca, allo scopo di fornire un responso sulla loro età e origine. Tut-tavia mi era noto che il metallo con cui è stato fabbricato il chio do non può essere datato, e sebbene, almeno nella sua parte cen-trale, corrisponda in pieno alla fattura dei chiodi da falegname romani, nulla di risolutivo può essere affermato riguardo alla sua origine o sul suo utilizzo. Il legno, anche quello dei fram-menti della croce, può invece essere datato con facilità, e si può determinare persino la sua origine geografica: ma come dimo-strare che sia davvero appartenuto alla croce di Cristo? Anche

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in questo caso un esame scientifico non può fornire alcuna ri-sposta, anche solo parzialmente soddisfacente.

Solo una delle reliquie della passione custodite in Santa Cro-ce è così particolare da far sì che, se la sua autenticità fosse ve-rificata, confermerebbe non solo i resoconti del rinvenimento della croce ma sottolineerebbe anche l'esattezza storica dei Van-geli e la loro descrizione della vita e della passione di Gesù: il ti-tulus crucis, l'iscrizione della croce.

L'osservai con estrema attenzione, studiai ogni singola scheg-gia del bruno legno eroso dal tempo. Effettivamente riportava l'i-scrizione così come ci è stata tramandata da Giovanni: «"Gesù il Nazareno, il re dei giudei"... in ebraico, in latino, in greco» (Gv 19,19-20); o almeno una parte di quest'iscrizione.

Il titolo della croce non mi parve un falso grossolano. È dun-que autentico? è stato scritto da uno dei carnefici di Pilato poco prima della più spettacolare esecuzione della storia? si tratta del-l'unica testimonianza scritta coeva dell'esistenza di Gesù, del do-cumento giuridico della sua condanna ad opera del prefetto ro-mano? o è un falso, per quanto buono ed estremamente inge-gnoso? Solo di una cosa ero certo: dovevo raccogliere altri elementi sull'iscrizione della croce, perché, se fosse autentica, ciò riguar-derebbe l'intera cristianità.

Nessun'altra personalità storica ha tanto affascinato gli uo-mini negli ultimi duemila anni come Gesù di Nazaret. Disprez-zato dagli avversari come falso profeta, imprigionato e condan-nato a morte come sobillatore, venerato dai seguaci come Mes-sia c Tiglio di Dio, ha costituito lino ai nostri giorni una pietra dello scandalo. In suo nome, i martiri morirono o subirono per-secuzioni; furono fondati stati, evangelizzati popoli, combattu-te guerre, bruciati eretici e costruita un'organizzazione mondiale, la Chiesa cattolica, che oggi conta più di un miliardo di fedeli. Rappresentato nell'iconografia cristiano-bizantina come «pan-tocratore», assiso sul trono celeste come «colui che domina su ogni cosa», ha effettivamente dominato almeno la storia occi-

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dentale degli ultimi 1700 anni. Dopo che l'imperatore Costan-tino fece del cristianesimo la religione di stato, è sopravvissuto alla caduta dell'impero romano, alle invasioni barbariche, al me-dioevo, alla guerra dei trent'anni, persino all'illuminismo e al-l'anticristiana rivoluzione francese, al comunismo e al fasci-smo hitleriano. Nessuna religione straniera, per quanto affasci-nante o aggressiva, nessuna moda spirituale ha mai potuto cambiare a lungo il volto cristiano dell'Europa.

Nonostante l'immensa portata della promessa di Gesù di Na-zaret, la redenzione e la vita eterna per chi l'avesse seguito, negli ultimi decenni sono stati sollevati in modo sempre più plateale seri dubbi sulla sua esistenza storica o sull'esattezza delle affer-mazioni attribuitegli. Questo approccio critico, nato con l'ateismo e l'illuminismo, è stato ripreso sempre più spesso anche dai teo-logi moderni. A finire regolarmente sotto tiro sono i quattro Van-geli, che non solo affermano di annunciare la lieta novella, ma an-che di essere un resoconto autentico della vita del Nazareno: una rivendicazione sulla quale sempre più frequentemente sono sta-ti espressi dubbi. Per quanto i primi frammenti dei Vangeli risal-gano al II, forse addirittura al I secolo dopo la nascita di Cristo, e coincidano in massima parte con il testo delle versioni integrali di cui disponiamo, la loro storicità è continuamente messa in di-scussione. I detrattori sostengono che alla base dei Vangeli vi sono raccolte di detti di Gesù, abbelliti dal racconto delle sue azio-ni che avrebbe funzione di cornice narrativa, e che in realtà, a pre-star loro fede, sarebbero solo un misto di pia leggenda e pura fan-tasia. A conferma di ciò, rimandano alle incongruenze effettiva-mente esistenti tra i quattro Vangeli, che possono comunque essere interpretate anche in altro modo. Il titolo della croce suggeri-rebbe invece che almeno il quarto Vangelo fu redatto da un te-stimone oculare, proprio come afferma la tradizione cristiana4. Ma, in ultima analisi, il Gesù storico è il Nazareno dei Vangeli?

4 L'unica trascrizione completa dell'iscrizione della croce si trova nel Vangelo di Gio-vanni; i tre sinottici ne riportano solo il contenuto: «Costui è Gesù, il re dei giudei» (Mt 27,37); «Il re dei giudei» (Me 15,26); «Questi è il re dei giudei» (Le 23,38).

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Già all'inizio raccontavo di come questa visita alla basilica di Santa Croce abbia cambiato la mia vita. Non è affatto un'esa-gerazione: ho trascorso i due anni successivi a documentarmi ul-teriormente su Gesù di Nazaret, sul Gesù storico, sul Figlio del-l'uomo divenuto carne e quindi storia. La ricerca su di lui è di-ventata, come ogni autentica ricerca della verità, un'odissea. Più volte sono tornato a Roma, in parte per seguire altre tracce, in parte per informare delle mie ricerche i rappresentanti della Chiesa - tra cui papa Giovanni Paolo II - o per ottenere la lo-ro collaborazione, in parte per trovare ispirazione nell'incontro con il titolo della croce. Mi sono recato due volte a Gerusa-lemme, là dove tutto ebbe inizio. Volevo entrare in contatto con le radici, con i luoghi in cui Gesù agì storicamente e dove fu rin-venuta la sua croce. Ho consultato famosi esperti israeliani e te-deschi molto stimati nel mondo scientifico e ho raccolto perizie che hanno reso finalmente possibile una datazione. Inoltre ho studiato fonti antiche, ricerche storiche e archeologiche allo sco-po di ricostruire l'albero genealogico della reliquia e trovare ri-sposte alle mie domande: quale valore hanno i Vangeli come fonti storiche? quanto sono attendibili gli storici della Chiesa che descrissero il rinvenimento della croce? quant'è sicura la tradizione che localizza i luoghi dell'esecuzione e il sepolcro di Gesù? è confermata da reperti archeologici? E infine, ci sono collegamenti con altre reliquie, come ad esempio la misteriosa Sindone di Torino, che sono già state indagate dal punto di vi-sta scientifico?

Un rinvenimento così importante come quello dell'iscrizione della croce di Gesù richiede uno studio estremamente ap-profondito e scrupoloso, non solo delle circostanze concomitan-ti ma anche dell'intero contesto della tradizione neotestamen-taria. Perciò questo libro segue un percorso molto ampio. Nel pri-mo capitolo approfondiremo la questione dell'attendibilità dei Vangeli come fonti storiche. Li confronteremo con le tradizioni coeve, esamineremo gli argomenti dei loro critici e indagheremo sulle affascinanti prove che li potrebbero davvero ricondurre ai contemporanei di Gesù. Si tratta già di per sé di un passaggio im-

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portante, perché è dai Vangeli che veniamo per la prima volta a sapere dell'esistenza del titolo, e le loro affermazioni sarebbero a loro volta confermate dal reperto. Poiché ognuno dei quattro Vangeli riporta il testo dell'iscrizione con leggere differenze, il re-perto, presupponendo la sua autenticità, potrebbe anche rivelar-ci quale di loro, approssimandosi maggiormente alla verità, sia stato effettivamente redatto da un testimone oculare.

Nel secondo capitolo tenteremo, sulla base di fonti storiche e di dati archeologici, di ricostruire gli eventi gravidi di significa-to della festa di Pasqua dell'anno 30. Poiché l'iscrizione del ti-tolo della croce definisce il Nazareno «re dei giudei», ci chie-deremo cosa implicasse questo titolo e in che misura fosse in rapporto con la rivendicazione messianica di Gesù. Ricostruendo minuziosamente la pena della crocifissione giungeremo a com-prendere la storia della passione in maniera più profonda. Ci soffermeremo al cospetto della croce, che da quel momento giac-que sepolta nel suolo di Gerusalemme, mentre i discepoli di Ge-sù crocifisso annunciavano segretamente ai popoli il Vangelo, per poi rivolgerci, nel terzo capitolo, alle circostanze della sua riscoperta, avvenuta tre secoli più tardi. La ricerca della reliquia fu una diretta conseguenza della visione della croce dell'impe-ratore romano Costantino, con cui si concluse l'ultima sangui-nosa persecuzione nei confronti della giovane Chiesa, ma non sarebbe mai stata possibile se non fosse esistita tra i cristiani di Gerusalemme una tradizione ininterrotta. Dimostreremo co-me fu possibile, per la Chiesa delle origini, mantenere nei se-coli la memoria dei luoghi della passione di Cristo. Daremo an-che uno sguardo alle radici della comunità delle origini e al suo ruolo nella società ebraica, gettando così luce, in ultima anali-si, sulla «stirpe dei Nazareni» e sulla rivendicazione messiani-ca di Gesù. Infine, vedremo come il reperto archeologico con-fermi la tradizione dei primi cristiani. Il quarto capitolo è de-dicato alla storia del santo sepolcro che Costantino fece cercare, riportare alla luce e integrare in una costruzione monumentale. Questo capitolo tratterà inoltre delle tradizioni ebraiche ri-guardanti la sepoltura e l'inumazione dei defunti, di coloro

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che hanno presieduto alla sepoltura di Gesù, ma anche della tra-sformazione, a scopi di propaganda imperiale, del santo sepol-cro in uno sfarzoso edificio. Il quinto capitolo descrive la sco-perta delle reliquie della croce e del titolo nel corso dei lavori per la costruzione della chiesa del Santo Sepolcro alla presenza della madre dell'imperatore, Elena, la loro spartizione e il ruo-lo che hanno assunto nella storia di Gerusalemme, Costanti-nopoli e Roma. Al centro del sesto capitolo stanno la reliquia romana dell'iscrizione della croce e gli altri reperti. In esso è de-scritta la storia del luogo in cui sono custoditi, la basilica di San-ta Croce a Roma, edificata nel luogo in cui sorgeva il palazzo di Elena, la loro riscoperta e i risultati dei nostri considerevoli sfor-zi per provare la loro autenticità con metodi scientifici. Un'ap-pendice li pone in rapporto con la più famosa reliquia della pas-sione di Cristo, la Sindone di Torino, e spiega perché questa po-trebbe essere comunque autentica, nonostante la datazione suggerita dagli esami al radiocarbonio affermi il contrario. Do-po aver ascoltato la voce delle reliquie della passione, «muti testimoni del Golgota», grazie ai nuovi dati acquisiti ci interro-gheremo ancora una volta sulla credibilità dei Vangeli, le nostre fonti sulla vita di Gesù. Giungeremo infine alla conclusione che uno di loro, proprio l'unico che cita letteralmente l'iscrizione, può essere opera soltanto di un testimone oculare, esattamente come la tradizione ecclesiastica ha affermato da sempre.

Mentre scrivevo questo libro, sono stato indotto dalla morte del mio amato padre a confrontarmi, in modo più intenso di quanto avessi mai fatto in vita mia, con il dolore, la morte e la speranza nella risurrezione. Nel momento in cui questo libro vie-ne pubblicato, il cristianesimo si sta avviando nel terzo millen-nio, avendo ancora vivo il ricordo dei festeggiamenti dell'Anno Santo che si sono svolti contemporaneamente a Roma e a Ge-rusalemme. L'opera vuol tener vivo questo ricordo e nello stes-so tempo offrire almeno un modesto contributo a una migliore, più intensa comprensione delle radici del cristianesimo.

Dusseldorf, 25 marzo 1999

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ALLA RICERCA DEL GESÙ STORICO

Gerusalemme, 7 aprile 30 d.C., ore 11:30 circa

L'immagine d'orrore che si offriva agli occhi dei legionari romani era tale per cui anche il più incallito tra loro non l'avrebbe mai più potuta dimenticare in tutta la sua vita. L'uomo che do-vevano condurre all'esecuzione era completamente coperto di sangue. Sul suo corpo, ricoperto da una veste marrone, erano visibili i solchi aperti dalla flagellazione, da quel terribile castigo cui era stato appena sottoposto. Lo avevano incatenato a un tron-cone di colonna poderoso e nero, e dai due lati lo avevano col-pito con flagelli a più code, alle cui estremità erano fissati aculei di piombo che laceravano le carni. Sul capo avevano calcato un casco di spine, simili a lunghi chiodi acuminati che trafiggevano la pelle e facevano scorrere sul viso rivoli di sangue fresco. I suoi lunghi capelli bruni pendevano a ciocche, rese appiccicaticce dal sangue già rappreso. Alle braccia insanguinate avevano legato con ruvide funi una pesante trave di legno non levigato. «Per-ché?», chiese uno dei legionari, che non aveva assistito al più cla-moroso processo della storia. «Crede di essere il re dei giudei, e loro non lo vogliono!», rispose beffardamente un altro. «Un re non mi sembra proprio!», replicò il commilitone. «Però potreb-

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be essere un filosofo. C'è qualcosa di nobile nel suo sguardo. E pare sopportare il dolore con grande dignità». Così, legato come un animale, fu condotto giù dalle scale del pretorio verso il luo-go dell'esecuzione, assieme a due ribelli condannati prima di lui

La colonna dei condannati serpeggiava tra la folla schiuman-te di rabbia, solcava la piazza dello Xystus, attraversava la pas-seggiata dei Re tra i due palazzi, lungo innumerevoli gradini su verso la città alta, per poi svoltare nella via superiore del Mer-cato, che tagliava la città da nord a sud, in direzione della porta di Efraim. Dovette fermarsi due volte, perché il terzo condan-nato - strattonato ~ aveva perso l'equilibrio sotto il peso della tra-ve ed era caduto. Lungo le strade, centinaia di persone sembra-vano formare due cordoni:persone che lo deridevano e altre che lo confortavano o che cercavano di lenire il suo dolore. Ecco una donna che gli porgeva dell'acqua, o un'altra che cautamente gli asciugava con un fazzoletto il sudore e il sangue che colavano dal viso. Nei suoi occhi si leggeva tutta la sofferenza di quell'ora, ma anche la nostalgia di un mondo migliore.

Poiché la fretta era d'obbligo - le esecuzioni dovevano con-cludersi prima che spuntasse l'alba del sabato ebraico -, alla ter-za caduta, davanti alla porta di Efraim, il centurione che co-mandava la coorte tagliò con la spada la corda con cui Gesù era legato alla trave della croce. La trave cadde a terra fragorosa-mente. Allora il centurione ordinò a un certo Simone di Cirene, nel Nordafrica, il più vicino dei numerosi pellegrini giunti a Ge-rusalemme per la Pasqua che ora si stavano riversando in dire-zione del tempio, di portare la trave al luogo dell'esecuzione.

Il sole riscaldava un poco il corteo e i corpi sofferenti dei con-dannati, quando questi oltrepassarono la porta, solidamente for-tificata, per dirigersi verso il luogo delle esecuzioni, una cava ab-bandonata. Della collina di roccia calcarea di una volta rima-neva solamente un cumulo di pietre inutilizzabili, dall'aspetto pauroso, che la gente aveva ribattezzato Golgota, il «cranio», per-ché sporgeva nudo e spoglio dal terreno. «Rinchiudetelo in una delle caverne!», ordinò il centurione indicando l'uomo che ave-va appena liberato dalla trave. Rinchiuso nella caverna fresca e

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umida, il condannato, tremando e pregando, guardava in faccia la morte certa che lo attendeva, mentre i carnefici sollevavano i due rivoltosi sui pali delle croci e ve li legavano saldamente. I mi-nuti parevano ore e giorni, sembravano durare un'eternità. Il «re dei giudei» fu rudemente strappato al raccoglimento della pre-ghiera da due legionari e portato fuori, dove, sul terreno roccio-so, giaceva la trave orizzontale della croce. Poco lontano si udi-vano le grida di dolore dei due ribelli appena crocifissi che, tor-cendosi, cercavano di immettere aria nei polmoni. «Sulla croce, giudeo!», gli urlò il centurione, e due legionari lo gettarono al suo-lo, cosicché cadde sulla schiena battendo la piaga provocata dal peso della trave contro la roccia calcarea. Il suo nobile viso si contrasse dal dolore, quando uno dei carnefici lo afferrò rude-mente per le braccia, tendendole verso l'alto e facendo raggiun-gere ai palmi delle mani le estremità della trave orizzontale per fissarlo in questa posizione. Era troppo debole per opporre una qualche resistenza, e si era da tempo rassegnato al suo destino, al «calice amaro» che il Padre Celeste gli aveva porto. Così, come in trance, per metà privo di conoscenza, percepì soltanto che uno degli aiutanti porgeva al carnefice due chiodi per conficcarli al-l'altezza del carpo. Solo quando, con un sordo colpo di martello, il primo chiodo gli trapassò la carne, rinvenne pienamente. «Pa-dre! Padre!» gli sfuggì dalle labbra, mentre un dolore disumano alterava Usuo viso, contraeva il suo corpo e gli faceva sgorgare lacrime dagli occhi: «Perdona loro!». Quasi svenuto, dovette sop-portare che gli piantassero il secondo chiodo, che gli lacerò i ner-vi: non appena il dolore diventava insopportabile, la tortura pro-cedeva oltre. «Ce l'hai?», gridò uno degli aiutanti dei carnefici al-l'altro, che assentì. «Su, allora!». Con la brutalità che gli era propria, inalberarono la trave cui era appeso il Crocifisso. Un ter-zo uomo stava dietro il palo e tirava una fune fissata alla trave che passava attraverso un foro scavato nel tronco, all'altezza di due metri e mezzo circa. Le articolazioni del polso del condan-nato parevano spezzarsi, mentre questi, quasi privo di conoscenza per il dolore, appeso per i chiodi, veniva sollevato in aria e la tra-ve fissata allo stipite della croce. Poi, il carnefice gli premette le

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gambe contro il palo. Prese un chiodo particolarmente lungo e ; lo fece passare attraverso un'asse di legno che poggiò sui piedi J sovrapposti della vittima. «Uno deve bastare», disse con un ghi-gno beffardo prima di conficcarlo nei piedi del Crocifisso, i cuiì tormenti erano ormai testimoniati soltanto da un flebile gemito. > Mentre disperato annaspava in cerca d'aria, facendo perciò for- * za con l'intero peso sull'unico chiodo che gli trapanava i piedi, j gli aiutanti del carnefice procedettero all'ultimo atto di un esecu- J zione non diversa da tante altre. Si doveva fissare il titolo della f colpa, su in alto, in modo che fosse visibile a tutti. Era una tavo- \ letta di legno, lunga circa un cubito, alta un raggio, il cui testo era stato dettato da Pilato in persona e inciso nel legno da un uffi-% ciale che sapeva scrivere. La scritta costituiva l'ultima irrisione-del giustiziato, preceduto da quella tavoletta di legno lungo tut-\ to il percorso verso il luogo dell'esecuzione. Con una scrittura a*, scarabocchi, da destra verso sinistra - «alla maniera dei giu- \ dei», come ironizzava lo scribacchino - recava scritto: «Gesù, //[ Nazareno, re dei giudei», in ebraico, greco e latino, affinché tuttik potessero leggere di quale presunzione si fosse reso colpevole| quest'uomo, ridotto ormai a un'icona del dolore. r

ì. Ai piedi del Golgota |

i La nostra ricerca inizia ai piedi del luogo di esecuzioni più fa- j;

moso della storia, la collina del Golgota. Si tratta di risponderei-all'interrogativo se, all'incirca 1970 anni fa, i fatti si sono svoltiI proprio come li abbiamo appena descritti, o comunque in mo-f do analogo. Certo, la nostra ricostruzione si basa sui Vangeli, if quattro libri più letti della letteratura mondiale. Ma i Vangeli so- f no davvero biografie? quanto sono affidabili questi testi? con! quanta precisione gli autori hanno svolto le loro ricerche? quant'èw attendibile quello che crediamo di sapere sul loro protagonista,; Gesù di Nazaret? "

Riguardo alla precisione con cui i Vangeli ripercorrono laj. vita di Gesù, molto dipende dall'effettiva conoscenza diretta*

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di Gesù da parte degli evangelisti o almeno dai loro eventuali contatti con i testimoni oculari. La rivendicazione da parte di un autore di aver assistito a un evento storico accresce natu-ralmente la sua credibilità e l'autenticità della sua narrazione, sebbene al contempo cresca anche la soggettività del resocon-to. Quanto meno, chiunque scriva di un evento contemporaneo dovrebbe avere intervistato un gran numero di testimoni ocu-lari e aver posto alla base della sua ricostruzione le loro affer-mazioni. Chi si occupa di un evento storico passato ha il dove-re di studiare tutte le testimonianze. Se esistono documenti coe-vi al fatto - resoconti ufficiali, comunicazioni, atti, rapporti - , i loro contenuti vanno confrontati con il racconto dei testimoni oculari e valutati attentamente. Nel caso si confermino o si com-pletino a vicenda, lo storico ha la possibilità di ricostruire la sto-ria in maniera credibile. Questo vale anche per la narrazione della storia della salvezza.

Nel nostro caso, si tratta proprio di questo. Lasceremo qui ai teologi, e alla loro maggiore competenza in materia, l'impor-tantissima questione della rilevanza salvifica degli eventi verifi-catisi a Gerusalemme nell'anno 30. Vogliamo invece verificare se il processo più gravido di conseguenze dell'intera storia mon-diale ha avuto luogo nei termini che ci sono stati tramandati, e quindi, contemporaneamente, la credibilità dei resoconti esi-stenti: i Vangeli di Marco, Matteo e Luca e del controverso te-stimone oculare Giovanni. La chiave di volta della nostra ricer-ca è un documento storico, l'unico atto scritto conservatosi di quel processo di quasi 1970 anni fa, e può essere definito senza esagerazione come il documento-chiave: si tratta della «tavo-letta della colpa», il titolo della croce recante la formulazione dell'accusa e affisso al palo verticale sopra il capo del Crocifis-so. Esso ci rivela quanto precise e pregnanti siano le nostre fon-ti al riguardo.

Al tempo stesso indagheremo, come in ogni solida ricerca sto-rica, sull'autenticità del nostro documento. Ne ripercorreremo la storia e la provenienza. Infine, lo sottoporremo persino a un'in-dagine criminologica. Solo se tutti gli indizi deporranno a favo-

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re della sua autenticità, il titolo della croce potrà assurgere a tas-sello del grande mosaico che chiamiamo storia. E in questo qua-dro dobbiamo cercare anche lui, il Crocifisso. Può essere il «Cri-sto», il «Messia» solo se è vissuto veramente. La ricerca di Ge-sù può essere un'esperienza mistica, ma può anche aver inizio dalla storia.

Se si confrontano le fonti su Gesù di Nazaret con quelle ri-guardanti altri personaggi storici dell'antichità, per esempio i grandi filosofi greci, ne emerge un quadro molto diverso. Non ci è noto un solo documento coevo che attesti, per esempio, l'e-sistenza storica di Pitagora, Socrate, Platone o Aristotele. Tutto ciò che sappiamo su di loro proviene da biografie redatte alcu-ni secoli dopo, il cui esemplare più antico pervenutoci spesso ri-sale addirittura all'epoca araba. Conosciamo la vita di Pitago-ra (circa 569-471 a.C.) innanzitutto attraverso le biografie di Dio-gene Laerzio (attorno al 220 d.C.), di Giamblico (morto verso il 330 d .C) e dalla Vita Pythagorae di Porfirio (232-304 d.C.), di cui rimangono solo frammenti: dunque mediante opere redatte sette secoli dopo la sua morte. Le uniche testimonianze del pen-siero di Socrate (469-399 a.C.) sono rinvenibili negli scritti dei suoi allievi Senofonte e Platone, senza contare il fatto che que-st'ultimo, come oggi ben sappiamo, le ha utilizzate prevalente-mente per esporre la propria filosofia. La biografia di Apollo-nio di Tiana (circa 4-96 d.C.), filosofo e mago contemporaneo di Gesù, che aveva una folta schiera di seguaci tra gli strati so-ciali più elevati di Roma, è stata redatta da Filostrato attorno al 210 d.C., quindi 114 anni dopo la sua morte. Il manoscritto più antico pervenutoci (proveniente da E1 Escoriai, in Spagna) ri-sale al X secolo. Anche le Antichità giudaiche redatte nel 94 d.C. dallo storico Giuseppe Flavio, sono state sì citate da Eusebio, autore cristiano del IV secolo, ma sono disponibili integralmente solo in una versione araba del X secolo1. Ciò nonostante, a nes-

1G. Schischkoff, Philosophisches Wòrterbuch, Stuttgart 1991; Giuseppe Flavio, Bell. Iud.\ Id., Ani. lud.\Giamblico, Pythagoras, a cura di M. v. Albrecht, Zùrich 1963; Filo-strato, Apolloniost a cura di V. Mumprecht, Mttnchen 1983; B.L. van der Waerden, Die Pythagoreer, Munchen 1979; G.Theissen-A. Merz, Der historische Jesus, Gòttingen 19972.

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, suno è mai venuto in mente di mettere in dubbio l'esistenza sto-rica di Pitagora, Socrate, Apollonio o l'autenticità delle Anti-chità giudaiche.

Crocifisso sotto Ponzio Pilato

Gesù di Nazaret non è un mito, ma un personaggio storico. Questo - come sottolinearono gli apostoli - lo distingue dalle figure centrali dei culti misterici ellenistici, da Attis, Adone, Dio-niso e Apollo. Da un punto di vista storico, la sua esistenza è meglio documentata di quella di Pitagora e Socrate ed è testi-moniata, se non da tutti, almeno da un numero rilevante di cro-nisti e storici contemporanei. Solo i depositari del potere terre-no, come gli imperatori romani, i loro governatori e i re vas-salli, sono meglio attestati, perché hanno lasciato iscrizioni e monete e perché la loro vita è stata al centro dell'attenzione de-gli storici del tempo. È vero — come ha dimostrato il «critico del-la Chiesa» Peter de Rosa nel suo controverso libro Der Jesus-Mythos - che noi conosciamo «probabilmente più fatti concre-ti sulla vita di Ponzio Pilato che su Gesù»2, perché il prefetto era il rappresentante in Palestina del potere terreno di Roma. Non a caso, fin dalle origini la Chiesa ha incluso nella professione di fede la formula «patì sotto Ponzio Pilato», ancoraggio alla sto-ria dell'annuncio della salvezza. Su Ponzio Pilato, prefetto del-la provincia romana di Giudea dal 26 al 36 d.C., esistono reso-conti dettagliati dello storico ebreo Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) e del filosofo e teologo ebreo Filone d'Alessandria. Lo menziona anche Tacito, mettendolo in rapporto proprio con Ge-sù. Ritroviamo inoltre il suo nome c il suo titolo su un'iscri-zione rinvenuta da archeologi italiani nel 1961 nel corso di al-cuni scavi presso il teatro di Cesarea, sulla sponda israeliana del

: Mediterraneo. La cosiddetta «pietra di Pilato» adornava origi-nariamente il Tiberieum, un edificio pubblico dedicato all'im-

2P. de Rosa, Der Jesus-Mythos, Milnchen 1993, p. 30.

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peratore Tiberio. Solo più tardi fu riutilizzata per la ristruttura-zione del teatro. Così dice l'iscrizione, ancora visibile (vedi ri-produzione a colori):

[...]STIBERIEVM «[Questo] Tiberieum [PONJTIVSPILATVS Ponzio Pilato, [PRAEF]ECTVSIVDE[AE] prefetto di Giudea, [FECITD]E[DICAVIT] costruì [e] consacrò».

Colpisce il fatto che l'iscrizione sia redatta in lingua latina e non nel greco della koiné, lingua ufficiale dell'Oriente. Da essa veniamo inoltre a sapere che la carica ufficiale di Pilato era quel-la di «prefetto», e non di «procuratore». Pilato doveva dunque far riferimento a un procuratore, come conferma lo stesso Giu-seppe Flavio. Anche i Vangeli non lo definiscono «procuratore» (epìtropos) ma, più genericamente, hègemón3.

Tuttavia la «pietra di Pilato» ci rivela molto di più, dandoci informazioni sul carattere e sulla mentalità del prefetto. Il Ti-berieum era un piccolo tempio che Pilato aveva fatto erigere in onore dell'imperatore a Cesarea, capitale della provincia e sede del governatore. Di solito gli imperatori venivano divinizzati so-lo dopo la morte; tuttavia a vassalli e alleati era consentito de-dicare loro luoghi sacri quando erano ancora in vita, come se-gno di particolare fedeltà e attaccamento a Roma. Così Erode il Grande fece erigere, in onore dell'imperatore Augusto, una se-rie di templi denominati Kaisàreia. Uno di questi si trovava nel-la cittadina mediterranea di Torre di Stratone, che, più tardi, di-venuta capoluogo della provincia, fu ribattezzata Caesarea Ma-ritima. Probabilmente il Tiberieum di Pilato era situato proprio accanto al tempio erodiano di Augusto4.

Tuttavia Tiberio rifiutò il culto personale. Come tramandato-ci da Svetonio, proibì espressamente che gli venissero consacrati dei templi5. Che Pilato lo facesse ugualmente, forse prima del

3 Cfr. Mt 27,2.11.14.15.21.27 e 28,14; Le 20,20. 4 D. Flusser, Jesus, Jerusalem 1998, pp. 158s. 5 Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio 26.

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divieto, e che fosse l'unico prefetto ad aver eretto un luogo di culto consacrato a un imperatore vivente, ci rivela molto della sua personalità, del suo zelo, della sua venerazione esagerata-mente devota, persino servile nei confronti dell'imperatore.

Pilato: un funzionario in carriera

Pilato proveniva dalla gens Pontia, una famiglia di cavalieri. Un loro membro, L. Pontius Aquilius, era stato coinvolto nel-

. l'assassinio di Giulio Cesare6. Suo padre era probabilmente Mar-co Ponzio, un abile comandante che, sotto Augusto, guidò l'e-

; ; sercito nella campagna contro i cantabri. Per i suoi meriti mili-i: tari Marco Ponzio fu decorato con il pilum, un giavellotto

onorifico, ed è da supporre che il nome dato al figlio traesse ori-gine proprio da questa onorificenza. Possiamo dedurne che Pi-lato nacque poco dopo la campagna? In tal caso avrebbe avuto 44 anni quando giunse in Giudea, 48 all'epoca della condanna di Gesù, 54 quando dovette tornare a Roma - un'età del tutto realistica per un governatore. Pilato era un seguace di Seiano, uno degli uomini più potenti nella Roma dell'epoca, che iniziò ben presto a intercedere in suo favore. La lunga durata del suo incarico - il secondo per lunghezza di un governatore romano in Giudea - non dimostra tanto che a Roma lo si valutasse co-me «un capace e abile diplomatico con attitudini tattiche» (co-

^ me crede Bòsen7), quanto piuttosto che si fosse certi della sua . fedele sottomissione e lealtà. L'incarico in Giudea era ritenuto

un terreno insidioso, data «l'insubordinazione del popolo e la sua naturale tendenza a disobbedire ai re»8.

Nello stesso tempo Pilato si fece numerosi nemici tra gli ebrei. Filone d'Alessandria (circa 15 a.C.-45 d.C.), suo contempora-neo, lo descrive come «inflessibile, ostinato, intransigente di na-

4 J. Gnilka, Jesus von Nazareth, Freiburg 1993, p. 45. .7 W. Bòsen, Der letzte Tag des Jesus von Nazaret, Freiburg 1994, p. 199. * Giuseppe Flavio, BelL lud., II, 6,2 (trad. it. La guerra giudaica, a cura di G. Vitucci,

Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974).

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tura» e gli rimprovera «corruttibilità e brutalità [...] Ruberie, maltrattamenti, offese, continue esecuzioni sommarie così co-me una crudeltà incessante e insopportabile». In breve, stando a quanto afferma Filone, era «un uomo malvagio e implacabi-le». Effettivamente, le monete coniate sotto Pilato testimonia-no un certo gusto per la provocazione e l'arroganza romana. Un lepton di Pilato (una piccola moneta di rame) riporta la verga (lituus) degli àuguri, gli oracoli romani; un altro, un vaso per la bevanda sacrificale (simpulum): oggetti di culto pagani quindi, la cui sola vista non poteva non offendere ogni pio ebreo. Ciò coincide perfettamente con un aneddoto ricordato da Filone a dimostrazione delle sue accuse e che attesta ulteriormente l'ec-cesso di zelo del prefetto: in occasione dell'assunzione del suo incarico, Pilato fece appendere scudi dorati con iscrizioni sacre nel palazzo di Erode a Gerusalemme, in cui si insediava, «per offendere la folla». La folla si sentì provocata e inviò a Pilato una delegazione formata dai quattro figli di Erode e da altri di-gnitari, bruscamente respinta dal prefetto. Solo una petizione degli ebrei a Tiberio ebbe successo: l'imperatore si premurò che gli scudi venissero rimossi da Gerusalemme e appesi nel tempio di Augusto a Cesarea9. L'aneddoto trova conferma negli atteg-giamenti di Pilato descritti dai Vangeli: egli cedette alla minac-ce dei dignitari ebraici solo quando questi, con le parole: «Se tu liberi costui, non sei amico di Cesare» (Gv 19,12), colpirono il suo punto debole. Non solo c'era il pericolo che un secondo reclamo a Tiberio gli potesse costare la tanto agognata carica di governatore; no, Pilato faceva di tutto per essere «amico di Ce-sare» e conquistarsi la benevolenza dell'imperatore, che vene-rava smisuratamente. Ciò nonostante, quando i membri del si-nedrio criticarono il titolo scelto, volutamente provocatorio, di «re dei giudei» da affiggere sulla croce, Pilato reagì in maniera testarda e arrogante, con le parole: «Ciò che ho scritto, ho scrit-to» (Gv 19,22).

9 Cit. da Bosen, op. cit., p. 203.

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Forse l'episodio della provocazione narrato da Filone è il me-desimo che Giuseppe Flavio descrisse come segue: «Pilato, go-vernatore della Giudea, quando trasse l'esercito da Cesarea e 10 mandò ai quartieri d'inverno di Gerusalemme, compì un pas-so audace in sovversione delle pratiche giudaiche, introducen-do in città i busti degli imperatori che erano attaccati agli sten-dardi militari, poiché la nostra legge vieta di fare immagini. È per questa ragione che i precedenti procuratori, quando entra-vano in città, usavano stendardi che non avevano ornamenti. Pi-lato fu il primo a introdurre immagini in Gerusalemme e le po-se in alto, facendo ciò senza che il popolo ne avesse conoscen-za, avendo compiuto l'ingresso di notte; quando il popolo ne venne a conoscenza una moltitudine si recò a Cesarea e per mol-ti giorni lo supplicò di trasferire le immagini altrove. Ma egli ri-fiutò, in quanto, così facendo, avrebbe compiuto un oltraggio contro l'imperatore; e seguitando a supplicarlo, nel sesto gior-no armò e dispose le truppe in posizione, ed egli stesso andò sul-la tribuna. Questa era stata costruita nello stadio per dissimu-lare la presenza dell'esercito che era in attesa. Quando i giudei cominciarono a rinnovare la supplica, a un segnale convenuto, 11 fece accerchiare dai soldati minacciando di punirli subito di morte qualora non ponessero fine al tumulto e non ritornasse-ro ai loro posti. Quelli allora si gettarono bocconi, si denudaro-no il collo e protestarono che avrebbero di buon grado saluta-to la morte piuttosto che trascurare le ordinanze delle loro leggi. Pilato, stupito dalla forza della loro devozione alle leggi, senza indugio trasferì le immagini da Gerusalemme e le fece ri-portare a Cesarea»10.

In un'altra occasione Pilato decise di prendere «dal sacro te-soro [del tempio] il denaro per la costruzione di un acquedot-to per condurre l'acqua a Gerusalemme, allacciandosi alla sor-gente di un corso d'acqua distante di là ben duecento stadi». La cosa è comprensibile: a Gerusalemme si consumavano grandi

ì0 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XVIII, 3,1 (trad. it. Antichità giudaiche, a cura di L. Mo-raldi, UTET, Torino 1998;.

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quantità d'acqua per le abluzioni rituali di centinaia di migliaia di pellegrini che, in occasione delle grandi festività ebraiche, fa-cevano il loro ingresso nel tempio solo dopo essersi purificati. «I giudei però non aderirono alle operazioni richieste da que-sto lavoro e, raccoltisi insieme in molte migliaia, con schiamaz-zi gli intimavano di desistere da questa impresa. Taluni di co-storo urlavano insulti, ingiurie e villanie, come suole fare l'a-dunanza di una folla. Pilato inviò perciò un forte raggruppamento di soldati in costume giudaico, con manganelli nascosti sotto i vestiti, in una piazza da dove era possibile circondare con faci-lità i giudei, e ordinò quindi a questi ultimi di disperdersi. Quan-do i giudei erano in un pieno torrente di villanie, diede ai sol-dati un segnale convenuto ed essi li colpirono molto di più di quanto ordinato da Pilato, colpendo ugualmente i cittadini pa-cifici e quanti protestavano... Così terminò la sommossa»11. Era questa la «sommossa scoppiata in città» a cui si riferisce Lu-ca (23,19) e durante la quale Barabba fu «messo in prigione ... per omicidio».

Solo un terzo episodio costò a Pilato la carica di governato-re. Nell'anno 36 d.C. «un uomo bugiardo, che in tutti i suoi di-segni imbrogliava la plebe» condusse gli abitanti di Samaria sul monte sacro di Garizim e «li assicurò che all'arrivo avrebbe mo-strato loro il sacro vasellame, sepolto là dove l'aveva deposto Mosè». I samaritani prestarono fede a questo falso profeta, «pre-sero le armi e, fermatisi a una certa distanza, in una località det-ta Tirathana, mentre congetturavano di scalare la montagna in gran numero, acclamavano i nuovi arrivati»12. Pilato subodorò una rivolta e fece occupare la strada che conduceva alla mon-tagna sacra dalla sua cavalleria e dai fanti, che diedero l'assal-to alla folla. La grande massa di quanti si erano lì radunati fu colpita mentre fuggiva, i loro capi presi prigionieri e giustiziati.

" Ibid.,XVIII, 3,2. Secondo la traduzione di L. Moraldi, i romani non sarebbero sta-ti armati di manganelli, ma di pugnali: «Egli allora collocò un buon numero di soldati in abiti giudaici sotto i quali ognuno portava il pugnale, e li inviò a circondare i Giudei con l'ordine che si trattenessero» (ibid., XVIII, 3,2,61 - ndt).

12 Ibid., XVIII, 4,1-2.

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Il Consiglio supremo dei samaritani protestò contro questo bru-tale modo di procedere presso Vitellio, il procuratore di Siria cui Pilato, in quanto prefetto, era subordinato. Vitellio inviò in Giu-dea il suo fido Marcello e ordinò a Pilato di recarsi a Roma sen-za indugio per rispondere davanti a Tiberio. Quando però Pi-lato, dopo una lunga e fortunosa traversata, approdò in Italia, Tiberio era già morto. Pilato non avrebbe mai più fatto ritorno in Giudea. Il nuovo imperatore, Caio Caligola, nominò un nuo-vo prefetto, Manilio, finché, nel 41 d.C., non incoronò re di Giu-dea il suo amico di gioventù Erode Agrippa I. II destino di Pi-lato dopo il ritorno a Roma è incerto. Secondo la tradizione, fu trasferito o esiliato a Vienne, in Gallia. Stando alle leggen-de, tormentato da sensi di colpa, si sarebbe suicidato nell'anno 39 gettandosi nel Rodano, nel Tevere o nel lago dei Quattro Can-toni, presso Lucerna, dove un massiccio montuoso porta anco-ra oggi il suo nome.

Sebbene, nel caso dei disordini samaritani, il prefetto abbia fatto fronte alla rivolta con eccessiva durezza, dagli episodi tra-mandati non si può in alcun modo ricavare quell'immagine di Pilato estremamente negativa trasmessaci da Filone. Certo, egli era troppo zelante ed esageratamente devoto ai suoi superiori a Roma. Provocava invece volentieri i suoi sottoposti, era osti-nato, arrogante, cinico e interveniva con durezza quando lo ri-teneva necessario. Oggi lo si descriverebbe forse come il proto-tipo del funzionario di un regime totalitario, come un arrivista che si inchina a chi sta in alto e calpesta chi gli è sottoposto. Ma si mostrò anche impressionato dalla fermezza degli ebrei che di-mostravano a Cesarea; fece domare la sommossa di Gerusa-lemme con i manganelli invece che con le spade, e Giuseppe Fla-

jvio ammette che in questa occasione i legionari esercitarono la violenza purtroppo «molto più di quanto ordinato da Pilato». Si è sempre rimproverato ai Vangeli di aver minimizzato le re-sponsabilità di Pilato allo scopo di accattivarsi le simpatie di Ro-ma, ma ciò si può sostenere solo accettando alla lettera il reso-conto di Filone. In ogni caso, l'immagine di Pilato che si ricava dal resoconto di Giuseppe Flavio non è così estrema.

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La testimonianza di Giuseppe Flavio

Tutte le fonti storiche, cristiane e non, sono concordi nell'in-dicare che Gesù visse e fu giustiziato sotto Pilato. Tuttavia que-ste fonti non sono del tutto incontestabili. Ecco cosa dice Giu-seppe Flavio: «All'incirca allo stesso tempo visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti giudei e molti greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che era accusato dai prin-cipali nostri uomini, lo condannò alla croce.

Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessaro-no di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innu-merevoli altre cose meravigliose su di lui. E fino a oggi non è ve-nuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti cristiani»13.

Effettivamente questa breve citazione pone degli interroga-tivi perché, se fosse autentica, potrebbe solo significare che lo stesso Giuseppe Flavio era un cristiano. «Egli era il Cristo» equi-vale alla confessione di fede «Egli era il Messia», perché «Cri-sto» altro non era che la traduzione greca della parola ebraica màsiah («l'Unto»). Questo però lo storico ebreo non lo crede-va in alcun modo: per lui il «Messia» era l'imperatore romano Vespasiano, che aveva condotto la guerra contro gli ebrei. D'al-tra parte va anche esclusa una falsificazione, cioè un'interpola-zione successiva perché, due capitoli oltre, si parla della con-danna e della lapidazione di Giacomo decisa nel 62 d.C. dal Si-nedrio guidato dal sommo sacerdote Anna II. In questo passo Giacomo viene definito, concordemente con gli Atti degli apo-stoli, «fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo»14, il che presuppone che questi fosse già stato nominato dall'autore. Inol-tre già lo storico della Chiesa Eusebio di Cesarea (260-339) ci-

13 Giuseppe Flavio, Ant. Iud.y XVIII, 63s. 14 Ibid., XX, 200.

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tava il passo che da allora divenne famoso con il nome di Te-stimonium Flavium («testimonianza di Flavio»)15, in un'epoca dunque in cui il cristianesimo stava appena iniziando ad affer-marsi e in cui non ci si poteva certo permettere una tale gros-solana falsificazione di un autore così eminente. E ancora, for-mulazioni come «uomo saggio» e l'espressione ironica «acco-glievano con piacere la verità» non corrispondono in alcun modo all'uso linguistico cristiano quanto piuttosto allo stile tipico di Giuseppe Flavio. Anche l'espressione «la tribù di coloro che ... sono detti cristiani» suona riduttiva.

Il Testimonium ha subito forse delle modifiche? A favore di questa tesi si esprime una citazione del Padre della Chiesa Ori-gene (185-254), il quale, un secolo prima di Eusebio, dichiarò espressamente che Giuseppe Flavio non aveva «riconosciuto che Gesù è il Cristo»16. Proprio sulla base di questa affermazio-ne di Origene numerosi ricercatori hanno tentato di ricostrui-re il testo originario di Giuseppe Flavio. I passi controversi so-no quelli qui riprodotti in corsivo. L'aggiunta «se pure uno lo può chiamare uomo» è univocamente cristiana e la sua libera invenzione è definitivamente accertata. Al posto dell'afferma-zione perentoria «Era il Cristo» potrebbe esserci stata la su-bordinata «i quali lo consideravano il Cristo». L'affermazione circa la risurrezione di Cristo può essere un'ulteriore aggiunta posteriore, perché altrimenti sarebbe stata più probabilmente introdotta da un «narravano che ...». In effetti Agapio, vescovo di Ierapoli (X secolo), nella sua Storia universale cristiana cita un manoscritto arabo delle Antichità giudaiche in cui il suddet-to passo viene riportato nei seguenti termini: «... ma coloro che erano divenuti suoi discepoli, non rinnegarono il suo inse-gnamento e narravano che era loro apparso tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo e che per questo era forse il Mes-sia, di cui i profeti hanno detto cose miracolose»17.

15 Eusebio, tìist. Eccl., XI, 7-8 (trad. it. di G. DelTon, Storia ecclesiastica, Desclée, Ro-ma-Parigi-Tournai-New York 1964).

; : 16 Contra Celsum, 1,47. " Cit. da G.Theissen-A. Merz, op. cit., p. 81.

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La sommossa di Cresto

Anche le affermazioni degli storici romani sono state messe in dubbio, sebbene immotivatamente. Nei suoi Annali Tacito ci-ta i cristiani solo perché l'imperatore Nerone li incolpò dell'in-cendio di Roma (64 d.C.) e li fece giustiziare in massa. Pur con-dannando la crudeltà di Nerone, anche Tacito li accusa di «odio contro il genere umano», perché «erano colpevoli e si erano me-ritati le pene più severe». In questo quadro, per spiegare l'ori-gine della denominazione di «cristiani», aggiunge: «Questo no-me deriva da Cristo, che fu giustiziato sotto Tiberio dal procu-ratore [sic] Ponzio Pilato. Questa perniciosa superstizione fu momentaneamente soffocata ma riemerse successivamente e si diffuse non solo in Giudea, dove aveva avuto origine, ma anche a Roma, dove confluiscono e vengono praticati tutti gli orrori e le nefandezze del mondo intero»18.

Svetonio, nelle sue Vite dei Cesari, loda Nerone anche per le sue persecuzioni contro i cristiani: «Si procedette con la pena di morte contro i cristiani, una setta cioè che si era data a una nuo-va, pericolosa superstizione». Ma gli è anche nota una prima, azione contro i cristiani che ebbe luogo sotto il predecessore di Nerone, Claudio, che, probabilmente nel 49 d.C., emanò un. editto contro la comunità ebraica di Roma, cui appartenevano evidentemente i primi cristiani: «Scacciò da Roma gli ebrei che,: aizzati da Cresto, fomentavano continuamente disordini»19. Al contrario di Tacito, Svetonio non era evidentemente a cono-scenza dell'origine del nome di «cristiani». Poiché Cresto («uti-le») era un nome frequente tra gli schiavi, ne dedusse che pro-prio uno schiavo dovesse essere stato il capo dei rivoltosi. Ugual-mente disinformato era Plinio il Giovane (61-120), che fu inviato nell'anno 111 dall'imperatore Traiano come legato imperiale nella provincia di Bitinia e Ponto e chiese a Roma come dovesse comportarsi colà con i cristiani. Solo questo poteva riferire di

Ann. 15,44,3. " Claudio, 25,4.

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loro: «che si radunano abitualmente in un giorno stabilito pri-ma del calar del sole, cantano alternativamente le lodi a Cristo come al loro Dio e che si sono impegnati con un giuramento a non indulgere in reati ma a tralasciare furti, ruberie, adulteri, in-fedeltà e l'appropriazione di beni affidati loro»20.

Quando venne appeso Jeshu

Anche le fonti ebraiche si esprimono in maniera appena più circostanziata. «Alla vigilia della festa di Pesach fu appeso Je-shu», afferma laconicamente il Talmud21, non senza osservare che tutto questo si svolse secondo un procedimento giudizia-rio ordinario davanti al Sinedrio, il Consiglio supremo: «Qua-ranta giorni prima l'araldo aveva proclamato: "Sarà condotto fuori per la lapidazione perché ha commesso stregonerie e se-dotto Israele e l'ha trasformato in un rinnegato; chi ha qualco-sa da dire in sua difesa, venga e lo dica". Poiché però non fu ad-dotto nulla in sua difesa, lo si appese alla vigilia della festa di Pe-sach». Alcuni ricercatori giudicano questa tradizione molto antica e la datano all'inizio del II secolo, quando il giudaismo iniziò a ridefinirsi dopo la grande sconfitta del 70 d.C. e la distruzione del tempio da parte dei romani. Naturalmente Gesù non fu la-pidato perché, all'epoca dell'occupazione romana, le autorità ebraiche non potevano comminare la pena di morte, se non ec-cezionalmente. Ciò nonostante si deve supporre che egli venis-se accusato dai membri del Sinedrio di aver bestemmiato il nome di Dio, colpa per cui, secondo la legge mosaica, era pre-vista la lapidazione, pena sconosciuta ai romani. Per ottenere che venisse giustiziato, i vertici del tempio, guidati dal sommo sacerdote Caifa, lo accusarono invece di fomentare una rivolta politica e accennò al fatto che i suoi discepoli lo ritenevano il Messia, il «re dei giudei». Di conseguenza Gesù fu «appeso»,

20 Ep. 10,96s. 21 bSanh 43a.

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cioè crocifisso. In effetti i Vangeli confermano indirettamente che l'accusa dei membri del Sinedrio fu preparata con cura, for-se addirittura, come prescrive la legge, per quaranta giorni. Mat-teo (26,60-61) e Marco (14,55) riportano che «molti falsi testi-moni» erano stati convocati a casa del sommo sacerdote per es-sere interrogati. Entrambi sottolineano poi, assieme a Luca, che già ben prima della festa di Pasqua «i capi dei sacerdoti e i dot-tori della legge cercavano come sopprimerlo (Le 22,2)».

II saggio re dei giudei

Cosa avevano ricavato «i giudei dall'esecuzione del loro sag-gio re, visto che da quel momento il regno era stato loro tolto?»22, si domandava infine - per concludere il balletto dei riferimenti coevi a Gesù - il filosofo siriaco Mara Bar Sarapion, uno stoico del I secolo, in una lettera redatta, secondo gli esperti, poco dopo il 73 d.C È forse il riferimento più significativo: non solo un dotto pagano aveva sentito parlare di Gesù ed evidentemente l'aveva anche ammirato, ma aveva addirittura attribuito alla sua morte un significato tale per cui la catastrofe del 70 costituiva una sorta di punizione divina.

Tanto è ben documentata l'esistenza storica di Gesù attra-verso queste fonti coeve, quanto queste si rivelano insoddisfa-centi riguardo alle loro affermazioni. Non possiamo infatti trar-ne altri elementi che questi:

- nel corso della sua vita «compì fatti incredibili», predicò e fu considerato un «re di saggezza» o il Messia;

- all'epoca dell'imperatore Tiberio, sotto il governatore Pon-zio Pilato, cioè tra il 26 e il 36 d.C., su sollecitazione dei sommi sacerdoti, con l'accusa di aver commesso atti di stregoneria e di aver traviato il popolo, fu crocifisso a Gerusalemme alla vigilia della festa di Pasqua;

22 Cit. da F. Schulthess, Der Briefd.es Mara bar Sarapion. E'ui Beitrag zur Geschich-te der syrischen Literatur, in Zeitschrift der deutschen morgenliindischen Gesellschaft, 51 (1897), pp. 365-391.

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- i suoi discepoli gli rimasero fedeli, diffusero il suo insegna-mento nel mondo intero e in questo modo giunsero sino a Roma.

Proprio questi fatti, lungi dal contraddire i Vangeli, sembra-no piuttosto confermarli. Purtuttavia, quanto si possono consi-derare affidabili le «liete novelle» - questa la traduzione lette-rale del greco euaggélion - come fonti storiche, come «Vite di Gesù»?

Liete novelle e biografie di Gesù

Ben poco o niente, affermano i critici. «Sono teologia e non storia»23, assicura Peter de Rosa, autore del best-seller Der Je-sus-Mythos. Ma questa teologia non è stata trasmessa attra-verso la ricostruzione autentica della vita di colui che la originò? Anche la biografia di Pitagora redatta da Giamblico fu innan-zitutto un tentativo di comunicare il pensiero del grande filo-sofo greco e di farlo assurgere a precursore di una nuova cor-rente filosofica, il neoplatonismo. Ciò nonostante, l'autore si è sforzato di ricostruire il percorso esistenziale del saggio di Sa-mo, per quanto ciò fosse ancora possibile 900 anni dopo. Gli evangelisti, che hanno tutti inconfutabilmente redatto i loro scrit-ti nello stesso secolo in cui visse Gesù, avrebbero potuto per-mettersi di falsificare la realtà storica? Non sarebbero in questo modo diventati automaticamente bersaglio degli attacchi dei cri-tici, già allora così numerosi, e dei dichiarati avversari della nuo-va religione?

In effetti gli avversari dei cristiani mettevano sì in dubbio la credibilità di singoli episodi descritti nei Vangeli, in particolare dei miracoli di Gesù e della rivelazione della sua natura divina, mai però il quadro complessivo. Un esempio di questo dibattito è il dialogo che ebbe luogo per iscritto tra il 177 e il 180 d.C. tra Celso, seguace degli antichi filosofi greci, e il Padre della Chiesa Origene. Celso difendeva la sua «dottrina antichissima, che esi-

22 P. de Rosa, op. citp. 20.

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steva fin dall'inizio» contro il cristianesimo «appena sorto». Per quanto l'opera di Celso La vera dottrina non si sia conservata, possiamo farci un'idea del suo modo di argomentare attraverso la risposta di Origene. Celso fa dire a un ebreo che si rivolge a Gesù: «Quando eri con Giovanni e ti sei immerso [nel momen-to del battesimo], dici di aver visto qualcosa che pareva un uc-cello discendere su di te dall'aria. Quale testimone attendibile può dire di aver condiviso questa visione, o chi altri udì una vo-ce dal cielo dire che eri assurto a Figlio di Dio? Non c'è alcuna prova, al di fuori della tua parola e della testimonianza, che po-tresti addurre, di uno degli uomini che con te sono stati puniti»24.

Celso non è quindi particolarmente colpito dalla testimonianza oculare di un discepolo e fa appello a dei testimoni indipen-denti. Origene confessa «che il tentativo di trovare conferma a pressoché ogni episodio come fatto storico, anche quando que-sto episodio è vero, e di raggiungere una totale certezza in pro-posito, è uno dei compiti più difficili ed è in alcuni casi persino impossibile». Celso mette sì in dubbio l'oggettività storica dei quattro evangelisti, ma non avrebbe mai osato mettere in di-scussione l'esistenza storica di Gesù o il carattere biografico dei Vangeli. Incontrovertibilmente, i Vangeli appartengono alla tradizione biografica dell'antichità. Così spiega anche lo storico della forma K. Berger: «La biografia ellenistica... è talmente mul-tiforme che anche i Vangeli potrebbero trovarvi posto»25. Già nel 1915 Clyde Weber Votaw chiarì che i Vangeli corrispondono per stile e struttura alla «letteratura biografica popolare greco-ro-mana»26. Secondo E. Stanton, ciò che li caratterizza è l'assenza di tutti quegli elementi che noi oggi consideriamo importanti, co-me la cronologia o l'approfondimento deUo spessore psicologi-co del protagonista. Che i Vangeli siano «scritti secondo le mo-dalità delle antiche biografie» è stato dimostrato in uno studio dettagliato anche dal teologo Richard Burridge, decano del Kings

24 Contra Celsum, 1,41. 25 Cit. da G. Theissen-A. Merz, op. ciL, p. 107. 25 Cit. da Jesus Christus. Wort des Vaters, introduzione di R. Etchegaray, a cura della

Theologisch-Historische Kommission fiir das Heilige Jahr 2000, Regensburg 1997, p. 68.

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College di Londra. Per giungere a questa conclusione, ha ana-lizzato dieci biografie dell'antichità classica27 e le ha confrontate per forma, struttura e contenuto con i Vangeli. «Gli antichi ave-vano un interesse essenzialmente maggiore per il significato sim-bolico o psicologico della vita», ha appurato. Anche scrittori come Tacito, Svetonio o Giuseppe Flavio non descrivono l'aspetto esteriore dei loro protagonisti né sono interessati a presentare i momenti della loro esistenza, come farebbe un biografo mo-derno; importa loro piuttosto di trarre un bilancio da poche ma significative tappe esistenziali e da lunghi monologhi o dialoghi o di approfondire attraverso essi il ritratto caratteriale del pro-tagonista. Inoltre, in quasi tutte le biografie dell'antichità, gli ul-timi eventi della vita dell'eroe occupano uno spazio molto co-spicuo: in Plutarco il 17,3%, in Cornelio Nepote il 15%, in Taci-to il 10%, in Filostrato il 26%. Quindi, ai Vangeli, che dedicano alla passione di Gesù tra il 15% (Luca e Matteo) e il 19,1% (Mar-co), spetta una posizione intermedia28.

Gli evangelisti, che volevano comunicare al loro pubblico spe-cifico l'essenza della vita e dell'insegnamento di Gesù, hanno proceduto in maniera ugualmente selettiva a quella dei bio-grafi dell'antichità, che sceglievano episodi dalla vita dei loro eroi per evidenziare attraverso questi il pensiero e il modo di essere dei protagonisti. Non è una contraddizione, bensì il ten-tativo «di trasmettere una verità più vera di quanto non potes-sero mai fare i fatti». Indubbiamente ogni Vangelo è un'inter-pretazione della figura di Gesù. Tuttavia, per quanto ognuno dei quattro evangelisti tratteggi gli avvenimenti della vita di Gesù in maniera del tutto personale, la storia narrata è essenzialmente sempre la stessa29. In conclusione, bisogna ammettere: «La co-

27 Vale a dire Evagoras di Isocrate (436-338 a.C.); Agesilaos di Senofonte (428-354 a.C.); Euripides di Satyros (III secolo a.C.);Atticus di Cornelio Nepote (I secolo a.C.) da De viris illustrìbus, primo esempio di biografia romana; Moses di Filone Alessan-drino (30/25 a.G-45 d.C.); Agricola di Tacito (98 d.C.); Cato Minor di Plutarco (45-120 d.C) dalle Vite parallele; Le vite dei Cesari di Svetonio (nato nel 69 d.C.); Demonax di Luciano (120-180 d.C.); Apollonio di Tiana di Filostrato (170-250 d.C.).

28 Jesus Christus. Wort des Vaters, op. cit, p. 71. 29 M. Tully, Jesus: Prophet, Messias, Rebell?, Kòln 1997, pp. 19-23.

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munità cristiana delle origini non avrebbe prodotto i Vangeli sot-to forma di Vite se non fosse stata interessata alla persona sto-rica di Gesù, fonte e fondamento che giustifica la presenza di fede, preghiera, missione, servizio e testimonianza»30.

La «ricerca crìtica sulla vita di Gesù»

Ciò nonostante si è sempre cercato di mettere in dubbio il contenuto di verità dei Vangeli. La storia della «ricerca critica sulla vita di Gesù» ha inizio con l'illuminismo. Tra il 1774 e il 1778 Gotthold Ephraim Lessing curò la pubblicazione dell'o-pera Apologia dei ragionevoli adoratori di Dio delForientali-sta di Amburgo Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), il qua-le sosteneva la necessità di occuparsi della vita di Gesù da un punto di vista puramente storico. Secondo Reimarus ciò impli-cava: la distinzione tra l'annuncio di Gesù e la fede in Cristo de-gli apostoli; il riconoscimento storico che l'annuncio di Gesù è comprensibile solo a partire dal contesto della religione ebrai-ca di quel tempo; il riconoscimento della discrepanza tra il mes-saggio politico-messianico di Gesù e la fede dei discepoli nella risurrezione che, arguiva Reimarus, andrebbe fatta risalire a un «inganno», la sottrazione del cadavere del Crocifisso31.

Come molti dopo di lui, anche Lessing si lasciò convincere da Reimarus del fatto che tra storia e fede esisteva «un fossato or-ribilmente ampio».

Mentre all'«ipotesi dell'inganno» attinsero spesso in seguito gli scettici - con le variazioni del caso, come quella secondo la quale Gesù sarebbe sopravvissuto alla crocifissione e si sareb-be rifugiato in India - , le prime due premesse di Reimarus avreb-bero continuato a improntare la discussione tra i teologi critici tedeschi, per lo più di confessione protestante.

30 Jesus Christus. Wort des Vaters, op. cit., p. 73. 31 G.Theissen-A. Merz, op. cit., p. 22.

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Ma il manifesto razionalista forse più in grado di influenza-re il prosieguo della discussione teologica è stato La vita di Ge-sù del filosofo e teologo David Friedrich StrauB, pubblicato tra il 1835 e il 1836. Per StrauB i Vangeli sono miti che devono essere interpretati da un punto di vista razionalistico. StrauB af-fermava che, in tutti quei passi dei Vangeli in cui le leggi della natura paiono essere messe fuori gioco, in cui le diverse tradi-zioni si contraddicono vicendevolmente o presso i quali alcuni eventi vengono interpretati come adempimento delle profezie vetero-testamentarie, lì è al lavoro il mito, «la saga che, senza averne l'intenzione, tesse una trama poetica»32. Attraverso cen-tinaia di pagine StrauB cercò di spiegare i miracoli di Gesù e di esporre i motivi per cui la loro narrazione altro non era che il tentativo dei primi cristiani di trasmettere all'ambiente circo-stante la consapevolezza dell'azione salvifica di Gesù. In parti-colare, StrauB rifiutò al Vangelo di Giovanni, sulla base delle sue premesse teologiche, il carattere di fonte storica. Ancora oggi de Rosa riprende quasi integralmente le sue argomentazioni33.

Il liberalismo teologico e la questione del Gesù storico co-nobbero il momento di massima fioritura durante l'impero gu-glielmino. L'obiettivo era lasciarsi alle spalle tutti i dogmi rela-tivi al Cristo e riscoprire il «vero Gesù» attraverso una rico-struzione storico-critica dei suoi insegnamenti. Attraverso questo «ritorno alla fonte autentica del cristianesimo» si credeva di poterne operare il rinnovamento. Una questione decisiva a que-sto proposito era l'individuazione del Vangelo più antico, perché si riteneva che questo potesse maggiormente avvicinarsi a un ideale di autenticità. Già nel 1776 Johann Griesbach34 aveva ten-tato di compilare una sinossi evangelica, e ciò facendo aveva no-tato la relativa somiglianza tra i testi di Matteo, Marco e Luca, mentre il quarto Vangelo, quello di Giovanni, era un testo con-cepito diversamente e in maniera del tutto autonoma rispetto

32 Cit. da G.Theissen-A. Merz, op. cu., p. 23. " P. de Rosa, op. cit. 34 J.B. Griesbach, Synopsis Evangeliorum Matthaei, Marci et Lucae, Halle 1774-76.

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agli altri tre, e offriva un'immagine di Gesù del tutto particola-re. Perciò operò il raffronto solo sui primi tre Vangeli, tralasciando il quarto. Giunse così alla conclusione che Matteo era il più an-tico dei tre Vangeli sinottici e che Marco era la sintesi successiva di Matteo. Solo nel 1835 Karl Lachmann35 notò che Matteo e Lu-ca coincidono nella successione cronologica dei materiali solo quando seguono Marco, mentre divergono fortemente quando riportano passi non presenti in Marco. In particolare, Matteo sem-brava essersi servito di una raccolta di detti di Gesù di cui Mar-co non era a conoscenza. Da questo Christian Wilke, nel 1838, dedusse la priorità temporale di Marco36: Marco era il più anti-co dei Vangeli, Matteo e Luca attinsero a questa fonte e la uti-lizzarono come base per testi ampliati grazie al ricorso a tradi-zioni autonome. Infine, Christian Weise formulò anch'egli nel 1838 la sua «ipotesi dei due documenti»: oltre al Vangelo di Mar-co, Matteo e Luca dovevano poter disporre anche di una se-conda fonte scritta, una raccolta dei detti di Gesù.

Q Questa teoria non incontrò subito il favore della maggior par-

te dei teologi. Già la Chiesa delle origini considerava Matteo co-me il Vangelo più antico; inoltre l'immagine di Gesù che emer-geva da questo Vangelo appariva più chiara e maggiormente conforme al contesto ebraico. Ciò nonostante, molti elementi deponevano a favore della teoria delle due fonti, che infine si impose grazie al contributo dell'influente teologo tedesco Hein-rich Julius Holtzmann (1832-1910)37. In questo modo Marco e la raccolta di detti (loghia) che fu presto indicata come fonte Q (Q è l'iniziale del tedesco Quelle, «fonte») furono riconosciuti come le più antiche e autentiche testimonianze del Gesù stori-

35 K. Lachmann, De ordine narrationum in evangeliis synopticis, in Theologische Stu-dien und Kritiken, 8 (1835), pp. 570-590.

36 C.G. Wilke, Der Urevangelist, Dresden-Leipzig 1838. 37 HJ. Holtzmann, Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863.

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co. Matteo e Luca furono considerati come compositori di nuo-ve sinfonie su Gesù, Giovanni fu completamente tralasciato. Il quarto Vangelo - in questo gli studiosi erano tutti concordi - «ri-veste per molte ragioni una posizione particolare ed è molto po-co appropriato come fonte storica», come affermava ancora nel 1996 if pedagogo della religione Gerd Laudert-Ruhm38.

In effetti, alcuni elementi depongono a favore della teoria del-le due fonti. Nei Vangeli di Matteo e Luca troviamo 230 detti di Gesù che Marco pare non conoscere. Matteo li intreccia ele-gantemente nel tessuto del testo, mentre Luca li presenta in bloc-co; tuttavia l'85% di essi viene citato nella medesima successio-ne, come afferma il teologo Johann Kloppenburg39. Allo storico della Chiesa Adolf von Harnack fu così possibile, nel 1907, iden-tificare I discorsi di Gesù e pubblicarli in un opuscolo, una sor-ta di quinto Vangelo40.

Tuttavia Holtzmann era incorso in una conclusione tragica-mente erronea: limitando la sua ricostruzione di Gesù alle fonti più antiche, dimenticò che un ampliamento poteva anche costi-tuire un arricchimento e che una rappresentazione posteriore di un evento poteva anche essere la più completa. Egli cercò di elaborare una biografia critica di Gesù sulla base della sua teo-ria della priorità temporale del Vangelo di Marco. Da questa «ana-lisi critica delle fonti» si sviluppò nei successivi decenni la mo-derna «ricerca sulla vita di Gesù», che è sempre sfociata nel me-desimo risultato: presentare un'immagine di Gesù «rivista», cioè ridotta per lo più a ciò che si suppone essere 1'«essenziale», col-mando arbitrariamente le lacune. Ne consegue che, in ultima ana-lisi, in quest'immagine si riflette la concezione ideale di quella che doveva essere stata la personalità di Gesù propria di quello studioso, che alla fine crede di poter distinguere tra quello che Gesù ha detto veramente e quello che non ha detto. Questa ten-denza alla proiezione è stata stigmatizzata nel 1906 da Albert

38 G. Laudert-Ruhm, Jesus von Nazareth, Stuttgart 1996, p. 14. 39 J. Kloppenburg, Theformation ofQ, Philadelphia 1987. 40 A. Harnack, Die Reden Jesus, 1907.

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Schweitzer - il futuro «dottore della foresta vergine» - nella sua ragguardevole Storia della ricerca sulla vita di Gesù. Gli autori trasformavano di volta in volta Gesù di Nazaret in un riforma-tore sociale radicale, un combattente per la libertà, un ribelle po-litico, una personalità in cui si incarnava l'etica ebraica, un cari-smatico errante, un profeta, un cinico stoico di impronta elleni-stica, un mago egiziano o un monaco buddista girovago41. Tuttavia il nuovo Gesù decristianizzato era così pallido e disincarnato da poter fungere da modello per qualsiasi avventura teologica, co-me Albert Schweitzer osserva così acutamente neUa sua opera: «Alla ricerca sulla vita di Gesù è accaduto qualcosa di curioso. Si è messa in marcia alla ricerca del Gesù storico, e ha pensato di poterlo poi immettere nel nostro tempo così com'è, come mae-stro e Salvatore. Ha dissolto i legami con cui era rimasto incate-nato da miUenni ai macigni della dottrina della Chiesa e ha gioi-to quando vita e movimento sono riafQuiti neUa figura e ha visto avanzare verso di sé la persona storica di Gesù. Ma questi non è rimasto immobile, ha solo sfiorato il nostro tempo ed è torna-to nel suo»42. Ciò nondimeno, anche Schweitzer è caduto vittima della stessa tentazione. Per lui «il Gesù di Nazaret... che ha pre-dicato l'etica del regno di Dio, che ha fondato sulla terra il regno dei cieli, non è mai esistito». Al contrario, Gesù sarebbe stato un profeta apocalittico, caduto vittima del suo stesso errore43.

Gesù storico o Gesù kerygmatico?

Dalla metà degli anni sessanta, anche nella teologia universi-taria cattolica si è imposta r«analisi della forma» (Formgeschi• chte) dei Vangeli, con le sue diramazioni di «analisi della tradi-

41 B.L. Mack, The Lost Gospel, New York 1993; J.D. Crossan, Der historische Jesus, Mùnchen 1994; E. Gruber-H. Kersten, Der Ur-Jesus, Munchen 1994; G. Laudert-Ruhm, op. cit.: L. Schottroff-W. Stegemann, Jesus voti Nazareth, Stuttgart 1978; S. Ben-Cho-rin, Bruder Jesus> Mttnchen 1967 e molti altri.

42 A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Miinchen-Hamburg 1966, p. 620.

43 lbid., p. 396.

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: : zione» e «analisi della redazione». Questa scuola si rifa origi-\ nanamente ai teologi Martin Dibelius e Rudolf Bultmann, i qua-/ li supponevano che la Chiesa delle origini (prima del 70) non U avesse bisogno di Vangeli, perché partiva dal presupposto del-.•• l'imminente ritorno di Cristo. Disponeva solo di una raccolta di

-£ detti, di alcuni racconti esemplari e di un brevissimo resoconto ; : della crocifissione. Per questi studiosi la forma e i nuclei con-5; : tenutistici essenziali risalgono, per il tramite degli apostoli, a

; molti anni dopo la propagazione dell'annuncio: Marco dopo il p: 70, Matteo e Luca dopo l'80, Giovanni addirittura dopo il 90,

• mentre le attribuzioni servivano unicamente allo scopo di con-' ferire una patente di autenticità a opere originariamente ano-

^ nime. A quell'epoca l'autentica memoria del Gesù storico era :. andata abbondantemente persa, e al suo posto era subentrato il

;; ; Gesù kerygmatico, il Cristo dell'annuncio. In quel momento la dottrina degh apostoli era già mutata, assumendo contorni sin-

£ ;; eretici, mentre originariamente c'erano state differenze incol-; mabili tra l'insegnamento di Pietro e quello di Paolo. Il Gesù di f Pietro sarebbe stato il Messia giudaico, quello di Paolo un figlio

rj r di Dio ellenistico attorno al quale si intessevano i racconti dei \ miracoli44. Il contenuto dei Vangeli, come affermavano gli stori-• ci di quella forma letteraria, era determinato principalmente dal

i; «contesto vitale» (Sitz im Leben), quindi dalle impellenti pro-}: blematiche con cui dovevano misurarsi le rispettive comunità.

Questa tendenza interpretativa non prendeva in considerazio-: - ne rivelazioni divine e interventi soprannaturali, e così la pro-M fezia di Gesù della distruzione del tempio di Gerusalemme (Mt J-; 24,1-3; Me 13,1-4; Le 21,5-7) nell'anno 70 assurse a criterio prin-^ cipe di una così tarda datazione d«i t«sti.

- -

y- Uno stravagante di nome Gesù

In questo modo, gli storici della forma dimenticano che le pre-^ Jdizioni della distruzione del tempio appartenevano già all'epo-

44 R. Bultmann, Die Geschichte der synoptischen Tradition, Gòttingen 1921.

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ca vetero-testamentaria ed erano quasi una costante del re-pertorio di tutte le profezie apocalittiche. Anche la predizione dell'assedio di Gerusalemme «cinta da bastioni» si trova già in Isaia (29,1-3), Ezechiele (4,2) e analogamente in Geremia (6,6). Nella sua Storia della guerra giudaica Giuseppe Flavio cita un «tale Gesù, figlio di Anania, un rozzo contadino», che «quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al cul-mine della pace e della prosperità» - quindi nell'anno 62 - era venuto a Gerusalemme in occasione della festa delle Capanne per annunciare improvvisamente e pubblicamente: «Povera Ge-rusalemme e povero il tempio!». Le sue maledizioni tuonarono giorno e notte, in tutte le strade e i vicoli della città, finché al-cuni distinti cittadini non ne ebbero abbastanza: fu arrestato, malmenato, poi, poiché non desisteva, trascinato davanti al go-vernatore romano Albino (62-64). Questi all'inizio procedette esattamente come Pilato 32 anni prima, facendo flagellare il pro-feta. Tuttavia, sebbene «dilaniato fino a mettere allo scoperto le ossa», Gesù Ben Ananus non implorò la grazia, non rispose alle domande del governatore, ma proseguì a gridare: «Povera Gerusalemme!». Alla fine Albino si convinse di trovarsi di fron-te a un pazzo e lo lasciò andare. Sette anni più tardi questi con-tinuava a proferire le sue stridule maledizioni: «Povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!», fino a che, infine, du-rante l'assedio di Gerusalemme, non fu colpito da una pietra scagliata da una catapulta romana e cadde al suolo morto45. Non abbiamo alcun motivo per dubitare del bizzarro aneddoto tra-mandatoci da Giuseppe Flavio sull'eccentrico profeta, che lui stesso descrive come « l u g u b r e » . Tuttavia ci chiediamo perché venga contestato a Gesù di Nazaret un carisma profetico che si attribuisce a Gesù Ben Ananus. In questo modo gli storici del-la forma evangelica trascurano di considerare un punto assolu-tamente decisivo: nella visione apocalittica di Gesù «i giorni del-le tribolazioni» (Mt 24,29; Me 13,24) precedono immediata-mente il ritorno del Figlio dell'uomo «sulle nubi del cielo con

45 Giuseppe Flavio, Bell, luci, VI, 53.

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grande potenza e splendore» (Mt 24,30). Poiché però questo, dopo la distruzione di Gerusalemme dell'anno 70, non avven-ne, non si può nemmeno supporre che i Vangeli sinottici siano stati redatti così tardi. Avrebbero confutato da soli quella pro-fezia da loro stessi costruita ad arte. Perciò è piuttosto da sup-porre che i Vangeli siano nati in un momento in cui gli eventi preannunziati erano ancora ben al di là da venire. Infatti Gesù aveva anche profetizzato: «Quando questo Vangelo del Regno sarà predicato in tutta la terra abitata, quale testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine» (Mt 24,14; cfr. Me 13,10). An-che da questa profezia, nel 70 si era ancora ben lontani.

n seminario su Gesù

Negli anni ottanta la «ricerca del Gesù storico» in contrap-posizione con il «Cristo kerygmatico» dell'annuncio ha vissuto, in particolare negli Stati Uniti, una nuova rinascita. A partire dal 1985 e fino agli inizi degli anni novanta un piccolo gruppo di accademici si incontrò ogni sei mesi per discutere cosa ci fos-se di autentico nei Vangeli e cosa in loro potesse essere ricon-dotto al «vero Gesù». Il «seminario su Gesù», organizzato dal Westar Institute di Sonoma, in California, era condotto dal Ro-bert W. Funk e dal professor John D. Crossan della DePaul Uni-versity di Chicago46. In queste occasioni Funk organizzava un vero e proprio circo mediatico attorno a questo autonominato-si Supremo Consiglio dei Giudici della Bibbia e dava in pasto all'opinione pubblica tesi sempre nuove e provocanti. Così, al-la base dell'intero seminario su Gesù, stava come premessa l'i-dea secondo la quale «i Vangeli non sono narrazioni storiche ac-curate bensì racconti costruiti dal punto di vista letterario, arti-stico e teologico sulla base di materiale trasmesso dalla tradizione»47. Oppure, per citare Funk: «Vogliamo liberare Ge-

46 L.T. Johnson, The Real Jesus, San Francisco 1997, p. 4. .47 Los Angeles Times, 24-2-1994, cit. da Johnson, op. cit., p. 7.

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sù. L'unico Gesù, cui la maggior parte degli uomini aspira, è quel-lo mitico. Non vogliono il Gesù autentico. Ne vogliono uno che possano venerare. Il Gesù del culto»48. E ancora: «Matteo, Mar-co, Luca e Giovanni hanno commercializzato il Messia e l'han-no adattato alla dottrina cristiana sviluppatasi dopo la morte di Gesù ..., di un uomo cioè che - ironia della sorte! - si era ribel-lato contro le dottrine del suo tempo»49. Il seminario era volto a stabilire quali parti del Vangelo fossero riconducibili a mate-riale autentico, cioè alle effettive parole di Gesù. Per fare ciò si ricorreva a pubbliche votazioni degli esperti coinvolti, le quali, più che dibattiti scientifici, ricordavano le trasmissioni a quiz americane. Era stato così elaborato un codice basato sui colo-ri; «rosso» significava: Gesù l'ha detto veramente; «rosa»: è pos-sibile che Gesù abbia detto qualcosa di simile, nonostante le suc-cessive deformazioni della tradizione; «grigio»: queste non so-no le sue parole, ma il pensiero che sottintendono potrebbe aver avuto origine da lui; «nero»: Gesù non l'ha detto; queste paro-le sono opera dei primi cristiani! Questo metodo, certo più sen-sibile ai risvolti mediatici che al rigore scientifico, è stato attac-cato con veemenza e l'unico effetto che il «seminario su Ge-sù» ha potuto sortire è stata la violenta polemica teologica che ne è scaturita e che il New York Times ha battezzato «guerre di Gesù».

Il quinto Vangelo

Secondo Funk, il seminario su Gesù avrebbe stabilito che «molto meno del 25% di tutte le affermazioni attribuite a Ge-sù sono da ritenere effettivamente sue»50. In loro vece, Funk pre-sentò un «quinto Vangelo», simile almeno nella forma alla rac-colta di detti Q e a cui perciò accordava la preferenza: il Van-

w Washington Post, 9-3-1991, cit. da Johnson, op. cit, p. 7. *9 Los Angeles Times, 5-3-1989, cit. da Johnson, op. cit, p. 12. 50 Ibid.

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gelo di Tommaso. Questo fu rinvenuto da un fellah egiziano insieme ad altri manoscritti paleocristiani e gnostici presso Nag Hammadi, nell'Egitto Superiore. Dopo un'avventurosa odissea dalle mani del maestro del villaggio a un negozio d'antiquaria-to, i papiri approdarono infine al Museo copto del Cairo. Que-sto a sua volta pregò Jean Doresse, direttore del dipartimento egizio del Louvre di Parigi, di esaminarli insieme a studiosi egi-ziani. Nel 1956, conclusi gli esami preliminari, i testi poterono essere sottoposti al giudizio di settori più ampi del mondo scien-tifico; nel 1977 apparvero in un'edizione critica integrale. Il rin-venimento dei manoscritti di Nag Hammadi ha suscitato sen-sazione nella comunità scientifica. Proprio il Vangelo di Tom-maso, una raccolta di 118 «parole del Signore», era conosciuto fino a quel momento solo attraverso fonti coeve. Il «Vangelo de-gli egizi» viene citato da Clemente Alessandrino (140-216), da Ippolito (160-235) e da Origene (185-254), il che significa che nell'Alessandria del II secolo doveva godere di grande popo-larità. Mentre i manoscritti di Nag Hammadi sono originari del III secolo, la versione originaria del Vangelo di Tommaso risa-le quindi ad almeno 100 anni prima. Come anche altri «Vange-li segreti» dell'Egitto Superiore, sembra aver subito l'influenza gnostica, cioè di quella corrente cristiano-ellenistica che fon-deva la nuova dottrina con la filosofia platonica e con la tradi-zione dei culti misterici egiziani. Nella forma sembra in effetti essere concepito sulla base del modello fornito da Q, e inoltre riporta proprio quelle parole di Gesù che venivano considerate importanti nei circoli gnostici. Tuttavia, solo 15 delle 118 cita-zioni di Gesù presenti nel Vangelo di Tommaso sono state clas-sifica te come «rosse», cioè autentiche, dal seminario su Gesù, mentre per altre 25 il responso è stato il «rosa». In questo mo-do però il «quinto Vangelo», così fragorosamente sbandierato, non si dimostra in alcun modo «più autentico» degli altri quat-tro Vangeli canonici, e non fornisce alcun genere di informazioni sul Gesù storico51.

51 L.T. Johnson, op. cit., p. 21.

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D frammento di Oxford

Poco tempo dopo, il papirologo di Paderborn Carsten Peter Thiede52 ha reso noto di aver identificato alcuni frammenti di due manoscritti evangelici coevi «risalenti all'epoca dei testi-moni oculari». Nel caso del primo manoscritto, si tratta di tre minuscoli frammenti di papiro conservati nel Magdalen Colle-ge di Oxford e contenenti parole tratte dal XXVI capitolo del Vangelo di Matteo. Erano stati acquistati in Egitto nel 1901 da un giovane cappellano, Charles Huleatt, che li aveva inviati al college presso il quale aveva compiuto gli studi. I frammenti re-cavano scritte su entrambi i lati, e perciò non provenivano da un rotolo ma da un codice, quindi da un libro. Poiché si ritene-va che i primi cristiani avessero iniziato a servirsi di codici solo verso la fine del II secolo, la datazione di quei frammenti fu sta-bilita di conseguenza. Al contrario Thiede, papirologo di fama, dimostrò che la caUigrafia del papiro di Magdalen è tipica del-la «scrittura a uncino» uno stile ornato del I secolo. Sulla base di questa argomentazione, ipotizzò una datazione precoce: Thie-de è convinto che questi frammenti evangelici risalgano a un'e-poca anteriore al 70 d.C. A suo parere, non solo provengono dal più antico manoscritto del Vangelo di Matteo di cui ci sia nota l'esistenza, ma attestano anche la redazione di questo Vangelo entro 40 anni dalla crocifissione di Gesù ed evidentemente la sua diffusione in tutto il mondo antico, dimostrando inoltre che l'autore del Vangelo di Matteo era lui stesso un testimone ocu-lare della vita di Gesù o era in contatto con codesti testimoni.

Marco a Qumran

Ancora più antico - e questo inconfutabilmente - è un fram-mento di papiro rinvenuto in una delle caverne di Qumran, sul Mar Morto, e che, già prima di Thiede, il papirologo spagnolo di origine irlandese José O'Callaghan, curatore tra l'altro della col-

52 C.P.Thiede-M. d'Ancona, Der Jesus-Papyrus, Miinchen 1996.

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lezione Palau-Ribes, aveva identificato come un frammento del Vangelo di Marco (Me 6,52-53). A differenza della maggior par-te degli altri scritti di Qumran, questo non era redatto in ebrai-co o in aramaico, ma in greco53. Un vaso d'argilla, ritrovato in pezzi proprio accanto ai frammenti e che era servito alla con-servazione dei rotoli, riporta per ben due volte la trascrizio-ne ebraica della parola «Roma». L'iscrizione poteva alludere all'origine del papiro? In effetti la tradizione cristiana vuole che il Vangelo di Marco sia stato redatto a Roma54. Sulla ba-se dello stile calligrafico - la caratteristica «scrittura ornata» -O'Callaghan ha sostenuto la datazione del frammento in un'e-poca «non posteriore al 50 d.C.», trovando Thiede pienamente concorde. O'Callaghan non può essere lontano dal vero, perché è stato appurato che i rotoli del Mar Morto furono nascosti nel-le caverne soprastanti il «monastero esseno» di Qumran attor-no all'anno 66, all'inizio della guerra giudaica. La più tarda da-tazione ammissibile è quella del 68, anno in cui la X legione ro-mana Fretensis travolse le difese di Qumran55. Se dunque O'Callaghan, con la sua identificazione, coglie nel segno, ciò può solo significare che il Vangelo di Marco è stato redatto prima del 68, forse addirittura prima del 50. Era dunque a quell'epoca già così ampiamente diffuso che un esemplare potè perfino approdare nella biblioteca degli esseni? O la prima comunità cristiana aveva nascosto i propri scritti, al pari degli esseni, nelle caverne soprastanti il Mar Morto?

Marco conosceva testimoni oculari

In effetti, tutta una serie di indizi depone a favore di una da-tazione precoce del Vangelo di Marco. Quando Giuseppe Fla-vio scrisse il suo resoconto sulla guerra giudaica in un impreci-sato momento tra il 75 e il 79 d.C., introdusse cautamente il let-

SÌIbicLy p.53." M G. Stanton, Gospel Truth?, London 1995, p. 25. 55 GP.Thiede-M. d'Ancona, op. cit.y p. 53.

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tore nel mondo ebraico del periodo anteriore alla distruzione di Gerusalemme. Poiché trattava del passato, dovette spiegare chi fossero i protagonisti e quali gli scenari. Marco invece dà per scontata la loro conoscenza da parte dei lettori, presupponendo che si sappia chi fossero farisei e sadducei e che si conosca la to-pografia di Gerusalemme. Nel suo Vangelo non viene indicato una sola volta il nome del sommo sacerdote che interrogò Ge-sù, evidentemente nella supposizione che i lettori sapessero a chi ci si riferiva, mentre Matteo e Luca lo identificano con Cai-fa. Tutto ciò allude a una probabile redazione del Vangelo non troppo distante nel tempo dagli eventi in esso narrati, in ogni caso prima della distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. Le per-sone che si erano opposte all'arresto di Gesù - Pietro, che ave-va sguainato la spada quando Gesù era stato condotto verso il carcere, e il giovane che era fuggito nudo dopo un tafferuglio - rimangono anonime in Marco, evidentemente per protegger-le. Invece Marco non solo cita il nome dell'uomo che fu costretto dai soldati a portare la croce di Gesù, ma allude anche al fatto che questo Simone di Cirene era il «padre di Alessandro e Rufo» (Me 15,21). I due figli erano forse conosciuti dalla comunità del-le origini? Sembrerebbe così, perché che senso avrebbe altri-menti nominare non solo Simone, un ebreo che viveva nell'A-frica del Nord e che evidentemente era venuto a Gerusalemme per la festa di Pasqua, ma anche i suoi figli? Di fatto, nella Let-tera ai romani Paolo cita come membro della comunità di Ro-ma un certo «Rufo, l'eletto del Signore» (16,13), membro cioè di quella comunità nel cui ambito Marco, secondo la tradizione, redasse il suo Vangelo. Lui e suo fratello erano forse venuti a Gerusalemme con il padre per la festa di Pasqua dell'anno 30? Rufo era forse stato un testimone della Passione di Gesù? si era forse verificato un incontro personale che aveva segnato la vita del giovane? era forse diventato, in seguito a tutto ciò, un mem-bro della comunità cristiana di Gerusalemme? aveva finito per trasferirsi a Roma dove, secondo Svetonio, nel 49 c'erano già dei cristiani, secondo la tradizione cristiana già nell'anno 42 e forse ancora prima? Marco l'aveva conosciuto personalmente?

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/KA SM VOC c IM w N OC.

«Alessandro, figlio di Simone» (sopra), «Alessandro» e «Alessandro di Cirene» (sotto): iscrizioni su ossari provenienti dalla Valle del Cedron.

Che questa supposizione non sia in alcun modo campata per aria, lo dimostra un sorprendente ritrovamento archeologico ve-rificatosi nel 1941. In quell'anno fu dissigillata una camera se-polcrale situata nella valle del Cedron, tra Gerusalemme e il monte degli Ulivi. All'interno furono rinvenuti undici ossari, ur-ne in pietra in cui venivano deposte le ossa dei defunti: tutte re-cavano iscrizioni e risalivano a un'epoca precedente alla di-struzione del tempio (70 d.C.). L'iscrizione posta su una di que-ste diceva «Alessandro di Cirene» e «Alessandro, figlio di Simone»S6. Questo Alessandro, qui sepolto, era forse per l'ap-punto il figlio di quel Simone di Cirene che il Vangelo di Marco indica espressamente come padre di Alessandro e Rufo? Per quanto Simone e i suoi figli fossero venuti a Gerusalemme per la festa di Pasqua unicamente in veste di pellegrini, probabil-mente nessuno di loro in seguito fece ritorno alla propria casa,

56 A. Willard, Discoveries from Bible Times, Oxford 1990, p. 117.

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per rimanere invece in città. Possiamo dedurne che in quella fe-sta di Pasqua dell'anno 30 si sia effettivamente verificato qual-cosa di decisivo per loro, qualcosa che sconvolse i loro progetti esistenziali? si convertirono in seguito al loro incontro con Gesù e si unirono alla comunità delle origini? Alessandro rimase a Gerusalemme, dove infine morì, mentre Rufo si recò a Roma con Pietro e Marco? In ogni caso erano entrambi conosciuti ai primi cristiani, perché Marco li cita espressamente per nome. Che ne fu dei due fratelli? Forse Alessandro cadde vittima del-le persecuzioni contro i cristiani volute dal re Erode Agrippa negli anni 41-42, prima che Pietro fuggisse a Roma accompa-gnato da Marco e Rufo. In ogni caso dev'essere morto preco-cemente, perché anche la loro madre non rimase a Gerusa-lemme, ma seguì Rufo a Roma, dove Paolo le invia espressa-mente un saluto (Rm 16,13), e comunque non viene più citato. Anche l'assenza totale di simboli cristiani sul suo ossario rimanda a una morte avvenuta nei primissimi tempi della comunità del-le origini, quando questa aveva ancora una visione di sé come corrente particolare all'interno del giudaismo. E che ne fu di Rufo a Roma? In quanto «eletto del Signore» sarebbe stato si-curamente un degno successore di san Pietro alla guida della co-munità di Roma. Tuttavia, poiché non c'è più traccia di lui nei testi trasmessi dalla tradizione, si deve supporre che perì nel cor-so delle persecuzioni volute da Nerone nell'anno 64.

L'interprete di san Pietro

Poiché Marco era evidentemente in confidenza con i due fi-gli di Simone, deve aver redatto il suo Vangelo poco dopo il 42 d.C., come testimonia anche il rinvenimento a Qumran di un frammento risalente a un'epoca antecedente al 50. Ciò è con-fermato dalla tradizione: è certo che la persecuzione intentata da Erode Agrippa I fu interpretata dai discepoli di Gesù come il segno che era giunto il tempo di lasciare la Giudea e di cal-care le strade del mondo per dare inizio all'opera di conversio-

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ne dei popoli. Come tramanda Apollonio, «il Salvatore ingiun-se ai suoi apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme per dodici anni»57, finché non fosse giunto il momento di andare in tutto il mondo per annunciare il Vangelo a tutte le creature, come Gesù esortava a fare (Me 16,15). Questi dodici anni, il cui computo iniziava a partire dalla risurrezione - quindi nel 30 d.C. -, scadevano attorno ai 41-42, ed era dunque giunto il momen-to di adempiere alla loro grande missione. Pietro, fuggito dal car-cere in cui era rinchiuso a Gerusalemme, fece il passo più im-pegnativo e gravido di conseguenze: accompagnato da Marco, portò la buona novella da Gerusalemme a Roma, la capitale del-l'impero. È possibile che in quel momento nella Città Eterna ci fossero già dei cristiani. Gli Atti degli apostoli citano espres-samente dei romani come testimoni degli eventi della Pente-coste (At 2,10), alcuni dei quali forse si fecero persino battez-zare. In ogni caso, attorno al pescatore di uomini della Galilea si coagulò ben presto una solida cerchia di proseliti, da cui sor-se alla fine la prima comunità di Roma. È per questa che fu redatto, secondo la tradizione, il Vangelo di Marco, come scris-se attorno al 110 Papia, vescovo di Ierapoli (morto attorno al 120), richiamandosi a questo proposito nientemeno che all'a-postolo ed evangelista Giovanni, spirato a tarda età solo pochi anni prima. «Il presbitero [l'anziano, come era rispettosamen-te chiamato Giovanni] diceva questo: "Marco, interprete di Pie-tro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che si ri-cordava delle parole e delle azioni del Signore; non aveva udito e seguito il Signore, ma, più tardi, come già dissi, Pietro. Orbe-ne, poiché Pietro insegnava adattandosi ai vari bisogni degli ascoltatori, senza curarsi punto di offrire una composizione ordinata delle sentenze del Signore, Marco non c'ingannò scri-vendo secondo che si ricordava; ebbe questa sola preoccupa-zione: di nulla tralasciare di quanto aveva udito, e di non dire veruna menzogna"»58.

57 Eusebio, Hist. Ecc., V, 18,14. 38 Ibid., Ili, 39,15.

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Lo stile del Vangelo di Marco sembra confermare questa de-scrizione del processo che ha portato alla sua composizione: es-so infatti non ha niente di letterario, e nella sua semplicità e la-conicità corrisponde piuttosto alla lingua parlata, di cui conser-va il ruvido fascino e il colorito locale tipico della Galilea. Consta di molti singoli episodi non collegati da un vero filo narrativo, come se fosse composto di frammenti emersi dalla memoria. Nello sforzo di evidenziarne l'autenticità, una sequenza di det-ti di Gesù viene riportata in aramaico, il che rimanda a una fon-te che li aveva tramandati esattamente in questa lingua. Di si-curo Pietro, in quanto pescatore, non conosceva lingue stranie-re, ragion per cui dovette servirsi di Marco come interprete. La sua personalità tanto semplice quanto energica traspare co-munque dalle righe del Vangelo. Nella sua prima Lettera Pietro stesso conferma di essere a Roma con l'evangelista, in quella Roma che lui definisce, secondo la tradizione apocalittica, «nuo-va Babilonia»: «Vi abbraccia la comunità radunata in Babilonia e Marco, figlio mio» (lPt 5,13). Anche Clemente Alessandrino (morto attorno al 215) ne era a conoscenza: «Quando Pietro pre-dicava pubblicamente a Roma la parola di Dio e, assistito dal-lo Spirito Santo, promulgava il Vangelo, i numerosi presenti esor-tarono Marco, il quale da gran tempo era discepolo dell'apo-stolo e sapeva a mente le cose dette da lui, a mettere in iscritto la sua esposizione orale. Marco fece cosi e diede il Vangelo a co-loro che glielo avevano chiesto. Saputa la cosa, Pietro, da parte sua coi suoi consigli né impedì né incoraggiò la iniziativa»59.

A tutt'oggi la basilica romana di San Marco testimonia que-sta tradizione: è stata probabilmente eretta sulle fondamenta del-la casa in cui Marco redasse il Vangelo. È interessante segnala-re che si trova proprio di fronte al Campidoglio, nel centro del-l'antica Roma, e non, come l'abitazione di Paolo, nel ghetto ebraico sulla sponda del Tevere. Secondo la tradizione romana, citata anche dallo storico della Chiesa Eusebio, Pietro e Marco giunsero per la prima volta a Roma «al principio del regno di

" Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., VI, 14,6s.

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Claudio»60, quindi dopo il 41. Secondo Girolamo, Pietro fu per 25 anni vescovo di Roma, il che daterebbe la sua venuta a Ro-ma all'anno 42, poiché nel 67, sotto Nerone, subì il martirio. È certo tuttavia che la sua prima permanenza a Roma non durò più di due anni, poiché, venuto a sapere della morte di Erode Agrippa, fece ritorno a Gerusalemme all'inizio del 44, dove nel 48 prese parte al concilio Apostolico (At 15,7) e dove, con tut-ta probabilità, rimase fino al 51. Successivamente, compì un lun-go viaggio missionario che lo condusse fino ad Antiochia. È ugual-mente certo che non aveva ancora rimesso piede a Roma quan-do Paolo scriveva la Lettera ai romani (nel 57 circa) e nemmeno quando questi faceva il suo ingresso nella capitale (nel 60 circa). Probabilmente ritornò nella Città Eterna dopo che Giacomo fu giustiziato nel 62 d.C.; è in ogni caso storicamente accertata la sua esecuzione sotto Nerone nell'anno 67.

Secondo la tradizione ecclesiastica, Marco fu inviato da Pie-tro ad Alessandria, dove morì «nell'anno ottavo del regno di Ne-rone»61, quindi nel 62. All'incirca a quest'epoca risale il ritorno di Pietro a Roma, ma senza Marco e diversi anni dopo la reda-zione del Vangelo. Stando alla cronaca di Girolamo, era anco-ra l'anno terzo del regno di Claudio, quindi il 44, quando «Mar-co, evangelista e traduttore di Pietro, andava annunciando Cri-sto all'Egitto e alla città di Alessandria»62. È molto probabile quindi che abbia redatto il Vangelo subito dopo la partenza di Pietro e prima del proprio viaggio ad Alessandria, neU'estate del 44 d.C., una datazione confermata dal frammento di Qumran.

60Ibid.,U, 14,6. 01 Eusebio, Hist. Ecc., II,24,1. 62 Cit. da H. J. Schulz, Die apostoliche Herkunft der Evangelien, Freiburg 1997, p. 64.

In ogni caso Marco rimase ad Alessandria meno di un anno perché, secondo gli Atti de-gli apostoli (12,25), dopo il 45 si trovava di nuovo a Gerusalemme, da dove sarebbe par-tito con Paolo e Barnaba per un viaggio che lo condusse prima ad Antiochia, poi a Ci-pro e da lì ad Antiochia di Pisidia. Quindi tornò a Gerusalemme. Leggiamo poi negli Atti (15,39) che, dopo il concilio Apostolico di Gerusalemme del 48, si recò a Cipro con Barnaba. Prima del 50 non poteva quindi aver fatto ritorno ad Alessandria. Secondo la Lettera ai colossesi (4,10) e a Filemone (24), fece una breve visita a Paolo, a Roma, nel 61 circa - dopo che l'apostolo nella lettera a Timoteo (4,11) aveva richiesto la sua presenza - e da lì si recò a Colosse, per essere ancora ad Alessandria nel 62.

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Anche un riferimento interno al testo rimanda a questo mo-mento: «Quando vedrete l'abominio della desolazione posta là dove non dovrebbe... allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti» (Me 13,14). Marco cita la profezia di Gesù, non sen-za aggiungere: «Chi legge capisca», evidentemente come riferi-mento contemporaneo. Questo monito non poteva adombrare la distruzione del tempio, perché allora sarebbe stato troppo tar-di per una fuga sui monti, ma potrebbe invece alludere a un'al-tra profanazione del tempio. Leggiamo in Giuseppe Flavio che nell'anno 39 l'imperatore Caligola inviò «Petronio con un eser-cito a Gerusalemme per collocarvi le sue statue nel tempio»63, provocando un'insurrezione: «Petronio, con tre legioni e con mol-te milizie ausiliarie della Siria, mosse da Antiochia contro la Giu-dea», mentre gli ebrei si preparavano alla guerra. Solo l'assas-sinio di Caligola impedì la catastrofe. È quindi possibile che Pie-tro, nelle sue prediche a Roma negli anni 42-44, non presentendo ancora l'imminente guerra giudaica, interpretasse come adem-pimento della profezia di Gesù quelle «guerre e quei sentori di guerre» e quell'«abominio della desolazione» che sta «là dove non dovrebbe». Pare certo che Marco abbia redatto il suo Van-gelo in assenza di Pietro e su desiderio della propria comunità, come conferma Gemente Alessandrino64, il che fu più tardi equi-vocato. Il Padre della Chiesa Ireneo (morto attorno al 220), con-vinto di un ininterrotto soggiorno romano di Pietro, credeva che Marco avesse redatto il Vangelo dopo la morte di Pietro e Pao-lo65, dunque nell'anno 67-68. A quel tempo però Marco, come abbiamo visto, non era più in vita, e anche il frammento di Qum-ran è incompatibile con questa datazione.

Una satira di Marco?

In questo contesto sono di notevole interesse le ricerche di Ilaria Ramelli, una studiosa italiana di letteratura paleocristia-

a Giuseppe Flavio, Bell. Ind.,Il,10,1. 64 Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., VI, 14,6s. 65 Ireneo, Adv. haer.. Ili, 1.1.

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na, la quale sostiene che il Satyricon di Petronio conterrebbe chiare parodie del Vangelo di Marco. Autore del Satyricon fu Ti-to Petronio Nero, ambiguo membro della corte dell'imperatore Nerone, che all'inizio del 66 fu costretto al suicidio. Di lui scri-ve Tacito: «Trascorreva i suoi giorni sprofondato nel sonno, ma consacrava la notte agli affari e ai piaceri, e come altri si gua-dagnavano la fama grazie alla loro operosità, così faceva lui con l'ozio. E tuttavia non era un dissoluto scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dissipano il loro patrimonio, ma un uomo di ricercato buon gusto nei piaceri... Fu accolto nella più intima cerchia degli amici di Nerone: era arbitro del buon gusto e l'imperatore non giudicava nulla di buon gusto e delizioso che non avesse incontrato l'approvazione di Petronio»66. Il Satyri-con, un racconto picaresco pieno di frivolezze ma letteraria-mente brillante, è la prima opera romana in prosa composta se-condo il modello greco. Già questo testimonia della grande cul-tura e della finezza di Petronio, che in questo modo non solo inaugurò una nuova corrente letteraria, ma diede vita al con-tempo al suo capolavoro. Il Satyricon è denso di scenari che mu-tano perennemente, di azioni comiche, grottesche, spesso anche oscene che s'incalzano, insaporite da allusioni sottilmente iro-niche e di grande eleganza formale. Il suo motto sono le tre pa-role poste all'inizio: Lector, intende, laetaberis, «Lettore, sta' attento, ti divertirai!».

Se Ilaria Ramelli avesse ragione, anche il cristianesimo fa-rebbe le spese dei lazzi spesso grossolani di Petronio, perché il Satyricon conterrebbe parodie e allusioni al Vangelo di Marco. Questo però significherebbe che, all'inizio degli anni sessanta, il Vangelo era così conosciuto a Roma, persino alla corte im-periale, da essere addirittura parodiato.

In effetti i parallelismi sono rilevanti. Marco racconta nel suo Vangelo (Me 14,3-9) che Gesù era ospite di Simone a Betania quando una donna entrò con un vaso d'alabastro colmo di un prezioso unguento, lo ruppe e versò l'olio sui capelli di Gesù.

66 Tacito, Ann., 16,18.

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Quando i discepoli si lamentarono dello spreco di olio prezio-so, Gesù li rimproverò e disse: «Essa ha unto il mio corpo in an-ticipo per la sepoltura».

Anche il noto personaggio di Trimalcione nel LXXVIII capi-tolo apre «un'ampolla di unguento balsamico» e incita gli ospi-ti del suo convivio a considerare il suo gesto di cospargersi d'o-lio come preannuncio della propria sepoltura. Si cercherebbe invano in tutta la letteratura latina un solo passo in cui il pre-zioso unguento è posto in relazione con la sepoltura o con la morte. Una tradizione di questo genere non esisteva affatto nel mondo romano.

Inoltre, durante la famosa cena (LXXIV capitolo), Trimal-cione ode un gallo cantare e trasale, perché lo interpreta come premonizione di disgrazia e di morte. Il gallo viene addirittura definito index, «testimone d'accusa». Anche nel Vangelo il gal-lo canta per accusare Pietro del tradimento e per annunciare la passione e la morte di Gesù. Presso i romani e i greci, al con-trario, il canto del gallo era nn buon segno, messaggero del gior-no novello e della vittoria.

In un altro passo, nel CXLI capitolo, Eumolpo, compagno di Trimalcione, dichiara che lascerà in eredità le sue ricchezze a co-loro che dopo la sua morte mangeranno della sua carne, il che pare una chiara irrisione all'Eucaristia.

Nel CXI capitolo si fa accenno a un «governatore della pro-vincia» che a Efeso aveva condannato alcuni uomini aUa croci-fissione. Quando questi spirarono, il governatore ordinò a un soldato di montare la guardia ai cadaveri «perché nessuno de-ponesse le salme per la sepoltura». Ma il soldato si innamorò di una vedova che piangeva sulla tomba del marito, non lontano dal luogo dell'esecuzione, e si incontrava segretamente con lei ogni notte. «Il terzo giorno» vennero a saperlo i genitori di uno degli uomini crocifissi e approfittarono dell'assenza della guar-dia per calare il figlio morto dalla croce e rendergli l'ultimo ser-vizio amoroso. Quando il soldato tornò al suo posto di guardia, si spaventò, poiché il cadavere mancava e lui rischiava la pena di morte. Ma la vedova gli venne in soccorso e gli permise di in-

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chiodare il cadavere del marito alla croce per salvarsi la vita. «Il giorno seguente», conclude Petronio, «il popolo si meravigliò e si chiese come un morto avesse potuto arrampicarsi sulla cro-ce». Nel capitolo CXXVI, infine, la serva di Circe manifesta il suo profondo disprezzo per coloro che finiscono sulla croce e la sua intenzione di lasciare alle «dame distinte ... di abbraccia-re gli avvoltoi del patibolo ... [e] di baciare le cicatrici delle frustate». Effettivamente, negli Annali Tacito racconta della con-versione al cristianesimo di una «distinta dama» della miglio-re società romana, e dalla Lettera di Paolo ai filippesi emerge la presenza di cristiani alla corte di Nerone; egli scrive infatti: «Vi salutano tutti i santi, in modo particolare quelli della casa di Cesare» (Fil 4,22). Nell'anno 57, prima quindi dell'irrigidi-mento della sua politica nei confronti dei cristiani, Nerone de-cise di rimettere il destino di Pomponia Graecina, dama sposa di un magistrato, proprio al tribunale presieduto dal marito. La matrona era accusata di superstitio externa, «superstizione stra-niera», come i romani definivano il cristianesimo. Fu rilasciata e rimase fedele al suo credo67. Carsten Peter Thiede68 accenna inoltre a parallelismi tra i Vangeli e un'altra opera in prosa del-la prima età imperiale, il racconto amoroso Le vicende di Che-rea e Calliroe del greco Caritone. Anche qui si ritrovano i mo-tivi della crocifissione e del sepolcro vuoto, anche qui i curiosi gridano al Crocifisso kàtabethi/, «Scendi dalla croce!» - la stes-sa espressione che ritroviamo nei Vangeli (Mt 27,40) - , anche qui si diffonde la notizia (cfr. Mt 28,2) di un morto risuscitato. Le avventure furono redatte forse già «attorno al 40 d.C.»69, in ogni caso però prima della morte dell'autore nell'anno 62 d.C., ulteriore indizio di un'ancor più precoce comparsa del suo mo-dello letterario.

47 S.M. Paci, Dos Evangelium zwischen den Zeilen des Petronius, in 30 Tage (1996), n. 6, p. 33. Anche CP. Thiede esamina in maniera particolareggiata questi parallelismi andando in parte oltre quanto acquisito dalle ricerche di Ramelli (C.P. Thiede, Ein Fisch fìir den ròmischen Kaiser, Munchen 1998, pp. 110-121).

68 C.P.Thiede, Ein Fisch..., cit., pp. 127-133. 69 Ibid., p. 131.

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Matteo: un nome per due Vangeli

Se dunque il Vangelo di Marco è stato effettivamente redatto a Roma attorno al 44, quando nacque allora il Vangelo di Mat-teo? E come mai la tradizione ecclesiastica indica in Matteo il Vangelo più antico, sebbene questi attingesse inequivocabilmente al Vangelo di Marco e alla raccolta di detti Q? Ecco la risposta: quello che noi oggi conosciamo come «Vangelo di Matteo» è for-se una versione, rielaborata e ampliata attraverso le informazioni fornite da Marco, di un vangelo originario opera per l'appunto di Matteo, il gabelliere che sapeva scrivere (Mt 9,9). Non si trat-tava però di un racconto, di una «biografia» di Gesù, ma di una raccolta di detti, proprio quella raccolta che i teologi chiamano Q. Forse fu trascritta quando Gesù era ancora in vita o subito dopo la sua morte. Così scriveva Papia, vescovo di Ierapoli, la fonte più antica che si pronunci sull'origine dei quattro Vange-li, attorno al 110: «Matteo raccolse le sentenze [del Signore] nel dialetto degli ebrei; ognuno però li traduceva come riusci-va»70. Per i «discorsi» di Gesù, Papia ricorre al termine greco lo-ghia, che può anche significare «parole» o «detti». E con «dia-letto degli ebrei» intende la lingua colloquiale del I secolo, l'a-ramaico. Ciò che emerge da questa antichissima tradizione è che esisteva una raccolta di detti in aramaico e che Matteo ne era stato il redattore. Questo «proto-Matteo» fu il primo Vangelo ad avere diffusione a Gerusalemme, ma anche nelle comunità giu-deo-cristiane e di lingua aramaica della Decapoli, a Damasco e ad Antiochia. Finché fu presente un numero sufficiente di te-stimoni oculari della vita di Gesù, la raccolta di detti bastava. Quando tuttavia il Vangelo di Marco, redatto in greco o forse in latino, si diffuse a partire da Roma - il ritrovamento di Qumran farebbe pensare che abbia raggiunto la Terrasanta prima del 50, forse addirittura prima del concilio Apostolico che ebbe luogo

70 Cit. da Eusebio, Hist. Ecc. Ili, 39,16s. Cosi recita la traduzione di Giuseppe DelTon: «Matteo raccolse le sentenze [di Ge-

sù] in lingua ebraica; e ognuno le traduceva come poteva» (ndt).

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nel 48 - , nacque il desiderio di un nuovo, più completo Vangelo che riportasse, integralmente e in lingua aramaica, sia le parole sia la vita di Gesù. Per impedire che colui che aveva redatto la raccolta di detti - e con lui il garante della sua autenticità - ca-desse nell'oblio, s'intitolò a Matteo anche il nuovo Vangelo. Pro-babilmente nacque ad Antiochia o nella Decapoli, in ogni caso non in Giudea, perché questa viene espressamente localizzata come «al di là del Giordano» (Mt 19,1). Secondo il Padre della Chiesa Ireneo, vescovo di Lione morto intorno al 220, il Van-gelo fu redatto «tra gli ebrei» - intendendo qui i giudeo-cristia-ni - , «nella loro lingua» - e qui il riferimento è all'aramaico - , «mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma, e vi fondavano la Chiesa»71, quindi in un arco di tempo che va dal 42 al 67, men-tre noi lo datiamo al 50 circa. Matteo stesso, invece, lasciò pro-babilmente la Palestina già nel 42 per recarsi in missione in Etio-pia e in Persia, dove subì il martirio.

Quando fu redatto Luca?

Quando fu redatto il Vangelo di Luca? Una cosa è certa: do-; po il Vangelo di Marco (nel 44 circa) e probabilmente anche do-po Matteo (nel 50 circa), prima però della compilazione degli Atti degli apostoli. All'inizio del suo Vangelo, Luca spiega al suo mecenate, l'«egregio Teofilo», che esistevano già altri Vangeli e resoconti della vita di Gesù, per quanto meno dettagliati. L'al-lusione è qui sicuramente alla fonte Q e a Marco, forse a Mat-teo, eventualmente anche al «Protovangelo» del «fratello del Si-gnore» Giacomo, che fu redatto prima del 61 e tradisce un'in-

i tima conoscenza del servizio del tempio. Da questo scritto Luca attinse evidentemente molti particolari sulla storia precedente

: alla nascita di Gesù. Rimandando, nell'introduzione agli Atti de-gli apostoli, al suo «libro precedente ... dedicato ... ad esporre

71 Cit. da Eusebio, Hist. Ecc.yV, 8,2. «In ebraico», riporta invece la traduzione di DelTon (ndt).

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tutto ciò che Gesù ha operato e insegnato dall'inizio» (At 1,1), l'evangelista fornisce la chiave della sua datazione. Dagli Atti degli apostoli possiamo dedurre che Luca fu testimone ocula-re dei viaggi di Paolo, perché li descrive parzialmente in prima persona, ricorrendo al pronome «noi». Anche la tradizione ec-clesiastica, a partire dal 150 circa (nel Frammento Muratoria-no), lo identifica come il medico che «Paolo condusse con sé co-me suo aiutante» e che avrebbe redatto «il terzo Vangelo pro-babilmente nel suo nome», cioè su sua sollecitazione. Ireneo confermò questa tradizione e lo stesso fece Eusebio, che indicò Antiochia come sua città d'origine e aggiunse: «Ebbe intima fa-miliarità con Paolo e contatti tutt'altro che fuggevoli con i ri-manenti apostoli»72. Ora, gli Atti degli apostoli non si conclu-dono con il martirio di Paolo, ma con il suo arrivo a Roma, do-ve questi visse «due anni interi in un ambiente preso a pigione ... annunciando il Vangelo del Regno e insegnando le cose ri-guardanti il Signore Gesù Cristo con piena libertà e senza osta-coli» (At 28,30-31). Paolo giunse a Roma sotto l'imperatore Ne-rone, probabilmente nel 60, dopo una traversata piuttosto av-venturosa. Tra il 54 e il 59, procuratore della Giudea era stato Antonio Felice, citato negli Atti degli apostoli e sotto il quale Paolo fu imprigionato a Cesarea, probabilmente dal 57 al 59. Non si sa con esattezza quando Paolo fu giustiziato durante il regno di Nerone, probabilmente però all'inizio del 65. Se quin-di gli Atti degli apostoli si fermano nella loro cronaca aU'anno 62, se ne può dedurre che furono redatti poco tempo dopo, in ogni caso prima del 65. Ma allora il Vangelo di Luca dovrebbe risalire a un periodo precedente, probabilmente al 62 d.C.

L'iscrizione di Nazaret

Un ritrovamento archeologico sembra confermare una data-zione precoce dei Vangeli. Proprio a Nazaret, nel 1878 è stata

"/òt t i , III,4,6.

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rinvenuta una tavola di pietra recante un'iscrizione, inconfuta-bilmente autentica, che risale alla metà del I secolo73. Molti ri-cercatori la considerano una conferma della storicità delle voci che, stando al Vangelo di Matteo, circolavano tra ebrei e roma-ni dopo la risurrezione di Gesù:

Disposizione dell'imperatore: ho diramato la decisione secondo la quale camere funerarie e colline sepolcrali erette per rendere pii onori ad avi o figli o ad altri membri della famiglia devono ri-manere intonse al loro posto per l'eternità.

Abbia perciò luogo una denuncia d'ufficio contro colui che ab-bia danneggiato un luogo di sepoltura, in qualunque modo questo sia avvenuto, o che abbia disseppellito coloro che là riposavano in pace, oppure contro chi abbia osato traslare in altri luoghi la sal-ma di co loro che lì riposavano in pace, con intento malvagio e astu-to e con lo scopo di recare loro oltraggio oppure ... contro colui che osi rimuovere le pietre che ostruiscono l'ingresso dei luoghi di se-poltura o altre pietre che ne facciano parte.

Ad ogni denuncia d'ufficio di questo tenore - questo è il mio or-dine - deve seguire l'apertura di un processo contro un simile mal-fattore, nello stesso modo in cui si procede quando viene violata la pia venerazione dovuta agli dei, così quando vengono violati gli ono-ri che spettano agli uomini là inumati.

Perché tributare onore ancor più di quanto abitualmente avven-ga a coloro che riposano in pace, è cosa che si addice in verità! Che non si permetta ad alcuno di operare modifiche non autorizzate ai luoghi di sepoltura. Ma se qualcuno dovesse agire contro queste di-sposizioni, allora - la mia decisione sia in questo modo resa nota -allora questi, sulla base del titolo di reato: profanazione dei luoghi di sepoltura, sia senza alcuna indulgenza condannato a morte74.

Se prestiamo fede a Matteo, la notizia dell'apparizione di Ge-sù ai discepoli era giunta ben presto ai membri della gerarchia del tempio, a coloro cioè che avevano messo in scena la sua condanna e la sua esecuzione. La loro reazione fu una vera e propria campagna di disinformazione: «Mentre esse erano per

" G. Pfurmann, Die Nazareth-Tafel, Miinchen 1994. 74 Cit. da G. Pfirrmann, op. cit., pp. 183s.

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via, alcune delle guardie, recatesi in città, riferirono ai capi dei sacerdoti tutto l'accaduto. Essi, radunatisi insieme agli an-ziani, dopo essersi consultati, diedero ai soldati una cospicua somma di denaro dicendo: "Dite che di notte sono venuti i discepoli di lui e l'hanno portato via, mentre noi dormivamo. Se la cosa dovesse giungere per caso alle orecchie del gover-natore, lo convinceremo noi a non darvi noia alcuna". Essi, pre-so il denaro, fecero secondo le istruzioni che avevano ricevu-to. Cosi questa diceria si è diffusa presso i giudei fino ad oggi». (Mt 28,11-15). Evidentemente queste voci erano giunte an-che all'orecchio di Pilato, il quale le riferì all'imperatore. Di ciò è a conoscenza anche lo storico della Chiesa Eusebio, che nel IV secolo potè avere accesso agli archivi dei governatori ro-mani della sua città d'origine, Cesarea: «La gloriosa resurre-zione e l'ascensione al cielo del Salvatore nostro erano già no-te a moltissimi. Ma già da tempi remoti i governatori delle pro-vince riferivano all'imperatore regnante ciò che di nuovo e di straordinario era accaduto nel loro territorio, affinché nessun avvenimento gli sfuggisse. Così Pilato informò Tiberio della ri-surrezione da morte del Salvatore nostro Gesù, che era sulla bocca di tutti in Palestina. Lo rese consapevole anche degli al-tri prodigi da lui operati e com'egli, risuscitato, già da molti era creduto Dio»75. Naturalmente questa descrizione non è esente da elementi idealizzanti di matrice cristiana, perché è piutto-sto improbabile che «molti»76 considerassero Gesù «Dio», vi-sto che al testimone oculare Giuseppe Flavio non risultano si-mili conversioni di massa e che, anche secondo gli Atti degli apostoli, la comunità delle origini annoverava solo 3000 mem-bri. Si può però ritenere che Pilato abbia effettivamente inol-trato un rapporto all'imperatore, riferendogli sia la convin-zione di alcuni che Gesù fosse risorto sia la controcampagna condotta dai sommi sacerdoti e inaugurata con l'accusa della

75 Eusebio, Hist. Ecc., 11,2. 76 La traduzione tedesca del testo di Eusebio cui fa riferimento Hesemann riporta

il termine Menge, <»moltitudini» (ndt).

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sottrazione del corpo. L'editto imperiale poteva quindi essere una logica (per quanto tardiva) reazione al rapporto di Pila-to. Questo spiegherebbe anche per quale ragione la tavola fos-se stata collocata proprio a Nazaret, dove abitavano i parenti di Gesù il Nazareno, che almeno per i romani erano i princi-pali indiziati del presunto «ratto del cadavere». È comunque un fatto che, se da un lato sono state rinvenute innumerevoli iscrizioni sepolcrali romane che maledicevano i futuri preda-tori di tombe, d'altro canto mai e in nessun luogo è stata ri-trovata una simile iscrizione contenente una minaccia di puni-zione imperiale per coloro che si fossero in particolare resi col-pevoli di sottrazione di cadaveri.

Purtroppo dall'iscrizione non trapela chi fosse l'imperatore che aveva promulgato l'editto. Poiché Nazaret, all'epoca di Ti-berio, era sotto il dominio di Erode Antipa, il provvedimento non può essere antecedente al regno di Claudio (41-54) né suc-cessivo a quello di Nerone (54-68). Forse risale al 49, quando Claudio scese in campo contro la «rivolta di Cresto» per seda-re l'aperto conflitto esploso nella capitale tra ebrei e cristiani, che naturalmente non poteva non avere strascichi nella provin-cia e a cui forse si riferisce l'autore del Vangelo di Matteo quan-do cita la «diceria [divulgatasi] tra i giudei fino ad oggi». Non può certo passare inosservato il fatto che un riferimento a que-sta controcampagna sia riscontrabile solo in Matteo, cioè pro-prio in quel Vangelo redatto in un luogo imprecisato nelle vici-nanze della Galilea - probabilmente ad Antiochia o nella De-capoli - e dal quale emana il tipico colorito locale più di ogni altro scritto evangelico. Se il conflitto, che a Roma aveva co-nosciuto un'intensificazione, aveva avuto ripercussioni anche lì, se si era resa necessaria una parola imperiosa del Cesare e se l'autore del Vangelo di Matteo aveva fatto cenno a questa at-tuale «diceria», allora quest'ultimo doveva davvero essere sta-to redatto dopo il 50 d.C., come ho già indicato.

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II Messia condannato

La «datazione precoce» ipotizzata da Thiede non è quindi so-lo plausibile, ma è supportata anche dalla tradizione, da riferi-menti intratestuali e da reperti archeologici. Questa conclusio-ne sorprendentemente logica ci costringerebbe ad accettare il fatto che almeno i Vangeli sinottici non sono tarde mitologiz-zazioni, come è stato spesso affermato, ma sono sorti relativa-mente presto, nel corso della prima generazione cristiana.

I loro autori sono stati, se non testimoni oculari diretti, alme-no contemporanei dei testimoni del Golgota. Non conoscevano gli eventi di quel venerdì, cupo come nessun altro, solo per sen-tito dire, ma li avevano uditi dalla viva voce di coloro che vi furono direttamente coinvolti, come i due figli di Simone di Ci-rene, il cui padre aveva portato la croce destinata a Gesù. Di Giovanni, autore del quarto Vangelo secondo la tradizione e di-scepolo prediletto di Gesù, si dice addirittura che stesse ai pie-di della croce e che fosse dunque il più immediato testimone della passione di Gesù.

Possiamo quindi comprendere gli avvenimenti del Golgota soltanto alla luce del loro contesto storico. Risulta allora evi-dente perché Gesù di Nazaret dovesse essere condannato alla crocifissione. L'iscrizione sulla croce ci fornisce una risposta lo-gica: Gesù proveniva dalla casa di Davide, i suoi seguaci lo ri-tenevano il Messia, aveva un diritto legittimo, anche se non l'aveva mai fatto valere, al trono d'Israele e rappresentava per-ciò un pericolo per alcuni. Sebbene Gesù assicurasse davanti al tribunale del governatore che il suo «regno non è di questo mon-do» (Gv 18,36), Pilato dovette piegarsi alle pressioni degli ac-cusatori sadducei, che abilmente fecero apparire la rivendica-zione religiosa del suo ruolo messianico come una rivendica-zione di potere politico. In questa luce, è tempo di considerare più in profondità, sulla base di fonti coeve e di acquisizioni storiche, gli eventi di quel funesto venerdì di aprile.

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IL RE DEI GIUDEI

Gerusalemme, 7 aprile 30 d.C., ore 7 circa

«Che significa quest'urlo?», chiese irritato il governatore alla sentinella di guardia al suo ufficio nel pretorio, l'antico palazzo degli Asmonei. In quello stesso istante, quasi a rispondere alla sua domanda, un agitato centurione varcava la soglia dell'atrio ador-no di affreschi. «Ave, stimato Ponzio Pilato», salutò: «Alcuni som-mi sacerdoti e messi del Sinedrio attendono al portone, con un pri-gioniero che intendono sottoporre al tuo giudizio». «Che entrino, allora! Fateli passare!», grugnì Pilato alzandosi dalla sedia: «Co-sa vogliono ancora questi giudei?». «Perdonami, ma si rifiutano», replicò non senza imbarazzo il centurione: «Dicono che non pos-sono mettere piede nel pretorio a causa delle feste pasquali, per non contaminarsi». «Gentaglia superstiziosa e arrogante», im-precò il governatore: «Contaminarsi nel pretorio di un romano? Questi giudei credono sempre di esser meglio degli altri».

Ancor più malvolentieri di quando aveva iniziato la giorna-ta, si gettò la toga sulle spalle e, mentre i legionari gli rivolgeva-no il saluto, attraversò il cortile interno in direzione del portone. Là, sull'imponente scalinata che conduceva al palazzo e che, cir-ca a metà altezza, ospitava una piattaforma su cui era posto lo

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scranno da giudice, lo attendevano i sacerdoti del tempio nelle lo-ro vesti candide, con una specie di turbante sul capo. «Che c'è an-cora?», domandò imperiosamente Pilato. «Ti consegniamo un prigioniero che abbiamo interrogato questa mattina all'alba di-nanzi ai membri del Sinedrio e che abbiamo giudicato colpevo-le», dichiarò il loro portavoce, indicando un uomo incatenato e avvolto in una veste marrone priva di cuciture. Pilato lanciò un'oc-chiata al prigioniero, guardandolo a lungo negli occhi: vi era in essi qualcosa di nobile, saggio e pacifico che lo affascinava. «E quale legge avrebbe infranto? Di che cosa l'accusate?», chiese. «È un pericoloso sovversivo. Ha istigato contro il tempio», ri-spose il membro del Sinedrio. «Dunque si tratta di uno dei loro conflitti religiosi», pensò Pilato che quasi provava pietà del pri-gioniero. «La cosa non mi riguarda», replicò, «prendetelo e giu-dicatelo secondo la vostra legge». «Non ci è permesso di con-dannare a morte qualcuno», rispose l'ebreo. Pilato sapeva che la faccenda non stava in questi termini. Il Sinedrio poteva commi-nare condanne a morte nel caso di trasgressioni religiose, poteva decidere la lapidazione dei «sacrileghi che avessero violato la Legge», come li chiamavano gli ebrei. Allora uno dei sommi sa-cerdoti gli fornì l'argomento decisivo: «Quest'uomo afferma di essere il Messia». «Che cosa sarebbe un Messia?», chiese Pilato. «Il re dei giudei, di cui si profetizza che ci libererà dalla schia-vitù», spiegò il sacerdote.

Effettivamente - riconobbe il governatore - questo suonava come una specie di ribellione. «E va bene, portatelo dentro!», or-dinò Pilato e comandò alle sue guardie di portare il prigioniero nell'atrio, la sua stanza di servizio. Di nuovo il governatore fis-sò negli occhi, affascinato, questo imputato così particolare. Non pareva proprio uno dei soliti ribelli che condannava abitualmente, per lo più alla morte sulla croce, la pena consueta per l'alto tra-dimento. «Sei il re dei giudei?», gli chiese. «Lo dici tu!», replicò dolcemente e a bassa voce l'accusato. «Lo dicono i tuoi accusa-tori. Sono un ebreo, forse? Il tuo stesso popolo e i sommi sacer-doti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Ancora una volta l'imputato rispose, con lo stesso tono basso di voce, con la

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medesima dolcezza e tuttavia con autorità: «Il mio regno non è di questo mondo». «Allora sei davvero un re?». «Tu lo dici. So-no nato e sono venuto nel mondo per rendere testimonianza al-la verità. Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia vo-ce». «Che cos'è la verità?», chiese Pilato a questo re straordina-rio. Che però rimase in silenzio...

In quell'istante di profonda quiete, il centurione entrò di nuo-vo nella stanza: «Ecco l'atto d'accusa, uno dei sacerdoti me l'ha consegnato». «Da' qua!», ordinò Pilato, protendendosi per pren-dere la tavoletta di cera: «Qui ci sta il suo nome. Gesù di Naza-ret. Nazaret... Dove si trova?».

«In Galilea», replicò il centurione. «In Galilea? Allora non ho niente a che vedere con quest'uo-

mo. La Galilea appartiene al regno di Erode Antipa. Portalo da Erode, centurione, con la preghiera amichevole di giudicarlo. Si trova giustappunto a Gerusalemme, ospite nel mio palazzo». Si riferiva al nuovo palazzo di Erode presso le mura occidentali del-la città, dove Pilato risiedeva con la consorte Claudia Procla, quando non era impegnato nelle sue faccende d'ufficio nel vec-chio palazzo degli Asmonei...

Dopo un'ora buona il prigioniero stava di nuovo davanti a lui. Erano evidenti i segni di pesanti maltrattamenti, il viso mostrava tracce di percosse e il prigioniero indossava un vecchio mantel-lo di porpora in cui Erode l'aveva fatto avvolgere per scherno. Allora Pilato uscì di nuovo dal portone, questa volta accompa-gnato da due littori, che portavano tra le braccia i fasces, i fasci di verghe. Seguito da loro, salì la scalinata fino alla piattaforma, chiamata gabbatà («selciato alto»), dove era posto lo scranno da giudice, e fece squillare le trombe per annunciare il suo verdet-to. «Avete condotto da me quest'uomo affermando che sobilla il popolo. L'ho interrogato e non ho trovato conferma ad alcuna delle accuse che gli avete mosso. Nemmeno Erode, che infatti l'ha rimandato da me», disse ai membri del Sinedrio, ai sommi sa-cerdoti e al popolo, riuniti nella piazza di fronte alla scalinata. «È tradizione che io rilasci un prigioniero in occasione della festa di Pasqua. Volete che rilasci il re dei giudei?».

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«Non lui, ma Barabba», chiese il popolino, istruito allo scopo dai sadducei. Barabba era uno zelota, un ribelle che era stato con-dannato a morte per omicidio e che doveva essere giustiziato quel-lo stesso giorno. Pilato non riusciva a capacitarsene: «Farò fla-gellare quest'uomo e poi lo lascerò libero», annunciò.

Gesù fu condotto via e portato nel cortile interno del palazzo degli Asmonei. Là gli sgherri brutali gli strapparono la veste, lo gettarono a terra e gli legarono le mani incatenate a una bassa colonna dì pietra nera. Poi entrarono in azione i due littori. Ave-vano deposto i loro fasci di verghe e al loro posto ognuno di lo-ro teneva tra le mani un flagrum taxillatum, il temuto flagello di cuoio a tre code, le cui estremità erano appesantite da aculei di piombo. Si collocarono ai lati del condannato e incominciaro-no a colpire...

A ogni colpo il dolore trapassava il flagellato come un fulmi-ne: un dolore acuto, pungente, come se degli uncini strappasse-ro la pelle dal corpo. Spietati, i carnefici facevano schioccare con forza la frusta sul corpo nudo prima di tamburellare con gli aguz-zi aculei di piombo sulla pelle, riducendola a un ammasso di ferite sanguinanti.

L'uno inferse sessanta colpi, l'altro uno in più, badando bene che nessuna parte del corpo fosse risparmiata dalle piaghe. Il fla-gellato sembrava un lebbroso, con la schiena interamente co-perta di ferite sanguinanti, quando i carnefici gettarono nella pol-vere il suo corpo mortalmente esausto e piegato dal dolore. Ades-so era veramente quell'uomo dei dolori di cui parla il libro di Isaia: «Talmente sfigurato era Usuo aspetto al di là di quello di un uomo, e la sua figura al di là di quella dei figli dell'uomo. Disprezzato, ripudiato dagli uomini, conoscitore della sofferen-za, simile a uno davanti al quale ci si copre la faccia, disprezza-to, sì che non ne facemmo alcun caso ... Ma egli fu trafitto a cau-sa dei nostri peccati, fu schiacciato a causa delle nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace fu su di lui e per le sue piaghe noi sia-mo stati guariti» (Is 52,14; 53,3-6). Ma la sua vista non scosse gli incalliti legionari, per lo più mercenari siriani che odiavano gli ebrei e sfogavano tutto il loro disprezzo su questo «re dei giu-

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dei». Lo sollevarono dipeso, lo avvolsero di nuovo nel mantello di Erode a mo' di scherno, gli calcarono sulla testa delle sterpa-glie di rovi tenute insieme da un intreccio di giunchi. Ficcarono nella mano destra del Nazareno, barcollante per la debolezza, un bastone, e iniziarono a deriderlo. Si inginocchiavano e gli urla-vano: «Salute a te, re dei giudei!», per poi sputargli addosso e col-pirlo in viso: Dopodiché lo trascinarono, ancora rivestito del man-tello purpureo, davanti al governatore.

Pilato aveva preso nuovamente posto sullo scranno da giudi-ce quando gli condussero Gesù, diventato un'icona del dolore ca-pace di suscitare pietà in chiunque. «Guardate», urlò alla folla che, ancora radunata di fronte al selciato alto, parodiava l'ac-clamazione di un sovrano: «Eccolo!». Tuttavia, invece di indi-gnarsi, invece di reagire in un modo qualunque alla provocazio-ne del governatore, il popolino gridò soltanto: «Crocifiggilo! Cro-cifiggilo!». Pilato intuì che i sommi sacerdoti lo avevano raggirato, lo avevano usato per i loro scopi. Se quest'uomo fosse stato un agitatore politico, avrebbe avuto un qualche seguito tra la folla, che avrebbe espresso il proprio sdegno. «Non trovo alcuna col-pa in lui», dichiarò il governatore quando i rappresentanti del Si-nedrio ebbero preso nuovamente posto sul lato dell'accusa. Ma questi risposero: «Abbiamo una legge, e secondo questa legge de-ve morire. Si è fatto Figlio di Dio».

Pilato fu colto da paura. Si ricordò che quella mattina la sua sposa Claudia Procla gli aveva raccontato un incubo angosciante e lo aveva messo in guardia: avrebbe condannato un dio e in que-sto modo avrebbe portato la sciagura su Roma e sul mondo. «Chiacchiere da donnette», aveva pensato quando lo aveva am-monito ancora una volta: «Non levare le mani su quest'uomo, è innocente». Ma adesso stava davvero, dinanzi a lui, un uomo di cui i sommi sacerdoti dicevano che si era autoproclamato Fi-glio di Dio. Ancora una volta si ritirò nel suo ufficio per inter-rogare nuovamente Gesù. «Di dove sei?», chiese al Figlio di Dio. Ma Gesù rimase in silenzio. Allora Pilato si adirò: «Non vuoi par-lare con me? Non sai che ho il potere di rilasciarti o di crocifig-gerti?». Per un istante nell'atrio del pretorio si fece silenzio, fino

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a che l'imputato non rispose con voce ferma: «Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo la colpa più grande è di coloro che mi hanno consegnato a te». «E deciso, ti lascio libero», rispose con irruenza il governatore: «Por-tatelo fuori, davanti allo scranno del giudizio», ordinò ai solda-ti, «emetto la sentenza».

Ma non andò così. Non appena Ponzio Pilato ebbe varcato il portone, si fecero avanti i rappresentanti del Sinedrio con l'ulti-mo argomento, il più convincente: «Se lo rilasci, non sei amico dell'imperatore. Tutti coloro che si autoproclamano re si oppon-gono all'imperatore». Proprio così, l'avevano colpito nel suo pun-to debole. Già una volta una delegazione ebraica aveva sporto reclamo contro di lui presso Tiberio. Un altro reclamo gli sa-rebbe costato inevitabilmente il posto di governatore. Sarebbe sta-ta la fine della sua carriera. E il Figlio di quale Dio poteva esse-re in fondo quest'uomo di Nazaret? Un figlio di Giove, come Er-cole, sicuramente no, e nemmeno di Apollo, come il Saggio di Samo, o di Venere come il grande Cesare. Un profeta di conta-dini e pastori, forse, in una provincia decaduta, nato da un po-polo di eccentrici. E se anche fosse stato un Figlio del Dio degli ebrei, non c'era motivo di temere. Gli dèi di Roma erano più po-tenti. Avevano tratto in schiavitù tutto il suo popolo, senza che questo Dio con tutte le sue leggi rigorose si fosse opposto in qual-che modo.

Il sole era già alto nel cielo, quando Pilato scese assorto la sca-linata che conduceva allo scranno del giudizio, con il peso di una decisione gravosa sulle spalle. I due littori, i carnefici con i fasci di verghe, lo seguivano. «Portate il prigioniero!», ordinò ai sol-dati, che trascinarono rudemente Gesù nella piazza del tribuna-le. Di nuovo squillarono le trombe, di nuovo si levò alta la voce del governatore: «Guardate, popolo degli ebrei: questo è il vostro re!», esclamò nella segreta speranza che ci fosse tra la folla an-che qualche seguace dell'uomo di Nazaret. Ma il popolino rin-ghiò soltanto: «Portalo via! Crocifiggilo!». «Devo crocifiggere il vostro Re?», chiese nuovamente Pilato. Di nuovo si fecero avan-ti i sommi sacerdoti: «Non abbiamo altro re all'infuori dell'im-

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peratore». Non aveva altra scelta. Se ora avesse preso le difese del prigioniero, poteva essere giudicato da Tiberio stesso come un traditore. «Davanti a un fanatismo così cieco, devo capitolare», pensò tra sé, sedendosi sulla sella, lo scranno del giudizio, per emettere di nuovo con voce potente la sentenza capitale: «Bene, l'avete voluto voi. Ti condanno a morte, Gesù dì Nazaret, che pre-tendi essere il re dei giudei, per dispregio della maestà imperia-le. Ibis in crucem - salirai sulla croce». Per tre volte i littori col-pirono il suolo con i loro fasci di verghe, tre colpi che rimbom-barono come tuoni, conferendo qualcosa di demoniaco all'atmo-sfera già di per sé spettrale di quel venerdì di passione. «Condu-cetelo via», ordinò ai soldati un Pilato visibilmente nervoso, quan-do si levò dallo scranno del giudizio e fece ritorno nel pretorio con passi affrettati: «E scrivete esattamente come titolo d'accusa: "GESÙ, IL NAZARENO, RE DEI GIUDEI"». In questo mo-do si era concluso il processo più gravido di conseguenze nella storia del mondo. E calò la notte del Golgota.

A Gerusalemme per la festa dì Pasqua

La Gerusalemme dell'anno 30, stando a Plinio il Vecchio1, era «di gran lunga la città più famosa non solo della Giudea ma an-che dell'Oriente» e, secondo Tacito, «uno spettacolo meravi-glioso»2. Quest'ultimo, quasi alla vigilia della guerra giudaica, la descriveva in maniera dettagliata e variopinta: «La città, posta su una ripida altura, era fortificata da imponenti bastioni di-fensivi, che avrebbero offerto adeguata protezione anche in una distesa pianeggiante. Perché le due colline che svettavano alte erano cinte da mura erette a regola d'arte lungo una linea ora aggettante ora rientrante ...Verso l'esterno il massiccio roccio-so digradava ripido, e le torri si levavano sul monte per un'al-tezza di 60 piedi, di 120 negli avvallamenti - una vista meravi-

1 Plinio il Vecchio, Naturalis tìistoria, 37 B. 2 Tacito, Hist., V, 11.

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gliosa, e, se le si guardava da lontano, parevano della medesima altezza. Un'altra cinta di mura, più interna, cingeva la cittadel-la reale; di ragguardevole altezza la torre di Antonio, intitolata da Erode in onore di Marco Antonio. Il tempio aveva la strut-tura di una cittadina e aveva mura proprie, una costruzione eret-ta con un dispendio di lavoro ben superiore a quello di qualsia-si altro edificio; persino i porticati a colonne disposti attorno al tempio costituivano un eccellente bastione. Vi era là una fon-te d'acqua che sgorgava in permanenza, corridoi sotterranei di-sposti artisticamente, stagni pieni di pesci e cisterne per la rac-colta dell'acqua piovana»3. Dall'epoca dei re della dinastia asmo-nea (II-I secolo a.C.), Gerusalemme era cresciuta fino a divenire una splendida polis ellenista, una città dotata di un teatro e di un ippodromo, di sontuosi palazzi e di grandiose piazze del mer-cato nello stile delle agorà greche. Solo nella parte sudorienta-le, nella città bassa, le strette costruzioni della città vecchia si al-lineavano l'una accanto all'altra come in una casbah orientale: piccole casette, per lo più a un vano, di grezza pietra calcarea, con tetti piatti di argilla e sterpi, poste l'una accanto all'altra e l'una sull'altra, e divise solo da stretti vicoli e scalinate strette e sconnesse. In questo dedalo di case, in cui d'estate ristagnava la calura, abitavano i ceti più umili: lavoratori a giornata e men-dicanti, vecchi, malati e rimpatriati dalla diaspora. Vivevano di elemosina, ma anche di assistenza sociale, di cui ogni ebreo a Gerusalemme aveva diritto. A nord-ovest del tempio, circonda-ti dalla seconda cinta delle mura cittadine, stavano i mercati, il quartiere del bazar. Qui erano di casa artigiani e commercian-ti, tessitori e fabbri, osti e fornai, commercianti di bestiame e im-portatori di spezie orientali. L'ampia valle di Tyropeion attra-versava la città da nord a sud, dividendola in città bassa e alta. Era percorsa dalla strada della valle, l'arteria vitale della città, affiancata su entrambi i lati da negozi simili a cellette. La città

1 Ibid.,V, 11,32-12,1.Tacito ha descritto la città all'inizio della guerra giudaica nel-l'anno 66, ma il quadro della città era rimasto lo stesso dell'anno 30, ad eccezione del-l'espansione di Gerusalemme verso nord ad opera di re Erode Agrippa.

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alta, posta su un altopiano a ovest del solco della valle, era il quartiere dei benestanti. Era un quartiere moderno su model-lo greco, con ampie strade e piazze disposte a scacchiera e mol-ti palazzi. Nella sua parte nordorientale, svettante ripido sulla valle di Tyropeion e posto di fronte al muro occidentale del tem-pio, si trovava il vecchio palazzo degli Asmonei, collegato da un'imponente scalinata allo Xystus, una piazza da cui un pon-te conduceva al tempio. Al di sotto di questo si trovava il «qua-drilatero», il «palazzo del Consiglio»4 del Sinedrio, sede del-l'amministrazione e dell'apparato giudiziario ebraico. Al mar-gine occidentale della città alta, proprio accanto alle mura cittadine, si estendeva il sontuoso palazzo fatto erigere da re Erode il Grande negli anni 23-20 a.C. (vedi illustrazione a co-lori III). Consisteva di una piccola fortificazione con le tre tor-ri più alte di Gerusalemme, che il re aveva latto abbeUire ad ar-te e che aveva intitolato rispettivamente al fratello Fasael, al-l'amico Ippico e alla consorte Mariamne, e della vera e propria area del palazzo, adiacente alla fortificazione. Con i suoi «salo-ni vastissimi e camere da Ietto per cento ospiti,... innumerevoli appartamenti dalle mille forme diverse ... la maggior parte de-gli oggetti... di argento e d'oro», «molti porticati comunicanti tra loro, ognuno con colonne diverse» e i suoi parchi rigogliosi con stagni, pozzi, torrette per docili colombe e le «figure di bron-zo», era un palazzo «impossibile da descrivere. Non v'era edi-ficio più stupendo per la magnificenza e per l'impianto»5, se-condo le entusiastiche parole di Giuseppe Flavio. Stando a quan-to scriveva Filone, all'epoca dell'occupazione romana era «l'abitazione privata del procuratore»6 presso la quale risiede-vano i governatori romani durante la loro permanenza a Geru-salemme. Qui Pilato, nell'anno 26, all'inizio del suo mandato, fe-ce collocare gli scudi sacri con l'effigie dell'imperatore allo sco-po di provocare gli ebrei. Qui risiedeva anche, quarantanni più

4 Giuseppe Flavio, Bell. Iud.,V, 4,2. 5Ibid.,V,4,4. 6 Filone, Legatio ad Gaium, 38.

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tardi, l'ultimo degli undici procuratori, Floro7. Dinanzi al por-tone principale del palazzo c'era un'agorà, un mercato greco cin-to da un colonnato che Giuseppe Flavio definisce come «la piaz-za detta superiore» e dove era posto, almeno all'epoca di Floro, uno scranno da giudice dal quale erano emesse le sentenze8. A sud, l'area del palazzo di Erode confinava con il quartiere esse-no, dove gli appartenenti a questa comunità religiosa vivevano secondo le loro regole severe.

Il simbolo di Gerusalemme e la sua costruzione più impres-sionante era indubbiamente il tempio di Erode (vedi illustra-zione a colori II), che sovrastava la città come una fortezza. «Chi non ha visto il tempio di Erode, non sa cosa sia un edificio ve-ramente bello!», decantava un rabbino di Babilonia9. Giusep-pe Flavio, ricolmo d'orgoglio e d'entusiasmo, così lo descrive: «Il tempio era costruito di pietre dure e bianche, ognuna di circa 25 cubiti di lunghezza, 8 di altezza e 12 di larghezza. Nel suo insieme, come nel portico regale, da una parte e dall'altra il livello non era uguale; la parte più alta era al centro, cosicché questa era visibile a distanza di molti stadi dagli abitanti della regione, specialmente da coloro che abitavano dirimpetto o gli si avvicinavano. Le porte d'ingresso avevano architravi uguali [all'altezza] dello stesso tempio; [Erode] li ornò di pendenti va-riopinti con colori di porpora e con disegni intrecciati dei pila-stri. Sopra di questi, sotto il cornicione, si stendeva una vite d'o-ro con grappoli pendenti: costituiva una meraviglia sia per la grandezza che per l'arte, per tutti coloro che lo vedevano edi-ficato con materiale tanto prezioso.

Circondò il tempio di ampi portici tutti costruiti in propor-zione [del tempio]; per il costo sorpassò i suoi predecessori, sicché si pensava che mai alcuno avesse ornato il tempio con tanto splendore. Ambedue [i portici] erano [retti] da una gran-de muraglia, questa muraglia era la più grande, edificata dal-

7 Giuseppe Flavio, Beli lud., II, 14,8; 15,5. *Ibid., 11,14,8; 15,2. 9 Sukkah, 51,2.

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l'uomo, di cui mai si sia sentito parlare. La collina era una pa-rete rocciosa che degradava dolcemente verso la parte orien-tale della città dal versante con la cima più alta»10.

La cittadella Antonia

L'area del tempio era sovrastata a nordovest dalla cittadella Antonia, che Erode costruì prima del 31 a.C. e intitolò al suo protettore Marco Antonio. Giuseppe Flavio la descrive come una fortezza che «aveva l'ampiezza e la sistemazione di una reg-gia... Pur avendo nell'insieme la forma di una torre, aveva sugli spigoli altre quattro torri, delle quali le due che si affacciavano sul tempio erano più alte "sì che dalla sua sommità si poteva spaziare su tutto il tempio"». E proprio a questo scopo, alla sor-veglianza del tempio, serviva la cittadella Antonia. Lì staziona-va sempre una coorte romana che, in caso di sommossa, poteva intervenire immediatamente e che attraverso un'ampia scali-nata aveva accesso diretto al tempio. Gli Atti degli apostoli ci descrivono un intervento di questo genere. Quando Paolo ave-va condotto nel tempio un gruppo di pagani convertiti al cri-stianesimo, erano scoppiati dei disordini e l'episodio era stato segnalato al «tribuno della coorte». «Egli immediatamente pre-se dei soldati e dei centurioni e scese di corsa verso di loro: que-sti, visto il tribuno e i soldati, cessarono di percuotere Paolo». Il tribuno arrestò Paolo e «comandò che fosse condotto neUa ca-serma. Quando fu sui gradini, dovette essere portato di peso dai soldati per la violenza della folla» (At 21,32-35). Nei giorni di festa la tensione si acuiva a tal punto che i legionari che dove-vano «sorvegliare il popolo» venivano disposti nei vestiboli del tempio. In questo modo, non di rado accadevano incidenti, uno dei quali è stato tramandato da Giuseppe Flavio. Durante la festa di Pasqua dell'anno 45, quando, come sempre, «si rac-coglie molta gente da tutti i quartieri», il governatore Cumano

10 Giuseppe Flavio, Aut. Iud., XV, 11,3.

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ordinò a una coorte di soldati «di prendere le armi e porsi di guardia ai portici del tempio per sedare qualsiasi tumulto po-tesse sorgere. Questa era una pratica usuale degli altri procura-tori, durante le festività della Giudea». Tuttavia il tumulto fu do-vuto proprio alla provocazione di un soldato, che mostrò le par-ti intime davanti ai credenti, «azione che suscitò lo sdegno e il furore di tutti gli spettatori che raccolsero l'insulto non come ri-volto a loro, bensì come una bestemmia contro Dio». Cumano fece radunare in fretta la sua coorte e ordinò loro di mettersi in marcia verso la cittadella Antonia, la qual cosa diffuse il panico tra il popolo, che si diede alla fuga spaventato; in quell'occa-sione quasi 20.000 persone furono calpestate11. L'episodio mo-stra chiaramente quanto nervosa e persino esplosiva fosse l'at-mosfera a Gerusalemme, specialmente in occasione della festa di Pesach, quando in fondo si festeggiava pur sempre la libera-zione da un giogo straniero (quello egiziano, appunto). Di fron-te alle masse non trascurabili di pellegrini che affluivano da tut-to il mondo, i romani erano in minoranza. Proprio per questo il governatore veniva di persona a Gerusalemme dalla capitale della provincia, Cesarea, con un'altra coorte per tenere sotto controllo, per quanto possibile, la difficile situazione. Il clima era teso, dominava il massimo allarme. Una piccola scintilla sareb-be bastata a far divampare la rivolta. Per questo motivo i go-vernatori, primo tra tutti il rigoroso Pilato, tentavano di soffo-care sul nascere ogni disordine, ma anche di evitare ogni pro-vocazione, ogni sfida al popolo. In questa situazione ebbe luogo il processo a Gesù.

«Se il tempio dominava la città come una fortezza, l'Antonia a sua volta dominava il tempio», scrive Giuseppe Flavio, «e chi la occupava dominava tutti e tre»12. Per assicurarsi il controllo d e l t e m p i o , la guarnigione acquartierata nella cittadella Anto-nia custodiva un pegno ben particolare: la veste del sommo sa-cerdote, che questi indossava quando doveva celebrare i sacri-

"Ibid.,XXt 5,3. 12 Giuseppe Flavio, Bell. Iud.iV, 5,8.

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fici nei solenni giorni di festa. Così i custodi del tesoro del tem-pio si recavano «un giorno prima di una festa ... dal coman-dante della guarnigione romana e, dopo aver ispezionato il si-gillo, andavano a prendere la veste; finita la festa essi [i teso-rieri] la riportavano nello stesso luogo e dopo aver mostrato al comandante della guarnigione un sigillo corrispondente [al pri-mo] riponevano nuovamente la veste». Che la massima insegna cultuale del sommo sacerdote fosse quasi divenuta un ostaggio degli occupanti pagani, incontrava naturalmente l'ostilità degli ebrei e «così si spiegavano i molti episodi che si sarebbero ve-rificati in seguito e che avevano al proprio centro la veste», co-me afferma Giuseppe Flavio13.

Il tempio

II tempio era in ogni senso - spirituale, economico e politico - il centro della città. Qui, secondo la fede ebraica, troneggiava, in una stanza oscura e vuota, il Santo dei Santi, Jahvè, il Dio di Israele. Il tempio era il nervo vitale, il cuore di Gerusalemme. Qui affluivano centinaia di migliaia di pellegrini, ebrei prove-nienti dalla Giudea, dalla Samaria e dall'intera diaspora, dal-l'Asia minore, dalla Grecia, dal Nordafrica, dalla Siria, dalla Me-sopotamia e dalla Persia in occasione della festa di Pasqua in aprile, della festa delle Settimane in maggio e della festa delle Capanne in settembre. Gli Atti degli apostoli (2,9-10) citano, a proposito della festa delle Settimane dell'anno 30, ebrei «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia e della Giudea, del-la Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfi-lia, dell'Egitto e delle regioni della Libia presso Cirene». Tutti cantavano con il profeta Isaia: «Verranno molti popoli dicendo.' "Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Gia-

11 Giuseppe Flavio, Ant. Iud.,XV, 11,4. La traduzione di L. Moraldi del passo di Ant. Iud.,XV, 11,4,409 recita invece: «Que-

sta digressione è stata occasionata dalla triste esperienza che si ebbe dopo» (ndt).

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cobbe, perché c'istruisca nelle sue vie e camminiamo nei suoi sentieri". Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,3).

In occasione delle grandi festività Gerusalemme, già allora di per sé una metropoli di circa 120.000 abitanti, diveniva meta, se-condo le stime degli storici, di 300-500.000 pellegrini, o addirit-tura, come afferma Giuseppe Flavio, di 3.000.00014. II tempio, in ogni caso, aveva una capienza massima di 400.000 persone. La città si mostrava nel suo abito della festa ed era interamente con-centrata sugli affari indotti dalla presenza di pellegrini. Dal-l'afflusso di clienti tutti traevano profitto: mendicanti dalle elemosine, commercianti, osti, fornai e allevatori di bestiame. Chi trovava una stanza in una delle numerose locande della città poteva dirsi fortunato, e ancora di più chi aveva parenti a Ge-rusalemme. Ad altri, dietro compenso, si consentiva di riposare sui tetti piani delle case. Ma la maggior parte dei pellegrini si ac-campava nei prati e nei campi attorno alla città santa, in bian-che tende disposte attorno al tepore dei fuochi, nei villaggi cir-costanti o anche, come Gesù e i suoi discepoli, nelle caverne e sulle pendici del monte degli Ulivi. Da qui si godeva la miglior vista del sontuoso complesso del tempio, che di notte riluceva misterioso dei bagliori dei fuochi sacrificali, mentre di giorno il suo marmo bianco risplendeva nel sole, conferendogli qual-cosa di soprannaturale. «Il tempio era come un monte bianco, coperto di neve», cantava Giuseppe Flavio.

Per i pellegrini, specialmente quelli che affluivano nella città santa dai poveri villaggi agricoli dei monti della Galilea, la son-tuosa Gerusalemme, con il suo tempio maestoso, doveva ap-parire come un altro mondo, come una visione dell'incipiente regno di Dio e della sua signoria. Non deve quindi meraviglia-re se l'autore dell'Apocalisse, secondo la tradizione il discepo-lo Giovanni, descrisse «il cielo nuovo e la terra nuova», da lui profetizzati per il periodo successivo al giudizio universale, co-me «la città santa, la nuova Gerusalemme» (Ap 21,1-2).

14 Giuseppe Flavio, Bell, / m i , VI, 9,3.

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Nel tempio entravano i pellegrini per sacrificare al Dio d'I-sraele; qui, nel giorno dei preparativi per la festa di Pasqua, ve-nivano macellati gli agnelli, secondo Giuseppe Flavio fino a 256.500 in una sola festività. Nei vestiboli del tempio aveva predicato an-che Gesù, che proprio in occasione di questa festa sarebbe di-venuto lui stesso agnello pasquale. Perché nella notte, dopo aver celebrato con i suoi discepoli il pranzo pasquale secondo il rito essenico, mentre i suoi compagni pernottavano nella grotta di un uliveto dal nome di gat s'mànìm («macina per l'olio»), il Naza-reno sarebbe stato arrestato dalle guardie del tempio.

Il tempio era anche una potenza terrena, prima di tutto una gigantesca banca. Il tesoro del tempio (korbàn, cfr. Me 7,11) era leggendario e lo stesso Cicerone malediceva le enormi som-me di denaro che confluivano a Gerusalemme da ogni dove. Quando il condottiero romano Pompeo conquistò Gerusalem-me nel 63 a.C., non lodò solamente il tavolo e i lampadari, i piat-ti e le scodelle di oro puro che stavano nella navata principale, ma contò anche 2000 talenti d'oro (52.000 chilogrammi d'oro per un valore attuale di circa 600 milioni di euro) nella stanza del te-soro. Ciò nonostante, e di questo gli ebrei gli resero gran merito, rinunciò a impadronirsi anche solo di una parte del tesoro. Da dove proveniva il patrimonio del tempio? Innanzitutto dai sa-crifici e dalle donazioni volontarie. Anche la vendita giornaliera di animali per i sacrifici produceva cospicui guadagni. Ma le entrate di gran lunga maggiori provenivano dal tributo del tem-pio, dell'ammontare di mezzo sheqel, che ogni ebreo maschio maggiorenne doveva versare. Un riferimento a questo tributo si trova anche nel Vangelo di Matteo, dove si dice che Gesù, quan-do a Cafarnao si richiese il suo contributo, sollecitò Pietro a pa-gare lo statere per entrambi (Mt 17,24). Questa tassa veniva ele-vata annualmente. Il I di adar, il mese precedente alla festa di Pe-sach, dei messi attraversavano il Paese e annunciavano la scadenza dei termini per il versamento del tributo del tempio. Il 15 di adar si allestivano dappertutto banchetti di cambiavalute, presso i qua-li si potevano convertire le diverse monete correnti nella «valu-ta del tempio», lo sheqel di Tiro. Questo, è vero, riportava sulla

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faccia anteriore l'immagine del dio pagano Melqart, ma era fat-to dell'argento più puro allora in circolazione. La moneta era co-sì popolare che, quando i romani avevano sottratto a Tiro il di-ritto di battere moneta, gli ebrei erano giunti a coniarla per con-to loro a Gerusalemme. Nonostante il primo comandamento, nessuno pareva disturbato dall'immagine di un idolo pagano. Dal 25 di adar il cambio del denaro era ancora possibile solo a Ge-rusalemme e all'interno del recinto del tempio. Chi, a quella data, non avesse ancora versato il suo tributo al tempio, poteva esservi costretto per legge e in determinati casi veniva persino pignorato. I cambiavalute, che convertivano la moneta locale in valuta del tempio, potevano esigere per legge una maggiorazio-ne pari a un quarto di denaro ogni mezzo sheqel. Un denaro era la paga giornaliera di un lavoratore, quattro denari corrispon-devano a un tetradramma o a uno sheqel: la tassa del tempio am-montava dunque a due denari e la maggiorazione dei cambia-valute equivaleva al 12,5 %15. Cosa pensasse Gesù di questa pras-si, ce lo rivelano i Vangeli: «Non sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto una spelonca di briganti!», (Me 11,17). Un Gesù in-solitamente adirato, che rovesciava i loro tavoli e scacciava dal tempio i venditori di animali per i sacrifici - una scena che ri-troviamo anche negli altri Vangeli - , non senza venire a cono-scerne le conseguenze: «Udito ciò, i capi dei sacerdoti e gli scri-bi cercavano come farlo perire». Il comportamento di Gesù ave-va centrato il nervo vitale della grande impresa del tempio e dell'amministrazione sadducea.

Il sommo sacerdote

L'amministrazione sadducea costituiva il più potente gruppo del Sinedrio, il Consiglio Supremo di 70 membri che costituiva

15 A. Edersheim, Der Tempel - Mittelpunkt des geistlichen Lebens zur Zeit Jesu, Wup-pertal 1997, pp. 54-57.

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una specie di parlamento degli ebrei di Giudea. Lo presiedeva il sommo sacerdote, che rappresentava il popolo ebraico nella sua interezza dinanzi a Dio e alla potenza imperiale romana. La funzione, un tempo ereditaria e prima degli Asmonei riservata esclusivamente ai discendenti dello Zadok - il sommo sacerdo-te del tempio salomonico - al tempo di Erode era in vendita. In questo modo la carica era appannaggio delle famiglie ricche e dei neoarricchiti di Gerusalemme, più interessati al prestigio e alle prospettive di arricchimento che non al significato spirituale della funzione sacerdotale. Un ruolo assolutamente decisivo gio-cava in questo senso la famiglia di Anna, che rivestì la funzione di sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C. e che da quel momento di-venne una specie di «eminenza grigia»: ben sei dei diciotto som-mi sacerdoti che gli succedettero fino alla distruzione del tem-pio nel 70 provenivano dal suo clan. Il genero Giuseppe Caifa fu colui che detenne la carica più a lungo, dal 18 al 37 d.C., per ben 19 anni, più di qualsiasi altro suo collega dall'epoca di Ero-de. Ciò fa pensare che dovette essere «un abile diplomatico e un politico estremamente pragmatico»16. Il suo sobrio realismo tra-spare anche dal Vangelo di Giovanni, che lo cita probabilmen-te in maniera letterale, perché queste parole potrebbero essere state tramandate da Nicodemo: «È più vantaggioso per voi che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca tutta inte-ra la nazione» (Gv 11,50). In altre parole, tutto ciò che poteva mettere in pericolo lo statu quo nei rapporti con la potenza oc-cupante andava respinto. Perciò ogni oppositore, ogni fomen-tatore di disordini costituiva un potenziale pericolo e andava de-ferito agli occupanti.

Come Pilato, anche Caifa c incontrovertibilmente una figu-ra storica. Giuseppe Flavio lo cita: «Giuseppe, che fu chiamato Caifa», e ne loda il suocero e capoclan Anna come uomo «estre-mamente felice»17. Nel frattempo è stato addirittura individua-to il suo sepolcro. Nel novembre del 1990, mentre si procedeva

16 W. Bosen, op. cit, p. 160. 17 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XVin , 2,2.

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all'allestimento del «bosco della pace» a sud di Gerusalemme, in prossimità del monastero delle Clarisse lungo la strada per Betlemme, ci si imbatté in un antico sepolcro scavato nella roc-cia. Ossa e oggetti in ceramica giacevano sparpagliati nella ca-mera sepolcrale, cui si aggiungevano sei ossari intatti e i resti di altri dieci, la maggior parte abbelliti con gusto artistico e cinque dei quali recavano iscrizioni. Quando gli archeologi sottopose-ro i testi a uno dei massimi esperti israeliani di iscrizioni, Ronny Reich, questi riuscì a decifrare su un'urna in pietra il nome Qai-fa\ su un'altra, adornata con particolare sfarzo e cura artistica, persino Jehosaf Bar Qaifa, Giuseppe figlio di Caifa. Evidente-mente in questa tomba di famiglia erano stati dunque sepolti padre e figlio, entrambi originari della stirpe di Caifa. Nell'os-sario di «Giuseppe figlio di Caifa» si trovavano, accanto ad al-tre ossa evidentemente aggiunte in seguito, i resti di un uomo di circa 60 anni. Erano i resti mortali del sommo sacerdote Caifa, dell'uomo che consegnò Gesù a Pilato? Almeno l'utilizzo del-la grotta sepolcrale poteva essere datato con sufficiente preci-sione. In un altro ossario, che riportava l'iscrizione Miriam Be-rat Simon, «Maria figlia di Simone», è stata rinvenuta una mo-neta risalente all'anno sesto del regno di Erode Agrippa I, secondo il calcolo attuale l'anno 42-43 d.C.18.

Quanto invise al popolo fossero la cricca e la corruzione del-l'autorità sommosacerdotale, è testimoniato da una canzoncina satirica che prendeva di mira le famiglie sacerdotali dominanti e che è conservata nel Talmud babilonese:

Guai a me per via della casa di Boethus, guai a me a causa delle loro ricchezze!

Guai a me per via della casa di Hannas, guai a me a causa dei loro delatori!

Guai a me per via della casa di Kathros, guai a me a causa della falsità dei loro scritti!

Guai a me per via della casa di Ishmael ben Fiabi, guai a me a causa delle loro percosse!

18 C.P.Thiede, op. cit., pp. 141-148.

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Perché sono sommi sacerdoti, e i loro figli sono tesorieri, e i lo-ro generi amministratori, e i loro servitori colpiscono la gente con i manganelli!19.

Tuttavia, non solo la nobiltà sacerdotale sadducea traeva van-taggio dal culto del tempio. Il tempio infatti era anche il prin-cipale datore di lavoro di Gerusalemme. Impiegava perma-nentemente circa 7000 sacerdoti e attorno ai 10.000 leviti, come musici, cantori, servitori e guardie. Attraverso l'industria dei sa-crifici si arricchivano allevatori di bestiame e commercianti, men-tre la fabbrica del tempio, in continua attività, dava lavoro a cen-tinaia di manovali e artigiani, tessitori e sarti che producevano abiti, e scrivani che protocollavano con cura tutti gli avvenimenti.

I sommi sacerdoti

I sommi sacerdoti di cui parlano i Vangeli non sono solamente quelli in carica o che avevano rivestito precedentemente tale funzione ma anche, in generale, la frazione sommosacerdotale del Sinedrio. Questo solido gruppo di sacerdoti e laici abbienti viene definito da Giuseppe Flavio come «i primi dieci» o «gli arconti»20 e per funzione è paragonabile a un Consiglio dei mi-nistri: «I sommi sacerdoti di Gerusalemme costituiscono una commissione aristocratica del Consiglio Supremo, un concisto-ro che nello stato teocratico ebraico funziona da autorità ese-cutiva di governo». A questo appartenevano il comandante del tempio, ai cui ordini rispondeva la polizia del tempio, i te-sorieri, da tre a quattro, sorta di ministri delle Finanze, e i guar-diani del tempio, da cinque a sette, esperti in questioni cultuali e giuridiche. E in questo concistoro, nella «piccola, intima cric-ca»21 dell'amministrazione del tempio, che troviamo i veri bu-rattinai dell'arresto e della condanna di Gesù. Così, fu la guar-

" Talmud. Babilonese, Pessachim, 57a. 20 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., Beli Iud. 21W. Bòsen, op. cit., pp. 168s.

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dia del tempio ad arrestare Gesù nel giardino del Getsemani e a condurlo nei palazzi dei sommi sacerdoti: innanzitutto da An-na, il capoclan a riposo, per un primo interrogatorio informale. Poi, dopo che si fu certi della procedura da seguire, nelle prime ore del mattino lo si condusse dinanzi a Caifa, il sommo sacer-dote in carica.

D Sinedrio

I sommi sacerdoti costituivano nel contempo il cuore del Con-siglio Supremo, la massima autorità ebraica amministrativa e giudiziaria all'epoca di Gesù. Si riuniva nel palazzo del Consi-glio, l'edificio rettangolare posto tra lo Xystus e il muro occi-dentale del tempio, nel cuneo della valle di Tyropeion. Il «Se-nato di Gerusalemme», come veniva anche chiamato, era di-sposto a semicerchio, con il sommo sacerdote seduto alla sua testa, circondato dalla sua frazione. In questo modo si voleva ot-tenere che i settanta membri del Consiglio si guardassero in fac-cia. Gli anziani e i dotti interpreti delle Scritture dei due partiti dei sadducei filoromani e dei farisei tradizionalisti costituiva-no le altre frazioni (sulla storia dei due partiti ritorneremo in maniera più particolareggiata nel prossimo capitolo).

È dubbio che Gesù sia stato davvero interrogato davanti al Sinedrio riunito in seduta ufficiale, come afferma Luca. Proba-bilmente ci si incontrò solo informalmente a casa di Caifa per istruire un'accusa da presentare a Pilato. Un processo dinanzi al Sinedrio avrebbe portato sul banco di prova gli insegna-menti del Nazareno, che proprio tra i ceti inferiori godeva di molti sostenitori. Nel dibattito pubblico aveva già fatto perdere il filo del discorso agli scribi più eloquenti grazie a risposte sorprendentemente brevi, semplici ma insolitamente convin-centi. No, un simile processo alla luce del sole, da cui Gesù po-tesse magari uscire luminoso vincitore, mettendo alla berlina il Consiglio Supremo, doveva essere evitato a ogni costo. Inoltre i dibattimenti giudiziari dovevano aver luogo di giorno davan-

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ti al Sinedrio. Una condanna a morte poteva addirittura essere annunciata soltanto il giorno successivo. «Perciò non si giudica alla vigilia di Shabbath o di un altro giorno festivo», si dice nel Trattato Sanhedrin della Mishnah (4,1), il libro ebraico della leg-ge. Già solo per questo va escluso un processo formale in que-ste prime ore del giorno del giudizio precedente la festa di Pa-squa o lo Shabbath.

La stessa audizione a casa di Caifa presentava dei problemi. Secondo le leggi mosaiche poteva essere comminata solo «sul-la deposizione di due o tre testimoni» (Dt 17,6), ma per un qual-siasi reato comportante la pena di morte, per esempio la be-stemmia, i testimoni mancavano del tutto. «Infatti, molti atte-stavano il falso contro di lui, ma le loro testimonianze non erano concordi», riferisce Marco (14,56). Anche il brutale «esame mes-sianico» descrittoci da Marco non condusse ad alcun risultato. In proposito leggiamo (Me 14,65): «Alcuni si misero a sputargli addosso, a coprirgli il volto e a percuoterlo dicendogli: "Indo-vina!". E i servi lo presero a schiaffi». Sulla storicità di questo episodio non possono sussistere dubbi perché, con tutta proba-bilità, ne fu testimone Pietro, che in quel momento si era insi-nuato nel cortile del palazzo di Caifa. Doveva averlo racconta-to in presenza di Marco, perché, nel Vangelo da questi redatto, a questa scena segue immediatamente la penosa vicenda del tra-dimento di Gesù da parte di Pietro, che lo rinnega ancor pri-ma che il gallo canti la seconda volta. Come afferma un eccel-lente conoscitore dell'ebraismo antico, Otto Betz, questa vio-lenza apparentemente immotivata era molto più che un indizio della brutalità dei sommi sacerdoti: essa «presuppone ... la ri-vendicazione messianica. Perché quando gli si copriva il volto, lo si colpiva e gli si chiedeva chi fosse stato a colpirlo, si stava effettuando un esame messianico, ovviamente molto rozzo. Que-sto dileggio presuppone le tradizioni ebraiche. In Isaia (11,3) dell'ideale re della casa di Davide cui è fatto dono dello spirito di Dio si dice che "non giudicherà secondo quanto vedono i suoi occhi e non prenderà decisioni sulla base di quanto udito dalle

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sue orecchie"22. Cioè, nella sua sentenza di giudice il re mes-sianico sarà indipendente dalle proprie percezioni e dalle af-fermazioni problematiche degli uomini perché nella forza del-lo Spirito riconosce intuitivamente la verità. Secondo il Talmud, una simile prova delle capacità di giudizio era stata usata cento anni più tardi anche con Bar Kochba, combattente per la libertà sotto l'imperatore Adriano, per saggiare le sue pretese messia-niche. Si voleva appurare se questi sapesse "annusare e giudi-care", cioè se potesse approdare a verità e giustizia grazie alla forza dello Spirito di Dio, come Isaia (11,3) promette del re mes-sianico. Bar Kochba non avrebbe superato questo esame, per-ciò il suo fallimento fu punito con la morte (Talmud Babilone-se, Sanhedrin 93b)»23.

Gesù rifuggì dal dimostrare di essere Figlio di Dio e ignorò l'esame messianico. Forse si identificò con il servo di Dio mal-trattato (Is 50,6) e vide la sua missione nella sofferenza, nella morte e nel loro superamento.

L'accusa

Probabilmente l'interrogatorio davanti ai sommi sacerdoti e ai membri del Consiglio ruotava attorno a due elementi d'ac-cusa: la dichiarazione di Gesù di poter «distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni» (Me 14,58; Mt 26,61; Gv 21,9) e la sua confessione messianica. Evidentemente si vedeva in lui un demagogo religioso, i cui miracoli poggiavano sulla magia, così come emerge dalla tradizione talmudica («poiché ha com-messo atti magici, ha sedotto il popolo e l'ha trasformato in un rinnegato»). Tuttavia le affermazioni dei testimoni non erano univoche e mancavano di riscontri. Pareva che si fosse finiti in un vicolo cieco. Caifa a poco a poco si innervosì, il tempo pre-meva e non si aveva ancora niente in mano contro il Galileo,

22 Così recita la traduzione ufficiale del passo veterotestamentario: «Non giudi-cherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire» (ndt).

23 V. Hampel, Menschensohn und historischer Jesus, Neukirchen-Vluyn 1990, p. 176.

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finché il sommo sacerdote passò all'offensiva. Si levò dal suo scranno, lentamente e con flemma, come se sulle sue spalle gra-vassero tutto il peso e la dignità del suo ufficio, per raddrizzar-si subito dopo come un cedro possente. Attese un istante af-finché ognuno nella sala comprendesse che si stava preparando a menare il fendente decisivo contro il Nazareno. Poi alzò la vo-ce e apostrofò il prigioniero: «Ti supplico nel nome del Dio vi-vente, dicci: sei tu il Messia, il Figlio di Dio?». Gesù rimase cal-mo, lasciò che nella sala si spegnesse la voce imperiosa di Cai-fa fino a che si impose un silenzio carico di tensione. Allora rispose con tranquillità, e sottolineando ogni parola in modo che ognuno potesse udire: «Io lo sono! E vedrete il Figlio deU'uomo seduto alla destra della Potenza venire con le nubi del cielo». Il riferimento alla visione di Daniele (Dn 7,13) non mancò di produrre un certo effetto e spinse Caifa all'atto drammatico del-la condanna: «Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: "Di quale testimonianza abbiamo ancora bisogno? Avete sentito la bestemmia. Che ve ne pare?". Tutti lo giudicarono reo di morte» (Me 14,61-64).

Ciò era conforme al precetto della Mishnah: dopo che qual-cuno era stato trovato colpevole di bestemmia, «si interroga il testimone più in vista dicendogli: Riferisci chiaramente ciò che hai udito! E costui lo fa; a queste parole i giudici si alzano e si strappano le vesti, che non potranno mai più ricucire»24. La sen-tenza era emessa. Il vero motivo della condanna era la critica di Gesù al tempio, alla gerarchia sadducea, ma si era trovato un pretesto adeguato nella sua rivendicazione messianica.

La congiura contro Gesù

Se questa condanna avesse avuto luogo dinanzi al Sinedrio, la sentenza sarebbe stata convalidata il giorno successivo e Ge-sù condotto fuori della città per la lapidazione. Questo esigeva

24 Mishnah, Trattato Sanhedrin, 7,5.

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la legge di Mosè e questo avveniva ancora nel I secolo, come conferma Giuseppe Flavio: «Colui che bestemmia Dio, sia lapi-dato e poi appeso (e vi resti) per un giorno, sia poi sepolto e sen-za onore»25. Ma con una simile sentenza la gerarchia del tempio sarebbe uscita troppo allo scoperto, suscitando disordini non so-lo tra i sostenitori di Gesù ma anche tra i capifila esseni della sua famiglia. Questo Gesù di Nazaret proveniva pur sempre dal-la stirpe del re Davide: la sua rivendicazione messianica era dun-que legittima, almeno dal punto di vista dinastico.

Il Sinedrio avrebbe potuto eseguire da sé la condanna a mor-te? La questione è controversa, probabilmente da porre in que-sti termini: no, ma non mancavano le eccezioni. Generalmente nelle province lo ius gladii era riservato ai romani, cioè al go-vernatore. Giuseppe Flavio riferisce che Coponio, il primo pre-fetto della Giudea, era dotato di tutti i poteri connessi alla ca-rica. Secondo la tradizione talmudica, 40 anni prima della di-struzione del tempio nel 70, agli ebrei era stato sottratto il diritto di condurre processi che comportassero la pena capitale. La quantificazione degli anni è simbolica: in realtà s'intende l'ini-zio della dominazione romana diretta sulla Giudea nell'anno 6 d.C.26. D'altro canto gli ebrei godevano di una completa libertà religiosa, il che implicava la punizione delle «violazioni deUa leg-ge mosaica». Giuseppe Flavio cita la presenza, dinanzi al corti-le interno del tempio, di insegne recanti ammonimenti. Effetti-vamente durante gli scavi archeologici ne sono state rinvenute una integra e un frammento, con l'iscrizione: «Agli stranieri (ai non ebrei) è fatto divieto d'ingresso nel luogo sacro. Le tra-sgressioni saranno punite con la morte». Che queste condanne a morte venissero eseguite dagli ebrei, lo confermava il con-dottiero romano Tito, che nella sua arringa dinanzi alla Geru-salemme assediata chiedeva: «E non vi abbiamo noi permesso di mettere a morte chi l'avesse oltrepassata [la balaustrata che segnava il limite del luogo sacro], anche se si fosse trattato di un

25 Giusepe Flavio, Ant. Ind., IV, 8,6. 2lS G.Theissen-A. Merz, op. cit., p. 399.

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romano?»27. Tuttavia una sentenza di questo genere poteva es-sere rivendicata soltanto in un contesto esclusivamente religio-so. E proprio questo risultava troppo scabroso per i sadducei.

Con il deferimento ai romani si potevano invece conseguire tre vantaggi: 1. Ci si poteva liberare di Gesù ancora prima della festa di Pa-

squa, senza infrangere l'ordinamento processuale del Sine-drio.

2. Si potevano scaricare le proprie responsabilità e contempo-raneamente mostrare agli occupanti quanto si teneva al man-tenimento dell'ordine pubblico.

3. Si poteva smascherare Gesù. Giustiziato dai romani come agi-tatore politico, non era più un martire religioso, né dopo la crocifissione era più sostenibile la sua rivendicazione messia-nica; non si diceva forse: «L'appeso è una maledizione di Dio!» (Dt 21,23)? Chiunque esperisse una fine così oltraggiosa era un fallito abbandonato da Dio, non poteva essere l'agogna-to salvatore di Israele. Come si vede, ciò che contava era innanzitutto la legittima-

zione dinanzi al proprio popolo. Gesù fece centro quando dis-se ai sommi sacerdoti, in occasione del suo arresto notturno: «Ogni giorno io stavo con voi nel tempio e non mi avete mai ar-restato» (Le 22,53)28. Si sapeva di quanti sostenitori godesse Ge-sù e dell'entusiasmo con il quale era stato festeggiato dal popolo di Gerusalemme in occasione del suo ingresso in città. L'azione doveva aver luogo con il favore delle tenebre, per evitare di suscitare indignazione tra gli ebrei. L'interrogatorio dinanzi a Caifa e alla sua piccola, intima cricca di membri del Sinedrio fe-deli alla linea - e appunto non di fronte all'intero Consiglio Su-premo - serviva effettivamente soltanto all'istruzione dell'ac-cusa. Non appena si fece giorno, si deferì il caso ai romani. A questo punto diventa particolarmente chiaro quanto sia inso-

27 Giuseppe Flavio, Bell. Iud.,Wl, 2,4. 28 Così recita invece la traduzione ufficiale del passo evangelico: «Ogni giorno ero

con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me» (ndt).

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stenibile la fatale diceria sugli ebrei «assassini di Dio». La con-segna a Pilato non fu opera del «popolo ebraico», ma un intri-go inscenato ad arte dall'amministrazione sadducea del tempio. Gesù è stato ucciso «dagli ebrei» tanto quanto Giulio Cesare lo è stato «dai romani».

Gesù era un potenziale sobillatore che metteva in pericolo l'ordine pubblico e per questo ci si voleva liberare di lui. Così ha scritto giustamente Paul Winter: «Il sommo sacerdote, in quan-to vertice dell'amministrazione locale ebraica, doveva rendere conto al governatore del mantenimento dell'ordine pubblico. Era suo dovere collaborare a istruire processi contro i sospetti di reati politici e alle indagini contro i sediziosi, anche quando questi venissero poi condotti in giudizio dinanzi al rappresen-tante di Roma»29. Deferendo ai romani Gesù, che «seduceva il popolo» e la cui rivendicazione messianica, almeno secondo la definizione sadducea, aveva una dimensione del tutto politica, Caifa adempiva questo obbligo.

Di Gesù, riformatore religioso e «pietra deUo scandalo», si do-veva fare un agitatore politico, perché i romani si interessasse-ro di lui, dato che gli occupanti non si immischiavano in con-troversie religiose. Quindi la sua rivendicazione messianica, pu-ramente religiosa, doveva essere trasformata in una pretesa di regalità politica. La chiave della sua condanna è stata fornita da un'interpretazione univocamente politica del titolo messianico. Questo garantiva che Pilato si interessasse della faccenda, e ren-deva anche probabile una condanna a morte. Il titolo di reato affisso sulla croce lo rivelava molto chiaramente: Gesù veniva condannato come sospetto «re dei giudei». Pur tuttavia, se dav-vero fosse stato considerato un sobillatore politico, anche i suoi seguaci sarebbero stati immediatamente arrestati con lui nel giardino del Getsemani.

29 P. Winter, On the trial of Jesus, New York 1974, pp. 42s.

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Il Messia

In effetti «re» è una delle possibili interpretazioni della paro-la ebraica màsiab. Perché «Messia» significa letteralmente «Un-to» e si riferisce al rituale di unzione attestato per re, sommi sa-cerdoti e profeti. Diversi testi veterotestamentari parlano della speranza del popolo in un re salvifico che, come una volta Da-vide, difenda il Paese dai nemici e porti la pace (così Is 8,23-9,6; 11,1-9; Mie 5,1-5; Zc 9,9-10). Sempre il Messia imprime una svol-ta escatologica, cioè instaura un nuovo, definitivo stato del mon-do. Così facendo esercita anche la funzione di liberatore: fon-da in Israele il regno di Dio.

Da questa tradizione scaturivano le attese messianiche de-gli esseni, cioè dei membri di quella setta escatologica che, du-rante il regno ellenistico degli Asmonei, si ritirarono nel de-serto attorno al Mar Morto per prepararsi all'incipiente regno di Dio e per porre le basi di un nuovo Israele, purificato dal pun-to di vista cultuale. Nei loro scritti, rinvenuti nelle caverne di Qumran, ritroviamo anche testimonianze della loro concezio-ne messianica, nettamente distinta da quella dell'ebraismo tra-dizionale: era molto meno politica e molto più trascendente. Co-sì, nelle Disposizioni comunitarie e nello Scritto di Damasco, due dei testi di Qumran più importanti, si fa riferimento a due figure messianiche che sarebbero comparse insieme alla fine dei giorni: un sacerdote messianico della casa di Aronne e un re messianico della casa di Davide. Questa profezia era nota alla comunità delle origini, e Luca la proietta su Gesù e su Gio-vanni Battista, di cui sottolinea la provenienza dalla stirpe di Aronne. Secondo i testi di Qumran, con la comparsa delle fi-gure messianiche viene siglato un nuovo patto con Dio, in se-guito al quale la Torah perde di validità ed è sostituita da una nuova, definitiva Legge. Il compito del sacerdote messianico della stirpe di Aronne, fungendo quasi da precursore, sarebbe stato quello - proseguono i testi - di esortare alla penitenza e di perdonare i peccati, mentre il re messianico avrebbe «an-nientato i figli di Seth» e «dominato su tutti i popoli». Per «fi-

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gli di Seth» si intendevano però i demoni, non i nemici terreni 0 addirittura gli occupanti stranieri, e anche l'annunciato do-minio sul mondo va piuttosto interpretato in senso escatologi-co-trascendente. Secondo un altro scritto di Qumran (4Q521), soltanto il re messianico ha competenza cosmico-escatologica: «Cielo e terra ascolteranno il Messia, e tutto ciò che è in loro non volterà più le spalle ai comandamenti dei santi... Esalterà 1 fedeli sul trono di un regno eterno, liberando i prigionieri, re-stituendo la vista ai ciechi, raddrizzando coloro che sono curvi ... poi sanerà gU infermi, risusciterà i morti, annuncerà agli umi-li la lieta novella» (cfr. Is 61,1-3). Anche Gesù cita il libro di Isaia a proposito della questione di chi lui sia (Mt 11,4-5; Le 7,22). 4Q246 prosegue a proposito del Messia: «Figlio di Dio viene chiamato, e lo chiameranno "Figlio del Supremo". Come stelle cadenti... saranno i loro regni... un popolo calpesterà l'altro, e una città l'altra, finché il popolo di Dio si leverà e tutto riposerà della spada. Il suo regno è un regno eterno, e tutte le sue vie ve-rità. Giudicherà la terra in verità e tutti si riappacificheranno ... il Dio grande sarà la sua forza». Questo testo costituisce un argomento contro coloro che ritengono la filiazione divina di Gesù come un'«invenzione» dell'apostolo Paolo, che avrebbe tentato di spiegare al suo uditorio greco la concezione messia-nica ebraica collegandosi Figli degli dèi dei culti misterici elle-nistici. Come mostrano i testi di Qumran, il Messia era il «Fi-glio del Supremo» anche per i tradizionalisti esseni. Forse per-sino la fine violenta era stata preconizzata negli scritti di Qumran. Così può essere letto il frammento 4Q285, la cui traduzione è però controversa: «E uccisero il principe della comunità, il di-scendente di Davide».

Come vedremo meglio, Gesù agì in ambiente essenico; in que-sto contesto definì la propria rivendicazione messianica. Iden-tificò Giovanni Battista con il Messia sacerdote e si fece bat-tezzare da lui, cioè ungere simbolicamente re. Un segno del cie-lo confermò il suo «insediamento nella carica». Chiamò dodici discepoli in rappresentanza delle dodici tribù di Israele e inviò settanta apostoli ai settanta popoli della terra (tanti erano i

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popoli della terra secondo la tradizione ebraica) per annuncia-re anche a loro il suo Vangelo dell'incipiente regno di Dio. Pri-ma di fare ingresso a Gerusalemme sul dorso di un'asina (Mt 21,2; cfr. Zc 9,9) - dove si riconobbe il segno e gli si rese omag-gio come «Figlio di Davide» e «re dei Giudei» - il suo cammi-no lo condusse a Gerico, similmente a Giosuè che l'aveva con-quistata. Tutto ciò costituiva una messinscena gravida di incal-colabili implicazioni politiche, soprattutto in un momento così delicato dal punto di vista simbolico come la festa di Pasqua, in cui gli ebrei commemoravano la liberazione dalla schiavitù in Egitto ad opera di Mosè e la lunga marcia verso la terra pro-messa. Peggio ancora, era un'aperta provocazione contro i de-tentori del potere, che doveva inevitabilmente suscitare scalpo-re e condurre all'estremo confronto. Il primo sforzo dei Van-geli fu quello di dimostrare quanto «le Scritture si adempissero» in Gesù; ciò è evidente soprattutto nel Vangelo di Giovanni, l'u-nico evangelista ad appartenere forse personalmente alla cer-chia più intima dei discepoli. Gli avversari di Gesù sapevano quanto legittima fosse la sua rivendicazione: proveniva dalla stir-pe regale dei discendenti di Davide, compiva segni e miracoli attraverso i quali si faceva riconoscere come il Messia. Il con-fronto con i poteri dominanti, che si sentivano minacciati da un discendente di Davide, era inevitabile.

Mentre gli esserli sognavano una restaurazione del «vero Israe-le» sotto un «Figlio di Davide», una prospettiva come questa rappresentava un incubo per i sadducei. Quali eredi spirituali degli Asmonei, volevano una Giudea aperta al mondo, orien-tata ellenisticamente, in cui dominassero la calma, l'ordine e il benessere, in cui fiorissero gli affari del tempio e nessuno met-tesse in discussione la loro autorità. A tal fine era necessario trovare un accordo con gli occupanti romani, la qual cosa ap-pariva loro opportuna fintanto che questi garantivano i loro pri-vilegi. Per loro Gesù era soltanto una minaccia per lo statu quo in cui vivevano tanto bene, e di conseguenza dovevano libe-rarsi di lui.

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Il processo a Gesù

Mentre gli agitatori politici erano spesso condannati a mor-te in base alla legge marziale senza un dibattimento formale, nel caso di Gesù, Pilato procedette in maniera diversa. In quanto governatore di Roma aveva sicuramente, secondo la formula-zione di Giuseppe Flavio, «diritto di vita o di morte»30, cioè una illimitata giurisdizione penale su tutti gli abitanti non romani della provincia; tuttavia non fece uso del suo «diritto di coerci-zione». Vale a dire: avrebbe potuto sicuramente far crocifigge-re Gesù in base alla legge marziale, ma non lo fece. La con-giuntura della festa di Pasqua era troppo scabrosa, troppo astu-to il prefetto opportunista.

Nei Vangeli troviamo invece tratteggiata una struttura pro-cessuale tipica dei procedimenti giudiziari romani presieduti dai governatori. Essa constava di quattro elementi:

esposizione dell'accusa, interrogatorio dell'imputato, sen-tenza e sua esecuzione.

Il dibattimento doveva essere pubblico ed entrambe le parti, accusatori e imputato, dovevano comparire davanti al giudice. Proprio in questo modo si svolse anche il processo a Gesù. I sommi sacerdoti esposero l'atto d'accusa. Pilato soppesò at-tentamente la situazione. Analizzò l'accusa, si misurò con l'ac-cusato, lo interrogò a proposito dei capi d'accusa, saggiò il cli-ma predominante tra la gente. Luca ci trasmette la più completa versione del capo d'accusa, citandolo come segue: «Quest'uo-mo l'abbiamo trovato mentre sobillava la nostra gente, proibi-va di pagare i tributi a Cesare ed affermava di essere il Cristo re» (Le 23,2).

Evidentemente Pilato aveva subodorato l'intrigo. In questa faccenda non lo turbava tanto la sorte dell'accusato, quanto piut-tosto l'essere ridotto a longa manus del Sinedrio. «Era infatti in-flessibile, ostinato e intransigente di natura», afferma Filone d'A-lessandria, «non voleva fare alcunché fosse di gradimento ai suoi

30 Giuseppe Flavio, Beli Iud., II, 8,1.

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sudditi ebrei»31. Per pura ostinazione, avrebbe voluto lasciar li-bero questo singolare «re dei giudei». Così facendo reagiva esat-tamente nello stesso modo in cui si sarebbe comportato, 32 an-ni dopo, uno dei suoi successori, il governatore Albino, alle pre-se col caso di Gesù Ben Ananus che, con le sue maledizioni, aveva profetizzato la fine del tempio. Albino aveva ascoltato l'accusa contro l'eccentrico personaggio, l'aveva interrogato, fat-to flagellare e liberato.

Ma era Pasqua, e la situazione era esplosiva: c'era in questio-ne un uomo che affermava di essere il «re dei giudei». Dal me-ro punto di vista del formalismo giuridico, era un reato che com-portava la pena di morte: si trattava infatti di alto tradimento e di lesa maestà. Nessuno poteva autonominarsi re, a meno che l'imperatore non l'avesse designato e che il Senato romano non l'avesse confermato nel suo ufficio. Una pretesa di regalità era insieme una messa in discussione dell'imperatore e di Roma. E proprio là, all'imperatore e a Roma, minacciavano di rivol-gersi gli ebrei per sporgere reclamo. L'avevano già fatto una vol-ta, quando Pilato aveva fatto collocare le insegne nel palazzo di Erode, e con indubbio successo. Tiberio in persona ordinò a Pilato di riportarle a Cesarea. Già allora aveva rischiato di per-dere la lucrativa carica di governatore, se non avesse avuto a Roma un protettore, il potente Seiano. Ma un secondo reclamo - lo sapeva bene - avrebbe significato la fine della sua carrie-ra: quando effettivamente, sei anni più tardi, ne fu inoltrato uno a Tiberio, fu infatti subito richiamato da Cesarea. Gli ebrei lo avevano colpito nel suo punto debole. L'imperatore non avreb-be di certo avuto alcuna comprensione per un governatore che proteggeva un re autonominatosi tale e che, in questo modo, metteva anche in pericolo l'ordine pubblico.

La rappresentazione del processo fornitaci dai Vangeli ap-pare storicamente esatta. Si attaglia a ciò che sappiamo di Pi-lato, alla sua caparbietà da un lato e alla sua cieca, incondizio-nata fedeltà all'imperatore dall'altro. Pilato non voleva, non po-

31 Filone, op. cit, 38.

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teva, con un'altra decisione sbagliata, deludere Tiberio, al qua-le in un eccesso di zelo aveva persino eretto un luogo sacro. Pi-lato condannò Gesù quando venne a sapere che proveniva dal-la stirpe di Davide, che era un membro della legittima famiglia reale e un potenziale pretendente al trono d'Israele. Non gli ri-maneva altra scelta: con il suo ingresso a Gerusalemme cinque giorni prima, il Nazareno aveva fatto valere i suoi diritti. Il dram-matico finale era già scritto.

Lo scranno del giudice

Condizione giuridica formale della validità di una sentenza era la sua proclamazione secondo le procedure. Che una tale proclamazione avesse avuto luogo è sottolineato dai Vangeli quando citano espressamente lo scranno del giudice, la scila cu-rulis (in greco bima): «Sentite queste parole, Pilato condusse fuori Gesù e sedette su una tribuna, nel luogo chiamato Pavi-mento di pietra, in ebraico gabbatà» (Gv 19,13). Solo da questo luogo il governatore poteva amministrare la giustizia. «Sedere nel tribunale» era addirittura un terminus tecnicus che equiva-leva a «emettere una sentenza». Ritroviamo questo istituto ne-gli Atti degli apostoli, quando la comunità ebraica di Corinto trascinò l'apostolo Paolo dinanzi a Gallione, «proconsole del-l'Acaia» (quindi governatore deUa Grecia) e frateUo del filosofo Seneca. In quell'occasione «lo condussero davanti al tribunale dicendo: "Costui induce la gente a onorare Dio in modo con-trario alla legge"». In questo consisteva dunque l'accusa. Ancor prima che Paolo potesse difendersi, l'istanza fu respinta: sulle controversie religiose tra gli ebrei anche Gallione non aveva al-cuna competenza: «Se si trattasse di un delitto o di un'azione malvagia, o giudei, vi ascolterei pazientemente, come è giusto. Ma se si tratta di questioni di dottrina e di nomi e della vostra legge, vedetevela voi: io non voglio essere giudice di queste co-se», disse il proconsole, «e li fmandò via dal tribunale» (At 18,12-16). Anche Giuseppe Flavio riferisce di questa prassi di ammi-

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nistrazione della giustizia sotto uno dei successori di Pilato, il procuratore Gessio Floro (64-66). La sua béma stava evidente-mente davanti al nuovo palazzo di Erode, da lui trasformato in pretorio, mentre a quell'epoca il re Erode Agrippa II risie-deva nel vecchio palazzo degli Asmonei. Di lui si dice: «Floro prese alloggio nella reggia e il giorno dopo, avendo innalzato lì davanti il suo tribunale vi prese posto, mentre affluivano dinanzi a lui i sommi sacerdoti e i notabili e la parte più eletta della cittadinanza»32.

D pretorio

Da questo passo molti autori33 hanno dedotto che anche il pre-torio di Pilato si trovasse nel palazzo superiore di Erode e che proprio qui Gesù fu condannato. Questo è sicuramente possi-bile. Quello che è certo è che Pilato alloggiava nel palazzo con la consorte e che qui, in occasione del suo insediamento, fece collocare le insegne con l'effigie dell'imperatore. Filone d'Ales-sandria si riferisce molto chiaramente al palazzo di Erode an-che come «alla dimora del governatore»34. La tradizione bizan-tina tuttavia localizza il pretorio nell'area del vecchio palazzo degli Asmonei. È certo che, all'epoca di Erode, anche dopo l'erezione dello sfarzoso «palazzo superiore», il re espletava le sue mansioni d'ufficio nel vecchio palazzo. Alcuni esperti35 ne dedussero che, nella prima fase dell'occupazione romana - quin-di nel periodo precedente ai tre anni di regno di Erode Agrip-pa I, dal 41 al 44 d.C. - i governatori facessero lo stesso: risie-

32 Giuseppe Flavio, Bell. Iud., II, 14,8. 33 Tra gli altri Pierre Benoit, uno dei più conosciuti archeologi cattolici del mondo bi-

blico, della Scuola Biblica di Gerusalemme, in Prtìtorium, Lithostroton und Gabbathe, in Id., Exegese und Theologie, Gesammelte Aufsàtze, Dusseldorf 1965, pp. 149-166 (ediz. it. Esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Roma 1964-1971).

34 Filone, op. ci'r.,38. 35 Tra gli altri padre Bargil Pixner, anch'egli un importante archeologo del mondo bi-

blico e uno dei migliori conoscitori di Gerusalemme ai tempi di Gesù, in Wege des Mes-sias und Smtten der Urkirche, GieBen 1994, pp. 242-266.

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devano nel palazzo di Erode, ma utilizzavano il palazzo degli Asmonei come pretorio.

L'unico punto di riferimento di cui disponiamo per la sua localizzazione è costituito dall'accenno di Giovanni, secondo il quale il tribunale si trovava «nel luogo chiamato Pavimento di pietra, in ebraico gabbata» (Gv 19,13). Con i termini «litostra-to» e «gabbatà», traducibili appunto con «pavimento di pie-tra» o «selciato alto», si potrebbe intendere tanto la «piazza su-periore» pavimentata e posta di fronte al palazzo di Erode, co-me pure una piattaforma elevata collocata sulla scalinata che conduceva al palazzo degli Asmonei. La questione rimane quin-di aperta. Va invece esclusa l'identificazione tradizionale, ma at-testata solo dall'epoca delle crociate, del pretorio con la citta-della Antonia, da cui si diparte l'attuale «via Dolorosa» di Ge-rusalemme. La cittadella Antonia era l'acquartieramento della coorte romana di stanza a Gerusalemme, ma non è attestato da alcuna fonte che il governatore vi risiedesse o che vi espletasse le sue funzioni d'ufficio. Anche il selciato in pietra al pianter-reno del monastero delle Sorelle di Sion, che si affaccia sulla via Dolorosa ed è additato a pellegrini e turisti come «gabbatà», non può essere quel «selciato alto» di cui parla Giovanni: risale solo all'epoca dell'imperatore Adriano, che fece erigere sulla coUina Antonia il foro orientale dell'Aelia capitolina, con un ar-co di trionfo che oggi viene chiamato (altrettanto erroneamen-te) arco dell'Ecce Homo. Non è dunque accertato dove ebbe luogo effettivamente la condanna di Gesù, sebbene accordiamo preferenza alla tradizione bizantina.

Da questa veniamo a sapere per la prima volta, attraverso le prediche del vescovo Cirillo di Gerusalemme risalenti agli anni 348-350, quanto segue: «Gli zelatori della Chiesa (la comunità di Gerusalemme) conoscono il litostroto, chiamato gabbatà, che si trova nella casa di Pilato»36. Il Pellegrino di Bordeaux, che vi-sitò Gerusalemme nell'anno 333 e che percorse la città da sud a nord, lungo il cardo maximus, racconta: «Se si va dalla [porta]

36 Cat. 13, cit. da B. Pixner, op. cit, p. 254.

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di Sion alla porta di Neapolis [la porta di Damasco], a destra in basso nella valle [di Tyropeion] si vedono delle mura dove pri-ma stava la dimora o il pretorio di Pilato. Lì il Signore è stato interrogato prima di essere condannato a soffrire»37. Evidente-mente sulle rovine del pretorio, all'inizio del V secolo, fu costruita una chiesa, dapprima chiamata «chiesa di Pilato», e successi-vamente consacrata alla «Santa Sapienza» (Hagia Sophia). Co-sì riporta l'arcidiacono Teodosio attorno al 530: «La casa di Cai-fa dista dal pretorio circa cento passi doppi. Là si trova la «"chie-sa della Santa Sapienza"»38. L'anonimo Pellegrino di Piacenza, che visitò Gerusalemme attorno al 570, lo conferma scrivendo: «Abbiamo pregato anche nel pretorio dove il Signore è stato in-terrogato. Là si trova ora la basilica della Santa Sapienza di fron-te alle rovine del tempio di Salomone (il Muro del Pianto). In questa basilica ... si trova la pietra quadrangolare che stava al centro del pretorio e sulla quale veniva sollevato l'imputato per-ché venisse udito e visto da tutto il popolo. Su di essa anche il Signore è stato sollevato, quando è stato interrogato da Pilato, e lì sono rimaste le impronte dei suoi piedi»39. La localizzazio-ne «di fronte alle rovine del tempio di Salomone» rende univo-ca l'identificazione con il palazzo degli Asmonei. Questo infat-ti si trovava su un'altura sull'altro lato della valle di Tyropeion, proprio di fronte al tempio. In questo modo re Erode Agrippa II, quando vi fece aggiungere una nuova torre, era in condizio-ne di osservare con precisione «quanti entravano nel tempio, e in particolare per le cerimonie sacrificali» come riferisce Giu-seppe Flavio. Questo però infrangeva la Legge, e così i sacerdoti fecero erigere «un muro assai alto sul recinto che era all'inter-no del tempio, verso occidente», suscitando le ire del re. Il con-flitto finì davanti all'imperatore Nerone, che si pronunciò a fa-vore dei sacerdoti40. Attraverso questo aneddoto è possibile in-dividuare con precisione la posizione del palazzo degli Asmonei.

37 Cit. da G. Kroll, Aufden Spuren Jesu, Leipzig 1988, p. 335. 38 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 336. 39 Cit. da G. Kroll, op. cit., pp. 336s. 40 Giuseppe Flavio, Ant. Iud.,XX, 8,11.

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Si trovava là dove in epoca bizantina si localizzava, a torto o a ragione, il pretorio di Pilato.

Barabba

C'era tensione nell'aria, in occasione di quella festa di Pasqua dell'anno 30, tanto più che evidentemente si erano già verifi-cati dei disordini. A questo allude l'esecuzione di due «ladroni» insieme a Gesù, e anche Barabba, secondo Marco, era «impri-gionato insieme ai sediziosi che, durante una sommossa aveva-no commesso un omicidio» (Me 15,7). A questo proposito il ter-mine «ladroni», cui ricorre Matteo (Mt 27,44), non deve trarre in inganno. Anche Giuseppe Flavio lo usa per indicare agitato-ri, partigiani, militanti della resistenza politica. Questi «ladroni» (in greco testai) o «fanatici» (in greco zelótes) avevano persino dei loro «re». Così scrive Giuseppe Flavio: «La Giudea era pie-na di brigantaggio. Ognuno poteva farsi re, come capo di una banda di ribelli tra i quali capitava e in seguito avrebbe eserci-tato pressione per distruggere la comunità causando torbidi a un piccolo numero di romani e, più raramente, provocando una grande carneficina al suo popolo»41.

In effetti r«amnistia di Pasqua», che finì per condurre alla liberazione di Barabba, trovava così paralleli nel mondo antico, per quanto non fosse tuttavia una tradizione generalizzata, co-me affermano invece gli evangelisti. Un papiro egiziano del-l'anno 85 riferisce di come un prigioniero di nome Fibione fos-se rilasciato dal governatore romano Settimio Vegeto su richie-sta del popolo con le parole: «Ti saresti meritato la flagellazione ... ma voglio fare dono di te al popolo»42. Anche in Giudea si ve-rificò la liberazione di prigionieri ad opera del governatore Al-bino, come apprendiamo da Giuseppe Flavio. Questi però, lun-gi dal costituire la regola, erano casi individuali.

MIbid..XV IT. 10,8. «Cit. da G. Kroll op.cit.,?. 352.

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«Ibis in crucem»

La sentenza per un sobillatore politico era prevedibile: la cro-cifissione, la più ignominiosa e dolorosa forma di esecuzione dei romani. I delitti passibili di crocifissione, secondo il diritto ro-mano, erano: furto, omicidio, incendio, diserzione, alto tradi-mento, istigazione alla rivolta e infine lesa maestà (crimen lae-sac maiestatis}42. In questi casi veniva inflitta solo agli humilio-

res, cioè agli appartenenti alle classi basse: schiavi, liberti e abitanti delle province privi di cittadinanza romana. Secondo un manuale di diritto databile intorno al 300, coloro che com-mettono un defitto capitale vengano decapitati o inviati in esi-lio, quando appartenenti alle classi alte [honestiores]', quelli pro-venienti dai ceti bassi [humiliores] vengano crocifissi, bruciati vivi o gettati [in pasto] agli animali feroci»44. La crocifissione era una punizione terribile. Cicerone, il più famoso oratore roma-no, la definiva «il più crudele e atroce dei supplizi» e così si espri-meva: «Già la parola "croce" deve rimanere lontana non solo dal corpo ma anche dal pensiero, dall'occhio e daU'orecchio dei cittadini romani»45. Tacito chiamava la crocifissione «una pena capitale per schiavi»46; per Giuseppe Flavio era «la più mise-randa di tutte le morti»47. In origine la crocifissione era un sa-crificio umano pagano48. Se prestiamo fede a Erodoto, fu prati-c a t a p e r l a p r i m a v o l t a c o m e p u n i z i o n e d a p e r s i a n i e m e d i , e

adottata poi dai romani durante le guerre puniche contro i car-taginesi, nel III secolo a.C.49. La prima crocifissione di massa si verificò quando Marco Licinio Crasso nell'anno 71 a.C. stroncò la rivolta di Spartaco: 6000 schiavi fuggiti, sostenitori del ribel-le, furono crocifissi lungo la strada che da Capua conduce a Ro-

43 R.A. Baumann, Crime et Punishment in Ancient Rome, London 1996. Cit. da R.A. Baumann, op. cit., p. 125.

45 Cicerone, In Verrem, II, 5,64,165; Id., Pro Rabirio, 5,16; cit. da W. Bósen, op. ciL, p. 228.

46 Tacito, Hist., 4,11. 47 Giuseppe Flavio, Beli Iud., VII, 6,4. 48 G. Baudlcr, Dos Kreuz, Dusseldorf 1997, pp. 141-184. 49 W. Bósen, op. cit, pp. 228s.

I l i

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ma. Nell'antico Israele i condannati a morte venivano sì infil-zati o appesi a un palo, ma la crocifissione fu introdotta solo da-gli Asmonei. Così re Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), verso il 90 a.C., fece crocifiggere a Gerusalemme 800 dei suoi opposi-tori farisei. La barbara punizione sconvolse a tal punto gli ebrei che re Erode il Grande vi rinunciò del tutto, sebbene in occa-sione della sua presa del potere avesse fatto uccidere l'intero Si-nedrio asmoneo.

Le crocifissioni, a Roma come nelle province, non erano ca-si rari, cosicché disponiamo di una lunga serie di descrizioni coe-ve ad opera di antichi autori, che rendono possibile l'esatta ri-costruzione del loro procedimento. Mentre nei periodi tranquilli si tendeva ad astenersene, nel caso di rivolte e disordini veni-vano impiegate, persino eccessivamente, come strumento di ter-rore. Quando, dopo la morte di Erode il Grande, scoppiarono sommosse in Giudea, Varo, all'epoca governatore della Siria, in-tervenne energicamente e fece crocifiggere 2000 ebrei attorno alle mura di Gerusalemme50. Era lo stesso Varo che sarebbe pe-rito, tredici anni più tardi, nella battaglia della Selva di Teoto-burgo. Giuseppe Flavio cita una serie di crocifissioni ad opera dei diversi governatori. Furono così fatti crocifiggere, dal go-vernatore Tiberio Alessandro (45-49), Giacomo e Simone, figli di quel Giuda il Galileo che, durante la tassazione di Quirino, diede inizio a una rivolta51. Sotto Felice, procuratore tra il 52 e il 60, «furono poi un'infinità i briganti che lui stesso fece croci-figgere, o i paesani che punì come loro complici»52. Per «ladro-ni» si intendevano i ribelli. Quando il governatore Floro, nel-l'anno 66, tenne udienza nel mercato alto di fronte al palazzo di Erode, si giunse allo scontro. Poiché il popolo non gli consegnava alcuni ribelli, fece saccheggiare il mercato e le case circostanti e assassinare chiunque si frapponesse sul cammino dei soldati. «Furono presi anche molti dei moderati e condotti dinanzi a Clo-

30 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XVII, 10,10. 51 Ibid., XX, 5,2. 52 Giuseppe Flavio, Bell. Ind., II, 13,2.

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ro, che dopo averli fatti flagellare li mise in croce», prosegue Giuseppe Flavio. Il cronista sottolinea con particolare indigna-zione che, in quell'occasione, Floro non ebbe riguardo nem-meno dei patrizi di Gerusalemme che avevano acquistato la cit-tadinanza romana. Ordinò invece che anche loro fossero «fu-stigati davanti al suo tribunale e poi crocifissi»53. La crudeltà, la stupidità politica e l'avidità di Floro, che doveva la sua cari-ca di governatore all'amicizia della sua sposa con Poppea, con-sorte dell'imperatore, furono successivamente anche il vero in-nesco della guerra giudaica contro Roma. Nel 70, durante l'as-sedio di Gerusalemme ad opera di Tito, si verificarono vere e proprie crocifissioni di massa di più di 500 prigionieri al giorno: «Spinti dall'odio e dal furore, i soldati si divertivano a crocifig-gere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancavano lo spazio per le croci e le croci per le vittime», co-sicché si prese a crocifiggerli alle mura della città54. Colpisce il fatto che tutte le crocifissioni avvenute in Giudea di cui si ha no-tizia fossero di natura politica, esecuzioni quindi di ribelli e di loro simpatizzanti. Auctores seditionis... in crucem tollitur. «I ri-voltosi - e tale era chiunque ponesse in discussione l'autorità di Roma - vengono crocifissi», questo era ben chiaro anche allo scrittore romano Tito Livio55. Per Gesù non andò diversamen-te. Il Messia proveniente dalla stirpe di Davide era in qualche misura qualcosa di simile a un «re dei giudei». Questo titolo non gli era stato conferito da Roma; ecco quindi il crimen laesae maie-statis, il delitto di lesa maestà, uno dei crimini più gravi secondo il diritto romano. Stando alla lex iulia de maiestate, un abitante delle province doveva essere punito con la morte in croce.

Il titolo d'accusa citava il motivo della condanna: ognuno do-veva vedere che fine facessero coloro che rivendicavano il tro-no regale di Giudea senza l'approvazione di Roma, coloro che mettevano in discussione l'unica potenza, queUa di Roma. In un

53 Ibid., U, 14,9.

55 Cit. da M.G. Siliato, Und das Grabtuch Lst dock echt, Augsburg 1998, p. 277.

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certo senso era una misura preventiva: con la crocifissione di Gesù si doveva stabilire un esempio, il crocifisso doveva servi-re da deterrente per potenziali agitatori e futuri ribelli.

L'utilizzo di tavolette che riportavano il nome del condan-nato - poiché il nome JESUS era frequente si aggiunse con NA-ZARENUS l'indicazione della provenienza - e il motivo della condanna - REX IUDAEORUM - , è storicamente attestato. Precedevano il condannato nel suo cammino verso il luogo del-l'esecuzione ed erano poi fissate alla croce in modo tale da es-sere visibili per tutti. Anche Svetonio sapeva che il delinquen-te «era preceduto da una tavola che recava scritto il motivo del-la punizione». Svetonio ci trasmette persino il testo di un titulus damnationis quando spiega come, a un supposto malfattore de-stinato a essere divorato nel circo dai cani, venisse appesa al col-lo una tavola recante la scritta «scudiero dei traci reo di lesa maestà»56. Tuttavia questa non era norma giuridica e, almeno per quanto riguardava l'esecuzione nelle province, costituiva chiaramente un'eccezione.

Se la sentenza si pronunciava per la crocifissione, questa era la formula di rito pronunciata dal giudice:

Condemno. Ibis in crucem. Lictor, conlinga manus. VerbereturTì.

36 Svetonio, Vita dei Cesari, Caligula 32 e Domiziano 10,1. Naturalmente, nel caso di esecuzioni di massa, non si usava ricorrere a un titulus per ognuno dei condannati. Pilato, al contrario, sicuramente non vi rinunciò in occasione di un processo tanto spet-tacolare, anche solo per umiliare gli accusatori davanti ai quali dovette infine capitola-re. Una caparbietà di questo genere si attaglia perfettamente ai modelli comporta-mentali che la tradizione gli attribuisce. Non sappiamo se anche ai due «ladroni», con-dannati e giustiziati in seguito a un rito accelerato, fosse assegnato un titulus con l'iscrizione lestes. Se così fosse, esso non fu di sicuro redatta in tre lingue a scopo dimostrativo, af-finché ognuno potesse leggere chi era stato crocifisso dai romani. Alla fin fine, la mor-te di un «re dei giudei» non legittimato da Roma doveva fungere da deterrente nei ri-guardi di ogni potenziale agitatore.

" «Ti condanno: salirai sulla croce. Littore, legagli le mani. Che sia flagellato!». W. Fricke, Der Fall Jesus, Hamburg 1995, p. 238.

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La flagellazione

La flagellazione era dunque una componente inalienabile del-la pena della crocifissione. Tuttavia Gesù era già stato flagella-to, cosicché Pilato rinunciò a questa parte della pena e si li-mitò ad annunciare l'ibis in crucem. Anche la flagellazione era una pena riservata agli humiliores, perché considerata disono-revole. Così Paolo, quando fu flagellato e fece appello ai suoi di-ritti di cittadino romano, protestò chiedendo al comandante del-la cittadella Antonia: «Vi è lecito flagellare un cittadino roma-no, e per di più non ancora giudicato?» (At 22,25). Nell'ipotesi più favorevole, gli honestiores venivano colpiti sul dorso con i fasces, i fasci di verghe dei littori. Mentre era usuale che gli schia-vi insubordinati venissero frustati, la flagellazione era una pu-nizione di carattere pubblico, diversamente graduata in base al numero dei colpi da infliggere e allo strumento utilizzato, il flagellum o il flagrum. Poteva fungere da strumento di tortura durante gli interrogatori, essere impiegata come pena nel caso di reati di scarsa rilevanza, oppure costituire il preludio alla pena di morte. Aveva luogo neU'aula di tribunale o in altro luo-go pubblico: secondo Filone, alcuni ebrei furono crocifissi ad Alessandria «dopo essere stati flagellati a teatro»58. Negli Atti degli apostoli apocrifi dello Pseudo-Abdia si dice della crocifis-sione di Andrea: «Il governatore ordinò che fosse flagellato con sette volte tre colpi e che fosse inchiodato alla croce»59. Arte-midoro descrisse laconicamente una flagellazione: «Legato a una colonna, fu colpito molte volte»60. Di regola il condannato veniva trascinato fuori nudo e legato a una colonna, in modo ta-le da incurvare la schiena. Nel corso della pena si accasciava spesso al suolo, mentre si continuava a colpirlo. Nel caso di una condanna a morte, si colpiva il delinquente anche lungo tutto il percorso che conduceva al luogo dell'esecuzione.

Uhorribile flagellum, come lo chiamava Orazio, constava di

58 Filone, op. cit., 38. 59 Pseudo-Abdia, Atti degli apostoli, III, Andrea. " Artemidoro, L'arte dei sogni, 1,78.

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un'impugnatura di legno cui erano fissate tre cinghie di cuoio che culminavano in nodi, ossicini, biglie metalliche - spesso di piombo e della forma di manubri - e persino in uncini. In que-sto modo la flagellazione poteva trasformarsi in una punizione estremamente sanguinaria. Anche Gesù Ben Ananus fu «fla-gellato fino a mettere allo scoperto le ossa», come riferisce Giu-seppe Flavio, ma fu successivamente rilasciato61. Altri uomini fu-rono fatti «fustigare fino a mettere a nudo le viscere»62. Gli Ac-ta martyrum citano l'ordine di un giudice particolarmente sadico: «Che il suo dorso sia dilacerato dai colpi, senza posa, che sia col-pito all'occipite dal piombo, così che esso si tumefaccia fino a scoppiare»63. Anche gli ebrei conoscevano questa punizione, ma avevano posto un limite al numero dei colpi che potevano es-sere inflitti, che non dovevano superare i «quaranta meno uno» (cfr. Dt 25,3)64. Di queste finezze i romani non si preoccupava-no, come lamentava Ulpiano, giurista romano della tarda anti-chità: «A causa della disumanità di chi doveva eseguire la pena, molti morivano sotto questo genere di flagellazione»65.

Incoronato di spine

La «terribile flagellazione» serviva per lo più soltanto allo sco-po di debilitare il condannato, prima di condurlo all'esecuzione, come conferma Giuseppe Flavio: «Così venivano flagellati e, do-po aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano cro-cifissi di fronte alle mura»66.

Tuttavia, prima che Gesù fosse condannato a morte, fu sot-toposto anche all'irrisione da parte dei soldati. Nemmeno que-

61 Giuseppe Flavio, Bell. Iud., VI, 5,3. 62 IbUL, II, 21,5. 63 Cit. da M.G. Siliato, op. cit., p. 273. M Così recita la traduzione ufficiale del passo veterotestamentario: «Gli farà dare non

più di quaranta colpi» (ndt). 65 Institutiones, 48,19, De poenis 8, cit. da G. Ricci, L'uomo della Sindone è Gesù,

Cammino, Milano 1985, p. 155. 46 Giuseppe Flavio, Bell. Iud.,V, 11,1.

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sto costituiva un caso isolato. Apprendiamo da Filone che, nel-l'anno 41, il popolino di Alessandria si fece beffa del re ebreo Agrippa I rivestendo un malato di mente di nome Karaba con una stuoia che fungeva da «mantello regale», adornandolo con un mazzo di rami in fiore che facevano da «diadema», metten-dogli in mano una canna di papiro a mo' di scettro e rendendo-gli omaggio al grido di «Signore» (in aramaico mar'!). Un pa-piro egiziano riferisce dell'analoga acclamazione di un «re zim-bello» dopo la sollevazione ebraica ad Alessandria tra il 115 e il 117 d.C., cui prese parte anche il governatore romano. In oc-casione di una festa persiana, verso la fine del I secolo, si pose a sedere sul trono regale un condannato a morte e lo si derise ac-clamandolo re67.

Tra i legionari acquartierati a Gerusalemme c'erano per lo più mercenari siriani o palestinesi, comunque acerrimi nemici degli ebrei, che non si sarebbero certo lasciati sfuggire l'occasione lo-ro offerta di trovarsi tra le mani il «re dei giudei». Il loro atteg-giamento nei confronti dei sovrani ebrei divenne plateale quan-do, nel 44 d.C., morì a Cesarea re Erode Agrippa I: si abban-donarono a festeggiamenti e a manifestazioni di gioia e posero immagini delle figlie del sovrano sui tetti dei bordelli68.

È certo possibile che anche Pilato prendesse parte, almeno in-direttamente, al rito dell'irrisione. Perché Vecce homo con cui condusse di fronte alla folla Gesù che portava «la corona di spi-ne e il manto di porpora» (Gv 19,5) corrispondeva in pieno a una parodia dell'acclamatio classica degli antichi sovrani, che proprio così, incoronati, venivano presentati al popolo. Lieber-man spiega che «nella maggior parte dei casi nel corso della ce-rimonia di acclamazione lo si indicava [il nuovo re] acclaman-dolo con queste parole: "È lui!"»69. Forse Pilato voleva saggiare il seguito di cui Gesù godeva effettivamente tra il popolo. Se fos-se stato a capo di un gruppo di ribelli o il pretendente al trono

67 Filone, In Flaccum. 6,36-39; cit. da W. Bosen, op. cit., p. 235. 63 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XIX, 9,1. 69 Cit. da Flusser, op. cit., p. 207.

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di un raggruppamento politico, questa scena non sarebbe rima-sta priva di conseguenze. Ogni ebreo di orientamento nazio-nalista o tradizionalista avrebbe reagito con indignazione alla derisione di un discendente di Davide. Ma la reazione dei sim-patizzanti sadducei, radunatisi di fronte al Pretorio, era univo-ca: «Crocifiggilo, crocifiggilo!» (Gv 19,6). Pilato in quell'istan-te deve aver visto Gesù come un innocuo filosofo, un individuo isolato senza seguito tra la folla. Improvvisamente deve esser-gli stato chiaro che si trattava di un conflitto religioso intestino, qualcosa per lui estraneo e incomprensibile al pari dell'intero ebraismo. Era quasi sul punto di lasciare libero Gesù, un po' per ostinazione, un po' per pietà, se i sommi sacerdoti non avessero sollevato un unico, decisivo argomento: come reagirebbe Roma se un governatore lasciasse andare libero un pretendente al tro-no d'Israele autoelettosi tale? Per un reato come quello c'era una sola pena possibile: la croce!

La via della croce

Gesù non trascinò la croce fino al Golgota, come si vede in innumerevoli rappresentazioni cristiane della via crucis. Come a tutti i condannati, gli furono invece legate le braccia divarica-te alla trave orizzontale, il cosiddetto patibulum. Per questo gli evangelisti ricorrono all'espressione «portare» la croce invece che «trascinare». La parola patibulum proviene dal latino pateo («stare aperto, essere esposto, estendersi») e originariamente designa il chiavistello delle antiche porte. «Coloro che teneva-no fermo il condannato gli divaricavano le braccia e le incate-navano al patibulum e ciò valeva anche per la parte superiore delle braccia vicino al petto. Il legno poggiava dunque suUe brac-cia per tutta la loro lunghezza fino al carpo»: così Dionigi di Ali-carnasso (60-7 a.C.), un greco che visse a Roma per 22 anni70, descrive questa stazione del cammino verso la croce. «Chi deve

70 Arch. Rom., VII, 69,2; cit. da G. Ricci, op. cit., p. 79.

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essere inchiodato alla croce, prima deve portarla», afferma Ar-temidoro71. «Quando ti si getterà il patibulum e ti si divariche-ranno le braccia ... sarai trascinato lungo le strade con la trave appoggiata alla nuca», annuncia Plauto a un condannato (II se-colo a.C.)72.

Il cammino verso il luogo dell'esecuzione fu descritto da Ge-sù stesso quando annunciò a Pietro che avrebbe finito per co-noscere anch'egli la morte per crocifissione a Roma: «Ma quan-do sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti legherà e ti porterà dove tu non vuoi»73. L'evangelista sottolinea espressa-mente: «Questo gli disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio» (Gv 21,18s).

A. un 'es t remi tà del patibulum e r a f issata una corda , che al-

l'altro capo era legata alla caviglia dell'uomo che seguiva. Ave-va lo scopo di mantenere unito il gruppo che andava verso la crocifissione, ma anche di ridicolizzare i condannati costringen-doli a movimenti impacciati, a incespicare e a cadere: «Ognuno di loro portava la sua trave ... e ogni criminale porta da sé la sua trave, sorreggendola con il proprio corpo», e così i portatori del-la croce (cruciarti) si trascinavano innanzi a scatti, incespicando e cadendo74. Questa circostanza spiega perché il già esausto Ge-sù, probabilmente l'ultimo della fila, si accasciasse più volte (tre, secondo la tradizione cristiana): non per il peso della trave, di circa 35 chilogrammi, ma perché perdeva l'equilibrio73.

Legati l'uno all'altro da corde, i condannati venivano frustati lungo le strade principali della città, ai cui bordi si assiepavano i curiosi, fino a raggiungere il luogo dell'esecuzione: «Ogni volta che crocifiggiamo dei criminali, scegliamo per il percorso verso la crocifissione le strade più animate, così che il maggior nume-ro possibile di persone vi assista e sia colto da paura», scrive Quin-

71 Artemidoro, L'arte dei sogni, II, 56. 72 Plauto, Mostellaria, 55; cit. da M.G. Siliato, op. cit., p. 281. 73 Così recita la traduzione ufficiale del passo evangelico: «quando sarai vecchio ten-

derai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (ndt). 74 Plauto, Mostellaria, 55; cit. da M.G. Siliato, op. cit., p. 281. 75 G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981, cit., pp. 99-109; G. Ricci, The Holy Shroud,

Roma s.d., cit., p. 41.

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tiliano76. Per quanto riguarda Gerusalemme, ciò significava scen-dere dalla scalinata del palazzo degli Asmonei attraverso lo Xy-stus, il maggiore luogo pubblico della città, sulla passeggiata dei Re, che collega il palazzo degli Asmonei al palazzo di Erode, per poi salire verso la città alta; da lì verso la strada del mercato su-periore, il predecessore del cardo, attraverso la porta di Gennat in direzione della città nuova erodiana, ove proseguiva questa se-conda strada principale di Gerusalemme. Il corteo lasciava la città attraverso la nuova porta di Efraim, massicciamente fortificata, da cui si dipartiva la strada romana che conduceva a Cesarea, e si spingeva fino a quella vecchia cava di pietre da dove si alzava il moncone del Golgota. «Portarono il patibulum attraverso la città, poi furono sollevati sulla croce»,.si legge in Plauto77. Nel luo-go deU'esecuzione erano già pronti i pali deUe croci, chiamati sti-pes. Gli apocrifi Atti di Andrea descrivono come l'apostolo, pri-ma della sua crocifissione, «vedesse la croce piantata nel terreno, si avvicinasse ... e dicesse: "Già da tempo stai qui nel terreno e mi aspetti"»78. Secondo gli Atti di Pietro, apocrifi redatti attor-no al 190, anche Pietro, quando, incatenato al patibulum, fu con-dotto al luogo dell'esecuzione sul colle Vaticano, vide davanti a sé gli stipes, esclamò: «"Ma perché esito, perché non mi avvici-no?" ... E si avvicinò e attese presso la croce»79. Cicerone si van-tava di aver fatto asportare, durante il suo consolato, i pah delle croci dal Campo di Marte, e criticò Labieno che aveva dato l'or-dine di erigere «una croce permanente per l'esecuzione dei cit-tadini»80. Poiché comunque le crocifissioni a Gerusalemme ave-vano luogo solamente quando il governatore si recava in visita in città in occasione delle feste religiose (o per soffocare le ri-volte), si deve piuttosto supporre che questo non fosse il caso del Golgota e che le croci venissero asportate una volta che le ese-cuzioni erano state portate a compimento, anche per via dei sen-

74 Cit. da G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981, cit, p. 35. 77 Plauto, Mostellaria, 55; cit. da G. Ricci, L'uomo della Sindone..., cit., pp. 89s. 78 Pseudo-Abdia, Atti degli apostoli, Pietro. 79 Ibid.,111, Andrea. 40 Cit. da G. Ricci, cit, p. 22.

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timenti religiosi ebraici. Ciò che non si poteva rimuovere era un anello conficcato nella roccia, del diametro di 11,5 centimetri, in cui veniva probabilmente infilato il palo della croce. Lo si può vedere ancor oggi sulla roccia del Golgota, nella chiesa del San-to Sepolcro81. Se davvero fosse servito a sostenere la croce di Ge-sù, questa non poteva essere alta più di 2,5 metri.

Innalzato sulla croce

Giunti sul luogo dell'esecuzione, i carnefici potevano sceglie-re tra due modalità: crocifissione con corde o con chiodi. Le cor-de, con cui la persona crocifissa veniva legata alla croce, pro-lungavano le sofferenze. I chiodi le inasprivano, ma allo stesso tempo le abbreviavano. Poiché i condannati giungevano al luo-go dell'esecuzione già legati al patibulum,la soluzione più sem-plice consisteva nel sollevarli seduta stante sulla croce. Secon-do Senofonte di Efeso, un autore del II secolo, la crocifissione tramite corde era «abituale», almeno in Egitto82. Poiché però Gesù era stato disciolto dal patibulum - portato al Calvario da Simone di Cirene - nel suo caso si optò per i chiodi. Questi, a differenza di quanto accreditato dall'iconografia cristiana, non venivano conficcati nel palmo della mano, bensì nel carpo. Co-me hanno dimostrato gli esperimenti in laboratorio del chirur-go francese Pierre Barbet, se i chiodi fossero stati conficcati nel palmo delle mani, un peso corporeo di 40 chilogrammi sareb-be stato sufficiente a strapparli. La cosiddetta «fessura di De-stot» invece, in corrispondenza del carpo, può essere trafitta sen-za fatica da un chiodo robusto. Si tratta, per la vittima, di un pro-cedimento estremamente doloroso, perché lede il nervo mediano, che ha funzione sensoria e motoria83; il dolore è così intenso che

" Secondo l'affermazione dell'architetto Theo Motropulos, restauratore della cap-pella del Golgota nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme (intervista in Beten-des Volk Cottes, 1991,1, n. 165, pp. 3-5).

52 G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981, cit, p. 181. 83 E. Gruber-H. Kersten, Jesus starb nicht am Kreuz, Mtinchen 1998, p. 39.

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può comportare la perdita di coscienza. Se si opera in questo modo, il pollice, i cui movimenti sono coordinati dal nervo, si ri-trae verso l'interno del palmo della mano84. Negli Atti degli apo-stoli dello Pseudo-Abdia, opera redatta nella sua versione defi-nitiva nel VI secolo ma i cui primi abbozzi risalgono al II seco-lo, si dice, a proposito della crocifissione di Andrea: «Il gover-natore ... diede espressamente mandato ai carnefici di non in-chiodarlo alla croce ma di legarvelo mani e piedi perché non perdesse subito coscienza a causa dei chiodi bensì perisse dopo lunghi tormenti»85.

Dopo questa tortura, la vittima era issata a mano sulla croce, tra nuovi, atroci dolori, oppure, se la croce era particolarmente alta, veniva tirata verso l'alto mediante una fune legata alla tra-ve orizzontale. «Viene legato al patibulum e issato sulla croce», così Firmico Materno, un autore romano del V secolo, descrive laconicamente la crocifissione vera e propria86. «Lo sol levarono

e immobilizzarono alla croce», riporta un altro autore antico87. Tutte le espressioni latine corrispondenti a crocifissione - in cru-cem tollere, crucem ascendere, in crucem salire - aUudono al mo-vimento ascensionale verso la croce. L'azione di sollevare o, nel caso delle croci più alte, di tirare il condannato verso l'alto, co-sì dolorosa per la vittima, veniva paragonata nella letteratura antica all'issaggio della vela all'albero maestro di una nave. «L'al-bero della nave è simile alla croce», scriveva Artemidoro, sa-piente e interprete di sogni del II secolo d.C.88. Come nel vento la vela fissata al pennone, così il corpo legato o inchiodato al pa-tibulum si piega tra i tormenti quando viene sollevato sul palo della croce. Cinicamente si parlava nell'antichità anche di «dan-za del crocifisso». Così Artemidoro interpretava il sogno di una «danza in un luogo sopraelevato» come macabra premonizione

84 G. Ricci, L'uomo della Sindone..., cit., p. 485. 85 Pseudo-Abdia, Atti degli apostoli, III, Andrea. 86 Firmico Materno, Mathematica VI, 32,58; cit. da G. Ricci, The Holy Shroud, Ro-

ma s.d., cit., p. 23. 87 Cit. da M.G. Siliato, op. cit., p. 302. 88 Artemidoro, L'arte dei sogni, II, 53.

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Ricostruzioni dell'affissione del titulus: sopra, in un dipinto di Mario Caffaro-Rore (par-ticolare), sotto, in un dipinto diAgnes Schejok (particolare).

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di una condanna alla crocifissione. Per «danza» si intendeva il dibattersi del corpo inchiodato alla croce solo per le braccia e pencolante dalla trave orizzontale per tutto il tempo necessario al carnefice a immobilizzare i piedi della vittima e inchiodarli al legno della croce. A questo scopo le gambe venivano piegate fi-no a formare un angolo per permettere al condannato di rad-drizzarsi e inspirare aria; i piedi, sovrapposti, venivano premu-ti contro il palo e trafitti da un lungo chiodo. Per fornire loro una presa, il chiodo veniva prima conficcato in un'assicella di le-gno larga circa 20 centimetri, grazie alla quale si premevano sul-la croce con ancora più forza i piedi trafitti dai chiodi e si evi-tava che potessero strapparsi da essa. Quest'asse era probabil-mente fissata al palo della croce tramite corde89.

Ci sono pervenute solo tre rappresentazioni antiche di ero-

Gemma magica del III secolo.

Questo genere di prassi è attestato dal rinvenimento del crocifisso di Giv'at ha-Mivtar.

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cifissioni, il che lascia intuire l'orrore che per i romani amman-tava questa terribile pena:

- Una gemma magica del III secolo, già appartenente alla col-lezione Pereire. Vi si riconosce chiaramente lo stipes sottile a cui viene fissato il patibulum. Il condannato è incatenato alla tra-ve orizzontale e siede evidentemente su un'asse, un sedile, men-tre le gambe paiono pendere libere90.

- Un graffito del I secolo, rinvenuto nelle rovine di una ta-verna romana poco distante dall'anfiteatro di Pozzuoli. Qui il condannato è rappresentato di spalle. Il patibulum poggia sullo stipes, la croce ha una forma a T. Il condannato è evidente-mente avvolto in una pelle d'animale - il che fa pensare a un'e-secuzione pubblica nell'anfiteatro - , un sedile gli offre un so-stegno. I piedi sono sovrapposti e fissati al palo della croce, for-se con un chiodo91.

- Un graffito rinvenuto nel 1856 su un muro della domus Ge-lotiana sul colle Palatino a Roma, nelle cantine di uno dei pa-lazzi dell'imperatore Nerone (54-68). Evidentemente era volto a deridere un servitore cristiano - il che permette di collocare la sua datazione nel periodo precedente alle persecuzioni anti-cristiane di Nerone dell'anno 64 - , perché reca un'iscrizione trac-ciata con calligrafia incerta: «Alexamenos adora il suo Dio». Questo Alexamenos è rappresentato in adorazione davanti a un Crocifisso dalla testa d'asino. È tanto più significativo in quan-to tra i romani persisteva ostinatamente la diceria secondo cui gli ebrei avrebbero venerato un Dio dalle sembianze di un asi-no. Forse all'autore del graffito era noto il fatto che già i primi cristiani, tre decenni dopo gli eventi pasquali, adoravano Gesù come Figliò del Dio ebraico. Anche in questo caso la croce con-sta di un palo piuttosto sottile a cui (non su cui) è fissato il pa-tibulum] inoltre il condannato è sorretto da un subpedanum, un'asse per i piedi collocata a un'altezza di circa 50 centimetri92.

9111. Wilson, Jesus: The Evidence, London 1985, p. 107. 91 P. Baima Bollone, Sindone. La prova, Milano 1998, pp. 59s. 921. Wilson, The Blood and the Shroud, New York 1998, pp. 48s.

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Già la disomogeneità di questi tre esempi mostra che evi-dentemente esistevano numerose varianti della crocifissione. A volte le gambe erano sorrette da un subpedanum, a volte erano legate allo stipes, a volte penzolavano libere, a volte il condan-nato era posto su di un sedile, altre volte no, il più delle volte il patibulum era fissato allo stipes ma altre volte vi era poggiato sopra. Non c'era una norma.

Spesso la croce era alta poco più di 2 metri. Ma c'erano an-che croci alte, per issare i condannati sulle quali erano neces-sarie scale e corde. «Il crocifisso è visibile da lontano», spiega-va Artemidoro 9 3 . Così Sve tonio racconta di come il fu tu ro im-peratore Galba (68-69), quando era ancora governatore in

rinvenuto nella domus Gelotiana.

Artemidoro, L'arte dei sogni, II, 53.

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Spagna, avesse condannato alla crocifissione un cittadino ro-mano reo di omicidio per avvelenamento. Quando questi pro-testò di essere un honestus, «Galba, quasi che il tributargli ono-re mitigasse la durezza della pena, impartì l'ordine di erigere per lui, per così dire per consolarlo, un'altra croce, significativamente più alta e inoltre dipinta di bianco»94. Che Gesù, in quanto «re dei giudei» potesse godere di un onore parimenti dubbio, è pos-sibile e sarebbe deducibile da un particolare che ritroviamo in tutti e quattro i Vangeli: «Un tale corse ad inzuppare una spu-gna d'aceto, la pose su una canna e gli dava da bere» (Me 15,36); ugualmente in Mt 27,48; Luca (23,36) fa solo un breve accenno;

mentre Giovanni (19,29) descrive la scena in maniera partico-lareggiata. È però ugualmente possibile che la canna fosse ne-cessaria perché la croce stava sulla cima scoscesa della collina del Golgota ed era perciò raggiungibile solo con difficoltà.

Un'onta invece gli fu risparmiata. «I crocifissi sono nudi», spie-gava Artemidoro95, defraudati della loro ultima dignità umana e dati in pasto alla vergogna. Ma in Giudea le cose andavano di-versamente. Bisognava avere totale riguardo per i sentimenti re-ligiosi degli ebrei, ai quali Roma aveva garantito libertà di cul-to. Così ci si atteneva anche in questo alle prescrizioni della Mi-shnah, in cui si dice: «Quando il condannato giungeva a una distanza di quattro cubiti dal luogo della lapidazione, lo si spo-gliava dei vestiti. L'uomo lo si copra sul davanti, ma la donna sul davanti e sul dietro»96. Anche Gesù avrà dunque portato un pan-no attorno al pube.

La tunica di Gesù

Giovanni racconta più avanti: «I soldati, quand'ebbero cro-cifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una

94 Svetonio, Vita dei Cesarti, Galba 9. 93 Artemidoro, L'arte dei sogni, II, 53. 96 W i 6,3.

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per ciascun soldato, ed anche la tunica. Ma la tunica era senza cucitura, tessuta dalla parte superiore tutta di un pezzo. Dis-sero dunque fra loro: "Non dividiamola, ma tiriamo a sorte di chi sarà"» (Gv 19,23-24). Non c'è motivo di dubitare della sto-ricità di questa scena. La spartizione degli averi del condan-nato era un vecchio costume dei carnefici. Il plotone d'esecu-zione di quattro uomini, guidato da un centurione, era com-posto di mercenari che vedevano con favore la divisione del bottino rappresentato dalle vesti del condannato. Il loro com-penso annuo ammontava a 225 denari, suddivisi in tre rate. In questo modo guadagnavano meno di un lavorante a giornata, cui veniva corrisposta una diaria di un denaro97. È ipotizzabile che il nuovo proprietario dell'abito sia stato ben presto con-tattato dai seguaci di Gesù, decisi a riacquistarlo anche a un prezzo ragguardevole. Per loro la tunica impregnata del suo san-gue rappresentava una testimonianza della passione di inesti-mabile valore. Inoltre si attribuiva alla veste una forza mira-colosa. Già il Vangelo di Marco narra la guarigione di un in-fermo che ne aveva toccato l'abito (5,25-34), ed in seguito a questo episodio, prosegue Matteo (14,35-36), gli venivano por-tati tutti i malati, «e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo della sua veste; e quanti riuscirono a toccarlo furono gua-riti». Secondo la leggenda la veste, dopo lunghe traversie, entrò in possesso dell'imperatrice Elena, che la collocò nella cappel-la Palatina di Treviri. Lì il culto della «veste santa» è dimo-strabile a partire dal XII secolo, ma è possibile che avesse luo-go già dal IV secolo. Nel 1996 fu esposta per l'ultima volta al pubblico e attirò oltre 700.000 pellegrini. Ma oggi naturalmen-te non si è più in grado di stabilire se questa reliquia sia effet-tivamente la tunica di Gesù98.

97 W. Fricke, op. cit., p. 239. 9X M. Hesemann, Der «Heilige Rock» von Trier: Symbol oder echte Reliquie?, in

Magazin 2000, (settembre 1996) n. 112, pp. 53-60.

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Tavola I: L'iscrizione di Pilato a Cesarea.

Tavola II: Plastico del tempio erodiamo (Gerusalemme, Hotel Holyland).

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a Tavola ìII: ££ Ricostruzione di g g j

• Gerusalemme all'epoca di Gesù sulla base di reperii

^ archeologici (da Herders ipH 'iv' groBer Bibelatlas,

mm

1 tempio 2 stagno d'Israele 3 fortezza Antonia 4 stagno di Struthion 5 palazzo del Sinedrio 6 Xystus 7 porta di Damasco 8 Golgota? 9 cava di pietre 10 porta di Genna i 11 palazzo degli Asmo

13 torre di Mariamne 14 torre di Fasacl 15 torre di Ippico 16 palazzo di Erode (cittadella) 17 porta degli Esscni 18 valle di Hinnoin 19 valle di Cedron 20 stagno di Siloe 21 sepolcri monolitici di epoca

israelitica ed ellenistico-romana 22 stagno di Betesda

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tir. *>U 1 /. InH-mo 4cìla ìhistHvu (H S. Croce con oli aifi escili di \hi<>~:> > da Forlì il438-!^9é

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Tavola 17/ ' fi rrììquhirin del 1803 am hi tavola dì Gesù nella Inni fica dì Santa Croce tn i.terusakmtnc.

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La tolta con Irò In morte sulla croce

Per quanto dolorosi fossero nnchiodamento al pmihulum e il sollevamento al palo della croce, la vera e propria lotta con-tro la morte iniziava solo più tardi, Di solito la morte in croce avveniva per soffocamento, un declino doloroso tra i tormenti della sete, un violento mal di testa e la febbre alta. Le ferite profonde e la copiosa perdita di sangue dovute alla flagella-zione causavano stati di shock e collassi circolatori Sotto il pe-so dei corpo le membra minacciavano di squartarsi, La posizio-ne del corpo appeso comportava difficoltà respiratorie che co-stringevano continuamente la persona crocifissa a sollevarsi verso Tallo tra indicibili dolori o. come nel caso di Gesù, a fare leva tra incredibili sofferenze con Unterò peso corporeo sul chio-do che trapassava i piedi. La lotta contro la morte consisteva in un alterno sollevarsi per poi lasciarsi andare, nell'atto di inspi-rare aria cui seguivano difficoltà respiratorie. Ma ben presto ve-nivano meno le forze. À un ora dalla crocifissione J movimenti si facevano sempre più frequenti, ma contemporaneamente an-che più deboli, Iniziava il. processo di progressivo e definitivo soffocamento. La gabbia toracica si gonfiava fino all'estremo li-ni ite, l'epigastrio si infossava in profondità, le gambe si. irrigi-divano. La pelle si faceva violacea, il sudore erompeva in so-vrabbondanza da tutto il corpo, si. mischiava al sangue e cola-va fino a terra. Scrive Seneca a. proposito di questa morte lenta e straziante sulla croce: «Cè forse un uomo che voglia perire membro dopo membro tra i dolori e perdere la vita goccia a goc-cia, invece di esalarla tutta in un soffio solo? C'è un uomo che voglia essere inchiodato a quell'infelice legno del martirio per poi, da tempo indebolito, già deformato, tumefatto a eausa, del-le orribili strie sanguinanti sulle spalle e sul torace, tendersi, no-nostante i tormenti che ciò comporta, per attingere l'alito del-la vita? Avrebbe molti motivi per morire prima, di salire in cro-ce»5^ Dopo la morte il corpo mostrava una straordinaria rigidità.

.: * Seneca. Ad LmiUmn (Ep. 101), 13s.

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Il capo era reclinato in avanti lungo l'asse del corpo. «Un uomo crocifisso, appeso per le braccia orribilmente divaricate, il ca-po insaccato tra le spalle, privo di coscienza, un'immagine ter-ribile», così Seneca descriveva la vista del condannato ormai ca-davere100. A seconda del tipo di crocifissione - con chiodi o con corde - , la morte subentrava dopo alcune ore oppure solo do-po un giorno. Il supplizio poteva essere ulteriormente prolun-gato collocando un piccolo sostegno sotto i piedi del condan-nato o sotto il bacino (rispettivamente il suppedaneum o il se-dile) che lo sorreggesse. Il Padre della Chiesa Origene (185-254) descrive Crocifissi che, «tra le più atroci sofferenze vivono l'in-tera notte e poi ancora l'intero giorno successivo»101. L'aposto-lo Andrea, crocifisso con corde, si dice abbia resistito sulla cro-ce addirittura per due giorni. Quanto diversa potesse essere la resistenza individuale ai tormenti della crocifissione - che va-riava a seconda della costituzione fisica - lo veniamo a sapere dal resoconto di Giuseppe Flavio dell'anno 70. Di ritorno da un viaggio esplorativo per conto del condottiero romano Tito, «vi-di molti prigionieri crocifissi e in tre di loro riconobbi dei miei ex compagni. Dentro di me ero molto triste e con le lacrime agli occhi mi recai da Tito e gli raccontai di loro. Questi diede dun-que subito l'ordine di deporli dalla croce e di trattarli con la mas-sima cura in modo che potessero ristabilirsi. Due di loro mori-rono comunque tra le mani del medico, mentre il terzo si ri-prese»102. In ogni caso Pilato fu sorpreso di udire che, a tre ore dalla crocifissione, Gesù era già mor to (Me 15,44). Gli altri due condannati, che erano stati solo legati alla croce, in quel mo-mento erano ancora vivi. Poiché l'esecuzione doveva conclu-dersi prima del tramonto, furono loro spezzate le gambe in mo-do che morissero soffocati tra i tormenti. La loro sofferenza eb-be così fine.

Diversi patologi hanno indagato con esperimenti medici gli

,lw Cit. da M.G. Siliato, op. cit., p. 308. 101 Cit. da E. Gruber-H. Kersten,/ems starb nicht..., cit.,p. 57. 1(12 Giuseppe Flavio, Autobiografìa, IV, 75.

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effetti sul corpo umano della crocifissione. Così all'inizio del XX secolo il patologo francese Pierre Barbet inchiodò a una croce dei cadaveri nell'aula di anatomia e li osservò: il corpo appeso alla croce si allungava gradualmente e sprofondava di alcuni centimetri, la cassa toracica si espandeva, il capo reclinava in avanti, le braccia si tendevano, le ginocchia si piegavano sempre più, ma i chiodi trattenevano il peso e il cadavere rimaneva sul-la croce.

Durante la prima guerra mondiale, il medico ceco Robert Hy-nek osservò la morte di un soldato austroungarico condannato alla pena capitale: lo si appese per le articolazioni del polso sen-za che i piedi toccassero il suolo. «Legato» in questo modo - co-sì si diceva - morì per soffocamento in meno di un'ora.

Negli anni trenta il radiologo di Colonia Hermann Mòdder condusse esperimenti su alcuni volontari che faceva appendere con lacci per le articolazioni del polso. In pochi minuti la pres-sione sanguigna arteriosa precipitava da 130 a 70, mentre il pol-so balzava dai 70 ai 145 battiti al minuto. Il cuore era sottopo-sto a un affaticamento intensivo. Le radiografie mostravano un'e-norme espansione della cassa toracica. La dolorosa tensione dei muscoli delle spalle e delle braccia cresceva di minuto in mi-nuto. La respirazione si faceva rapida, il colorito veniva meno, l'elettrocardiogramma evidenziava un'insufficienza circolatoria. Alcuni perdevano i sensi già dopo sei minuti, altri solo dopo die-ci o dodici.

Nella loro disumana crudeltà, i medici nazisti reiterarono que-sti esperimenti con alcuni detenuti nel campo di concentramento di Dachau, conducendoli fino alla morte. Le loro vittime, appe-se per le mani, soffrivano a causa di un'insopportabile difficoltà respiratoria. Cercavano ripetutamente di puntellarsi con un vo-lontario movimento a scatti e di immettere aria nei polmoni fin-ché, esausti per lo sforzo, ripiombavano indietro, minacciava-no nuovamente di soffocare e intraprendevano un ennesimo di-sperato tentativo. Se invece veniva posto loro un sostegno sotto i piedi che offrisse un appiglio anche soltanto alle punte dei pie-dij o se le gambe erano legate al palo e una parte del peso cor-

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poreo veniva sorretto in questo modo, la respirazione proce-deva con maggiore facilità e la lotta contro la morte veniva pro-lungata. Antoine Legrand, un internato nel campo di concen-tramento che fu testimone di questi esperimenti carichi di di-sprezzo per gli esseri umani, racconta che la gabbia toracica dei condannati si espandeva oltre misura, le gambe penzolavano senza forza e la pelle si faceva violacea. Il corpo era completa-mente coperto di sudore, che scorreva lungo il corpo verso il basso e gocciolava al suolo, nonostante fosse inverno. Le vitti-me della crudele esecuzione morivano «con il capo reclinato sul petto, insaccato così profondamente tra le spalle che a mala-pena da quella posizione poteva ancora lanciare uno sguardo»103. Erano soffocati.

Tuttavia non il soffocamento, bensì una rottura del cuore fu probabilmente la causa della morte di Gesù. I Vangeli dicono espressamente che parlò ancora e poi «chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30), o meglio, che «emesso un grande grido, spirò» (Me 15,37; Mt 27,50; similmente Le 23,46). Ciò fa supporre che, al momento della morte, si trovasse in posizione eretta e pog-giasse sul chiodo che trapassava i piedi in modo tale da riuscire a respirare e a parlare. È persino possibile che rimanesse in que-sta posizione per tutto il tempo fino al collasso circolatorio. Entrambi gli elementi, il forte urlo e il reclinare il capo, sono sin-tomi di una rottura del cuore, come afferma Giulio Ricci richia-mandosi a studi di noti medici: «In qualche caso ben diagnosti-cato, nel momento di morire per rottura di cuore, il moribondo emetteva alte grida e dopo uno o due minuti avveniva il deces-so ... Questo grande grido [lanciato da Gesù] inconciliabile con le condizioni di asfissia, può bene andare d'accordo con la rot-tura di cuore, mentre il chinare del capo ci suggerisce uno stato di sollevamento di tutto il corpo ... Non mancano, oggi, valenti dottori che sostengono che si possa attribuire ad una ischemia acuta di cuore la causa prima della rottura del cuore di Gesù»104.

I0J M.G. SUiato, op. cit, pp. 308-310. 104 G. Ricci, L'uomo della Sindone..., cit., p. 489.

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Questa diagnosi è rafforzata da un'osservazione di Giovanni. Quando infatti i legionari spezzarono le gambe ai crocifissi, vi-dero che era «già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con un colpo di lancia gli trafisse il fianco e ne uscì subito sangue ed acqua» (Gv 19,33-34). Già nel 1847 il medico scozzese William Stroud pubblicò la sua ricerca su persone de-funte in seguito a rottura cardiaca. L'autopsia effettuata su di lo-ro mostrava che «il sangue rigonfiava la borsa pericardica in mo-do da annullare lo spazio pleurico, e quando si apriva con il bi-sturi il pericardio, il sangue appariva già (anche solo dopo un'ora) diviso in due elementi distinti: in alto il plasma che, per il diver-so peso specifico, nuotava sopra, e sotto l'elemento corpuscola-to della sedimentazione»105.

L'ultima preghiera

Sulle parole pronunciate da Gesù sulla croce si è molto di-scusso. Per molti costituivano la dimostrazione dell'inaffidabilità dei Vangeli: persino su una questione così importante come le ul-time parole di Gesù si registrano divergenze. Ma la critica non regge a una considerazione più attenta. In Marco (15,34) e in Mat-teo (27,46), Gesù, con le parole «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», sembra recitare sulla croce il Salmo 22, o alme-no il suo primo verso; in Giovanni (19,30) le parole «Tutto è com-piuto» riecheggiano l'ultimo verso del medesimo Salmo:

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato, tenendo lontano il mio grido d'aiuto, le parole del mio ruggito? Dio mio! Chiamo di giorno e non rispondi, di notte e non c'è requie per me. Ma tu qual Santo siedi, tu, vanto d'Israele.

105 G. Ricci, L'uomo della Sindone..., cit., p. 488.

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In te confidarono i nostri padri, confidarono e li liberasti. A te gridarono e furono salvi, in te confidarono e non rimasero confusi. Ma io sono un verme e non un uomo, ludibrio della gente e scherno della plebe. Tutti al vedermi m'irridono, storcono le labbra, scuotono il capo: «S'è affidato al Signore, lo liberi, 10 salvi se davvero gli vuol bene». [...] Come acqua mi sento disciolto, sono disgiunte tutte le mie ossa, 11 mio cuore è diventato come di cera, tutto si strugge dentro il mio petto. Riarsa è la mia gola a somiglianza d'un coccio, attaccata al palato è la mia lingua; in polvere di morte tu mi riduci. Sì, un branco di cani mi sta accerchiando, un'accolta di malvagi mi sta d'intorno. Hanno scavato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Essi protendono lo sguardo, si mostrano felici della mia sventura; le mie vesti si dividono fra loro, sui miei abiti gettano la sorte. Ma tu, Signore, non restartene lontano, o mia forza, vieni presto in mio aiuto. [...]

Il tuo nome annunzierò ai miei fratelli in mezzo all'assemblea dirò le tue lodi. [•••] Mangino i poveri e si sazino, lodino il Signore quelli che lo cercano, viva il loro cuore in eterno. Si ricordino e al Signore ritornino tutti i confini della terra

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e si prostrino davanti a lui tutte le famiglie delle genti, poiché del Signore è il regno, egli è in mezzo ai popoli dominatore. Sì, tutti i nobili della terra gli renderanno omaggio e si curveranno davanti a lui tutti quanti i mortali. L'anima mia per sé ha fatto vivere: la mia discendenza lo servirà. Celebrerà per sempre il Signore. Verranno ed annunzieranno la sua giustizia al popolo che nascerà: «Sì, è opera sua!».

Poi, leggiamo più oltre in Giovanni, «chinato il capo, rese lo spirito». Erano esattamente le 15, nel tempio si stavano macel-lando gli agnelli pasquali. Le tenebre che erano calate su Ge-rusalemme (Mt 27,45) si dissolsero, lentamente il sole si fece nuovamente strada...

Vogliamo soffermarci su questo punto centrale della storia del-la salvezza e interrompere la narrazione degli eventi. Facciamo invece un salto in avanti di 282 anni e rivolgiamo la nostra at-tenzione a un episodio nodale della storia del mondo, a una svol-ta che contribuì a far irrompere sulla scena l'insegnamento di Ge-sù. Anche questa svolta è nel segno della croce, di quel legno di dolore del Golgota da lungo tempo dimenticato che, se dobbia-mo prestare fede alla tradizione, solo pochi anni più tardi potè essere effettivamente recuperato dal suolo di Gerusalemme. Per comprendere il significato di questo ritrovamento, dobbiamo in-dagare sulle circostanze concomitanti: i meccanismi che inne-scarono la ricerca che condusse al ritrovamento e le tradizioni che, sole, lo resero possibile.

106 Così recitano i versetti finali della traduzione ufficiale del Salmo: «Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: "Ecco l'opera del Signore!"» (ndt)-

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NEL SEGNO DELLA CROCE

Tutto iniziò con una visione. Il potente esercito imperiale, do-po lunghe marce forzate, aveva finalmente raggiunto Milano e si era accampato alle porte della città. Aveva attraversato le Alpi, marciato nella neve fresca e anche i soldati provenienti dalla Bri-tannia, dalla Gallia e dalla Germania, abituati al freddo, tiraro-no un sospiro di sollievo quando giunsero finalmente nelle più amene lande dell'Italia settentrionale. Faceva ancora caldo per l'inizio di ottobre, e il sole faceva capolino tra le nuvole riscal-dando i soldati, che trascorrevano i momenti successivi al pasto di mezzogiorno giocando a dadi e pulendo le armi. Prima della marcia su Roma dovevano riposare, e si sentivano ancora al si-curo da attacchi di sorpresa del tiranno, la cui cavalleria aveva-no appena sconfitto nei pressi di Torino.

L'imperatore stava in disparte, protetto sì dalle sue guardie ma circondato dalla solitudine di un uomo che si trova di fronte al-la più importante decisione della sua vita. Sapeva che era immi-nente la battaglia in cui si sarebbe giocato tutto: Roma e quel-l'impero che la Provvidenza gli avrebbe offerto in premio se fos-se riuscito a liberare la Città Eterna dal tiranno. Ma non faceva l'errore di sottovalutare le forze dell'avversario. Sapeva di essere numericamente inferiore. Inoltre i suoi uomini, reclutati dalle prò-

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vince nordoccidentali dell'impero, combattevano su un terreno poco familiare. Massenzio aveva radunato un enorme esercito composto da romani, italici, toscani, cartaginesi e siciliani. Sicu-ramente la battaglia per la conquista di Roma sarebbe stata cruen-ta, avrebbe comportato molte vittime anche tra le file dei suoi uo-mini, forse sarebbe sfociata in una lunga guerra di logoramen-to. Ma non poteva e non voleva cedere. Era il figlio di Costanzo Cloro, quel «Cesare d'Occidente» il cui dominio, all'epoca dei te-trarchi, si estendeva dalla Britannia all'Italia, dalla Spagna alla Germania, prima come coreggente sotto Diocleziano e Massi-miano, e poi, dopo che questi ebbero abdicato, come Augusto. Quando il padre morì, Costantino fu proclamato imperatore dal-l'esercito a York, mentre a Roma Massenzio, figlio di Massi-miano, s'impadroniva del potere. A Oriente, intanto, regnava come sempre Gale rio, il cui compagno d'armi Licinio fu ben pre-sto nominato Augusto sulla Pannonia e sul Norico. Mentre Ga-leno e il suo Cesare, Massimino Daia, davano il via a una cru-dele persecuzione contro i cristiani, in Occidente, dall'epoca di Costanzo Cloro, regnava una relativa tolleranza. Ora ciò che con-tava era riportare ordine nell'impero, riconquistare la capitale, e porre termine alla dittatura di Massenzio. Costantino era con-vinto di essere stato prescelto dalla Provvidenza di un dio. Ma quale dio? Sotto la protezione di chi avrebbe dovuto porre il suo

; esercito quando avesse marciato su Roma? I vecchi dèi di Roma - - intuiva - avevano fatto il loro tempo. Erano sempre meno i ro-mani che rendevano ancora sacrificio a Giove e a Giunone, a Marte e a Minerva. Le nuove religioni provenienti dall'Oriente erano invece ancora in auge: il culto egiziano di Iside, ancor di più l'adorazione del persiano Mitra o di Apollo, chiamato «l'in-vitto dio Sole», e infine il cristianesimo, che era uscito rafforza-

x to da ogni cruenta persecuzione. «Il sangue dei martiri è semen-te da cui germogliano i cristiani», questa era la voce che già si era diffusa nell'impero: questa religione doveva ben possedere qual-che forza sconosciuta. Ma era onorevole? Un imperatore che si

. apprestava a dominare il mondo intero poteva pregare un Dio • che era stato giustiziato da un prefetto romano e che era morto

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in croce come un qualsiasi lestofante? Per quanto sua madre sim-patizzasse già da tempo per questa religione, Costantino ancora non l'aveva veramente presa in considerazione. Fino a quel mo-mento aveva scommesso sul Sol Invictus, V«invitto dio Sole».

Il sole aveva lasciato già da tempo lo zenit e declinava verso ovest. L'imperatore stava dinanzi a un altare che aveva fatto col-locare davanti alla sua tenda, e sacrificava al «Dio sconosciuto», Apollo o Cristo che fosse. Lo pregava, lo implorava di dargli un segno. Gettava di continuo sulla brace chicchi di incenso d'Ara-bia, quella resina il cui fumo si diceva portasse agli dèi le pre-ghiere del credente. «Dio sconosciuto, portatore di luce, Sole in-vitto, io, Costantino Augusto, Cesare d'Occidente, ti scongiuro: ri-velami il tuo nome. Dammi un segno. Rivelami come posso implorare la tua protezione per le battaglie imminenti». Cadde in ginocchio. Per alcuni minuti rimase nel più intenso raccoglimen-to, immerso nel suo grande dilemma, implorando un segno divi-no, una conferma da parte della Provvidenza.

«Là, Cesare, lo vedi?». L'urlo eccitato di uno degli uomini del-la guardia lo strappò alla profonda preghiera, che per un istan-te lo aveva fatto sprofondare nell'immensità di Dio. Non sape-va se erano trascorse ore, oppure soltanto minuti, quando, an-cora leggermente confuso, distolto dal suo intimo raccoglimento, guardò verso il cielo. Non credette ai suoi occhi: la coltre di nu-bi si era aperta, il sole splendeva da uno squarcio di cielo color blu metallo. E sul sole troneggiava una croce di puro bagliore! Costantino, che nell'eccitazione si era levato in piedi, ricadde im-mediatamente in ginocchio, certo che il cielo avesse risposto alle sue implorazioni. In hoc signo vinces, «In questo segno vince-rai», riuscì a distinguere sulla croce. Tutto l'accampamento vide il segno. Legionari induriti, forgiati dalle battaglie, caddero in gi-nocchio e resero omaggio al Dio che aveva dato loro quel segno celeste di soccorso.

Ma l'apparizione era così impressionante che ci volle del tem-po perché Constammo ne comprendesse il significato. Discusse con i suoi consiglieri su quale Dio gli si fosse rivelato. Fino a quel momento aveva adorato Apollo, l'«invitto dio Sole», e poiché la

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croce era apparsa al di sopra del sole, poteva anche essere stato un segno di questo dio. D'altro canto era stato Cristo a morire in croce.. Ma davvero doveva scegliere come segno di vittoria que-sto ignominioso simbolo di martirio? O il segno celeste era ad-dirittura una premonizione della sconfitta, del fatto che, giusti-ziato da Massenzio, sarebbe morto in croce? Era semplicemen-te inimmaginabile, per Costantino, scegliere una forca come vessillo del suo esercito.

Così immerso nella discussione sul significato del miracolo, le ore trascorsero fulminee, sicché non si accorse che il giorno già volgeva al termine. Ma quando i suoi soldati suonarono il ripo-so notturno, sciolse la riunione. Voleva dormirci sopra. Forse il nuovo giorno avrebbe portato la risposta\

1 Secondo alcuni, la visione di Costantino si sarebbe verificata immediatamente pri-ma della battaglia di Ponte Milvio. Ciò comunque non è attestato dalla fonte coeva più importante, la Vita di Costantino di Eusebio. Solamente Lattanzio, contemporaneo e autore di Della fine dei persecutori, colloca la visione nella notte precedente la battaglia decisiva, il 27 ottobre («nel sonno Costantino fu ammonito ad applicare il segno cele-ste di Dio sugli scudi e a iniziare così la battaglia. Lui fece come gli era stato ordinato e, rovesciando la lettera X e ripiegando la punta, applicò Cristo agli scudi», Lattanzio, Mort. pers., 44,4-6). Questo sogno non può essere però identificato con la visione della croce, avvenuta a mezzogiorno e citata da Eusebio, che si richiama alla testimonianza personale dell'imperatore. Perché a questa seguì dapprima una discussione approfon-dita, poi la notte con la visione onirica di Cristo, in seguito alla quale Costantino diede l'incarico di allestire il suo vessillo, il labarum: il giorno seguente convocò degli orefici, cui diede istruzioni dettagliate. Già il giorno seguente erano stati approntati sfarzosi vessilli con oro, gemme e «un manto regale ricoperto di una grande varietà di pietre pre-ziose, intrecciate tra loro e sfavillanti come i raggi della luce, tutto trapunto d'oro» (Eu-sebio, VÌL Const., 1,31, trad. it. Sulla vita di Costantino, a cura di L.Tartaglia, M. D'Au-ria Editore, Napoli 1984). Inoltre Costantino deve essersi consultato «a tempo debito» con i sacerdoti a proposito della dottrina cristiana. Va quindi escluso che la visione della croce si verificasse il giorno precedente la battaglia decisiva, giacché Eusebio sottolinea che l'esercito dell'imperatore marciò su Roma sotto i vessilli del labarum (Eu-sebio, Vii Const., 1,37). Se dunque ebbe ancora una seconda visione prima della bat-taglia decisiva e se in seguito a questa fece applicare il segno di Cristo anche agli scudi dei soldati, è un'altra questione; in ogni caso, la visione della croce si verificò senza om-bra di dubbio sul suolo italico, ma prima della marcia su Roma, evidentemente nel mo-mento in cui si concesse una sosta di più giorni. Una simile sosta, però, che seguì effet-tivamente alla battaglia di Brescia cui accenna Eusebio, è dimostrabile solo per Milano (Nazario, Incerti Panegyricus Constammo Augusto, Paneg 313, PL 8, pp. 653ss). Il fatto che proprio a Milano l'imperatore si sia incontrato, quattro mesi più tardi, con il co-reggente Licinio, e che là abbia promulgato l'editto di tolleranza a favore dei cristiani, può perciò essere stato motivato non solo dall'importanza di Milano in quanto capita-le dell'impero occidentale ma anche dalla volontà di rendere omaggio alla visione. In ogni caso Eusebio sembra la fonte più affidabile, perché ricostruì evidentemente nei

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Da Gerusalemme a Roma

Se davvero è successo, nessun altro avvenimento degli ulti-mi 1900 anni ha inciso in maniera così duratura sulla storia del mondo quanto la visione della croce di Costantino. Divenne il motore - o almeno il simbolo - dell'ingresso degli eventi di Ge-rusalemme nella storia: con l'apparizione della croce avevano termine tre secoli di sanguinose persecuzioni contro la comu-nità delle origini, iniziate proprio davanti alla croce del Golgo-ta. Come Gesù, secondo la fede cristiana, risuscitò il terzo gior-no da morte, così la sua Chiesa visse ora la sua «risurrezione», dopo quasi 300 anni di clandestinità, e subito dopo la prova più dura, che passerà agli annali come persecuzione dioclezianea e che spinse forse migliaia di cristiani a testimoniare la fede con il sangue.

In quei tre secoli molte cose erano accadute: la semente del cristianesimo che Pietro aveva portato da Gerusalemme a Ro-ma era germogliata, la nuova religione si era diffusa in tutto l'im-pero romano nonostante le persecuzioni e le ostilità, e aveva trovato nella capitale una nuova patria. Ora, con Costantino, la casa imperiale stessa, nella persona della madre dell'impera-tore Elena, si sarebbe recata in pellegrinaggio a Gerusalemme, per strappare la vera croce al luogo dove giaceva sepolta, in-nalzarla e disperderla per il mondo sotto forma di innumerevo-li particelle. Il blocco principale della più significativa testimo-nianza della passione di Gesù fu però portato allora da Geru-salemme a Roma, nel palazzo imperiale, che da quel momento - e fino ai giorni nostri - divenne il suo santuario.

Ma prima di dedicarci allo spettacolare ritrovamento della re-liquia della croce e della tavoletta recante l'iscrizione di Gesù, dobbiamo ripercorrerne le circostanze concomitanti, liberarle dall'aura delle leggende pie e verificare le tradizioni che l'han-

particolari la storia della visione di Costantino, interrogando personalmente l'impera-tore e riportandone una testimonianza giurata (Eusebio, Vit. Const., 1,27), mentre Lattanzio la citava in modo piuttosto marginale e forse, semplicemente, l'interpretava in maniera sbagliata e la collocava cronologicamente subito prima della battaglia.

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no reso possibile. Per sottrarci al rimprovero di aver idealizza-to il personaggio, sia detto in anticipo: Costantino fu tutt'altro che il santo descritto dal suo biografo Eusebio e successivamente stilizzato dalla Chiesa ortodossa; fu innanzitutto un uomo di po-tere ambizioso e senza scrupoli. Ma, sotto la spinta di una vi-sione, ebbe la forza di cambiare il mondo. E forse fu proprio in virtù di questa forza, grazie alla quale fu prescelto da una po-tenza superiore, a vincere nel nome della croce.

Il vessillo della croce

Il biografo di Costantino, Eusebio di Cesarea, nella sua nar-razione si richiama espressamente alla testimonianza in pri-ma persona dell'imperatore: «Il vittorioso imperatore in per-sona, molto tempo dopo ... rivelò l'accaduto direttamente a noi, che siamo gli autori della presente opera»2. Secondo Eusebio, già nella notte successiva alla visione della croce Costantino eb-be un sogno, che fornì una risposta ai suoi interrogativi e con-dusse alla meta la sua ricerca: «Allora gli si mostrò in sogno Cristo, figlio di Dio, con il segno che era apparso nel cielo e gli ingiunse di costruire un'immagine simile a quella del se-gno osservato in cielo e di servirsene come difesa nelle batta-glie contro i nemici»3. La mattina seguente Costantino discus-se dell'apparizione con i suoi fidi. Poi convocò dei fini artigia-ni e descrisse loro ciò che aveva visto durante la notte, affinché confezionassero «con oro e pietre preziose» il labarum, Io sten-dardo della croce di Costantino. Sulla sua sommità era ripor-tato il monogramma di Cristo, le lettere greche intrecciate X (chi) e P (rho).

Sotto questo vessillo della croce, che «pose alla testa degli opli-ti e dei dorifori della scorta»4, marciò su Roma. E fu come se il suo nuovo Dio adempisse anche alla promessa di vittoria che

2 Eusebio, VLL Const., 1,28. 3 Ibid., 1,29. * Ibid, 1,37.

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gli aveva fatto. La campagna militare di Costantino, infatti, si ri-solse in una vittoria trionfale. Le truppe di Massenzio furono ri-petutamente sconfitte presso Brescia. La città di Verona, mas-sicciamente fortificata, cadde dopo una sanguinosa battaglia da-vanti alle mura. Il 26 ottobre del 312 l'esercito dell'imperatore aveva raggiunto il Tevere e si era accampato davanti al ponte Milvio, a pochi chilometri dalle porte della Città Eterna.

La marcia fino alle porte di Roma era stata pensata come una consapevole provocazione. Costantino sapeva che, attraversan-do il fiume, avrebbe occupato una posizione strategica più sfa-vorevole. Perché il ponte era un imbuto pericoloso. Il tiranno avrebbe potuto sferrare l'attacco mentre attraversava il Tevere, trucidare il suo esercito o ricacciarlo nel fiume prima che riu-scisse a traghettare completamente sull'altra sponda. No, se Mas-senzio l'avesse attaccato, avrebbe dovuto attraversare lui il Te-vere per finire in trappola. Ma il tiranno, la cui cavalleria ave-va ripetutamente caricato l'esercito di Costantino nei giorni precedenti la marcia su Roma, non si fece vivo. Un oracolo gli aveva profetizzato che sarebbe andato incontro alla sconfitta, se avesse lasciato le porte della città, e così il superstizioso Mas-senzio rimase in attesa di un attacco di Costantino.

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La fine del tiranno

Il giorno successivo, il 27 ottobre, era il settimo anniversario della presa del potere dell'usurpatore. Mentre i suoi generali at-taccavano l'accampamento dell'imperatore, Massenzio volle far-si festeggiare al Circo Massimo con le corse degli aurighi. Ma non appena ebbe messo piede sul palco imperiale, risuonaro-no i fischi e le grida d'indignazione del popolo romano. «Vi-gliacco!», urlavano, la peggiore offesa per un romano. Confuso, corse via dal circo, consultò alcuni dei suoi senatori e poi gli ora-coli sul colle Capitolino. Questi sprofondarono nei Libri sibil-lini, le antiche profezie sul futuro di Roma, e trovarono un pas-so che pareva appropriato: «I nemici di Roma saranno annien-tati ancora in questo giorno», gli predissero. Per «nemici» si potevano intendere solo Costantino e i suoi sostenitori, di que-sto Massenzio era sicuro. Indossò l'armatura, calzò l'elmo ric-camente adornato, montò a cavallo e assunse il comando del-l'esercito5.

L'usurpatore voleva sconfiggere Costantino con l'astuzia, ed era fiducioso: avrebbe finto una ritirata su un pontone formato da barche legate l'una all'altra, che avrebbe fatto affondare nel fiume se l'esercito di Costantino l'avesse inseguito. Ma il pia-no fallì: l'esercito di Costantino si abbatté sulle legioni di Mas-senzio con tale impeto da costringerle alla fuga. Queste si av-ventarono precipitosamente sul ponte di barche per sfuggirgli, segnando così il loro destino. Proprio nell'istante in cui anche Massenzio raggiungeva il ponte, le viti si sganciarono dagli or-méggi, le barche andarono alla deriva, il ponte crollò e l'eser-cito dell'usurpatore precipitò nelle acque impetuose del Tevere. Chi riuscì a raggiungere le sponde nella speranza di trovare sal-vezza, fu trucidato dai soldati di Costantino. Massenzio, che vo-leva raggiungere la ripida sponda sul lato opposto del fiume, fu trascinato via dalla forte corrente. Il suo cadavere fu ritrovato solo il giorno successivo. Fu decapitato, e il suo capo, infilzato

5 Lattanzio, Mort. pers., 44,3-8.

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su un giavellotto, fu fatto sfilare per le vie della Città Eterna da Costantino, che fece un ingresso trionfale. I romani lo salutaro-no euforicamente come colui che aveva posto termine al regno del terrore. Il Senato confermò la sua rivendicazione del trono dei Cesari e gli eresse, proprio accanto al Colosseo, un arco di trionfo. «All'imperatore Cesare Flavio Costantino che, divina-mente ispirato e grazie alla sua superiorità di spirito, vendicò lo Stato in una guerra giusta contro il tiranno e tutto il suo parti-to», si dice nell'iscrizione. Lo stesso Costantino fece erigere, nel sontuoso edificio della basilica di Massenzio, nel Foro Romano, una statua monumentale raffigurante se stesso, i cui resti - una testa e una mano - si possono ancora oggi ammirare nel corti-le interno del Museo Capitolino di Roma. Ma questa raffigura-zione non era solo l'espressione della fin troppo viva consape-volezza di sé di Costantino, ma anche la confessione di fede in un nuovo Dio, giacché Costantino veniva ritratto mentre reg-geva il vessillo della croce: «Con tale segno di salvezza, vero em-blema del valore, ho salvato e liberato dal giogo del tiranno la vostra città, ho restituito al Senato e al popolo romano, insieme con la libertà, l'antico onore e splendore»6, dichiarava l'iscri-zione sul basamento. Seguirono anche atti meno vanagloriosi, come la donazione al vescovo di Roma Milziade di un fondo imperiale situato nel quinto distretto, presso il colle Esquilino, sul limitare sudorientale delle mura cittadine. Nel I secolo que-sto appezzamento apparteneva alla famiglia dei Plauti Latera-ni, ma era stato confiscato dall'imperatore Nerone quando que-sti avevano preso parte a una congiura contro di lui. Costanti-no lo aveva ricevuto in dote dalla seconda moglie Fausta, figlia del coreggente di Diocleziano, Massimiano, grande protettore. di suo padre Costanzo Cloro. Ironia della sorte, Fausta era an-che la sorella dell'avversario di Costantino, Massenzio, che ave-va fondato la sua rivendicazione di potere sulla discendenza da Massimiano. Quando Diocleziano e Massimiano, nell'anno 305, abdicarono a favore dei loro Cesari, Costanzo Cloro e Gale-

6 Eusebio, Hist. Ecc., IX, 9,11.

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rio, Massenzio si era impadronito del potere a Roma, ignoran-do le indicazioni di suo padre, che finì per tornare a Roma di persona per detronizzare il figlio riottoso; in modo non del tut-to disinteressato, giacché anch'egli aspirava di nuovo al pote-re. Conseguentemente, Massenzio fece cacciare il padre dalla città senza esitazioni, così che questi dovette rifugiarsi in Gallia alla corte di Costantino. Ma Massimiano giunse ai ferri corti an-che con Costantino e finì per perdere la vita in maniera rimasta oscura.

La casa di Fausta, dunque, andò in dono al vescovo di Roma, e per un buon millennio fu la residenza dei suoi successori. Nei suoi pressi era situata la caserma della guardia a cavallo, che si era battuta valorosamente a fianco di Massenzio e che ades-so si trovò a dover pagare il conto: il reparto fu sciolto e la ca-serma abbattuta. Costantino decise che al suo posto doveva sor-gere la prima grande chiesa della cristianità, quella basilica La-terana che sarà successivamente intitolata a San Giovanni e che ancora oggi, come «madre di tutte le chiese», è la chiesa titola-re del papa. Fino a quel momento, per celebrare l'Eucaristia, i cristiani si erano radunati in cappelle private, in case private ac-quistate, affittate o ricevute in dono dalla Chiesa e in semplici magazzini e granai. Ora sorgeva, come «sala delle udienze di Cristo Re», un imponente edificio che per sfarzo e dimensioni non aveva nulla da invidiare ai monumenti pubblici della Ro-ma imperiale: una basilica a cinque navate, lunga 98 metri e lar-ga 56, «un'opera davvero imperiale sotto ogni profilo»7.

D cammino trionfale della croce

Quest'edificio era al contempo un forte segnale politico, per-ché con la vittoria di Costantino iniziò il cammino trionfale del-la croce. L'imperatore approfittò dell'inverno per prendere con-fidenza con la nuova religione. Scelse dei vescovi come suoi più

7 S. Montanari, Die Papstkirchen in Rom, Paderbom 1994, p. 27.

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stretti consiglieri. Tuttavia, per non inimicarsi del tutto la mag-gioranza pagana, continuò a far coniare monete con l'effigie del Sol Invictus e fece coincidere la festa per la nascita di Gesù con il giorno consacrato al dio Sole, il 24 dicembre. Quando, nel feb-braio 313, tornò a Milano per incontrare il cognato Licinio, pro-mulgò l'editto di Milano, che concedeva ai cristiani piena libertà di culto e di religione e la restituzione di tutti i beni e degli edifici confiscati durante le persecuzioni di Diocleziano. Con la vittoria di Licinio su Massimino Daia, il 30 aprile 313 la nuova legge entrò in vigore anche nella parte orientale dell'impero. Quando, poco dopo, Licinio prese parte a un complotto contro Costantino, divampò un secondo conflitto, che si concluse però con un trattato di pace tra i due imperatori. Solo nel 323 Co-stantino scese apertamente in guerra contro il sovrano d'Oriente e lo sconfisse. Dal 324 Costantino dominava l'intero impero ro-mano, eliminando chiunque mettesse in discussione il suo ruo-lo e risvegliasse anche solo il sospetto di una congiura: prima Li-cinio e 0 figlio di questi - il nipote di Costantino Liciniano - poi il proprio figlio Crispo, infine la moglie Fausta. Solo quando eb-

be assicurato il potere mettendo a tacere ogni scrupolo, si rivolse a un'altra, superiore maniera di consolidarlo: era giunto il mo-mento di esprimere riconoscenza a quel Dio che lo aveva assi-stito per dodici anni.

II primo concìlio della Chiesa imperiale

Dal 20 maggio al 19 giugno del 325 Costantino convocò a Ni-cea il concilio, il primo concilio ecumenico della Chiesa cristia-na dal concilio Apostolico di Gerusalemme dell'anno 48. Oltre trecento vescovi erano confluiti a Nicea e provenivano preva-lentamente dalla parte orientale dell'impero: molti di essi ave-vano conosciuto il carcere e le persecuzioni in nome della fede. Con Costantino era iniziata per loro una nuova era. Il tempo in cui dovevano agire nella clandestinità era definitivamente pas-sato. Ora erano sotto la protezione personale dell'imperatore,

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che non si fece sfuggire l'occasione per inaugurare personalmente il concilio con grande pompa: «Quando i Padri conciliari si fu-rono seduti con tutti gli onori dovuti, ognuno tacque nell'attesa che l'imperatore facesse la sua apparizione; ed ecco che com-parve un primo, poi un secondo e un terzo personaggio del suo seguito. Precedettero anche altri, ma non si trattava degli opliti e dei dorifori che erano soliti scortarlo, bensì soltanto dei suoi amici fedeli. Al segnale che indicava l'ingresso dell'imperatore, tutti si levarono in piedi, e finalmente Costantino in persona pas-sò attraverso il corridoio centrale, simile a un celeste angelo del Signore: la sua veste splendente lanciava bagliori pari a quelli della luce ed egli appariva tutto rilucente dei raggi fiammeggianti della porpora, adorno del fulgido scintillio emanato dall'oro e dalle pietre preziose ... Quando raggiunse il punto dove eran si-stemati i primi seggi, si fermò giusto nel mezzo; allora gli fu mes-so davanti un piccolo sedile d'oro massiccio, ma non vi si assise prima di aver fatto segno ai vescovi di sedere. Insieme con l'im-peratore anche tutti gli altri sedettero», riferisce un partecipan-te, il vescovo Eusebio di Cesarea8.

Il concilio muoveva dalle aspirazioni di Costantino di riunifi-care l'impero non soltanto dal punto di vista politico, ma anche da quello spirituale. Si dovevano così definire le fondamenta del-la nuova religione e trovare soluzione a un conflitto interno alla giovane Chiesa, riguardante la questione se Cristo fosse «della stessa sostanza» di Dio Padre (homoousios) o «di una so-stanza simile» (homoiousios). Costantino non faceva mistero del fatto che questo dibattito teologico gli era del tutto indifferen-te. Sapeva soltanto di non poter tollerare due Chiese entro i con-fini dell'impero, e alla fine, sotto la sua pressione, si giunse a una decisione: i sostenitori della dottrina secondo cui Cristo sareb-be di una sostanza simile a quella del Padre, primo fra tutti il lo-ro portavoce Ario, furono dichiarati eretici ed esiliati, e la «gran-de confessione di fede» fu formulata in termini vincolanti per tutti i cristiani. In questo modo si era imposto anche nella par-

3 Eusebio, Vie. Const., Ili, 10.

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te orientale dell'impero il «cesaropapismo», la Chiesa di Stato controllata dall'imperatore.

Costantino era così orgoglioso dei risultati conseguiti da in-vitare seduta stante tutti i vescovi a rimanere in Bitinia ancora qualche settimana, per festeggiare con lui il ventesimo anniver-sario della sua ascesa al trono. Eusebio prese parte al banchet-to in occasione dei festeggiamenti ed espresse così il suo entu-siasmo: «Al banchetto imperiale presero parte tutti i vescovi. L'avvenimento fu tale che qualsiasi parola risulterebbe inadat-ta a descriverlo: dorifori e opliti, disposti in cerchio, presidia-vano con le spade sguainate l'ingresso del palazzo imperiale; in mezzo a essi passavano senza alcun timore gli uomimi di Dio, spingendosi fin negli ambienti più interni della reggia. Poi, men-tre alcuni sedevano alla stessa mensa dell'imperatore, gli altri si adagiavano su divani che erano stati sistemati su entrambi i la-ti della sala. Sembrava quasi di vedere un'immagine del regno di Cristo, ed era come se quell'avvenimento si svolgesse "in un sogno, non già nella realtà"»9. Quando i vescovi ripartirono, l'im-peratore consegnò di persona a ognuno di loro un piccolo re-galo. I vescovi erano oltremodo impressionati da quello che ave-vano visto e vissuto: era proprio questo l'obiettivo cui mirava Costantino.

Ma uno dei vescovi lasciò la residenza imperiale con un pri-vilegio del tutto particolare. Nel corso del concilio, Costantino aveva incontrato anche Macario, vescovo di Aelia, come si chia-mava allora Gerusalemme, che gli narrò della tradizione quasi tricentenaria della sua comunità. Costantino ne rimase palese-mente impressionato. Poco tempo dopo nominò patriarca di Ge-rusalemme il vescovo Macario, fino a quel momento suffraga-ne© del metropolita della capitale provinciale Cesarea, all'epo-ca il vescovo (e biografo di Costantino) Eusebio. Macario così, in occasione dei successivi concili, si ritrovò ai vertici delle ge-rarchie palestinesi. Con Macario l'imperatore discusse il suo am-bizioso progetto: costruire al proprio Signore e Redentore una

9 Ibid., m, 15.

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chiesa proprio nel luogo della sua gloriosa vittoria sulla morte, là dove Gesù era stato «crocifisso, era morto e al terzo giorno era risuscitato da morte», come si dice nella confessione di fede apostolica. Il vescovo acconsentì al progetto con entusiasmo.

Dov'era situato il Santo Sepolcro?

Ma per prima cosa bisognava individuare il luogo del sepol-cro vuoto di Gesù. Le informazioni fornite dai Vangeli erano di scarso aiuto. Di sicuro c'era soltanto che il luogo dell'esecuzio-ne, la collina del Golgota, e il «nuovo sepolcro» di Giuseppe d'Arimatea dovevano trovarsi da qualche parte al di fuori del-le mura cittadine di Gerusalemme. Secondo la concezione ebrai-ca, se le esecuzioni e le sepolture avessero avuto luogo all'in-terno della cerchia muraria, avrebbero «profanato» la città. A causa della loro funzione deterrente, si sceglievano abitualmente per le crocifissioni dei punti il più possibile visibili, lungo le stra-de più frequentate. Così scrive Quintiliano: «Ogni volta che cro-cifiggiamo dei criminali, scegliamo per la crocifissione le strade più battute, così che il maggior numero possibile di persone la notino e imparino a temerla»10. Tra tutte quelle che si irradia-vano da Gerusalemme, la via più importante, almeno per i ro-mani, era la strada occidentale che conduceva a Cesarea, capi-tale della provincia. Molto probabilmente la collina di Golgo-ta si trovava qui e, nelle sue immediate vicinanze, il sepolcro di Gesù. «Golgota» è la storpiatura della parola ebraica gulgolcet o di quella aramaica gulgàltà, entrambe significanti «cranio». Ancora oggi in arabo si indicano i rilievi rocciosi con il termine ras («capo»). Probabilmente questo «Golgota» era dunque uno spuntone roccioso isolato e spoglio. Si dice inoltre nel Vangelo di Giovanni: «Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessu-no era stato ancora deposto» (Gv 19,41). Effettivamente, all'e-

10 Quintiliano, Liv., I.

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poca di Gesù, la porta nordoccidentale di Gerusalemme si chia-mava «porta del Giardino».

Ciò nonostante, i messi imperiali inviati a Gerusalemme su-bito dopo il concilio per individuare il Santo Sepocro, dovette-ro misurarsi con un problema: la Gerusalemme di Gesù non esi-steva più, essendo stata distrutta dai romani nel 70. Dopo la guer-ra giudaica, durata quattro anni e che aveva avuto inizio con la rivolta contro il governatore e con il rifiuto di pagare altre tas-se, i soldati della decima legione misero a ferro e fuoco il tem-pio e raserò al suolo l'intera città, con l'eccezione delle tre tor-ri del palazzo di Erode e del muro occidentale. Da quel momento le suddette torri e il muro servirono da fortificazione per una postazione di legionari11. Solo 60 anni più tardi l'imperatore Adriano, nel corso di un viaggio nel Vicino Oriente, rese nota l'intenzione di ricostruire «la famosa città di Gerusalemme» co-me colonia romana. A questo scopo giunse di persona nella città, ridotta a un cumulo di macerie, per compiere il pomerium, la tradizionale cerimonia romana di fondazione di una città. Con un aratro ne furono tracciati i confini, poi si celebrarono sacri-fici ai numi tutelari della nuova città.

Sulle macerie di Gerusalemme

Questa situazione era insopportabile per quegli ebrei so-pravvissuti alla guerra giudaica e che non erano stati ridotti in

" Si è a lungo creduto per lungo tempo che l'intera decima legione Fretensis stazio-nasse sulla collina occidentale di Gerusalemme, ma l'Ipotesi e stata confutata dai ri-trovamenti archeologici. Così spiega l'archeologo israeliano Hillel Geva, che ha con-dotto di persona gli scavi archeologici sulla collina occidentale: «I dati archeologici con-traddicono in maniera univoca le supposizioni relative all'esistenza di un accampamento di legionari tipicamente romano a Gerusalemme ... i ritrovamenti archeologici dimo-strano chiaramente che l'intera collina occidentale fu abitata solo sporadicamente ed episodicamente durante il periodo romano ... le tre torri erodiane di Ippico, Fasael e Mariamne facevano parte del loro quartier generale e in caso di necessità offrivano pro-tezione ai legionari. E certo che unità più piccole di soldati stazionassero in altri punti strategici della città. Ma a Gerusalemme non ci fu mai un campo militare organizzato, pianificato e fortificato» (H. Geva, Searching for Roman Jerusalem, in BiblicalAr-chaeology Review, 23/6 [1997], pp. 40s).

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prigionia. Si preparò così per una nuova rivolta, che divampò infine nel 132 sotto la guida di un capo carismatico, ritenuto da molti il Messia: Simon Bar Kochba. Il «figlio delle stelle» -così suona la traduzione del suo nome - promise ai suoi segua-ci la ricostruzione del tempio. A testimonianza di questo pro-gramma, fece coniare monete d'argento che recavano in effigie l'immagine del tempio di Erode su cui riluceva la stella di Bar Kochba. Questo Messia politico convinse anche alcuni dotti, co-me il famoso Rabbi Akiba, ma fallì e cadde nell'oblio. La «se-conda rivolta» fu repressa nel sangue, mietendo ancora più vit-time della guerra giudaica. La provincia di Giudea fu coloniz-zata con insediamenti pagani e ribattezzata come «Palestina», un nome che indicava in origine i territori costieri meridionali popolati dai filistei. Agli ebrei fu vietato - pena la morte - di fa-re ingresso a Gerusalemme, sulle cui rovine sorgeva ora la città romana Aelia Capitolina.

Per gli ebrei questo nome costituiva una provocazione, per-ché sottolineava quali dèi avrebbero dominato da quel momento la città di Jahvè: faceva infatti riferimento alla «Trinità capitoli-na», a Giove, Giunone e Minerva, i tre principali dèi di Roma, il cui tempio si ergeva sul colle Capitolino della Città Eterna. Anche a Gerusalemme fu loro eretto un luogo sacro sulle ro-vine del tempio di Erode, sulla montagna del tempio. Di fronte era collocata una monumentale statua in bronzo di Adriano, il cui capo è conservato ancora oggi. Fu rinvenuto a Gerusalem-me nel 1873 nel corso di scavi archeologici e consegnato allo zar russo; oggi si trova alPErmitage di San Pietroburgo. La scon-fitta degli ebrei e la vittoria di Roma su un popolo e su una re-ligione scomoda non potevano essere espressi più chiaramente. Anche il fondatore di questa nuova città coloniale si era eter-nato conferendole il proprio nome: Aelia proviene da Publio Elio Adriano, il nome dell'imperatore.

La nuova città, rispetto alla Gerusalemme del I secolo, era spo-stata un po' più a nord e si estendeva tra la postazione deHa le-gione a sud-ovest e il tempio Capitolino a est. I suoi bastioni cor-revano all'incirca là dove oggi si trovano le mura cittadine fatte

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erigere dal sultano Solimano il Magnifico (1520-1566).Tra la por-ta di Neapolis (l'attuale porta di Damasco) a nord e la porta di Sion a sud, l'imperatore Adriano fece costruire il cardo maximus, una via colonnata, dove si svolgeva il mercato. Là, dove sorge-va un tempo la fortezza Antonia, il terreno fu rialzato e si costruì un Foro orientale, cui si accedeva attraverso l'arco di trionfo di Adriano. I suoi resti sono oggi conosciuti come arco dell'Ecce Homo, perché lo si ritiene erroneamente una parte del Pretorio di Pilato. Anche il terreno a ovest del cardo maximus fu livella-to e rialzato con dei detriti. Sulla piattaforma così creata, il Fo-ro occidentale, fu eretto un tempio in onore di Afrodite, la dea dell'amore, alla quale l'imperatore riservava una.particolare venerazione. Questo gesto fu inteso dalla comunità cristiana di Gerusalemme, che non aveva preso parte ad alcuna delle rivol-te ebraiche, come particolarmente provocatorio, perché la col-lina, che svetta sull'area una volta occupata da una cava di pie-tre e fatta sopraelevare da Adriano, era proprio quel «luogo del cranio», quel Golgota dove era stato crocifisso Gesù. Nelle sue immediate vicinanze, scavato nella roccia, si trovava un luogo di sepoltura con una serie di sepolcri, il primo dei quali rimase per sempre vuoto: era il sepolcro da cui Gesù, il Cristo, risu-scitò da morte. Proprio questo sepolcro fu ora coperto dalla mas-sa dei detriti sottostanti il Foro occidentale su cui, quasi in segno di vittoria, troneggiava il tempio di una dea pagana.

L'Afrodite del Golgota

Certo, era una provocazione, peggio ancora: un sacrilegio. Ma forse anche un secondo motivo determinò l'edificazione del luo-go sacro a Venere proprio sulla collina del Golgota. Golgos era un figlio della dea greca dell'amore Afrodite e l'antico tem-pio consacrato alla dea «nata dalla schiuma del mare», a Ci-pro, recava il nome di Golgoi. È così possibile che, ai romani, il luogo del Golgota paresse particolarmente indicato per la co-struzione di un luogo sacro intitolato ad «Afrodite Golgia», la

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cui statua fu eretta sulla cima della vecchia collina del Golgota che svettava dalla piattaforma. Evidentemente Afrodite, ado-rata presso i fenici come Astarte o Tyche, divenne la vera e pro-pria dea protettrice di Gerusalemme. Su alcune monete della colonia Aelia Capitolina risalenti all'epoca del successore di Adriano, Antonino Pio (138-161), è raffigurato il suo tempio, e lei stessa ha in capo la corona di mura che la contraddistingue come dea protettrice della città. Il suo piede destro è poggiato su una collina, forse le rocce del Calvario12.

Questa testimonianza numismatica del fatto che si trattasse proprio di Afrodite, e non di Astarte, suggerisce inoltre l'ipo-tesi secondo cui Adriano, attraverso la costruzione del tempio, avrebbe consapevolmente tentato di reinterpretare la risurre-zione di Gesù in un contesto pagano. Fin dalla prima giovinez-za Adriano nutriva un amore particolare per la cultura greca e per i culti misterici, ai quali fu introdotto a Eleusi. Al centro del-le feste sacre di questo luogo di culto greco stavano gli elemen-ti della morte, della rinascita e del riscatto attraverso un fanciullo di natura divina, che liberava la madre Persefone dal mondo de-gli inferi e che è a un tempo signore del mondo e del regno de-gli inferi. In quanto seguace della filosofia stoica, Adriano, an-che indipendentemente da questa coincidenza, considerava la molteplicità sconcertante degli dèi come manifestazione dell'u-nico Dio pensante e creatore, i cui nomi sono indifferentemen-

12 G. Kroll, op. cit, p. 379; G.S.P. Freeman-Grenville, The Basilica ofthe Holy Sepul-chre in Jerusalem, Jerusalem 1993, pp. 9-13; I. Mancini, Archaeological Discoveries Re-lative to the Judeo-Christians, Jerusalem 1984, pp. 170s. Mancini cita Testa (E. Testa, Le «Grotte dei Misteri» giudeo-cristiane, in Studii Biblici Franciscani, [1963-64], pp. 106-107 e 116-117) come segue: «Da monete della Aelia Capitolina emerge chiaramente che la Venere cui si rendeva omaggio sul Monte Calvario era Astarte-Nike, con una corona in capo, uno scettro nella mano sinistra e un busto raffigurante una figura umana nella de-stra. Non sappiamo su che cosa poggi il piede sinistro», per poi proseguire: «L'autore spiega che la corona ha la forma di mura, che il busto fu identificato da alcuni come quello dell'imperatore ma da altri come quello di Adone-Tammuz e che simili mone-te, coniate sì in Palestina, ma in altre località, mostrano Astarte con un fiume sotto i pie-di. Testa sottolinea che ai pagani così come ai cristiani della comunità locale doveva es-sere ben noto il mito della discesa di Inanna-Istar nell' Arallu (regioni dell'oltretomba). Parallelamente a questo c'era il mito della vittoriosa discesa di Astarte nell'Ade per riportare in vita Adone-Tammuz».

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te intercambiabili. Non è certo un caso che entrambi gli edifici dei templi sorgessero in corrispondenza dei principali luoghi sa-cri rispettivamente degli ebrei e dei cristiani: il tempio consa-crato alle tre massime divinità di Roma sulle macerie del tem-pio del Dio di Israele, il tempio di Afrodite/Astarte sul Santo Sepolcro. Perché proprio Afrodite/Astarte? Perché, secondo il mito, la dea scese nell'Ade per ridestare dai morti il giovane eroe Adone/Tammuz. Quanto strettamente l'imperatore romano as-sociasse questo mito alla vita di Gesù, lo dimostra il fatto che trasformò la grotta della Natività a Betlemme in un luogo sacro ad Adone/Tammuz. Si potrebbe persino andare oltre e chieder-si se Adriano, con questa pianificazione urbanistica, non inten-desse conformarsi all'antico costume di erigere il foro del mer-cato di una città sul sepolcro dell'eroe fondatore13.

Potrebbe dunque darsi che Adriano interpretasse la risurre-zione di Gesù in senso consapevolmente sincretistico, nel con-testo pagano del mito di Adone/Tammuz, la qual cosa fu natu-ralmente avvert i ta dai cristiani comc abuso c profanazione. Le loro reazioni alla costruzione sul luogo del Santo Sepolcro di un tempio consacrato giustappunto alla dea dell'amore Afrodite sono testimoniate, ancora molto tempo dopo, nella Storia della Chiesa redatta attorno al 440 d.C. dal vescovo Teodoreto di Ciro (393-458), che colse nel gesto la volontà di deridere la ver-gine Maria. Credeva così «che gli idolatri, nel loro odio furi-bondo, avevano riversato della terra sul sepolcro del Signore, per distruggere ogni ricordo della sua azione salvifica, e vi eres-sero al di sopra un tempio consacrato alla dea dei piaceri sfre-nati, in segno di scherno nei confronti del frutto del grembo del-la Vergine»1*. In ogni caso, la costruzione adrianea del tempio

13 Su Adriano: G. Gottschalk, Die grojien Càsaren, Herrsching 1984, p. I l i ; Historia Augusta, introduzione e traduzione di E. Hohl, rielaborazione e commento di E. Mer-ten-A. Roesger, I, Zurich 1976, pp. 29-57.

Su Eleusis:W. von Uexkiili, Die eleusùiischen Mysterien, Bildingen-Gettenbach 1957; R.G. Wasson - C.A.P Ruck - A. Hofmann, Der Weg nach Eleusis, Frankfurt 1984.

Sul tempio di Adone a Betlemme: Girolamo, Ep. 58 (a Paolino); Paolino di Nola, Ep. 31,3.

Sulla tradizione della sepoltura del fondatore della città: A. Angenendt, op. cit.,pp. 21ss. 14Teodoreto, Hist. Ecc., 1,15.

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dimostra che al Santo Sepolcro si rendeva omaggio proprio in q u e s t o l u o g o g i à a l l ' i n i z i o d e l II s e c o l o . L ' e f f i g i e d i A f r o d i -

te/ Astarte che in segno di trionfo poggia il proprio piede sulla collina del Golgota, riportata dalle monete, poteva simboleg-giare la vittoria della dea sulla morte. In tal caso, la piccola sta-tua che sorregge con la mano destra sarebbe una raffigurazio-ne di Adone/Tammuz, da lei liberato dal mondo degli inferi e divenuto per Adriano simbolo del Cristo risorto.

Afrodite/Astarte raffigurata come dea protettrice di Gerusalemme su monete dell'epoca di Antonino Pio (138-161).

Il sepolcro di Gesù, certo, era ora sepolto sotto cumuli di ter-ra e macerie, e profanato dal tempio di Afrodite. Ma queste so-vrapposizioni non spensero in alcun modo la memoria che la comunità cristiana di Gerusalemme conservava del proprio luo-go più sacro; al contrario, l'edificio pagano contrassegnò quel luogo per i due secoli successivi.

La comunità delle orìgini

È certo che, già nei primi anni dell'Aelia Capitolina, alcuni cri-stiani si insediarono nella città coloniale romana. L'unica cesura che va registrata nella tradizione riguarda la composizione del-la comunità; prima della seconda rivolta era formata quasi esclu-

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sivamente da giudeo-cristiani, successivamente in primo luogo da pagani convertiti al cristianesimo, dunque da non-ebrei bat-tezzati. Dopo l'ascensione al cielo di Gesù, la comunità geroso-limitana delle origini era guidata dalle «tre colonne», Pietro, Gio-vanni e il «fratello del Signore», Giacomo, cugino di Gesù. Que-st'ultimo rimase a Gerusalemme, quando nel 42 Pietro si recò a Roma e Giovanni a Efeso, in parte per conformarsi alle indica-zioni di Gesù di lasciare Gerusalemme dopo dodici anni per pre-dicare il Vangelo alle genti, e in parte per sfuggire alle persecu-zioni intentate da Erode Agrippa I. «Giacomo il Giusto», come fu anche chiamato, godeva di grande reputazione persino pres-so gli ebrei. La tradizione lo descrive come un Nazireo, cioè un asceta, e afferma che tale rimase per tutta la vita. Secondo Ege-sippo fu santo «già dal ventre materno. Non beveva vino o al-tre bevande alcoliche, né mangiava carne. La forbice non toccò mai il suo capo, né si cospargeva d'olio e faceva un bagno. Solo a Giacomo era consentito di varcare la soglia del santuario» (il Santo dei Santi del tempio) «perché non vestiva abiti di lana ma di lino. Usava recarsi da solo nel tempio e lo si trovava inginoc-chiato a implorare perdono per il popolo ebraico ... Per la sua ec-cezionale rettitudine fu chiamato «il Giusto» ... e "supporto e so-stegno del suo popolo"»15. Se questa singolare descrizione ri-spondesse al vero, Giacomo avrebbe goduto di privilegi superiori a quelli riservati agli stessi sommi sacerdoti, che potevano acce-dere al Santo dei Santi solo una volta all'anno. In ogni caso, un altro autore paleocristiano, Epifanio, riferisce che anche a Gia-como l'ingresso nel Santo dei Santi era consentito solo una vol-ta all'anno, il che lo equiparava al sommo sacerdote16. Negli At-ti degli apostoli Giacomo compare a capo del Consiglio dei pre-sbiteri della comunità di Gerusalemme. Nel dibattito più decisivo che divise la cristianità antica, la questione della circoncisione, egli sostenne fin dall'inizio il punto dì vista tradizionale: per lui poteva diventare cristiano solo chi era stato prima ebreo o che

15 Cit. da F.F. Bruce, Basiswissen neues Testamenti Wuppertal 1997, p. 175. 16 Epifanio, Panarion, 29,4.

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tale si era fatto, e i buoni cristiani erano insieme anche «gelosa-mente attaccati alla Legge» di Mosè (At 21,20). Questo si dice della comunità gerosolimitana delle origini: «Ogni giorno essi erano assidui nel frequentare insieme il tempio ... lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (At 2,46-47.). Pare che la comunità annoverasse allora 3000 membri (At 2,41), che sa-rebbero divenuti di lì a poco 5000 (At 4,4), il che equivarrebbe, in quanto a forza numerica, al partito dei farisei, anch'esso sti-mato attorno ai 5000 aderenti. Paolo, al contrario, voleva sem-plificare il cammino di conversione che i pagani dovevano in-traprendere per giungere a Cristo e chiese che l'unica condizio-ne per essere ammessi nella comunità fosse il battesimo. Con il concilio Apostolico di Gerusalemme dell'anno 48 il conflitto fu provvisoriamente accantonato grazie a un compromesso, per di-vampare nuovamente nei primi mesi del 57, dopo che Paolo e i suoi compagni non ebrei erano giunti a Gerusalemme con la «col-letta per i santi», cioè per la comunità delle origini (At 21,15-30). Quando Paolo condusse nel tempio i nuovi membri della co-munità, si giunse a un aperto tumulto, nel corso del quale l'apo-stolo delle genti fu arrestato. Tertullo, portavoce del Sinedrio, lo accusò dinanzi al governatore romano Felice di essere un «ca-po della setta dei Nazorei», che avrebbe tentato «di profanare il tempio» (At 24,5-6). Intendeva dire con ciò che Paolo voleva condurre dei cristiani di origine pagana in quei cortili intemi del tempio, il cui accesso era vietato ai pagani pena la morte. Pro-prio dal fare ciò diffidavano quelle iscrizioni in pietra, in lingua greca, citate da Giuseppe Flavio e di cui, nel corso di scavi ar-cheologici, sono stati rinvenuti a Gerusalemme un esemplare in-tegro nel 1871 e un frammento nel 1936.

La morte dì Giacomo

Quest'episodio può essere stata l'autentica molla che spinse il sommo sacerdote ad assestare l'ultimo grande colpo contro la comunità cristiana, anche se ci vollero cinque anni perché si

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trovasse l'occasione propizia. Quando, nell'anno 62, il gover-natore romano Festo morì improvvisamente, il sommo sacer-dote Anna il Giovane credette, come racconta Giuseppe Flavio, «di avere un'occasione favorevole ... così convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giaco-mo, fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo, e certi al-tri, con l'accusa di aver trasgredito la Legge, e li consegnò per-ché fossero lapidati»17. In questo modo Anna si poneva espres-samente al di sopra della legge di Roma, che, nonostante la libertà di culto concessa, non lo autorizzava in alcun modo a esercitare una giurisdizione che comportasse l'emanazione di pene capitali, indipendentemente dalla eventuale presenza in Giudea di un procuratore romano. Di quale alta considerazio-ne godesse effettivamente Giacomo è dimostrato dal biasimo espresso da Giuseppe Flavio, secondo il quale questa condot-ta suscitò l'indignazione di tutte «le persone più equanimi del-la città, considerate le più strette osservanti della Legge»18. Quan-do, otto anni più tardi, Gerusalemme fu distrutta e il tempio messo a ferro e fuoco, molti ebrei considerarono questa trage-dia come una punizione di Dio per l'ingiustizia commessa con-tro Giacomo. Secondo Clemente Alessandrino, «Giacomo il Giusto» fu «precipitato dal pinnacolo del tempio e morì sotto i colpi di bastone di un lavandaio»19. Come successore «quelli de-gli apostoli e dei discepoli del Signore, che erano ancora in vi-ta ... coi parenti del Signore s e c o n d o la carne, i più dei quali so-

pravvivevano ancora», scelsero «unanimemente ... Simone, fi-glio di Cleofa, di cui parla anche il Vangelo» (in Le 24,18 e in Gv 19,25), un «cugino del Salvatore», come nuovo vescovo di Gerusalemme. Eusebio20 prosegue, richiamandosi a Egesippo (circa 180 d.C.), e afferma che «Cleofa (il padre di Simone) era fratello di Giuseppe». Il Vangelo di Luca lo cita tra i discepoli di Emmaus (24,18), cui Gesù apparve dopo la risurrezione, ed

17 Giuseppe Flavio, Ant. Iud., XX, 9,1 (v. 200). 18 Ibid., XX, 9,1 (v. 201). 19 Cit. da Eusebio, blist. ECCL, II, 1,5. 20 Ibid., Ili, 11.

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è del tutto possibile che il suo anonimo accompagnatore fosse il figlio Simeone. Secondo Giovanni (19,25), sua moglie era pro-prio quella Maria «sorella di sua madre» (dunque cognata) i cui altri figli Marco cita (15,40) con i nomi di Giacomo il Minore - per distinguerlo dall'altro Giacomo, fratello di Giovanni - e Giuseppe. Questo getta nuova luce sulla questione dei fratelli di Gesù (Me 6,3): «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone [Si-meone]?». Questi «fratelli» erano dunque figli di Cleofa e di Maria, cognata della madre di Dio, e quindi cugini di Gesù, an-che se la tradizione ortodossa, dall'epoca di Origene, li ritiene figli di primo letto di Giuseppe. Simeone era in ogni caso un membro della famiglia di Gesù; uno che conosceva Gesù fin da bambino e che dapprima dubitò di lui; uno che, con la sua fa-miglia, si recò a Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua dell'anno 30, divenne testimone della passione e della risurre-zione di Gesù e si convertì. Fu un degno successore di Giaco-mo alla guida della comunità delle origini in quest'epoca tor-mentata. Il secondo anno dopo la sua elezione, poco prima che esplodesse la guerra giudaica, condusse la comunità fuori deUa città minacciata in un rifugio sicuro. Ad alcuni anziani era sta-to rivelato che Gerusalemme era destinata a perire e così i giu-deo-cristiani seguirono l'esortazione di Gesù (Me 13,14) a «fug-gire sui monti», e si ritirarono a Pella, una delle città della De-capoli a est del Giordano 2 1 .

Secondo la tradizione, la comunità delle origini, sotto la gui-da di Simeone, fece ritorno a Gerusalemme poco dopo la di-struzione della Città Santa e si insediò di nuovo sulle sue ma-cerie. Eusebio cita, dopo Simeone, altri tredici vescovi giudeo-cristiani di Gerusalemme «sino aU'assedio dei giudei avvenuto sotto Adriano»: tutti, secondo quanto afferma, parenti di Gesù22. Le cose cambiarono quando il decreto di Adriano vietò «a tut-ti i circoncisi» l'accesso alla città pena la morte. Allora si inse-

21 Eusebio, Hist. Ecc., Ili, 5,3. nIbid., IV, 5,2.

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dio nell'Aelia Capitolina una comunità di pagani convertiti al cristianesimo e «Marco, primo dopo i vescovi della circoncisio-ne, ne ottenne l'episcopato»23.

La nascita di una nuova religione

L'esecuzione di Giacomo segnò nettamente la grande, defi-nitiva frattura tra il cristianesimo e l'ebraismo e in questo mo-do la vera e propria nascita della nuova religione. Fino a quel momento, i «Nazareni» erano piuttosto stati una setta interna all'ebraismo, che si contraddistingueva dai tre principali rag-gruppamenti di sadducei, farisei ed esserli solo per il proprio re-lativamente maggiore liberalismo e per la fede nel fatto che il Messia fosse già venuto, non solo per liberare Israele ma an-che per redimere il mondo intero. Erano odiati soltanto dai sad-ducei, cioè da quella gerarchia del tempio che aveva già fatto giustiziare Gesù quando aveva fustigato la corruzione dei som-mi sacerdoti. Questi ora osservavano con sospetto la rapida dif-fusione della «nuova scuola» tra le comunità ebraiche del ba-cino del Mediterraneo, proprio mentre vi decresceva il loro in-flusso. Ancor più preoccupante era il crescente numero di pagani che venivano accolti in questo raggruppamento, fatto contrario alla loro comprensione elitaria deU'ebraismo. La comunità del-le origini sembra invece aver intrattenuto stretti contatti con un'altra scuola ebraica, quella degli esseni. Anch'essi erano acer-rimi avversari dei sadducei e ritenevano che il tempio fosse sta-to «profanato» da una gerarchia corrotta.

Sadducei, farisei...

Queste tre fazioni, sadducei, farisei ed esseni, contraddistin-guevano la vita spirituale ebraica all'epoca di Gesù e dei primi

23 Ibid., IV, 6,4.

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cristiani. Tutti e tre i raggruppamenti si erano formati nei due secoli precedenti la nascita di Gesù, quando l'ebraismo aveva dovuto far fronte agli influssi ellenistici sempre crescenti. Dopo che il regno di Alessandro Magno fu ripartito tra i suoi condot-tieri, la provincia di Giudea fu inglobata nel regno di Tolomeo, cui era toccato l'Egitto. Ma il regno tolemaico fu conquistato nel 198 a.C. dai Seleucidi, i successori di Seleuco, cui era spettata la Siria. Al re seleucida Antioco IV (175-163 a.C.) l'ebreo elle-nizzato Menelao offrì ingenti somme di denaro per assicurarsi la nomina a sommo sacerdote del tempio di Gerusalemme. Il re acconsentì ma gli ebrei tradizionalisti si opposero, il che fu in-terpretato da Antioco IV come aperta ribellione. Fece quindi marciare le sue truppe su Gerusalemme, ne fece abbattere le mura e confiscare il tesoro del tempio. Per schiacciare del tut-to l'ebraismo ribelle, riconsacrò il tempio a Zeus Olimpio, U prin-cipale dio greco. Come estrema provocazione, il re sacrificò al suo dio un maiale, animale impuro per gli ebrei. Questo «abo-minio di devastazione», come lo chiamarono gli ebrei, provocò una rivolta guidata da un sacerdote molto anziano, Mattatia, del-la stirpe degli Asmonei, e dai suoi figli, primo tra tutti Giuda Maccabeo. I Maccabei condussero una vera e propria guerriglia contro Antioco e sconfissero diversi eserciti dei Seleucidi, ot-tenendo alla fine il ripristino della libertà religiosa per gli ebrei. Il 25 kislev dell'anno 164 a.C. il tempio fu nuovamente consa-crato, un evento che gli ebrei ricordano da quel momento con la festa di Hanukkah. Ma gli Asmonei non erano ancora con-tenti. Proseguirono la lotta per altri 22 anni e scatenarono riva-lità tra i successori di Antioco in modo così abile che la Giu-dea riguadagnò infine anche l'autonomia nazionale nel 142 a.C. Simone, in quel momento a capo della famiglia degli Asmonei, non si autoelesse soltanto «capo supremo dell'amministrazione civile» - i suoi figli arrivarono addirittura a incoronarsi re -ma anche sommo sacerdote e nominò i suoi discendenti legit-timi successori nell'incarico. Era una chiara violazione della tra-dizione ebraica, secondo la quale il sommo sacerdote doveva es-sere un discendente dello Zadok, cioè del primo sommo sacer-

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dote nel tempio di Salomone. La provenienza, che si affermò a partire da quel momento, dei capi politici e religiosi dalla stirpe degli Asmonei, incontrò sempre più l'ostilità degli ebrei legati alla tradizione. Molti di loro, nell'occupazione romana della Giu-dea nel 64 a.C. per ricomporre lo scontro per l'ascesa al trono tra Aristobulo e Ircano, i due figli di Alessandro Ianneo e di Sa-l o m e Alessandro , lessero un giudizio punitivo di DÌO nei Con-fronti degli Asmonei. Il condottiero romano Pompeo insediò Ir-cano sul trono e assalì il tempio, ove si erano asserragliati Ari-stobulo e i suoi seguaci. Aristobulo fu ucciso e Pompeo, compiendo quella che per gli ebrei costituiva una profanazione, varcò la soglia del Santo dei Santi, il cui accesso era consentito soltanto al sommo sacerdote e rigorosamente vietato a un infe-dele. Con Ircano, debole e succube di Roma, si concluse il do-minio della sua dinastia. Ircano consentì all'idumeo Antipatro, da lui nominato governatore, di accentrare sempre più potere e di suddividere il regno in province da lui affidate ai figli Fasael ed Erode, in veste di governatori. Q u a n d o Ant ipatro fu assassi-nato nel 43 a.C., i romani nominarono re i figli. Sebbene Ero-de fosse sposato con la nipote di Ircano, Mariamne, i sosteni-tori degli Asmonei la consideravano un'usurpazione. Nell'anno 40 a.C., l'asmoneo Antigono Mattatia attaccò Gerusalemme con l'aiuto dei parti e assassinò Ircano e Fasael, mentre Erode riu-scì a rifugiarsi ad Alessandria, dove chiese aiuto al condottiero romano Marco Antonio. Il Senato romano lo dichiarò legittimo re di Giudea, e con l'aiuto delle proprie truppe e dell'esercito romano cinse d'assedio Gerusalemme. Cinque mesi più tardi, nella primavera dell'anno 37 a.C., la città cadde. Antigono, l'ul-timo re degli Asmonei, fu ucciso.

Durante il regno degli Asmonei si formarono i tre «partiti». Il partito al potere era costituito dai sadducei, il cui nome deri-va dal termine ebraico $addiq («giusto»). Per loro non contava la tradizione, ma soltanto la Legge scritta, e non credevano nel-la vita dopo la morte. Costituivano la gerarchia del tempio, de-tenevano la maggioranza nel Sinedrio, il «Consiglio supremo» di 70 membri, e collaboravano strettamente con gli Asmonei. Il

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loro centro di potere era il tempio di Gerusalemme24. A loro si contrapponevano i farisei (dall'ebraico perushlm, «separati»). Avevano avuto origine attorno al 145 a.C. dai chasidim, i «de-voti» che si erano battuti per il tempio a fianco dei Maccabei e che però ora consideravano degli opportunisti. Il nome dei fa-risei viene ricondotto al loro costume di tenersi alla larga da tut-to ciò che poteva comportare la contaminazione rituale. Os-servavano con estremo rigore le rigide prescrizioni alimentari e igieniche e l'obbligo dello Shabbath, e rifiutavano l'ellenizza-zione generalizzata. Credevano nella risurrezione dei morti, all'esistenza di demoni e a una sinergia tra Dio e uomo: entrambi dovevano cooperare, come il contadino con la terra affinché que-sta «dia frutti».

—ed esseni

Ma i più acerr imi nemici dei sadducei non e rano i far isei ,

ma gli esseni, il cui nome deriva dall'aramaico chasja («santo»). I «santi» erano radicali orientati all'attesa apocalittica della fi-ne dei tempi e rifiutavano in blocco il Sinedrio. Consideravano gli Asmonei alla stregua di usurpatori e illegittimi i loro sacri-fici nel tempio. Nei loro scritti, rinvenuti in un momento im-precisato tra il 1937 e il 194725 a Qumran, sul Mar Morto, defi-nivano il sommo sacerdote asmoneo «uomo di falsità» e «sa-cerdote empio», gli opportunisti sadducei come «avidi di lusinghe». Che proprio costoro detenessero il potere su Geru-salemme e sul tempio era per gli esseni un segno che «il tem-po era venuto», che si era giunti agli «ultimi giorni» in cui le for-ze del male avrebbero preso per l'ultima volta il sopravvento prima di scendere in campo nella battaglia finale contro le for-

24 F.F. Brace, op. cit.; G. Theissen-A. Merz, op. cit. 75 Secondo la lezione ufficiale nel 1947. Ma nel marzo 1997 ho potuto intervistare a

Betlemme lo scopritore, ancora vivente, dei rotoli di Qumran, il beduino Muhammad adh-Dhib, che mi parve credibile nell'assicurare che questa datazione è falsa e che rinvenne i rotoli già nel 1937.

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ze della luce. Alla battaglia sarebbe seguita l'edificazione, da par-te del Messia, del regno di Dio, in cui pace e felicità avrebbero trionfato dappertutto. Per prepararsi alla sua venuta e all'edi-ficazione del Nuovo Israele, si ritirarono nel deserto, lontano dai «luoghi dell'empietà», per purificarsi dal punto di vista rituale. Dai loro insediamenti nel deserto, dei quali il più famoso è il monastero di Qumran sul Mar Morto, intendevano irrompere nel «giorno del Signore» per «prendere possesso una seconda volta della Terra Promessa» e fondare un nuovo Israele, come già aveva fatto Giosuè dopo l'esodo.

In questo si conformavano a una precisa calendarizzazione de-gli eventi, secondo cui «settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e la tua santa città, per porre fine al delitto, per sigillare il peccato ed espiare la colpa; per far venire la giustizia eterna, sigillare visione e profezia e per ungere il Santo dei santi» (Dn 9,24). Secondo la loro interpretazione, queste settanta «settima-ne», ovvero 490 anni, andavano computati a partire dal ritorno e daUa ricostruzione di Gerusalemme (Dn 9,25) - consentiti da un editto del re persiano Ciro nell'anno 538 a.C. - e dall'inizio della riedificazione, collocato non prima del 520 a.C.; ragion per cui ci si attendeva l'arrivo del Messia in un imprecisato mo-mento tra il 48 e il 30 a.C. Il libro di Daniele fu redatto attorno al 164 a.C., e da questo prese avvio un intero filone di letteratu-ra apocalittica che avrebbe caratterizzato i successivi cento an-ni, soprattutto in ambiente esseno ma anche nelle cerchia fari-see. Quando nel Vangelo di Marco si dice che Giuseppe d'Ari-matea, fariseo e membro del Sinedrio, «aspettava anche lui il regno di Dio» (Me 15,43) si intendeva proprio questo: credeva nelle profezie escatologiche e riteneva che Gesù fosse il Messia.

Probabilmente gli esseni erano in origine un gruppo di sa-cerdoti tradizionalisti, che, sotto la guida del loro capo, il «mae-stro di giustizia», fondarono il monastero nel deserto di Qum-ran, per prepararsi là al loro ruolo alla fine dei tempi. Per puri-ficarsi dalla colpa non ricorrevano più ai sacrifici del tempio ma ad abluzioni rituali in locali appositi, rinvenibili ancora oggi pres-so i loro insediamenti, come per esempio tra le rovine di Qum-

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ran. Giuseppe Flavio li descrive come un movimento monasti-co. Sarebbero «legati da mutuo amore», rifuggirebbero «i pia-ceri come un male, mentre considerano virtù la temperanza e il non cedere alle passioni. Presso di loro il matrimonio è spre-giato, e perciò adottano i figli degli altri quando sono ancora di-sciplinabili allo studio, e li considerano persone di famiglia e li educano ai loro principi»26. Disprezzavano le ricchezze ed eser-citavano una stretta comunione dei beni. Per essere accolti nel-la comunità dovevano sottoporsi a un «bagno consacrante e pu-rificante», cioè a una specie di battesimo, mentre la loro prin-cipale forma di servizio divino, sempre secondo Giuseppe Flavio, era costituita da un pasto comunitario iniziato e concluso da so-lenni preghiere. Per il resto, gli esseni erano più rigorosi di tut-ti gli altri ebrei neirosservanza della legge mosaica, soprattut-to riguardo alla purificazione rituale e al rispetto dello Snob-batiti. Come Giuseppe Flavio ha sottolineato espressamente, non avevano proprie città - se si prescinde dal monastero di Qum-ran, che più tardi svolse la funzione di rifugio per la purifica-zione interiore e la riscoperta del proprio «io» - ma «in ogni città ne convivono molti»27, per lo più raggruppati in quartieri auto-nomi, così da condurre il proprio stile di vita lontano dagli «em-pi». Un «ghetto esseno» esisteva anche a Gerusalemme. Dalla particolareggiata descrizione della città nell'epoca precedente alla guerra giudaica lasciataci da Giuseppe Flavio, apprendia-mo che nella parte sudoccidentale di Gerusalemme - e più pre-cisamente all'intersezione tra il muro occidentale e quello me-ridionale - si trovava una porta degli esseni, la cui denomina-zione indica che dava accesso al quartiere esseno28. Anche i rotoli di Qumran citano espressamente la comunità di Gerusalemme, da loro definita anche come «città santa»: gli esseni rifiutava-no certo la «profanazione» sadducea del tempio, ma non il tem-pio come istituzione in sé.

26 Giuseppe Flavio, Bell Iud., II, 8,2-3. nlbid.,TL, 8,4.

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Evidentemente fecero ritorno a Gerusalemme quando, con la guerra condotta da Erode contro il sovrano asmoneo Antigono nel 37 a.C., ebbe fine il dominio degli Asmonei. E possibile che considerassero questa guerra, che veniva a cadere proprio nel tempo profetizzato, come la battaglia finale, ed Erode un pre-cursore del Messia. Ora era giunto il tempo di iniziare «la se-conda presa di possesso della Terra Promessa» e di fondare il «nuovo Israele». È stato accertato che Qumran fu distrutta pro-prio in questa guerra e ricostruita solo tre decenni più tardi29. Poiché gli esseni avevano appoggiato Erode, si deve supporre che fu lui a concedere loro l'area sudoccidentale della città qua-le tangibile forma di gratitudine per il loro sostegno. Anche Giu-seppe Flavio sottolinea che Erode teneva «in onore gli esseni», C cita un aneddoto secondo il quale Erode era ancora un ragaz-zo quando un esseno di nome Manaem gli profetizzò che un gior-no sarebbe stato re30. Così anche la «porta degli Esseni» citata da Giuseppe Flavio, localizzata dall'archeologo benedettino Bar-gtt Pixner nel 1977 sul limitare del cimitero Evangelico, fu aper-ta nelle mura asmonee della città solo all'epoca di Erode. Il ca-rattere di ghetto del nuovo quartiere e la rigidità delle norme re-lative alla purificazione resero indispensabile un accesso indipendente aUa Città Santa. Nelle immediate vicinanze della porta, al di fuori delle vecchie mura cittadine, Pixner rinvenne due bagni rituali di epoca romana (63 a.C.-70 d.C.). Come il ba-gno rituale di Qumran, presentavano due distinte scale per l'in-gresso e l'uscita e servivano evidentemente alla purificazione ri-tuale necessaria per porre piede nel quartiere degli esseni, una prescrizione, questa, che per gli ebrei «normali» valeva solo per l'accesso al tempio. Pixner, inoltre, trovò una cisterna, una conduttura e un canale di scolo che garantivano l'acqua viva cor-rente necessaria per le abluzioni. Un'ulteriore testimonianza del-le prescrizioni essene sulla purificazione sono le bethso o «latri-ne degli esseni», che Pixner rinvenne nel corso di scavi al di fuo-

29 B. Pixner, op. cit., p. 180. 30 Giuseppe Flavio, Ani. Iud., XV, 10,5.

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ri delle mura. Corrispondono all'ingiunzione riportata nel Ro-tolo del tempio degli esserli: «Devi fare per loro una latrina al di fuori della città». Anche Giuseppe Flavio menziona il fatto che gli esseni si cercavano «i luoghi più lontani per l'espletamento dei loro bisogni»31 e poi compivano i loro bagni rituali. Tra gli es-seni di Gerusalemme vigevano anche altre norme particolar-mente severe, come apprendiamo dallo Scritto di Damasco: «Nes-sun uomo deve dormire con una donna nella città del tempio, per non macchiare la Città Santa con la lordura di costei». Ades-so, dopo la vittoria sugli odiati Asmonei, la setta sognava il ri-pristino dell'«età dell'oro», la signoria della casa di Davide e del-la dinastia sacerdotale dello zadok grazie a due figure messia-niche: un re messianico della stirpe di Davide e un sacerdote messianico della casa di Aronne. D sacerdote messianico dove-va precedere il re proveniente dalla stirpe di Davide, il vero Mes-sia, e ungerlo. La sua comparsa veniva fatta coincidere con l'an-nunciato ritorno del profeta Elia, che era asceso al cielo in un «carro di fuoco» e che avrebbe fatto ritorno sulla terra «alla fi-ne dei giorni» per annunciare il Messia. Gli esseni si considera-vano i custodi di queste tradizioni, e di conseguenza probabil-mente intrattenevano stretti contatti con i discendenti delle fa-miglie di Aronne e di Davide, attendendosi, pieni di lieta speranza, che da loro sarebbero venute le due figure messianiche.

Questo loro riaUacciarsi alla tradizione davidica si rivela an-che nella scelta essena di insediarsi sulla collina sudoccidenta-le di Gerusalemme, perché considerata - e lo è stata fino all'e-poca contemporanea - come il «monte Sion» di Davide, dove si rende omaggio alla «tomba di Davide». Soltanto gli scavi ar-cheologici avvenuti nel nostro secolo hanno confutato questa tradizione e i resti della città del re sono stati riportati alla luce nel quartiere di Ophel, a sud del monte del tempio. Ma la colli-na sudoccidentale non era soltanto il quartiere esseno; qui sor-se più tardi anche la «Chiesa degli apostoli», la comunità dei pri-mi cristiani.

31 B. Pixner, op. cit., pp. 186-206.

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Gesù era un esseno?

Circa i legami tra i primi cristiani e gli esseni sono state fat-te molte supposizioni. È certo che ce ne fossero, altrimenti ri-mane inspiegabile il motivo che spinse la comunità delle origi-ni a stabilirsi proprio nel quartiere esseno, dove la tradizione lo-calizza la stanza in cui si celebrò l'ultima cena. Che Gesù li tenesse in alta considerazione è dimostrato dalla predica della montagna, quando chiamò beati i «poveri in spirito» (Mt 5,3). Solo quando furono rinvenuti i rotoli del Mar Morto si è sapu-to che questo era un titolo onorifico tra gli esseni, che indica-va i membri di una confraternita che avevano accolto lo Spiri-to di Dio. Ma Gesù non era un esseno. Il suo approccio estre-mamente elastico alla purezza rituale, il suo atteggiamento liberale nei confronti dei «peccatori» e dell'obbligo sabbatico («Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato», Me 2,27) non corrispondono a quell'immagine di rigore fonda-mentalistico trasmessaci dai rotoli di Qumran e dagli scrittori ebrei Giuseppe Flavio e Filone. Gesù era venuto «a chiamare ... i peccatori a convertirsi» (Le 5,31-32) e faceva invitare alla gran-de cena festiva «poveri, storpi, ciechi e zoppi» (Le 14,21). Il te-sto di Qumran 4Q266 vietava invece espressamente a «sciocchi, stolti, pazzi, folli, ciechi, storpi, zoppi e sordi» di fare ingresso nella comunità. Gesù insegnava: «Ma a voi che ascoltate io di-co: Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Le 6,27). La «regola comunitaria» degli esseni esigeva invece che «si amassero tutti i figli della luce ... ma che si odiassero tut-ti i figli delle tenebre» (1QS 1,9 e 10). Conteneva persino un'in-tera litania di maledizioni contro gli esterni alla comunità. Gli esseni erano un raggruppamento elitario, mentre Gesù, in stri-dente contrasto con loro, annunciava il regno di Dio a tutti gli uomini.

È tuttavia possibile che il legame con la setta non fosse rap-presentato da Gesù ma dalla sua famiglia. L'ipotesi che la pro-venienza di Gesù «dalla casa di Davide» non fosse un mero ten-tativo di legittimazione teologica delle sue rivendicazioni mes-

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sianiche, ma costituisse invece un fatto storico, renderebbe per-corribile questa ipotesi.

Dalla casa dì Davide

Un'intera serie di indizi farebbe pensare che Gesù non pro-venisse semplicemente da un insignificante villaggio della Gali-lea, ma che sia invece cresciuto in una famiglia profondamen-te religiosa che godeva di grande rispetto. Si avvalse di una buo-na istruzione, cui gli ebrei attribuivano particolare valore. Ogni sinagoga disponeva della propria scuola che, accanto alle basi della confessione di fede, insegnava anche a leggere, scrivere e imparare a memoria. Gesù aveva probabilmente frequentato la scuola della sinagoga32; in ogni caso sapeva leggere e scrivere (Gv 8,6-8) non solo l'idioma popolare, l'aramaico, ma anche l'e-braico delle Sacre Scritture (Le 4,16) e forse anche il greco, lingua franca dell'Oriente. Non solo i suoi discepoli si rivolge-vano a lui con il titolo di Rabbi («maestro») (Gv 1,38), ma di-scuteva anche con i principali teologi ebrei, per esempio con Ni-codemo, uno stimato fariseo e membro del Sommo Consiglio (Gv 3,1-21) chiamato «maestro d'Israele» (Gv 3,10). Il fatto che anche i suoi «fratelli» (ovvero cugini) portassero esclusivamen-te dei nomi ebraici come Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone o Simeone (cfr. Mt 13,55 e Me 6,3) e non, come alcuni dei suoi discepoli, nomi ellenistici alla moda (come Filippo, Andrea e Tommaso) testimonia quanto meno del forte legame con la tra-dizione coltivato dalla famiglia di Gesù. Così anche il padre adot-tivo Giuseppe forse non era un normale «falegname» - così Lu-tero tradusse il termine téktón - ma probabilmente un costrut-tore edile di ceto medio. In ogni caso aveva una professione altamente stimata, che presupponeva una formazione e che era del tutto consona a un membro «della casa di Davide» (Le 1,27). Anche la madre di Gesù, Maria, proveniva da una famiglia ap-

31 C.P. Thiede, Ein Fisch..., cit, pp. 66s.

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prezzata. Aveva una «parente» (Le 1,36) di nome Elisabetta, ma-dre di Giovanni il Battista, che era sposata con un sacerdote del tempio «della classe di Abia» di nome Zaccaria ed era lei stes-sa una «discendente di Aronne» (Le 1,5). Perciò non c'è da me-ravigliarsi che Gesù venisse considerato il Messia regale men-tre Giovanni il Battista, figlio di Zaccaria ed Elisabetta, il Mes-sia sacerdotale.

Quando nacquero i due bambini - secondo il Vangelo di Lu-ca a soli sei mesi di distanza l'uno dall'altro - , l'attesa messia-nica in Giudea aveva addirittura assunto tratti isterici. Erano trascorsi ventitré anni dal momento in cui, secondo le profe-zie, si sarebbero compiute le speranze messianiche. Erode, che era stato un punto di riferimento per quelle speranze, si era ri-velato un tiranno crudele e senza scrupoli e non incontrava cer-to il favore del popolo, nonostante cercasse di accattivarselo am-pliando il tempio e trasformandolo in un edificio sfarzoso. An-che il futuro si profilava cupo, dato che la potenza mondiale di Roma mostrava fin troppo apertamente il proprio interesse per il piccolo regno di Giudea. Con la morte di Erode nell'anno 4 a.C., il Paese fu attraversato da una sensazione di sollievo, cui fece seguito un'ondata di disordini e tumulti. In alcune zone re-gnava il caos totale. Bande di saccheggiatori percorrevano U Pae-se, reclamando libertà da Roma e dai partigiani di Erode ed eleg-gendo re i loro capi. Tra i figli di Erode, Archelao e Antipa, esplo-se un aperto conflitto per l'ascesa al trono, che ancora una volta i romani dovettero appianare. Lo fecero a modo loro: il regno fu suddiviso in tre parti tra i figli di Erode - Archelao, Antipa e Filippo - , mentre il condottiero romano Varo marciava su Ge-rusalemme, conquistava la città, saccheggiava il tempio e face-va crocifiggere 2000 ebrei attorno alle mura della città. Ma an-che il sovrano nominato da Roma, Archelao, si dimostrò cru-dele. Quando infine, nel nono anno del suo regno, gli abitanti di < Giudea e Samaria rivolsero all'imperatore romano Augusto una ; richiesta d'intervento, fu immediatamente deposto e inviato in ! esilio a Vienne, in Gallia. Da quel momento la Giudea fu retta j da prefetti romani; Erode Antipa continuò a regnare sulla Ga-

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lilea e sui territori di Perea a est del Giordano e Filippo su quel-li a est del lago di Genesaret. Ora nessuno portava più il titolo di «re dei giudei». E più che mai il popolo sperava nel suo ve-ro re, il Messia promesso...

I nazareni

Ancor più della Giudea, era la provincia settentrionale della Galilea a essere teatro di disordini, talvolta per motivi religio-si, altre volte puramente politici. Durante le rivolte seguite al-la morte di Erode il Grande, un certo Giuda, figlio di un capo-banda di ladroni, Ezechia, radunò attorno a sé una schiera di uomini e prese d'assalto l'arsenale militare della città di Seffo-ris, una metropoli ellenistica distante solo 6 chilometri da Na-zaret. Giuda arrivò al punto di farsi proclamare re. Per schiac-ciare la rivolta, l'esercito di un alleato romano, il re dei nabatei Areta, attaccò la città, la mise a ferro e fuoco e ridusse gli abi-tanti in schiavitù. Soltanto Erode Antipa fece ricostruire Sefo-ri e consacrò all'imperatore la città, che da quel momento fu chiamata «ornamento di tutta la Galilea»33. Dieci anni più tardi furono gli abitanti della Galilea a opporre un'accanita resi-stenza all'incipiente dominazione romana. Quando il senatore romano Quirino fu inviato da Augusto in Siria e in Giudea per-ché «facesse la valutazione delle loro proprietà»34, cioè per sti-mare il valore e il gettito fiscale delle nuove province, il galileo Giuda chiamò all'aperta rivolta. «Soltanto Dio è nostro Signo-re e nostro re!» era il motto del suo movimento di zeloti («fa-natici») combattenti per la libertà. Alcuni farisei appoggiaro-no «Giuda il galileo», come fu chiamato a partire da quel mo-mento, mentre il partito dei sadducei, sotto la guida del sommo sacerdote Joazar, si pronunciò a favore del fisco romano. I due figli dello zelota, Giacomo e Simone, furono infine crocifissi a

" Giuseppe Flavio, 4/zf. Iud.,XVIII,2,1. 34 Ibid., XVIII, 1,1.

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Gerusalemme nell'anno 45 d.C. sotto il procuratore romano Alessandro35.

Gli zeloti non erano predoni come i seguaci di Jehuda Ben Ezechia, ma fanatici religiosi pronti a morire per Dio e per la li-bertà. Ma proprio per questo il movimento trovò in Galilea un terreno fertile, perché gli abitanti di Galilea erano patrioti osti-nati e indomiti, orgogliosi, indipendenti e talvolta puritani. Men-tre la gente di Giudea e in particolare di Gerusalemme era aper-ta alle correnti spirituali della propria epoca, nel Nord preva-leva l'orgoglio per un conservatorismo agreste. Qui i sadducei non avevano molto credito, mentre i farisei, sulla base della lo-ro ostentata devozione, godevano di un largo seguito. Anche gli esseni erano molto numerosi in Galilea e vi fondarono degli in-sediamenti, come afferma Hugh Schonfield36. Quando, nello Scrit-to di Damasco, la regola che informa la loro vita comunitaria rinvenuta nelle caverne di Qumran sul Mar Morto, si dice di lo-ro che «i prigionieri d'Israele lasciarono la terra di Giuda per andare a vivere nella terra di Damasco» (6,8) si intendono pro-prio principalmente le province del Nord nelle quali si parlava aramaico. Là «questi «Eletti d'Israele» del giorno del giudizio universale si imbatterono, nel Nord della Palestina, in molti spi-riti affini e tra questi in gruppi che seguivano la vecchia regola ascetica dei Nazirei e si astenevano dall'alimentazione a base di animali e dall'uso di qualsiasi stupefacente»37. Ciò corrisponde-va al loro stile di vita, tuttavia nella loro regola si dice che vo-levano «tenersi lontano, nell'epoca dell'empietà, dagli uomini cattivi ed evitare il vile, empio Mammona ... distinguere tra impuri e puri..., tra santi e mondani..., osservare il Sabato ... co-me il giorno di digiuno». Attribuivano grande valore anche ad altre norme: «Ognuno deve amare il proprio fratello come se stesso, offrire sostegno ai poveri, ai bisognosi, e agli stranieri. Ognuno deve aver cura del bene dei propri compagni» (6,14-

35 Ibid., XX, 5,2. 56 H. Schonfield, The Passover Plot, Longmead 1965, p. 39. 37Ibid.

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7,1). Questo - così si dice nello Scritto di Damasco - era il «nuo-vo patto» degli esseni, la loro preparazione all'avvento del Mes-sia. E così si adoperavano in maniera del tutto particolare a fa-vore dei discendenti delle stirpi di Davide e di Aronne, che si erano ugualmente rifugiati in Galilea per sfuggire al dominio asmoneo.

Riguardo all'etimologia del nome Nazaret va fatta un'inte-ressante osservazione, perché Nazaret non era un normale vil-laggio di montagna della Galilea. Il suo nome potrebbe deri-vare dal termine nescer, «germoglio, giovane virgulto», e indica-re il ceppo di lesse, padre di re Davide. Di lui disse il profeta Isaia: «Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglerà dalle sue radici» (Is 11,1). Nazara/Nazaret, il cui no-me potrebbe all'incirca significare «villaggio del virgulto», era forse il luogo d'insediamento di un clan davidico, stabilitosi là volutamente in epoca asmonea a causa della rassicurante di-stanza da Gerusalemme. Che Gesù fosse chiamato il «Nazare-no», lo qualificava allora in primo luogo come discendente di Davide e si riferiva solo secondariamente alla sua provenienza da quel villaggio della Galilea. Come attestano gli scavi ar-cheologici, all'epoca di Gesù vivevano qui poco più di 100-150 persone, comunque così devote da avere una loro sinagoga. For-se la maggior parte degli abitanti di Nazaret appartenevano alla stessa stirpe, quella nazarena, il che potrebbe spiegare co-sa intendesse Gesù, quando fu cacciato dalla sinagoga di Na-zaret, con la parola: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Me 6,4): è possibile che con «parenti» intendesse gli abitanti di Nazaret.

Che all'epoca di Gesù ci fossero ancora effettivamente dei di-scendenti di Davide, ben consapevoli della loro origine, è di-mostrato da un ritrovamento archeologico del 1972. In una ca-verna sepolcrale nei pressi della strada che attualmente con-duce da Midbar al Sinai, l'archeologo Amos Klomer, del Centro israeliano per le antichità, rinvenne una serie di ossari, cassette in pietra, in cui venivano poste le osse dei defunti. Risalivano a un'epoca databile tra la prima metà del I secolo a.C. e la di-

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struzione del tempio nel 70 d.C. Una di queste casse recava l'i-scrizione «Proviene dalia casa di Davide». Ciò dimostra che all'epoca di Gesù c'erano effettivamente degli ebrei che pote-vano vantare la loro discendenza dal re di Israele e riferirsi con orgoglio a questa tradizione38.

«Proveniente dalla stirpe di Davide», iscrizione su ossario originario di Gerusalemme.

Ancora alla fine del II secolo, lo scrittore cristiano Giulio Afri-cano, originario della Palestina, riferiva che in Galilea vivevano dei discendenti di Davide «chiamati desposynoi per la loro pa-rentela col Salvatore; dai borghi giudaici di Nazaret e di Coca-ba si erano sparsi nelle varie regioni»39, e custodivano come un tesoro le tavole genealogiche che li ricollegavano ai loro avi. Il nome Cocoba («villaggio della stella») indica un altro insedia-

38 D. Flusser, op. cit., pp. 180-186; Id., «The House of David» on an Ossuary, in The Israel Museum Journal 5 (1986), pp. 37-40.

3V Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., 1,7,14.

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mento davidico che coltivava una propria attesa messianica. Per ben due volte, sotto gli imperatori Domiziano (81-96) e Traiano (98-117), questi «parenti del Signore» dovettero rispondere di fronte ai romani dell'accusa di appartenere alla stirpe regale de-gli ebrei- Ciò dimostra quanto fosse legittima la loro rivendica-zione. Alla fin fine non si trattò, in entrambi i casi, di una per-secuzione anticristiana, ma di una misura politica preventiva dei romani, che nei decenni successivi alla distruzione di Gerusa-lemme temevano una seconda rivolta ebraica. Evidentemente erano a conoscenza delle attese messianiche degli ebrei, della speranza in un «figlio di Davide» che li avrebbe liberati dalla schiavitù, e ritenevano quindi necessario prendere misure pre-cauzionali. In effetti solo pochi anni più tardi scoppiò una rivolta guidata proprio da quel Simon Bar Kochba che, pur non essen-do un discendente di Davide, si richiamò a questa tradizione e fu proclamato Messia da Rabbi Akiba e da altri dotti. La preoc-cupazione di Roma si era così dimostrata fondata, anche se il sobillatore non apparteneva alla stirpe regale.

Ulteriori particolari sulla prima azione condotta contro i Da-vididi di Nazaret nel «quindicesimo anno del regno di Domi-ziano» (quindi nel 96 d.C.) sono rivelati da Egesippo, che at-torno al 180 d.C. scrisse: «In quel tempo vivevano ancora i pa-renti del Salvatore, vale a dire i nepoti di Giuda, che fu detto fratello di Lui secondo la carne. Denunziati come discendenti di David, dalVevocatus furono condotti davanti a Domiziano, il quale al pari di Erode paventava la venuta di Cristo. L'impe-ratore cominciò a domandar loro se provenissero daUa stirpe di David e quelli risposero di sì. Domandò loro quante posses-sioni avessero e quanto denaro. Risposero che tutti e due as-sieme possedevano novemila denari, metà ciascuno; aggiunsero però che non li avevano in contanti ma in terre dell'estensione di trentanove pletri, da essi lavorate per pagare i tributi e per il necessario alla vita. E gli mostrarono le mani e, a prova della loro personale fatica, gli facevano vedere le membra rudi e le callosità delle ruvide palme a causa del continuo lavoro ... Udi-to questo, non li condannò: ebbe invece un pensiero di sprezzo

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per la loro condizione sì bassa»40. L'episodio getta peina luce sul-l'origine di Gesù e sull'apparente contraddizione tra la sua di-scendenza nobiliare e le modeste condizioni economiche dei ge-nitori. Due decenni più tardi Roma intraprese un'altra azione contro i «parenti del Signore», conclusasi questa volta in ma-niera meno indolore. Perché, come riferisce più oltre Egesippo, uno dei cugini di Gesù, proprio quel famoso vescovo giudeo-cri-stiano Simeone, fu crocifisso dal governatore di Traiano, Attico, per essere un discendente di Davide. Evidentemente in questo momento si era creata una spaccatura interna alla stirpe dei Da-vididi, perché furono proprio i suoi parenti a denunciare ai ro-mani il venerando Simeone. Poiché Egesippo li definisce «ere-tici», dobbiamo partire dal presupposto che non condividesse-ro i contenuti di fede del cristianesimo. Probabilmente erano precursori degli ebioniti, una setta che sostenne principi cristo-logici eterodossi. I romani all'epoca non erano interessati a una persecuzione anticristiana ma, come sottolinea Egesippo, face-vano «indagini... per rintracciare i giudei discendenti dalla stir-pe reale»; di conseguenza il tradimento si ritorse contro i parenti che l'avevano commesso. Essendo anch'essi discendenti di Da-vide, Attico li fece giustiziare subito tutti insieme41. Evidente-mente, ancora nel III secolo vivevano a Nazaret dei «parenti del Signore», tra i quali un certo Conon, che fu giustiziato in Pan-filia nel 250 durante la persecuzione anticristiana dell'impera-tore Decio (249-251). Secondo gli Atti dei Martiri, nel corso del suo processo aveva dichiarato: «Provengo dalla città di Nazaret in Galilea e sono un parente di Cristo, che servo come hanno fatto i miei padri»42.

Dato che la madre di Gesù, Maria, viveva a Nazaret, potreb-be darsi che appartenesse anch'essa alla stirpe dei Davididi, per quanto Luca citi soltanto la sua parentela con Elisabetta, pro-veniente dalla casa di Aronne. Ora, l'una cosa naturalmente

* Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., Ili, 20,1-5. 41 Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., Ili, 32,3-4. 42 Cit. da J. Finegan, The Archaeology of the New Testament, Princeton 1992, p. 47.

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non esclude l'altra, dato che nelle antiche famiglie si sono sem-pre contratti matrimoni che le legavano reciprocamente. «Suo padre era Gioacchino, figlio di Binthir dei figli di Davide (quin-di della casa di Davide), la stirpe del re, e sua madre era Anna delle figlie di Aronne della stirpe di Levi, il ceppo sacerdotale», dichiarò il vescovo Eutiche di Alessandria43, richiamandosi a fonti più antiche. Quindi Gesù poteva essere stato «figlio di Da-vide» anche dal ramo materno, per quanto i Vangeli di Mat-teo e Luca riconducessero a re Davide soltanto l'albero ge-nealogico del padre adottivo Giuseppe. Ma se davvero le sue radici lo riportavano anche alla casa di Aronne, egli era effet-tivamente quel «Messia delle stirpi di Davide e di Aronne» atteso dagli esseni.

Maria: una vergine del tempio essena?

Maria proviene «dalla casa di Davide» anche secondo il Pro-tovangelo, che narra la storia della nascita di Maria e Gesù, at-tribuito al fratellastro di Gesù Giacomo. In esso dice inoltre che da ragazzina Maria sarebbe stata destinata dai genitori Gioac-chino e Anna al servizio del tempio e che già da piccola avreb-be pronunciato un voto di castità. Per lungo tempo questo rac-conto non è stato considerato altro che una pia leggenda, finché i ricercatori israeliani D. Flusser e S. Safrat non riuscirono a di-mostrare che nel tempio era davvero esistito un servizio reli-gioso riservato a fanciulle vergini. Il Rotolo del tempio esseno cita espressamente il voto di castità di giovani fanciulle, valido solo se pronunciato con il consenso del padre44. Anche l'affer-mazione del Protovangelo, secondo cui Maria avrebbe lavora-to, insieme ad altre sette vergini del tempio, al nuovo prezioso tendaggio del Santo dei Santi, potrebbe corrispondere appieno a verità. Maria nacque probabilmente attorno al 22 a.C. Verso

43 Cit. da B. Pixner, op. cit., p. 48. u Ibid., p. 54.

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il 19 a.C Erode il Grande iniziò la trasformazione del tempio in uno sfarzoso edificio ellenistico, e quindi l'infanzia di Maria cad-de effettivamente nel periodo della ristrutturazione del luogo sacro. Poiché gli esseni appoggiavano Erode, si può benissimo supporre che i sacerdoti esseni e le famiglie vicine a questa fa-zione fossero coinvolte nei lavori di ristrutturazione. Ora, la tra-dizione gerosolimitana è a conoscenza, almeno a partire dal IV secolo, del luogo esatto dell'«abitazione di Anna», ovvero il luo-go di nascita di Maria, nei pressi dello stagno di Betesda. Oggi in questo luogo si trova la chiesa di Sant'Anna, da cui si può di-scendere in vani sotterranei, nei quali si presume vivesse un tem-po la famiglia della Vergine. È interessante che il Rotolo di ra-me, una lista di nascondigli esseni rinvenuta nelle grotte di Qum-ran, citi un'abitazione essena nei pressi dello stagno di Betesda. Si trattava della «casa di Anna», il luogo di nascita di Maria? Nel Protovangelo di Giacomo si dice inoltre che il padre di Maria, Gioacchino, prima della nascita della figlia «si ritirò nel deser-to» per quaranta giorni e quaranta notti. Secondo la tradizio-ne si sarebbe recato nelle grotte di Cozeba, dove già nel 470 fu edificato un monastero mariano. E il Rotolo di rame di Qumran menziona Cozeba tra i rifugi esseni45.

Non fu il portatore dì speranza di una setta

Ma Gesù ruppe con la tradizione esseno-davidica della fami-glia in maniera così violenta da spingere la sua stirpe a emette-re la sentenza: «È fuori di sé» (Me 3,21); a sua volta Gesù pre-se le distanze dai congiunti: «"Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi, guardando in giro quelli che gli sedevano intor-no, dice: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi fa la volontà di Dio, questi è mio fratello, mia sorella e mia madre"» (Me 3,33-35). Ma in nessun passo la frattura con la tradizione di fami-glia essena appare così netta come nell'episodio descritto dal

"Ibid., pp. 50-55.

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Vangelo di Giovanni, quando i suoi «fratelli» (o meglio i suoi cugini, giacché il riferimento è a Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simeone, cfr. Me 6,3) sollecitano Gesù a recarsi con loro a Ge-rusalemme per la festa delle Capanne. Gesù però rifiuta: «"Sa-lite voi alla festa. Io non salgo, perché il mio tempo non è an-cora compiuto". Detto ciò, rimase in Galilea. Quando i suoi fra-telli furono saliti alla festa, allora anche egli vi salì» (Gv 7,8-10). Perché Gesù non andò alla festa con i suoi parenti? Voleva for-se parteciparvi segretamente? No di certo, perché più oltre si legge: «Quando la festa fu a metà, Gesù sali al tempio e inse-gnava» (Gv 7,14), il che non testimonia a favore di una «parte-cipazione silenziosa». Gli esegeti hanno a lungo discusso riguardo a questa evidente contraddizione. Ma da quanto è venuto alla luce a Qumran, siamo a conoscenza di un elemento decisivo: le diverse sette ebraiche facevano riferimento a calendari diffe-renti. Il partito sadduceo, che deteneva l'ufficialità delle cele-brazioni, computava il tempo secondo il calendario lunare, in base al quale le festività avevano cadenza mobile, mentre gli es-seni seguivano un calendario solare secondo il quale la festa del-le Capanne cadeva sempre di mercoledì. Tenendo presente ciò, il comportamento di Gesù diventa comprensibile: non voleva recarsi con i suoi fratelli alla festa delle Capanne essena nel quar-tiere esseno, ma alla festa ufficiale nel tempio. Non voleva quin-di essere il portatore di speranza di una setta, ma rivolgersi al-l'intero Israele. Però non ruppe completamente con la sua stir-pe. Ancora sulla croce, ricongiunse famiglia e discepoli in un atto simbolico: «Gesù dunque, vista la madre e presso di lei il di-scepolo che amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Quindi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quel mo-mento il discepolo la prese in casa sua» (Gv 19,26-27).

Secondo la tradizione, Gesù celebrò l'ultima cena nel quar-tiere esseno, forse addirittura in una foresteria essena, che poi divenne il centro della prima comunità cristiana. «Andate in città e vi imbatterete in un uomo che porta una brocca d'acqua; se-guitelo e dite al proprietario della casa in cui si reca: "Il Maestro manda a dire: Dov'è l'ostello in cui celebrerò la Pasqua con i

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miei discepoli?"»46, si dice misteriosamente nel Vangelo di Mar-co (14,13-14). Già l'uomo con la brocca d'acqua è una figura «sospetta»: l'attingere acqua in Oriente era stato da sempre una prerogativa delle donne, ma ciò naturalmente non valeva per una comunità fondata su una regola religiosa. Gesù diede que-ste istruzioni ai discepoli quando si trovava a Betania. La stra-da che da Betania conduceva a Gerusalemme costeggiava ef-fettivamente Io stagno di Siloe, attraverso la porta dell'Acqua: là i discepoli poterono imbattersi nel misterioso uomo con la brocca d'acqua; da lì una scalinata conduceva direttamente al quartiere esseno.

In modo molto chiaro, il legame con la comunità essena pre-cipita in un'apparente contraddizione. Secondo Marco i disce-poli chiesero a Gesù istruzioni per la cena pasquale «il primo giorno degli Azzimi» (Me 14,12). Ma la tradizionale cena di Pa-squa avrebbe dovuto tenersi alla vigilia della festa, in un mo-mento quindi in cui Gesù era già stato deposto nel sepolcro. Il suo processo si era svolto in tutta fretta, perché l'esecuzione do-veva essere portata a compimento prima dell'inizio del primo giorno pasquale, cioè prima del tramonto: secondo il costume ebraico, il giorno aveva inizio con l'accendersi della terza stella. I sommi sacerdoti non potevano varcare la soglia del pretorio di Pilato «per non contaminarsi e poter così mangiare la Pasqua» (Gv 18,28). Gesù spirò alla nona ora, quando cioè nel tempio venivano macellati gli agnelli pasquali. Come si può spiegare questa contraddizione? Come poteva Gesù fare i preparativi dell'ultima cena come cena pasquale «il primo giorno» della fe-sta di Pasqua, quando proprio alla vigilia di quella festa sareb-be stato giustiziato?

C'è una spiegazione, ed è rappresentata dai due calendari. Il primo giorno degli Azzimi, secondo il calendario esseno della Pasqua, è il mercoledì. Nella serata di quel giorno i discepoli di

46 La traduzione ufficiale di questo passo di Marco è più generica nel definire il luogo in cui Gesù celebrò Pesach: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: "Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?"» (ndt).

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Gesù devono avergli posto la domanda relativa ai festeggiamenti pasquali, che furono predisposti il mattino seguente, il giovedì, ed ebbero luogo quella sera stessa, come vuole la tradizione cri-stiana. Ma ciò era possibile soltanto all'interno di un'istituzione essena. Soltanto dalla vigilia della festa di Pasqua ci si poteva procurare il pane pasquale, il «pane azzimo», e venivano ma-cellati gli agnelli pasquali. Prima ogni casa doveva essere «puri-ficata per la Pasqua». A questo scopo, ogni stanza veniva spaz-zata e ogni angolo perlustrato alla ricerca di qualche vecchio re-sto di pane. Queste pulizie, che ancora ancora oggi costituiscono una cerimonia inframmezzata da preghiere particolari, sono com-pito di chi ospita la cena pasquale. Se dunque la «sala», come si dice espressamente, «era pronta», questo può solo significare che in quello stesso giorno si era già predisposti alle celebrazioni pasquali. Ma questo, due giorni prima della festa, nella Gerusa-lemme «ufficiale» cozzava contro ogni buona regola.

L'unica eccezione, l'unico luogo in cui Gesù avrebbe potuto festeggiare la festa di Pasqua già di giovedì era il quartiere es-seno. La «Sala» in cui Gesù celebrò l'ultima cena era forse una foresteria essena? Questo spiegherebbe perché celebrò l'ul-tima cena solo con i dodici discepoli, ma non con le donne, che altrimenti erano sempre al suo seguito. Anche loro erano venute con lui a Gerusalemme in quell'occasione, più tardi fu-rono ai piedi della croce e furono le prime a scoprire che il se-polcro era vuoto. Ma, secondo la regola essenica, le donne non potevano prendere parte ai pasti comunitari. Questa regola spie-ga anche la lite tra i discepoli su «chi di essi doveva essere con-siderato il più grande» (Le 22,24) perché stabiliva un ordine ge-rarchico nella disposizione dei posti a tavola: «Questo è l'ordi-ne secondo cui devono sedersi i membri a pieno titolo della comunità: i sacerdoti siedono tra i primi, gli anziani come se-condi e quindi gli altri membri ognuno secondo il proprio ran-go», si dice nella Regola comunitaria di Qumran. Più oltre si tratta dello svolgimento del pasto comunitario: «E allora, quan-do abbiano apparecchiato la tavola per mangiare ... il sacerdo-te tenda per prima cosa la mano per pronunciare la benedi-

c i

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zione sulle primizie del pane e del vino». Nella Regola messia-nica di Qumran il «Messia d'Israele» celebra proprio in que-sto modo il Pasto dell'Alleanza.

La Chiesa degli apostoli

Se prendiamo in considerazione l'importante ruolo che i «pa-renti del Signore» giocarono nella comunità delle origini, primo tra tutti «Giacomo il Giusto», appare probabile che uno stretto contatto con gli esseni permanesse anche in seguito. Non è cer-to un caso che i due principali sacramenti cristiani, battesimo ed eucaristia, si ritrovino già prefigurati nei riti esseni. Esiste inol-tre una serie di chiari parallelismi tra le modalità organizzative della comunità gerosolimitana delle origini e quelle delle co-munità essene, fissate dalla Regola comunitaria, uno dei rotoli di Qumran. Sappiamo così che la «Via», come si autodenominò inizialmente la comunità dei discepoli di Gesù, era presieduta dai «Dodici», al cui capo stavano a loro volta le «tre colonne» Pietro, Giovanni c Giacomo. Anche il «patto di grazia» (jahad),

la comunità essena, era guidata da un «Consiglio centrale» com-posto da «dodici laici e tre sacerdoti». Quando Paolo scrisse ai cristiani di Efeso: «Il vostro edificio ha per fondamento gli apo-stoli e i profeti, mentre Cristo Gesù stesso è la pietra angolare, sulla quale tutto l'edificio in armoniosa disposizione cresce co-me tempio santo nel Signore, in cui anche voi siete incorporati nella costruzione come dimora di Dio nello Spirito» (Ef 2,20-22), ricorse a un lessico simile a quello della Regola comunitaria di Qumran, in cui gli esseni si definivano «Tempio d'Israele e... San-to dei Santi... muro sperimentato, preziosa pietra angolare, le cui fondamenta non possono essere scosse né anche solo un poco scrollate... dimora irreprensibile e autentica in Israele» (col. 8,5-9). Inoltre Paolo chiamava «santi» i membri della Chiesa degli apostoli; ma proprio questa era l'autodefinizione degli esseni.

Ugualmente, la comunità delle origini pare aver ripreso la prassi essena della comunione dei beni. Così si dice negli Atti

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degli apostoli: «Non c'era infatti tra loro alcun bisogno: poiché quanti possedevano campi o case, li vendevano e portavano il ricavato delle vendite mettendolo ai piedi degli apostoli. Veni-va poi distribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno» (At 4,34-35). Proprio in questo quadro si inserisce la tradizione se-condo la quale la «Chiesa degli apostoli», che era piuttosto una sinagoga giudeo-cristiana, si trovava nel quartiere esseno. Gli Atti degli apostoli la descrivono come «la casa dove usavano trattenersi»47 (At 1,13), e che evidentemente disponeva di un'am-pia stanza al piano superiore dove i discepoli pregavano e pran-zavano insieme. L'archeologo Bargil Pixner ritiene che con la «segreta casa di Gesù», citata nel Rotolo di rame degli esseni come «nascondiglio numero 7» (almeno secondo la sua tradu-zione)48, si intendesse proprio questo edificio. La denomina-zione corrisponde al costume ebraico di dare a una scuola reli-giosa il nome del suo fondatore. In questo edificio, in cui forse ebbe luogo anche l'ultima cena, la tradizione vuole che Pietro abbia tenuto la sua famosa predica di Pentecoste. In seguito, stando agli Atti degli apostoli, la comunità delle origini crebbe fino ad annoverare 3 0 0 0 membri ; un numero piuttosto m o d e -sto, se si pensa che Gerusalemme contava allora 120.000 abi-tanti49: «Intanto la parola di Dio si diffondeva, e si moltiplica-va grandemente il numero dei discepoli in Gerusalemme; anche gran folla di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Ora, va esclu-so che si trattasse di sacerdoti sadducei, perché questi erano i principali responsabili della condanna di Gesù e anche più tar-di cercarono di distruggere la giovane comunità con azioni mi-rate. Numerosi esegeti sono invece dell'avviso che si trattasse piuttosto di sacerdoti esseni50.

47 Così recita la traduzione ufficiale di questo passo neotestamentario: «Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano» (ndt).

48 B. Pixner, op. cit, pp. 224s; secondo la traduzione di questo passo effettuata da M. Wi-se-M. Abegg-E. Cook, l'edifido sarebbe indicato come «la camera del vecchio lavandaio» (M. Wise-M. Abegg-E. Cook, Die Schiftrollen von Qumran, Augsburg 1997, p. 211).

49 W. Reinhardt, The Population Size ofJerusalem and the Numerical Growth of the Jerusalem Church, in RJ. Bauckham (a cura di), The Book ofActs in its Palestinian Set-ting, Grand Rapids-Carlisle 1995, pp. 237-265.

50 H. Braun, Qumran und das Neue Testament, Ttibingen 1966,1, pp. 153s.

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La «casa segreta di Gesù», è la lettura suggerita da Pixner di queste righe del Rotolo di Rame che indicano un nascondiglio esseno.

Chi si reca oggi a Gerusalemme e visita la sala dell'ultima ce-na, il cenacolo sul monte Sion, nota una particolarità: questo im-portante luogo di culto cristiano, secondo la tradizione il luogo in cui si svolsero l'ultima cena, le apparizioni di Gesù a Geru-salemme dopo la risurrezione, la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste e la morte di Maria, si trova nello stesso edificio in cui gli ebrei rendono omaggio alla tomba di Davide. Chi voles-se salire le scale per raggiungere la «stanza posta al piano su-periore», che nella cui forma attuale conserva l'aspetto datole dai cavalieri crociati, deve necessariamente passare davanti al-la Scuola talmudica accanto al luogo di culto ebraico, che fun-ge anche da sinagoga. Entrandovi, si rimane immediatamente colpiti dal grande, massiccio sarcofago in pietra ricoperto da un telo nero adornato da tre stelle di Davide dorate. Non manca-no le 22 corone d'argento della Torah, simbolo dei 22 re d'Israele succeduti a Davide.

L'identificazione di questo sepolcro come un luogo di culto ebraico, il secondo per numero di pellegrini dopo il Muro del Pianto, è avvenuta molto tardi: i primi a venerarvi il re biblico furono i crociati, poi vennero i musulmani e solo dal 1948 gli ebrei. Una tradizione molto più antica, invece, cui si richiama anche Eusebio, localizza l'autentica tomba di Davide a Betlemme, sua città natale.

Nel 1948 il Monte Sion fu teatro di importanti battaglie, nel \ corso delle quali una granata di mortaio esplose nelle immediate j vicinanze della tomba di Davide. L'archeologo israeliano J. ] Pinkerfeld nel 1951 fu incaricato del restauro, durante il quale \

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esaminò l'edificio e ne mise a nudo le mura originarie. 12 cen-timetri circa sotto l'attuale pavimentazione si trova quella di epoca crociata, altri 48 centimetri più in profondità una pavi-mentazione a mosaico di epoca tardo-romana o paleo-bizanti-na. 10 centimetri più sotto si imbatté nel Ietto di malta del pa-vimento originario, con i resti di un lastricato in pietra. Potè dun-que affermare che «questo pavimento» apparteneva «con sicurezza all'edificio originario ... [e] alla parete settentrionale con relativa abside»51. Di conseguenza anche la parete setten-trionale, formata da poderosi blocchi quadrati di pietra risalen-ti all'epoca di Erode e poi riutilizzati, apparteneva all'edificio originario che sorgeva in epoca romana in questo luogo. L'ab-side era una nicchia in cui, nelle antiche sinagoghe, si conser-vavano i rotoli della Torah. Pinkerfeld ne dedusse che l'«edifi-cio originario» doveva essere stato una sinagoga. Ma abitual-mente una sinagoga toranica era rivolta in direzione del tempio di Gerusalemme; nel caso di questa nicchia le cose stanno di-versamente: essa guarda quasi esattamente a nord, là dove si trova oggi la chiesa cristiana del Santo Sepolcro!

Si trattava dunque di una sinagoga giudeo-cristiana? Pixner e altri archeologi ne sono convinti. Qui, nel luogo dove si tro-vava la sala dell'ultima cena, la «chiesa degli apostoli», fu dun-que edificata una casa di preghiera da quei giudeo-cristiani tor-nati da Pella nel 70 dopo là distruzione di Gerusalemme? Il fat-to che fosse orientata in direzione dell'attuale chiesa del Santo Sepolcro dimostra che a quell'epoca si era ormai completamente consumata la separazione spirituale dall'ebraismo «ufficiale». Questa frattura trova una precisa corrispondenza coeva sul ver-sante ebraico. Attorno all'80, i farisei si riunirono nel sinodo di Jamnia (una piccola località a sud di Tel Aviv) per rifondare l'e-braismo dopo la fine del tempio e della gerarchia sadducea. In quell'occasione i rabbini scesero volutamente in campo in ma-niera combattiva, dato che era in gioco la loro autoconserva-zione e autoaffermazione. Nell'impero romano, l'ebraismo go-

51 Cit. da B. Pixner, op. cit., pp. 294-297.

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deva dello status di religio licita, di religione consentita, già mes-so in pericolo dall'esito della guerra giudaica. Non ci si poteva più permettere di lasciare agire i cristiani, già da tempo accu-sati dai romani di sovversione, di disprezzo della tradizione e di «odio contro il genere umano», dietro il paravento dell'ebrai-smo. Al contrario, si trattava di distinguersi nettamente da loro. In questo spirito fu anche redatta, da Rabbi Samuel il Giova-ne e dietro autorizzazione di Rabbi Gamaliel, un'aggiunta alla tradizionale preghiera delle Diciotto suppliche, che conteneva una maledizione contro i cristiani, i no?rtm («Nazareni»), e li equiparava ai minìm («eretici»): «Possano i rinnegati essere sen-za speranza, e possa essere sradicato nel nostro tempo il regno dell'arroganza. Possano i no$rìm e i miriim dissolversi in un istan-te. Possano essere allontanati dal libro dei viventi. Che tu sia lo-dato, Signore, tu che annienti gli orgogliosi». Attraverso que-sto nuovo Birkat ha-mimm, ai cristiani fu vietata la partecipa-zione al servizio religioso ebraico nelle sinagoghe52. Ma la direzione verso cui è volta la sinagoga giudeo-cristiana del Mon-te Sion ci rivela qualcos'altro: la comunità delle origini venera-va il luogo della morte e della risurrezione di Gesù prediligen-dolo rispetto al tempio, e lo localizzava proprio nel luogo in cui oggi sorge la chiesa del Santo Sepolcro.

Sion diventa cristiana

In effetti, nei resoconti degli autori paleocristiani troviamo al-cuni accenni alla «chiesa degli apostoli». Negli scritti del vesco-vo Epifanio ai Salamina (315-403), anch'egii originarlo della Ter-rasanta, troviamo riferimenti che confermano la sua esistenza già prima deUa rivolta di Bar Kochba, quindi all'epoca dei «vesco-vi provenienti dalla circoncisione», che erano tutti «parenti del Signore». Epifanio scrisse che, quando nel 130 l'imperatore Adria-no visitò Gerusalemme nel corso di un viaggio nel Vicino Orien-

5Z Cit. da C.P.Thiede-M. d'Ancona, op. cit., pp. 80s.

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te, «trovò la città completamente distrutta e il luogo sacro a Dio [il tempio] devastato, con l'eccezione di poche case e della pic-cola chiesa di Dio che era là e dove i discepoli, ritornati dal mon-te degli Ulivi dopo l'ascensione del Redentore, salivano nella stanza al piano superiore [At 1,13]. Sorgeva infatti su quella par-te di Sion scampata alla distruzione, insieme ad alcune case adia-centi a Sion»53. Chi costruì questa «piccola chiesa di Dio»? Eu-tiche, patriarca di Alessandria (896-940), che nella sua Storia del-la Chiesa si richiamò a fonti più antiche, scrive che i giudeo-cristiani rifugiatisi a Pella «fecero ritorno a Gerusalem-me nell'anno quarto del regno dell'imperatore Vespasiano e là vi eressero la loro chiesa»54. Questo significherebbe che la co-munità sarebbe tornata nella città distrutta già nell'anno 72-73, sotto la guida del vescovo Simeone, cugino di Gesù, e si sarebbe insediata sulla collina di Sion. Sessantanni più tardi, quando esplose la rivolta di Bar Kochba, il nome «Sion» pare avere già connotazioni cristiane così forti da spingere i rivoltosi a rinun-ciare del tutto al suo utilizzo. Mentre, all'epoca della guerra giudaica, parole d'ordine come «libertà di Sion» e «riscatto di Sion» erano ancora incise sulle monete, in occasione della se-conda rivolta il nome «Sion» fu sostituito sulle monete dal rife-rimento a «Gerusalemme» e a «Israele».

Volutamente, i cristiani non presero parte alla rivolta di Bar Kochba; al contrario, essa aveva un profilo esplicitamente an-ticristiano. Giustino il Martire scrisse che «Barcocheba, capo del-la sommossa giudaica, fece trarre solo i cristiani ad acerbi sup-plizi, se non avessero rinnegato e bestemmiato Gesù Cristo»55. Ciò ricevette una conferma nel 1952, col rinvenimento a Mu-rabba'at, sul Mar Morto, di una scric di antichi papiri, poi di-mostratisi lettere originarie di Bar Kochba. In una di queste, in-dirizzata a un certo Yeshua Ben Gilgoa, si dice: «Il cielo mi è te-stimone. Se non rompi con i galilei, cui hai prestato aiuto, ti metterò in catene come ho già fatto con Ben Aphlul»56. Molti ri-

33 Cit. da B. Pixner, op. cit., p. 303. 54 Cit. da B. Pixner, op. cit., p. 304. 51 Cit. da Eusebio, Hist. Ecc., IV,8.

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cercatori sono convinti del fatto che per «galilei» intendesse i cristiani57. Perciò si deve supporre che la comunità cristiana, al profilarsi dei primi disordini, fuggisse di nuovo da Gerusalem-me e si insediasse, questa volta definitivamente, in Transgiorda-nia. Infine, l'editto di Adriano vietò anche ai giudeo-cristiani di calpestare di nuovo il suolo della Città Santa. È più che pro-babile che la nuova comunità di pagani della Aelia Capitolina convertiti al cristianesimo intrattenesse rapporti con i giudeo-cristiani fuggitivi e da loro venisse a conoscenza della localiz-zazione del Santo Sepolcro. È persino possibile che i giudeo-cri-stiani fossero esclusi dal divieto già sotto il successore di Adria-no, Antonino Pio, e che costituissero ben presto una comunità parallela a Gerusalemme, come ipotizzano numerosi autori58. In ogni caso, i cristiani di Gerusalemme furono testimoni dell'e-dificazione del tempio pagano nel luogo della passione e risur-rezione di Gesù: «Alcune empie e sciagurate persone [i roma-ni] decisero di celare agli occhi degli uomini questa grotta sal-vifica ... Con un vasto impiego di forze e di energie, trasportarono da un'altra località una grande quantità di terra e con essa oc-cultarono tutto quel luogo; poi elevarono il livello del suolo e lo cosparsero di sassi, celando sotto questo grande tumulo la san-ta grotta. In seguito ... sopra quel terreno allestirono ... un te-tro recesso che consacrarono alla dissoluta divinità di Afrodi-te»59, scrive Eusebio, vescovo di Cesarea, che per via della sua vicinanza a quel luogo cita con sicurezza una tradizione della comunità cristiana di Gerusalemme. Attorno al 385 Girolamo completò così: «Dall'epoca di Adriano fino al regno di Costan-tino, quindi per circa 180 anni,... sulle rocce della croce stava

M J.T. Milk, Une lettre de Simeon Bar Kokheba, in Revue biblique 60 (1953), pp. 276-294; cit. da I. Mancini, op. cit., p. 38.

571. Mancini, op. cit., p. 38. 58 B. Bagatti, The Church from the Circumcision, Jerusalem 1984; I. Mancini, op. cit.,

pp. 117ss. I due archeologi francescani Mancini e Bagatti ritengono che i numerosi os-sari della fine del II e del III secolo, rinvenuti soprattutto sul Monte degli Ulivi, siano riconducibili solo a una comunità giudeo-cristiana, perché agli ebrei era vietato l'accesso alla loro Città Santa, pena la morte.

59 Eusebio, Vit. Const., III, 26.

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una statua di marmo raffigurante Venere, eretta e venerata là dai pagani, perché i responsabili della persecuzione credevano di poterci togliere la nostra fede nella risurrezione e nella croce lordando i luoghi sacri con i loro idoli»60. Lo storico della Chie-sa Sozomeno, nato a Gaza attorno al 370-380, riporta la stessa tradizione locale: «Gli infedeli avevano seppellito in profondità sotto le macerie il luogo attorno al Cranio [il Golgota] e lo ave-vano sopraelevato, per quanto nel passato, così come ora, fosse più basso. Poi recintarono con un muro tutto il luogo della ri-surrezione e del Cranio, lo lastricarono di pietre, vi eressero un tempio ad Afrodite e vi collocarono la sua statua affinché ap-parisse che coloro che intendevano venerare Cristo, rendessero invece omaggio ad Afrodite, e con il tempo cadesse nell'oblio il vero motivo per cui quel luogo veniva venerato»61.

Nella piazza del mercato?

È appurato che la tradizione della comunità di Gerusalemme riguardante i luoghi in cui operò Gesù risale ai tempi più anti-chi. È certo che furono mostrati alla delegazione di membri del-le comunità greche che si recarono con Paolo a Gerusalemme nel 57 d.C. Dal II secolo è attestato un afflusso di pellegrini cri-stiani.

Quando il vescovo Melitone di Sardi, in Asia Minore, si recò in Palestina nel 160 d.C., gli furono mostrati «i luoghi in cui que-ste cose furono insegnate e si verificarono»62. Nell'anno 212 fu la volta di Alessandro di Cappadocia, allievo di Clemente Ales-sandrino, che venne a Gerusalemme «per pregare e visitare i luoghi santi»63, la qual cosa rallegrò la comunità cristiana loca-le al punto che non lo lasciò più tornare a casa ma lo consacrò vescovo seduta stante. Per ben due volte, nel 215 e nel 230, si

60 Cit. da G.S.P. Freeman-Grenville, op. cit., pp. 9s. 61 Sozomeno, Hist. Ecc., II, 1. n Melitone di Sardi, Omelia di Pesach, 39-95 (nell'edizione di Perler, pp. 80-116). 63 Eusebio, Hist. Ecc., VI, 11,2.

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recò in Palestina il Padre della Chiesa Origene, per riferire più tardi: «Abbiamo visitato i luoghi (santi) per ricostruire le trac-ce di Gesù, dei suoi discepoli e dei profeti»64. In quell'occasione gli fu tra l'altro mostrata la grotta della Natività di Gesù a Be-tlemme, a proposito della quale cita espressamente «visitatori da tutto il mondo». Anche Eusebio menziona dei cristiani che visitarono il monte degli Ulivi e Betlemme. Una testimonianza di questo primo afflusso di pellegrini, forse il primo ex voto cri-stiano, fu rinvenuta nel 1975 da archeologi israeliani che, sotto la supervisione del vescovo armeno Guregh Kapikian, esegui-rono degli scavi dietro l'abside della cappella di Elena nella chie-sa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Dietro un muro, s'im-batterono in una cavità che riportarono alla luce e che il vesco-vo consacrò subito come «cappella del Santo Vartan e dei martiri armeni». Il vano faceva probabilmente parte del sistema di vol-te che si trovava sotto il Foro occidentale insieme al tempio di Venere adrianeo. Su una delle pareti gli archeologi rinvennero un'iscrizione significativa. Sotto l'immagine di una nave dall'al-bero maestro abbattuto (o spezzato) era inciso con incerta cal-ligrafia: DOMINE IVIMUS, «Signore, siamo giunti!». Eviden-temente il graffito è opera di pellegrini che, giunti dalla parte occidentale dell'impero romano - in Oriente si parlava il gre-co - , nel corso della traversata erano incappati in una tempesta, durante la quale probabilmente si era spezzato l'albero della na-ve, e che tuttavia erano riusciti ad approdare sani e salvi a Ce-sarea. Il Signore aveva ascoltato le loro preghiere, e così gli ren-devano grazie, sollevati per essere sopravvissuti al viaggio. Ri-guardo al ritrovamento e alla sua datazione si accese un'aspra controversia. Quel che è certo è che l'iscrizione risale a un'e-poca in cui mancava l'accesso diretto al Santo Sepolcro e al luo-go della crocifissione, ragion per cui ci si doveva accontentare di un muro della volta sottostante il tempio di Venere adrianeo. Essa testimonierebbe così l'esistenza di un flusso di pellegrini collocabile nel periodo che va dal 135 al 325 d.C., e dimostre-

w Cit. da J. Finegan, op. cit., p. XV.

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rebbe che già in quell'epoca i luoghi santi della cristianità era-no chiaramente localizzati65.

Di sicuro, già nel 160 anche Melitone di Sardi si imbattè, pres-so la comunità cristiana di Gerusalemme, in una tradizione, vi-va come lo era stata in precedenza, che aveva ben presente i luo-ghi della crocifissione e del Santo Sepolcro. Ma la topografia del-l'Aelia Capitolina non era più quella dell'antica Gerusalemme. E così avvenne che, in una predica pasquale pervenutaci c di-venuta famosa, rimproverò agli ebrei di aver crocifisso Gesù «nel mezzo della città, sulla piazza principale»66. Nell'affermare ciò, assumeva evidentemente come punto di riferimento la città co-sì come l'aveva vista e in cui il luogo della crocifissione era di-venuto il contro, il Forum Hadriani. Proprio questo suscitò l'in-dignazione del vescovo: una crocifissione all'interno della città era uno scandalo, perché assolutamente inusuale. La tradizione della comunità cristiana del luogo, che collocava il Golgota (e con esso anche il Santo Sepolcro) in questo luogo «impossibi-le», doveva già essere molto forte, molto univoca. Soltanto og-gi, dopo una lunga serie di scavi archeologici, sappiamo che il luogo in cui oggi si erge la chiesa del Santo Sepolcro al tempo di Gesù si trovava al di fuori delle mura cittadine. Come ripor-ta Giuseppe Flavio, all'epoca della guerra giudaica Gerusa-lemme aveva tre cerchia di mura: le mura originarie degli Asmo-nei, il secondo muro di Erode, che ampliava la città a nord, e in-fine il terzo muro, la cui costruzione fu ordinata da re Erode Agrippa I (41-44) quando Gerusalemme raggiunse la sua mas-sima espansione, e che fu completato soltanto all'epoca della ri-volta ebraica, nel 67 d.C. «Il secondo muro cominciava dalla por-ta nel primo muro che si chiamava Gennath e, cingendo solo la parte settentrionale della città, arrivava fino all'Antonia», che sovrastava il margine settentrionale del monte del tempio67.

65 J. Finegan, op. cit., pp. 281s.; C.P. Thiede, Heritage ofthe First Christian, Oxford 1992, pp. 142-145. Un'altra possibilità è naturalmente quella che le volte risalgano già a un'epoca pre-adrianea e che prima del 135 d.C servissero ai cristiani come luogo di cul-to segreto nei pressi del luogo della crocifissione.

64 Melitone di Sardi, Omelia di Pesach 39-95 (nell'edizione di Perler, pp. 80-116) 67 Giuseppe Flavio, Bell. Iud., V, 4,2.

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Dinanzi alla porta

Queste indicazioni abbastanza vaghe lasciavano aperta la que-stione di quale fosse il preciso tracciato delle mura. Soltanto gli scavi archeologi condotti nel 1967 da Kathleen Kenyon nell'area del Muristan, e quelli eseguiti nel 1970-71 da Ute Lux nell'area della chiesa evangelica del Redentore, hanno dimostrato che la zona in cui sorge la chiesa del Santo Sepolcro apparteneva un tempo a una cava di pietre, non presentava tracce di alcun tipo di insediamento che potesse essere fatto risalire al I secolo e do-veva quindi effettivamente trovarsi al di fuori del secondo mu-ro. Questo emerge già dall'esistenza, nelle immediate vicinanze del Santo Sepolcro, di una serie di tombe scavate nella roccia ri-salenti al I secolo. Secondo la Mishnah (Baba Bathra 2,9), un se-polcro non poteva trovarsi a meno di 50 cubiti, cioè circa 500 me-tri, dalle mura cittadine. L'archeologo israeliano N. Avigad, infi-ne, nel corso di scavi a sud della chiesa del Santo Sepolcro effettuati tra il 1969 e il 1978, rinvenne i resti della vera porta del Giardino, sotto quello che successivamente sarebbe stato il car-do maximus di Adriano, grazie ai quali si può ricostruire il trac-ciato delle mura fatte erigere da Erode: il primo muro incrocia-va il cardo, mentre il secondo correva soltanto pochi metri più a ovest, in direzione nord68. Scrive Fmegan: «È particolarmente significativo il fatto che la porta di Gennath, in base a questa identificazione [di Avigad], si trovi sotto quello che successiva-mente sarebbe stato il cardo maximus, poiché il cardo molto pro-babilmente fu costruito sul preesistente tracciato viario della Ge-rusalemme più antica [quella di Erode],... e possiamo immagi-narci già ai tempi di Gesù una strada che conduceva a questa porta, proprio là dove si snoda il cardo»69. Secondo questa ipo-tesi, il Santo Sepolcro si sarebbe trovato circa 120 metri a ovest del cardo e a circa 90 metri dal secondo muro. Nel mezzo, a cir-ca 50 metri, si trovava la collina del Golgota.

58 B. Pixner, op. cit, p. 276; G.S.P. Freeman-Grenville,op. cit., p. 7; G. Kroll, op. cit, pp. 373ss; J. Murphy-O'Connor, The Holy Land, Oxford 1992, pp. 56ss; J. Finegan, op. cit., pp. 259ss.

69 J. Finegan, op. cit, p. 221.

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Questa ricostruzione del tracciato delle mura è confermata dagli affascinanti risultati degli scavi archeologici russi del 1883. Quando, dopo la fine della guerra di Crimea, crebbe il numero di pellegrini russi in Terrasanta, sorse, con il sostegno degli zar, la missione ecclesiastica russa a Gerusalemme, chiamata suc-cessivamente Società ortodossa di Palestina. Il suo obiettivo era tutelare gli interessi dei cristiani russo-ortodossi in Palestina, ac-cudire i pellegrini e acquistare terra, specialmente quando si trat-tava di luoghi di interesse biblico. Alla missione fu presto pos-sibile acquistare un appezzamento di terreno a est della chiesa del Santo Sepolcro, là dove probabilmente si trovava l'ingres-so del Foro occidentale di Adriano e più tardi della basilica co-stantiniana. Qui doveva sorgere il consolato russo e un ostello per pellegrini. Ma già all'inizio dei lavori ci si imbatté in rovi-ne che oltrepassavano ogni aspettativa e che potevano essere resti delle mura cittadine di Erode e di una porta, quella porta attraverso cui dovette essere passato Gesù nel cammino verso il luogo dell'esecuzione. Si riferiva proprio a questa porta l'au-tore della Lettera agli ebrei, quando scrive che Gesù «patì fuo-ri della porta della città» (Eb 13,12). Soltanto nel 1883, grazie agli scavi dell'arcivescovo russo Antonin Kapustin, quei resti fu-rono portati interamente alla luce, prima di erigervi al di sopra, nel 1891, una lunga basilica, che da allora funge da quartier generale della missione religiosa russa a Gerusalemme. Le ro-vine conservate amorevolmente e in parte ricostruite, constano: - dei resti di un muro, di una torre o di una piccola fortifica-

zione, e di una porta a due accessi formati da massicci blocchi di pietra risalenti all'epoca di Erode, come pure della soglia della porta con la cerniera per i cardini;

- dei resti di un arco e di due colonne appartenenti all'ingres-so del Foro occidentale di Adriano, della pavimentazione del-l'ingresso del Foro e alcune colonne del cardo maximus;

- dei resti della basilica costantiniana del IV secolo70.

70 A. Bar-Am, Beyond the Walls: Churches ofJerusalem, Jerusalem 1988, pp. 50-53; The Russian Ecclesiastical Mission in Jerusalem (a cura di), The Russian Presence in

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I russi, prendendo ispirazione da una leggenda, battezzarono la porta «porta del Giudizio». In effetti era costume a Roma tra-scinare i condannati all'esecuzione attraverso la porta dell'E-squilino, dove si proclamavano pubblicamente nomi e reati com-messi. Se qualcuno era in grado di dimostrare la propria inno-cenza, questa era l'ultima occasione per far ricorso. In tal caso il condannato veniva di nuovo condotto davanti al giudice. Ma non ci sono elementi che attestino l'esistenza di questo costu-me a Gerusalemme, sebbene sia quanto meno possibile che i prefetti romani lo introducessero anche nelle province71.

II significato delle costruzioni che oggi possono essere visi-tate all'interno dell'ospizio di Alessandro degli esiliati russi (la chiesa di Sant'Aleksandr Nevskij) non è stato ancora comple-tamente chiarito. Molti archeologi ritengono che i bastioni ero-diani siano in realtà stati fatti erigere da Adriano, che si servì di blocchi appartenenti alle precedenti mura cittadine72. E fuori di-scussione la provenienza dalle mura fatte costruire da Erode de-gli enormi blocchi quadrati dal caratteristico motivo a cassetto-ne, che infatti corrispondono per forma, materiale e dimensio-ni a quelli con cui furono edificate la piattaforma del tempio e la torre di Davide, l'erodiana torre di Fasael, parte delle mura cittadine. Che «la connessione e la bellezza dei blocchi» delle fortificazioni di Erode «erano degne del tempio», è confermato anche da Giuseppe Flavio73. Lo storico della guerra giudaica sot-tolinea inoltre che Tito, in occasione della distruzione di Geru-salemme, lasciò effettivamente intatto «il settore delle mura che cingeva la città a occidente» perché servisse da fortificazione per una postazione di legionari74. In realtà, l'origine erodiana delle mura è messa in dubbio solamente dalla loro disposizione

Palestine (1843-1970), Jerusalem 1970; Y. Tsafrir (a cura di), Ancient Churches Revea-led, Israel Exploration Society, Jerusalem 1993.

71 Orthodox Palestine Society (a cura di), The Threshold of the Judgement Gate, Je-rusalem s.d.

72 J. Murphy-O'Connor, op. cit., p. 58; J. Finegan, op. cit., p. 260. 73 Giuseppe Flavio, BelL Iud., V, 4,3. La traduzione curata da Vitucci recita invece

«degne di un tempio» (ndt). 74 ìbid., VII, 1,1.

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parallela al cardo, ma pare accertato che, nella pianificazione ur-banistica, Adriano si conformasse al tracciato delle strade e del-le mura della città distrutta75. Comunque, come parte del cardo, di una via cioè dove si teneva il mercato, la porta non aveva alcun senso. I suoi due passaggi - uno più grande, chiuso durante la notte, e un accesso laterale più piccolo, la cosiddetta «cruna dell'ago», adibita al transito notturno dei pedoni - rimandano comunque molto chiaramente alla porta d'ingresso di una città. I resti delle mura sembrano essere appartenuti a una piccola for-tificazione, che aveva evidentemente lo scopo di proteggere il vulnerabile tratto nordoccidentale delle mura e la porta, e for-se anche di sorvegliare il luogo delle esecuzioni, nel caso che la crocifissione di un ribelle sfociasse in tumulti. Anch'essi non si adattano a un Foro, a una costruzione pubblica. È invece mol-to probabile che gli architetti di Adriano integrassero proprio questi resti di mura nella pianificazione del foro occidentale e, proprio come gli architetti di Costantino, le sfondassero in quei punti in cui era necessario aprire nuovi accessi. I ritrovamenti archeologici - i resti della porta davanti alla quale Gesù fu cro-cifisso e del tempio di Afrodite fatto erigere da Adriano — con-fermano dunque la tradizione. In ogni caso, quando i messi imperiali di Costantino giunsero a Gerusalemme, sapevano esat-tamente dove cercare e dove scavare.

75 J. Finegan, op. cit., p. 221.

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OPERAZIONE SANTO SEPOLCRO

Le istruzioni dell'imperatore erano chiare: se davvero il San-to Sepolcro del Redentore si fosse trovato sotto quel cumulo di detriti su cui erano stati eretti il Foro di Adriano e il tempio di Venere, allora il tempio doveva essere abbattuto e il Foro spia-nato. Per la comunità cristiana di Gerusalemme questo era il banco di prova in cui si giocava la propria credibilità. Sarebbe stato più che doloroso se, dopo tutti quegli sforzi, non si fosse trovato nulla. Ma era così sicura della propria tradizione da po-ter affermare senz'ombra di dubbio che il sepolcro di Cristo do-veva essere là. A ben vedere, la catena che aveva garantito la trasmissione della tradizione non aveva mai subito interruzio-ni, e inoltre la cima della roccia del Golgota svettava ancora dal-la piattaforma del Foro e culminava con la statua di Afrodite Golgia. I cristiani avevano un'unica preoccupazione, quella che i pagani potessero aver distrutto il Santo Sepolcro nel corso dei lavori di costruzione del tempio.

«Pervaso da divina ispirazione, egli non consentì che il luo-go di cui sopra si è detto continuasse a rimanere nascosto sot-to quella impura ed enorme congerie di materiali fraudolente-mente ammassata dai nemici, né permise che esso continuasse a giacere abbandonato nell'oblio più totale, né si tirò indietro di

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fronte alla perversità degli autori di tanto misfatto: invocò Id-dio, che sempre gli recava aiuto, e ingiunse di purificare tutta quell'area, pensando che soprattutto il suolo che era stato con-taminato dai nemici dovesse partecipare, grazie al suo intervento, della magnificenza del Dio di bontà. Non appena fu dato l'or-dine, tutte quelle pericolose e ingannevoli opere vennero rase al suolo, e gli edifici tra le cui mura s'annidava l'errore furono distrutti e abbattuti con tutte le loro statue e divinità. Ma il suo zelo non si fermò unicamente a questo, in quanto l'impe-ratore ordinò di portare via la massa di pietre e di legno risul-tante dalla demolizione degli edifici e di gettarla il più lontano possibile, oltre i confini del Paese. Anche quest'ordine venne im-mediatamente eseguito. Ma non gli bastò neppure l'essersi spin-to fino a questo soltanto: l'imperatore, infatti, dopo aver nuo-vamente invocato l'aiuto di Dio, dispose che si scavasse molto in profondità nel terreno e che si trasportasse in una località la più distante possibile il suolo stesso di quel luogo insieme con tutta la terra che fosse stata rimossa, e questo perché essa ri-sultava contaminata dal sangue versato nei diabolici sacrifici. Subito fu compiuto anche questo. Quando, strato dopo strato, comparve il livello più basso del terreno, allora, contro ogni aspet-tativa, si offrì alla vista il venerabile santissimo santuario della risurrezione del Salvatore, e la caverna, che è il luogo più sacro che esista al mondo, riacquistò il medesimo aspetto che aveva quando risuscitò il Salvatore. E così, dopo essere stata inghiot-tita nella tenebra, tornava nuovamente alla luce, e a quanti giun-gevano per visitarla consentiva di percepire in modo chiaro e manifesto la visione di quegli episodi miracolosi che proprio lì s'eran verificati, [proclamando] con i fatti stessi, che sono più evidenti di qualsiasi parola, la risurrezione del Salvatore», scris-se un testimone oculare, il vescovo di Cesarea Eusebio, biografo di Costantino1.

1 Eusebio, Vit. Const., 111,26-28.

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Il sepolcro era vuoto

Il sollievo fu palpabile. I peggiori timori, che paventavano una possibile distruzione del Santo Sepolcro in seguito alla costru-zione del tempio di Adriano, si erano rivelati infondati. Effetti-vamente, al di sotto dei detriti e delle masse di terriccio riversati per costruire la piattaforma del tempio, vi era, nelle immediate vicinanze delle rocce del Golgota, un'antica struttura sepolcra-le ebraica. Non fu difficile identificare la tomba in cui un gior-no era stato deposto Gesù. Si trattava di un sepolcro individuale, distante solo 38 metri dal luogo della crocifissione, e corrispon-deva esattamente alle descrizioni tramandate. L'ingresso era co-sì basso che ci si doveva piegare per entrarci. Conduceva in un'an-ticamera a volta, da cui si passava nella camera sepolcrale vera e propria. Lì, sul lato destro, si trovava una nicchia circolare sca-vata nella roccia che cingeva una panca sepolcrale in cui si apri-va una sorta di trogolo. Qui, «sulla destra», come dice il Van-gelo di Marco (16,5), era forse seduto l'angelo che annunciò al-le donne la lieta novella: «Voi cercate Gesù, il Nazareno, che è stato crocifisso. È risorto. Non è più qui. Ecco il luogo ove lo avevano deposto» (Me 16,6). Il sepolcro era vuoto, proprio co-me dicevano i Vangeli. Chi vi era stato sepolto non si trovava più tra i morti.

Dietro questo sepolcro individuale si trovava un. secondo in-gresso Che conduceva a una struttura sepolcrale che compren-deva diverse camere, evidentemente una tomba di famiglia. Qui - si dedusse - doveva essere stata sepolta la famiglia di Giuseppe d'Arimatea, cui appartenevano il giardino e la struttura sepol-crale retrostante la roccia del Golgota. Per rispetto nei confronti del luogo che aveva ospitato la risurrezione di Gesù, non aveva ulteriormente ampliato il sepolcro rimasto vuoto, ma aveva fat-to collocare a rispettosa distanza il luogo sepolcrale della sua fa-miglia.

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Chi era Giuseppe d'Arimatea?

Di questo Giuseppe d'Arimatea - per Arimatea si intende Ramataim, un villaggio poco distante da Gerusalemme - si sa ben poco. Dai Vangeli veniamo a sapere che era un «membro autorevole del Sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio» (Me 15,43); un membro del Sinedrio, dunque, un «uomo buo-no e giusto, che non si era associato alla loro deliberazione ed alla loro azione» (Le 23,50-51). Giovanni lo descrive persino co-me un «discepolo di Gesù» (19,38) e amico di «Nicodemo, il qua-le già prima era andato da lui di notte». Nicodemo era un fari-seo che era «uno di loro [dei discepoli di Gesù]» e «che era ve-nuto precedentemente da Gesù», come apprendiamo da Gv 7,50. Il riferimento, qui, è a Gv 3,1, dove si dice: «C'era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, un capo dei giudei», dunque un altro membro del Sinedrio, che «venne da lui [Gesù] di notte e gli dis-se: "Rabbi, noi sappiamo che sei venuto da Dio come un mae-stro. Nessuno infatti può fare questi segni che tu fai se Dio non è con lui"». Questo avveniva, come sappiamo, in occasione del-la festa di Pasqua (Gv 2,13) dell'anno 28 d.C., perché la gente

; -diceva: «In quarantasei anni fu costruito questo santuario» (Gv ; 2,20) e il rifacimento del tempio, voluto da Erode, ebbe inizio

attorno al 19-18 a.C. Nicodemo fu l'unico membro del Sommo Consiglio a prendere posizione a favore di Gesù anche succes-sivamente, in occasione della festa delle Capanne del settembre

. 29 (Gv 7,50). Ma quest'uomo era uno dei più eminente ebrei del tempo. Fonti rabbiniche definiscono Nakdimon ben Guriyon («Nicodemo, figlio di Gurion») come uno dei tre patrizi più ric-

; chi della città e come benefattore di proverbiale generosità. Era considerato un «giusto» e gli si attribuiva una condotta di vita addirittura santa - Giovanni lo definisce «maestro in Israele»

v (3,10) - ma contemporaneamente intratteneva ottimi rapporti con l'amministrazione romana. Come Gesù, proveniva dalla Ga-lilea (come conferma Gv 7,52) e disponeva di estesi possedi-menti a Ruma. Durante la guerra giudaica, ribelli fanatici ap-piccarono il fuoco ai suoi granai. Probabilmente Nicodemo per-

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se la vita in quell'occasione, mentre della figlia si dice che visse da quel momento nella più assoluta povertà e che il suo con-tratto nuziale fu infine siglato da Rabbi Yohanan Ben Zakkai, un allievo del famoso fariseo Hillel che, come Nicodemo, av-versava la guerra2. Giuseppe Flavio menziona infine «Gorion, figlio di Nicomede», che, quando esplose la rivolta, fece parte di una delegazione che condusse le trattative con i romani. Evi-dentemente la guerra giudaica aveva spaccato la famiglia. Il fi-glio di Gorion, Giuseppe, (quindi il nipote di Nicodemo) fu suc-cessivamente designato, insieme al sommo sacerdote Anna, co-mandante in capo della città di Gerusalemme, probabilmente per accontentare entrambi i partiti, farisei e sadducei3. Lo stes-so Giuseppe d'Arimatea doveva essere un membro della fazio-ne dei farisei perché «aspettava anche lui il regno di Dio»: ave-va quindi concezioni escatologiche irrise dai sadducei ma mol-to diffuse tra i farisei. Gli esseni non erano rappresentati in seno al Sommo Consiglio.

Deicidi?

Questi fatti ci costringono a ripudiare quella malvagia e fu-nesta concezione che vuole gli ebrei come «deicidi» e respon-sabili della condanna di Gesù. Gesù stesso era ebreo, come i suoi discepoli, i suoi seguaci, la comunità delle origini. Riscosse con-senso - per quanto limitato - persino tra i settanta membri del Sommo Consiglio, la massima istituzione dell'amministrazione ebraica, e all'interno del partito dei farisei. I suoi veri avversari non erano dunque «gli ebrei», e nemmeno «i farisei», ma i sad-ducei, il partito dei sommi sacerdoti. Questo gruppo, su cui ri-cade interamente la responsabilità della morte di Gesù, perma-se solo fino alla distruzione del tempio nel 70, esattamente 40 anni o - per ricorrere a una categoria biblica - una generazione

2 D. Flusser, op. cit., p. 148. 3 Giuseppe Flavio, Bell. Iud., II, 17,10 e II, 20,3.

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dopo la crocifissione di Gesù. L'ebraismo di oggi ha un'impronta nettamente farisaica.

A partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha ma-turato la consapevolezza dell'erroneità dell'antisemitismo dei secoli passati, che ha spianato la strada, in ultima analisi, ad Au-schwitz. «Gli ebrei, che così a lungo sono stati da noi crocifissi»: con una supplica così formulata, pronunciata il 10 aprile 1998 al Colosseo nel corso della tradizionale processione del venerdì santo che il papa aveva voluto guidare nonostante la pioggia tor-renziale, Giovanni Paolo II ruppe definitivamente con questa buia tradizione. La preghiera, recitata da un lettore, rievocava la folla di Gerusalemme che, davanti al pretorio, invocava la cro-cifissione di Gesù. «O no, non il popolo ebraico, che così a lun-go è stato da noi crocifisso ... non la folla ... non lei ma noi, tut-ti noi e ognuno di noi [abbiamo crocifisso Gesù], perché ab-biamo tutti assassinato l'amore». Anche nel corso della messa papale ufficiale del venerdì santo, nella basilica di San Pietro, padre Raniero Cantalamessa, predicatore ufficiale della Santa Sede, disse durante la predica: «Ci fu un deicidio, ma sappia-mo che non furono solo gli ebrei a commetterlo ma tutti noi». Tre settimane prima il Vaticano aveva ufficialmente porto le pro-prie scuse agli ebrei per tutti quei cattolici che avevano omesso di aiutare le vittime del nazismo4.

No, non si può identificare la canaglia che aveva sollecitato la crocifissione di Gesù con il popolo ebraico. Anche i discepoli, che si nascosero per sfuggire alla rabbia del popolo, erano ebrei, anche le coraggiose donne e il giovane Giovanni che rimasero al suo fianco finché Gesù esalò sulla croce l'ultimo respiro. E naturalmente Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, due rispetta-ti cittadini di Gerusalemme, farisei, membri dell'amministra-zione, del Sommo Consiglio, che presero apertamente posizio-ne a favore di Gesù e gli rimasero fedeli, in quell'ora-funesta,

4 CiL da un comunicato dell'agenzia Reuters dell'll aprile 1998, ore 8:33. L'autore di questo libro prese parte personalmente proprio a quella messa papale e alla processio-ne del venerdì santo.

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persino oltre la morte. Questa fedeltà si spinse oltre la preoc-cupazione di assicurargli una degna sepoltura: Giuseppe infat-ti mise a disposizione di Gesù, ormai spirato, anche il proprio sepolcro di famiglia.

La topografia del Golgota

Oggi i reperti archeologici rinvenuti nell'area sottostante la chiesa del Santo Sepolcro ci rivelano la topografia del Golgota e del giardino adiacente, e i risultati degli scavi promossi da Co-stantino.

Negli anni tra il 1973 e il 1978, nel corso di lavori di restauro alla chiesa del Santo Sepolcro, si intrapresero degli scavi e fu-rono raccolti dei reperti archeologici. Da quel momento sap-piamo che l'area del Golgota era originariamente una cava di pietre, situata sul pendio orientale dell'altura che secondo Giu-seppe Flavio andava sotto il nome di «campo degli assiri»5. Dal VII fino al I secolo a.C. la cava forniva la bianca pietra calcarea di Meleke. Solo quando la qualità della pietra peggiorò, la cava fu abbandonata. Rimaneva un mozzicone allungato, dal-la forma di mezza luna, della lunghezza di circa 7 metri, della larghezza di 3 e dell'altezza di 4,8 metri. Dalla città doveva ef-fettivamente assomigliare alla sommità di un teschio. Il terreno, che digradava a terrazze da ovest verso est, presenta squarci di impressionante larghezza, dal che si può dedurre che dalla roc-cia venissero estratti massicci blocchi quadrati di pietra desti-nati a grandi edifici pubblici, forse le mura cittadine fatte eri-gere dagli Asmonei6.

Nelle masse di terriccio riversate nell'area per ricoprirla si rin-vennero cocci di terracotta risalenti al VII secolo a.C. o al I d.C. Nel periodo intermedio, l'area deve essere rimasta priva di in-sediamenti abitativi, il che conferma la sua collocazione al di

i Giuseppe Flavio, Bell. Iud., V,7,3. 6 W. Bòsen, op. cit., pp. 274-276; G. Kroll, op. cit., pp. 359-367.

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fuori delle mura cittadine. Il terrapieno in cui furono rinvenuti cocci di terracotta del I secolo era attraversato da un canale di scolo sotterraneo risalente al II secolo, e doveva quindi essere stato realizzato in quest'epoca. Possiamo a ragione supporre che ciò avvenisse nel quadro della pianificazione urbanistica adria-nea. Allora evidentemente si ripulirono dalle macerie le rovi-ne della vecchia Gerusalemme e «si livellò la superficie colmando depressioni e avvallamenti del terreno, in modo da ottenere una superficie adatta all'ordinata edificazione di una città romana. Anche i canali di scolo furono collocati allora, nel quadro del-la pianificazione urbana, alla profondità di volta in volta neces-saria», scrive Gerhard Kroll7.

Non è questa l'unica conferma alla fondatezza della tradizio-ne secondo cui, al di sopra del Santo Sepolcro, fu eretto il Foro occidentale voluto da Adriano con il tempio consacrato ad Afro-dite. Contrariamente alla descrizione delle demolizioni fatta da Eusebio, alcune parti del Foro sono state conservate e persino integrate nella nuova costruzione, la chiesa del Santo Sepol-cro. E quanto descrive Sozomeno nella sua Storia della Chiesa redatta tra il 443 e il 445: «Quando poi Costantino fece rimuo-vere il terrapieno per riportare alla luce il sepolcro di Cristo, ri-mase intatta la parte orientale del muro come frontone d'in-gresso. Qui vennero aperte tre porte, un ampio portale princi-pale e due porte laterali più piccole»8. Continua Kroll: «Dopo piti di 1500 anni, gli archeologi poterono accertarsi dell'affida-bilità della tradizione. Nel corso degli scavi archeologici esegui-ti nel 1883 negli spazi dell'ospizio russo di Alessandro, fu ri-portato alla luce l'angolo sudorientale dell'antico atrio con gli attigui tratti di mura ... Il cosiddetto "muro dei Propilei" di Adria-no, che delimitava a est, lungo il cardo maximus, il tempio di Afrodite, può essere parzialmente ripercorso in direzione nord per circa 35 metri ... nonostante l'ostruzione rappresentata dal-le costruzioni posteriori»9.

7 G. Kroll, op. cit., p. 378. ' Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 382. 9 Ibid.

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Si è persino conservato uno dei tre accessi, che oggi può es-sere visitato, insieme con gli impressionanti resti delle mura, den-tro al recinto della chiesa russa di Sant'Aleksandr Nevskij, ac-canto alla chiesa del Santo Sepolcro. Quindi, o i resti delle mu-ra cittadine fatte erigere da Erode sono stati integrati nella costruzione, oppure i massicci blocchi di pietra sono stati riuti-lizzati. Un rinvenimento ancora più sorprendente ha avuto luo-go nel 1977 nell'area della chiesa del Santo Sepolcro, nel corso di scavi condotti sotto la guida dell'archeologo spagnolo E Diez Fernandez. Proprio di fronte alle rocce del Golgota, per la pre-cisione dinanzi alla sommità più elevata, fu rinvenuto un poz-zo che in un primo momento Diez ritenne un forno, a causa del-la cenere sparsa li attorno. Si rivelò invece essere un altare per i fuochi sacrificali. Questo coincide con la tradizione che collo-cava sulla collina del Golgota una statua di Afrodite, davanti al-la quale erano naturalmente consumati i sacrifici. Quando, nel-le immediate vicinanze, fu rinvenuto anche un piccolo altare per le libagioni sacrificali, non sussistette più il minimo dubbio cir-ca la credibilità della tradizione10.

Le scoperte fatte nel 1986, quando l'Istituto di studi bizanti-ni dell'Università di Salonicco fu incaricato dal governo greco di esaminare la roccia del Golgota, fecero davvero sensazione. Come accertarono l'archeologo Georg Lavas e l'architetto Theo Mitropulos, cui era allora affidato il restauro della cappella del Golgota nella chiesa del Santo Sepolcro, la pietra vera e propria era ricoperta da uno strato calcareo di uno spessore che giun-geva fino ai 45 centimetri, costituito da detriti, materiali edili e intonaco. Gli esperti sono ancora in dubbio se ciò fosse opera degli architetti di Adriano, che intendevano predisporre la roc-cia per la costruzione del tempio, o se l'intonaco risalga al VII secolo e servisse allo scopo di preservare la Sacra Roccia dagli interventi dei cacciatori di reliquie. Quando gli incaricati del re-stauro ebbero rimosso lo strato calcareo e messo a nudo la roc-cia, fecero una stupefacente scoperta: sulla sua sommità rin-

10 Ibid., pp. 366s.

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vennero un anello, scolpito nella roccia, di 11,5 centimetri di dia-metro. Serviva a fissare là croce al suo basamento in pietra? Gli esperti calcolarono che poteva sorreggere un palo alto fino a 2,5 metri. È quanto meno possibile che l'anello scavato nella roccia fosse utilizzato anche in occasione dell'esecuzione di Gesù; il ri-trovamento dimostra in ogni caso che proprio su quella roccia ebbero luogo delle crocifissioni. Va invece esclusa una falsifi-cazione cristiana: non una sola fonte, non un pellegrino di quel-li che resero omaggio alla chiesa del Santo Sepolcro e descris-sero le reliquie lì conservate, ha mai fatto cenno all'anello di so-stegno. Tutto depone quindi a favore del fatto che la roccia che si trova nell'area della chiesa del Santo Sepocro sia effettiva-mente il Golgota dei Vangeli11.

11 C.P.Thiede, Heritage ofthe First.., op. cit, pp. 139s.; A. Lapple, Der andere Jesus, Augsburg 1997, pp. 314s.

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Allo stesso modo, non ci sono elementi che confutino l'iden-tificazione del sepolcro vuoto su cui fu eretto il Foro occiden-tale con il Santo Sepolcro, con il «sepolcro nuovo» che risaliva al I secolo. È certo che proprio in quel luogo, nel I secolo, fu-rono effettivamente scavati dei sepolcri nella parete della vec-chia cava di pietre. Non è accertabile se la cava di pietre ap-partenesse già agli avi di Giuseppe d'Arimatea o se questi aves-se acquistato il terreno per predisporvi un luogo sepolcrale per sé e la sua famiglia. Comunque sia, Matteo definisce espressa-mente la camera sepocrale in cui Gesù fu deposto come «il pro-prio sepolcro, che [Giuseppe d'Arimatea] da poco aveva sca-vato nella roccia» (27,60). Per gli altri evangelisti è invece solo un «sepolcro che era stato tagliato nella roccia» (Me 15,46) o «un sepolcro scavato nella roccia, dove non era stato posto ancora nessuno» (Le 23,53), affermazioni che lasciano impre-giudicata la questione dell'individuazione del proprietario12. So-lo Giovanni si spinge oltre, descrivendo «un giardino e nel giar-dino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora de-posto» (19,41). Evidentemente il proprietario aveva fatto rinverdire l'area posta tra la sommità del Golgota e il pendio del «campo degli assiri».

Che nell 'area della ex cava di pietre si t rovassero altri giar-dini - forse anche attorno ai luoghi sepolcrali - è attestato già dal nome della «porta del Giardino» asmonea. Non sappiamo se anche lo stesso colle del Calvario facesse parte dell'appezza-mento di Giuseppe e se fosse una consapevole provocazione nei suoi confronti far eseguire la crocifissione proprio laggiù. Luo-ghi fissi e prestabiliti per le esecuzioni esistevano anche tra i ro-mani, e probabilmente il Golgota fu scelto perché non poteva passare inosservato: la collina si trovava nelle vicinanze della città, proprio di fronte alla porta di Efraim, lungo la strada che conduceva a Cesarea, e sovrastava tutto ciò che stava attorno.

12 È naturalmente possibile che Matteo fosse vittima di deduzioni erronee. Forse Giu-seppe d'Arimatea acquistò il nuovo sepolcro appositamente per la sepoltura di Gesù o chiese al proprietario, membro sicuramente di un'altra famiglia benestante di Gerusa-lemme, l'autorizzazione a utilizzarla fino allo scadere di shabbath.

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Poiché è impensabile che un ricco membro del Consiglio si sce-gliesse per erigere il proprio sepolcro proprio il terreno retro-stante il luogo delle esecuzioni capitali, dobbiamo supporre che questo terreno gli appartenesse già prima dell'inizio dell'occu-pazione romana, prima dunque del 6 d.C.

Il «giardino» di Giuseppe d'Arimatea aveva una larghezza di circa 40 metri ed era delimitato a ovest dalla parete rocciosa a strapiombo della cava di pietre, in cui erano stati scavati due se-polcri: un sepolcro individuale, composto soltanto da un'anti-camera e dalla camera sepolcrale con la tomba a trogolo, e una struttura sepolcrale dotata di tre cosiddetti «cunicoli a scorri-mento», due dei quali sono oggi ancora intatti. Un'altra strut-tura sepolcrale è stata rinvenuta nel 1885, nel corso dei lavori di costruzione di una cisterna all'interno del recinto del monaste-ro copto, proprio presso il margine settentrionale della chiesa del Santo Sepolcro. Era composta da due camere sepolcrali, una più ampia (metri 4 x 2) e una più piccola, che contenevano in totale cinque vasche o casse di pietra13. Il rinvenimento attesta che Giuseppe d'Arimatea non fu l'unico ad acquistare una par-te dell'ex cava di pietre per predisporvi la tomba di famiglia. Do-veva trattarsi di un'autentica piccola necropoli, di un'area in cui le r i c c h e famiglie di Gerusalemme seppeUivano i loro defunti. Che i romani proprio qui facessero svolgere le esecuzioni ca-pitali, rivela tutto il loro disprezzo nei confronti di coloro che avevano sottomesso.

«Com'è usanza per gli ebrei»

Le strutture sepolcrali private di dimensioni estese erano un privilegio delle famiglie ricche. Solo loro potevano permettersi di far scavare nella roccia camere sepolcrali per i defunti, che venivano spesso ampliate fino ad assumere la configurazione di vaste cripte di famiglia. I sepolcri più maestosi conservati fino a

13 W. Bòsen, op. cit., p. 338; G. Kroll, op. cit., p. 376.

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oggi sono i luoghi sepolcrali di tre famiglie sacerdotali di Geru-salemme, che risalgono all'epoca degli Asmonei (I secolo a.C.) e sono situati all'estremità orientale della valle del Cedron: si tratta di autentici mausolei in stile ellenistico che attestano an-cor oggi la potenza e la ricchezza di chi li aveva commissiona-ti. Le famiglie nobili più legate alla tradizione prediligevano in-vece cripte scavate nella roccia, simili a quelle che i re di Israe-le si erano fatti predisporre fin dall'VIII secolo a.C. Alcune di queste strutture funerarie comprendevano fino a sette camere sepolcrali, il che dimostra che venivano continuamente amplia-te. Per motivi di spazio i sepolcri venivano riutilizzati di conti-nuo, e i vecchi sepolcri erano nella roccia servivano alle fami-glie meno abbienti come sepoltura di massa. Nel I secolo, il mo-dello tipico di sepolcro ebraico scavato nella roccia comprendeva di regola un'ampia anticamera con vasche sepolcrali - per lo più arcosoli sormontati da volta semicircolare (sepolcri ad arco a tutto sesto) - dalle quali si dipartivano corridoi che conduceva-no a pozzetti, i «cunicoli a scorrimento». Quando le vasche se-polcrali occorrevano per una nuova sepoltura, si trasferivano i resti degli avi in uno di questi cunicoli, le «camere per le ossa», conformemente alla formula biblica: «Fu riunito ai suoi padri». In epoca asmonea, erodiana e romana, li si seppelliva anche nei cosiddetti ossari, per lo più cassette in pietra destinati a conte-nere le ossa e su cui spesso si riportava il nome del defunto (o dei defunti, perché anche gli ossari venivano più volte riutiliz-zati). Anche in questo caso l'intento era quello di economizza-re lo spazio. Un cunicolo, in cui prima trovava posto un solo ca-davere, poteva ospitare dai sei agli otto ossari. Solo i più ricchi potevano permettersi di realizzare sepolcri maestosi con corti alberate. Gli accessi erano scavati ad arte nella roccia e spesso riccamente adornati. Gli ingressi erano per lo più bassi e sigil-lati da una massiccia porta in legno, da un masso o da una lastra di pietra solitamente di forma circolare, per impedire agli ani-mali selvatici che si aggiravano nelle vicinanze di penetrare nei sepolcri e dilaniare i cadaveri. Chi veniva a piangere i mor-

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ti doveva chinarsi per entrare nel sepolcro e poi scendere alcu-ni gradini. Solo nell'anticamera poteva stare eretto.

Un sepolcro di questo genere, scavato nella roccia e di mo-dello tipicamente ebraico, è quello descritto dai Vangeli, e fu ri-portato alla luce nel corso degli scavi promossi da Costantino. Era una «tomba nuova», quindi non ancora ampliata, predi-sposta per una sola persona, senza pozzetti per le ossa e came-re laterali, dotata unicamente di un'anticamera per coloro che piangevano i morti e di una camera sepolcrale in cui era collo-cata una vasca sepolcrale a trogolo sovrastata da un arco a tut-to sesto. In questo sepolcro Giuseppe d'Arimatea aveva depo-sto il corpo di Gesù, dopo averlo fasciato, secondo il costume ebraico, e avvolto in un grande telo di lino, finemente tessuto e perciò costoso, che aveva precedentemente acquistato a Ge-rusalemme. Il telo era probabilmente cosparso di aloe e mirra per impedire la rapida decomposizione del cadavere, obiettivo importante visto che non c'era stato il tempo di ungerlo. Sol-tanto due giorni dopo, trascorso lo shabbath, le donne si sareb-bero messe in cammino per recarsi alla tomba e ungere il cor-po con aromi. Ma a questo punto, come narrano i Vangeli, la pe-sante pietra che era stata fatta rotolare davanti al sepolcro a protezione del corpo non era più al suo posto. L'ingresso era aperto e il sepolcro vuoto.

La maledizione della croce

Che a Giuseppe d'Arimatea fosse consentito di dare sepol-tura al cadavere di un uomo morto sulla croce, sarebbe stato impossibile in qualsiasi altra parte dell'impero romano. Di so-lito le vittime di questa crudele esecuzione capitale venivano lasciate sul patibolo come preda per gli avvoltoi. «Carogna» era un insulto abitualmente rivolto, attorno alla metà del I secolo, alle vittime della crocifissione14. «Il crocifisso nutre molti uc-

14 Petronio, Satyricon, 126,9.

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celli», constata cinicamente l'interprete di sogni Artemidoro15. Svetonio riferisce che, quando il congiunto di un condannato alla crocifissione si rivolse all'imperatore Augusto e «lo sup-plicò in ginocchio di concedere una degna sepoltura, [questi ri-spose] che rimetteva ogni decisione a riguardo alla volontà de-gli uccelli»16. Tiberio fece gettare nel Tevere i cadaveri dei con-dannati a morte, tra cui quelli di donne e bambini17. Come apprendiamo da Filone, il governatore romano Fiacco, con-temporaneo di Pilato, in occasione della persecuzione antie-braica che si scatenò ad Alessandria nel 38 d.C., proibì che venissero deposti i cadaveri di coloro che erano morti suUa cro-ce18. Per impedire che questi cadaveri venissero sepolti, ordinò che fossero sorvegliati da guardie19. Ma, come si diceva, in Giu-dea la situazione era diversa. I romani avevano accordato agli ebrei libertà religiosa e di culto e perciò dovevano aver riguar-do degli obblighi di purezza rituale previsti dalle leggi mosai-che, secondo le quali i cadaveri erano «impuri» al massimo gra-do. Il Deuteronomio (la «seconda legge») lo prescriveva a chia-re lettere: «Quando un uomo ha commesso un peccato che merita la pena capitale, è stato messo a morte e tu l'hai appe-so a un albero, il suo cadavere non passi la notte sull'albero; lo devi seppellire in quello stesso giorno» (Dt 21,22-23). Giu-seppe d 'Ar imatea , far iseo e membro del Sinedrio, non poteva non conoscere questa legge e può averla citata dinanzi al go-vernatore quando «si fece coraggio, entrò da Pilato e gli chie-se il corpo di Gesù» (Me 15,43), e perciò «Pilato ordinò che gli fosse consegnato» (Mt 27,58).

Questo in Giudea era del tutto abituale. Giuseppe Flavio, nel-la sua Storia della guerra giudaica, cita espressamente il fatto che «i giudei si danno tanta cura di seppellire i morti, che fi-

15 Artemidoro, Il libro dei sogni, II, 53, IV 49. 16 Svetonio, Vita dei Cesari, Augusto 13. 17 Ibid., Tiberio 61,62,75. 18 Filone, In Flaccum, 84. 19 Petronio Arbitro narra in Satyricon, 111, 112 di un soldato «che deve sorvegliare

la croce perché nessuno sottragga il cadavere per dargli sepoltura».

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nanche i condannati alla crocifissione vengono deposti e sepol-ti prima del calar del sole»20. Se questo era il costume, a maggior ragione ci si atteneva a queste norme proprio in occasione del-la festa pasquale.

Questo costume locale comportava anche un ulteriore «at-to di grazia», il crurifragium o «rottura delle gambe», riferito-ci da Giovanni: «I giudei, siccome era giorno di Preparazione, perché i corpi non rimanessero sulla croce - quei giorno di sa-bato era infatti solenne - , chiesero a Pilato che spezzassero lo-ro le gambe e venissero rimossi. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe del primo e dell'altro che erano stati cro-cifissi con lui. Venuti da Gesù, siccome lo videro già morto, non gli spezzarono le gambe» (Gv 19,31-33). Fino a poco tempo fa, questo particolare era considerato un'invenzione del quarto evangelista. Giovanni, si dice, sarebbe in primo luogo un teo-logo, non un biografo. Si sarebbe inventato la «rottura delle gambe» per stabilire una connessione con l'Antico Testamen-to, come fa anche successivamente quando scrive: «Questo av-venne infatti affinché si adempisse la Scrittura: "Non gli sarà spezzato alcun osso"» (Gv 19,36). Il passo scritturale citato è con ogni probabilità Es 12,46, in cui si dice dell'agnello pa-squale: «Non gli si spezzerà alcun osso». Giovanni voleva dun-que indicare in questo modo che Gesù, spirato nello stesso istan-te in cui gli agnelli pasquali venivano macellati nel tempio, t il vero agnello pasquale. L'interpretazione teologica è legitti-ma, ma la «rottura delle gambe» era una prassi abituale e ser-viva allo scopo di accelerare la morte del condannato e di li-berarlo quindi dai tormenti. Quanto più il condannato aveva la possibilità di puntellarsi per inspirare aria, tanto più si pro-lungavano i tormenti che preludevano la morte. Spezzare le os-sa, invece, comportava un rapido soffocamento, una morte li-beratrice.

20 Giuseppe Flavio, Bell1 Iud., IV, 5,2.

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Il Crocifisso di Giv'at ha-Mivtar

Esiste un riscontro archeologico di quanto questa prassi fos-se ordinaria nella Gerusalemme del I secolo, proprio come quel-la di dare sepoltura ai condannati alla crocifissione. La prova fu rinvenuta nel giugno 1968, nel corso di scavi archeologici a nord di Gerusalemme. Nel cimitero di Giv'at ha-Mivtar, Nicu Haas dell'Università ebraica di Gerusalemme si imbatté in quattro strutture sepolcrali scavate nella roccia dotate di numerosi cu-nicoli a scorrimento che contenevano ossari. Come dimostrato da alcuni frammenti di ceramica, la costruzione sepolcrale fu utilizzata dall'epoca asmonea fino al 70 d.C. Qui furono sep-pellite 35 persone, cinque delle quali, come hanno stabilito le analisi di ciò che rimaneva delle ossa, non morirono di morte naturale, e una di queste sulla croce. Stando all'iscrizione ri-portata dall'ossario, il Crocifisso si chiamava Jehochanan Ben Haskul, era alto 1,67 metri e morì a un'età compresa tra i 24 e i 28 anni. Era di corporatura piuttosto delicata, evidentemente un intellettuale, forse un pensatore anticonformista o il capo spi-rituale di un movimento di resistenza, o forse un fanatico reli-gioso. Morì all'epoca dell'occupazione romana, in un momento imprecisato tra il 6 e il 65 d.C. La sua vita si concluse con un'au-tentica tragedia familiare, perché con lui fu sepolto un bambi-no di tre o quattro anni, presumibilmente il figlio di Jehocha-nan/Giovanni, assassinato in occasione dell'arresto del padre o condannato a morte con lui.

Nonostante la plateale brutalità con cui si era intervenuti con-tro la famiglia di Giovanni, fu evidentemente permesso ai suoi congiunti di dargli degna sepoltura. Come Gesù, era stato cro-cifisso con chiodi. I suoi talloni erano sovrapposti e trafitti da un chiodo della lunghezza di 12 centimetri e dalla punta incur-vata (ragion per cui non poteva più essere estratto dal legno) e la cui capocchia era conficcata in una tavola di legno di pi-stacchio o d'acacia dello spessore di circa 2 centimetri, mentre sulla punta del chiodo furono rinvenute tracce di legno d'olivo. Probabilmente il listello di legno aveva la funzione di premere

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i piedi trafitti contro il palo della croce e, fissato alla croce con corde, grazie alla sua superficie estesa su cui si distribuiva il pe-so del corpo, impediva al chiodo di staccarsi per via della pres-sione esercitata dal corpo. Giovanni era stato inchiodato alla croce, evidentemente troppo corta, quasi accovacciato, con il coccige probabilmente sorretto da un sedile. Le braccia erano state inchiodate alla trave orizzontale con un chiodo che per il terzo inferiore della sua lunghezza era penetrato tra ulna e ra-dio, come attestato dalle scalfitture riscontrabili sulle ossa. Sul-la superficie del radio sono state riscontrate tracce di logora-mento, causate dalla penetrazione del chiodo e dalle dolorose convulsioni delle braccia. La tibia destra e la tibia e il perone si-nistro presentavano fratture: i carnefici avevano spezzato le gam-be al crocifisso, proprio com'era accaduto ai «ladroni»21.

Il ritrovamento ha confermato ben tre particolari dei Van-geli: l'utilizzo di chiodi per alcune crocifissioni (Gv 20,25); la rot-tura delle gambe (Gv 19,32); la sepoltura dei condannati alla crocifissione (Me 15,46; Mt 27,60; Le 23,53; Gv 19,42).

21 G. Kroll, op. cit., p. 360; G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981, cit., pp. 177-182.

L'osso del calcagno di Jehochanan trafitto da un chiodo.

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Ciò nonostante non si può da questo trarre l'erronea con-clusione che quello di Jehochanan Ben Haskul costituisca l'u-nico modello valido di crocifissione nella Gerusalemme del tem-po di Gesù. Giuseppe Flavio riferisce che, durante l'assedio di Gerusalemme nel 70, fino a 500 persone venivano crocifisse ogni giorno in tutte le pose possibili: «I soldati, v io lentemente esa-cerbati, inchiodavano ora per scherno i prigionieri nelle più diverse posizioni»22. Solo le modalità di svolgimento delle ese-cuzioni rimanevano le stesse: «Così venivano flagellati e, dopo aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano croci-fissi di fronte alle mura»23, quindi in faccia alla città, nella stes-sa direzione verso cui erano rivolte le rocce del Golgota: Gesù dalla croce doveva aver guardato verso il tempio. Mentre Giu-seppe Flavio riferisce di come i condannati venissero inchioda-ti alla croce, la crocifissione tramite corde era ugualmente fre-quente. Secondo Senofonte d'Efeso, vissuto nel II secolo, que-sta modalità di crocifissione era del tutto usuale in Egitto e neUe province circostanti24. Secondo la tradizione cristiana, i due «la-droni» che avevano condiviso il destino di Gesù erano stati cro-cifissi con corde. Ma erano anche stati condotti al luogo del-l'esecuzione legati alla trave orizzontale che stavano traspor-tando. G e s ù , invece, era stato l iberato del patibulum, q u a n d o Simone di Cirene fu costretto a portare la trave in vece sua. Sul-la collina del Golgota, poi, i carnefici optarono, forse per via del-l'ora avanzata, per i chiodi, metodo più doloroso ma anche più rapido. Così si spiega perché Gesù fosse già morto quando Giuseppe d'Arimatea, nel tardo pomeriggio del venerdì, chie-se a Pilato l'autorizzazione a seppellirlo, prima che lo shabbath avesse inizio.

" Cosi recita la traduzione italiana a cui a ai o . vitucd: «spimi UaU'odìo c dai furo-re, i soldati si divertivano a inchiodare i prigionieri in varie posizioni». Nella traduzio-ne tedesca di questo passo di Giuseppe Flavio {Bell. Iud.,V11,1) cui fa riferimento He-semann, il termine per indicare la crocifissione è nageln, «inchiodare» (ndt).

23 Giuseppe Flavio, Bell. Iud., V, 11,1. 24 G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981,cit.,p. 181.

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Prima del sorgere della terza stella...

Secondo la tradizione ebraica, il giorno non ha inizio a mez-zanotte, ma con il calar della notte. L'individuazione di questo istante avveniva a Gerusalemme con particolare precisione, per yia de l l ' impor tanza c h e r i ves t i va ai f in i de l l 'osse rvanza del-

l'obbligo sabbatico. Quando in cielo spuntava la prima stella, era ancora venerdì. Nella Città Santa la sua comparsa era an-nunciata dalle trombe che risuonavano dal tetto del portale di Shabbath del tempio. Quando squillavano, i contadini poneva-no termine alla loro giornata di lavoro nei campi. All'apparire della seconda stella, ci si trovava «tra venerdì e shabbath». An-ch'essa era salutata da uno squillo di trombe, che segnava la chiusura di negozi, botteghe artigiane ed esercizi pubblici. L'ap-parire della terza stella e lo squillo di tromba che lo sanciva si-gnificavano che lo shabbath aveva inizio. I paioli venivano tol-ti dal fuoco, le lampade accese. Il 7 aprile dell'anno 30 il sole calò attorno alle 18.08, la terza stella sorse circa un'ora più tardi25. Secondo unanime indicazione dei Sinottici, Gesù spirò «attor-no alla nona ora» (Me 15,34; Mt 27,46; Le 23,44)26, quindi ver-so le 15. A Giuseppe d'Arimatea e a Nicodemo rimanevano sol-tanto quattro ore per: recarsi in pretorio, da Filato, per chiede-re di poter seppellire il corpo di Gesù; attendere che un legionario incaricato da Pilato controllasse che Gesù fosse già spirato; do-po che questi aveva riferito gli esiti della sua verifica, ricevere l'autorizzazione a procedere con la deposizione dalla croce; acquistare un telo sepolcrale, aloe e mirra; calare il corpo dalla croce; deporlo nel sepolcro e sigillarlo.

La fretta era dunque d'obbligo. Per questo non sono affatto convinto che la crocifissione di Gesù proprio a 40 metri dal se-polcro di un amico sia stato un caso. E fin troppo comodo per esser© vero, specie considerando che G i u s e p p e d ' A r i m a t e a n o n

"Ibid., pp. 243-245. 26 «Alle tre» o «verso le tre», recita la traduzione italiana dei passi neotestamentari

(ndt).

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era mai stato menzionato dai Vangeli prima di questo momen-to. Entrò in scena proprio nel momento in cui c'era bisogno di lui, e disponeva proprio di ciò che, nella fretta, era più urgen-te: un luogo di sepoltura nelle vicinanze della croce. Suggerisco perciò - presupponendo che si trattasse effettivamente del se-polcro di Giuseppe, e non di uno che aveva acquistato o utiliz-zato per l'occasione - una spiegazione alternativa. Mentre in-fatti con Giuseppe d'Arimatea entra in scena uno sconosciuto, con Nicodemo ci imbattiamo in una vecchia conoscenza, al-meno per quanto riguarda il Vangelo di Giovanni: la sua se-greta conversione in occasione della festa di Pasqua del 28 vie-ne descritta nei particolari, insieme con i suoi colloqui nottur-ni con Gesù e con la sua decisa presa di posizione a suo favore presso i farisei. Sapeva per certo che Giuseppe d'Arimatea, an-ch'egli membro del Sinedrio e appartenente alla sua stessa fa-zione, si stava costruendo un sepolcro nelle immediate vicinan-ze del luogo delle esecuzioni. Quando Giuseppe votò contro la condanna di Gesù, capì di poter avere in lui un alleato27. E quindi potrebbe avergli chiesto di mettergli a disposizione que-sto nuovo sepolcro per breve tempo e per via della fretta ob-bligata, così da seppellirvi Gesù almeno fino allo scadere dello shabbath. È evidente che Giuseppe si dichiarò spontaneamen-te d'accordo e fu persino disponibile a recarsi da Pilato - si trat-tava pur sempre del suo sepolcro - mentre Nicodemo acquista-va aromi per un piccolo capitale, «una mistura di mirra ed aloe di circa cento libbre», quindi ben 32 chilogrammi, che furono probabilmente trascinati dai suoi servitori fino al luogo di se-poltura dentro a dei sacchi. «Com'è usanza per i giudei», come avveniva nelle catacombe ebraiche di Roma o nelle necropoli del Levante, profumi aromatici e sale furono predisposti sulla superficie di pietra del sepolcro. Su questo strato di oli aroma-tici si dispiegò la prima metà del lungo telo sepolcrale, su cui fu

27 Che Giuseppe d'Arimatea non si confessasse apertamente seguace di Gesù, è un fatto menzionato da Giovanni (19,38): «era discepolo di Gesù, ma di nascosto per ti-more dei giudei».

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disteso il corpo nudo, fasciato del Crocifisso. Poi si ripiegò la se-conda metà del telo e lo si dispiegò sul corpo a partire dal capo, fino a coprirlo interamente. Anche re Asa di Giuda fu sepolto allo stesso modo nelT874 a.C.: «lo seppellirono nel sepolcro che egli si era fatto scavare... Fu deposto sopra un letto pieno di aro-mi e ogni sorta di profumi preparati secondo l'arte della profu-meria» (2Cr 16,14).

Colloqui presso il sepolcro

Evidentemente Nicodemo era un uomo modesto, che non si vantò mai del ruolo svolto in occasione della sepoltura di Gesù. Così è solo Giovanni a citarlo, mentre i Sinottici paiono cono-scere solamente il proprietario del sepolcro, Giuseppe d'Ari-matea. Tacciono pure l'incontro segreto tra Nicodemo e Gesù. Per quale ragione? La mia teoria è che Giovanni, già presente ai piedi della croce, assistette come testimone oculare anche al-la sepoltura. Solo così si può spiegare la sua descrizione, tanto particolareggiata da spingersi fino a indicare con precisione il peso della mistura di aloe e mirra; questo particolare può aver-lo appreso solo da Nicodemo. Possiamo supporre che il fariseo, in quella triste notte, gli narrasse la propria storia: dall'incontro segreto con Gesù fino alla presa di posizione in suo favore pres-so i membri della sua stessa fazione, e certamente anche i dettà-gli dell'interrogatorio di Gesù davanti ai sommi sacerdoti. Chiun-que abbia, almeno una volta in vita sua, preso parte a una ceri-monia funebre, sa bene quanti amici e congiunti in un'occasione come questa sentano l'esigenza di passare in rassegna ancora una volta la loro vita e i loro incontri con il defunto.

D sepolcro scavato nella roccia

Tutte queste immagini della sepoltura di Gesù dovevano es-sere passate per la testa di coloro che avevano partecipato agli

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scavi promossi da Costantino, quando si trovarono al cospetto del più venerabile di tutti i sepolcri. Purtroppo non ci è perve-nuta alcuna descrizione coeva. Solo 250 anni più tardi un ano-nimo pellegrino di Piacenza lo descrisse in questi termini: «Poi-ché il monumento funerario è stato scavato nella roccia natura-le, anche la tomba a trogolo è stata ricavata dalla stessa roccia in cui ha riposato il corpo del Signore ... La pietra con cui era stato sigillato il sepolcro sta dinanzi all'imboccatura del monu-mento funebre, ma il suo colore è quello della roccia perché è stato scavato nella roccia del Golgota»23. Un pellegrino prove-niente dalla Francia, di nome Arculfo, completò la descrizione un secolo più tardi: nel sepolcro c'era «un unico scomparto che si estendeva dal lato della testa fino a quello dei piedi senza sud-divisioni c che poteva accogliere una persona che giaceva supi-na. È simile a una cavità la cui imboccatura si affaccia sulla par-te meridionale della copertura, e ha una bassa copertura»29.

Un rinvenimento sorprendente

Quando, nella tarda estate del 325, l'imperatore Costantino apprese del rinvenimento del Santo Sepolcro da parte della de-legazione da lui inviata, non esitò. Ora poteva realizzare il suo progetto di edificare a Gesù, nel luogo della sua morte e risur-rezione, un monumento, un degno mausoleo e una basilica. Ma evidentemente non era stato scoperto solamente il sepolcro di Gesù: un altro sorprendente reperto era stato rinvenuto, ca-pace di suscitare addirittura l'entusiasmo dell'imperatore, per-ché si trattava proprio del segno nel cui nome aveva vinto. Tro-viamo appena un accenno a questo rinvenimento nella lettera indirizzata al vescovo Macario che l'imperatore dettò quello stes-so giorno e il cui tenore c'è stato tramandato da Eusebio:

«Il Vincitore Costantino Massimo Augusto a Macario.

28 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 387. 29 Cit. da A. Millard, Die Zeit der ersten Christen, GieBen 1994, p. 135.

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Così grande è la grazia elargita dal nostro Salvatore, che nes-sun discorso, per quanto ampio ed esteso, risulterebbe adegua-to a illustrare il miracolo appena verificatosi. Infatti, che il mo-numento della santissima Passione di Cristo, da molto tempo celato sotto terra, dopo aver fatto perdere le sue tracce per un lunghissimo periodo di anni, sia tornato a risplendere al cospetto dei suoi servi, finalmente liberi grazie alla eliminazione del ne-mico a tutti comune» - qui per "nemico" intende il suo ex co-reggente Licinio, condannato a morte da Costantino all'inizio del 325 - «è avvenimento che supera senz'altro qualsiasi possi-bile stupore. Se anche tutti quanti al mondo hanno fama di dot-ti si riunissero in un unico e medesimo luogo con l'intento di pronunciare un discorso all'altezza dell'accaduto, non potreb-bero avvicinarsi neppure pochissimo a queUa mèta. J.a f ede in questo miracolo di tanto sopravanza la capacità naturale del-l'umano intelletto, di quanto il divino risulta superiore all'u-mano. Perciò il mio primo e unico obiettivo è sempre quello di far sì che parallelamente al modo in cui la vera fede si rivela ogni giorno con sempre più nuovi miracoli, così anche le anime di noi tutti... dimostrino sempre più zelo nella osservanza della santa legge. È pertanto mio desiderio persuaderai] soprattutto di ciò che io penso risulti a tutti evidente, e cioè che la cosa che più di ogni altra mi sta a cuore è l'impegno che noi dobbiamo prodi-gare nell'adornare con magnifici edifici quel santo luogo che per ordine divino io ho liberato dal peso turpissimo di un idolo che lo sovrastava alla stessa stregua di un gravoso fardello, luogo che fin dal principio fu sacro per volere di Dio, e che è divenu-to ancora più sacro da quando ha portato alla luce la testimo-nianza della passione salvifica.

E bene , dunque, che la tua soUecitudìxve disponga e. provveda alle singole necessità che l 'opera richiede in modo tale che non solo la basilica, ma anche le restanti parti della fabbrica, ri-sultino di gran lunga più splendide se paragonate ai medesimi edifici esistenti in ogni altro luogo della terra: lo scopo che in-fatti ci proponiamo è che codesta costruzione vinca il confron-to con tutti i più begli edifici di ogni altra città. Sappi che noi ab-

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biamo affidato al nostro amico Dracilliano, che ricopre la cari-ca illustrissima di prefetto, e al governatore della provincia il compito di curare che la fondazione delle pareti venga eseguita in modo perfetto. La mia pia religiosità ha infatti ordinato che costoro debbano sùbito provvedere a inviare artigiani, operai e tutto quanto sarà necessario alla costruzione, non appena ne abbiano ricevuto richiesta dalla tua sollecitudine. Per quanto ri-guarda le colonne e i marmi, dopo che li avrai esaminati di per-sona, sarà tuo pensiero scriverci quali a parer tuo siano i migliori e i più preziosi. In questo modo, quando attraverso la tua let-tera conosceremo la quantità e la qualità dei materiali di cui v'è bisogno, sarà possibile spedirteli da ogni parte: è giusto che il luogo più straordinario e meraviglioso che esista al mondo ven-ga adornato così come esso merita»30.

In che cosa consisteva questo «monumento della santissima passione di Cristo»? Certamente non nel Santo Sepolcro. Co-stantino parlava di un reperto del tutto sorprendente, addirit-tura di «miracolo», mentre la posizione in cui si riteneva si tro-vasse il sepolcro di Gesù era tramandata da secoli e si era pro-ceduto agli scavi in maniera mirata. Questo nuovo rinvenimento spinse il sepolcro vuoto piuttosto in secondo piano, come ap-prendiamo dalle espressioni entusiastiche dell'imperatore. Que-sto consente di trarre un'unica conclusione: la «testimonianza della passione salvifica» doveva essere proprio la croce di Ge-sù, quel segno nel cui nome Costantino aveva vinto e che così assumeva per lui un significato comprensibilmente ben più gran-de del «monumento alla risurrezione», il Santo Sepolcro. De-dicheremo il prossimo capitolo alle circostanze di questo «mi-racolo che di tanto sopravanza la capacità naturale dell'umano intelletto». In ogni caso l'entusiasmo dell'imperatore per il suo progetto non aveva più limiti, e niente di meno del massimo po-teva bastare a rendere onore alla croce che ora gli era apparsa, in un certo senso, una seconda volta.

Il vescovo Macario fu quindi incaricato della sorveglianza del-

30 Eusebio, Vit Const, III, 30-32.

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l'edificio, mentre a uno dei più famosi architetti dell'epoca, il si-riaco Zenobio, fu commissionata la progettazione del mausoleo di Gesù e di una basilica monumentale nel luogo del rinveni-mento della croce. Esistono buoni motivi perché questo spe-cialista imperiale di architettura monumentale non sia nemme-no citato da Eusebio, dato che per secoli si attirò l'ira dei cri-stiani. Adempì scrupolosamente il suo incarico di erigere un degno monumento funebre sul modello dei mausolei imperiali romani. La sua rotonda divenne un caposaldo architettonico del secolo capace di dare l'impronta all'architettura cristiana fino al classicismo. Divenne l'archetipo della chiesa a pianta circolare. Questo per il cristianesimo era qualcosa di estremamente inno-vativo: le chiese dei cristiani dell'epoca precedente a Costanti-no erano prevalentemente cappelle private, situate nelle abita-zioni di membri benestanti delle comunità, o case private, affit-tate, acquistate o ricevute in dono dalla Chiesa. A Roma ancora oggi 25 chiese titolari testimoniano della loro origine come luo-ghi di culto precostantiniani, per lo più contrassegnati dai no-mi degli originari proprietari delle case in cui si trovavano, co-me titulus Clementis, Anastasiae, Caeciliae, Chrysogoni, Puden-tis. Queste case - comuni abitazioni, insulae o case padronali minori - ospitavano il servìzio religioso, il battesimo, la catechesi, le attività di beneficenza, l'amministrazione e fungevano anche da abitazioni per il clero. Quando si giunse alla tolleranza reli-giosa, si edificarono anche semplici edifici a mo' di granai ri-servati al servizio religioso. Uno di questi era la prima chiesa di San Crisogono, le cui mura si trovano oggi accanto alla chiesa medievale a Trastevere nei pressi di ponte Garibaldi31.

Le prime, chiese

Una delle chiese romane più gravide di storia scaturite da una «cappella privata» della comunità delle origini è la basilica di

31 R. Krautheimer, Rom. Schicksal einer Stadi 312-1308, Munchen 1996, pp. 28s.

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Santa Pudenziana a Roma, chiesa titolare dell'arcivescovo di Colonia, il cardinale Joachim Meisner. Fu eretta sopra l'abita-zione del senatore Pudente, della potente famiglia degli Acilii Glabriones, e la tradizione vuole che Pietro vi abbia celebrato l'Eucaristia. Pudente, la cui villa si trovava nel vicus patricius, in una zona distinta della città, è espressamente citato nella Se-conda lettera a Timoteo (4,21), redatta a Roma nel 60 o nel 61 d.C. Resti di una lussuosa abitazione privata, risalenti al perio-do tra il I oceolo a.C. c il I secolo d.C., fu rono riportati alla lu-ce nel 1894 al di sotto della chiesa. Regnante l'imperatore Adria-no, furono edificati dei bagni pubblici (terme) al di sopra della villa patrizia, che evidentemente nel frattempo era stata confi-scata. Non è chiaro se la confisca sia avvenuta durante le per-secuzioni anticristiane vo lute da Nerone o nel corso di quelle ordinate da Domiziano, ma la vicenda ricorda un poco la «pro-fanazione» del sepolcro di Gesù a Gerusalemme. Tuttavia, già nel 145 Pio I, vescovo di Roma, deve aver consacrato «accanto alle terme» una «chiesa», cioè un luogo di culto in memoria del-la cappella domestica di Pudente, la Pudentiana. La sua storia successiva è avvolta nel mistero. Solo dall'anno 384 è docu-mentata l'esistenza di una chiesa de Pudentiana con la presen-za di clero organizzato32. Un reperto rinvenuto a Ercolano, cit-tadina sepolta nel 79 d.C., come la vicina Pompei, sotto una piog-gia di cenere del Vesuvio e dalla successiva ondata di fango vulcanico, ci r ivela fo rse come poteva presentarsi un luogo di culto paleocristiano. Evidentemente, fin dai tempi più remoti c'erano a Ercolano dei cristiani. Quando Paolo, all'inizio del 61 d.C., nel corso del suo primo viaggio da prigioniero, sbarcò a Pozzuoli, a 20 chilometri a ovest di Ercolano, il comandante ro-mano Giulio gli permise di «rimanere con [alcuni fratelli] sette giorni» (At 28,14). Questo ci consente di intuire quanto il cri-stianesimo si fosse già diffuso in tutta Italia ad appena 19 anni dal primo viaggio di Pietro a Roma. Che anche a Pompei vi-

31 Sankl Pudentiana, Rom (a cura dell 'Ufficio stampa dell'arcivescovado di Colonia) , Kòln 1994.

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vesserò dei cristiani è attestato da un graffito rinvenuto su una parete dell'atrio nella casa n. 22, in cui si dice BOVTUS AUDIT CHRISTIANOS, «Bovius presta ascolto ai cristiani». Nel 1938 a Ercolano, nei pressi del decumanus maximus, fu riportata al-la luce una villa, al primo piano della quale, in una stanza arre-data per il resto volutamente in maniera modesta, si ritrovaro-no, impressi nell'intonaco di una parete, i contorni di una croce. Evidentemente là, entro un riquadro di forma rettangolare ri-coperto di stucco, e ra stata incastonata una vo l ta una croce di legno di 43 centimetri di altezza. Persino i fori mediante cui fu appesa sono ancora ben riconoscibili. Dinanzi alla croce c'era una specie di piccolo armadio in legno con alzata, probabilmente un altare. Quando scoppiò la catastrofe, qualcuno strappò la cro-ce di legno dalla parete, forse per porla in salvo, forse per strin-gerla a sé nell'istante della morte33. Così modesti erano stati gli inizi, fino a che Costantino, con la basilica Laterana, fece eri-gere la prima grande chiesa cristiana. Già il concetto di basili-ca («vestibolo reale») ci rivela come, a fungere da modello ar-chitettonico, fossero i saloni delle udienze imperiali. Successi-vamente completata con uno o più campanili, la basilica a tre navate rappresenta una tipologia di chiesa tra le più diffuse an-cor oggi. Ma Zenobio volle contrapporre a questo modello una propria creazione: la prima chiesa sormontata da cupola, che aveva come modello i mausolei imperiali di Augusto e Adriano - l 'attuale Caste l S a n t ' A n g e l o — a R o m a , ma in part icolare il Pantheon romano, il capolavoro architettonico dell'imperato-re Adriano. Il Pantheon è una delle costruzioni più affascinan-ti della storia. In quanto «tempio di tutti gli dèi», il più grande edificio a cupola del mondo doveva rappresentare la volta ce-leste e l'armonia del cosmo. Il diametro della cupola misura 43,30 metri (esattamente come l'altezza dal pavimento), una dimen-sione non raggiunta nemmeno dalla cupola della basilica di San Pietro, che ha un'ampiezza di «soli» 42,56 m. La cupola del Pantheon è composta di un unico blocco, privo di rinforzi, ot-

w G. Kroll, op. cit., pp. 367s.

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tenuto versando un getto di conglomerato in una centina di le-gno. Al vertice si trova un'apertura circolare del diametro di 9 metri, che conferisce all'edificio la funzione di potente orologio solare. Verso l'occhio convergono cinque ordini concentrici di cassettoni, che vanno man mano restringendosi e hanno lo sco-po di alleggerire il peso della struttura.

Evidentemente questo edificio aveva affascinato Zenobio o il suo committente Costantino, e in ogni caso funse da modello per il mausoleo a Cristo. La cupola dcWAnastasis di Gerusa-lemme, la chiesa della Risurrezione, come fu battezzata, con il suo diametro di 38 metri, era solo di poco più piccola del suo modello romano, e come questo era aperta verso il cielo. Al cen-tro stava la più preziosa di tutte le reliquie, il sepolcro vuoto, o almeno ciò che era stato risparmiato da Zenobio.

II sacrilegio di Zenobio

Infatti, per realizzare il suo progetto di costruzione di un edi-ficio davvero sontuoso e monumentale, Zenobio commise un sacrilegio imperdonabile: fece smanteUare dai suoi scalpellini la maggior parte del sepolcro di Gesù. La parete rocciosa in cui era stata scavata la camera sepolcrale, l'ingresso e l'anticame-ra caddero vittima delle ardite concezioni dell'architetto. Ciò che rimase era un nucleo accuratamente ridimensionato, com-prendente la camera sepolcrale vera e propria con la tomba a trogolo, ora adornata «con colonne di gran pregio e con sommo sfarzo»34. Le colonne ad arco, collegate da grate d'argento, sor-reggevano travi dorate, sulle quali poggiava una copertura d'ar-gento, di forma piramidale, con in cima una croce. Nacque così il cosiddetto cibolum, un prezioso padiglione ornamentale che sormontava la reliquia del sepolcro, Yaedicula o «piccola ca-sa»: «Faceva uno strano effetto vedere questa roccia svettare iso-lata nel bel mezzo di un'ampia superficie ma ospitare un'unica

34 Eusebio, Vit. Const., Ili, 34.

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cavità», lamentava Eusebio più tardi35. «Perché prima che il mo-numento sepolcrale assumesse questa conformazione, davanti alla roccia stava una parte prospiciente il sepolcro, com'è qui costume che sia per gli ingressi sepolcrali... Ma oggi non è ri-masto più nulla di questa parte perché allora fu rimossa per far posto ai fregi attuali», rievocava malinconicamente uno dei suc-cessori di Macario, il vescovo Cirillo di Gerusalemme in una sua omelia catechetica divenuta famosa e risalente al 348 d.C.36. So-lo non disponendo di termini di confronto, si poteva ammirare la costruzione. «La roccia stessa è adornata d'oro e di pietre pre-ziose, e la roccia del monumento sepolcrale» - la roccia che ne sigillava l'ingresso, allora ancora conservata - «è simile a una macina da mulino. Vi sono innumerevoli oggetti ornamentali. Da aste di ferro pendono bracciali, fibbie, collane, anelli, orna-menti per il capo, cinture, guaine, corone imperiali d'oro e pie-tre preziose e ornamenti delle imperatrici. Il monumento se-polcrale è sovrastato da una specie di piramide d'argento che poggia su travi dorate. Davanti al monumento sepolcrale c'è un altare», ricordava con stupore misto ad ammirazione l'anonimo pellegrino di Piacenza che visitò Gerusalemme attorno al 57037.

L'idea di Zenobio di un reliquiario sepolcrale cinto da colonne e sormontato da una piramide - Vaedicula, appunto - , sopra il quale si elevava una cupola, fece storia. Persino la basilica di San Pietro, con la tomba del santo sovrastata dall'altare papale, ri-prende quest'idea. Quanto le concezioni architettoniche di Ze-nobio dovessero diventare popolari e rivoluzionarie, apparve chiaro poco tempo dopo la progettazione della chiesa del San-to Sepolcro. Anche il monumento sepolcrale imperiale di Co-stantino, che ospitò le spoglie della madre Elena, e il mausoleo delle figlie di Costantino Costanza ed Elena, a Roma, seguiro-no questo modello persino nel combinarsi con una basilica, co-me pure il battistero della basilica Laterana e la chiesa roma-

33 Eusebio, De theophania, Framm. Ili, 30. 36 Cai XIV, 9. 37 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 387.

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na a pianta circolare di Santo Stefano Rotondo, che papa Sim-plicio (468-483) fece erigere su modello della chiesa della Ri-surrezione, nonché naturalmente la costantiniana chiesa degli Apostoli a Costantinopoli.

Ma il corpo principale della costruzione era la basilica a tre navate, che Zenobio fece edificare proprio di fronte aìYAnasta-sis. Fu chiamato Martyrion perché doveva rievocare la passio-ne di Gesù e il rinvenimento della croce. Eusebio lo descrisse entusiasticamente come un'«opera veramente straordinaria che si innalzava fino a raggiungere un'altezza vertiginosa, e che si estendeva a dismisura tanto in lunghezza quanto in larghezza: l'interno era rivestito con piastre di marmo policromo, mentre la superficie esterna delle pareti, resa splendente da una pietra levigata, ben connessa in ogni sua giuntura, presentava uno spet-tacolo straordinario a vedersi, per nulla inferiore al colpo d'oc-chio che offre la bellezza del marmo. In alto, sulla volta dell'e-dificio, il tetto estemo era ricoperto di piombo, riparo sicuro con-tro le piogge invernali. Nell'interno, il soffitto era stato intera-mente intagliato a cassettoni: aUa stessa stregua di una grande distesa di mare si dilatava senza soluzione di continuità ad ab-bracciare tutta la basilica con il giuoco dei suoi reciproci intrecci;

Dat sepolcro nella roccia 'acdicula (acconcio Kroll 1933). A: il sepolcro cori (2) l'ac-cesso, (2) la pietra ostruente, (3) l'anticamera con le panche sepolcrali, (4) la camera sepolcrale e (5) il sepolcro a vasca sormontato da un arco. B: il «dissotterramento» del-la camera sepolcrale ad opera di Zenobio. C: il monumento sepolcrale protetto da una serie di piccole colonne nell'ampia rotonda cte//'Anastasis costantiniana. D: l'aedicula w

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era stato inoltre completamente ricoperto d'oro splendente, e questo faceva sì che tutto il tempio scintillasse come pei raggi della luce»38. Lungo le pareti laterali si allineava una doppia fi-la di massicce colonne marmoree riccamente adornate. L'absi-de della basilica a cinque navate, che si affacciava sul Santo Sepolcro, era cinta da dodici colonne - tante quanti gli aposto-li - , i cui capitelli recavano «l'ornamento di un grandissimo cra-tere d'argento, splendida offerta votiva di cui l'imperatore in persona volle far dono al suo Dio»39. Da est, dal cardo maximus, si faceva ingresso nell'edificio attraverso la porta a tre aditi del Foro occidentale di Adriano, che fu lasciata intatta e un arco del-l a q u a l e è c o n s e r v a t o a n c o r a o g g i a l l ' i n t e r n o d e U a c h i e s a r u s s a

di Alessandro. Conduceva in un atrio, in un cortile interno, da cui si accedeva a uno dei tre ingressi della basilica. Un altro atrio separava la basilica dalla rotonda dell'Anastasis. Nel suo estre-mo angolo sudorientale si trovava, a cielo aperto, il moncone della collina di Golgota. Ma già questo indica che il Martyrion non fu eretto effettivamente nel luogo della crocifissione, ma nelle sue immediate vicinanze, nel luogo del rinvenimento del-la croce (vedi illustrazione a colori IV).

D piccolo colle del Golgota

Secondo i resoconti dei pellegrini risalenti ai secoli successi-vi, il montìculus Golgothae, il «piccolo colle del Golgota»40, era una roccia che sovrastava di poco l'altezza di un uomo e alla cui cima conduceva una serie di scalini41. Sulla vetta si levava una

38 Eusebio, Vii Const, III, 36. 39 Ibid, III, 38. 40 Così lo descrisse il «pellegrino di Bordeaux» nell'anno 333, che poi completa in

questo modo la descrizione: «Da lì la cavità in cui il suo corpo fu sepolto e da cui risorse il terzo giorno è a un tiro di pietra. Proprio 11 è stata da poco eretta una basilica per ordine de l l ' imperatore Costant ino» (cit. da G. Kroll, Op. cit., p. 379) .

41 Questa è invece la descrizione di Eucherio, vescovo di Lione, che cosi scrive at-torno al 440: «UAnastasis sorge nel luogo della risurrezione; il Golgota, invece, che si trova tra l'Anasrasis e il Martyrion, è il luogo dove il Signore patì e dove si vede il bloc-co di roccia che portò un giorno la croce con il corpo del Signore» (cit. da G. Kroll, op. cil, p. 381).

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croce massiccia, adornata d'oro e di pietre preziose, fatta col-locare attorno al 385 dall'imperatore romano Teodosio al posto della croce dì Gesù. Una fenditura che si apriva sul lato della roccia di pietra calcarea, visibile ancor oggi, fu attribuita al ter-remoto che squassò la terra nell'istante della morte di Gesù, ci-tato nel Vangelo di Matteo: «La terra tremò e le rocce si spac-carono» (27,51). «Questo santo Golgota, che qui ci sovrasta, te-stimonia con la stessa sua vista come a causa di Cristo la roccia si spaccò», affermava nel 347 il vescovo Cirillo in una delle già citate omelie catechetiche che tenne probabilmente in un atrio interno della chiesa del Santo Sepolcro, all'ombra del monte Cal-vario42.

Qui, secondo la descrizione trasmessaci nel 383 dalla pelle-grina Aetheria (Egeria), aveva luogo anche la liturgia del ve-nerdì santo: «Quando è giunta l'ora sesta, ci si reca dinanzi al-la croce, che piova o che faccia caldo, perché questo luogo è a cielo aperto; è come un grande e bellissimo cortile interno, che

A cielo aperto: la collina del Golgota nell'area della chiesa del Santo Sepolcro (plastico).

42 Cat. X, 19.

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si trova tra la croce e YAnastasis»^. Il Breviarius de Hierosoly-ma (circa 530) completa la descrizione, accennando che attorno alla collina del Golgota «corrono inferriate d'argento... e sopra la croce, completamente coperta d'oro e gioielli, c'è il cielo aper-to». Eusebio descriveva l'atrio interno come un «vastissimo spa-zio che si estendeva all'aperto» e che l'imperatore fece adorna-re sontuosamente: «lo ricoprì con una pietra lucida, con la qua-le pavimentò tutto il suolo; circondò poi l'intiera area con una lunga teoria di porticati, disposti su tre lati»44: davvero un luogo degno.

Così appariva la chiesa del Santo Sepolcro

Accanto a numerose descrizioni, disponiamo di due raffigu-razioni coeve del luogo. La prima è costituita dai resti di una pianta musiva pavimentale di una chiesa paleobizantina situata nella città giordana di Madaba e risalente alla metà del VI se-colo. Mostra la Terrasanta e, al centro, la Città Santa di Geru-salemme con le sue chiese cristiane, attraversata dal cardo maxi-musy il colonnato adrianeo. Per quanto non molto particolareg-giata, questa raffigurazione conferma le descrizioni pervenuteci della chiesa del Santo Sepolcro. Mostra la basilica del Martyrion con i suoi tre portali, cui si accede, dal cardo, tramite una scali-nata; dietro di questa l'atrio e infine la cupola dorata dell'Ana-stasis. Accanto alla basilica si distinguono infine il battistero a pianta quadrata e la cappella battesimale citata anche dal pel-legrino di Bordeaux nell'anno 33345. A Roma esiste una raffi-gurazione molto più precisa e per giunta più antica di un seco-lo e mezzo. Si trova proprio in quella chiesa, eretta nel IV seco-lo al di sopra del luogo di culto paleocristiano nella villa del senatore Pudente, la santa basilica Pudenziana. L'abside di que-

41 Itinerarium, 37,4. 44 Eusebio, Vit. Const., Ili, 35. 4 5 1 Magness, Illuminating Byzantine Jerusalem, in Biblical Archaeology Review 24/2

(1998), pp.40ss; G. Kroll,op. cit.,pp. 338s e 390.

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Pianta dell'edificio costantiniano della chiesa del Santo Sepolcro (secondo Corbo 1980): (1) il cardo maximus, (2) l'atrio esterno (in nero i resti rinvenuti nell'ospizio di Sant'A-lessandro), (3) la basilica del Martyrion (con al di sotto la grotta del rinvenimento del-la croce), (4) la collina del Golgota, (5) l'atrio interno, (6) /'Anastasis, (7) il santo se-polcro, (8) la residenza del patriarca di Gerusalemme. La superficie attuale comprende sì /'Anastasis, ma si estende a est solo fino alla roccia del Golgota.

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st'antica e veneranda chiesa è adornata da una delle più antiche e grandiose composizioni musive dell'arte cristiana, un'opera che giustifica già da sola la visita della Pudenziana (cfr. illustra-zione a colori VI). Raffigura Cristo, «Signore e custode della chiesa di Pudente», in trono, in procinto di trasmettere il suo in-segnamento ai discepoli radunati attorno a lui. Due donne, che incoronano Pietro e Paolo con delle ghirlande, rappresen-tano la chiesa giudeocristiana e quella dei pagani convertiti. Sul-lo sfondo si vede un colonnato, sovrastato da una collina su cui svetta una grande croce dorata adornata di pietre preziose. Un grande edificio a cupola - YAnastasis - sulla sinistra e una basilica di forma allungata - il Martyrion - sulla destra indica-no senz'ombra di dubbio che si tratta di una raffigurazione del? l'atrio della chiesa del Santo Sepolcro. Alla sua destra si nota il battistero a pianta quadrata che abbiamo incontrato anche nel-la pianta di Madaba. Nel mosaico sono riconoscibili anche altre costruzioni della Gerusalemme tardoromana: un edificio con una stanza al piano superiore - molto chiaramente la chiesa de-gli Apostoli - , la porta di Sion e il colonnato del cardo maximus che ha lì inizio. Ma è la collina con la croce dorata e adornata di pietre preziose - evidentemente la crux gemmata di Teodosio - a dominare la scena, ovvero il monticulus Golgothae come ap-pariva nella costruzione costantiniana46.

Battesimo sul letto dì morte

Qui l'imperatore, ormai anziano, voleva venire di persona in pellegrinaggio per prendere parte aUa consacrazione deUa basi-lica, il 14 settembre del 335, e festeggiare il trentesimo anniver-sario dell'incoronazione dopo aver ricevuto, come già una vol-ta Gesù per mano di Giovanni il Battista, il battesimo nelle ac-que del Giordano. Ma ciò non avvenne. Quando, su invito di Costantino, oltre cento vescovi si erano già messi in cammino

46 Sankt Pudentiana, cit., pp. 17-19; G. Kroll, op. cit., p. 363.

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per recarsi prima a Tiro per un sinodo, poi a Gerusalemme, l'im-peratore disdisse improvvisamente la sua partecipazione alle ce-lebrazioni. Furono forse motivi di salute, forse le notizie di una minaccia persiana ai confini orientali dell'impero, forse anche il malumore per i rinnovati dissidi tra vescovi ortodossi e ariani a spingerlo a questo passo certo non agevole. Trascorse l'anno suc-cessivo principalmente mobilitando truppe e preparando una campagna militare preventiva contro i persiani, che voleva scon-figgere e convertire al cristianesimo. Questo consumò le sue for-ze; cercò allora ristoro nei bagni di Helenopolis, l'ex Drepanum, città natale della madre fatta da lui ampliare. Lì, dopo un pe-riodo di spossatezza fisica durante le festività pasquali, gli fu im-partita l'imposizione delle mani, primo passo verso il battesimo. Già durante il viaggio di ritorno, le forze gli vennero comple-tamente a mancare. Riuscì appena a raggiungere il palazzo im-periale a Nicomedia per ricevere là, sul letto di morte, il batte-simo dal vescovo locale, Eusebio (da non confondere con il suo biografo). Poi si fece avvolgere in abiti dal candore abbagliante e promise di non indossare mai più la porpora imperiale. Un battesimo così tardivo non era insolito a quell'epoca: a causa della completa remissione dei peccati determinata dal sacra-mento e, non ultimo, a causa delle rigorose pratiche espiatorie di quel tempo, molti attendevano a farsi battezzare fino a che si avvicinava l'ora in cui avrebbero dovuto comparire davanti al giudice celeste. Costantino, che già da vivo si era autodefinito «il Grande» e che come nessun altro imperatore romano dal-l'epoca di Augusto aveva cambiato la faccia del mondo, si spen-se infine il giorno di Pentecoste, il 22 maggio del 337, verso mez-zogiorno. Le sue spoglie furono condotte in un solenne corteo funebre fino alla «sua città», Costantinopoli, e là inumate nella chiesa degli Apostoli.

La sua grande opera, la chiesa del Santo Sepolcro, era desti-nato a non vederla mai. Così si era fatto riferire nei minimi par-ticolari la sua solenne consacrazione dal vescovo Eusebio di Ce-sarea (colui che più tardi sarebbe divenuto il suo biografo), quan-do questi, nell'autunno del 335 a Nicomedia, aveva pronunciato

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un encomio in onore dell'imperatore in occasione del suo tri-cennalia: «I macedoni, infatti, inviarono il loro primate, le chie-se della Pannonia e della Mesia la fiorente bellezza dei loro gio-vani vescovi; era anche presente il più venerando tra i presuli persiani, studioso profondo delle Sacre Scritture, e i bitini e i tra-ci adornavano con la loro presenza il plenum del Sinodo. Non mancavano neppure i più esimii vescovi della Cilicia, e tra tutti si distinguevano per la dotta eloquenza i cappadoci, presenti con i loro presuli più insigni. Inoltre la Siria intiera e la Mesopota-mia, la Fenicia e l'Arabia con la stessa Palestina, l'Egitto e la Li-bia, e gli abitanti della Tebaide, tutti insieme partecipavano a quella grande assise divina, e da tutte le province immensa era la folla di fedeli che li seguiva. Tutti costoro erano assistiti da in-servienti imperiali, mentre per rendere splendida la cerimonia con le sovvenzioni dell'imperatore furono inviati illustri fun-zionari della corte»47.

E tuttavia non l'oro, lo sfarzo e la sontuosità imperiale erano i principali motivi d'attrattiva della chiesa del Santo Sepolcro, ma la reliquia della croce in sé, in cui ci si era evidentemente im-battuti nel corso dei lavori di costruzione. Era forse la più gran-de scoperta di archeologia biblica del I millennio, compiuta dal-la donna (o in presenza della donna) il cui nome è rimasto per sempre legato a questo reperto. Perché, secondo le Storie della Chiesa dell'antichità, fu l'imperatrice Elena, madre di Costanti-no, a rinvenire la «vera croce» di Gesù.

47 Eusebio, Vit. ConsL, IV, 43.

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LA SCOPERTA DEL MILLENNIO

Gerusalemme, 14 settembre 325

«Venga, presto, Augusta, è accaduto un miracolo!»; così la di-stinta, anziana dama fu strappata al sonno pomeridiano in cui era immersa nelle stanze imperiali per lei appositamente arreda-te nel pretorio dell'Aelia Capitolina. «L'hanno trovata! Hanno rinvenuto la santissima croce!». Quando senti la gioiosa noti-zia, gli occhi velati dal sonno le si ucccscro di vena luce più vìvi-da. Ma allora, doveva davvero avverarsi il sogno della sua vita? Sarebbe stata presto in condizione di tenere tra le mani rugose lo strumento della passione di Gesù, di stringerlo al suo debole cuo-re? Mossa da una nuova forza, quasi ultraterrena, si levò dal suo giaciglio; indossò gli abiti sfarzosi e seguì il giovane sacerdote scortata dalle guardie del corpo. Era ansiosa di giungere final-mente al luogo degli scavi, dove l'attendeva quell'istante che avreb-be sancito il coronamento della sua esistenza.

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La figlia di un oste diventa imperatrice

L'anziana dama aveva fatto molto strada nella sua vita, mol-ta di più di quanta ci si potesse aspettare dalla figlia di un oste della Bitinia, nativa di Drepanum, nell'Asia Minore. La sua bel-lezza era stata notata da un giovane ufficiale che già tre anni pri-ma si era fatto onore nel corso di una battaglia contro i goti. Que-sta volta Gaio Flavio Giulio Costanzo, chiamato Cloro («il pal-lido») per via deUa carnagione, era in cammino per raggiungere un altro fronte. Era diretto in Siria, dove l'imperatore Adriano stava muovendo guerra contro Zenobia, sovrana di Palmira, che aveva assunto il controllo di tutto il territorio tra l'Egitto e l'A-sia Minore. Aveva attraversato il Bosforo - non sappiamo se da solo, come messo, o se al comando di un esercito - e aveva fat-to sosta a Drepanum, dove prese alloggio nella locanda del pa-dre di Elena: la vide e immediatamente s'innamorò di lei. Seb-bene dovesse ripartire il mattino seguente, non dimenticò quan-to sentiva per lei, nemmeno mentre stava combattendo in Siria. Quando, infine, l'esercito imperiale fece ritorno a Roma vitto-rioso, il suo cammino lo riportò a Drepanum. Là reincontrò Ele-na, che gli confidò di attendere un bambino da lui. Per quanto la figlia di un oste non rappresentasse un partito degno del ram-pollo dì una famiglia nobiliare della Dardania (Mesia Superio-re), i due si sposarono subito il giorno seguente. Lei lo seguì a Naissos, in Mesia (l'odierna Ni§, in Serbia), dove Costanzo pre-stava servizio. Qualche mese più tardi, il 27 febbraio 273, Elena diede aUa luce un figlio, che chiamò Costantino. Non poteva cer-to intuire, allora, quale carriera gli si preparasse.

Undici anni più tardi Diocleziano, un comandante mil i tare della Dalmazia, fu innalzato al trono dei Cesari dall'esercito. L'imperatore dei soldati riconobbe le qualità del giovane uffi-ciale, che aveva servito sotto il suo comando, e lo nominò co-mandante delle legioni di Germania; Costanzo Cloro fu trasfe-r i t o ad A u g u s t a Tre vero rum, l 'attuale Treviri. A n c o r a una volta si fece notare per l'affidabilità e le capacità militari, e dopo qual-che tempo ricevette la nomina a prefetto della guardia preto-

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nana, le guardie dei corpo dell'imperatore: era il massimo ono-re che potesse essere conferito a un soldato dell'impero roma-no. A Roma Costanzo strinse amicizia con il secondo uomo più potente dell'impero, il coreggente di Diocleziano, Massimiano. L'amicizia fu ripagata. Quando nel 293 Diocleziano istituì a pro-prio sgravio la tetrarchia, ovvero la suddivisione dell'impero in una parte occidentale e in una parte orientale sotto il dominio di due diversi Augusti, a ognuno dei quali era sottoposto un «su-bimperatore» o Caesar, Cloro fu nominato Cesare.

Il progresso nella carriera aveva però un prezzo. Costanzo do-vette separarsi da Elena, per essere libero di contrarre un lega-me politicamente significativo, poiché faceva parte della conce-zione della tetrarchia che i quattro imperatori governassero «co-me se fossero un'unica famiglia» e fossero quindi effettivamente legati da legami di parentela. Così Cloro fu adottato da Massi-miano, modificò il suo appellativo da Iulius in Valerius e sposò Teodora, la figliastra del suo padre adottivo, da cui ebbe tre fi-gli. Massimiano, Augusto d'Occidente, aveva pressantemente bi-sogno del giovane, dotato comandante per mantenere il con-trollo della sua parte d'impero, perché dopo il suo trasferimen-to a Roma, presso la guardia pretoriana, un usurpatore di nome Carausio aveva preso il potere in Gallia e in Britannia e si era fatto giurare fedeltà dalle legioni lì stanziate. Il primo incarico di Cloro fu riportare l'ordine. A Gesoriacum (Boulogne), dov'e-ra ormeggiata la flotta di Carausio, fece bloccare l'ingresso del porto con una diga, poi piombò nella città con il suo esercito. Ma nel frattempo Carausio era stato assassinato da un certo Al-letto, che aveva assunto il controllo della Gallia settentrionale, del territorio dei batavi (l'Olanda) e dell'Inghilterra. La guerra proseguì. Per prima cosa Costanzo riconquistò la Batavia, poi, dopo accurati preparativi, attraversò il canale della Manica con due formazioni navali, riuscì a dare fuoco alla flotta dell'usur-patore e a sconfiggere il suo esercito annientandolo1.

1 G. Gottschalk, op. cit., pp. 201-232; M. Grant, Die ròmischen Kaiser, Bergisch-Glad-bach 1989, pp. 271-276. Come Costanzo Cloro ed Elena si siano conosciuti, possiamo

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Probabilmente Elena in quel periodo viveva alla corte di Dio-cleziano a Nicomedia, poco lontano dalla sua città natale, Dre-panum, dove anche Costantino fu trattenuto per un certo tem-po a garanzia della fedeltà del padre. Nel frattempo fu certa-mente testimone dell'ultima e maggiore persecuzione anticri-stiana della storia romana, che colpì anche funzionari della cor-te imperiale. Centinaia di cristiani, che non erano disposti a rin-negare la loro fede e a sacrificare dinanzi all'effigie dell'impe-ratore, persero la vita. L'imperatore dei soldati, Diocleziano, ve-deva nella religione dell'amore del prossimo la principale minaccia alla stabilità interna dell'impero. Roma doveva fon-darsi sulla forza, sulle armi dei suoi soldati, non sul figlio di un falegname che, condannato come sobillatore, aveva concluso la sua vita suUa croce. Roma aveva bisogno di dèi forti e invinci-bili, e per questo sostenne il culto delle antiche divinità di Ro-ma: la venerazione di Giove, di Ercole, del dio della guerra, Mar-te, e di Apollo, considerato l'«invitto dio Sole» e che come tale godeva della venerazione di molti soldati. Probabilmente Ele-na rimase impressionata dalla fermezza dei martiri cristiani e già allora si aprì segretamente alla nuova religione2.

La tetrarchia si concluse in maniera prevedibile. Nel 305 gli Augusti abdicarono, Diocleziano volontariamente, il coreggen-te Massimiano con la forza, per cedere il trono, come previsto dagli accordi, ai Cesari Costanzo e Galerio, che dovevano a lo-ro volta nominare i nuovi subimperatori e successori, il che fe-ce esplodere aperti conflitti tra i potenziali candidati. Costanti-no, che a Nicomedia sentiva minacciata la propria vita, si rifu-solo tentare di ricostruirlo sulla base delle poche fonti di cui disponiamo. E attestato

che Elena fosse una stabulario di Drepanum, ed è ugualmente certo che Costanzo fos-

se di stanza a Naissos, a 720 km di distanza in linea d'aria da Drepanum. Poiché la cam-

pagna militare voluta da Aureliano contro Zenobia ebbe luogo nel 272 d.C., quindi un

anno prima del (probabile) anno di nascita di Costantino, essa ci appare come l'occa-

sione più ovvia perché i due s'incontrassero. 2 A quell'epoca non era ancora cristiana. Si convertì solo a 64 anni, ovvero nel 312,

anno in cui Costantino ebbe la fatidica visione della croce, probabilmente in seguito al-la visione stessa. In ogni caso, gli Actii Silvestri affermano che si era già precedentamente convertita all'ebraismo (vedi J.W. Drijvers, Helena Augusta. The Mother of Constantine the Great and the Legend ofHer Finding of the True Cross, Leiden 1992, pp. 36s).

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giò dal padre in Gallia, giungendo anche a tagliare i tendini dei cavalli degli inseguitori alle stazioni di posta per impedire di essere raggiunto.

Quando, un anno più tardi, Costanzo Cloro perì nel corso di una campagna militare in Britannia, a York i soldati acclama-rono il figlio Costantino come imperatore, secondo l'antica usan-za. Da quel momento egli portò il titolo di Augusto e si mise al-l'opera per riunificare l'impero. In tal modo anche Elena, che fi-no a quel momento aveva condotto la propria vita nell'ombra, tornò alla ribalta. Il nuovo imperatore la prese con sé a corte, prima a Treviri e poi a Roma, e pose termine alle persecuzioni anticristiane. La visione del figlio e l 'incontro con i vescovi della sua cerchia le diedero la spinta finale a farsi battezzare, probabilmente già nell'inverno del 312-313. Deve essere sorto allora in lei il desiderio di recarsi di persona almeno una volta nei luoghi che erano stati teatro della vita di Gesù. Secondo la leggenda, una notte sognò di rinvenire la croce; il sogno diven-ne per lei segno di una missione che doveva adempiere: voleva recarsi in pellegrinaggio nella terra in cui Gesù aveva vissuto e operato, innalzargli chiese in segno di ringraziamento e ritro-vare la croce che - di questo era assolutamente certa - doveva essere sopravvissuta ai quasi tre secoli che erano ormai trascorsi dal momento della crocifissione. Dopo il sogno, l'imperatrice era certa che questo segno di salvezza e redenzione non potesse es-sere andato distrutto o decomposto. Stava a lei, ora, ritrovarla. Quando suo figlio, nel 324, pose sotto il suo controllo anche la parte orientale dell'impero, le si offrì la possibilità di realizzare il suo intento. Sapeva di avere ancora solo pochi anni di vita e perciò non voleva più sprecare altro tempo: voleva realizzare il sogno della sua vita il più presto possibile.

Il viaggio a Gerusalemme

È proKahila che Elena stessa appartenesse già alla delega-zione imperiale inviata a Gerusalemme subito dopo il concilio

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di Nicea e l'incontro dell'imperatore con il vescovo Macario. Non disponiamo di una datazione precisa; l'unica notizia certa è che la visita a Gerusalemme dell'Augusta cadde tra il 324 e il 327. Secondo Eusebio3, il viaggio ebbe luogo quando Costanti-no progettò di erigere la chiesa del Santo Sepolcro. Stando a Ru-fino4, Elena si mise in viaggio per la Terrasanta «attorno allo stesso periodo», dunque quasi contemporaneamente allo svol-gimento del concilio di Nicea. Ma anche questa non costitui-sce un'indicazione temporale precisa, e poiché Costantino con-ferì l'incarico di edificare la chiesa del Santo Sepolcro solo do-po l'incontro di Nicea con il vescovo Macario, possiamo dedurne che, con l'espressione «attorno allo stesso periodo», si intendesse collocare la partenza subito dopo la conclusione del concilio, an-cora nell'estate del 325. Poiché la tradizione data il rinvenimento della croce al 14 settembre, Elena può essere giunta a Gerusa-lemme in un imprecisato giorno d'agosto. È poco probabile che il viaggio abbia avuto luogo l'anno seguente, poiché l'impera-trice madre nell'estate del 326 soggiornò a Roma, dove prese parte alle locali celebrazioni per l'anniversario dell'ascesa al tro-no del figlio. È certo che Elena si recò da suo figlio a Nicome-dia, nell'attuale Hirchia nordoccidentale, nell'estate del 325, quan-do fu ufficialmente nominata Augusta, ovvero imperatrice e co-reggente. L'Asia Minore, vista da Roma, era già quasi a metà del cammino verso Gerusalemme. È possibile che una donna della sua età - all'epoca aveva 76 o 77 anni - che nel 325 aveva l'op-portunità di realizzare il sogno della sua vita, sia tornata a Ro-ma solo nell'autunno del 325 per mettersi in viaggio verso la Ter-rasanta solo successivamente, nella tarda estate del 326, e far nuovamente ritorno a Roma dopo la conclusione di quel viag-gio? Se così fosse, allora sarebbe salpata per mare, sarebbe ap-prodata nel porto di Cesarea e da lì si sarebbe recata a Gerusa-lemme. Ma Eusebio descrive espressamente un viaggio più lun-go, che condusse l'imperatrice attraverso «le province orientali

3 Eusebio, Vit. Comt.. III. 41. 4 Rufino, Hist. Ecc., X, 7.

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e tutte le popolazioni che le abitano»5, il che fa piuttosto pen-sare a un percorso per mare e per terra che parta da Nicome-dia. Probabilmente circumnavigò l'Asia Minore, scendendo for-se sulla terraferma per visitare Efeso e Mileto, Tarso e Antio-chia. Il viaggio proseguì lungo la costa siriana fino ai porti di Sidone, Tiro e Cesarea, da dove si addentrò in direzione di Ge-rusalemme. Un viaggio dell'Augusta attraverso le province orien-tali era un colpo di genio propagandistico, vista la sua conco-mitanza con l'anniversario dell'ascesa al trono di Costantino e dato che aveva luogo nell'anno successivo all'abbattimento e al-l'esecuzione capitale di Licinio. La madre dell'imperatore po-teva presentarsi come la madre premurosa di tutti gli abitanti della porzione orientale dell'impero e accattivarsi così le sim-patie per il figlio, il cui comportamento nei confronti di Lici-nio non era certo considerato inoppugnabile.

Un corteo trionfale a celebrazione dell'amore per il prossimo

Eusebio descrive il viaggio in Terrasanta dell'attempata im-peratrice madre come un autentico corteo trionfale a celebra-zione di quell'amore per il prossimo propugnato dal cristianesi-mo. Dovunque giungesse, veniva festeggiata, e contraccambia-va con innumerevoli regali a poveri e bisognosi, con la liberazione di schiavi e prigionieri e con generose donazioni alle locali co-munità cristiane e ai loro luoghi di culto. Distribuì «innumere-voli donativi sia alle popolazioni delle singole città nel loro com-plesso, sia individualmente a ciascuno di coloro che si recava-no in udienza da lei, e parimenti innumerevoli furono i donativi che con gesto munifico elargì anche agli eserciti. E non conob-bero limite alcuno le elemosine che ella versò in favore dei po-veri ignudi e derelitti, ad alcuni dei quali donava somme di de-naro, mentre ad altri forniva vestiario in abbondanza perché avessero di che coprirsi il corpo; altri poi, oppressi dai pati-

3 Eusebio, Vit. Const., Ili, 42.

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menti del carcere e dei lavori forzati, liberò, altri riscattò dai so-prusi dei potenti, e altri ancora richiamò dall'esilio»6. Questa ge-nerosità ben s'attaglia alle celebrazioni di un anniversario del-l'ascesa al trono, mentre nessuna menzione dei cosiddetti dona-tivo, ci è pervenuta per il 327. Inoltre fu in occasione di un Sinodo ad Antiochia, datato al 326 o al 327, che il vescovo Eustazio fu destituito per aver offeso Elena, il che avvenne probabilmente nel corso del suo viaggio. Poiché è certo che Elena si trattenne a Roma nel 326 in occasione del secondo Vicennalia del figlio, anche questo elemento depone a favore della datazione del pel-legrinaggio di Elena in Terrasanta nell'estate del 3257.

Eusebio, nella sua biografia di Costantino, riferisce il rico-noscimento da parte della delegazione imperiale di altri due luoghi che fecero da scenario alla vita di Gesù: la grotta della Natività a Betlemme, trasformata dall'imperatore Adriano in un luogo di culto del dio misterico Adone, e, sul monte degli Ulivi, il luogo della sua ascensione in cielo. Su incarico del fi-glio, in entrambi i luoghi fece erigere delle basiliche. Costanti-no «tenne pertanto in sommo onore questi due luoghi e li adornò con grande sfarzo», prosegue il biografo di corte, «intendendo in tal modo perpetuare in eterno il ricordo della madre, che si era fatta promotrice di molto bene a favore del genere umano». Cosi la vigorosa settantasettenne si mise in viaggio, «mossa da giovanile sollecitudine venne con straordinario fervore a ren-dersi conto della Terrasanta, e a visitare con premura veramente

4 IbidL ,111,44. 7 A proposito della controversa datazione del sinodo cfr. H. Chadwick, The Fall of

Eustathius ofAntioch, in Journal of Theological Studies, 49 (1948), pp. 27-35; T.D. Bar-nes, Emperor and BishopsA.D. 324-344: Some Problems, in American Journal ofAn-cient History, 3 (1978), pp. 53-75. Drijvers propone come datazione del viaggio di Ele-na il 327 e Io pone in rapporto con le esecuzioni di Crispo e Fausta all'inizio del 326 e con altri eventi di quell'anno fatale, attribuendogli lo scopo di «pacificare gli abitanti delle province orientali» (J.W. Drijvers, op. et/.,p. 67), mentre Stephan Borgehammar lo colloca nella «primavera del 325» (S. Borgehammar, How the Holy Cross wasfound, Stockholm 1991, p. 139). La prima datazione è, per i già citati motivi, troppo tarda, l'ultima troppo precoce: probabilmente solo l'incontro di Costantino ed Elena con il ve-scovo Macario diedero la spinta a progettare l'edificazione della chiesa del Santo Se-polcro e a predisporre il viaggio della madre dell'imperatore, che era connesso con que-sti progetti.

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imperiale le province orientali e tutte le popolazioni che le abi-tano. Dopo che ebbe reso la dovuta adorazione ai luoghi sui quali il Salvatore aveva impresso le sue orme (conformemente a quel che dice la parola dei profeti "Prostriamoci nel luogo ov'egli pose i suoi piedi" [cfr. Sai 132,7]), subito vol le lasciare

un frutto della propria religiosità anche ai posteri»8. Ma ciò che Eusebio tace, forse per non appannare la gloria che Costanti-no si era conquistata grazie alla scoperta del Santo Sepolcro con un secondo rinvenimento ancor più spettacolare, era l'api-ce del suo pellegrinaggio in Terrasanta: il rinvenimento della croce di Gesù.

Di questa scoperta ci giunge notizia per la prima volta grazie a Gelasio, vescovo di Cesarea, uno dei successori di Eusebio e, come questi, autore di una Storia della Chiesa. Poiché Gelasio si spense nel 395, possiamo datare la sua opera al 390 circa. Non è solo la sua vicinanza geografica a Gerusalemme a deporre a favore della credibilità della tradizione che ci consegna. Gelasio era anche il nipote del famoso vescovo Cirillo di Gerusalemme, e fu da lui stesso consacrato vescovo. Sul letto di morte, nel 387, Cirillo deve averlo pregato di mettere per iscritto la storia del-la sua Chiesa. È possibile che Gelasio abbia addirittura avuto la

possibilità di consultare i testimoni oculari del rinvenimento del-la croce. Purtroppo il testo originale della sua opera è andato perduto, ma ci è giunta una citazione che Rufino d'Aquileia, au-tore nel 402 circa di un'analoga Storia della Chiesa, riporta nel suo scritto. Vi si dice che «attorno allo stesso periodo [cioè do-po il concilio di Nicea], Elena, la madre di Costantino, una don-na incomparabile per fede, religiosità, ineguagliabile grandez-za morale, si mise in viaggio ... per Gerusalemme e lì si informò presso i suoi abitanti circa il luogo in cui il santissimo corpo di Cristo era stato inchiodato alla croce. Questo luogo era diffici-le da individuare perché i primi persecutori vi avevano eretto una statua a Venere, cosicché, quando un cristiano voleva ve-nerare Cristo in quel luogo, pareva rendere omaggio a Venere.

8 Eusebio, Vit. Const., Ili, 41-43.

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Per questa ragione, quel luogo era poco frequentato ed era qua-si caduto nell'oblio. Ma quando, come si diceva, la pia donna ac-corse al luogo che le era stato indicato da un segno celeste, fe-ce abbattere quanto vi era di turpe e di lordato e fece rimuove-re i detriti f ino in profondità» 9 .

Analoga è la descrizione delle circostanze che portarono al rinvenimento della croce trasmessaci da Alessandro di Cipro nel VI secolo: «Questi [Costantino], quando Macario, vescovo di Aelia, prese parte al concilio di Nicea, Io sollecitò a cercare con il massimo zelo la croce che alimenta la vita, il sepolcro del Si-gnore e tutti i luoghi santi... Quindi l'imperatore inviò da Ma-cario, vescovo di Gerusalemme, sua madre Elena, donna degna in tutti i modi della massima considerazione, cui affidò delle let-tere e una consistente somma di denaro, perché con lui cercas-se la Santa Croce e potesse adornare i Luoghi Santi edifican-dovi dei monumenti. Fece questo per espresso desiderio del-l'imperatrice stessa, che, da quanto si narra, ebbe una visione divina in cui le si ordinava di recarsi a Gerusalemme per ri-portare alla luce i Luoghi Santi, sepolti sotto terra da uomini empi e celati per così lungo tempo alla vista degli uomini. Quan-do il vescovo udì deU'arrivo dell'imperatrice, uscì per accoglierla,

accompagnato dai suoi vescovi suffraganei. Costei pregò subito tutti di consacrarsi interamente al compito di rinvenire quella croce tanto agognata ... Fatto ciò, il luogo fu miracolosamente rivelato al vescovo mentre si trovava là dove stava la statua del-la dea dell'impudicizia. Conseguentemente, l'imperatrice ordinò che il tempio della demone fosse demolito fino alle fondamen-ta con il concorso di un gran numero di operai. Non appena fu fatto questo, apparvero il sepolcro del Signore e il luogo del Cra-nio, e poco distanti da lì le tre croci, sepolte sotto terra»10.

Entrambi gli autori non lasciano dubbi sul fatto che Elena fos-se davvero a capo della delegazione imperiale in visita a Geru-salemme per ritrovare il massimo luogo sacro della cristianità.

9 Rufino, Hist. Ecc., X, 7. 10 Alessandro di Cipro, Inventio crucis.

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Se prestiamo fede ad Alessandro di Cipro, fu lei a recapitare la lettera di Costantino al vescovo Macario. Questo particolare è confermato anche dal vescovo Teodoreto di Ciro, in Siria, nella sua Storia della Chiesa redatta attorno al 440: «Il latore delle let-tere non fu nessun altro che la madre dell'imperatore la quale, già riverberante di riflesso della gloria propria del figlio, veni-va ammirata da tutti per la sua religiosità ... Non indietreggiò, nonostante l'età così avanzata, di fronte alle fatiche di un viag-gio che avrebbe consumato le sue forze, ma lo intraprese poco prima della sua morte, che la colse nel suo ottantesimo anno di vita»11. Inoltre era evidentemente suo compito sovrintendere alle spese necessarie alla progettazione della chiesa del Santo Sepolcro, tanto che possiamo leggere in Eusebio: «Le mise a di-sposizione anche il tesoro imperiale perché se ne servisse a suo piacimento e lo amministrasse a sua completa discrezione, in qualunque modo volesse e in qualunque modo credesse op-portuno regolare ogni singola evenienza»12. Secondo Socrate Scolastico, un giurisperito di Costantinopoli che redasse la sua Storia della Chiesa attorno al 440, il tempio di Afrodite esisteva ancora quando Elena mise piede a Gerusalemme Aelia, e in-dubitabilmente gli scavi archeologici al di sotto del luogo di cul-to pagano, il dissotterramento del Santo Sepolcro e della colli-na del Golgota e infine il rinvenimento delle tre croci ebbero luogo sotto la sua sorveglianza e in sua presenza: «Elena venne a Gerusalemme e trovò la città con tutti i segni della decaden-za a far mostra di sé ... Dopo la passione, i cristiani avevano reso omaggio al sepolcro di Cristo dimostrando di averne gran-de venerazione, ma coloro che avevano in odio il cristianesimo sotterrarono quel luogo sotto una montagna di terriccio su cui eressero un tempio ad Afrodite e una statua della dea, così che il significato che esso rivestiva per i cristiani venisse presto can-cellato dall'oblio. Il loro intento ebbe successo per lungo tem-po, finché in effetti non ne giunse notizia alla madre dell'impe-

" Teodoreto, tìist. Ecc., 1,17. 12 Eusebio, Vit Const, III, 47.

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ratore. Costei fece distruggere la statua, rimuovere la terra, ri-pulire il luogo e, presso il sepolcro, rinvenne tre croci»13. Una conferma in proposito è fornita anche dal vescovo Teodoreto: «Quando l'imperatrice si mise alla ricerca del luogo in cui patì il Redentore, ordinò immediatamente di distruggere il tempio degli idolatri che colà era stato eretto e di rimuovere la terra su cui sorgeva. Quando fu rinvenuto il sepolcro, che era rimasto celato così a lungo, si ritrovarono tre croci, seppellite in prossi-mità del sepolcro del Signore»14. Una serie di storici cristiani ribadisce questo evento, tra cui Paolino di Nola, che nell'epistola a Sulpicio Severo del 402 descrive con dovizia di particolari il rinvenimento della croce, e Sozomeno, che dichiara espressa-mente: «Persino i nostri più acerrimi avversari non possono met-tere in dubbio la veridicità di questi fatti... Abbiamo riportato questi avvenimenti in maniera così precisa come ci sono stati trasmessi da uomini della più grande scrupolosità, che hanno tramandato queste informazioni di padre in figlio; altri ancora hanno fissato questi stessi eventi per iscritto per il bene dei posteri»15.

La «Legenda aurea»

Naturalmente il rinvenimento della Santa Croce divenne pre-sto oggetto di numerose leggende, da cui già Sozomeno prese espressamente le distanze16. Lo ritroviamo così anche nella Le-genda aurea di Iacopo da Varazze, noto libro devozionale di epo-ca medievale, risalente al XIII secolo. Secondo questa leggenda Elena, una volta giunta a Gerusalemme, avrebbe chiesto agli ebrei dove avevano nascosto la croce dopo che Gesù era stato croci-

13 Socrate Scolastico, Hist. Ecc., 1,17. "Teodoreto, Hist Ecc., 1,17. 13 Sozomeno, Hist. Ecc., n, 1. 16Ibid.: «Alcuni sostengono che questi fatti furono dapprima rivelati da un ebreo che

viveva in Oriente e che aveva tratto le informazioni di cui disponeva da alcuni docu-menti che aveva ricevuto in eredità da suo padre; ma pare piuttosto verosimile che Dio abbia rivelato questi fatti con segni e sogni».

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fisso. Ma questi non rivelarono il loro segreto, perché temeva-no una vecchia profezia secondo la quale, se la croce fosse sta-ta ritrovata, «da quel momento non regnerà più la gente giudea». Subito l'imperatrice ordinò «che fossero tutti bruciati». Vinti dal-la paura della morte, le consegnarono allora uno di loro, di no-me Giuda, che certo conosceva il nascondiglio ma non lo voleva rivelare. Questo Giuda era figlio di un «uomo giusto e profe-ta», che sarebbe stato personalmente testimone della crocifis-sione di Gesù. Elena lo fece gettare in un pozzo e lo tormentò affamandolo, e infine, il sesto giorno, Giuda cedette. Condusse l'imperatrice nel luogo in cui era nascosta la croce e sperimentò il tremito del suolo e l'impregnarsi dell'aria di un gradevole pro-fumo. In quell'istante riconobbe Cristo come Redentore del mon-do. Iniziò a scavare e a una profondità di 20 piedi incappò nelle tre croci, che depose ai piedi dell'imperatrice. Quindi si fece bat-tezzare e assunse il nome di Ciriaco, con il quale fu fatto vesco-vo di Gerusalemme e successore di Macario. Individuò tra le tre croci quella su cui era stato crocifisso Gesù quando di lì passò il feretro di un giovinetto defunto che stavano portando a sep-pellire. Ciriaco fermò il corteo funebre e accostò al morto dap-prima una croce, poi la seconda, infine la terza, al cui contatto il morto balzò dal feretro e rese lode al Signore17.

17 Jacopo da Varazzt. Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Bravarone, Einaudi, To-rino 1995, pp. 383-386. È però possibile che la leggenda di Ciriaco abbia un nucleo di verità. Alcuni ricercatori suppongono che per un certo periodo a Gerusalemme abbia-no convissuto due comunità cristiane, quella dei giudeo-cristiani, che aveva la propria sede nella chiesa degli Apostoli sul monte Sion, e quella dei cristiani convertitisi dal pa-ganesimo, che si ritrovavano nella casa di Giovanni Marco, l'attuale convento siriano di San Marco. Di conseguenza, quando la leggenda attribuisce agli «ebrei» la conoscenza del nascondiglio della croce, intenderebbe forse riferirsi alla comunità giudeo-cristia-na che disponeva di una tradizione molto più antica e che custodiva gelosamente i suoi segreti dalle mire della comunità concorrente. Forse questo «Giuda Ciriaco» era il lo-ro vescovo. Ma c'è anche una seconda possibilità. Il suo appellativo, che deriva dal greco kyrios («signore»), potrebbe indicare in Giuda un «parente del Signore», cioè un discendente della famiglia di Gesù. Come sappiamo, la comunità gerosolimitana del-le origini era guidata da parenti di Gesù fin dall'epoca del «fratello del Signore» Gia-como. È interessante che Epifanio citi effettivamente come ultimo vescovo giudeo-cristiano della città un «Judah Kyriakos» che visse fino all'undicesimo anno del regno di Antonino Pio, e quindi tino al 148-149 d.C. (fonanon, 66,20). Da lui i cristiani di ori-gine pagana possono aver appreso il nascondiglio delle croci, una tradizione riferita dal

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Naturalmente non c'è niente di vero in questa Legenda aurea dalla chiara impronta antisemita. Quando Elena giunse a Ge-rusalemme, da oltre 250 anni nessun ebreo viveva o regnava più nella città: infatti, dai tempi di Adriano era loro ufficialmente proibito di calcare il suolo deirAelia romana. Ci risulta anche difficile credere al padre di Giuda, che evidentemente doveva avere più di 300 anni, come pure stupisce il fatto che il Santo Se-polcro non sia qui minimamente menzionato, il successore del vescovo Macario (314-333) non si chiamava poi Ciriaco, ma Mas-simo (333-346), al quale successe il famoso vescovo Cirillo (346-386). Tutti questi anacronismi rivelano come la leggenda della Santa Croce altro non fosse che una pia narrazione medievale, che degli antichi testi conserva solamente la protagonista e l'e-

vento stesso del rinvenimento della croce.

Un fatto storico

Ciò nonostante, per quanto avvolto da un'aura leggendaria, il rinvenimento deUa croce è in sé un fatto storico, confermato non soltanto dai cronisti dell'epoca18. Quando, nel 395, si spen-

vescovo Macario a Elena, determinando il sorgere della leggenda di Ciriaco (R. Rie-sner, Jesus, the Primitive Community and the Essene Quarter of Jerusalem, in Jesus and the Dead Sea Scrolls, a cura di J.H. Charlesworth, New York 1993, p. 203).

18 Ammette comunque Drijvers, che pure considera una leggenda il rinvenimento della croce da parte di Elena: «Per gli storici della Chiesa, il rinvenimento della croce era un evento di valore storico tale da operare la sua inclusione nelle loro Storie della Chiesa» (J.W. Drijvers, op. cit., p. 109). L'ipotesi di Drijvers, secondo cui la «leggenda del rinvenimento della croce» fu messa in circolazione e propagata nel mondo a partire dal suo epicentro a Gerusalemme attorno al 346 con l'intento di far valere per la Palesti-na una sorta di pretesa di primato, non può invece essere condivisa, innanzitutto, que-sto primato si era già affermato de facto con la valorizzazione architettonica dei luo-ghi santi a opera di Costantino. Inoltre l'invenzione di un evento che datava solo 21 an-ni prima sarebbe stata di sicuro un argomento debole, che poteva essere facilmente ritorto contro di lui dagli avversari del vescovo di Gerusalemme. Infine, il viaggio di Ele-na in Terrasanta era un evento storico attestato anche da Eusebio. Contemporanea-mente, e anche questo è inconfutabile, iniziarono i lavori di costruzione della chiesa del Santo Sepolcro. Nel caso di un rinvenimento della croce in quelle circostanze - come sostengono tutti gli storici della chiesa posteriori a Eusebio - non ci possono essere dub-bi sulla propagazione della notizia con fulminea rapidità. Poiché dovevano esserci sta-ti dei testimoni, possiamo escludere che, ancora loro viventi - solo vent'annì più tardi!

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se l'imperatore Teodosio, l'orazione funebre fu tenuta da Am-brogio, vescovo di Milano. Dobbiamo partire dal presupposto che quest'uomo così rispettato non potesse citare una leggen-da, quando, in occasione dei funerali di Stato, di fronte alla cor-te riunita, rievocava espressamente l'evento del rinvenimento della croce: «Giunse Elena, e iniziò a rendere visita ai luoghi sa-cri. Allora lo Spirito di Dio le suggerì di ricercare il legno del-la croce. Lei si recò sul Golgota, fece scavare, asportare il ter-riccio e quindi si imbatté in tre strumenti di martirio che giace-vano accatastati alla rinfusa, sepolti sotto i detriti, nascosti dal nemico, ma il trionfo di Cristo non poteva rimanere sepolto nel-le tenebre notturne». In un altro passo, si riferiva nuovamente a questo evento precisando: «Si recò quindi sull'altura del Cra-nio. I soldati vedevano quella donna anziana, quell'anziana ma-dre aggirarsi tra le macerie e inginocchiarsi. "Questo è il luo-go della battaglia. Dov'è la vittoria?", diceva Elena. "Io siedo sul trono, e la croce del Signore giace nella polvere? Io sono at-torniata dall'oro e il trionfo di Cristo è in rovina? Vedo ciò che tu, diavolo, hai predisposto perché la spada che ti ha annienta-to giaccia sepolta"19. Anche Giustiniano, imperatore d'Oriente (527-565), considerava come un fatto reale «il rinvenimento del sacro legno dei cristiani da parte della madre di Costantino»20.

Le cose si sono verificate esattamente così come descritto da-j gli storici della Chiesa del IV e del V secolo? Ammettiamo chea il racconto del rinvenimento della croce suoni un po' fantastidoil mentre può essere ancora verosimile per lo meno la venerai zione dei primi cristiani per il sepolcro vuoto e la sua locali^ zazione nella loro memoria, è difficile credere che le croci di sù e dei due «ladroni» siano sopravvissute alle vicissitudini d f | |

- venissero diffuse storie non veridiche, senza che si levassero voci critiche e che <pie^ ste venissero poi registrate anche dalle fonti scritte. Quando invece, nel tardo V sècoli lo, sorse la leggenda antisemita di Giuda Ciriaco e del rinvenimento della croce - itiivfe^ eleo tematico della Legenda aurea medievale - , lo storico della Chiesa Sozomeno pie»^ se subito posizione contestandola (Sozomeno, Hist Ecc., l i , 1). - ^ i

" Ambrogio, De obitu Theodosii, 43,45. 20 Cit. da S. Falasca, Sie begab sich also aufdie Schadelhòhe, in 30 Tage, 6 (1996),pjij

50-54. , .

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secoli. Non dobbiamo piuttosto supporre che i legionari roma-ni se ne siano sbarazzati dopo la conclusione delle esecuzioni, per poi magari riutilizzarle in occasione di quelle successive? Non dobbiamo immaginare che, dopo quasi tre secoli, si fosse-ro comunque già decomposte da tempo?

Sangue di vita

D'altro Iato, non si può escludere per Io meno l'eventualità che i discepoli di Gesù, che ben presto predicarono «la parola della croce» (lCor 1,18) e per i quali la croce divenne il sim-

' bolo del messaggio di liberazione e di redenzione di Gesù Cri-, I; sto, tentarono di tutto per conservare la vera croce. Ma nella Ge-

: rusalemme del I secolo possederla rappresentava un pericolo, ! ; • perché gli ebrei consideravano impuro tutto ciò che era stato a

contatto con un morto, anche se risorto. Il contatto con un og-; getto impuro contaminava l'ebreo credente (Nm 19,11-27). Que-

i sto vale particolarmente per un patibolo, perché, come si dice > in Dt 21,23: «Un impiccato è una maledizione di Dio». Si può !; . affermare con sicurezza che, alla vigilia della festa di Pasqua del-Mr l'anno 30, le croci furono smantellate velocemente e rimosse dal j0jqlgota-per non contaminare dal punto di vista rituale ipelle-

che, il giorno seguente, si sarebbero riversati a Gerusa-* 7 le per celebrare la Pasqua passando per la porta di Efraim.

riè rimosse? Poiché era stato Giuseppe d'Arimatea a de porre jsì dalla croce (Gv 19,38), potrebbe essere stato lui a occu-

anche della rimozione. ra* secondo la tradizione, le tre croci furono rinvenute in

^antica cisterna, circa 30 metri a est della collina di Golgota. :he quésta cisterna faceva parte del «giardino» di Giuseppe

feftjdmateà? Un motivo ben preciso può aver spinto i discepoli 1S Gesù a considerare importante la conservazione della croce.

J ì tóhé, secondo la concezione biblica, nel sangue risiede la vita: ^«Watti la vita dell'essere vivente è nel sangue», si legge in Lv

sangue versato nell'atto di morire è per l'ebreo creden-

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se l'imperatore Teodosio, l'orazione funebre fu tenuta da Am-brogio, vescovo di Milano. Dobbiamo partire dal presupposto che quest'uomo così rispettato non potesse citare una leggen-da, quando, in occasione dei funerali di Stato, di fronte alla cor-te riunita, rievocava espressamente l'evento del rinvenimento della croce: «Giunse Elena, e iniziò a rendere visita ai luoghi sa-cri. Allora lo Spirito di Dio le suggerì di ricercare il legno del-la croce. Lei si recò sul Golgota, fece scavare, asportare il ter-riccio e quindi si imbatté in tre strumenti di martirio che giace-vano accatastati alla rinfusa, sepolti sotto i detriti, nascosti dal nemico, ma il trionfo di Cristo non poteva rimanere sepolto nel-le tenebre notturne». In un altro passo, si riferiva nuovamente a questo evento precisando: «Si recò quindi sull'altura del Cra-nio. I soldati vedevano quella donna anziana, quell'anziana ma-dre aggirarsi tra le macerie e inginocchiarsi. "Questo è il luo-go della battaglia. Dov'è la vittoria?", diceva Elena. "Io siedo sul trono, e la croce del Signore giace nella polvere? Io sono at-torniata dall'oro e il trionfo di Cristo è in rovina? Vedo ciò che tu, diavolo, hai predisposto perché la spada che ti ha annienta-to giaccia sepolta"19. Anche Giustiniano, imperatore d'Oriente (527 -565 ) , considerava c o m e un fatto reale «il r invenimento del sacro legno dei cristiani da parte della madre di Costantino»20.

Le cose si sono verificate esattamente così come descritto da-gli storici della Chiesa del IV e del V secolo? Ammettiamo che il racconto del rinvenimento della croce suoni un po' fantastico: mentre può essere ancora verosimile per lo meno la venera-zione dei primi cristiani per il sepolcro vuoto e la sua localiz-zazione nella loro memoria, è difficile credere che le croci di Ge-sù e dei due «ladroni» siano sopravvissute alle vicissitudini dei

- venissero diffuse storie non veridiche, senza che si levassero voci critiche e che que-ste venissero poi registrate anche dalle fonti scritte. Quando invece, nel tardo V seco-lo, sorse la leggenda antisemita di Giuda Ciriaco e del rinvenimento della croce - il nu-cleo tematico della Legenda aurea medievale - , lo storico della Chiesa Sozomeno pre-se subito posizione contestandola (Sozomeno, Hist Ecc., II, 1).

" Ambrogio, De obito Theodosii, 43,45. 20 Cit. da S. Falasca, Sie begab sich also aufdie Schàdelhdhe, in 30 Tage, 6 (1996), pp.

50-54.

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secoli. Non dobbiamo piuttosto supporre che i legionari roma-ni se ne siano sbarazzati dopo la conclusione delle esecuzioni, per poi magari riutilizzarle in occasione di quelle successive? Non dobbiamo immaginare che, dopo quasi tre secoli, si fosse-ro comunque già decomposte da tempo?

Sangue di vita

D'altro lato, non si può escludere per lo meno l'eventualità che i discepoli di Gesù, che ben presto predicarono «la parola della croce» ( lCor 1,18) e per i quali la croce divenne il sim-bolo del messaggio di liberazione e di redenzione di Gesù Cri-sto, tentarono di tutto per conservare la vera croce. Ma nella Ge-rusalemme del I secolo possederla rappresentava un pericolo, perché gli ebrei consideravano impuro tutto ciò che era stato a contatto con un morto, anche se risorto. Il contatto con un og-getto impuro contaminava l'ebreo credente (Nm 19,11-27). Que-sto vale particolarmente per un patibolo, perché, come si dice in Dt 21,23: «Un impiccato è una maledizione di Dio». Si può affermare con sicurezza che, alla vigilia della festa di Pasqua del-l'anno 30, le croci furono smantellate velocemente e rimosse dal Golgota per non contaminare dal punto di vista rituale i pelle-grini che, il giorno seguente, si sarebbero riversati a Gerusa-lemme per celebrare la Pasqua passando per la porta di Efraim. Chi le rimosse? Poiché era stato Giuseppe d'Arimatea a deporre Gesù dalla croce (Gv 19,38), potrebbe essere stato lui a occu-parsi anche della rimozione.

Ora, secondo la tradizione, le tre croci furono rinvenute in un'antica cisterna, circa 30 metri a est della collina di Golgota. Anche questa cisterna faceva parte del «giardino» di Giuseppe d'Arimatea? Un motivo ben preciso può aver spinto i discepoli di Gesù a considerare importante la conservazione della croce. Perché, secondo la concezione biblica, nel sangue risiede la vita: «Infatti la vita dell'essere vivente è nel sangue», si legge in Lv 17,11. U sangue versato nell'atto di morire è per l'ebreo creden-

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te «sangue di vita», e deve essere inumato con il defunto. Così si dice ancora, in un codice giuridico ebraico del XVI secolo che si rifà a tradizioni ben più antiche: «Se una persona cade e muore immediatamente, se il suo corpo riporta delle ferite e del sangue sgorga dalle ferite, e si può supporre che le sue vesti si siano impregnate del sangue di vita, costei non deve essere purificata da un punto di vista rituale ma deve essere sepolta insieme con le sue scarpe e con le sue vesti... È usuale che la terra del luogo in cui questa persona è caduta venga spalata via, e se del sangue è scorso lì o nelle vicinanze, tutta quella terra deve essere se-polta con lei». Se un uomo muore nel suo letto a causa deUe fe-rite riportate, lenzuoli e guanciali devono essere sepolti con lui21. Tanto più queste prescrizioni devono valere per un uomo spi-rato sulla croce e per il legno e i chiodi venuti a contatto del suo «sangue di vita». Anche il crocifisso Jehochanan Ben Haskul, le cui ossa furono rinvenute nel 1968 in un ossario che si trovava in una cavità sepolcrale a nord di Gerusalemme, fu seppellito con il chiodo e con quella parte della croce che era venuta a contat-to con il suo sangue22. Quando Giovanni (19,40) sottolinea che la sepoltura di Gesù fu eseguita «com'è usanza ... per i giudei», intende dire: rigorosamente secondo le leggi mosaiche e della Mishnah. Forse la croce fu nascosta solo provvisoriamente, per essere poi deposta con Gesù nel sepolcro una volta trascorso shabbath, intento vanificato daUa successiva constatazione che il sepolcro era vuoto. Nel suo nascondiglio era al sicuro e là fu la-sciata. La cisterna si trovava al di fuori delle mura cittadine, do-ve veniva tollerata la presenza di «oggetti impuri», all'interno della proprietà privata di un simpatizzante della comunità deUe origini, e quindi al sicuro. Se fosse stata portata in città, si sa-rebbe incorsi in una grave violazione delle norme della legge ebraica riguardanti la purezza rituale, che nel quartiere esseno, dove aveva sede la comunità delle origini, erano applicate con

21 S. Ganzfried, Code ofJewish Law, New York 1963, p. 99; vedi anche M. Lanini, The Jewish Way in Death and Mourning, New York 1969, pp. 6s.

22 G. Kroll, op. cit., p. 360; G. Ricci, The Holy Shroud, Roma 1981, cit., pp. 177-182.

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particolare rigore. Quando i cristiani lasciarono la città poco pri-ma che scoppiasse la guerra giudaica, credevano di farvi ritor-no di lì a poco o che, a una catastrofe, sarebbe immediatamen-te seguito il ritorno di Cristo. Persino i rotoli delle Scritture, più facili da trasportare (e non impuri dal punto di vista cultuale) fu-rono nascosti in caverne: tra questi, il Vangelo di Marco di Qum-ran. Quando poi la comunità cristiana fece ritorno a Gerusa-lemme, dopo il 72, il luogo del nascondiglio era caduto nell'oblio o giaceva sotto i cumuli di macerie della città distrutta. In ogni caso, nessuno evidentemente intraprese il tentativo di porre in salvo la croce prima che Adriano disponesse la costruzione, al di sopra del Santo Sepolcro, della piattaforma su cui sorse il Foro occidentale con il tempio di Afrodite. Solo quando Costantino fece smantellare il Foro occidentale furono rinvenuti, in quella cisterna che ancor oggi, sotto il nome di cappella di Sant'Elena, può essere visitata nei sotterranei della chiesa del Santo Sepol-cro, non solo le tre croci, ma anche i chiodi che avevano trafitto le mani e i piedi di Gesù, e il titolo della croce, l'iscrizione «Ge-sù di Nazaret, re dei giudei». Chi sorvegliava i lavori di scavo informò immediatamente l'imperatrice.

L'identificazione della «vera croce»

Ma quale deUe tre croci era quella di Gesù? Evidentemente questa domanda non aveva una risposta facile. Così scrive Ru-fino d'Aquileia, richiamandosi al vescovo Gelasio di Cesarea: «Lì accanto trovò tre croci disposte alla rinfusa. Ma l'indistin-guibile disposizione delle croci offuscò la gioia del dono rinve-nuto. Naturalmente fu ritrovata anche la tavola che Pilato ave-va fatto redigere in greco, latino ed ebraico, ma anche questa non forniva elementi sufficientemente sicuri all'individuazio-ne della croce del Signore. Qui la titubante incertezza dell'ani-mo umano sperava in una testimonianza divina»23. Anche Teo-

23 Rufino, Hist £cc. ,X,7.

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doreto di Ciro si riferisce a quest'insicurezza: «Non erano certi di quale di loro avesse sorretto il corpo del Signore e raccolto le gocce del suo sangue prezioso»24. Conferma il vescovo Ambro-gio: «È perplessa, imbarazzata, ma lo Spirito Santo le addita una certa soluzione, facendole sovvenire che due ladroni erano sta-ti crocifissi con il Signore. Cerca la croce mediana. Ma era pos-sibile che quando la terra era stata riversata in quel luogo, aves-se provocato dei sommovimenti deUe croci, che il caso ne aves-se scompigliato l'ordine»25. Tuttavia la soluzione del problema era per lui relativamente facile: il titolo della croce, secondo Am-brogio, era ancora fissato al palo della «vera croce»: «Rilegge la narrazione evangelica. Trova che la croce intermedia recava sul davanti l'iscrizione "Gesù di Nazaret, re dei giudei". Da que-sto si poteva dedurre quale fosse la vera croce. Trovò dunque l'iscrizione e rese omaggio al Re, non certo al legno; perché sa-rebbe stata follia pagana ed empia superstizione. Si rivolse piut-tosto con venerazione a colui che era stato appeso a quel le-gno e il cui nome era stato riportato in quell'iscrizione: il legno prese a rilucere, la grazia si irradiò»26. Probabilmente tre anni dopo l'orazione funebre di Ambrogio, nel 398, Giovanni Cri-sostomo, grande teologo della Chiesa orientale e arcivescovo di Costantinopoli, tenne una predica sul Vangelo di Giovanni in cui anch'egli si riferì al rinvenimento deUa croce e alla sua iden-tificazione per il tramite del titulus. Chi aveva nascosto la croce, riteneva, aveva anche accuratamente predisposto la sua even-tuale identificazione: «Il legno della croce sarebbe stato perso di vista poiché nessuno si era sforzato di conservarlo per via del-la paura e perché i credenti erano allora assorbiti da altre ur-genti faccende. Ma successivamente ci si mise alla ricerca delle croci ed è probabile che queste venissero accatastate insieme. Perciò si dovettero prendere accorgimenti per impedire che quel-la su cui era stato crocifisso il Signore venisse confusa con le al-

24Teodoreto, Hist. Ecc., 117. 25 Ambrogio, De obicu Theodosii, 45. 26 Ibid., 46.

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tre: innanzitutto disponendola nel mezzo tra le altre due e se-condariamente sulla base del titolo, perché le croci dei ladroni non recavano iscrizioni»27. Conferma Socrate Scolastico: «Con loro [le croci] fu rinvenuta anche la tavola di Pilato su cui era scritto in diverse lingue che il Cristo crocifisso era il re dei giu-dei. Ma Elena era non poco triste perché nutriva dei dubbi su quale di loro fosse la vera croce»28.

Perché nutriva dei dubbi? Forse perché la collocazione del ti-tulus non forniva indicazioni univoche e risolutive. Se infatti non fosse stato inchiodato alla croce, ma solo appeso al palo della croce stessa, dobbiamo supporre che giacesse effettivamente nei pressi dei legni senza che potesse essere correlato con certezza a nessuno di loro. Da questo presupposto ha in ogni caso ori-gine il racconto della maggior parte delle nostre fonti, secondo le quali la vera croce di Gesù potè essere identificata solo gra-zie a un segno soprannaturale. Leggiamo così in Teodoreto di Ciro: «Ma Macario, vescovo della città, uomo così saggio e dav-vero celestiale, risolse così il dubbio. Sfiorò, accompagnando que-sto gesto con un'ardente preghiera, un'esimia donna che era sta-ta da lungo tempo colpita da un morbo, con ognuna delle tre croci, e mise così a nudo la forza della croce del Redentore. Per-ché non appena questa fu accostata alla donna, scacciò imme-diatamente il grave male che si era impossessato di lei e le re-stituì la primigenia salute»29. E ancora, scrive Rufino d'Aquileia: «Ora, si verificò che nella medesima città (quindi Gerusalem-me) una dama altolocata nativa del luogo giacesse in fin di vi-ta a causa di una grave malattia. All'epoca, vescovo di queUa co-munità era Macario. Quando questi vide dunque esitare tanto l'imperatrice quanto tutti i presenti, disse: "Portate qui tutte le croci che sono state ritrovate, e sara Dio stesso a rivelarci qua-

le di loro ha portato il Signore". Quindi, insieme all'imperatri-ce e a un largo seguito di popolo, entrò nella stanza dove gia-

27 Giovani Crisostomo, Hotniliae in Iohannem, 85. 28 Socrate Scolastico, Hist. Ecc.,1,17. 29Teodoreto, Hist. Ecc., 1,17.

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ce va a letto la dama moribonda, si inginocchiò e rivolse a Dio questa preghiera: «Signore, tu che grazie al tuo Figlio unigenito hai concesso al genere umano la salvezza tramite la passione della croce e che negli ultimi tempi hai acceso nel cuore della tua serva il desiderio di cercare il legno benedetto, a cui è stata appesa la nostra salvezza, mostraci senz'ombra di dubbio qua-le di queste tre sia stata la croce che ha magnificato il Signore e quali altre siano servite all'esecuzione dei servi, affinché questa donna, che giace moribonda, sia richiamata in vita, non appe-na sfiorata dal legno salvifico, dalle porte della morte!". E non appena ebbe finito di parlare, avvicinò dapprima una delle tre croci, la quale però non sortì alcun effetto, quindi la seconda, ancora senza risultato. Ma quando accostò la terza, la donna spa-lancò immediatamente gli occhi, si rialzò e dopo aver riacqui-stato le forze era molto più vispa di quando ancora non si era ammalata, e iniziò a correre per casa lodando la forza del Si-gnore»30.

D'altra parte, questa «identificazione miracolosa» sa ancora così tanto di pia leggenda che non possiamo crederle ciecamente. Cos'è dunque accaduto realmente? Come ha potuto essere iden-tificata la vera croce? Dopo la scoperta della cisterna, in cui ve-rosimilmente le tre travi orizzontali, i tre pali delle croci, il titu-lus e i chiodi giacevano sparpagliati, prevalsero incertezza e con-fusione, forse persino delusione per un rinvenimento che poteva dar luogo a equivoci. A questo si aggiungeva la lacunosa cono-scenza dei Vangeli, a quell'epoca letti a mala pena dai clerici e probabilmente noti solo per compendio anche all'imperatrice. I laici sapevano soltanto che Gesù era morto in croce; per ap-prendere in quale modo fosse stato crocifisso, cioè con chiodi, bisognava attingere al Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 20,25). An-che l'arte cristiana nel IV secolo era ancora ai suoi esordi, e le raffigurazioni del crocifisso vennero in voga una volta per tutte solo nel V secolo. Di quali punti di riferimento ci si poteva ser-vire? Solo un tratto poteva distinguere la croce di Gesù dalle al-

30 Rufino, Hist. Ecc., X, 8.

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tre due: doveva presentare le tracce lasciate dai chiodi. Non c'e-ra quindi bisogno di un'identificazione soprannaturale per iden-tificare la croce di Gesù, ma semplicemente di un esame dei re-perti da parte di conoscitori esperti delle Scritture e della tradi-zione, qual era sicuramente il vescovo Macario. Anche Ambrogio di Milano conferma che ci si limitò a una rilettura dei Vangeli, per quanto poi comunque, non essendo testimone oculare, ri-tenne decisivo per l'identificazione il ritrovamento del titulus. Ma sarebbe stato allora troppo facile. Per un laico del IV-V se-colo che leggesse i resoconti da noi citati, certe finezze esegeti-che nell'identificazione della vera croce sarebbero state trop-po poco comprensibili per risultare davvero convincenti. Esige-va un segno, un miracolo tangibile. Rimane così aperta la questione se si sia fatto ricorso a un «giudizio di Dio» per raffor-zare la credibilità dell'evento, o se davvero una malata si sia «mi-racolosamente» ristabilita o se infine con la «dama malaticcia e altolocata» s'intendesse la stessa Elena che, indebolita dagli stra-pazzi del viaggio, attingesse dal successo nuove forze.

L'Innalzamento della croce

Possiamo immaginarci la gioia e l'eccitazione dell'intera co-munità cristiana diAelia, primo tra tutti il vescovo Macario, sen-za contare quella dell'attempata imperatrice, di fronte al rinveni-mento del millennio. Sicuramente, in tutta la città regnava un'at-mosfera festosa, quando il segno di salvezza di Cristo, appena ritrovato, fu portato nel pretorio con una solenne processione, mentre riecheggiavano nell'aria satura d'incenso inni altisonan-ti. Là, nella cappella privata dell'imperatrice, la croce fu esposta per l'adorazione collettiva. Ma di notte, quando le porte delle stan-ze imperiali si richiudevano, Elena l'aveva tutta per sé. Di conti-nuo stringeva a sé tra le lacrime il palo della croce, a cui era fis-sata la trave orizzontale, il patibulum Ecce lignum Crucis, in quo Salus mundi pependit* «Ecco il legno della croce, a cui fu appe-sa la salvezza del mondo», balbettava ripetutamente. Dentro di

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sé nutriva la profonda, liberatoria certezza di aver conseguito

lo scopo della sua vita. Un ultimo compito le rimaneva: portare a Roma, nella capitale, la Santissima Croce quale segno della vit-toria di Cristo.

A n c o r a o g g i l a c r i s t i a n i t à i n t e r a , i n O c c i d e n t e c o m e i n O r i e n -

te, il 14 settembre celebra la ricorrenza del rinvenimento della croce. Per la Chiesa orientale, r«innalzamento della croce», come la festa viene anche chiamata, è addirittura una delle tredici ricorrenze principali dell'intero anno liturgico (si con-fronti l'impressionante icona nell'illustrazione a fronte). La tra-dizione fa risalire questa festa religiosa a Elena in persona, in occasione del decimo anniversario del rinvenimento, il 14 set-tembre del 335, fu solennemente consacrata a Gerusalemme la basilica del Martyrion, che Costantino aveva fatto erigere nel luogo del ritrovamento.

Lo smembramento del «titulus»

Ancora nello stesso mese, nel settembre del 325, l'imperatri-ce predispose il suo ritorno a Roma. Aveva raggiunto il suo sco-po, e urgeva rientrare a Roma prima che, con l'inverno la tra-versata del Mediterraneo si facesse pericolosa, il mare s'ingros-sasse e il traffico navale si riducesse al minimo. Inoltre sapeva che le sue forze stavano scemando, che la sua vita volgeva len-tamente al termine. Poiché comprendeva che anche Gerusa-lemme aveva diritto alle più sacre reliquie della cristianità e che, nella progettata chiesa del Santo Sepolcro, queste sarebbero sta-te degnamente custodite, si optò per un compromesso. Una par-te della croce, probabilmente metà del palo, rimase a Gerusa-lemme31, mentre la parte più preponderante, cioè l'altra metà

}> La nostra Stima Si basa sui resoconti dell'epoca, secondo i quali le reliquie di Ge-rusalemme trovavano posto in «una teca d'argento» (Teodoreto, Hist. Ecc., 1,17), «una cassa d'argento, ancor oggi conservata a Gerusalemme» (Sozomeno, Hist. Ecc., II, 1 ), «una cassetta d'argento, simile a un monumento per coloro che vogliono vedere [la

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Costantino ed Elena con la croce. Icona del XVI secolo.

del palo e la trave orizzontale, fu portata a Roma. Elena fece di-videre a metà anche il titolo della croce. Portò a Roma la metà che recava l'iscrizione I. NAZARINVS R, mentre a Gerusa-lemme rimase l'altra metà, su cui era scritto [R]EX IV-DAEORVM32. La soluzione parve ragionevole, perché così, in

croce]» (Socrate Scolastico, Hist. Ecc., 1,17), «uno scrigno d'argento» (Rufino, Hist. Ecc, X , 9 ) c l i c l a monaca Acthcria descriveva, con evidente delusione, solo come «cass^ttina d'argento dorato» (Itinerarium, 37,1).

32 A una ripartizione si deve essere giunti perché da un lato Aetheria cita espressa-m e n e il titulus, affermando che veniva esposto alla venerazione dei fedeli il venerdì santo insieme alla croce (Itinerarium, 37,1-3), ma dall'altro lato Ambrogio allude alla

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quella che un tempo era la provincia di Giudea, rimaneva pro-prio quella parte testimoniata dai Vangeli: i tre Sinottici infatti riportavano del titolo solo le parole rex iudaeorum (Me 15,26), hic est rex iudaeorum (Le 23,38) e hic est Jesus, rex iudaeorum (Mt 27,37). Soltanto i chiodi finirono a Roma in blocco, insieme ad alcune casse che contenevano terra della collina del Golgo-ta, quella terra che - così si credeva - era imbevuta del sangue di Gesù.

Verità o leggenda?

Perché Eusebio tacque proprio questo ritrovamento? Voleva davvero celebrare, nella sua Vita Constantini, esclusivamente l'imperatore quale edificatore della chiesa del Santo Sepolcro?

Aveva dei buoni motivi per tacere la scoperta della croce? O il suo silenzio dimostra che la storia del rinvenimento della croce è solo una pia leggenda?

Quello che è certo è che la croce fu davvero rinvenuta a Ge-rusalemme aU'epoca di Costantino. Nel 348, solo 23 anni dopo il rinvenimento e 13 anni dopo la consacrazione della chiesa del Santo Sepolcro, il vescovo di Gerusalemme Cirillo, uno dei suc-cessori di Macario, neUe sue omelie catechetiche cita la croce ri-trovata e conferma il possesso della reliquia, dichiarando: «Il sa-cro legno deUa croce rende testimonianza, come si può vedere qui ma anche altrove ancora oggi, perché l'intero globo terre-stre è ricolmo di suoi frammenti che genti mosse dalla fede han-no portato con sé e che da qui si sono irradiati nel mondo»33. PeUegrini provenienti da ogni parte del mondo antico avevano evidentemente staccato dei frammenti della preziosa reliquia e li avevano portati in patria; altre particelle deUa croce erano al-lora già state distribuite dai vescovi di Roma e di Gerusalem-

venerazione che nutriva Elena per «il titulus» e che la spinse certamente a portarlo a Roma (Ambrogio, De obitu Theodosii, 46).

33 Cirillo, Cat., IV, 10.

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me. Ciò è confermato da due iscrizioni in latino risalenti attor-no al 350 e provenienti dall'attuale Algeria, che attestano la cu-stodia e la venerazione di reliquie del lignum crucis3\ Anche Gregorio di Nissa menziona il possesso di una reliquia della cro-ce da parte della sorella Macrina, morta nel 379. E secondo Gio-vanni Crisostomo (350-407 circa), nel tardo IV secolo i cristia-ni portavano al collo, come la più preziosa delle gemme, parti-celle della croce montate in oro35. «Nella particella più minuscola riposa tutta intera la forza della croce», recita un'iscrizione sulla parete dell'abside della basilica Felix di Nola, che il vesco-vo Paolino fece erigere all'inizio del V secolo e nel cui aitare fu incastonata una particella della croce36. Dello stesso Paolino ci è pervenuta una lettera del 403, con cui inviava a Primulia-cum, all'amico Sulpicio Severo, una particella della croce rac-chiusa in un piccolo scrigno dorato. Aveva ricevuto il frammento poco tempo prima in occasione di una visita in Terrasanta dal-le mani del vescovo Giovanni di Gerusalemme (385-417), che in quel frangente gli aveva narrato tutta la storia del rinveni-mento della vera croce da parte di Elena37.

Non si può quindi parlare di «nascita e crescita di una leg-genda». La biografia di Costantino redatta da Eusebio apparve nel 338 circa, un anno dopo la morte dell'imperatore, mentre la succitata affermazione di Cirillo risale al 348. Non possiamo certo supporre che la Chiesa gerosolimitana facesse emergere «dal nulla», in questi dieci anni, la sua reliquia più significati-va. Che le cose non stessero così è dimostrato anche da un'ul-teriore testimonianza del vescovo di Gerusalemme, che permette di datare senza più ambiguità il rinvenimento della croce. Pro-babilmente Cirillo, nato a Gerusalemme attorno al 310, fu ad-dirittura testimone oculare degli eventi. Nel 351 scrisse al fi-

M Y. Duval, Loca sanctorum Africae, Roma 1982, pp. 331-337 e 351-353. 35 H. Heinen, Helena, Konstantin und die Vberlieferung der Kreuzauffìndung im 4.

Jahrhundert, in E. Aretz-M. Embach-M. Persch-F. Ronig (a cura di), Der Heilige Rock tu. 7her,Trier 1996, pp. 83-117.

36 Cit. da W. Ziehr, Dos Kreuz, Stuttgart 1997, p. 62. 37 J.W. Drijvers, op. ciL, p. 113.

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glio di Costantino, l'imperatore Costanzo II, che «durante il re-gno di quel pio uomo di tuo padre Costantino, prediletto da Dio, fu rinvenuto a Gerusalemme il legno salvifico deUa croce, con il che la grazia divina concesse il pio rinvenimento dei luoghi san-ti celati a chi cercava con purezza di cuore»38.

Numerosi pellegrini riferiscono inoltre dell'esposizione nel Martyrion della chiesa del Santo Sepolcro della reliquia della croce, di cui anche Cirillo conferma che «si può vedere qui an-cora oggi»39. La pellegrina Aetheria, badessa dell'Aquitania, che si trattenne in Terrasanta tra il 382 e il 384, descrive il rito del-la venerazione della reliquia della croce e della metà del titu-lus rimasta a Gerusalemme così come si svolse il venerdì san-to deU'anno 383. Allora «sul Golgota, dietro la croce, fu collo-cato uno scranno per il vescovo» (quindi nella navata laterale meridionale , subito dietro la roccia del Golgota) . «Lì davant i

viene posto un tavolo coperto da un telo di lino, e i diaconi si dispongono attorno al tavolo. Quindi viene portato uno scrigno d'argento dorato, che racchiude il legno sacro della croce; que-sto viene aperto, si toglie il legno della croce che viene posto sul tavolo insieme con l'iscrizione [della croce]. Una volta che è sta-to posato sul tavolo, il vescovo, ancora seduto sul suo scranno, tiene tra le mani le due estremità del sacro legno, mentre i dia-coni, disposti attorno [al tavolo] sorvegliano la reliquia ... per-ché si dice che di tanto in tanto qualcuno abbia staccato con un morso e sottratto una scheggia della croce ... Così la folla sfila lì davanti; uno dopo l'altro, ci s'inchina, si sfiora la croce e l'i-scrizione prima con la fronte, poi con gli occhi, si bacia la croce e si procede oltre; ma nessuno distende la mano per toccarla»40. Questa forma di venerazione della croce è descritta anche da Antonio di Piacenza, un pellegrino del VI secolo, che però as-sicurava di aver anche potuto toccare l'iscrizione della croce; «Nella basilica di Costantino, che nell'atrio della chiesa stessa è

M Cit. da G. Baudler,op. cit.,p. 282. 39 Cirillo, Cat.X, 19; XIII, 4. 40 Itinerarium. 37,1-3.

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connessa al sepolcro, c'è una camera in cui è custodito il legno della Santa Croce che abbiamo venerato e baciato, e ho visto anche l'iscrizione che era stata fissata al di sopra del capo di Ge-sù, e l'ho tenuta tra le mani»41. In ogni caso è attestato che nel-la chiesa del Santo Sepolcro, a partire dal IV secolo, ci fosse uno speciale sacerdote, lo staurophylax, incaricato unicamente del-la sorveglianza della reliquia. In Procopio, un altro autore del-la tarda antichità, troviamo ulteriori conferme agli accenni di Aetheria riguardo alle sottrazioni di frammenti della reliquia mediante morsi. Secondo Procopio, responsabile di uno di que-sti atti fu un siriano che portò il frammento di legno deUa cro-ce di cui si era impadronito ad Apamea, dove la venerazione della reliquia continuò ancora a lungo42. La monaca pellegrina ci informa poi del fatto che, «poiché in quello stesso giorno cade l'anniversario del rinvenimento della croce,... la consa-crazione di questa santa chiesa», (Anastasis e Martyrion) viene «celebrata con la massima solennità e senza risparmio di mez-zi»43: tutto ciò si svolgeva a soli 48 anni dalla consacrazione del-la chiesa del Santo Sepolcro. Così la festa dell'innalzamento del-la croce divenne a Gerusalemme la principale festività religio-sa dopo la settimana santa. Già nel IV secolo la Peregrinatio ad loca sacra riferisce che decine di migliaia di pellegrini affluiva-no in quell'occasione nella Città Santa, dove ben presto si isti-tuì, attorno al 14 settembre, una vera e propria settimana di festeggiamenti. I pellegrini convergevano a Gerusalemme da ogni par te del m o n d o cristiano, daUa Mesopotamia, dalla Siria,

dall'Egitto e dall'Europa. «In questi giorni si trovano a Geru-salemme - quando sono pochi - più di quaranta o cinquanta ve-scovi; con loro ci sono molti clerici», scriveva Aetheria44. La li-turgia era celebrata in greco, ma anche «tradotta in siriaco ... perché tutti possano comprendere quanto dichiarato [dal ve-

41 Cit. da J.C. Cruz, Relics, Huntington (Ind.) 1984, p. 43. 42 Procopio, De beli. Pers., 2; cit. da G. Gingras (a cura di), Egeria: Diary ofa Pilgri-

mage, New York 1979, p. 239. 43 Itinerarium, 48,1. «Ibid., 49,2.

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scovo]», e inoltre spiegato «in latino» per coloro che parlavano solo questa lingua45.

Evidentemente il Martyrion disponeva di una propria came-ra delle reliquie, il reliquiario della vera croce, come riferisce il Breviarius de Hierosolyma, databile attorno al 530. «All'ingres-so della basilica, sul lato sinistro, c'è il vano in cui è custodita la croce del Signore». Inoltre il Breviarius conferma l'integra-zione della cripta di Elena, la cisterna in cui furono rinvenute le croci, nel complesso del Martyrion: «A ovest [del Martyrion] si apre una grande volta [sotterranea] in cui furono rinvenute le tre croci. Al di sopra si trova un altare riccamente adornato con fregi d'oro e d'argento»46. Rufino, richiamandosi nuovamente a Gelasio di Cesarea, cita lo scrigno d'argento che racchiudeva la croce e che Elena stessa diede in dono: «Del legno salvifico portò una parte al figlio, un'altra parte la lasciò in loco e la fece cu-stodire in scrigni d'argento. Questa parte viene custodita an-cor oggi con la massima devozione e conservata in memoria del sacrificio divino»47. Anche da Teodoreto di Ciro giunge una con-ferma: «Destinò una parte della croce del Redentore al palazzo imperiale, per l'altra fece approntare una teca d'argento e la con-segnò al vescovo della città con l'incarico di custodire con cura questo monumento della nostra redenzione per le generazioni future»48.

Il rinvenimento della croce non può quindi essere posto in dubbio, tanto più che ebbe luogo prima dell'inizio dei lavori di costruzione della chiesa del Santo Sepolcro sotto l'imperatore Costantino. Poiché anche Eusebio conferma che Elena si tro-vava in pellegrinaggio in Terrasanta proprio in quel periodo, pos-siamo escludere con certezza quasi assoluta l'eventualità che non venisse informata del ritrovamento. Effettivamente, tro-viamo accenni in questo senso persino in Eusebio, il quale cita

"Ibid., 47,3s. 46 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 383. 47 Rufino, Hist. Ecc.,X, 1. 48Teodoreto, Hist. Ecc., 1,17. Anche Socrate Scolastico (Hist. Ecc., 1,17) e Sozome-

no (Hist. Ecc., II, 1) citano questo scrigno d'argento di Elena.

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la già menzionata epistola dell'imperatore al vescovo Macario dell'anno 325, in cui si dice: «Così grande è la grazia elargita dal nostro Salvatore ... Infatti, che il monumento della santissima passione di Cristo, da molto tempo celato sotto terra, dopo aver fatto perdere le sue tracce per un lunghissimo periodo di anni, sia tornato a risplendere al cospetto dei suoi servi... è avveni-mento che supera senz'altro qualsiasi possibile stupore»49, il che pare un'inequivocabile allusione al rinvenimento della croce. Quando poi, nella stessa lettera, si auspica che «parallelamen-te al modo in cui la vera fede si rivela ogni giorno con sempre più nuovi miracoli, così anche le anime di noi tutti... dimostri-no sempre più zelo nella osservanza della santa legge», questo modo di esprimersi allude a una lunga serie di ritrovamenti e non solo al singolo rinvenimento del Santo Sepolcro. Più oltre Eusebio spiega ancora: «Tenne pertanto in sommo onore que-sti due luoghi e li adornò con grande sfarzo, intendendo in tal modo perpetuare in eterno il ricordo della madre, che si era fat-ta promotrice di molto bene a favore del genere umano»50, con il che ci si può chiedere quale altro «bene a favore del genere umano» abbia compiuto sua madre per meritarsi di essere ri-cordata in eterno con l'edificazione della chiesa.

Da questi accenni Jan W. Drijvers deduce addirittura «che il motivo che ha determinato l'edificazione delia chiesa a Geru-salemme risiedesse effettivamente nel ritrovamento della cro-ce e non nel rinvenimento del sepolcro, come Eusebio ci vuol far credere»51. Se prestiamo fede al Breviarius, la basilica del Martyrion fu effettivamente eretta al di sopra della cripta di Ele-na, il luogo del rinvenimento della croce. In ogni caso non ave-va niente a che spartire con la collina del Golgota, perché que-sta si trovava a cielo aperto nell'atrio situato tra il mausoleo di Cristo (l'Anastasis) e la chiesa vera e propria. Che per Co-stantino, che aveva vinto nel nome della croce, il rinvenimento

49 Eusebio, Vit. Const., III, 30. *IbieL,m, 41. 31 J.W. Drijvers, op. cit., p. 85.

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di questo «segno di vittoria» fosse della massima importanza, appare più che comprensibile. Quale significato le attribuisse effettivamente, lo si intuisce dal fatto che la solenne consacra-zione della chiesa del Santo Sepolcro non avvenne in occasio-ne della festa della deposizione di Gesù dalla croce e della sua risurrezione, quindi a Pasqua, ma nel decimo anniversario del rinvenimento della croce.

II «monumento alla vittoria della passione»

Eusebio può aver avuto i suoi buoni motivi per rimanere sul vago: i suoi lettori erano culturalmente romani, non semplice-mente cristiani, per cui il riferimento a un patibolo, che ancora due decenni prima rappresentava la modalità di esecuzione ca-pitale più crudele e ignominiosa, avrebbe potuto suscitare senti-menti contrastanti. Così fino al V secolo l'arte cristiana delle ori-gini rinunciò a raffigurare la crocifissione, e anche nella prima e più significativa basilica costantiniana di Roma, San Giovan-ni in Laterano, non è rappresentato il Crocifisso, ma il Panto-cratore («l'Onnipotente, Colui che domina tutte le cose») tro-neggiarne tra le nuvole al di sopra di un A l b e r o della Vita in for-ma di croce. A questo si aggiunga che Eusebio, come vescovo e teologo, attribuiva maggiore importanza alla risurrezione di Cri-sto che alla sua morte sulla croce. Questo rappresentava già di per sé un buon motivo per interessarsi maggiormente al sepol-cro vuoto piuttosto che alla croce. Eusebio giunge al punto di non dedicare una sola riga al dissotterramento deUa collina del Golgota. Poiché a quel tempo erano inconfutabilmente in cor-so i lavori di costruzione della chiesa del Santo Sepolcro - il luo-go della crocifissione fu fin dall'inizio parte integrante della co-struzione e ne determinò la vistosa asimmetria - il silenzio di Eu-sebio è tanto più evidente. Ma se evitava così palesemente di nominare il luogo della passione, dobbiamo ancora stupirci di non trovare nella sua opera alcun accenno al r invenimento del-la croce? Evidentemente Eusebio si sforzava zelantemente di

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sottolineare la natura spirituale del cristianesimo. Non era par-ticolarmente interessato alle prove tangibili, prendeva atto del-la loro esistenza con una certa diffidenza. La venerazione di fram-menti di una trave di legno e di qualche chiodo che aveva tra-fitto un tempo la carne di una figura dal profilo così divino, avrebbe potuto far apparire la nuova religione, che si era impo-sta da così poco tempo, come pericolosamente primitiva e per niente trascendente e superiore al paganesimo. La morte sulla croce era la pena inflitta agli agitatori politici e ai rivoluzionari falliti, e celebrare questo genere di simbolismo poteva non rien-trare nei calcoli di un imperatore che volesse conservare e raffor-zare Vimperium romanum. Perciò si trovano in Eusebio nume-rose perifrasi per indicare la parola «croce», che vanno da «vit-torioso mezzo protettivo» a «monumento alla vittoria della passione» fino a «segno salvifico»; egli evita invece per quanto possibile la parola staurós («croce»). Anche Ambrogio, 69 anni più tardi, non ignorava i rischi di un fraintendimento del culto della croce e spiegava perciò espressamente nella sua orazione funebre in onore dell'imperatore Teodosio: «Trovò dunque ri-scrizione e rese omaggio al Re, non certo al legno; perché sarebbe stata follia pagana ed empia superstizione. Si rivolse piuttosto con venerazione a colui che era stato appeso a quel legno e il cui nome era stato riportato in quell'iscrizione»52.

Una gran donna

Che Eusebio, biografo di corte, mettesse in secondo piano i me-riti di Elena, può essere spiegato con la finalità della sua Vita di Costantino: la celebrazione del solo imperatore, U primo impe-ratore cristiano, con un ampio scritto apologetico. Persino sua ma-dre, in questo contesto, doveva rimanere nell'ombra. Ambrogio pare invece renderle giustizia quando la descrive come «una gran donna, che aveva da offrire all'imperatore più di quanto non ri-

52 Ambrogio, De obitu Theodosii, 46.

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cevesse da lui». Non tace nemmeno delle motivazioni che la spin-sero a intraprendere quel viaggio e che erano evidentemente costituite da una seria preoccupazione per il futuro dell'impero e per gli intrighi che s'intessevano intorno del figlio: «Madre piena di premure per il figlio, nelle cui mani stava lo scettro dell'impe-ro romano, madre che si risolse a mettersi celermente in viaggio per Gerusalemme, verso il luogo della passione del Signore»53.

D ratto della reliquia

Il legno della croce rimasto a Gerusalemme attraversò tutte le turbolenze dell'inquieta storia della Città Santa. Nel 613 i per-siani aggredirono l'impero bizantino, sorto nella parte orienta-le deU'imperium romanum, e conquistarono in men che non si dica la Siria, la Palestina e, sei anni più tardi, l'Egitto. Nel 614 le truppe del re persiano Cosróe II, soprannominato Abharwez («il Vittorioso») piombarono su Gerusalemme. La guarnigio-ne bizantina di stanza nella Città Santa fu massacrata, e la stes-sa sorte toccò al clero delle numerose chiese saccheggiate e di-strutte dai persiani. Il vescovo di Gerusalemme Zaccaria fu deportato nella città imperiale di Ctesifonte, nei pressi dell'o-dierna Bagdad, insieme al reliquiario della croce montato in oro e pietre preziose.

La perdita della Città Santa, ma soprattutto la notizia che la più preziosa delle reliquie era nelle mani degli infedeli, gettò Co-stantinopoli nella più profonda costernazione. Infine Sergio, pa-triarca di Costantinopoli, incoraggiò il titubante imperatore Era-clio a far guerra ai persiani. L'esercito bizantino sconfisse i per-siani; Cosróe, colpito dalla dissenteria e furente per via della sconfitta, ordinò l'esecuzione dei suoi comandanti militari e fece diseredare il figlio, che per questo motivo lo assassinò. Il nuovo re dei persiani propose a Eraclio la pace. L'imperatore pose come condizione la restituzione della reliquia e il rilascio

"/Wtf.,41,43.

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del vescovo e degli altri prigionieri. Il piccolo scrigno donato da Elena, in cui era custodito il legno della croce - o ciò che rima-neva di esso - fu sigillato e riconsegnato intatto il 3 maggio del 628. Con un solenne corteo trionfale Eraclio fece ritorno a Co-stantinopoli, da dove impartì l'ordine di procedere senza indu-gi alla ricostruzione della chiesa del Santo Sepolcro. Non ci si sottrasse ad alcun genere di compromesso, pur di poter ricon-sacrare quel luogo di culto il più presto possibile. I resti del San-to Sepolcro furono cinti da un muro e lo stesso accadde per la roccia del Golgota, racchiusa ora in due cappelle. Nella cap-pella superiore, dove un tempo stava la trave di legno conficca-ta nella roccia, fu collocata ora una grande croce d'argento. La sfarzosa croce d'oro di Teodosio, cosparsa di gemme, che prima troneggiava qui, era caduta preda dei persiani ed era stata fusa. L'anno successivo l'imperatore fece ingresso a Gerusalemme con un magnifico seguito per riportare la tanto venerata reliquia nella chiesa retrostante la collina del Golgota.

D ritorno della croce

Sicuramente le campane di tutta Gerusalemme suonavano a distesa quando, per la seconda volta, la croce di Cristo fece in-gresso nella Città Santa. Lungo le strade si assiepava una folla fe-stante quando l'imperatore, attorniato dalla sua corte e amman-tato del fulgente sfarzo bizantino, si avvicinò alla porta Orien-tale di Gerusalemme in groppa al suo più nobile cavallo. Indossava un vestito intessuto d'oro, portava sul capo la corona della Ro-ma d'Oriente e tra le mani teneva uno scrigno d'argento ador-nato d'oro e pietre preziose, la reliquia della Santa Croce. Ma im-provvisamente, dinanzi alle porte della città, il solenne corteo si bloccò. Qualcosa lo trattenne, forse un profondo dubbio interio-re circa quello che stava facendo. Parlò brevemente all'anziano in abito episcopale che cavalcava accanto a lui, Zaccaria, il pa-triarca di Gerusalemme tornato dalla prigionia: «Così il Salva-tore non ha portato la sua croce sul monte!». Quindi Eraclio sce-

lgi

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se da cavallo, depose la veste sfarzosa, i gioielli, persino la coro-na, e si tolse i calzari. I suoi uomini, l'intera corte, seguirono il suo esempio e scesero da cavallo. A piedi nudi e con indosso solo una sottoveste di lino bianco, l'imperatore varcò la porta e portò il legno della croce nella Città Santa e infine nella ricostruita chiesa del Martyrioa Là fu solennemente esposta, nell'aria satu-ra di incenso, affinché la folla, che s'inginocchiava e baciava il suolo, potesse festosamente renderle omaggio. Fino a tarda notte risuonarono nella basilica costantiniana i canti dei fedeli: «O cro-ce, più luminosa di tutte le stelle, famosa nel mondo, cara a tutti gli uomini, più sacra di qualsiasi altra cosa! Tu sola sei stata de-gna di portare il riscatto di questo mondo! Dolce legno, e voi, dol-ci chiodi, dolce punta e dolce lancia, tu, croce, che hai portato un dolce carico, preserva coloro che si sono qui radunati oggi in tuo onore, che sono stati provvisti di questo segno... O legno tre vol-te benedetto, su cui Dio è stato disteso, che tu. sia lodato»54.

Le tracce del frammento gerosolimitano dell'iscrizione della croce, che prima la pellegrina Aetheria il venerdì santo del 383 e, due decenni più tardi, Antonio di Piacenza avevano visto e a cui avevano reso omaggio, si perdono invece con il saccheggio della chiesa del Santo Sepolcro a opera dei persiani. In ogni ca-so, nessun documento autorizza a pensare che fosse parte del-la reliquia della croce restituita all'imperatore Eraclio, e nessu-no dei pellegrini che da quel momento visitarono Gerusalem-me menziona più il titulus. Non compare nemmeno in alcuna delle particolareggiate liste di reliquie pervenuteci dalla capita-le imperiale Costantinopoli.

54 Cfr. Jacopo da Varazze, Legenda aurea, cit., pp. 750ss. Secondo alcuni autori, il ve-scovo Zaccaria sarebbe morto in prigionia. Lo storico Teofane (Chronographia, PG 108, 673-4) spiega invece espressamente che Zaccaria ritornò a Gerusalemme. È probabile Ctie si spense poco Uopo 11 5UO ritorno perché ancora nello stesso anno (630) Modesto fu scelto come nuovo Patriarca. Cruz (op. cit., pp. 43s.) cita comunque un certo «frate Antonino», che sarebbe vissuto tra il 1389 e il 1459 e che durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, nella chiesa del Santo Sepolcro, avrebbe tenuto tra le mani «il legno che riportava il capo d'accusa». Purtroppo nulla ci è dato sapere sulla fonte di questa informazione. Se dovesse dimostrarsi esatta, l'altra metà della tavoletta di Gesù po-trebbe effettivamente trovarsi ancora a Gerusalemme.

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Sotto il vessillo dell'Islam

Ma l'entusiasmo per il ritorno a Gerusalemme della Santa Croce durò poco, perché solo nove anni più tardi Gerusalem-me fu conquistata dagli arabi, di religione musulmana. Nel 638 Omar ibn el-Khattab, il secondo califfo della Mecca, fece in-gresso a Gerusalemme per ricevere personalmente la capitola-zione dei suoi abitanti. Per la popolazione della Città Santa non si trattò in alcun modo di una catastrofe. La nuova religione ri-spettava i cristiani, il califfo promise di proteggere i luoghi san-ti, e le tasse che gli arabi esigevano erano molto più contenu-te dei tributi versati fino ad allora a Costantinopoli. Eutiche, patriarca melchita di Alessandria, riferisce come il califfo Omar avesse preso posto nel cortile della chiesa della Risurrezione e accogliesse le delegazioni nell'ora della preghiera vespertina. Il patriarca cristiano lo invitò a pregare nell'atrio o nella basi-lica costantiniana, ma Omar rifiutò: «Se io elevassi la mia pre-ghiera all'interno di questa chiesa, tu la perderesti, ti sarebbe strappata di mano. I musulmani te la sottrarrebbero, magari do-po la fine del mio regno, dicendo: "Qui ha pregato Omar!"»55. Un aneddoto, forse una leggenda, comunque rivelatrice della tolleranza degli invasori musulmani. E così il califfo consegnò al patriarca della Città Santa un documento con cui si faceva personalmente garante: «Nel nome di Dio, Indulgente e Miseri-cordioso. Questo è il messaggio di Omar, figlio di Khattab, agli abitanti di Gerusalemme. Vi confermo assoluta sicurezza per la vostra vita, per le vostre proprietà c per le vostre chiese; e ga-rantisco che i musulmani non ne prenderanno possesso né le distruggeranno, fintanto che non vi ribellerete contro di noi»56. Uno dei successori di Omar, Harun al-Rashid, califfo di Bag-dad, concesse addirittura all'imperatore dei franchi Carlo Ma-gno il protettorato sui luoghi santi, giacché a Costantinopoli nessuno pareva più interessarsene.

55 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 392. * Cit. da G.S.P. Freeman-Grenville, op. cit., pp. 24s.

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Il sacrilegio del califfo

Ma presto si giunse a un giro di boa. Nel X secolo esplosero i primi scontri tra cristiani e musulmani e, nel corso di un tumul-to divampato la domenica delle Palme del 936, alle porte della basilica di Costantino (il Martyrion) fu appiccato un incendio. Quando, nel 966, i bizantini guidati dall'imperatore Niceforo Fo-ca riconquistarono la Cilicia e parte della Siria, gli arabi sfoga-rono la rabbia per la sconfitta sui cristiani di Gerusalemme, dan-do fuoco al tetto della basilica e della rotonda (VAnastasia). Nel 969 i Fatimidi, una dinastia berbera proveniente dal Marocco che faceva risalire le proprie origini alla figlia di Maometto, Fatima, andarono al potere e irruppero in Egitto, Siria e Palestina. Quan-do il califfo fatimide Ibn Moy conquistò Gerusalemme, il 24 mag-gio del 979, fu dato fuoco ai portali óeWAnastasis: la cupola crol-lò e il patriarca perì tra le fiamme. Solo nel 984 la rotonda del Sepolcro fu fortunosamente restaurata. Ma già il 18 ottobre del 1009 aveva i giorni contati per sempre: il califfo al-Hakim Bin-Amr-Illah, un fanatico che perseguitava indistintamente cri-stiani, ebrei e i suoi confratelli musulmani, fece distruggere la chiesa del Santo Sepolcro, come riferisce Guglielmo di Tiro, «risparmiando solamente ciò che era più difficile da distrugge-re»57. Il califfo non si fermò nemmeno di fronte al Santo Sepol-cro. Il 29 settembre del 1010 la roccia del monumento sepolcra-le fu presa di mira: «Poiché non riuscivano a distruggerla, fu espo-sta a un incendio devastante», come scrisse un testimone oculare, il monaco benedettino Ademaro da Gerusalemme. Poi il fuoco fu spento con acqua fredda per «spezzare» la roccia resa friabi-le58. Solo un moncone resistette alla cruda violenza, tra cui la pan-ca di pietra su cui era stato deposto il corpo del Signore, come sottolineava il cronista Rodolfo: «Cercarono di frantumare con dei colpi d'ascia la panca di pietra, ma non ci riuscirono»59.

57 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 392. * Ibid. i9 Rodolfo, Historia sui temporis, 1,3; cit. da G. Kroll, op. cit., p. 392.

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Un urlo attraversò il mondo occidentale, quando in Europa si seppe della profanazione del luogo sacro, e non pochi di quel-li che attendevano la fine del mondo allo scadere del millennio vi colsero uno dei segni preannunciati da Gesù. Ma anche il mil-lesimo anno dalla data in cui allora si supponeva fosse avve-nuta la sua crocifissione, il 1033, trascorse senza che si verificasse il ritorno del Signore. E mentre i successori di Hakim trattava-no già con l'imperatore bizantino la ricostruzione della chiesa del Santo Sepolcro, in Europa cresceva il disagio all'idea che il Santo Sepolcro fosse esposto all'arbitrio degli «infedeli». Quan-do poi il potere passò nelle mani dei turchi Selgiuchidi e i pel-legrinaggi in Terra santa si fecero sempre più insicuri, se non im-possibili, la tempesta finì per scatenarsi e le crociate irruppero in Terrasanta.

La prima crociata

Il 15 luglio del 1099 Gerusalemme cadde dopo un assedio di sole cinque settimane. Il «regno cristiano di Gerusalemme» fu fondato nel sangue di un massacro senza uguali, di cui furono vittima gli «infedeli» che si erano rifugiati sulla piattaforma del vecchio tempio di Erode, su cui sorgeva ora la moschea del-la Roccia. I cavalieri crociati, che si autoproclamavano «araldi di Cristo», si comportarono come bestie. Vecchi, donne, uomi-ni, bambini, musulmani, ebrei e clero ortodosso, nessuno fu ri-sparmiato dalla spada dei cavalieri sanguinari, che si considera-vano esecutori di un giudizio divino. Gente armata, come pure persone inermi, caddero sotto i colpi dei conquistatori, che pre-sto affondarono fino alle caviglie nel sangue delle loro vittime. Gli ebrei cercarono scampo nella sinagoga, ma i cavalieri della croce le diedero fuoco, e la gente che cercava conforto nella pre-ghiera perì soffocata tra le fiamme o bruciata. Mai nella sua sto-ria travagliata, né per mano di Babilonia né per mano di Roma, Gerusalemme aveva sperimentato tanta crudele brutalità.

Poi subentrò un repentino cambiamento. Già la sera stessa i

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cavalieri, che avevano combattuto come furie fino a poche ore prima, salirono in silenzioso raccoglimento al Santo Sepolcro. «Si lavarono mani e piedi, si cambiarono d'abito ed entrarono a piedi nudi nel luogo sacro», scriveva un cronista dell'epoca60. Solennemente intonarono il Te Deum. La prospettiva di poter rendere omaggio alla santa croce trasformò quei lupi feroci in pacifici agnellini.

Gerusalemme divenne la civitas crucis, la «città della croce», come veniva chiamata sulle monete coniate dai crociati. Il nuo-vo re del regno cristiano di Gerusalemme nonché «difensore del Santo Sepolcro», Goffredo di Buglione, ordinò subito la rico-struzione della chiesa del Santo Sepolcro. Tuttavia i suoi archi-tetti decisero di prendere le distanze dalla bipartizione della co-struzione costantiniana e di riunificare entrambi i luoghi, quel-lo della risurrezione e quello della passione, in un unico edificio religioso. II moncone del sepolcro scavato nella roccia fu inglo-bato in un nuovo aediculum, la roccia del Golgota in una cap-pella. Ma per la ricostruzione della grande basilica del Marty-rion i mezzi non bastavano. La consacrazione della nuova chie-sa del Santo Sepolcro avvenne il 15 luglio 1149. Da allora l'edificio rimase immutato, nella versione voluta dai crociati, fi-no ai giorni nostri, sebbene danneggiato da un incendio e da un terremoto nel XIX secolo. Dopo la fine del regno crociato, i mu-sulmani imposero si alla chiesa del Santo Sepolcro un custode musulmano, ma permisero ai cristiani delle diverse confessioni di continuare a celebrarvi i loro riti. Armeni, copti, etiopi, geor-giani, greco-ortodossi, siro-giacobiti e cattolici francescani co-stituirono il clero consacrato al luogo sacro e si contesero ben presto diritti e privilegi, dando adito ad aspri conflitti. Nel 1757 lo statu quo fu sancito in un patto, confermato dal governo tur-co nel 1852 e vigente ancor oggi. Le confessioni minori, come i georgiani, disparvero del tutto da Gerusalemme; gli etiopi fu-rono confinati alla parte superiore della cappella di Sant'Elena; ai siro-giacobiti fu consentito di celebrare le loro funzioni solo

60 Cit. da G. Kroll, op. cit., p. 293.

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in determinati giorni festivi in un'abside dietro la rotonda. Agli armeni spettò la cappella di Sant'Elena e una cappella nella gal-leria d&WAnastasis', la parte del leone la ottennero greci e fran-cescani, tra i quali fu suddiviso il rimanente, con una netta pre-dominanza greca. Il sepolcro di Gesù rimase di proprietà co-mune, con diritti codificati per armeni, greci e cattolici. Questo stato di cose determinò, tra le diverse confessioni, autentiche battaglie attorno al Santo Sepolcro, che continuano ancor oggi, specie quando devono essere condotti lavori di restauro e ogni fazione vuole far prevalere il proprio punto di vista. Uaedicula al di sopra della roccia del sepolcro è stata sostituita, dopo l'in-cendio del 1810, da un goffo padiglione marmoreo, scelta di cui la fazione greca porta la responsabilità.

Il regno dei cavalieri crociati, invece, non sopravvisse nem-meno 100 anni. Quando uno di loro, il principe Reinhard di Chà-tillon, volle aprirsi un varco verso la Mecca con una flotta na-vale per distruggere il «tempio idolatrico degli infedeli», e at-taccò poi di sorpresa una carovana principesca e prese prigioniera la sorella del sultano Salah ed Din (che i cristiani chiamavano il «Sa lad ino») , la pazienza dei musu lmani ebbe termine. Il ca-

liffo chiamò alla «guerra santa» e radunò 60.000 uomini sotto la sua bandiera, il vessillo del profeta. Il 4 luglio 1187 attaccò. Il suo stratagemma militare consistette nell'incendiare degli ar-busti, il cui fumo si propagò in direzione dei cristiani. Iniziò una guerra di logoramento, nelle cui fasi iniziali, come racconta un cronista arabo, i cristiani combatterono come «leoni», ma al cui termine si comportarono come «pecore sbandate». Perché, nel momento in cui la reliquia della «vera croce» era caduta neUe mani dei musulmani, la forza che. animava i cavalieri crociati si Spezzò.

Così scriveva il cronista arabo Imad ad-Din: «Non appena il re [dei crociati] fu catturato, allora anche la "vera croce" cad-de in mano nostra, e gli idolatri che la difendevano furono sba-ragliati. Era la croce dinanzi alla quale tutti i cristiani s'ingi-nocchiavano e s'inchinavano quando veniva levata in alto. Cre-dono infatti che sia fatta di quel legno a cui f u crocifisso colui

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che adorano, perciò la venerano e le s'inginocchiano davanti. L'avevano avvolta nell'oro e adornata con perle e pietre pre-ziose, preparata per i riti della passione, per la celebrazione del-la sua ricorrenza. Quando i sacerdoti la portavano fuori e la sfio-ravano i capi di coloro che la sorreggevano, tutti accorrevano e si prostravano dinanzi a lei, nessuno poteva rimanere in di-sparte, e chi esitava a seguirla, non poteva più disporre libera-mente di se stesso.

La sua perdita fu peggiore della cattura del loro re, fu il col-po più duro che subirono nel corso di questa battaglia. La cro-ce era un bottino insostituibile, al di fuori di essa non avevano più altro scopo, la sua venerazione era un obbligo perché era il loro Dio dinanzi al quale s'inchinavano fino a toccare la terra con la fronte e a cui la loro bocca cantava inni di lode. Al suo apparire si struggevano, sbarravano gli occhi a contemplarla, si consumavano quando veniva mostrata, non si preoccupavano più di nulla quando l'avevano vista, cadevano in trance quando la rivedevano, offrivano per lei la loro vita e in lei cercavano soc-corso, tanto da riprodurre su suo modello altre croci, cui pure rendevano omaggio ... Quando ci impossessammo della croce, la loro infelicità fu quindi grande, e si diedero a combattere stan-camente ... Pare che dopo aver saputo della perdita della cro-ce, nessuno di loro sia sfuggito al suo triste destino: finivano per essere uccisi o presi prigionieri, e venivano sconfitti con la for-za. Il sultano era accampato nella piana di Tiberiade come il leo-ne nel deserto, come la luna nel pieno del suo fulgore»61. Da quel giorno in avanti, della reliquia della croce di Gerusalemme si perse ogni traccia.

Una crociata contro altri cristiani

Parve così che i cristiani avessero perso la loro «fonte di vi-ta». Ogni tentativo di riconquistare la Città Santa finiva per fal-

61 Cit. da F. Gabrieli, Die Kreuzziìge aus arabischer Sicht, Zurich 1973, pp. 184s.

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lire. Quando, nel 1198, papa Innocenzo III chiamò in partico-lare la nobiltà francese e i comuni italiani alla quarta crociata, il suo appello fu accolto solo apparentemente. In realtà l'o-biettivo dei crociati era Costantinopoli, l'antica città imperiale dell'Oriente, in cui sapevano che si trovavano ora alcune delle più significative reliquie della cristianità: «Le preziose testimo-nianze della passione di nostro Signore Gesù Cristo, e cioè la croce, i chiodi, la spugna, la canna, la corona di spine, il telo se-polcrale e i sandali», mostrate nel 1171 dall'imperatore Manue-le I Comneno al re dei crociati Amalarico I di Gerusalemme, che si era fatto accompagnare in quella visita dallo storico Gu-glielmo di Tiro62.

A questo miravano i cavalieri crociati, e attendevano solo un pretesto per poter attaccare la città. L'occasione giunse presto, quando Angelo Comneno detronizzò il fratello Isacco e prese il potere con il nome di Alessio III. L'imperatore legittimo fu ac-cecato sopra un bacile di carboni ardenti ed esiliato in un mo-nastero insieme al figlio, che pure portava il nome di Alessio. Quest'ultimo però riuscì a fuggire e chiese aiuto ai crociati, lu-singandoli con la promessa di una consistente quantità d'argento come ricompensa. Il 17 luglio 1203 l'esercito crociato attaccò e costrinse alla fuga Alessio III. Quindi, con il nome di Alessio IV, fu incoronato imperatore il giovane pretendente al trono. Ma quando questi fu assassinato, il successore Alessio V rifiutò ai crociati la ricompensa promessa loro dal predecessore. Questi, però, la incassarono comunque in altro modo: l'8 aprile 1204 at-taccarono la città di Costantinopoli. Nel corso del secondo at-tacco, il 13 aprile, caddero infine le mura di quella che i crocia-ti chiamavano «la città popolata e guidata dagli eretici». Non si trattava più ora di sconfiggere gli «infedeli»: nel mirino c'e-rano ora gli «eretici», ma ciò che contava innanzi tutto era im-padronirsi delle loro ricchezze.

62 Cit. da F.C. Tribbe, Portrait of Jesus?, New York 1983, p. 49.

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La città di Costantino

Costantinopoli, la «città di Costantino», fu fondata dall'im-peratore romano il 4 novembre 328 e da lui consacrata l ' i l mag-gio 330 con una funzione solenne nella sua chiesa principale. Cuore della città appena fondata era la quasi millenaria città gre-ca di Bisanzio, la cui posizione strategica nel Corno d'oro, al con-fine tra Europa e Asia, tra Mar Nero e Mar Mediterraneo, con-vinse l'imperatore ad ampliarla e a farla crescere fino a farne la nuova capitale imperiale. Dopo aver condotto sotto il suo con-trollo la parte orientale dell'impero, nel 324, comprese che le pro-vince orientali esigevano maggiore flessibilità e vicinanza agli apparati amministrativi, esigenza questa che già Diocleziano ave-va riconosciuto e che l'aveva indotto a introdurre la tetrarchia. Sotto di lui era stata Nicomedia, sul Mare di Marinara, l'attua-le Izmit, ad assurgere a capitale della parte orientale dell'impe-ro e a sede deh'Augusto d'Oriente, mentre Tessalonica (l'odier-na Salonicco), in Grecia, era divenuta la sede del Cesare, o su-bimperatore. L'Augusto d'Occidente risiedeva a Milano, mentre il suo Cesare nell'Augusta Treverorum, l'attuale Treviri. Roma era ancora la capitale, almeno di nome, ma perse provvisoria-mente il suo ruolo di residenza imperiale. La situazione non cam-biò nemmeno con l'ascesa al trono di Costantino, che risiedet-te a Roma solo nella fase iniziale del suo regno, stimolando una vivace attività urbanistica. Ma a Roma preferì infine Treviri, quin-di Serdica (l'odierna Sofia), successivamente Sirmium, presso Belgrado, nei Balcani. Là era più vicino ai confini dell'impero, che doveva difendere dalle scorrerie dei germani e dalle mire dell'ambizioso coreggente Licinio. Dopo la definitiva sconfitta di quest'ultimo, nel novembre del 324, Costantino si trasferì dap-prima nella residenza imperiale dioclezianea a Nicomedia, nel-le cui immediate vicinanze, a Nicea (Inzifc), convocò il concilio nell'estate del 325, per poi celebrare poco dopo, aUa presenza di tutti i vescovi, il ventesimo anniversario della sua ascesa al tro-no, i vicennalia. Ciò già di per sé rappresentava un affronto a Ro-ma, e per questo motivo l'imperatore promise di tenere l'anno

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successivo i festeggiamenti nella vecchia capitale dell'impero. Ma questo progetto non stava sotto una buona stella.

Un affare funesto

Già durante il viaggio a Roma venne alla luce un affare fu-nesto. Crispo, primogenito di Costantino che aspirava al trono, aveva preso parte a una congiura volta ad abbattere l'impera-tore insieme al figlio di Licinio, Liciniano. Il complotto fallì, Cri-spo e Liciniano furono arrestati e poco tempo dopo giustiziati a Pola (l'attuale Pula, in Croazia). Di lì a breve Costantino ri-cevette un messaggio della madre Elena, che nel frattempo ave-va fatto ritorno dalla Terrasanta. Aveva appreso che Crispo ave-va intrattenuto una relazione adulterina con la matrigna Fausta, che probabilmente aveva ordito il complotto. Non sappiamo quanto questa accusa fosse fondata. Certo è che il rapporto del-l'imperatrice madre con la nuora non era mai stato buono. In fondo, Fausta era pur sempre la figlia di quel Massimiano che aveva a suo tempo spinto suo marito Costanzo a ripudiare Ele-na per fargli sposare un'altra delle sue figlie, la figliastra Teo-dora, e assurgere così al rango di un Cesare. Il fratello di Fausta, Massenzio, era stato acerrimo nemico di Costantino. È anche possibile che Fausta non avesse mai davvero perdonato allo spo-so di aver versato il sangue di suo padre e di suo fratello e che abbia veramente preso parte alla congiura. Comunque sia, Fau-sta peri di lì a poco nel calidarium delle terme di Treviri. La tra-dizione oscilla nell'attribuire la sua morte a un getto d'acqua bollente, a colpi di pugnale o a soffocamento tramite vapore, ma non c'è dubbio che si trattò di un assassinio, e il mandante non poteva che essere Costantino, il quale evidentemente temeva Io scandalo di un'accusa pubblica alla consorte.

Le notizie relative al suo dramma familiare erano comunque da tempo di pubblico dominio a Roma, quando l'imperatore giunse nella Città Eterna, il cui suolo non calcava da più di dieci anni. I romani non gli avevano ancora perdonato di aver

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celebrato i vicennalia a Nicea: si ironizzava sulla pompa orien-tale con cui appariva in pubblico e si seguivano con sospetto la sua conversione al cristianesimo e le sempre nuove leggi contro tutto ciò che a Roma era tollerato e persino gradito, dall'adul-terio alla prostituzione rituale, dai sacrifici agli dèi pagani ai com-battimenti tra gladiatori. Per gli alti ceti romani, la nuova reli-gione era sempre la religione degli schiavi e degli umili, una su-perstizione orientale annidatasi come un bacillo nell'impero e che ora minacciava di prendere il sopravvento. Per loro Co-stantino era un traditore: traditore della sua classe, dell'impero stesso, degli dèi di Roma. E in una cosa avevano ragione: la Ro-ma millenaria, caput mundi, la città degli dèi e dei Cesari, che avevano sottomesso al proprio volere il mondo intero, andava perdendo sotto di lui il fulgore del potere.

Come Roma divenne cristiana

In nessun altro momento questa trasformazione si manifestò in maniera tanto drastica quanto in quell'anno in cui cadeva l'an-niversario costantiniano, il 326,1078 anni dopo la fondazione di Roma. Poco tempo prima, il 3 gennaio 326, su indicazione del-l'imperatore era stato insediato nell'incarico di praefectus urbis un certo Acilio Severo, primo prefetto cristiano della città di Ro-ma. In molti punti della città furono ora costruiti luoghi di cul-to cristiani. Già nel 324 Costantino aveva dato l'ordine di edifi-care una basilica al di sopra della tomba di san Pietro sul colle Vaticano - là dove un tempo sorgeva il circo di Nerone - , basi-lica che fu infine solennemente consacrata il 18 novembre 326. Probabilmente una piccola chiesa sorse anche sulla tomba di san Paolo, lungo la strada che conduceva a Ostia, al di fuori del-le mura cittadine. Anche sulle tombe dei martiri Sebastiano, Lo-renzo, Agnese, Marcellino e Pietro, tutte al di fuori della città e collocate lungo importanti arterie viarie, Costantino fece erige-re delle chiese intitolate a loro. Tuttavia Roma era a quell'epo-ca ancora ben lungi dall'aver accettato la nuova religione.

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All'epoca di Costantino, un buon terzo della popolazione di Roma faceva parte della Chiesa o ne era simpatizzante, ma la maggioranza dei suoi membri apparteneva ai ceti bassi o in-termedi, e inoltre tendeva a non uscire allo scoperto, perché trop-po spesso Roma era stata funestata da sanguinarie persecuzio-ni anticristiane. Ma i ceti alti della città, senatori e dignitari, veneravano ancora gli dèi romani. Così nemmeno Costantino osava addentrarsi nel loro campo. Le sue chiese e basiliche fu-rono tutte edificate su terreni di proprietà privata imperiale o al di fuori delle mura di Roma. Nel centro della città, invece, co-sì come nel Foro ai piedi del colle sacro alla triade capitolina, dominavano come prima gli antichi dèi di Roma: Giove e Giu-none, Minerva e Marte.

Nell'atto di celebrare i vicennalia, l'imperatore doveva sacri-ficare davanti a loro e implorare la loro protezione e il loro soc-corso, prima di gratificare il popolo con «pane e giochi circen-si». Questo avevano fatto i suoi predecessori, questo si atten-deva il Senato da Costantino. Ma l 'imperatore si rifiutò di prendere parte alla tradizionale processione al tempio di Gio-ve sul colle Capitolino, e non ne volle sapere nemmeno dei pre-diletti giochi circensi. Quando tutto era già predisposto per la parata, che doveva trasformarsi in un corteo trionfale per cele-brare l'anniversario dell'ascesa al trono, Costantino disdisse im-provvisamente i festeggiamenti. Il Senato e i dignitari della città si sentirono offesi. Il popolo, quando apprese che i giochi tan-to attesi non si sarebbero tenuti, divenne furente. Si giunse, co-me era giusto che fosse, al confronto aperto, aUa frattura. L'im-peratore lasciò la città e fondò sul Bosforo una nuova Roma. Subito dopo la consacrazione della basilica di San Pietro, partì.

La morte dì Elena

Dobbiamo supporre che Elena rimase a Roma ancora un po-co, quasi come «Augusta d'Occidente», ma lo seguì presto, for-se quando il figlio la invitò a partecipare alle cerimonie di fon-

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dazione della città. L'imperatrice, evidentemente consumata da-gli strapazzi del lungo viaggio, si spense poco dopo il suo arrivo a Nicomedia, dove Costantino continuava a risiedere, il 18 ago-sto del 327 o del 328, all'età di 79 anni. Come scrive Eusebio, nell'istante della morte «le stava accanto il suo nobile figlio, che le porgeva ogni cura e assistenza, e la teneva stretta per le ma-ni». Per renderle onore, nello stesso anno Costantino fece am-pliare Drepanum, la sua città natale, ribattezzandola Heleno-polis. Per almeno un altro anno, fino agli inizi del 329, in tutto l'impero furono coniate in sua memoria monete con la sua ef-figie e l'iscrizione HELENA AUGUSTA, come riferisce Eu-sebio63 e come confermano i reperti numismatici64. Le sue spo-glie, però, furono fatte portare a Roma per ordine del figlio, scor-tate da una solenne guardia d'onore militare, e là tumulate «in un sepolcro regale»65. Di quel gigantesco mausoleo oggi riman-gono solo le rovine, adiacenti alla catacomba in cui si trova la camera sepolcrale dei martiri Marcellino e Pietro, nel recinto della villa imperiale ad duas lauros sulla via Labicana. Eviden-temente Costantino l'aveva originariamente fatto costruire per sé, perché il massiccio sarcofago di porfido in cui Elena fu inu-mata e che si trova oggi nei Musei Vaticani è completamente co-perto di bassorilievi con scene di guerra66.

Una seconda Roma sul Bosforo

Costantino aveva già da tempo deciso di non mettere più pie-de a Roma. Dispose al contrario, con la consueta modestia, di farsi seppellire nella sontuosa chiesa degli Apostoli di Costan-tinopoli, da lui stesso fatta erigere. Attorno al suo sepolcro ave-

M Eusebio, VÌL Const., Ili, 47. 64 J.W. Drijvers, op. cit., p. 73. 65 Eusebio, Vit Const., Ili, 46-47. 66 Socrate Scolastico, Hist. Ecc., 1,17. Fonti ulteriori su Costantino e Bisanzio: M.

Grant, op. cit; R. Krautheimer, op. cit.-, J.J. Norwich, Byzanz, Dusseldorf 1993; G. Ostro-gorsky, Byzantinische Geschichte, Miinchen 1996; C. Scarre, Die rómischen Kaiser, Dus-seldorf 1996.

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va fatto collocare dodici sarcofagi simbolici in cui riposavano le reliquie degli apostoli, da lui stesso fatte raccogliere a questo scopo e lì convogliate da ogni parte del mondo.

Il rito ufficiale di fondazione deUa città di Costantinopoli eb-be luogo il 4 novembre 328, data accuratamente calcolata da uno dei suoi astrologi. Tutti i privilegi di cui godeva Roma fu-rono attribuiti anche alla nuova capitale. Le forniture di ce-reali provenienti dall'Egitto, destinate fino a quel momento a Roma e là distribuite gratuitamente al popolo, furono ora di-rottate sulla città di Costantino. I tesori d'arte provenienti da Ogni angolo dell'impero affluivano nella nuova capitale. Le ric-chezze dei templi pagani della parte orientale dell'impero fu-rono confiscati e por ta t i a Costant inopol i , in par te per ador-nare la nuova città, in parte per finanziare l'edificazione delle sontuose chiese volute da Costantino. La prima grande basili-ca fu consacrata a Irene (eiréne), la «pace di Dio», seguita dal-la chiesa degli Apostoli. Per quanto alle cerimonie di fondazio-ne di Costantinopoli concorressero anche riti pagani, nelle in-tenzioni di Costantino la città doveva davvero diventare fin dall'inizio una «città santa» di impronta cristiana, la città più santa dell'impero. E a questo scopo, giacché mancava di testi-monianze del cristianesimo delle origini o di tombe di martiri, erano necessarie le reliquie.

Nel centro di Costantinopoli fu così eretto il Milion (letteral-mente: «pietra miliare»), quattro archi di trionfo sormontati da una cupola. Lì, in un prezioso reliquiario, si trovava un gros-so frammento della croce che Elena aveva portato al figlio. In questo modo la croce divenne l'ombelico del mondo. Immedia-tamente a ovest del Milion si snodava la Mese, la strada cittadi-na più maestosa. Questa sboccava in un Foro dalla forma ova-le che l'imperatore fece completamente rivestire di marmo. A l suo centro, su un basamento dell'altezza di 7 metri, svettava un'imponente colonna di porfido alta 30 metri, fatta apposita-mente portare da Heliopolis, in Egitto. Sulla sua cima troneg-giava una statua di Apollo del grande maestro greco Fidia, la cui testa era stata sostituita con un'altra dalle fattezze di Costanti-

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no e cinta da un'aureola. Nella mano destra reggeva uno scet-tro, nella sinistra il globo imperiale con una scheggia della reli-quia deUa croce, come annota con orgoglio Socrate Scolastico di Costantinopoli67. Dobbiamo supporre che questa reliquia fos-se stata portata nel Bosforo dalla stessa Elena, come dono alla nuova città del figlio.

Un chiodo per l'elmo dell'imperatore

Già in precedenza, probabilmente in occasione dell'anniver-sario della sua ascesa al trono, a Roma Elena aveva consegna-to al figlio due chiodi della croce, come emerge chiaramente dal-le fonti di cui disponiamo. Afferma infatti Rufino: «Porta al fi-glio anche i chiodi con i quali era stato trafitto il corpo del Signore»68. Il loro successivo destino, per quanto oggi ci appaia incomprensibile e protervo l'uso che ne fu fatto, corrisponde pie-namente al modo di pensare degli antichi: Elena aveva fatto stac-care parti dei chiodi e le aveva fatte incastonare nell'elmo e nel-le briglie del figlio. Dice Teodoreto: «La madre dell'imperatore, dopo che le sue aspirazioni si erano realizzate, diede istruzione che una parte dei chiodi venisse incastonata nell'elmo impe-riale, perché il capo del figlio venisse protetto dalle frecce dei nemici. Un'altra parte dei chiodi fu, su sua indicazione, monta-ta nelle briglie del cavallo, non solo per garantire la sicurezza dell'imperatore ma anche per adempiere a un'antica profezia; perché molto tempo fa predisse il profeta Zaccaria: "In quel tem-po anche sopra i sonagli dei cavalli si troverà scritto: Sacro al Si-gnore"»69. Già il rimando a Zaccaria (14,20) rappresenta un ten-tativo di giustificarsi e ciò dimostra che il comportamento di Ele-na fu criticato anche dai contemporanei. Di presunzione si par-lava ancora sessantanni più tardi, e così toccò anche ad Am-

47 R . Krauthe imcr , op. cit.,p. 36 . 48 Rufino, Hist. Ecc., X, 7. 69Teodoreto, Hist. Ecc., 1,7.

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brogio difendere la stessa Elena davanti alla corte imperiale quando tenne l'orazione funebre in onore dell'imperatore Teo-dosio: «Elena agì saggiamente collocando la croce sui capo del-l'imperatore perché nella persona dell'imperatore fosse reso omaggio alla croce. Non di sfacciataggine si tratta, ma di pietà cristiana, perché è la santa redenzione cui viene reso omaggio. Buona cosa è perciò il chiodo dell'impero romano, che regge tutto il mondo e riveste la fronte del sovrano perché diventino propagatori della sua parola coloro che prima usavano essere persecutori. A ragione il chiodo è stato collocato sulla testa, per-ché dove risiede la ragione, là [venga concessa] protezione ... Gli imperatori considerano il chiodo della croce più prezioso del lo-ro diadema»70.

Ricca di tesori e reliquie

Fortunatamente la parte più consistente dei chiodi si conservò ed entrò a far parte del tesoro di reliquie della nuova capitale, perché ancora nel 1204 i crociati rinvennero «i due chiodi che erano stati conficcati nel mezzo delle sue mani e dei suoi pie-di»71 nella cappella delle reliquie degli imperatori bizantini. Pro-prio queste reliquie, ma anche gli altri tesori della ricca città di Costantinopoli, avevano suscitato l'ammirazione dei cavalieri franchi, quando, per la prima volta, in occasione dell'incorona-zione del giovane imperatore Alessio IV, avevano percorso le sue strade. Così scriveva uno dei loro condottieri, il francese Geoffroy de VUlehardouin, colto da uno stupore che evidente-mente gli mozzava il fiato: «Si deve sapere che molti apparte-nenti al nostro esercito giravano per Costantinopoli colmi di me-raviglia e ammiravano i ricchi palazzi e le grandi chiese così nu-merose, e le enormi ricchezze, grandi come in nessun'altra città. Per non parlare delle reliquie, perché a quell'epoca in città ce

70 Ambrogio, De obitu Theodosii, 48. 71 Robert de Clan, Conquest, p. 103.

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Le reliquie di Costantinopoli. Illustrazione dei viaggi del cavaliere John Mandeville, 1410 circa. Londra, British Library.

n'erano tante quante quelle che stavano in tutto il resto del mon-do messe assieme»72. «Non credo che nelle quaranta città più ricche del mondo ci fossero così tanti tesori come a Costanti-nopoli»73, annotava con entusiasmo un altro di coloro che par-teciparono alla crociata, il cavaliere Robert de Clari. Per i cri-

72 Cit. da E. Gruber-H. Kersten, Das Jesus-Komplott..., cit, p. 219. 73 Robert de Clari, Conquest, pp. 103s.

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stiani provenienti dall'Europa settentrionale, questo era come un altro mondo. La loro patria era arretrata, fatta di foreste sel-vagge e semplici villaggi, con chiesette cadenti, spesso costrui-te in legno, sovrastate da rocche misere e fredde. Ciò che vide-ro a Costantinopoli oltrepassava i loro sogni più audaci, e fece crescere in loro l'avidità di possedere una parte di queste ric-chezze. Aspettavano solo l'occasione per approfittarne e per prendersi finalmente ciò che bramavano.

Il grande saccheggio

L'occasione giunse proprio quel 13 aprile 1204. Un'orda di saccheggiatori si abbatté sulla potente città. Dopo ore di acca-niti combattimenti si riversarono su case, chiese e palazzi e pre-darono tutto ciò che poterono. Per dirlo con le parole dell'ar-cheologa Maria Siliato: «Saccheggiarono YHagia Sophia, strap-parono teli dorati e di seta che adornavano l'altare della Madre di Dio, violarono i sepolcri degli imperatori. Le spoglie di Giu-stiniano, dopo quasi 700 anni, erano ancora intatte, ma nem-meno questo li trattenne, perché era completamente ricoperto d'oro. Abbatterono le statue, fusero oggetti d'argento e di bron-zo, reliquiari e calici, per ricavarne monete. Per cogliere la mi-sura della devastazione è sufficiente leggere le espressioni di di-sperazione del greco Niketas Choniates, che fu testimone inor-ridito e nauseato dell 'annientamento. Costantinopoli, che ospitava i tesori d'arte più sfarzosi del mondo, fu distrutta per sempre»74.

I comandanti della «crociata» tentarono di porre un argine allo sconfinato vandalismo, almeno per proteggere le reliquie più preziose. Una disposizione indicava che oggetti sacri e reli-quie non potevano cadere in mano a privati ma dovevano es-sere consegnati ai comandanti di grado più elevato, per essere ammassati in tre chiese della città. Poiché solo pochi cavalieri vi

74 M.G. Siliato, op. cit., pp. 230s.

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si attennero, i saccheggiatori furono minacciati di scomunica e pena capitale. Ma nemmeno l'esecuzione pubblica di un cava-liere, resosi colpevole di questa violazione, ebbe un qualche ef-fetto deterrente. Chi si era impossessato di una reliquia prezio-sa, lasciava segretamente la città per imbarcarsi in direzione del-la patria. Là, nella chiesa del paese d'origine del saccheggiatore, il bottino ricompariva, veniva esposto e devotamente venerato dai fedeli.

Il borgognone Othon de la Roche prese possesso con i suoi cavalieri del nuovo palazzo delle Blacherne, in cui l'imperato-re si era insediato poco tempo prima e nella cui chiesa della Ver-gine, dietro a porte d'argento e di bronzo, «era custodita la Sin-done, in cui era stato avvolto nostro Signore». Un secondo grup-po di cavalieri, tra i quali Robert de Clari, diede l'assalto all'antico palazzo imperiale nel porto di Bukoleon, che vantava 500 stan-ze e 30 cappelle, tra cui la cappella delle reliquie dei sovrani bizantini. «Era così ricco e fine», raccontava il nostro cronista, «che nemmeno cardini, o chiavistelli, o altri oggetti che nor-malmente sono di ferro, erano fatti di comune metallo. Qui anche questi oggetti erano d'argento; e non c'era una sola co-lonna che non fosse d'agata, o di porfido, o di ricche pietre pre-ziose. In questa cappella si trovarono ricchissime reliquie, per-ché vi si trovarono due frammenti della vera croce di Cristo, grandi come la gamba di un uomo e lunghi all'incirca quanto un braccio», inoltre «la parte metallica della lancia con cui nostro Signore fu trafitto nel fianco, i due chiodi che erano stati con-ficcati nel mezzo delle sue mani e dei suoi piedi, la tunica che indossava e che gli fu strappata quando fu condotto sul monte Calvario e ... la corona benedetta, con cui fu incoronato»75, ov-vero la corona di spine.

La menzione dei due grossi frammenti della croce (nel 1171 si parlava solo di uno) ci fa ipotizzare che forse la reliquia del-la croce gerosolimitana fosse stata nel frattempo rivenduta, do-po essere stata depredata ai bizantini dal califfo Saladino nel

71 Robert de Clari, Conquest, pp. 103s.

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1187. Le reliquie di Costantinopoli, comunque, si riversarono negli anni successivi soprattutto in Francia e in Italia. Migliaia di chiese, letteralmente, ricevettero una particella della «Santa Croce», che si ritrovò quindi ben presto nella sua interezza in Occidente. Così si dice nella Cronaca reale di Colonia: «Dopo la conquista della città, vennero trovate inestimabili ricchezze, gemme incomparabilmente preziose, e anche una parte della croce del Signore che, da Elena portata là da Gerusalemme e adornata con oro e gemme preziose, vi conobbe la massima ve-nerazione. Fu spezzettata dai vescovi presenti e suddivisa tra i cavalieri insieme ad altre preziosissime reliquie; più tardi, do-po che questi ebbero fatto ritorno in patria, dei frammenti del-la croce fu fatto dono a chiese e a monasteri»76. Con la perdita delle reliquie anche Costantinopoli, come già Gerusalemme pri-ma di lei, fu privata del suo splendore. Solo poche di esse, tra cui la santa lancia, rimasero nella città saccheggiata, in cui ora i cro-ciati proclamarono il «Regno latino». Questo intermezzo non fu di lunga durata: per la precisione, bastarono 57 anni perché i greci strappassero ai latini una provincia dopo l'altra e ricon-quistassero la città. Ma anche aUora Costantinopoli si risollevò solo per un breve periodo, prima di finire nel 1453 nelle mani dei turchi osmanli, che la ribattezzarono Istanbul. Si concluse così la storia, durata oltre undici secoli, della prima metropoli cristiana. Le sue chiese furono chiuse, profanate, o, come la Ha-gia Sophia, trasformate in moschee. La lancia fu infine manda-ta in dono a papa Innocenzo Vili dal sultano Bajasid II nel 1492 e va annoverata, insieme al fazzoletto con cui la Veronica de-terse il sudore dalla fronte di Gesù e a un frammento deUa cro-ce, tra le principali reliquie in appannaggio alla basilica di San Pietro, custodite ancor oggi in alcune cappelle delle reliquie tra quattro giganteschi pilastri che, disposti attorno all'altare pa-pale, sorreggono la cupola della basilica, al di sopra delle mar-moree statue monumentali opera di Mochi, Bolgi, Duquesnoy

76 Cit. da N. Breuer, Geschichtsbild undpolitische Vorstellungswelt in der Kòlner Kó-nìgsschronik sowie der Chronica S. Pantaleonis (diss.), Dusseldorf 1966, p. 57.

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e Bernini. Una volta all'anno, durante la quaresima e la setti-mana santa, vengono esposte ai fedeli77.

Reliquie per il palazzo imperiale

Ma che accadde delle reliquie che Elena portò originariamente a Roma? Se prestiamo fede alle fonti dell'epoca, i reperti in que-stione dovevano essere i seguenti: la parte più consistente della croce, con l'eccezione di quel terzo circa consegnato da Elena al figlio; la metà del titulus] uno dei tre chiodi.

La tradizione coeva non consente di dubitare che Elena trat-tenne per sé queste reliquie e le custodì nella cappella del suo palazzo. Così scrive espressamente Teodoreto: «Fece portare nel palazzo una parte della croce del nostro Redentore»78. Che tra le reliquie si trovasse anche il titulus, lo conferma la particola-re venerazione che Elena dimostrava soprattutto per questa re-liquia, come attestato anche dal vescovo Ambrogio79. Diversa-mente da quanto accaduto a Gerusalemme e a Costantinopoli, a Roma le reliquie sopravvissero alle turbolenze dei secoli. Pro-prio là, nella cappella di palazzo, si trovano ancor oggi: un mo-desto frammento della croce, il chiòdo e il titulus. Nel frattem-po però la cappella di palazzo è diventata ormai da tempo un'im-ponente basilica.

n G. Giuliani, Fiihrer durch die Peterskirche, Roma 1995, pp. 28s. 78Teodoreto, Hist. Ecc.,1,17. 79 Ambrogio, De obitu Theodosii, 46. Va escluso che Elena avesse portato a Costan-

tinopoli anche solo una parte dei titulus, perché questo non viene citato in alcuna del-le dettagliate liste di reliquie bizantine di cui disponiamo.

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6 UNA GERUSALEMME A ROMA

Roma, basilica di Santa Croce, 1° febbraio 1492

Trattenendo il respiro, il vecchio abate osservava gli scalpelli-ni mentre cautamente estraevano dal muro quel blocco di pie-tra che recava un'iscrizione tanto promettente. Era venuto alla luce nel corso dei lavori di riparazione al tetto della cappella di Sant'Elena, celato dietro uno strato di intonaco bianco che col passare del tempo si stava sgretolando e che i funghi, prodotti dal-l'umidità, andavano aggredendo. Lo stato pietoso della veneran-da basilica aveva mosso il cardinale titolare, lo spagnolo Men-doza, arcivescovo di Toledo, a commissionare grandi lavori di re-stauro. Con entusiasmo, i monaci dell'adiacente abbazia cistercense osservavano come la basilica di Santa Croce andava riacqui-stando, ogni giorno di più, Usuo antico splendore. A questo con-tribuiva in particolare il maestro Melozzo da Forlì, un geniale pit-tore umbro che stava decorando l'abside della basilica con mae-stosi affreschi dai colori smaglianti. Al centro stava Cristo Onnipotente, cui era stata consacrata la basilica, che, reggendo con la mano sinistra il Vangelo aperto e impartendo con un ge-sto la benedizione, proclamava, attorniato da una schiera di an-geli: Ego sum Via, Veritas et Vita, «Io sono la via, la verità e la

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vita!». Attorno alla figura di Cristo, una cornice di affreschi raf-figurava quell'evento che conferiva alla basilica di Santa Croce il suo particolare significato: il rinvenimento della reliquia della croce a Gerusalemme, così come lo racconta la Legenda aurea, secondo cui un certo Giuda aveva mostrato all'imperatrice Ele-na il luogo in cui giaceva sepolta la croce. Nell'affresco si nota-no alcuni uomini mettersi al lavoro con delle pale, per poi rinve-nire nella terra tre croci. Per riconoscere l'autentica croce di Cri-sto, vengono accostate in sequenza, una dopo l'altra, al corpo di un giovinetto spentosi da poco, che al contatto con la terza croce si risveglia dal sonno della morte. Allora Elena può inalberare la «vera croce» e renderle omaggio, e dinanzi alla croce si vede, inginocchiata devotamente, una figura dalle fattezze del cardina-le Mendoza che si è così, nonostante l'evidente anacronismo, fat-to immortalare per l'eternità. La scena successiva descrive il ri-torno della croce a Gerusalemme, dopo che l'imperatore Eraclio l'aveva riottenuta dai persiani.

Mentre il maestro umbro e i suoi allievi dipingevano questa scena maestosa in tutti i suoi particolari, era già iniziato, qual-che anno prima, il restauro del cuore sacro e pulsante della ba-silica: la cappella di Sant'Elena, che ricorda nella forma l'an-tica cisterna di Gerusalemme in cui erano state rinvenute le re-liquie della croce. Era raggiungibile solo mediante scale, perché il livello del terreno su cui sorgeva era quello su cui una volta s'alzava il palazzo imperiale. Proprio in questo luogo, nel son-tuoso salone dei ricevimenti, da Elena fatto trasformare nella cappella di palazzo, l'imperatrice aveva fatto esporre le reliquie della croce, consegnandole alla venerazione dei fedeli. E per ricreare qui, nel bel mezzo di Roma, un secondo monte Cal-vario, aveva fatto trasportare in capienti casse il terriccio rac-colto nel luogo della sepoltura di Gesù, sulla collina del Gol-gota, facendolo spargere al suolo, attorno all'altare delle reli-quie. Ciò aveva trasformato la chiesa in una Gerusalemme romana e ne aveva deciso la successiva denominazione: basili-ca di Santa Croce in Gerusalemme. Nel centenario della sua

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consacrazione, nel 427, l'imperatore Valentiniano III (425-455), adempiendo a un voto fatto dalla madre Galla Placidia e dal-la sorella Onoria, aveva fatto decorare la cappella con super-bi mosaici, lodati e ammirati per i secoli a venire e ai quali il maestro Melozzo da Forlì si sarebbe ispirato per gli affeschi nel 1492. Raffigurano Cristo nell'atto di benedire e di proclamare, reggendo il libro con la mano sinistra: Ego sum Lux Mundi, «Io sono la luce del mondo». Attorno a lui sono rapppresen-tati i quattro evangelisti, e tra di loro, disposte a mo' di trian-golo, scene del rinvenimento della santa croce, della sua ve-nerazione da parte di Elena, della sua suddivisione in tre par-ti - destinate a Gerusalemme, a Roma e a Costantinopoli - a opera della stessa imperatrice, e della processione, guidata dal vescovo Macario, con cui la croce rinvenuta viene solen-nemente portata in città.

Proprio in questo luogo, nella cappella di Sant'Elena, a ciò che rimaneva della reliquia della croce, insieme con l'unico chiodo rimasto a Roma, fu reso omaggio per oltre un millennio. Che però a questo nucleo di reliquie una volta appartenesse anche il titu-lus della croce, l'abate e i monaci l'avevano appreso solo da an-tichi racconti. Erano convinti che fosse andato disperso in un qualche momento della travagliata storia di Roma. Ma allora, in quella fredda mattina d'inverno del 1° febbraio 1492, accadde l'i-naspettato. Mentre contemporaneamente, alla corte di Spagna, un quarantunenne genovese sosteneva di essere in grado di rag-giungere le Indie anche facendo rotta verso Occidente, a Roma veniva riportato alla luce un significativo reperto dei primordi del cristianesimo.

Al di sopra dell'arco di trionfo della cappella di Sant'Elena, il cui tetto doveva essere intonacato di nuovo, gli addetti ai lavo-ri di restauro rinvennero, sotto un vecchio strato di intonaco, una mattonella che recava un'iscrizione in latino, composta di due so-le parole: TITULUS CRUCIS, «l'iscrizione della croce». Quan-do gli artigiani ebbero liberato la mattonella e l'ebbero cauta-mente estratta, notarono che questa celava una nicchia: «Reve-

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rendo abate, qui c'è qualcosa», esclamò uno dei monaci che, cu-riosi ed eccitati, si sporgevano sulla punta dei piedi, facendo co-rona agli artigiani arrampicati sulle scale. «Siate prudenti», am-moniva il vecchio abate rivolgendosi ai lavoranti, per poi bloc-carli bruscamente subito dopo: «Ah, lasciate fare a me!». Sorretto dai confratelli e con passo malsicuro, s'inerpicò ora lui stesso sul-la scala, fino a infilare la mano nella nicchia. Ne trasse una cas-setta di piombo che portò giù con premurosa attenzione e che po-sò infine sull'altare della cappella di Sant'Elena per poterla esa-minare più. accuratamente alla luce delle fiaccole. «È sigillata», comunicò ai confratelli, «è il sigillo del cardinal Gerardo!». «In-tendete dire l'arcivescovo di Bologna salito al soglio pontificio nel 1144 con il nome di Lucio II?», chiese un giovane monaco erudito che si era occupato a fondo della storia della basilica, «Proprio lui», confermò il vecchio abate, «il futuro Santo Padre. Deve aver nascosto qui il titulus allora per porlo al riparo dalle turbolenze dell'epoca».

TITULUS CRUCIS: dietro a questa lastra di pietra fu rinvenuta l'iscrizione della croce nel 1492.

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H «Sessorium»

In effetti la storia della basilica di Santa Croce è estremamente movimentata. Quando l'imperatore Costantino, dopo aver ri-portato la vittoria sull'usurpatore Massenzio, entrò a Roma, lui e la sua famiglia presero possesso dei palazzi dei predecessori. La sede imperiale tradizionale sorgeva sul Palatino, dove dal-l'epoca di Augusto esisteva un nucleo di edifici imperiali che sa-rebbe poi stato continuamente ampliato dai suoi successori pro-venienti dalla casa imperiale giulio-claudia e poi da quella dei Flavi. Soltanto Nerone considerava inadeguata la residenza pa-latina, daUa cui denominazione palatium derivò il termine «pa-lazzo». Si fece costruire, a sud-est del Foro, la «Casa dorata», per potervi «vivere finalmente da essere umano», secondo le sue stesse parole. I suoi successori fecero abbattere il simbolo del-la decadenza di Nerone e tornarono a occupare i palazzi, certo n o n spartani, del Palatino. C i ò n o n d i m e n o , i possedimenti im-periali si espansero notevolmente nei tre secoli che seguirono al regno di Augusto, perché alcuni benestanti furono incorona-ti imperatori, o perché gli imperatori facevano donazioni ai mem-bri della propria famiglia, o ancora perché venivano confiscate le ville più grandi e sfarzose degli avversari politici. La parte su-dorientale godeva di particolare predilezione, dato che era la zo-na residenziale che offriva i maggiori vantaggi, con i suoi par-chi, i campi e le vigne, tra cui sorsero ben presto palazzi isolati e case signorili. Qui si trovava anche la Domus Faustae, la resi-denza di Fausta, consorte di Costantino (e quindi anche di suo padre Massimiano). Costantino ne fece dono al vescovo di Ro-ma. Nelle sue vicinanze sorgeva il più sontuoso di tutti i palaz-zi imperiali, il cosiddetto Sessorium, fatto erigere da Eliogaba-lo (218-222), forse la figura più ambigua - dopo Nerone - nel-la storia deUa Roma imperiale.

Il giovane siriano, fanciullesco sommo sacerdote del dio So-le, con una spiccata predilezione per gioielli, trucco e abiti di se-ta purpurea intessuti d'oro, si era spacciato per il figlio dell'im-peratore Caracalla quando, all'età di 14 anni, aveva rivendicato

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il trono imperiale. Con pompa orientale, accompagnato dalla madre e dalla nonna, fece ingresso a Roma, dove favorì la ra-pida diffusione del culto del suo dio e le relative orge selvagge. Si contraddistingueva tanto per la sconfinata religiosità quan-to per la sfrenata dissolutezza, che, in una Roma non certo pu-ritana, all'inizio divennero oggetto di chiacchiera pettegola e in-sistente, per poi far arricciare il naso a molti: un imperatore che si truccava, che danzava nudo, in estasi, attorno alla «pietra nera» del suo dio orientale e che voleva procreare «figli simili a un dio» con una delle vestali era troppo, per i rispettabili sena-tori romani. E così Eliogabalo, insieme a sua madre, venne pre-sto assassinato e gettato nel Tevere; al suo posto fu innalzato al trono il tredicenne Alessandro Severo.

Da luogo di peccato a chiesa

Poiché i vecchi palazzi imperiali non soddisfacevano le «ele-vate pretese» di Eliogabalo, questi si era fatto costruire il Ses-sorium e ne aveva fatto la sua residenza. Il nome dello sfarzoso palazzo ha un'origine popolare e rimanda a colui che l'aveva fatto edificare. Probabilmente in origine si chiamava sedis so-rianum, «sede (imperiale) siriaca», espressione che si trasformò ben presto in sus sorianum, «porco siriano», sprezzante sopran-nome affibbiato al giovane, lascivo imperatore. Ma nonostante la sferzante ironia riservata a chi l'aveva voluto, i vantaggi di questo nucleo di edifici erano tali da convincere Costantino a sorvolare sul suo passato così inequivocabile, tanto più che la modestia cristiana non faceva certo parte delle sue virtù. Alla fin fine era pur sempre un palazzo che soddisfaceva tutte le esi-genze imperiali: era infatti dotato di ampi giardini, di un proprio circo e dell'anfiteatro Castrense, i cui resti possono essere visi-tati ancora oggi. L'imperatore Aureliano (270-275), che fece co-struire la cinta muraria di Roma, in gran parte conservatasi, lo fece integrare nel tracciato murario. Del palazzo è conservata anche la facciata di un vasto salone ad abside, inglobata nella

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basilica di Santa Croce. La miglior vista sulle pareti ad arco del vano, alto 22 metri, e sui contorni delle grandi finestre ret-tangolari che, situate un tempo al di sopra delle arcate, illumi-navano lo spazio interno, si gode dal giardino del Museo Stori-co della Fanteria, proprio accanto alla basilica. Dal punto di vista della storia architettonica, non c'è alcun dubbio che la veneranda chiesa sia in effetti sorta da un'ala del Sessorium1, co-me ha confermato lo storico dell'arte Richard Krautheimer: «L'architetto imperiale aveva semplicemente aggiunto un'absi-de all'antico salone e aveva suddiviso lo spazio in tre parti gra-zie a due triple arcate trasversali; in questo modo erano suffi-cientemente corrisposte le esigenze di una cappella di palazzo in cui la famiglia imperiale e il suo seguito si disponevano di fronte al clero attorno all'altare ed erano contemporaneamen-te separati dalla servitù»2.

È altrettanto certo il motivo che portò alla ristrutturazione dell'edificio: il trasporto «nel palazzo» delle reliquie della croce raccolte a Gerusalemme, come dice espressamente Teodoreto. Il palazzo, prescelto come residenza imperiale da tutti gli impe-ratori succeduti a Eliogabalo, era lo sfarzoso Sessorium con tut-te le sue comodità. Che almeno Elena risiedesse prevalente-mente a Roma negli ultimi anni della sua vita, è un dato di fat-to incontrovertibile. Secondo il Liber Pontificalis, la cronaca papale, «tutto quel terreno chiamato Fundus Laurentum, che si estende dalla porta Sessoriana (l'attuale porta Maggiore) fino alla via Prenestina e alla via Latina fino al Mons Gabus, era di proprietà dell'imperatrice Elena»3. Questo appezzamento, si-tuato all'esterno della cerchia di mura aureliane, confinava di-rettamente con l'area in cui, al di là delle mura, sorgeva il Ses-sorium. Qui si trovava dunque la sua residenza, mentre Co-

1 S. Montanari, op. cit., pp. 37-42; P.H. Drenkelfort, Die Basilika zum heiligen Kreuz in Jerusalem, Roma s.d.; A.M. Affanni (a cura di), La Basilica di Santa Croce in Geru-salemme a Roma, Roma 1997; B. Bedini, Le reliquie della Passione del Signore, Roma 1997.

2 R. Krautheimer, op. cit., p. 35. 3 Cit. da J.W. Drijvers, op. cit, pp. 30s.

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Parete laterale della basilica di Santa Croce con in evidenza la facciata originaria del palazzo Sessoriano.

stantino regnava dal palazzo imperiale di Diocleziano a Nico-media. Probabilmente Elena esercitava a Roma le funzioni di «imperatrice dell'Occidente», nel senso della suddivisione dio-clezianea dell'impero, almeno a partire dalla sua nomina ad Au-gusta nel 325, per quanto i suoi compiti fossero piuttosto di natura rappresentativa. Tre iscrizioni, rinvenute nei pressi della basilica di Santa Croce, attestano la sua residenza nel Sessorium già da prima di quel momento. Rievocano la ricostruzione, ad opera della madre dell'imperatore, dei bagni pubblici che si tro-vavano nei pressi del palazzo e che andarono distrutti in un in-cendio, ribattezzati da quel momento Thermae Helenae\ Poiché in queste iscrizioni Elena non viene ancora citata con l'appel-lativo di Augusta, esse devono risalire a un'epoca anteriore al 325. Quando le fonti dicono quindi che l'imperatrice «fece por-

4 Ibid., pp. 33 e 47.

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tare nel palazzo una parte della croce del nostro Redentore»5, quel palazzo non può che essere il Sessorium, di cui una parte fu da quel momento consacrata a chiesa per poter dare dimo-ra a queste reliquie.

La terra del Golgota

Della terra del monte Calvario, che Elena portò con sé a Ro-ma, testimonia ancora oggi un'iscrizione che si t rova nella cap-pella di Elena, nel Cubiculum Sanctae Helenae:

HIC TELLVS SANCTA CALVA RIE SOLIME AB BEATA HELENA IN INFERIOREM FORNICEM DEMISS A SERVATA EST ATQVE INDE NOMEN HIERVSALEM CAPELLE INDITVM

«Qui la Santa Terra del monte Calvario di Gerusalemme vie-ne cosparsa e custodita dalla beata Elena nel vano inferiore sul-la cui volta eresse questa cappella che prese il nome di Gerusa-lemme». Questo fu purtroppo un motivo sufficiente, per i pel-legrini che accorrevano in questa chiesa, per sfondarne il pavimento, un tempo decorato da un magnifico mosaico. Per im-pedire danneggiamenti, il pavimento fu poi rivestito di una co-pertura in pietra particolarmente robusta.

Il trasporto a Roma della terra di Gerusalemme corrispon-deva a un'antica tradizione, coltivata anche in Israele. Nella Bib-bia leggiamo che Naaman (2Re 5), prima di mettersi in viag-gio alla volta della Siria, caricò terra d'Israele sul dorso di due muli. Giunto là, cosparse il suolo con questa terra, onde poter pregare Dio su suolo sacro. Anche gli ebrei di Nardea, nella lon-tana Persia, avevano eretto la loro sinagoga su terra e pietre pro-venienti da Israele.

5 Teodoreto, Hlsrf , T, 1 7.

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La Gerusalemme romana

Dal Liber Pontificali emerge il fatto che non fu Elena ad as-sumere l'iniziativa di ristrutturare il palazzo (forse non ne ave-va nemmeno i poteri), ma il figlio Costantino. Si dice nella Cro-naca di Papa Silvestro I (314-335): «L'imperatore Costantino fe-ce erigere nel palazzo Sessorio una basilica in cui conservò in uno scrigno dorato adornato di gemme parti della santa croce del nostro Signore Gesù Cristo, da cui derivò il nome della chie-sa ancor oggi conosciuta con il nome di "Gerusalemme"»6. Se-condo questa fonte, la basilica fu personalmente consacrata da Silvestro I il 20 marzo dell'anno 326 o 327.

Questa «Gerusalemme» trovò ben presto un contraltare nel-la «Betlemme» romana, la basilica di Santa Maria Maggiore, la cui erezione nel 356 fu ricondotta a un'apparizione di Maria. Durante il pontificato di Sisto III (432-440) fu ampliata, perché destinata a divenire il cuore della devozione mariana, diffusasi in tutto l'impero a partire dall'epoca del concilio di Efeso e del dogma, proclamato in quell'occasione, che definiva Maria come theotókos, «colei che aveva partorito Dio». Qui trovò di-mora anche l'antichissima icona di Maria Salus Populi Roma-ni («salvezza del popolo romano»), secondo la leggenda dipin-ta daU'evangelista Luca. Ciò nonostante, Santa Maria Maggio-re, che con il tempo sarebbe divenuta una delle quattro chiese principali di Roma, non godeva ancora a quell'epoca della po-polarità della basilica di Santa Croce.

In tutta la tarda antichità fino al basso medioevo, la «basili-ca di Elena», come allora era anche chiamata, fu una delle più importanti chiese di Roma. DaU'anno 500 non è più conosciu-ta soltanto come «Sant'Elena» o «Eleniana» o ancora «Hieru-salem» ma anche come «basilica di Santa Croce». Papa Grego-rio I (590-604) le trasmise il titolo cardinalizio di San Nicome-de e così la vincolò fortemente alla Santa Sede. Da allora, fu qui che il papa celebrava il rito del venerdì santo, fino all'esilio

6 Cit. da S. Montanari, op. cit., p. 41.

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avignonese (1305-1377). Secondo VOrdines Romani, i libri li-turgici che contenevano la descrizione delle cerimonie papali, il papa si recava scalzo dalla basilica Laterana fino alla «basilica Sessoriana», per venerare là il «vessillo della salvezza». I papi celebravano qui anche la quarta domenica di Quaresima (Lae~ tare). Dal IX secolo, simbolo di questa ricorrenza fu la «rosa do-rata», che il papa portava ogni anno dalla sua residenza al La-terano a Santa Croce, dove la consacrava. Dopo la celebrazio-ne della messa la riportava al Laterano, dove tradizionalmente la consegnava al prefetto di Roma, ma successivamente anche ad altre personalità. Papa Benedetto VII (974-983), che si sa-rebbe poi fatto seppellire a Santa Croce, fondò il monastero at-tiguo alla basilica, dapprima occupato dai benedettini di Mon-tecassino, poi dai canonici regolari di San Frediano e dal 1561 fino ai giorni nostri dai cistercensi di San Saba.

Le reliquie murate nell'altare

La basilica superò i primi secoli senza subire grandi trasfor-mazioni architettoniche, se si escludono occasionali lavori di re-stauro. Ma le cose cambiarono nel XII secolo, quando il cardi-nal Gerardo, il futuro papa Lucio II (1144-1145), commissionò una completa ristrutturazione dell'edificio sacro. Fece abbatte-re tutte le pareti trasversali e trasformare la casa di Dio in una basilica a tre navate dotata di transetto, di nartece, di una torre campanaria e di un chiostro. In quell'occasione deve aver rin-venuto il titulus, da lui poi racchiuso in una cassetta di piombo sigillata e fatto murare al di sopra dell'arco di trionfo della cap-pella di Sant'Elena, non senza lasciare indicazioni ai posteri per mezzo dell'iscrizione su quella mattonella - forse un relitto del-l'epoca più remota della basilica.

Non sappiamo a quale epoca possa risalire questa mattonel-la. Forse il titulus crucis f u m u r a t o già nel 410, quando i goti gui-dati da Alarico espugnarono Roma e la saccheggiarono per gior-ni. Forse la mattonella risale a 17 anni più tardi, quando si ope-

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rarono i restauri della cappella di Sant'Elena voluti all'impera-tore Valentiniano. In ogni caso essa aveva raggiunto il suo sco-po: grazie a lei, prima il cardinale Gerardo, poi i nostri monaci nel 1492 compresero di trovarsi effettivamente di fronte alla re-liquia deU'iscrizione della croce.

Che proprio la più significativa delle reliquie della basilica di Santa Croce venisse fatta nuovamente murare da Gerardo nel corso dei lavori di ristrutturazione della chiesa, corrispon-deva pienamente agli usi diffusi in Occidente nella tarda anti-chità così come nell'alto e nel basso medioevo. Solo nel XIV se-colo vennero di moda nell 'Europa occidentale le cosiddette «ostensioni», pubbliche esposizioni di reliquie che fino a quel momento erano prevalentemente praticate dalla sola Chiesa orientale. Era invece usuale murare delle reliquie in ogni alta-re. Dal VI secolo una particolare liturgia fu prevista a questo scopo e introdotta nei riti di consacrazione delle chiese: «Alla vigilia del giorno della consacrazione giungevano le reliquie, ve-nivano esposte all'esterno del nuovo edificio e durante la notte veniva loro reso omaggio con veglie di preghiera, poi, nell'atto della consacrazione, venivano solennemente traslate all'interno e deposte ... nell'altare»7. Così, nell'altare papale deUa basilica Laterana, non è stato murato soltanto il ripiano del tavolo del-la villa del senatore Pudente su cui Pietro, secondo la tradizio-ne, avrebbe celebrato l'Eucaristia, ma anche quelle che si sup-ponevano essere le reliquie del tavolo attorno a cui Gesù si riunì con i suoi discepoli in occasione dell'ultima cena a Gerusalem-me. Questo modo di procedere aveva diversi scopi: innanzitut-to la forza delle reliquie poteva estendersi in questo modo al-l'altare e, per suo tramite, alla chiesa tutta. Inoltre, ogni esposi-zione pubblica comportava una Sorta di profanazione e attirava infine l'attenzione dì coloro che bramavano impossessarsi del-le reliquie: dai comuni ladri ai saccheggiatori di professione; si pensi soltanto a quanti si contesero le reliquie di Costantinopoli. Una reliquia murata poteva sopravvivere al trascorrere dei se-

7 A. Angenendt, op. dr.,p. 169.

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coli, al riparo dal doloroso rischio di andare perduta, di esser trafugata o di andare in qualche modo distrutta.

Santa Croce in occasione dell'anno santo

Quando i papi, nel 1305, andarono in esilio ad Avignone e non celebrarono più i riti del venerdì santo a Santa Croce, la basili-ca perse improvvisamente di importanza. Nel XV secolo era sprofondata in uno stato di decadenza tanto grave da rendere necessari ingenti lavori di restauro, che il cardinale Mendoza fe-ce infatti eseguire. Solo nel XVI secolo riacquistò il suo antico splendore, grazie anche ai superbi affreschi del maestro umbro Melozzo da Forlì (1438-1494). Ulteriori abbellimenti furono me-rito dei successori di Mendoza, in particolare del cardinale Car-vajal (1495-1523) e del cardinale Quinones (1523-1540), padre confessore dell'imperatore Carlo V. Anche il rinvenimento del titulus conferì alla chiesa nuovo prestigio. Nemmeno sei setti-mane dopo il suo ritrovamento, il 12 marzo 1492, papa Inno-cenzo Vil i venne in pellegrinaggio a Santa Croce per rendere omaggio al titulus Christi, come riferisce minuziosamente Bur-cardo. Il suo successore, papa Alessandro III, confermò il 29 lu-glio 1496 nella bolla Admirabile Sacramentum l'autenticità del-l'iscrizione della croce. Promise inoltre l'indulgenza plenaria a tutti coloro che, l'ultima domenica di gennaio, dopo essersi con-fessati e aver ricevuto la comunione, avessero reso omaggio al titulus nella basilica Sessoriana. Il cardinale Mendoza fece infi-ne omaggio di uno sfarzoso reliquiario, in cui la tavola fu da allora custodita8. Gli storici dell'arte sospettano che Michelan-gelo si sia ispirato a questo reliquiario nel creare il titulus per la propria raffigurazione del crocifisso nella chiesa di Santo Spi-rito a Firenze (cfr. l'illustrazione a colori della tavola Vili)9.

8 J.W. Drijvers, op. cit, p. 190. 9 M. Lisner, Holzkruzifixe in Florenz und in der Toskana, Munchen 1970, p. I l i (e

nota 5).

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Ma solo con l'anno santo del 1575 Santa Croce tornò ad as-sumere stabilmente un posto di primo piano nei percorsi dei pel-legrini in visita a Roma. Fino a quel momento, dal primo anno giubilare del 1300, meta di pellegrinaggio erano solo le quattro chiese principali, o «arcibasiliche», di Roma: la basilica Lutera-na, la basilica di San Pietro, San Paolo fuori le Mura - che l'im-peratore Costantino fece erigere sulla tomba dell'apostolo de-capitato durante il regno di Nerone nello stesso anno in cui ordinò la costruzione della basilica di San Pietro, nel 324 - e la basilica mariana di Santa Maria Maggiore, che nel frattempo aveva assunto un ruolo di primo piano tra le chiese di Roma. Solo quando papa Gregorio XIII invitò a Roma i fedeli in oc-casione dell'anno santo del 1575, il pellegrinaggio si estese a com-prendere sette chiese: la chiesa dei Martiri di San Lorenzo fuo-ri le Mura, in cui venivano venerate anche le ossa del proto-martire Stefano di Gerusalemme, la basilica di San Sebastiano sulla Via Appia, per il cui tramite il cristianesimo fece ingresso a Roma e accanto alla quale si trovano gli ingressi delle cata-combe, e Santa Croce in Gerusalemme. Da quel momento in avanti divenne usuale fare il giro di queste «sette chiese prin-cipali» possibilmente in un giorno solo, a piedi e a digiuno, il che costituiva effettivamente un esercizio espiatorio. Cantando e pregando i pellegrini sfilavano in solenni processioni attraverso la Città Eterna, di giorno come di notte, reggendo candele, fiac-cole e stendardi e implorando sempre la benedizione di Dio.

Nel XVIII secolo Santa Croce fu ancora una volta accurata-mente restaurata su iniziativa di papa Benedetto XIV (1740-1758). L'incarico fu affidato a due architetti, Domenico Gre-goriani e Pietro Passalacqua, che diedero alla basilica una fac-ciata ad arco tardobarocca. Da quel momento la sua balaustrata fu decorata con le statue dei quattro evangeUsti e di due ange-li che impugnano la Santa Croce; all'esterno, a sinistra campeg-gia una statua raffigurante Elcna mentre regge la croce, sul la-to destro quella deU'imperatore Costantino10.

10 E.M. Jung-Inglessis, Das Heilige Jahr in Rom, Città del Vaticano 1997, pp. 166s: S. Montanari, op. cit, p. 42.

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Processione alle sette chiese di Roma nell'anno santo 1575.1 pellegrini si spostavano da una chiesa all'altra portando stendardi, croci e candele. Al centro, San Giovanni in La-terano, in alto a sinistra Santa Croce in Gerusalemme accanto alle rovine dell'anfiteatro Castrense. Incisione in rame di A. Lafrery (1575).

Quasi perse!

Poco tempo dopo Santa Croce fu sul punto di perdere le sue reliquie. Dopo l'ingresso in Italia delle truppe rivoluzionarie francesi al comando di Napoleone Bonaparte, gli staterelli del-l'Italia settentrionale dovettero capitolare. Quando poi furono sconfitte anche le truppe austriache che avrebbero dovuto pro-teggere lo Stato Pontificio, papa Pio VI fu costretto, il 19 feb-braio 1797, a siglare il trattato di Tolentino, con cui lo Stato Pon-tificio non cedeva solamente la provincia dell'Emilia Romagna, ma si impegnava anche a rinunciare a molte delle sue opere d'ar-te. Ma nemmeno questa pace, acquistata a così caro prezzo, res-se agli eventi. Dopo la fondazione della Repubblica Cisalpina, nell'estate del 1797, si verificarono delle sortite nel resto dello Stato Pontificio, tutt'intorno a Roma, e infine le truppe fran-

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cesi entrarono nella Città Eterna. Papa Pio VI fu arrestato e condotto in Francia, dove morì nel 1799. Molti monasteri e mol-te chiese di Roma, tra cui anche il monastero di Santa Croce, furono confiscati e saccheggiati. Il 13 settembre 1798, alla vigi-lia deUa festa deU'innalzamento della croce, i rappresentanti del-la Repubblica Cisalpina si rivolsero nuovamente all'unico mo-naco rimasto come guardiano della basilica, esigendo la con-segna delle reliquie della croce. Ma fortunatamente il monaco aveva nascosto le reliquie così accuratamente da non farle ca-dere nelle mani dei nemici della Chiesa. Consegnò soltanto i re-liquiari vuoti che, nel 1803, quando la tempesta s'acquietò nuo-vamente, furono sostituiti da nuovi reliquiari donati dalla du-chessa spagnola di Villa Hermosa (cfr. l'illustrazioni a colori della tavola VII).

La cappella di Sant'Elena

In origine le reliquie della Passione venivano custodite nella cappella di Sant'Elena, il cuore della basilica di Santa Croce. Poi-ché alla cappella, fino al 1520, si accedeva solamente dal con-vento, dove vigeva una severa clausura, le donne potevano en-trarvi solo il 20 marzo, nell'anniversario della sua consacrazio-ne. A questo divieto faceva riferimento una tavola, che minacciava di scomunica chi si rendeva responsabile della vio-lazione di questa norma. Alla metà del XVI secolo Nico lò Cir-cignani detto il Pomarancio (1517-1596) decorò la cappella di Sant'Elena con stupendi affreschi, che comunque risentirono ben presto dell'umidità. Per lo stesso motivo, la notevole umi-dità della cappella, le reliquie furono spostate nel 1570 in un al-tro vano dietro alla balconata al di sopra della rampa a destra del coro, che però non era accessibile ai pellegrini, e da quel mo-mento le reliquie furono esposte sulla balconata alla devozione dei fedeli, che si raccoglievano in basso, solo due volte all'anno, il venerdì santo e in occasione della festa dell'innalzamento (il 14 settembre).

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Sempre alla metà del XVI secolo, nel corso di scavi effettua-ti nel giardino del convento di Santa Croce, fu rinvenuta una sta-tua di marmo raffigurante Elena, accanto ad altre statue di Co-stantino e dei suoi figli. La prima fu accuratamente restaurata e collocata nella cappella di Sant'Elena, dove si vede ancor oggi. Si tratta probabilmente di un'opera precedente - forse la statua di Giunone - «riadattata» nel IV secolo alle nuove esigenze, una prassi del tutto corrente nell'era costantiniana: anche una parte dei rilievi che decorano l'arco di Costantino proviene da mo-numenti imperiali più antichi, mentre a Costantinopoli l ' impe-ratore, come si è già detto, fece sostituire il capo di una statua di Fidia che raffigurava Apollo con un'altra che aveva le fattezze di Costantino stesso. In ogni caso la statua di Elena di Santa Cro-ce servì ad Andrea Bolgi da modello per la sua scultura che rap-presentava ugualmente Elena e che fu coUocata nella basilica di San Pietro, e anche Peter Paul Rubens si ispirò a lei quando, nel 1601-1602, dipinse «Elena che reggeva la vera croce» per l'alta-re della cappella di Sant'Elena11.

La cappella delle Reliquie

Solo successivamente all'anno santo del 1925 si decise di espor-re di nuovo permanentemente le reliquie della passione. A que-sto scopo fu edificata un'apposita cappella delle Reliquie. L'ar-chitetto Florestano D i Fausto la concepì c o m e una sorta di ri-produzione del monte Calvario, con tre rampe di scale di tre gradini che conducevano ciascuna a una porta a forma di croce e cui fanno da contrappunto, alle pareti, le stazioni della via cru-cis, fuse in bronzo da Giorgio Nicolini. L'edificazione della cap-pella ebbe inizio nel 1930, ma a causa delle vicende beUiche fu completata solo nel 1952. Il suo vano principale è adornato di marmo prezioso; nel centro, sotto a un baldacchino marmoreo a cibolum, sta l'altare. Originariamente lo scrigno con le reliquie

11 A.M. Affanni (a cura di), op. cit., pp. 127-135; P.H. Drenkelfort, op. cit, pp. 21-25.

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della passione si trovava nell'abside di questa cappella; solo nel 1997 esse furono spostate in una teca di vetro, che permette di osservarle da tutti i lati e che è situata sul ripiano dell'altare. Fu qui che vidi per la prima volta l'iscrizione della croce, sulla qua-le solo una semplice, piccola nota a margine della guida turisti-ca richiamava l'attenzione.

Il destino delle reliquie della croce

Per il fatto di essere murata così a lungo, la reliquia più si-gnificativa della basilica di Santa Croce, l'iscrizione della croce tanto ardentemente venerata da Elena, restò al riparo da ogni manomissione. E fu un bene perché, invece, da quella parte del-la trave orizzontale custodita a Roma, una volta così cospicua, nel corso dei secoli furono asportate dai papi così tante parti-celle che oggi si sono conservati solo tre miseri frammenti del-la lunghezza di un braccio, tuttora visibili a Santa Croce. Un frammento molto più grosso finì, nel 1629, su indicazione di pa-pa Urbano Vili della famiglia Barberini, nella basilica di San Pietro, dov'è tuttora conservato nella cappella delle Reliquie del-la Santa Croce in uno dei quattro pilastri che sorreggono la mas-siccia cupola, al di sopra della statua di Elena di Andrea Bolgi. Una volta all'anno, il venerdì santo, il legno sacro della passio-ne di Gesù, racchiuso in un reliquiario a forma di croce, viene usato per impartire la benedizione ai fedeli.

Si mette spesso in dubbio l'autenticità delle innumerevoH par-ticelle della croce diffuse nel mondo cristiano. Già il vescovo Ci-rillo di Gerusalemme, in una delle sue omelie catechetiche che tenne nel 1348, confermava che solo 23 anni dopo il suo rinve-nimento «quasi tutto il globo terrestre»12 era stato inondato da frammenti della croce. Nella prima fase successiva al ritrova-mento, quelle parti della croce in possesso dell'imperatore ri-masero intatte; fu solo quando le reliquie di Santa Croce per-

12 Cirillo, COL, IV, 10.

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vennero al papa che si inaugurò la prassi di inviarne delle par-ticelle alle chiese e ai monasteri più importanti. Dietro a questa pratica si possono immaginare due ordini di motivi. Da un lato, Elena non poteva aver rinvenuto una croce intatta, perché al-lora ben difficilmente l'avrebbe suddivisa. È più probabile il rin-venimento di due grosse travi di legno grezzo, il palo della cro-ce e il braccio orizzontale, che forse avevano risentito della con-servazione in una cisterna: era certo un legno sacro, ma non un reperto gradevole alla vista, né tanto meno un orgoglioso «mo-numento alla vittoria della passione». In tutta l'arte cristiana è presente una certa tendenza a idealizzare la raffigurazione del-la croce, rappresentata come un oggetto accuratamente lavora-to, mentre in realtà si trattava di un palo grezzo e di una trave orizzontale tagliata anch'essa con una certa approssimazione. Anche per questo è possibile che il lignum crucis fosse mo-strato solo in frammenti; a Gerusalemme infatti non si esitava a distribuire le particelle della croce ai clerici che venivano in pellegrinaggio nella Città Santa, quale segno di comunione con la Chiesa universale e abbastanza spesso anche in controparti-ta di omaggi inviati dalle comunità dell'Europa e dell'Africa set-tentrionale.

In quei casi la maggior parte delle particelle della croce era di dimensioni veramente minuscole. Quando Paolino di Nola nel 403 inviò al suo amico Sulpicio Severo una scheggia della San-ta Croce racchiusa in una cassettina dorata, si scusò - per così dire - delle modeste dimensioni del frammento. Scrisse al suo amico che non doveva sentirsi deluso perché «nonostante le sue minuscole dimensioni rappresenta la forza della nostra fede»13. Nel V secolo, le schegge della croce furono sempre più ago-gnate dai fedeli che, come abbiamo già detto, usavano portarle al collo racchiuse in preziosi reliquiari d'oro14. Assunsero così il ruolo degli amuleti pagani e fungevano da filatteri, mezzi pro-tettivi che tenevano lontano il male. La maggior parte delle par-

13 Paolino, Ep. 31,3. 14 W. Ziehr, op. ciL, p. 62.

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ticelle della croce ha una lunghezza di 3-4 millimetri, una lar-ghezza di 1 millimetro e un peso di circa 0,3 grammi. Se par-tiamo dal presupposto che la croce di Gesù era composta da una trave orizzontale della lunghezza di 1,75 metri e del peso di cir-ca 35 chilogrammi, e da un palo dell'altezza forse di 2,50 metri e del peso di 50-70 chilogrammi, possiamo trarne la conclusio-ne che da una croce di queste dimensioni è possibile ricavare una notevole quantità di frammenti. Anche riservando il 50% degli 85-105 chilogrammi della croce ai frammenti maggiori -del tipo di quello conservato in Vaticano e originariamente pro-veniente da Santa Croce - , rimangono pur sempre 42,5-52,5 chi-logrammi, sufficienti per 127.500-157.500 particelle da 0,3 gram-mi. Ciò corrisponde alla stima fatta da Rohault de Fleury, che calcolò il volume di tutte le reliquie della croce di cui si ha no-tizia e pervenne al sorprendente risultato secondo cui, nono-stante l'enorme numero di particelle, il loro volume totale rag-giunge appena i 10 decimetri cubici; se si aggiungono anche le particelle più piccole, il risultato è comunque inferiore a un ter-zo del peso originario della croce15. Questo contraddice netta-mente le affermazioni dei critici del culto della croce. Riguar-do ai frammenti, il grande umanista Erasmo da Rotterdam iro-nizzava sul fatto che «privatamente ed in pubblico si mostra in tal quantità che se si mettessero insieme i pezzi, caricarebbono una gran nave, e tuttavia il Signore se la portò in spalla»16. Lu-tero, in occasione della festa dell'innalzamento della croce, di-ceva nelle sue prediche che nel mondo c'erano «così tanti fram-menti della Santa Croce da poterci costruire una casa, se li si possedesse tutti»17. Di certo esistevano anche molte falsifica-

15 Ch. Rohault de Fleury, Memoire sur les Instruments de la Passion de N.-S. J.-C., Pa-ris 1870, cit. da A. Legner, op. cit., p. 63. Ha osservato giustamente Carsten Peter Thie-de (The SearcHfor the True Cross; in The Church ofEnglartd Newspaper, 19 marzo 1999, p. 18): «Alcuni hanno sostenuto che i frammenti della croce sparsi in tutto il mondo, Se raCCOlti, formerebbero Un'intera foresta; in realtà è stato calcolato con matematica precisione che tutti i frammenti esposti come parte della vera croce non basterebbero a ricomporre nemmeno il palo di una croce romana».

16 Erasmo da Rotterdam, Il pellegrinaggio per voto, in Elogio della pazzia e dialoghi, a cura di Benedetto Croco, Laterza, Bari 1914, p. 16S.

17 Weimarer Ausgabe 10,3, p. 333, cit. da A. Legner, op. cit., p. 63.

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zioni. Il francescano Bernardino da Siena, predicatore itineran-te, cita dei «fichi d'Egitto, il cui legno non brucia quando get-tato nel fuoco; da questi si ricavano spesso particelle della cro-ce»18. Oltre alle truffe, era invalsa anche la tradizione delle «re-liquie per contatto»: se un oggetto profano sfiorava una reliquia autentica, si t ras formava anch'esso in reliquia perché «la forza dell'originale si trasmetteva all'oggetto».

La Chiesa fu costretta a porre un argine all'inflazione di re-liquie. Nel 1215, in occasione del concilio Laterano, quando sul-l'Europa si era abbattuta un'ondata di reliquie provenienti da Costantinopoli, decretò severe misure contro il loro commercio. Da quel momento è «proibito mettere in vendita reliquie sa-cre»19, come dice ancora oggi il Codice di diritto canonico. Fu proibita anche l'esposizione di reliquie non accreditate. Sono considerate autentiche solo quelle reliquie che dispongono di un'«autenticazione», di una certificazione scritta della loro au-tenticità rilasciata dalla Chiesa.

Fu una ragione in più per venerare con raddoppiata devo-zione quelle particelle della croce di cui si poteva ricostruire l'o-rigine. Tra queste, andava annoverata la stauroteca di Eszter-gom, l'antica residenza reale ungherese, che comprendeva un frammento deUa croce donato dall'imperatore bizantino. L'im-peratore Giustino II, nel 569, inviò in dono in Francia, a Poitiers, dove viveva santa Radegonda, una reliquia della croce. Il suo convento fu ribattezzato da quel momento Notre-Dame in Sain-te Croix. Notre Dame di Parigi custodisce nel suo tesoro due re-liquie della croce. Una di queste è racchiusa in una stauroteca donata dall'imperatore Manuele Comneno. Ancor oggi viene porta all'arcivescovo di Parigi perché le renda omaggio con il rito del bacio, quando, appena nominato, compie la sua prima visita aUa cattedrale. Anche a Vienna, nella cittadella imperiale, nel tesoro degli Asburgo ci sono dei frammenti della croce do-

18 Cit. da K. Hefele, Der hi Bernhardin voti Siena und die franziskanischen Wander predìger wàhrend des XV. Jahrhunderts, Freiburg 1912, p. 258.

19 Codice di diritto canonico, Lib. IV, Can. 1190, § 1; cit. da A. Legner, op. cit., p. 48.

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nati dall'imperatore bizantino. Wilhelm Ziehr riferisce che quat-tro particelle della croce conservate in chiese europee - a San-ta Croce a Roma, nel duomo di Firenze, nella cattedrale di Pisa e in Notre Dame dì Parigi - sono state sottoposte ad analisi mi-croscopica : «Erano tutte fatte di legno d'olivo»20. Anche il cro-cifisso di Giv'at ha-Mivtar era stato inchiodato a una croce fatta di legno d'olivo.

Un elemento che vale la pena di rilevare e in cui ci si imbat-te sempre affrontando la questione delle particelle della croce è la croce a due travi, la cosiddetta «vera croce» («perché era il simbolo della Vera Croce»)21, da cui derivò più tardi la croce ortodossa o russa, completata dal profilo di un legno obliquo che doveva fungere da poggiapiedi. In quasi tutte le staurote-che medievali la sagoma della croce ritagliata dalla reliquia ha questa conformazione. Anche sul portale della Sainte Chapelle, la cappella delle reliquie di re Luigi IX a Parigi, in cui è custo-dito un grosso frammento della croce proveniente da Costanti-nopoli, troviamo una statua del re che regge tra le mani la cro-ce a due travi. In effetti la reliquia di Parigi ha proprio questa forma. Quando la casa d'Angiò ne fece il proprio stemma aral-dico, questa croce assunse anche il nome di «croce d'Angiò» o «lotaringia».

Da dove deriva questo simbolo? In effetti, se ricostruiamo la croce di Gesù tenendo presente il titulus, lungo 50 centimetri e alto 14, e la trave orizzontale, lunga circa 175 centimetri e larga forse 13, otteniamo una forma che corrisponde abbastanza esat-tamente a quella della croce a due travi. Ma se questa forma

20 W. Ziehr, op. cit., p. 63. 21 M. Dillange, La Sainte Chapelle, Rennes 1994.

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era molto chiaramente ben nota a coloro che facevano omag-gio delle stauroteche - quindi in primo luogo alla casa imperia-le bizantina e ai suoi clerici - allora doveva trattarsi di una tra-dizione molto antica, una tradizione che rìsale all'epoca in cui il titulus era ancora intatto, prima quindi che venisse ripartito da Elena. Poiché questa suddivisione fu fatta in occasione della par-tenza dell'imperatrice per Roma, ciò può solamente significare che qualcuno - molto probabilmente un erudito membro del se-guito della madre di Costantino - aveva precedentemente redatto un particolareggiato protocollo sul reperto e aveva tentato di ricostruire l'aspetto della croce sulla base di quanto era stato rin-venuto. Possiamo supporre che Elena avesse consegnato al figlio queste annotazioni quando questi la invitò a Costantinopoli per prendere parte alle cerimonie di fondazione della nuova città. Anche se non fece in tempo ad assistervi, le reliquie che aveva portato con sé divennero il tesoro più prezioso della «seconda Roma», e si custodì quindi gelosamente il protocollo del loro rin-venimento. E per quanto successivamente l'iconografia si di-stanziasse da questo prototipo, sostituendo il titulus con una stret-ta assicella, con un'incisione direttamente nel palo della croce o addirittura con un foglio di papiro fissato alla croce, a coloro che custodivano la tradizione della «vera croce» non sfuggiva la sua vera forma. E questo era ancora vero quando nel medioevo le particelle della croce giunsero a sommergere l'intera Europa.

Le fonti di questi frammenti erano, fino al 1187, Gerusalem-me, dal 1204 Costantinopoli e ovviamente Roma. In seguito al saccheggio di Costantinopoli, parti della reliquia della croce pro-veniente da Gerusalemme (probabilmente rivenduta dal Sala-dino all'imperatore) e di quella che Elena aveva consegnato al figlio si riversarono su chiese e monasteri dell 'Europa occi-dentale. Ciò che è rimasto di quell'originario terzo della croce che Elena custodiva nel suo palazzo è, come si diceva, ben po-co: tre grosse schegge a Santa Croce, due grossi frammenti la-vorati di legno della croce conservati nella camera del Tesoro della basilica di San Pietro e la grande reliquia della croce con cui il venerdì santo viene impartita la benedizione ai fedeli.

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D sacro chiodo

A n c h e dal sacro chiodo fu rono continuamente asportate par-ticelle, che andarono ad aggiungersi alle almeno 33 copie che si trovano oggi in alcune delle più importanti chiese della cristia-nità. Per lungo tempo, duplicati del sacro chiodo venuti a con-tatto con il chiodo autentico erano distribuiti ai pellegrini nel-la stessa basilica di Santa Croce. L'esistenza di queste copie ren-de oggi impossibile chiarire se si siano conservati i due chiodi che finirono nel bottino dei crociati che saccheggiarono Co-stantinopoli. Forse sono i «Sacri Chiodi» conservati nel duomo di Milano e neUa cattedrale di Notre Dame a Parigi, ma non c'è alcuna certezza in proposito.

Estremamente probabile è invece l'autenticità del sacro chio-do di Santa Croce, a cui comunque è stata aggiunta una testa ac-curatamente lavorata. Per forma e dimensione, è quasi identico al chiodo che trafisse le ossa del calcagno del crocifisso di Giv'at ha-Mivtar. Il chiodo di Santa Croce ha una lunghezza di 11,5 centimetri, quello rinvenuto neU'ossario di Jehochanan Ben Ha-skul è lungo 12 centimetri. Entrambi i chiodi sono di forma qua-drata, hanno quattro lati smussati della larghezza di circa 9 cen-timetri al di sotto di una testa arcuata, ampia, pluriangolare. In entrambi la punta è spezzata e la loro lunghezza originaria do-veva essere di 14 centimetri. È così accertato che chiodi di que-sta fattura erano utilizzati dai romani per le crocifissioni. Forse costituiva proprio una norma di legge ricorrere al clavus traba-lis, al «chiodo per falegname» per inchiodare un uomo vivo a una trave di legno, con tutta la spietata crudeltà che questo com-portava22. Così il chiodo di Santa Croce potrebbe dawero esse-re un originale. Poiché, secondo i resoconti dell'epoca, Elena rin-venne a Gerusalemme tre chiodi, due dei quali li inviò in dono a suo figlio, dobbiamo supporre che il terzo rimanesse a Roma.

22 M.G. Siliato,op. cit, pp.296s.

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La trave orizzontale

Direttamente all'ingresso della cappella delle Reliquie di San-ta Croce, il visitatore non può non notare la massiccia trave oriz-zontale che ha trovato posto in una nicchia nel muro, riparata da una lastra di vetro e adeguatamente illuminata. Di lei sap-piamo soltanto che nel 1570 fu murata nel sopralzo sotto al-l'altare, nella cappella di Sant'Elena. Allora la si identificava con la reliquia della croce del «buon ladrone», uno dei due «mal-fattori» giustiziati con Gesù e che la Chiesa venera come san Dismas. Era stato Dismas a far cessare le imprecazioni dell'al-tro «ladrone», apostrofandolo con queste parole: «Non hai pro-prio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la stessa con-danna? Noi giustamente, perché riceviamo la giusta per le no-stre azioni, lui invece non ha fatto nulla di male». Ed era sempre Dismas a implorare Gesù: «Gesù, ricordati di me, quando ver-rai nel tuo regno». Fu il primo a beneficiare delle promesse di Gesù, che gli assicurò: «In verità ti dico: oggi sarai con me in pa-radiso», come dice il Vangelo di Luca (23,40-43).

Questa trave orizzontale {patibulum) della lunghezza di 1,78 metri e della larghezza di 13 centimetri, riportata alla luce solo nel nostro secolo, è quanto meno una reliquia interessante, per-ché si attaglia perfettamente al quadro che le fonti antiche - in contraddizione con l'iconografia cristiana - ci trasmettono del-la prassi romana della crocifissione. In effetti i condannati ve-nivano condotti al luogo delle esecuzioni legati a una trave co-me questa per poi, una volta giunti là, essere issati sul palo del-la croce, sempre legati al patibulum. Mentre, almeno in Oriente, SÌ preferiva eseguire la crocifissione legando il condannato alla croce con delle corde, nel caso di Gesù si fece ricorso ai chiodi, probabilmente perché lo si era già precedentemente liberato delle corde per far portare la trave a Simone di Cirene. La tra-ve di Santa Croce, in ogni caso, non presenta fori lasciati dai chiodi, il che corrisponde anche alla tradizione cristiana, che rap-presenta sempre i due «ladroni» legati alla croce. La crocifis-sione tramite chiodi, per quanto più dolorosa, era per così dire

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un atto di grazia, perché accelerava la morte e la liberazione dal-le sofferenze. I Vangeli raccontano che i due ladroni erano an-cora vivi, che si dovette spezzar loro le gambe quando il gior-no declinava al termine e Gesù era spirato da tempo. Al cen-tro della reliquia della trave c'è un foro attraverso cui evidentemente si faceva passare la corda con cui si issava sul pa-lo della croce il patibulum, cui era legato il condannato, prima di fissarlo, agganciandolo, grazie alla medesima corda, alla som-mità del palo o in una tacca intagliata nel palo stesso. Poiché la tradizione dice espressamente che Elena rinvenne a Gerusa-lemme tre croci, è quanto meno possibile che portasse questa trave con sé a Roma. Non ci si meravigli dell'assenza nelle fon-ti storiche di alcuna menzione del suo trasporto a Roma, perché non si attribuiva eccessivo significato a questa trave. Se Euse-bio evitava persino di citare il rinvenimento e la venerazione detta reliquia della croce da parte di Elena, che pure il vescovo Ambrogio non mancò di giustificare con eloquenza, il traspor-to a Roma della croce di un malfattore qualsiasi, per quanto pen-tito, non poteva che suscitare stupore. Inoltre, la sua identifica-zione come trave della croce del «buon ladrone» è piuttosto ar-bitraria, perché solo la croce di Gesù fu rivelata ai suoi scopritori - secondo le fonti - con il miracolo della guarigione di un'in-ferma. Può quindi anche provenire dalla croce dei bestemmia-tore. Ciò nonostante, il patibulum di Santa Croce è una reliquia interessante, perché ci permette di farci un'idea storicamente corretta deU'aspetto della trave che Gesù portò verso il monte Calvario e a cui fu inchiodato23.

Aculei della corona di spine?

Un'altra delle reliquie della passione custodite a Santa Croce è costituita dai due aculei della corona di spine esposti in un reliquiario a sé stante. La presenza della corona di spine è atte-

23 B. Bedini, op. cit., p. 51.

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stata a Gerusalemme dalla fine del IV secolo, mentre dall'epo-ca dell'imperatore Giustiniano (527-565) è venerata a Costanti-nopoli. Secondo la tradizione, fu anch'essa rinvenuta da Elena, sebbene non esistano testimonianze coeve in proposito. Nel 1204 finì nelle mani dei crociati, che ne distribuirono gli aculei in numerose chiese di tutta l'Europa occidentale. II nucleo princi-pale della reliquia rimase però a Costantinopoli, nel tesoro im-periale del Regno latino. Quando su questo, poco tempo dopo, cominciarono a premere da tutte le direzioni bulgari, turchi e greci, al suo imperatore Baldovino II servirono denaro e soste-gno militare. Per ottenere tutto ciò, si rivolse ai veneziani, im-pegnando le reliquie e intraprendendo un viaggio attraverso l'Eu-ropa nella speranza di trovarvi aiuto e forse di preparare una nuova crociata. Nel 1237 fu a Parigi per esporre i suoi piani a Luigi IX (1226-1270), che però in quel momento non mostrava alcun interesse per un'impresa militare rischiosa, tanto più che l'imperatore d'Occidente, Federico II, aveva appena riconqui-stato Gerusalemme, per quanto solo per un breve periodo. For-se Luigi intuiva che le crociate non gli avrebbero portato for-tuna. Nel 1248 impugnò ancora la croce e due anni più tardi cad-de prigioniero dopo una sconfitta disastrosa. Fu liberato solo a prezzo di un ricco riscatto. Per quattro anni ancora potè conti-nare a svolgere il ruolo di reggente della Terrasanta. La settima crociata, nel 1270, suggellò il destino del pio Luigi: raggiunta Tu-nisi con le sue truppe, lui e gran parte dell'esercito caddero vit-tima di una pestilenza. Tenendo presente quanto lo attendeva, non possiamo non ritenere saggia da parte sua la resistenza alle richieste di Baldovino di Bisanzio. Con molta più attenzione, in-vece, il giovane re francese ascoltò la descrizione che Baldovino fece del tesoro delle reliquie della sua città. La prospettiva di en-trare in possesso delle testimonianze della passione di Gesù af-fascinò Luigi, profondamente credente al punto da farsi flagel-lare regolarmente dal proprio padre confessore. Infine si dichiarò disposto ad acquistare la corona di spine data in pegno ai ve-neziani, nel caso si fosse dimostrata autentica. Le trattative si tra-scinarono per due anni, finché al pio re dei francesi non furono

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presentate tutte le garanzie dell'autenticità della reliquia. L'ac-quistò quindi per l'enorme somma di 135.000 franchi, facendo-la poi trasportare a Parigi con una solenne processione. Il re, suo fratello Robert e sua madre, la regina Bianca di Castiglia, anda-rono personalmente incontro alla santissima corona fino a Vil-leneuve-l'Acheveque, per scortarla poi neUa capitale, dove fu ac-colta dal popo lo in. tripudio. Non sappiamo se re Luigi r imase

deluso, quando aprì finalmente il prezioso reliquiario e constatò che la «corona di spine» altro non era che un anello di giunchi legati insieme del diametro di 21 centimetri in cui erano co-munque intrecciati singoli rami del roveto originario. In ogni ca-so, due anni più tardi acquistò ancora altre presunte reliquie dal-l'imperatore Baldovino II, tra cui una parte del frammento del-la croce di Costantinopoli, un frammento della sacra lancia, il mantello di porpora con cui Gesù fu fatto avvolgere da re Ero-de in segno di scherno, la spugna con cui si inumidirono le lab-bra di Gesù sulla croce, e un frammento del telo sepolcrale di Gesù della larghezza di 30 centimetri, che l'imperatore bizanti-no aveva fatto staccare per portarla sul petto come scapolare protettivo. Poiché in effetti il telo sepolcrale di Torino non è com-pleto - manca l'impronta dei piedi sul lato anteriore - dobbia-mo supporre che quest'ultimo frammento potesse provenire da qui. L'impronta dei piedi era imbevuta del sangue di Gesù, e la sua asportazione non tolse molto all'impressionante quadro d'in-sieme deUa reliquia. Ma, nonostante il sostegno finanziario estre-mamente generoso ottenuto dal re francese, Baldovino non riu-scì a mantenere il suo Regno latino. Dovette fuggire, lasciando in eredità al figlio Filippo solo lo storico titolo di imperatore di Costantinopoli. Il 15 agosto 1561 l'esercito greco penetrò nella vecchia città imperiale per la porta di Blachernen e sconfisse i latini annientandoli. Il loro condottiero, Michele Paleologo, fe-ce tenere quello stesso giorno una funzione di ringraziamento nella chiesa di palazzo, riconsacrata secondo il rito ortodosso. Ciò che i crociati non avevano sottratto nel 1204 e trafugato in Europa, si trovava, dall'epoca di Baldovino II, in gran parte a Parigi, nelle mani del re di Francia.

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La Sainte Chapelle

Per poter ospitare adeguatamente tutte queste reliquie - una delle più grandi raccolte dell'epoca - re Luigi IX progettò poco tempo dopo l'edificazione di un luogo sacro davvero degno. Al centro dell'area in cui sorgeva il palazzo reale, a Parigi, fece erigere la Sainte Chapelle. uno dei più bei monumenti gotici del-la città. E pervasa dalla luce come nessun'altra chiesa dell'e-poca, una luce blu e rossa che penetra dalle magnifiche vetrate dipinte in filigrana con motivi biblici o tratti dalla storia delle reliquie che qui sono custodite. L'elegante, persino leggiadra ar-chitettura ad archi la rende un gioiello che la distingue netta-mente dalla pesantezza e dalla tenebrosità di Notre Dame, e che fu lodato già dai contemporanei: «I ricercati colori dei dipinti, le preziose dorature dei quadri, la delicata trasparenza delle fi-nestre che riverberano di luce rossastra, i rivestimenti degli al-tari oltre modo belli, la forza miracolosa delle sacre reliquie, le decorazioni degli scrigni, che rilucono delle loro pietre prezio-se, conferiscono a questa dimora della preghiera una tale apo-teosi ornamentale che entrando si crede di essere stati trascinati in cielo e di aver varcato la soglia di uno dei più bei luoghi del Paradiso»24, scriveva con entusiasmo Jean de Jandun nel 1323. Da allora niente è cambiato, per quanto la chiesa sia da tempo sconsacrata, si trovi in un'area di proprietà del ministero di Giu-stizia e si debba pagare un biglietto d'ingresso per visitarla.

Al centro della Sainte ChapeUe, su un matroneo al centro del coro, stava il grande scrigno girevole delle reliquie, la cui fab-bricazione costò al re 100.000 franchi. In confronto, l'intera chie-sa, comprensiva delle decorazioni alle pareti e alle finestre, ri-sultò addirittura a buon mercato, con costi di costruzione che assommavano a 40.000 franchi. Ma per le sue reliquie, prima tra tutte la corona di spine, il devoto re, cui fu presto dato l'appel-lativo di «santo» e che infine fu davvero proclamato ufficial-

u A.J.V. LeRoux de Lincy-L.M. Tisserand, Paris et ses historiens aux 141 et 15e sie-cles, Paris 1867, p. 46.

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mente santo dal papa, a soli 29 anni dalla sua morte, non si ac-contentava di niente di meno del meglio. Ogni venerdì santo le reliquie venivano esposte alla venerazione dei fedeli, e i ma-lati, in particolare gli epilettici, potevano toccarle. Per il resto del tempo rimanevano chiuse nello scrigno delle reliquie, di cui solo il re possedeva la chiave. Agli ospiti illustri le mostrava an-che personalmente, e a ospiti di Stato del tutto particolari furo-no donati singoli aculei25. Purtroppo la maggior parte della rac-colta di reliquie di Luigi non si è conservata. Fu ottusamente di-strutta, insieme ai preziosi reliquiari, durante la rivoluzione francese. I preziosi esemplari furono allora portati in proces-sione fuori della chiesa e ridicolizzati, si selezionò per i musei «ciò che pareva avere valore scientifico» e il metallo prezioso fu fatto fondere26. Si salvò solo la corona di spine, di cui nel frat-tempo era rimasto solo il mero intreccio di giunchi, privato de-gli ultimi aculei. Oggi si trova neUa cattedrale di Notre Dame di Parigi, dove viene mostrata ai fedeli ogni venerdì di Quaresima e il venerdì santo. Lo scrigno delle reliquie di Santa Croce, quin-di, ci trasmette almeno il sentore della dignità e del fascino che emanavano dal suo corrispettivo parigino.

Non sappiamo come siano giunti a Santa Croce i due aculei della corona di spine. Probabilmente sono il frutto di una pia donazione risalente a un'epoca successiva al 1204. Con il tem-po si raccolsero qui anche altre reliquie. Tra queste vanno an-noverate, oltre a innumerevoli ossa di santi, depositate in un va-no adiacente, tre pietruzze provenienti dalla Grotta della Nati-vità di Betlemme, dal Santo Sepolcro e da quella «colonna a cui fu flagellato Gesù» che si può vedere oggi nella chiesa del San-to Sepolcro a Gerusalemme. Un'altra presunta colonna della flagellazione costituisce oggi la più importante reliquia della ba-silica di Santa Prassede a Roma che, situata di fronte a Santa Maria Maggiore, di traverso a quest'ultima, con i suoi stupendi mosaici è diventata la «meta segreta» di tutti coloro che vengo-

25 M. Dillange, op. cit. 26 A. Angenendt, op. eie., p. 271.

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no in pellegrinaggio a Roma. La colonna marmorea bicroma, bianca e nera, fu portata a Roma da Gerusalemme nel XIII secolo dal cardinale Giovanni Colonna, che partecipò come legato pontificio alla V crociata.

Un dito di san Tommaso?

Santa Croce entrò molto presto in possesso della reliquia del presunto «dito indice di san Tommaso», di quel dito - si sup-pone - con cui lo scettico discepolo toccò le ferite di Gesù. Que-sta scena, narrata da Giovanni (20,24-29), è del resto anche l'unico elemento a favore dell'ipotesi che Gesù sia stato effetti-vamente crocifisso con dei chiodi, come si può dedurre dalle pa-role di Tommaso: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chio-di e non metto il mio dito nel segno dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo fianco, non crederò». Gesù glielo concede, ad-dirittura lo sollecita a farlo: «Metti il tuo dito qui e guarda le mie mani, porgi la tua mano e mettila nel mio fianco», non senza ag-giungere «e non essere più incredulo, ma credente», perché «bea-ti coloro che hanno creduto senza vedere!». Così, per i discepo-li, con la crocifissione di Gesù si è adempiuta la parola del Sal-mo: «Hanno scavato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa» (21,17-18).

Secondo la tradizione Tommaso, dopo il concilio Apostolico di Gerusalemme nel 48 d.C., si sarebbe messo in viaggio per l'O-riente, dove annunciò il Vangelo e fu chiamato l\<apostolo del-l'Asia». Secondo la leggenda, giunse in India nel 52, dove svol-se la sua missione per lunghi anni prima di subire il martirio a Mailapur, presso Madras, nel 67. Successivamente gli abitanti del-la città di Edessa, nella Mesopotamia settentrionale, evangeliz-zata da un discepolo di Tommaso di nome Taddeo o Addai, im-plorarono, con l'intermediazione dell'imperatore Severo Ales-sandro (222-235), i re indiani di consegnar loro le sue ossa. La traslazione dev'essere avvenuta nel 232. Nel XIII secolo le reli-quie, minacciate dal possibile arrivo di turchi musulmani che mar-

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davano su Edessa, furono poste al sicuro prima sull'isola di Chios, nel mar Egeo, poi a Tortona, sulla costa adriatica, dove vengono venerate ancor oggi. Forse gli abitanti di Edessa avevano fatto dono alla basilica di Santa Croce della reliquia del dito, magari anche in cambio di una particella della croce. Ma può anche es-sere giunta a Roma molto più tardi. In ogni caso si dice che il di-to di Tommaso si trovi a Santa Croce «da tempo molto remoto» e che fosse collocato presso un apposito «altare di Tommaso», dove fu venerato per tutto il medioevo. Tuttavia non appartie-ne al nucleo originario deUe reliquie sessoriane, di quei reperti provenienti da Gerusalemme che Elena stessa portò a Roma. Con questo nome, infatti, gli storici della Chiesa indicano espres-samente solo le particelle della croce, il sacro chiodo e il titulus.

L'iscrizione della croce

Per lo storico, la più interessante di queste reliquie è indub-biamente il titulus crucis, l'iscrizione della croce. Non saremo mai in condizione di poter ascrivere con assoluta certezza alla passione di Gesù i frammenti della croce o il sacro chiodo - se non inserendoli nella storia complessiva di questo nucleo di reperti sessoriani. Per il titulus le cose stanno diversamente: re-ca un'iscrizione che ci è nota dal quarto Vangelo. Fu questa iscri-zione (cfr. le illustrazioni a colori delle tavole VII e IX) ad at-trarmi fin dal primo incontro con la reliquia, e doveva infine for-nire la chiave per la sua datazione.

L'osservai allora con estrema attenzione, studiai ogni singola scheggia del bruno legno eroso dal tempo. Effettivamente ripor-tava l'iscrizione così come è stata tramandata da Giovanni: «"Ge-sù il Nazareno, il re dei giudei"... in ebraico, in latino e in greco» (Gv 19,19-20) o almeno una parte di quest'iscrizione. Ma in un'al-tra successione:prima in ebraico, quindi in greco, infine, in basso, in latino. E in tutte e tre le lingue la scrittura procedeva da destra verso sinistra, non solo in ebraico com'era ovvio che fosse, e cioè

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B ZYNEPAZAN ZI e ER SVNIRAZANJ

Sono elementi degni di nota, perché ciò non corrisponde alla successione del testo nelle tre lingue indicata dal Vangelo di Gio-vanni, né si trova nei Vangeli alcun accenno all'imitazione - che rispondeva evidentemente a un intento canzonatorio - della mo-dalità ebraica di scrittura da destra verso sinistra nel testo redat-to in greco e in latino. Nel complesso, l'iscrizione pareva redatta in maniera piuttosto pasticciata, incisa disordinatamente nel le-gno con un oggetto aguzzo, poi però decorata per gioco, come se qualcuno volesse derisoriamente conferire un aspetto in qualche modo ufficiale alla tavola che recava l'indicazione del capo d'ac-cusa per il «re dei giudei». In quanto storico, conoscevo le iscri-zioni romane e greche provenienti dalla Terrasanta e avevo l'im-pressione che il suo stile si attagliasse a quello vigente nel I se-colo; in ogni caso poteva essere più compatibile con questo piuttosto che con quelli in voga nel IV secolo o nel medioevo,

Riproduzione del titulus di Ch. Rohault de Fleury (1870) con imprecisioni minori (cfr. illustrazione a colorì tavola IX).

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epoche in cui era pensabile una falsificazione. La riga in latino era simile all'iscrizione che faceva riferimento alla consacrazio-ne del Tiberieum di Cesarea, in cui Ponzio Pilato era citato per nome, quasi fosse un parigrado (cfr. illustrazione a colori della tavola I).

Mi colpì inoltre il fatto che la designazione greca della prove-nienza geografica del condannato, NAZARENOUS, non fosse una traduzione, ma una mera traslitterazione dal latino. Anche questo elemento era in contrasto con il testo dell'iscrizione della croce riportato dal Vangelo di Giovanni: IHEOYS O NAZQPAIOE O BAZIAEYZ TON IOYDAI&N. L'iscrizione della tavola di San-ta Croce pare invece la traslitterazione in lingua greca di un testo dettato da un romano. Poiché Nazarinus indicava l'origine geo-grafica del condannato e faceva quindi parte del nome, evidente-mente non si riteneva necessario tradurlo correttamente in greco, lacuna questa colmata solo da Giovannni. In effetti le trascri-zioni letterali, senza adattamento linguistico, sono frequenti nel-le iscrizioni dell'epoca, per esempio nel caso di titoli imperiali. Inoltre il latino era la lingua ufficiale, come attestano i reperti del-l'epoca: anche l'iscrizione di Pilato era redatta in latino. Iscri-zioni redatte in più lingue, per lo più in greco e in aramaico, ci so-no sufficientemente note, tra l'altro anche dagli ossari dell'epoca. Inoltre nell'iscrizione della croce troviamo un'epsilon dove avreb-be dovuto esserci un'eta. Ma proprio queste lettere venivano spes-so confuse tra di loro nell'antichità. Nell'iscrizione della croce, inoltre, alla grafia latina corrente, NAZARENUS, si sostituisce un NAZARINUS che corrisponde piuttosto all'ebraico NO SRI o NASARI, che pare perciò essere la grafia originaria da cui so-no state traslitterate quelle nelle altre lingue. Infine il nome di Ge-sù viene abbreviato solo con I o con IS, mentre Giovanni, quan-da cita la tavola con il capo d'accusa, lo riporta per esteso.

L'abbreviazione dei nomi era usuale nelle iscrizioni romane. Poiché nel I secolo il nome Gesù/Jeshu(a) era piuttosto fre-quente, era soprattutto il nome del villaggio natale a caratteriz-zare l'identità della persona. Ancora una volta, ci troviamo di

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fronte a un uso linguistico molto antico, tipico anche dell'epoca in cui visse Gesù. Invece, per quanto riguarda il contenuto, l'i-scrizione della tavola si approssima moltissimo alla versione gio-vannea del titulus. In effetti il termine greco IHZOYZ nei più an-tichi manoscritti evangelici veniva abbreviato come IZ, pro-prio come nella tavola con il capo d'accusa conservata a Santa Croce. Poteva trattarsi in origine semplicemente del tentativo di trascrivere il nome di Gesù dall'ebraico al greco, il che non costituiva una facile operazione; nella versione latina fu poi ul-teriormente abbreviato in I. Il nome latinizzato «Gesù» si im-pose in Occidente solo parallelamente alla diffusione del Van-gelo. Deriva da un antico nome ebraico, JEHOSHUA, «Jahvè è il Salvatore», che all'epoca di Gesù si modificò in «Jeshua» o, nel dialetto della Galilea, semplicemente in «Jeshu». Questo era il nome autentico di Giosuè, l'uomo che guidò il popolo d'Israele nella Terra Promessa. All'epoca di Gesù questo nome era così frequente che solo nella Storia della guerra giudaica di Giu-seppe Flavio è portato da ben quattordici personaggi, di cui tre sommi sacerdoti. In ebraico «Jeshua» si scriveva con quat-tro lettere, yod-schin-waw-'ayin, quindi J-SH-u-A, mentre «Je-shu» veniva forse semplicemente riportato solo come yod-shin (o yod-shin-waw). Più tardi da questa abbreviazione si sviluppò una particolare tradizione, quella del nomen sacrum che i primi copisti cristiani elaborarono traslando su Gesù, il Figlio di Dio, la tradizione ebraica del nome del Dio d'Israele, impronuncia-bile ed espresso dal tetragramma JHWH. IZ divenne il simbolo della divinità di Gesù Cristo, «rudimentale confessione di fede della Chiesa delle origini»27.

Ma chi mette in dubbio l'autenticità del titulus potrebbe in-terpretare quest'abbreviazione IZ come elemento a favore di una più tarda datazione dell'iscrizione. Un nomen sacrum non poteva certo trovarsi sulla tavoletta che reca l'indicazione del capo d'accusa. Ma perché un falsificatore devoto, che nei con-tenuti dell'iscrizione si atteneva evidentemente a quanto ripor-

17 C.RThiede-M. d'Ancona, op. cit.,p. 212.

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tato da Giovanni, avrebbe dovuto da un lato prendersi tante libertà, e dall'altro commettere un errore così grossolano, am-messo che questo sia davvero tale? E perché scrivere, al posto del NAZftPAIOE giovanneo, il latino NAZARINUS/NAZA-RENOUS anche nel testo greco? Questo esclude per lo meno una falsificazione sorta all'interno della comunità di Gerusa-lemme, in cui si parlava il greco e i Vangeli erano diffusi sola-mente nella loro versione originaria in lingua greca.

Il testo in ebraico è invece troppo fortemente compromesso dal trascorrere del tempo, per prestarsi a conclusioni nette. So-lo tre segni si sono conservati più o meno integri, consentendo così già a S. Pagnini (morto nel 1541) di leggervi la parola Not-zeri («Nazareno»)28. In effetti sono ancora riconoscibili H, N e S, che potrebbero essere del tutto coerenti con l'iscrizione (JSU') N'§ (RJ MLK HJHUDJM). Degli altri segni grafici rimango-no solamente le caratteristiche «code», elemento distintivo del-la scrittura ebraica corsiva di epoca romana. La presenza della S (talvolta resa anche con TZ) conferma ulteriormente che Ge-sù era conosciuto come «Nazareno», non come «Nazireo» («mo-rigerato uomo di Dio»), cioè come Davidide originario dell'in-sediamento davidico di Nazaret.

Nelle settimane successive, non riuscii a liberarmi dal pensie-ro dell'enigma della tavola di Gesù, e ben presto mi fu chiaro che dovevo tornare a Santa Croce. Avevo ben presente che, per accertare l'autenticità della reliquia, bisognava ricorrere a tre ti-pi di datazione: fisica, biologica e paleografica.

La datazione per mezzo del carbonio

In campo archeologico si e imposta una metodologia di da-tazione dei materiali organici basata su principi fisici, il metodo del carbonio 14, elaborato dall'americano Willard E Libby do-po la seconda guerra mondiale. Si basa sulla produzione dell'i-

B. Beami, op. eie., p. 51.

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sotopo 14 del carbonio (C44) nell'atmosfera. L'irraggiamento cò-smico produce neutroni che, insieme all'isotopo 14 dell'azoto (N14), costituiscono l'isotopo 14 del carbonio. Gli isotopi sono varianti atomiche dello stesso elemento chimico, di cui hanno lo stesso numero atomico ma un diverso numero di massa. Ci so-no isotopi stabili e altri invece instabili, cioè radioattivi. Gli iso-topi radioattivi - e il Q 4 è uno di questi - si decompongono se-condo i cosiddetti «tempi di dimezzamento». Il tempo di di-mezzamento del C14 equivale a 5730 anni, con un margine d'errore di 40 anni in più o in meno. In un organismo vivente, la limitata percentuale di C14 decomposto subisce un continuo ricambio grazie al processo di inspirazione ed espirazione. Solo quando l'organismo muore, viene a cessare l'immissione di nuo-vo C14, per cui quello già presente si decompone incessante-mente. Poiché i chimici sanno a quale ritmo procede la decom-posizione, possono stabilire in maniera piuttosto precisa l'età di un organismo morto determinando la quota di C14 presente29. Un'analisi del carbonio potrebbe stabilire - almeno teoricamente - il periodo approssimativo in cui fu abbattuto l'albero nel cui legno è stata incisa l'iscrizione della croce.

La datazione biologica

Un secondo metodo, molto più preciso, è rappresentato dal-l'analisi degli anelli annuali del legno, clic nel linguaggio spe-cialistico va sotto il nome di dendrocronologia. Suo pioniere è stato l'astronomo americano A.E. Douglas, il quale a partire dal 1901 studiò gli anelli che segnalano la crescita dei tronchi d'al-bero, allo scopo di accertare l'influsso dei cicli di macchie sola-ri sulle oscillazioni climatiche. Vent 'anni più tardi pensò di Uti-lizzare lo stesso metodo per datare le rovine dei villaggi nativi americani, applicandolo così per la prima volta in ambito ar-cheologico.

29 F.G. Maier. Neue Wege in die alte Welt, Hamburg 1977, pp. 283s.

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È noto che si può stabilire l'età di un albero contando gli anel-li sulla superficie tagliata di un tronco. Ognuno di questi anelli ha un'ampiezza diversa a seconda delle condizioni climatiche che hanno caratterizzato l'anno a cui si riferiscono. Tutti insie-me gli anelli creano un motivo caratteristico, simile a un'im-pronta digitale, che nella sua successione è irripetibile. Alberi della stessa specie, cresciuti nello stesso luogo, producono con i loro anelli un identico disegno. Quanti più frammenti di legno di una stessa regione si sono conservati, tanto più è possibile creare una banca dati che immagazzini informazioni sugli anel-li annuali, risalendo indietro nei secoli e addirittura nei millen-ni. Se un dendrocronologo dispone di legno databile, proveniente per esempio da edifici la cui data di costruzione è accertabile grazie alla presenza di iscrizioni, può confrontare gli eventuali nuovi reperti in legno con questo campione e ricavare così la datazione. Strumenti di misurazione precisi, come apparecchi di misurazione dell'anello annuale e microscopi, automatizzano il procedimento e garantiscono risultati univoci. Con il loro aiu-to, l'età di un frammento di legno può essere stabilita con tale precisione da arrivare a indicare addirittura l'anno30. Per utiliz-zare questo metodo anche per l'iscrizione della croce è neces-sario disporre di un calendario regionale degli anelli annuali ri-guardante la regione di Gerusalemme nel I e nel IV secolo. Pro-prio questo bisognava accertare prendendo contatto con l'organismo israeliano che sovrintende ai beni archeologici.

Paleografia

La paleografia, o storia della scrittura, è una disciplina ausi-liaria delle scienze storiche. Il suo scopo è di decifrare le fonti e collocarle correttamente dal punto di vista temporale (e in de-terminati casi anche geografico). Al di là del fattore individua-le, della calligrafia personale, la scrittura è sempre caratteriz-

x Ibid., pp. 303-307.

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zata, anche e prevalentemente, da elementi tipici delle singole epoche storiche. Questo vale già per periodi di tempo più ridotti, come chiunque può rendersi conto dando un'occhiata alle let-tere d'amore dei propri genitori o alle cartoline militari dei pro-pri nonni. «Questo vale per tutte le epoche», scrive lo storico Ahasver von Brandt nel suo classico Strumento dello storico, «e su questo si fonda la possibilità per la paleografia di ricono-scere e rappresentare un processo evolutivo continuo nella sto-ria della scrittura e di collocare correttamente dal punto di vi-sta cronologico le testimonianze scritte esistenti». Caratteri e stile si modificano con il tempo, ed esistono inoltre varianti re-gionali; così, «le loro forme cangianti e gli elementi stilistici e le loro trasformazioni»31 consentono una collocazione abbastanza precisa dal punto di vista temporale e geografico di un mano-scritto o di un'iscrizione. Se uno studioso deve occuparsi di una testimonianza scritta di cui è ignota la datazione, ne analizza la forma, il quadro esteriore generale, la lunghezza, le propor-zioni, la punteggiatura, le lettere individuali, tipiche e il modo con cui si collegano («legatura») o sono tenute distinte l'una dal-l'altra, e l'utilizzo di caratteri maiuscoli o minuscoli. Una volta che una scrittura è stata analizzata approfonditamente, viene confrontata con altre iscrizioni di cui si conosca la datazione. A quale consuetudine grafica si avvicina di più la sua forma gra-fica? Troviamo elementi tipici di determinate «modalità di scrit-tura», come ad esempio la «scrittura a uncino», popolare nel I secolo? È riscontrabile un'abbreviazione «sospensiva» di no-mi o titoli, come nella lingua scritta in epoca romana classica, quando si usava mettere un punto, o, successivamente, nel pe-riodo a partire dal II secolo, quando invece si ricorreva a un trat-tino? C'è un'abbreviazione «sillabare» (la parola viene riporta-ta limitatamente alla prima sillaba), emessa à partire dal II se-colo, o un'abbreviazione contrattiva (contrazione di una parola alle lettere principali, per lo più consonanti), tipica della lette-ratura cristiana tardoantica?

31 A. von Brandt, Werkzeug des Historikers, Stuttgart 1986, p. 65.

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La paleografia è una scienza ausiliaria riconosciuta. È spesso l'unico metodo che consenta per esempio la datazione di un'i-scrizione scolpita nella roccia, perché nella roccia la strada del-la datazione sulla base del metodo chimico o biologico è pre-clusa, a causa della mancanza di materiale organico. Per questo motivo, decisi di sottoporre l'iscrizione della tavola di Santa Cro-ce a sette paleografi di fama per una perizia.

Per l'applicazione del primo di questi metodi, quello basato sul carbonio 14, dovevo poter disporre di un frammento suffi-cientemente grosso; per gli altri due bastavano delle buone fo-to della tavola di Gerusalemme. Decisi pertanto di prendere con-tatto con l'abate del convento cistercense attiguo alla basilica per stabilire un rapporto di collaborazione.

Ulteriori ricerche a Roma

Alla fine di luglio del 1997 ero di nuovo a Roma. Il 30 luglio visitavo il convento in compagnia di un uomo in cui riponevo molta fiducia e che conosce molto bene i meccanismi interni al-la Chiesa: monsignor Corrado Balducci, prelato della Congre-gazione per VEvangelizzazione dei Popoli e membro da lunghi anni della Curia, che stava allora per festeggiare il cinquantena-rio della sua ordinazione sacerdotale. Avevo conosciuto l'an-ziano sacerdote nell'ottobre del 1995, nel corso di una trasmis-sione televisiva di Raidue, gli avevo ben presto fatto visita nel suo spazioso appartamento sopra il Vaticano e lo avevo a lungo in-tervistato. Monsignor Balducci è un uomo di Dio impegnato, che non arretra di fronte ad alcun tabù, un sacerdote dall'entusiasmo giovanile e dal temperamento spumeggiante, nonostante i 76 anni d'età. Quando illustrai i miei intenti a monsignor Balduc-ci, questi fu subito affascinato dall'idea. Mi stupì il fatto che non conosceva la reliquia. E questo nonostante viva a Roma, ab-bia visitato parecchie volte la basilica di Santa Croce — l'ultima volta una settimana prima del nostro incontro - , intrattenga rap-porti amichevoli con uno dei suoi sacerdoti e sia tra i religiosi più

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preparati della Città Santa. Le chiese di Roma custodiscono evidentemente dei segreti persino per coloro che hanno consa-crato la loro esistenza al servizio della Chiesa.

Un colloquio di circa un'ora con padre Simone del convento di Santa Croce bastò a elaborare la nostra strategia. Dovevo pre-sentare per iscritto la mia richiesta all'abate, don Luigi Rottini. Inoltre dovevo rivolgermi ufficialmente al vice ministro degli Este-ri del Vaticano, l'arcivescovo Giovanni Battista Re, avanzando un'altra richiesta scritta formale di autorizzazione a sottoporre le reliquie ad analisi scientifica.

La prima risposta giunse il 4 ottobre 1997. Il reverendo abate di Santa Croce mi invitò a tornare nuovamente a Roma per di-scutere in l o c o come procedere. Questo avveniva il 12 novembre, giorno successivo all'inaugurazione della cappella delle Reliquie — di recente ristrutturata - cui avevano preso parte anche alcuni membri del governo italiano. Con orgoglio i monaci mi mostra-rono il nuovo reliquiario, permettendomi inoltre di fotografare il tutto. Al mio desiderio di estrarre l'iscrizione della croce dal suo reliquiario d'argento non poterono comunque acconsentire:poi-ché fa parte delle proprietà della Santa Sede, questo poteva av-venire solo su espressa autorizzazione del ministro degli Esteri vaticano. Ma i cistercensi disponevano di un'altra soluzione per soddisfare almeno parzialmente le mie richieste: proprio un an-no prima, il loro «fotografo di fiducia» aveva ricevuto Vauto-rizzazione a trarre il titulus dal reliquiario per fotografarlo da ogni lato, misurarlo e pesarlo*2. Si erano persino assicurati la pre-senza del fotografo, Ferdinando Paladini dell'agenzia Servizi Do-cumentazione di Roma, al nostro incontro. Questi, in occasione di un successivo incontro, il 27 gennaio 1998 a Roma, mi mise a disposizione i suoi eccellenti primi piani, di cui agli inizi di mar-zo ricevetti per posta degli ingrandimenti.

Appresi successivamente che queste prime fasi di lavoro coo-perativo erano andate in porto su espressa autorizzazione del-

31 Come appresi successivamente, questo avvenne su iniziativa della dott.sa Maria Luisa Rigato, docente aUa Pontificia Università Gregoriana di R o m a .

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l'arcivescovo Re. La mia seconda lettera del 22 novembre 1997, in cui chiedevo al religioso di poter sottoporre una particella della tavola di Gesù ad analisi del legno e del carbonio per pervenire a una possibile datazione, rimase invece senza risposta. Una per-sona interna agli uffici vaticani mi rivelò il motivo. Il predeces-sore del suo superiore, il cardinale Casaroli, morto nel 1998, ave-va concesso nel 1988 l'autorizzazione ad applicare il metodo del C[4 per stabilire la datazione del telo sepolcrale torinese. Il risul-tato era stato uno schiaffo in faccia a tutti i credenti: risultava che la reliquia risaliva al medioevo. Ci sono sostanziosi motivi per met-tere in dubbio questa datazione ~ i campioni sottoposti ad anali-si provenivano da un lembo molto sporco del telo - ma gli av-versari della Chiesa disponevano di un elemento in più per ac-cusarla di «truffare e ingannare i creduli con pellegrinaggi e false reliquie». Altri subodorarono una congiura e accusarono il Vati-cano di consapevole annientamento scientifico della reliquia33. È quindi del tutto comprensibile che l'arcivescovo reagisse con pru-denza al mio desiderio di sottoporre ad analisi un'altra reliquia. Solo successivamente appresi che lo stesso arcivescovo Re si era pronunciato a favore della mia richiesta, ma l'Accademia Vati-cana delle Scienze, da lui consultata, aveva deciso diversamente34.

Decisi allora di limitarmi a un esame provvisorio e di ricorre-re a perizie che fossero possibili sulla base delle sole fotografie.

Di fattura romana

Le foto di Ferdinando Paladini rivelavano particolari che ri-manevano nascosti ai visitatori della cappella delle Reliquie di Santa Croce. Perché, per essere fotografata, la tavola dell'iscri-

u E. Gruber-H. Kersten, op. cit., p. 378. M Missiva del 18 gennaio 1999 di don Simone dell'abbazia di Santa Croce in Geru-

salemme: «Abbiamo parlato con S.E. Mons. Re, che attende la risposta di due membri dell'Accademia Pontificia; personalmente, è favorevole all'esame». Come appresi in un colloquio personale che ebbe luogo il 31 marzo 1999, dei due membri dell'Accademia, uno si era espresso a favore dell'esame del carbonio, l'altro si era detto contrario. Per concedere l'autorizzazione sarebbe stato necessario un consenso unanime.

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zione della croce era stata tolta dal suo reliquiario d'argento, pe-sata, misurata e fotografata da tutti i lati, alla presenza della stu-diosa Maria L. Rigato. Grazie a ciò potei acquisire i seguenti da-ti: peso: 687 grammi; lunghezza: 25 centimetri (25,3 nel punto più lungo); altezza: 14 centimetri; spessore: 2,6 centimetri.

I bordi della tavola presentano forti tracce di decomposizio-ne. Il margine destro è letteralmente corroso dall'usura del tem-po. Una parte del bordo superiore è smozzicato, il che rende qua-si illeggibile l'iscrizione ebraica, e sul lato inferiore il degrado del legno ha reso quasi irriconoscibili le lettere I e ARIN. Solo il margine sinistro è intatto: evidentemente il legno fu tagliato in questo punto successivamente e da quel momento accurata-mente conservato. Ciò corrisponde a quanto sostiene la tradi-zione, secondo la quale il titulus giacque per quasi 300 anni in una cisterna prosciugata nei pressi della collina del Golgota, esposto senza difese all'umidità, fino a che fu recuperato, in-sieme alla reliquia della croce, alla presenza dell'imperatrice Ele-na, suddiviso e portato a Roma. Non sappiamo come fu con-servato dopo la morte di Elena e prima del 1140 circa, in ogni caso tra il 1140 e il 1492 era custodito in una cassetta di piom-bo, molto ben protetto, murato in una parete della cappella di Sant'Elena. Il fatto che il margine sinistro della tavola sia com-pletamente intatto dimostra non soltanto che il reperto è stato trattato correttamente negli ultimi sedici secoli, ma anche che lo stato di avanzata decomposizione sugli altri bordi è da ascri-versi all'epoca precedente al rinvenimento, e riflette la condi-zione di un reperto che è giaciuto per secoli senza protezione.

Specialmente al centro della tavola, sono ancora visibili i re-sti di una tinta grigio-calcarea, nonché tracce di una colora-zione nera impressa nelle scanalature di alcune lettere. Questo corrisponde a quanto scrive l'archeologa italo-svizzera Maria Si l ia to sul titulus damnationis, la t a v o l a r e c a n t e l ' indicaz ione

del capo d'accusa che i romani collocavano «nei luoghi delle esecuzioni, e soprattutto nel caso di crocifissioni particolar-mente spettacolari, in modo che fossero visibili per giorni» e «in cui era addotto il motivo per cui veniva comminata una con-

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danna capitale tanto feroce. Come nel caso di qualsiasi altra scritta su corteccia o su legno, sulla tavola veniva dapprima di-stesa una base grezza di color bianco, di gesso o colla, su cui Vexactor del procedimento, che sovrintendeva all'esecuzione della condanna, scriveva il motivo della condanna a caratteri neri o rossi»35.

Le fattezze con cui si presenta la tavola corrispondono quin-di in pieno alle caratteristiche di un oggetto di questo genere di fattura romana. Lo sfondamento su buona parte della superfi-cie della tavola dello strato originario di calcare di gesso è un ul-teriore indizio della sua lunga permanenza in condizioni non protette e in un ambiente almeno temporaneamente umido.

Questo strato calcareo è tanto più rilevante perché è espres-samente citato in una delle più antiche descrizioni del titulus rin-venuto da Elena, e cioè nella Storia della Chiesa di Sozomeno. Il suo autore, nato a Gaza, nel 370-380 circa, aveva da giovane numerosi contatti con anziani monaci e clerici, di cui alcuni po-tevano essere stati addirittura testimoni oculari del rinvenimento della croce. In ogni caso Sozomeno, che quando redasse la sua Storia della Chiesa nel 443-445 circa lavorava come giurista nel-la capitale imperiale Costantinopoli e disponeva di buoni con-tatti con la famiglia imperiale, ricostruisce minuziosamente gli avvenimenti relativi al rinvenimento della croce e del titulus. Il suo racconto contiene numerosi particolari che non ritrovia-mo nelle opere degli altri storici della Chiesa, tra cui la più pre-cisa descrizione della tavola di cui disponiamo. Infatti, mentre il suo contemporaneo Socrate Scolastico la menziona piuttosto fuggevolmente come la «tavola di Pilato, su cui stava scritto in diverse grafie chc il Cristo crocifisso era il re dei giudei»36 - col che si riferiva probabilmente alla metà del titulus conservata a Gerusalemme e recante la scritta (RE)X IUDAEORUM - , So-zomeno afferma: «Furono rinvenute tre croci e un altro pezzo di legno su cui in color bianco campeggiava la scritta in carat-

35 M.G. Siliato, op. cit., p. 339. 36 Socrate Scolastico, Hist Ecc., 1,17.

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teri ebraici, greci e latini: "Gesù di Nazaret, re dei giudei"»37. Tre particolari corretti, e cioè: la colorazione bianca della tavola di legno; la corretta successione con cui venivano indicate le lin-gue in cui era stata redatta l'iscrizione, e cioè ebraico, greco e la-tino e non, come nel Vangelo di Giovanni (19,19), ebraico, lati-no e greco; e infine il testo esatto dell'iscrizione, fanno pensare che il titulus citato da Sozomeno potrebbe coincidere con la reliquia di Santa Croce, di cui quindi il resoconto di Sozomeno potrebbe essere la descrizione più antica.

Un altro particolare s'impone alla nostra attenzione: se la ta-vola fu effettivamente tagliata nel mezzo - e tutto lo fa pensa-re - allora manca ogni traccia di una sua affissione alla croce mediante chiodi. Possiamo dedurne che non fu inchiodata alla croce, ma solo appesa. Questo spiegherebbe perché, secondo quasi tutti i cronisti dei rinvenimento della croce, l'identifica-zione della «vera croce» risultò per Elena così difficile, nono-stante avesse rinvenuto anche il titulus: questo giaceva là, pres-so le croci, ma non era affisso ad alcuna di esse, come confer-mato anche da Sozomeno: «Sorse però una difficoltà quando si trattò di distinguere la divina croce dalle altre; perché l'iscrizio-ne era da questa divisa, e la stessa croce era gettata in un an-golo con le altre senza che si potessero distinguere»38.

D legno del «titulus»

Pregai un mio collega, il giornalista israeliano Barry Chamish, di prendere contatto in Israele con alcuni studiosi che avreb-bero potuto sottoporre il titulus a una perizia sulla base delle fo-to. Israele è forse il Paese in cui oggi è più vivo l'interesse per l'archeologia e in cui ogni estate si effettuano fino a 26 campa-gne di scavo. L'abbondanza dei reperti che gli archeologi israe-liani hanno riportato alla luce e valutato scientificamente ne-gli ultimi decenni fa di loro un punto di riferimento sicuro per

37 Sozomeno, Hist. Ecc, II, 1. ™ Ibid.

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chiunque voglia una valutazione di un oggetto che si presume provenga e sia stato rinvenuto nel loro Paese. Inoltre a loro, in quanto ebrei, nessuno potrebbe rimproverare una mancanza di distacco critico dalla presunta iscrizione della croce. Di un esper-to di fede cattolico-romana, invece, gli scettici contesterebbero senza esitazioni l'obiettività, come hanno dimostrato le reazio-ni del mondo scientifico e dei media al lavoro di Thiede - ec-cellente, dal punto di vista scientifico - sul «papiro di Gesù»39. Formulai così tre ipotesi di lavoro relative alla tavola di Gesù. Poteva trattarsi: 1. effettivamente dell'iscrizione della «vera croce» risalente al-

l'anno 30 d.C; 2. di un falso del IV secolo volto a far colpo sull'imperatrice Ele-

na; 3. di un falso medievale fabbricato sulla base della tradizione

del rinvenimento deUa croce. Il 12 agosto m'imbarcai per Gerusalemme, per proseguire le

ricerche in quella città in cui si presumeva che il titulus fosse sta-to rinvenuto 1673 anni prima.

Purtroppo appresi ben presto che la soluzione più semplice, la datazione sulla base del metodo dendrocronologico, non era possibile. Come spiegarono i due principali esperti israeliani di analisi dell'anello annuale, il professor Nili Lifshitz e il dottor Simcha Lev-Yadun dell'Università di Tel Aviv, non ci sono suf-ficienti dati comparativi per l'epoca pre-musulmana e quindi nessuna «stadia tarata». Inoltre erano necessari almeno 50 anel-li annuali per poter datare il legno con precisione, e questo non era il caso della tavola di Santa Croce. Per accertarlo definiti-vamente, mi incontrai a Gerusalemme con la dottoressa Orna Cohen della Sovrintendenza israeliana per i beni archeologici, un'esperta del legno nota per le sue analisi dei resti di una bar-ca di pescatori rinvenuta presso il lago di Genesaret. Le tavole di quell'imbarcazione erano state scoperte nel fango del lago,

39 Cfr. La reazione di Spiegel (Lieferte die Polizei dert Beweis?, in n. 22,27-5-1996, pp. 80-87) a GP.Thiede-M. d'Ancona, op. cit.

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nella zona tra Migdal - la biblica Magdala - e Ginosar - la bi-blica Genesaret, nel gennaio 1986, dopo un anno estremamen-te arido, in cui il livello dello specchio d'acqua si era abbassato di molto. Poiché tra le tavole furono rinvenuti anche oggetti in ceramica - una lampada a olio e una casseruola - dell'epoca di Erode, la barca fu fatta risalire al I secolo, datazione poi con-fermata grazie al metodo del C14. Come ci si attendeva, la no-tizia conquistò titoli cubitali sui giornali di tutto il mondo: su barche di pescatori di questo tipo dovevano aver preso il largo anche i discepoli di Gesù, e Gesù stesso fu trasbordato da una sponda all'altra del lago su una barca come questa. Così la stam-pa la battezzò in breve tempo «la barca di Gesù». A quanto mi disse la dottoressa Cohen, per quanto il restauro del reperto sia concluso - oggi può essere visitato presso il kibbntz di Ginosar - finora non è ancora stata effettuata una valutazione dendro-cronologica delle tavole40.

In ogni caso il reperto di Migdal ha dimostrato che anche in Israele il legno può conservarsi per oltre 2000 anni. Mentre se è sepolto sotto terra subisce un rapido processo di decomposi-zione, le condizioni più favorevoli alla conservazione sono rap-presentate 0 da un ambiente estremamente asciutto e ben area-to, oppure da un ambiente caratterizzato dalla presenza di fan-go e acqua. Chiesi alle dottoresse Cohen e Leah Di Segni come valutassero la leggenda secondo cui la «vera croce» sarebbe sta-ta rinvenuta in un'antica cisterna, in quella cappella del rinve-nimento della croce che ancora oggi si può visitare nella parte sotterranea della chiesa del Santo Sepolcro. Entrambe giudi-carono possibile che il legno sia sopravvissuto là senza riporta-re danni per i 295 anni intercorsi tra il 30 e il 325 d.C: «Meglio in una cisterna che in qualunque altro posto», disse la dottores-sa Di Segni, «è decisamente il luogo migliore. È in un luogo fan-goso che il legno si conserva meglio»41.

Solo nel maggio 1999 appresi che nel frattempo, su disposi-

40 Colloquio del 13 agosto 1998. 41 Colloquio del 17 agosto 1998.

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zione dell'abate di Santa Croce, don Luigi Rottini, il legno del titulus era stato analizzato e individuato nella sua varietà bo-tanica da un esperto di fama. Come spiegò il professor Elio Co-rona, ordinario di tecnologia del legno presso l'Università del-la Toscana di Viterbo, la tavola con l'iscrizione della croce è fat-ta con legno di noce mediterraneo ([Juglans regia). Quest'albero, che può raggiungere un'altezza di 25 metri, è originario dell'a-rea del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente. Per robu-stezza e resistenza, il suo legno era apprezzato nell'antichità co-me materiale da costruzione, e veniva riutilizzato più volte. La reliquia, come accertò l'esperto, era stata esposta all'umidità e alle aggressioni di funghi e insetti: un fattore che, nel caso di un esame del carbonio, poteva interferire e falsificare i risultati42.

L'età dell'iscrizione

Più promettente di un'analisi del carbonio, complicata dai fat-tori succitati, è l'esame paleografico. Hitti gli studiosi a cui sot-toposi le foto collocarono l'iscrizione ebraico-greco-latina in un arco temporale che va dal I al IV secolo d.C. L'unica datazio-ne più tarda mi era stata proposta da un profano, un amico an-tiquario di Gerusalemme, L. Alexander Wolfe, che riteneva bi-zantino lo stile del testo greco e che datò la tavola al «VI-VII secolo d.C.». L'omicron ypsilon, in particolare, sarebbe tipica di questo periodo43.

La mattina del 16 agosto avevo un appuntamento con il dot-tore Gabriel Barkay della Sovrintendenza israeliana per i beni archeologici, che aveva riportato alla luce dozzine di caverne se-polcrali risalenti all'epoca del secondo tempio (538 a.C.-70 d.C.), come pure sepolcri e chiese di epoca bizantina. Così facendo. non aveva solo rinvenuto personalmente centinaia di iscrizioni,

42 E. Corona, « "Il Titolo ": Relazione Tecnologica»: Relazione al Congresso Interna-zionale «Dalla Passione alla Resurrezione: 2000 anni di silenziosa testimonianza», Ro-ma, Università Lateranense, 6-8 maggio 1999.

43 Colloquio del 12 agosto 1998.

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ma anche esaminato bolle e iscrizioni e pubblicato i risultati dei suoi studi su riviste specializzate.

Barkay non fu l'unico a relativizzare subito le sue valutazioni. «La paleografia è una faccenda piena di trabocchetti per quan-to riguarda l'epoca romana, ed è ancora ben lungi dall'essere una scienza esatta, anzi, nemmeno vi si approssima», dichiarò subito all'inizio del nostro colloquio. Rispetto aUa tavola di Santa Cro-ce, osservò che i caratteri erano stati tracciati «senza dubbio da mano inesperta», da una persona che «a una prima impressione non proveniva dalla Palestina». L'andamento da destra a sinistra del greco e del latino era «a imitazione di un'altra modalità di scrittura». Si dava quasi per vinto. «Non posso datarlo con si-curezza. Quel che è certo è che si tratti di grafie antiche, in ogni caso precedenti ai primordi del medioevo», disse. Solo un ele-mento gli balzava agli occhi: «La riga superiore, con le sue «co-de», pare essere semitica. Queste «code», da sinistra a destra, so-no tipiche del paleoebraico, ma anche in questo ho dei dubbi». Su mia richiesta, mi spiegò di che cosa si trattasse: «Per paleoe-braico s'intende l'utilizzo di caratteri dell'antica scrittura ebrai-ca durante il periodo del secondo tempio. La definizione è di Frank Morecross, un orientalista dell'Università di Harvard, il quale notò che gli ebrei continuarono a utilizzare piuttosto a lun-go la scrittura veteroebraica, addirittura fino alla rivolta di Bar Kochba, alla metà del II secolo, quando la riscontriamo sulle mo-nete. Non voglio sostenere che si tratti di paleoebraico, si è con-servato troppo poco dell'iscrizione per affermarlo, ma l'esi-stenza di queste "code", che vanno dall'alto a destra verso il bas-so a sinistra, è caratteristica del paleoebraico»44.

Quando, il giorno dopo, feci visita a due dei più famosi esper-ti di paleografia ebraica, Hanan e Ester Eshel dell'Università Ebraica di Gerusalemme, questi contraddissero le affermazioni del dottor Barkay. Hanan Eshel si era conquistato un fama in-ternazionale come direttore dei nuovi scavi archeologici a Qum-ran, durante i quali furono portate alla luce tracce di un ac-

44 Colloquio del 16 agosto 1998.

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campamento e di un insediamento cavernicolo a nord del mo-nastero esseno. Sua moglie aveva tradotto gli ostraka rinvenu-ti a Qumran. Per quanto entrambi fossero in quel momento im-pegnati nei preparativi per il loro trasferimento a Harvard, pres-so la cui università erano attesi come docenti esterni, si riservarono del tempo per sottoporre ad attenta perizia le foto della tavola di Santa Croce. Mentre sua moglie non riusciva «a vedere sulle foto abbastanza elementi per poter trarre delle con-clusioni», il professor Hanan Eshel così si esprimeva a proposi-to della tavola: «I segni grafici mi inducono a datarla nel II o III secolo. Sono tre o quattro lettere, la prima parrebbe una he, poi c'è forse una nun, non posso dirlo. Ma non mi sembra paleoe-braico, è scrittura ebraica ... scrittura ebraica corsiva, come si è sviluppata alla fine del periodo del secondo tempio [quindi in epoca erodiana, nda]. Fu utilizzata fino alla rivolta di Bar Kochba e anche oltre, fino al IV secolo. Potrebbe quindi risali-re anche al IV secolo. Non possiamo dirlo con certezza perché disponiamo di troppo poche iscrizioni datate»45.

Ora, sia che si tratti di paleoebraico, sia che si tratti di scrit-tura ebraica corsiva, entrambi gli esperti rimandavano, per quel-la prima riga malamente conservata, a un arco temporale che va dal I al IV secolo d.C. Decisi di accantonare la questione e mi rivolsi a una specialista di paleografia greca, che il dottor Barkay mi aveva caldamente raccomandato. Non rimasi deluso. La dot-toressa Leah Di Segni dell'Università ebraica aveva scritto una tesi di laurea dal titolo Iscrizioni greche datate provenienti dalla Palestina e risalenti al periodo romano e bizantino46 e ave-va elaborato in quell'occasione delle tabelle paleografiche con le quali lavorano oggi gli studenti. Per la valutazione della se-conda riga avevo trovato una persona di grandi capacità intel-lettuali, come compresi quando le feci visita nel suo apparta-mento, nel sobborgo di Gerusalemme di Kiryat Moshe.

45 Colloquio del 17 agosto 1998. 46 L. Di Segni, Dated Greek Inscriptions from Palestine front the Roman and By-

iantine Periods (tesi), Jerusalem 1997.

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Gettò una lunga occhiata critica alle foto, prima di sparire con loro nel suo studio. Quando ne riemerse, qualche tempo dopo, aveva emesso il suo verdetto: «Il monogramma omicron-ypsi-lon è usuale nel periodo bizantino a partire dal VI secolo o al massimo dalla fine del V. Non compare tra il II e il V secolo, almeno per quanto ne so io, ma lo troviamo in epoca romana. Può quindi scegliere tra lo scenario della «vera croce» e quello di un'imitazione bizantina». Mi mostrò dalla sua vasta bibliote-ca due esempi di omicron-ypsilon risalenti al I secolo47 prima di proseguire: «Non disponiamo di altre iscrizioni su legno per effettuare un raffronto. Ma le alfa sono tipiche del I secolo o del periodo che va dal I al III secolo, e non del periodo bizantino. Questa forma non compare più successivamente», spiegò, per giungere infine a una conclusione: «Quest'iscrizione non ha le caratteristiche che definiremmo tardobizantine, il che in questa parte del mondo [cioè in Israele, nda] significa VI o VII secolo. Non sembra un'iscrizione bizantina di questa parte del mondo e nemmeno un'iscrizione del IV secolo. Sembra piuttosto un'i-scrizione del primo periodo romano [I secolo d.C., nda]. Devo confessare di non credere alla leggenda della vera croce, ed è quindi tanto più difficile per me ammettere che [l'iscrizione] non sembri una falsificazione risalente al IV secolo, mi duole dirlo ... ma penso che valga la pena di continuare le ricerche»48.

La dottoressa Di Segni mi consigliò di consultare proprio un esperto che insegnava in un'università nelle immediate vicinan-ze di casa mia, a Colonia. Il professor Werner Eck dell'Istituto di Antichità dell'Università di Colonia si era a lungo occupato di iscrizioni romane su legno, quale il titulus doveva essere.

47 Cioè riscontrate in un'iscrizione collocabile nell'arco di tempo che va dal 69 al 96 d.C. (Inscriptiones Graecae XII, 1,4, iii; riportata anche in A_ Yonah, Abbreviations in Greek Inscriprìons, SuppL ofthe Quarterly ofthe Dept ofAntiquities of Palestine, Jerusalem-Lon-don 1940, voi. 9, p. 119). Come esempio di reperto paleografico greco della Palestina del I secolo dotato di una serie di paralleli all'iscrizione della croce - in particolare «età» è mol-to simile - rimandò a una tavola di marmo risalente a un arco temporale che va dal 70 al 90 d.C., rinvenuta nel cimitero romano di Bir el-Malik (Israel Antiquity Authority n. 3919: «A "Tito Muoio Clemente, figlio di Marco, Prefetto di Erode Antipa», vedi M. Avi Yonah, The Epitaph ofT. Mucius Clemens in Israel Exploration Journal 16 [1966], pp. 258-264).

48 Colloquio del 17 agosto 1998.

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J U i n "

Val le d i C e d r o n

Co l l ina f r a n c e s e , G e r u s a l e m m e

Giv 'a t Hamiv ta r , G e r u s a l e m m e

O'is) 7 , r / / j j / \ > i M o n t e S c o p u s , o v e s t , G e r u s a l e m m e

IWANHÉ M A P ^ c c A6A©éOV A N A A b u Tor , G e r u s a l e m m e G i v ' a t H a m r v m r . G e i u s e t e m m e G a r o s a l e m m e P r o v e n i e n z a s c o n o s c i u t a

C A ^ C I M Q N Q C CAfAC KtPf ìKGOC n l 7 A E M ^ K" H Valle di Cedron. Gerusalemme

Ramat Estikol. Gerusalemme Valle di Cedron. Gerusalemme (vA) N i Q C

^S&r rAma Schneller. Gerusalemme Valle di Cedron. Gerusalemme SJwan. Gerusalemme

Raffronto con iscrizioni del Isecolo rinvenute a Gerusalemme (da L.Y. Rahmani, A Catalogue of Jewish Ossuaries, Jerusalem 1994).

L'avvocato del diavolo

Poco dopo il mio ritorno in Germania, il 2 settembre 1998, pre-si contatto con il professor Eck. Già al telefono, l'antichista si schermì. I suoi studi sulle tavole in legno di epoca romana era-no di natura piuttosto ipotetica perché, nonostante conosciamo da fonti dell'epoca il frequente utilizzo di questo materiale in epo-

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ca imperiale, nessun originale è sopravvissuto al trascorrere del tempo. «Ritengo altamente improbabile che si sia conservata pro-prio la tavola della croce di Gesù», dichiarò. I discepoli di Gesù, ne era sicuro, erano fuggiti dopo la crocifissione «e non si sareb-bero fidati ad avvicinarsi al monte Calvario»; inoltre «i romani non avrebbero consentito a nessuno di impadronirsi della tavo-la. Il legno era scarso, veniva riutilizzato»49. Era comunque di-sponibile a esaminare le foto del titulus, che gli inviai quello stes-so giorno. Una settimana più tardi ricevetti la sua risposta, che mi confermò l'impressione che avevo tratto su di lui dal colloquio telefonico. Era davvero convinto che non poteva che trattarsi di un falso. Non perché ci fossero degli elementi a suffragare questa ipotesi, ma semplicemente perché non poteva essere diversamente. La reliquia contraddiceva tanto le sue ipotesi sullo svolgersi de-gli eventi in quel primo venerdì santo quanto le sue ipotetiche ri-costruzioni delle iscrizioni in legno di epoca romana.

«Quando si trattava di approntare un titulus da affiggere su una croce, il testo veniva scritto con una tinta sulla superficie di legno della tavola il cui fondo era stato dipinto di bianco ... In questo caso, invece, le parole sono incise nei legno. Questo non avveni-va in questo genere di testi»50. La sua categoricità mi stupì, tanto più che, in un suo studio dal titolo Iscrizioni su legno, avevo let-to questo passo: «Non c'è alcun bisogno di immaginare che le iscri-zioni su legno dovessero sortire un effetto di sorpresa su chi le leg-geva. Perché probabilmente in questi casi il legno, compresi i ca-ratteri incisi sul fondo, veniva coperto con un sottile strato di stucco, ma poi le scanalature delle lettere venivano anche dipinte. In al-ternativa il testo dell'iscrizione veniva direttamente riportato con del colore sulla superficie di legno coperta dallo stucco»51. Quin-di entrambe le soluzioni erano possibili, e nel caso dell'iscrizio-ne della croce poteva ben essere stata scelta la prima possibilità.

49 Colloquio del 2 settembre 1998. 50 Missiva del 9 settembre 1998. 51 W. Eck, Inschriften auf Holz. Ein unterschiitztes Phanomen der epigraphischen Kul-

tur Roms, in P. Kneissel-V. Losemann (a cura di), Imperium Romanum. Studien zu Geschichte und Rezeption, Stuttgart 1998, p. 206.

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I professor Eck escluse anche {a possibilità di una datazio-palcografica, perché mancavano i termini di raffronto» cioè rizioni in legno risalenti a quell'epoca. Tutti gli altri, esperii risultati* tra cui paleografi, di fama, ri mandarono eerto alla, ssihilità dì discordante, ma sotto line areno anche resistenza caratteristiche generali databili che si possono riscontrare Ile iscrizioni indipendentemente dal materiale dì supporto, ì l'elemento «più importante e decisivo» per l'antichista di rfonia era un altro: «Poiché è scritta da destra verso sinistra, mca il requisito fondamentale perché IIscrizione possa un. npo essere stata affissa su una croce dai romani |! j. Quindi n può nemmeno trattarsi dell'autentico titulus crucisi. An~ e questo argomento non mi convinse affatto, Innanzitutto, Iscrizione di. questo genere, in province in cui esecuzioni di issa di. rivoltosi erano all'ordine del giorno, rappresentava, 'eccezione. Nel caso di. Gesù aveva la funzione di irridere il ndamiato, costituiva quasi, il seguito della beffarda incoa-zione con le spine e con il mantello lacero, piuttosto che cor-pondera a un'esigenza giuridieo-formale. Inoltre i destinata-dell'iscrizione erano ebrei, per i quali doveva valere da am-biz ione: questa e ra la. fine che a t tendeva chi sognava la ;taura/jone del regno ebraico. Così concepita, riscrizione po-ro soddisfare una doppia esigenza: era più facilmente leggi -e per gli ebrei, abituati a scrivere da destra a sinistra, e, per più, li canzonava. Anche l 'altro a rgomento di Eck, secondo cui. la vera iscri-me della, croce sarebbe stata riutilizzata, non convince, perché esecuzioni conformi al. diritto romano avevano luogo a Ge-salemme solo quando il. governatore si recava in vìsita in città, r lo più soltanto in. occasione delle grandi festività del tempio, sodi o Pasqua all'inizio dell'anno e la festa delle Capanne in tuono1", Per il resto del tempori, sediziosi venivano trattenuti arresto dalla coorte romana nella cittadella Antonia oppure

s?; Missiva del scltembre • Giuseppe Flavio, Ani hui., XX. 5,.3.

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Raffronto paleografico Ira il rimili s i-ruiis (ri.. 1, Gerusa-lemme, 30 d.C circa?), riten-zione di Ponzio filalo rinve-nuta n Cattare a Mariti ITI a (n.2.Giuttea, d . C virai) e le pila (ìk) di T. Muzio Cle-mente U\ Btr ci MaUL 70-90 d.C. circa). Riproduzione secondo ML Avi Yonah, T'Ae Epmph of T. \tudm Ckmois. in ÌEJ 16; 1966. tav. 271.

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condotti nella capitale provinciale Caesarea per essere sotto-posti a giudizio54. Per gli ebrei,uno strumento di martirio era qualcosa di impuro (come tutto ciò che veniva a contatto con un defunto, cfr, Nm 19,13-16); anche loro non l'avrebbero più riutilizzata, probabilmente avrebbero rimosso le tracce dell'e-secuzione ancor prima della festa di Pasqua e seppellito i mor-ti, proprio come raccontano sia i Vangeli sia Giuseppe Flavio55

e come esige la legge mosaica (Dt 21,22-23). Se davvero i se-guaci di Gesù avessero preso parte a queste operazioni - e Giu-seppe d'Arimatea era uno di loro - , allora sarebbe comprensi-bile il loro successivo sforzo, dopo la risurrezione, per nascon-dere in un luogo sicuro le testimonianze della passione. Ma in nessun caso avrebbero tollerato che qualche cosa di impuro fos-se riportato in città per essere riutilizzato: avrebbe contamina-to l'intera Gerusalemme. Nella frenesia che, per l'incombere del-la festa pasquale, contraddistinse quei momenti, può darsi che non abbiano nemmeno trovato il tempo per bruciarle. Se così stanno le cose, allora ha pienamente senso la spiegazione offerta daUa tradizione, secondo cui Giuseppe d'Arimatea e chi lo aiutò nascosero le croci in una vecchia cisterna nel suo giardino, f o r -se per deporre anch'esse nei sepolcri, una volta trascorso shab-bath, per via del «sangue di vita» di cui si erano impregnate; il che naturalmente non si rese più necessario dopo la risurre-zione di Gesù.

Ma, per quanto non potessi condividere le valutazioni del pro-fessor Eck, la sua perizia giocava un ruolo importante. Eck ave-va assunto la funzione di advocatus diaboli, di quello scettico che, nel caso di un processo di canonizzazione, adduce tutte le argomentazioni che giocano a sfavore del futuro santo. Ma le sue controargomentazioni erano facilmente smontabili e non mettevano seriamente in dubbio l'autenticità del titulus.

54 Cfr. la vicenda dell'arresto di Paolo, così come viene descritta dagli Atti degli apo-stoli, 22,24; 23,23-33.

55 Giuseppe Flavio, Beli lud., IV, 5,2.

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Altri esperti, altre opinioni

Quello stesso giorno, il 2 settembre, telefonai a un secondo esperto tedesco, un uomo di statura internazionale: il profes-sor Carsten Peter Thiede di Paderborn, che si era conquistato fama mondiale con i suoi studi relativi ai più antichi manoscrit-ti della Bibbia. Nel 1984 aveva incontrato una certa opposizio-ne quando aveva identificato il frammento di Qumran 7Q5 come parte di un antico manoscritto di Marco, proprio come pri-ma di lui aveva fatto O'Callaghan. Quando alcuni colleglli lo contestarono e proposero un'altra lettura, la contromossa di Thiede fu di portare il papiro al dipartimento di analisi foren-se della Polizia israeliana. Là il papiro fu esaminato con l'ausi-lio di uno stereomicroscopio elettronico e furono rinvenute trac-ce di colore che confermavano l'interpretazione di Thiede. Po-co tempo dopo, il papirologo fece nuovamente parlare di sé quando retrodatò il papiro di Magdalen conservato a Oxford sulla base di caratteristiche paleografiche univoche. Anche in questo caso si dimostrò che la metodologia paleografica può col-locare temporalmente i documenti scritti con una certa sicu-rezza, sempre che ci sia sufficiente materiale di raffronto me-diato da identico materiale di supporto. Come curatore di un'e-sposizione molto apprezzata, Dalla Terra alle Genti: La diffusione del cristianesimo nei primi secoli, tenutasi a Rimini, si era ap-profonditamente occupato delle tracce epigrafiche dei primis-simi cristiani. Oggi Thiede dirige l'Istituto di ricerca di base di teoria della scienza a Paderborn. È inoltre membro dell'Istitu-to di Storia dell'Università Ben Gurion di Beer-Sheva, in Israe-le, e lavora a stretto contatto con i colleghi israeliani.

Quando parlai con lui, fui piacevolmente sorpreso dalla sua grande apertura e disponibilità a collaborare. Conosceva già il titulus, lo aveva visto in occasione di una sua visita a Santa Cro-ce a Roma e si era confrontato con la sua iscrizione, ma per i suoi studi disponeva unicamente delle solite cartoline e non ave-va alcun primo piano. Così gli mandai le foto di cui disponevo, oltre a un resoconto delle indagini svolte fino a quel momento.

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Rispose quattro giorni più tardi, scrivendo che i passi intrapre-si dimostrerebbero che «la databilità dell'iscrizione al I secolo, da me da tempo sospettata, quanto meno non viene esclusa da-gli esperti israeliani, in parte anche con interessanti argomen-tazioni»56. Tutto ciò mi pareva molto promettente e decisi di ac-cogliere la proposta di collaborazione amichevolmente avanza-ta dal professor Thiede. Ma prima dovevo far ritorno a Roma.

Ancora una volta a Roma

Per la riga in latino della tavola, in Israele avevo tentato in-vano di contattare due esperti, i professori Israel Roll e Ben Isaac dell'Università di Tel Aviv, entrambi in vacanza. Quando infine raggiunsi il primo telefonicamente, mi spiegò che alla metà di settembre avrebbe partecipato a un convegno a Roma. Sta-bilimmo di vedérci in quell'occasione. Colsi inoltre l'occasione per discutere di persona con l'abate del convento di Santa Cro-ce i risultati conseguiti fino a quel momento, che gli avevo già fatto pervenire mediante un corriere. Consegnai un'altra copia del mio resoconto a un collaboratore personale del papa, padre John Baldwin, il 9 settembre, dopo l'udienza pubblica in piaz-za San Pietro, con la preghiera di trasmetterla a papa Giovan-ni Paolo II.

L'11 settembre, insieme a monsignor Balducci, avevo ap-puntamento con don Luigi Rottini. L'abate si prese del tempo per conferire personalmente con noi e parve entusiasta dei positivi sviluppi delle indagini. Un giorno più tardi, il 12 set-tembre, m'incontrai con il professor Roll, con cui mi recai alla basilica di Santa Croce, per mostrargli il titulus. Inoltre conse-gnai anche a lui un primo piano, che intendeva studiare accu-ratamente a Tel Aviv con il suo collega, il professor Ben Isaac. Il professor Roll si era occupato a fondo delle iscrizioni delle pietre miliari romane in Palestina, che nel I secolo erano scritte

56 Missiva del 6 settembre 1998.

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solo in latino, mentre dall'epoca di Adriano recavano scritte bi-lingui, in latino e in greco. Per questo disponeva di sufficienti elementi di raffronto per uno studio paleografico - sebbene me-diati da un altro materiale di supporto, la pietra - e conosceva inoltre gli stili grafici degli occupanti romani. Promise di far-mi avere una relazione entro la fine di ottobre. Non mi feci sfug-gire l'occasione di presentare il simpatico docente israeliano di archeologia classica a don Luigi Rottini, che fu visibilmente felice del fatto che specialisti di statura internazionale si inte-ressassero alla «sua» reliquia.

Qualche mese più tardi avevo davanti a me il suo resoconto, concordato con il professor Ben Isaac: «Ho letto con grande in-teresse il suo dotto e dettagliato studio sul titulus Christi. Sono molto impressionato dall'accuratezza dei suoi sforzi per stabili-re l'autenticità del titulus, la sua origine e la sua datazione», così commentava la mia relazione provvisoria, di cui a Roma gli avevo fornito una copia. «Per quanto riguarda le valutazioni pa-leografiche che Lei riporta nella sua relazione, definirei il giu-dizio della dottoressa Di Segni come il più rilevante, e condivi-do pienamente quanto da lei affermato». Anche il professor Roll considerava un indizio dell'autenticità della tavola il fatto che la riga in greco «non rappresenti una traduzione del testo in latino, a differenza della citazione di Giovanni 19,19. È piutto-sto una trascrizione in greco della riga latina [nell'originale]. In effetti non può che essere così, perché Ponzio Pilato, che secondo Giovanni (ibid.) scrisse il titulus, era un magistrato romano. Inol-tre l'iscrizione costituiva un documento ufficiale e doveva per-ciò essere formulata dapprima in latino, per poi essere trascrit-ta in greco e in ebraico, e non viceversa»57.

Anche il professor Thiede aveva accennato a questa circo-stanza quando scrisse del titulus sul Church of England New -spaper, il settimanale della Chiesa anglicana: «Ogni falsificato-re con un minimo di buon senso si sarebbe naturalmente atte-nuto alla descrizione di Giovanni in 19,19... Le righe in latino e

57 Missiva del 12 febbraio 1999.

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in greco sono entrambe scritte da destra verso sinistra, come quella in ebraico. Questo potrebbe far pensare a uno scrivano ebreo» - o siriaco, aggiungerei io - «poco esperto nelle altre lin-gue, in cui scriveva dietro dettatura. Ancora, qui non viene cer-to copiato il modello fornito da Giovanni. Nella riga in greco leggiamo Nazarenous invece del termine corretto Nazoraios. Se il testo fu dettato in latino allo scrivente, quindi in quella che an-che a Gerusalemme era la lingua ufficiale dell'imperìum, se que-sti fu poi lasciato libero di trovare una soluzione per la trascri-zione del testo nelle altre due lìngue, compitò perciò inevita-bilmente la forma greca di Nazaret come se si trattasse di una parola latina? E ancora, chi scrisse non copiò alcuna delle ver-sioni dei Vangeli conosciute, con le loro divergenze nei parti-colari e con una precisione sostanziale, com'è naturale per per-sone che non stavano ai piedi della croce con un blocco per ap-punti ma che rievocavano quanto avevano visto (tutte le versioni concordano nel riportare l'elemento centrale del testo, «il re dei giudei», la motivazione con cui Gesù fu fatto crocifiggere da Pi-lato). Per la -OU- di Nazarenous, lo scrivente ricorre a una let-tera rara che assomiglia alla 'ayin ebraica corsiva. Fu utilizzata in forma simile come simbolo per la parola sheqel e compare nel I secolo come trascrizione grafica del greco OU. È un fatto che in nessuno dei manoscritti dei Vangeli esistenti le due lettere OU siano rinvenibili in questa forma. Lo stile calligrafico riscon-trabile su questo pezzo di legno può esssere ricondotto, con pro-babilità decrescente [per la datazione più tarda, nda] a un arco temporale che va dal I secolo agli inizi del IV. Può essere un ar-co di tempo piuttosto lungo, ma esclude una fabbricazione in epoca posteriore a Elena. In effetti l'ipotesi che questo arte-fatto sia stato fabbricato a Gerusalemme appositamente per Ele-na è l'unica seria alternativa alla sorprendente possibilità del-l'autenticità. Ma resistenza a quell'epoca di numerosi mano-scritti evangelici che riportavano il testo dell'iscrizione con tutte le sue possibili varianti, nessuna delle quali usata come model-lo da chi scrisse questa tavola, depone contro l'ipotesi della datazione più tarda. Si potrebbe continuare, ma basti constata-

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re che la particolarità del titulus conservato a Roma risiede nel-la sua sbalorditività. Chiunque scrisse il testo, non era un copi-sta o un falsario»58.

Con questa pubblicazione, il professor Thiede si è aggiudi-cato l'onore di essere stato il primo studioso a richiamare l'at-tenzione dell'opinione pubblica sulla sorprendente reliquia del-l'iscrizione della croce e sulla possibilità della sua autenticità. La sua coraggiosa presa di posizione a favore dell'autenticità della tavola mi convinse più che mai che era giunto il tempo di narrare tutta la sua storia.

Roma, 17 dicembre 1998. Era ancora buio quando attraversai piazza San Pietro. Tenendomi a destra mi avvicinai al portone di bronzo del Bernini, da cui si entrava nella residenza del pontefi-ce. Ero uno dei primi ad attendere davanti all'ingresso, finché il pesante portone fu aperto da due guardie svizzere, in quelle divi-se dagli stupendi colori disegnate un tempo da Michelangelo. Era un piccolo gruppo a essere stato invitato in quella storica matti-nata, la mattina successiva ai bombardamenti su Bagdad, alla celebrazione della Santa Messa con papa Giovanni Paolo II e poi a un'udienza personale con lui. Per me rappresentava qualche co-sa di più: era l'occasione per informare personalmente il Santo Padre delle mie ricerche sulla tavola di Santa Croce. Per lui ave-vo redatto un «resoconto provvisorio» di dodici pagine, che sin-tetizzava i risultati più importanti, e un prete romano mio amico l'aveva trasmesso pochi giorni prima all'arcivescovo Stanislaw Dziwisz, segretario personale del papa. Per il suo tramite ero stato invitato a questo commovente incontro con il Santo Padre.

Era inginocchiatoimmerso nella preghiera; Sprofondato in se stesso e insieme immobile come una statua sul suo inginocchia-toio, quando fummo fatti entrare nella sua cappella privata, in sti-le moderno, il cui soffitto era costituito dall'immagine in vetro, dagli stupendi colori, del Risorto. L'altare, di marmo bruno, era sovrastato da un crocifisso in bronzo, il cui corpo emanava ri-

53 C.P.Thiede, The Searchfor..., op. dr., p. 18.

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flessi dorati e accanto al quale era stata collocata una raffigura-zione della Madonna di Czestochowa, la protettrice della sua pa-tria,, la Polonia. Davanti a lei s'inginocchiò nuovamente, pregan-do e meditando, quando, in silenzio, dopo la conclusione della santa messa, lasciammo nuovamente la cappella. Ero profon-damente colpito dalla forza mistica di questo papa che, come nes-suno dei suoi predecessori, aveva impresso un segno alla storia del nostro secolo e che con il suo sostegno alla resistenza polac-ca aveva, in ultima analisi, sconfitto il comunismo.

«Ah, titulus Christi», mi salutò con queste parole quando varcò la soglia della sala delle udienze e dopo che ebbe conferito con il nuovo vescovo di Rhode Island. Camminava con difficoltà, in-cedeva lentamente, appoggiandosi a un bastone, il capo massic-cio piegato in avanti, come se sulle spalle reggesse il fardello del mondo. Emanava da lui una sorta di calore e di cordialità che lampeggiavano nei suoi occhi. Evidentemente era già stato infor-mato del contenuto del mio resoconto, cosicché mi limitai a ri-capitolare brevemente: «Sì, Santo Padre, tutti gli esperti ai quali ho sottoposto l'iscrizione la datano ai primi secoli. Più di un ele-mento depone a favore dell'autenticità della venerabile reliquia». Mi ringraziò e mi espresse la sua benevolenza (cfr. illustrazione a colori della tavola XI). Gli porsi un piccolo dono, una lampa-da a olio dei pellegrini proveniente dalla Gerusalemme del V secolo che recava in greco l'iscrizione: «La luce di Cristo vi il-lumini tutti»: «È un simbolo della luce di Cristo, che da Gerusa-lemme giunse a Roma e che da Gerusalemme e da Roma deve essere portata nel nuovo millennio», gli spiegai, alludendo al-l'imminente anno santo.

Due mesi più tardi, il 18 febbraio 1999, ricevetti da don Lui-gi Rottini, l'abate di Santa Croce, l'invito a presentare i risulta-ti del mio studio al «Congresso Internazionale sulle reliquie di Cristo: dalla Passione alla Risurrezione. Duemila anni di silen-ziosa testimonianza», che si tenne dal 6 all'8 maggio 1999 nel-l'aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense a Roma. Fece seguito, in aprile, per il tramite dell'arcivescovo Re, un'au-

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torizzazione ufficiale a pubblicare gli esiti della ricerca. Il con-vegno fu inaugurato dall'abate di Santa Croce e si aprì con un messaggio di saluto del papa. I tre giorni successivi si rivelaro-no un impressionante incontro tra Chiesa e scienza. L'elenco dei relatori che dovevano parlare all'università dei papi era impo-nente. Tra questi, andavano annoverati cardinali, come il presi-dente della Conferenza Episcopale Europea, l'arcivescovo di Praga e cardinale titolare di Santa Croce, Miloslav Vlk, e il vi-cario generale del papa per la Città del Vaticano, cardinale Vir-gilio Noè; vescovi, tra i quali Luigi Moretti, segretario generale del Vicariato di Roma, e Rafael Somoano Berdasco; teologi, co-me Giuseppe Ghiberti dell'Università di Milano, Maria Luisa Rigato dell'Università Gregoriana e Gianfranco Berbenni ofm, così come Mario Sensi dell'Università Lateranense; e celebri stu-diosi, tra cui Pierluigi Baima Bollone e Bruno Barberis, di Tori-no, il fisico Francesco Bella dell'Università di Roma, l'ordinario di tecnologia del legno dell'Università della Toscana di Viter-bo Elio Corona, la paleobotanica Maria Follieri, Carlo Azzi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il fisico John Jackson del-l'Università del Colorado così come la filologa M. Flury-Lem-berg di Berna, l'archeologo francescano Pietro Kaswalder di Ge-rusalemme e lo storico tedesco Karl Dietz. Come ospite d'o-nore ha preso parte al convegno la principessa Maria Gabriella di Savoia, che ha parlato del telo sepolcrale torinese, per secoli appartenuto alla famiglia reale italiana. Mi sforzai di non delu-dere la fiducia che avevano riposto in me gli organizzatori invi-tandomi a un convegno di così alto profilo. Conformemente al-le attese, la riscoperta e la rivalutazione del titulus alla luce delle metodologie paleografiche incontrarono un notevole in-teresse. Appresi che già altri esperti avevano riflettuto sulla ta-vola di Santa Croce, e anche loro si erano pronunciati a favore della sua autenticità. Il professor Bella, il professor Corona, la professoressa Follieri e il dottor Azzi discussero i passi ulterio-ri da compiersi e l'utilizzo dei metodi of fert i dalle scienze natu-rali per indagare la reliquia. La dottoressa Maria Luisa Rigato ha annunciato l'imminente pubblicazione di un altro studio vol-

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to a consolidare la tesi dell'autenticità del titulus. Mi spiegò al convegno che, grazie al suo intervento, la tavola fu per la prima volta tolta dal reliquiario nel 1995 e fotografata dal signor Pa-ladini. Con il convegno di Roma si era sfondato un argine. Ora siamo costretti a ripensare, a rivedere il nostro atteggiamento nei confronti delle fonti del cristianesimo: un nuovo documen-to è emerso, e con ogni probabilità si tratta di una testimo-nianza scritta coeva alla vita e alla passione di Gesù.

Certo, ci sono ancora alcune questioni aperte. È piuttosto im-probabile che l'Accademia Pontificia delle Scienze conceda an-cora l'autorizzazione a effettuare l'esame del radiocarbonio per datare una reliquia, dopo il grave danno arrecato dalla datazio-n e , Chiaramente fa lsa, deUa S i n d o n e tor inese. M a n u m e r o s i esper -

ti, tra cui il professor Thiede, lo ritengono comunque superfluo: «Anche se (a differenza di quanto avvenuto con la Sindone) po-tessimo stabilire le premesse per un procedimento del tutto cor-retto, il grado di contaminazione è troppo incerto perché pos-sa essere attendibilmente calibrato», mi scrisse. «Intanto anche gli specialisti di questo esame ammettono francamente che nei casi dubbi, nel caso di manoscritti [nell'originale, nda], la paleo-grafia comparata è molto più precisa dell'esame del Q4. In bre-ve: io sconsiglio vivamente quest'analisi; possiamo invece la-vorare molto scrupolosamente sulla base dei metodi paleogra-fici. Le caratteristiche sono comunque abbastanza evidenti: questo almeno ha riconosciuto, del tutto a ragione, uno degli esperti israeliani, che ha optato per la datazione più antica tra quelle possibili»59.

59 Id., missiva del 9 settembre 1998. Su questa questione Thiede prese articolatamente posizione in altra sede (Radiocarbon Dating and Papyrus p64 at Oxford, in C.P. Thiede, Rekindling the Word: In Search ofGospel Truth, Leominster-VaJIey Forge 1995, pp. 33-36). Lì (p. 34) spiegò che «l'esattezza della datazione fornita dall'esame del radiocar-bonio dipende dalla possibilità di disporre per il materiale da esaminare di un'affida-bile «documentazione del SUO perCOTSO» Che attesti Che le condizioni in cui quel mate-riale fu preservato e conservato sono neutrali Se l'oggetto che deve essere analizzato è di origina e^dnocoiuta. o se è <*tato seriamente influenzato da eventi precedenti, la va-riabilità del risultato può essere enorme». Questo significa che, nei caso ai reperii rin-venuti nel corso di scavi archeologici, il metodo è attendibile; nel caso di oggetti che -come ìi titulus crucis - furono «in circolazione» per secoli, sussiste il pericolo di una con-

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Tuttavia spero che verranno effettuate ulteriori ricerche. Un'a-nalisi delle possibili tracce di polline potrebbe dimostrare, spaz-zando via ogni dubbio residuo, se la reliquia proviene davvero da Gerusalemme, come asserisce la tradizione. Se e quando que-ste ulteriori indagini debbano aver luogo sulla base delle meto-dologie proposte dalle scienze naturali, spetta alla Pontificia Ac-cademie delle Scienze stabilirlo. C'è da aspettarsi che rafforzi-no i risultati fin qui ottenuti. Il reperto paleografico è comunque univoco.

Dei tre scenari che avevo formulato in origine, il primo si è rivelato il più probabile: il titulus è autentico, risale effettiva-mente all'anno 30. Sarebbe in questo caso un documento sto-rico, l'unico conservatosi, del più spettacolare processo della sto-ria del mondo. E in quanto tale, cita il vero motivo della con-danna alla crocifissione subita da Gesù: era un Nazareno, un discendente di Davide e perciò un potenziale pretendente al tro-no di Israele. Era il Messia. Ma era anche il Figlio di Dio? Que-sta domanda trovò - almeno per i suoi discepoli - una risposta definitiva il terzo giorno degli eventi di Gerusalemme, quando il suo sepolcro fu trovato vuoto, perché era risuscitato dai mor-ti. Ma qui si giunge al punto in cui la scienza lascia il passo alla fede.

laminazione c quindi di una considerevole alterazione dei risultati. Nel caso di mano-scritti conservatisi nelle migliori condizioni, per esempio dei Rotoli del Mar Morto, i ri-sultati forniti da analisi compiute sulla base della paleografia comparata furono inve-ce pienamente confermati da quelli dell'esame del radiocarbonio effettuato dall'Isti-tuto dì fisica energetica centrale di Zurigo su otto campioni («esattamente confermati», ibid., p. 35). Thiede rimanda qui al saggio di G.A. Rodley, An Assessmem ofthe Radio-carbon Dating of the Dead Sea Scrolls in Radiocarbon 35 (1993), pp. 335-338, e al re-soconto sull'analisi redatto da G. Bonani-M. Broshi-I. Carmi-S. Ivy-J. Strugnell-W. Wal-lfli, Radiocarbon Dating ofthe Dead Sea Scrolls, in Atiqot 30 (1991), pp. 27-32. Queste sono quindi le conclusioni di Thiede: «Anche il più rapido esame della storia delle tec-niche della datazione tramite analisi del radiocarbonio dimostra che, anche quando è possibile procurarsi un campione del peso e della dimensione richiesti, non ci sono ga-ranzie di ottenere risultati più precisi di quelli conseguibili grazie ai "tradizionali" pro-cedimenti della paleografia comparata» («W., p. 35). Per via della grnndft rilevanza di quel fattore d'insicurezza rappresentato dalla contaminazione, la paleografia compara-ta rimane in ogni caso il metodo di gran lunga più attendibile.

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Al nucleo delle reliquie sessorinne ospitate dalla cappella delle Reliquie della basilica di Santa Croce appartengono, oltre all'iscrizione della croce, il sacro chiodo (in alto a sini-stra), le particelle della santa croce (in allo a destra) e la trave orizzontale (il patibu-lum.) della croce del "buon ladrone" (in basso).

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CHI STAVA SOTTO LA CROCE?

Sulla base di una valutazione approfondita di tutti gli indizi di cui disponiamo oggi, possiamo partire dal presupposto che, quando a Elena vennero mostrate la «vera croce» e l'iscrizione, non si trattò di un «pio imbroglio» da parte della comunità di Ge-rusalemme. Una reliquia di tutt'altra provenienza, la famosa Sin-done di Torino, descritta nell'introduzione, racchiude in sé così tanti «indizi incrociati», i quali vanno esattamente nella stessa di-rezione dei reperti di Elena - il titolo con l'iscrizione NAZARI-NUS, la larghezza dei chiodi, la croce del «buon ladrone» - , che i due reperti si confermano a vicenda. A questo punto possiamo chiederci: le reliquie della passione della santa croce, così come la sacra Sindone, sono in definitiva autentiche vestigia del più tri-ste venerdì della storia del mondo? La tavola di Gesù è un do-cumento giuridico, l'unico pervenutoci di quel processo così ca-rico di conseguenze per la storia mondiale, prova originaria del-la condanna di Gesù di Nazaret per «alto tradimento» e «lesa maestà» (ovvero messa in dubbio dell'autorità imperiale attra-verso la propria presunta «autoproclamazione» a re)? Se così fos-se, ciò costituisce al tempo stesso una prova dell'assoluta atten-dibilità storica dei Vangeli, che tutti questi reperti confermano in pieno, rimandando letteralmente a citazioni appunto evangeliche.

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Non meno interessante risulta poi il fatto che uno solo dei quattro evangelisti riporta letteralmente l'espressione JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM. Per non parlare del fat-to che proprio questo evangelista, stando alla tradizione cri-stiana, sarebbe stato l'unico discepolo di Gesù presente alla cro-cifissione, mantenendosi così fedele al Maestro sino alla morte: Giovanni, «il discepolo prediletto» di Gesù, al quale viene at-tribuita la redazione del quarto Vangelo.

Proprio in ciò consiste l'aspetto rivoluzionario della nostra scoperta. Infatti proprio il Vangelo di Giovanni è normalmen-te ritenuto il m e n o attendibile sotto il prof i lo storico, e di con-seguenza considerato un'«opera tarda», dal momento che il qua-dro di Gesù presentato in esso appare rielaborato sul piano teo-logico e cristologico. In parecchi punti è addirittura messa in dubbio la paternità dell'opera da parte dell'apostolo Giovanni.

Ora, qualora negassimo effettivamente a Giovanni la pater-nità del quarto Vangelo, dovremmo chiederci come mai proprio in questo testo sia presente il maggior numero di particolari del-la passione di Gesù verificabili sul piano storico, particolari per di più confermati dalla Sindone di Torino. Facciamo dunque an-cora una volta un passo indietro, al punto in cui la nostra ricer-ca ha preso l'avvio, ovvero sulla collina del Golgota, per chie-derci chi veramente si trovava sotto la croce, chi furono in-somma i veri testimoni oculari della passione e della morte di Gesù.

«Stabat Mater dolorosa»

I tre Vangeli sinottici, Marco, Matteo e Luca, risolvono la que-stione dell'identità dei testimoni della passione in maniera di-versa l'uno dall'altro. Secondo Marco e Matteo erano presenti e osservavano «pure alcune donne» (Me 15,40) o addirittura «molte donne ... da lontano» (Mt 27,55). Vengono espressamente citate dai due Maria Maddalena, Salome, la «madre dei figli di Zebedeo», ovvero di Giovanni e Giacomo, nonché «Maria, ma-

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dre di Giacomo il Minore e di Giuseppe» (Me 15,41; Mt 27,55). Pure «molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme», com-pleta il quadro Marco (15,41), mentre secondo Luca si trattava, più in generale, di «tutti i suoi amici e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea», che «se ne stavano lontano, osservando tutto ciò che accadeva» (Le 23,49). Giovanni conferma la pre-senza delle donne e ci chiarisce il legame di parentela tra i «fra-telli di Gesù», Giacomo e Giuseppe, la cui madre era «sorella di sua madre, Maria di Cleofa» (Gv 19,25). Questi «fratelli» erano in realtà suoi cugini, il loro padre Cleofa era infatti zio di Gesù, la loro madre Maria cognata, e non «sorella», di sua madre: è poco probabile che Maria avesse una sorella omonima. Infatti la tradizione conferma che Cleofa era fratello di Giuseppe. Sap-piamo che anche la famiglia di Gesù si era recata a Gerusalem-me per le feste pasquali, com'era consuetudine presso gli ebrei praticanti. Cleofa viene ancora una volta nominato nel Vange-lo di Luca, che ce Io descrive presente, in compagnia di un «al-tro discepolo», probabilmente suo figlio Simone o Simeone, sic-ché sarebbe stato uno dei due discepoli di Emmaus ai quali ap-parve Gesù dopo la risurrezione. Mentre il ramo esseno della famiglia, come ho già accennato, mostrava un atteggiamento piuttosto critico nei confronti di Gesù, essi furono invece testi-moni della morte e risurrezione, il che li portò alla conversione. Più tardi furono proprio questi «parenti del Signore» ad assu-mere posizioni dominanti in seno alla comunità giudaico-cri-stiana di Gerusalemme.

È proprio nel nominare entrambi questi importanti perso-naggi che il Vangelo di Giovanni si differenzia dai Sinottici. Stan-do a lui, infatti, si trovava «vicino alla croce di Gesù ... sua ma-dre ... e presso di lei il discepolo che amava» (19,25-26). A que-sto punto segue una scena molto significativa: «Gesù, vista la madre e presso di lei il discepolo che amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Quindi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quell'ora il discepolo la prese in casa sua» (Gv 19,26-27).

Noi ci chiediamo: fino a che punto questa scena è da consi-

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der arsi «storica», al di là del posto preciso che ha poi assunto in seno all'iconografia cristiana e del fatto di appartenere da tem-po al patrimonio di fede di molti cristiani? Il venerdì santo mi-lioni di cristiani cantano lo Stabat Mater. L'inno di Iacopone da Todi, risalente al 1306, così recita: Stabat Mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa. Il nuovo Catechismo, pubblicato nel 1993 per volontà di papa Giovanni Paolo II, dichiara che appartiene «al-la sicura dottrina» il fatto che Maria si trovava sotto la croce con Gesù, «dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, sof-frì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con ani-mo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente al-l'immolazione della vittima da lei generata»1.

In prima linea?

I critici hanno talvolta messo in dubbio la storicità della sce-na, facendo riferimento a un'osservazione di Tacito a proposi-to delle esecuzioni di massa sotto l'imperatore Tiberio (14-37 d.C.): «Né a parenti né ad amici era concesso di presenziare, a piangere la loro sorte, nemmeno di portare segni di lutto a lun-go. Tutto attorno erano installate guardie, le quali sorvegliava-no che nessuno mostrasse segni di lutto»2. Ciò valeva anche per le donne, «per evitare l'accusa di alto tradimento, dal momen-to che bastava farsi vedere in lacrime»3. Una conferma ci giun-ge dalla Vita Tiberii di Svetonio: «Un editto proibiva espressa-mente ai parenti dei condannati a morte di portare il lutto per il loro congiunto giustiziato»4. Tuttavia, ciò che ai critici è sfug-gito è il fatto che entrambi gli storici, sia Tacito sia Svetonio, si sono mostrati indignati riguardo a tale norma, per cui essa do-veva comunque costituire un'eccezione. Qui ci troviamo infat-

' Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992,964, p. 258.

7 Tacito, Ann.,VI, 19. 3 Tacito, Ann., VI, 10. * Svetonio, Vice dei Cesari, Tiberio 61.

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dre di Giacomo il Minore e di Giuseppe» (Me 15,41; Mt 27,55). Pure «molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme», com-pleta il quadro Marco (15,41), mentre secondo Luca si trattava, più in generale, di «tutti i suoi amici e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea», che «se ne stavano lontano, osservando tutto ciò che accadeva» (Le 23,49). Giovanni conferma la pre-senza delle donne e ci chiarisce il legame di parentela tra i «fra-telli di Gesù», Giacomo e Giuseppe, la cui madre era «sorella di sua madre, Maria di Cleofa» ( G v 19,25). Questi «fratelli» erano in realtà suoi cugini, il loro padre Cleofa era infatti zio di Gesù, la loro madre Maria cognata, e non «sorella», di sua madre: è poco probabile che Maria avesse una sorella omonima. Infatti la tradizione conferma che Cleofa era fratello di Giuseppe. Sap-piamo che anche la famiglia di Gesù si era recata a Gerusalem-me per le feste pasquali, com'era consuetudine presso gli ebrei praticanti. Cleofa viene ancora una volta nominato nel Vange-lo di Luca, che ce lo descrive presente, in compagnia di un «al-tro discepolo», probabilmente suo figlio Simone o Simeone, sic-ché sarebbe stato uno dei due discepoli di Emmaus ai quali ap-parve Gesù dopo la risurrezione. Mentre il ramo esscno della famiglia, come ho già accennato, mostrava un atteggiamento piuttosto critico nei confronti di Gesù, essi furono invece testi-moni della morte e risurrezione, il che li portò alla conversione. Più tardi furono proprio questi «parenti del Signore» ad assu-mere posizioni dominanti in seno alla comunità giudaico-cri-stiana di Gerusalemme.

È proprio nel nominare entrambi questi importanti perso-naggi che il Vangelo di Giovanni si differenzia dai Sinottici. Stan-do a lui, infatti, si trovava «vicino alla croce di Gesù... sua ma-dre ... e presso di lei il discepolo che amava» (19,25-26). A que-sto punto segue una scena molto significativa: «Gesù, vista la madre e presso di lei il discepolo che amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!Quindi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quell'ora il discepolo la prese in casa sua» (Ov 19,26-27).

Noi ci chiediamo: fino a che punto questa scena è da consi-

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derarsi «storica», al di là del posto preciso che ha poi assunto in seno all'iconografia cristiana e del fatto di appartenere da tem-po al patrimonio di fede di molti cristiani? Il venerdì santo mi-lioni di cristiani cantano lo Stabat Mater. L'inno di Iacopone da Todi, risalente al 1306, così recita: Stabat Mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa. Il nuovo Catechismo, pubblicato nel 1993 per volontà di papa Giovanni Paolo II, dichiara che appartiene «al-la sicura dottrina» il fatto che Maria si trovava sotto la croce con Gesù, «dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, sof-frì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con ani-mo materno arsacrificio di lui, amorosamente consenziente al-l'immolazione della vittima da lei generata»1.

In prima linea?

I critici hanno talvolta messo in dubbio la storicità della sce-na, facendo riferimento a un'osservazione di Tacito a proposi-to delle esecuzioni di massa sotto l'imperatore Tiberio (14-37 d.C.): «Né a parenti né ad amici era concesso di presenziare, a piangere la loro sorte, nemmeno di portare segni di lutto a lun-go. Tutto attorno erano installate guardie, le quali sorvegliava-no che nessuno mostrasse segni di lutto»2. Ciò valeva anche per le donne, «per evitare l'accusa di alto tradimento, dal momen-. to che bastava farsi vedere in lacrime»3. Una conferma ci giun-ge dalla Vita Tiberii di Svetonio: «Un editto proibiva espressa-mente ai parenti dei condannati a morte di portare il lutto per il loro congiunto giustiziato»4. Tuttavia, ciò che ai critici è sfug-gito è il fatto che entrambi gli storici, sia Tacito sia Svetonio, si sono mostrati indignati riguardo a tale norma, per cui essa do-veva comunque costituire un'eccezione. Qui ci troviamo infat-

1 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, 9C4, p. 258 .

2 Tacito, Ann., VI, 19. 3 Tacito, Ann.,VI, 10. 4 S v e t o n i o , Vite dei Cesari, Tiberio 6 1 .

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ti di fronte a una particolarità, valevole soltanto per Roma e li-mitatamente a un dato periodo storico: per la precisione all'e-poca in cui l'imperatore Tiberio, invecchiato e fattosi col tem-po diffidente e crudele, si era ritirato nell'isola di Capri, osses-sionato dal pericolo di congiure, che vedeva dappertutto; pericolo che lo aveva spinto ad assumere misure drastiche e impietose. D'altra parte, lo stesso fatto che un simile editto, quello cioè ci-tato da Svetonio, sia stato emanato, lascia intendere che si trattò per l'appunto di un'eccezione, dal momento che sino ad allora i parenti dei condannati a morte portavano normalmente il lut-to per il congiunto giustiziato. Nel caso di Gesù, sappiamo che il corpo di guardia preposto alla sorveglianza dell'esecuzione dei tre crocefissi era costituito da quattro soldati semplici e un ufficiale. Dopo la morte del crocifisso, come leggiamo nel Saty-ricon di Petronio, bastava talvolta un unico soldato di guardia, per impedire che i congiunti del giustiziato traessero il corpo senza vita dalla croce e lo portassero via5. La crocifissione era uno spettacolo realmente agghiacciante, che aveva luogo in pub-blico, «La croce era innalzata nelle strade più affollate, di mo-do che il maggior numero possibile di persone la notasse e la temesse»: così sottolinea espressamente Quintiliano6. Infatti il Golgota si trovava nei pressi della strada che conduceva a Cesarea, capitale della provincia, proprio davanti alla torre di Ephraim, attraverso la quale, all'epoca, migliaia di pellegrini giungevano dall'«accampamento occidentale al tempio». Il luo-go delle crocifissioni era distante appena 40 metri dalle mura della città, alle quali conduceva la strada. Se poi i testimoni del raccapricciante spettacolo non si trovavano proprio diret-tamente «sotto la croce», forse a causa della presenza di una zo-na di sicurezza di alcuni metri - alla collinetta del Golgota, al-ta circa tre metri, ben difesa dai soldati, non era normalmente consentito l'accesso - , essi si trovavano comunque abbastanza vicini per poter udire ciò che Gesù diceva. I caratteri relativa-

5 Petronio, Satyricon, 111. 6 Quintiliano, Liv., 1.

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mente voluminosi del titulus stanno a indicare che i passanti, specie quelli particolarmente vogliosi di gustarsi Io spettacolo, potevano avvicinarsi fino a pochi metri dalla croce. L'iscrizione figurava in tre lingue, affinché tutti potessero capire di che co-sa si trattava. «Molti giudei lessero questo cartello, perché il luo-go dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città ed era scritto in ebraico, in latino, in greco» (Gv 19,20), conferma il quarto Van-gelo. Per poter leggere il .testo dell'accusa riportata dalla tavo-la, lunga in origine circa 50 cm, occorreva trovarsi ai piedi del Golgota, al massimo a dieci metri di distanza dalla croce. Il fat-to che Giovanni citi letteralmente tale iscrizione, mentre i si-nottici evidentemente ne conoscevano il contenuto soltanto «per sentito dire», per cui non lo riportano con esattezza, ci per-mette di giungere alla seguente conclusione: Giovanni si trova-va effettivamente ai piedi della croce e vi restò abbastanza a lungo, da poter imprimere nella memoria l'iscrizione e udire le parole di Gesù.

Se poi Giovanni si trovò praticamente in prima fila, è di con-seguenza preciso anche quanto riferisce riguardo alla presenza di Maria. È del tutto verosimile che Maria, in quanto ebrea osservante, si sia recata a Gerusàlemme~in occasione delle fe-stività pasquali; probabilmente vi era giunta in compagnia di tutti i suoi parenti di Nazaret, del cognato Cleofa, della moglie e dei figli di lui, la cui presenza è segnalata dagli evangelisti; pro-babilmente l'intero villaggio si era recato ih pellegrinaggio nel-la Città Santa. Che la presenza di Maria sia quasi ignorata dai Sinottici viene spontaneo pensare sia da ricondurre al fatto che essa non si trovava coi discepoli sul monte degli Ulivi o, dopo la festa, nell'albergo della zona abitata dagli esseni, ma piutto-sto nella casa degli esseni presso lo stagno di Betesda, a nord del tempio, zona in cui era nata. Erano invece presenti le altre donne; giunte con Gesù a Gerusalemme, le quali la sera riferi-rono tutto ai discepoli. Gli stessi dieci - escluso appunto Gio-vanni - in quei giorni si tenevano nascosti - il rinnegamento di Pietro è a riguardo piuttosto sintomatico - , poiché riteneva-no fallita la missione del loro Maestro e temevano, con tutta

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probabilità, di finire anche loro in croce. Soltanto a posteriori essi divennero consapevoli che Gesù aveva fatto più volte rife-rimento, attraverso varie allusioni, alla propria morte e risurre-zione, come Giovanni testualmente conferma. Forse Maria in quel momento si sentiva delusa da loro e per questo motivo li evitava, o forse voleva restare sola, nel suo dolore e nella sua speranza.

Che Giovanni in seguito l'abbia presa con sé è peraltro con-fermato dal fatto che Maria non aveva altri figli, benché alcuni critici, con eccessivo compiacimento e disinvoltura, abbiano fat-to riferimento ai «fratelli di Gesù», i quali erano in realtà, come s'è visto e come sappiamo da Giovanni, suoi cugini. Secondo la tradizione Maria seguì il discepolo prediletto a Efeso nell'anno 42, quando egli dovette lasciare Gerusalemme a seguito della condanna a morte di suo fratello Giacomo voluta da re Erode Agrippa I, nonché della persecuzione scatenata contro le prime comunità. È stato inoltre tramandato che Maria sarebbe mor-ta a Gerusalemme, forse all'epoca del concilio Apostolico del-l'anno 48; in tal caso, dovremmo pensare che in occasione del-la sua morte, il 15 agosto, tutti i discepoli si siano ritrovati in-sieme ancora una volta. Probabilmente la Madonna, ormai settantenne, si sentiva fisicamente esausta a causa degli strapazzi del lungo viaggio, che non si svolse certo all'insegna del lusso imperiale, come sarà invece più tardi il destino di Elena. Secondo la tradizione della Chiesa essa fu «assunta in cielo in corpo e ani-ma». Il suo sepolcro vuoto sul monte degli Ulivi, vicinissimo al-la grotta dell'orto del Getsemani, è ancora oggi oggetto di ve-nerazione a Gerusalemme.

Scritto a Efeso

È a Efeso che, secondo la tradizione, Giovanni scrisse il suo Vangelo. Così si esprime al riguardo il Padre della Chiesa Ireneo di Lione attorno al 170: «Finalmente Giovanni, il discepolo del Signore, che riposa sul suo petto, durante il suo soggiorno ad Efe-

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so, in Asia Minore, redasse il suo Vangelo»7. Testimone principa-le di tale fatto è il vescovo Papia di Ierapoli, autore del libro In-terpretazioni della Parola del Signore, scritto prima del 110, il qua-le aveva conosciuto di persona Giovanni; Eusebio lo definisce espressamente «un uditore di Giovanni»8. Egli definisce espres-samente l'autore del quarto Vangelo come «Discepolo del Si-gnore, Giovanni presbitero [il più anziano]». Ireneo stesso ave-va conosciuto, da giovane, un altro Giovanni, discepolo anche lui, che in seguito divenne vescovo a Smirne coi nome di Policar-po: questi «era solito raccontargli dei suoi stretti rapporti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore»9, il che è confermato da una tradizione ininterrotta. Secondo la tradizio-ne Giovanni Visse circa fino all'anno 100. D'altra parte anche Ire-neo ci informa che la stessa Chiesa di Efeso «venne guidata da Giovanni fino all'epoca di Traiano», l'imperatore romano che re-gnò fra il 98 e il 110. Ciò non può meravigliarci, se teniamo pre-sente che egli era il discepolo più giovane di Gesù e che fra lui e il Maestro sussisteva un rapporto di tipo padre-figlio, come con-fermano le parole pronunciate da Gesù sulla croce. Probabil-mente aveva 18-20 anni quando Gesù incominciò la sua mis-sione pubblica, 20-22 all'epoca della crocifissione. Perciò dev'es-sere nato intorno agli anni 8-10, raggiungendo quindi un'età sicuramente veneranda, peraltro nient'affatto inverosimile, di cir-ca 90-94 anni. Che fosse destinato a una vita lunga, forse gli fu già in qualche modo profetizzato da Gesù, il che ben presto fe-ce nascere delle voci, alle quali fa allusione nel suo Vangelo: «Vi-stolo [Giovanni], dunque, Pietro disse a Gesù: "Signore, e lui?". Gesù gli rispose: "Se voglio che lui rimanga finché io venga, che te ne importa? Tu seguimi!". Si sparse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: "Se voglio che lui ri-manga finché io venga, che te ne importa?"» (Gv 21,21-23).

7 Ireneo, Adversus haereses, III, 39,1. 8 Eusebio, Hist Ecc., Ili, 39,1. 9 Id., VI, 14,7.

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Poco prima Gesù aveva annunciato a Pietro la sua morte in croce, come spiega espressamente Giovanni (21,19): «Questo disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. Do-po queste parole gli disse: "Seguimi!"». Tale indicazione rende possibile giungere a una datazione piuttosto esatta del Vange-lo di Giovanni: esso fu redatto dopo il martirio di Pietro, avve-nuto nel giugno del 67 (punto su cui sono tutti d'accordo), ma anche prima della distruzione del tempio, verosimilmente addi-rittura prima della «fase calda» della guerra ebrea, alla quale non viene fatto riferimento in alcun luogo.Tutto ciò rende plau-sibile che la redazione sia terminata fra la fine del 67 e l'inizio del 68: in 2,19 Gesù promette: «Distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere»; qui Giovanni fa riferimento al «santuario del suo corpo», poiché una distruzione del tempio di Gerusalemme non gli sarebbe mai venuta in mente. Se poi Gio-vanni cita il discorso di Caifa, ispirato alla Realpolitik, con le pa-role: «Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, ver-ranno i romani e distruggeranno il luogo e la nazione» (11,48), resta comunque il fatto che ciò è proprio quanto accadde, no-nostante la consegna di Gesù ai romani, o, secondo l'interpre-tazione cristiana, proprio per quésto.

Qua] era Io scopo di Giovanni?

A quell'epoca, negli anni 67-68 d.C., i Vangeli di Marco, Mat-teo e Luca erano stati scritti già da tempo e avevano raggiunto una notevole diffusione, come riferisce Eusebio: «Dopo la com-posizione dei Vangeli di Marco e di Luca, infine anche Gio-vanni st mise a scrivere. Giovanni fino a quel momento si era costantemente dedicato all'apostolato orale, ma ecco che si sentì chiamato a scrivere e ciò per il seguente motivo: dopo che i tre Vangeli già scritti erano giunti a conoscenza di tutti e dello stes-so Giovanni, egli ne riconobbe la verità e volle confermarla, spie-gando che, come testimonianza scritta, ciò che mancava ancora era il racconto di quello che Gesù aveva fatto al principio, ov-370

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vero all'inizio della sua missione»10. Marco, il quale ricostruì for-se il suo Vangelo attraverso i racconti di Pietro, lo riordinò nel giro di un anno, attraverso uno schema che inizia col battesimo di Giovanni e termina con l'ascensione di Gesù. Il Vangelo di Matteo, al pari di quello di Luca, riprende tale struttura, arric-chendola della narrazione della nascita di Gesù. Quale unico in-dizio utile alla datazione Luca afferma che la predicazione del Battista ebbe inizio nell'«anno quindicesimo del regno di Ti-berio Cesare: Ponzio Pilato governava la Giudea» (Le 3,1). Ciò è confermato da Giovanni: quando Gesù predica presso di lui, a Gerusalemme, in occasione delle feste pasquali la gente gli chiede: «In quarantasei anni fu costruito questo santuario, e tu in tre giorni lo farai risorgere?» (Gv 2,20). Erode dette inizio al-la costruzione del tempio nell'anno 18 a.C, quindi il dialogo si svolse nell'anno 28. Poco prima di una seconda festa pasquale, ci fa sapere Giovanni 6,4, si giunse alla moltiplicazione dei pa-ni e dei pesci, grazie alla quale furono sfamate 5000 persone. Fu in occasione della terza festa pasquale citata da Giovanni che avvenne la passione di Gesù, nell'anno 30. In questo contesto allargato Giovanni inserisce scene della vita di Gesù di cui era stato testimone. Tale lavoro, per così dire di completaménto e arricchimento, spiega perché molti degli avvenimenti descritti nei Vangeli sinottici non sono ripetuti o sono narrati in modo diverso nel quarto Vangelo.

Mentre sono stati specialmente Marco e Luca a mostrarsi pre-valentemente preoccupati di rappresentare la vita e i miracoli di Gesù, Giovanni ha voluto piuttosto mettere in luce l'essen-za del suo insegnamento. Così scrive Clemente Alessandrino: «In definitiva Giovanni ha scritto un Vangelo di natura spiri-tuale, su incitamento dei propri discepoli e ispirato dallo spiri-to, nella consapevolezza che la natura umana [di Gesù] negli al-tri Vangeli era stata [già] trattata»11.

Va inoltre tenuto presente che Giovanni conosceva già gli al-

,uId., Ili, 24,7. "Cit.da Id.,VI, 14,7.

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tri Vangeli e non voleva presentare una nuova versione dei fat-ti, ma piuttosto approfondire il discorso, in particolare per quan-to riguarda il messaggio. È per questa ragione che dalla sua buo-na novella è scaturito il più profondo e spirituale fra tutti i Van-geli, essendo questo infatti il frutto di una riflessione autonoma, durata anni e anni, riguardo all'esperienza personale vissuta in-sieme al più grande di tutti i maestri.

Cristologìa avanzata

11 Vangelo di Giovanni non consisterebbe in una narrazione su un piano puramente storico, bensì nella presentazione di una filosofia, per cui i Vangeli sinottici sarebbero invece i soli atten-dibili sul piano storico, stando a quanto dedusse nel 1847 il teo-logo di Tubinga Ferdinand Christian Baur12, il quale faceva ri-salire la datazione della stesura del quarto Vangelo alla fine del II secolo. Esso avrebbe così rappresentato «il modello di co-munità cristiana, composta allo stesso modo da ebrei e pagani», sorta in un'epoca «in cui il cristianesimo, nella sua evoluzione, aveva già superato i contrasti interni che avevano invece ca-ratterizzato i suoi primi tempi». Nel frattempo però fu confuta-ta la datazione proposta da Baur: nel 1920 uno scienziato, che aveva studiato i papiri egizi, venne in possesso di una collezio-ne di frammenti destinata alla biblioteca John Ryland di Man-chester. Quando il papirologo C.H. Roberts di Oxford la cata-logò, quindici anni più tardi, la notizia fece il giro del mondo: lo studioso era riuscito a identificare un frammento, scritto su am-bo i lati e consistente in sette righe - proveniente quindi da un codice e4a un papiro - come un frammento del capitolo XVIII del Vangelo di Giovanni. Stando ai criteri paleografici, risulta possibile stabilire per il frammento una datazione abbastanza certa: esso risalirebbe al primo quarto del II secolo13. Si tratta-

12 Cit. in K. Berger, Im Anfeuig war Johannes, Stuttgart 1997, p. 14. "A. Millard.op. cìt..p. 165;C.P.Thiede-M.d'Ancona,op. cit., p. 170.

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va quindi del più antico manoscritto del Vangelo, almeno fino alla scoperta dei frammenti di Qumran del Vangelo di Marco e di quelli del Magdalen College di Oxford del Vangelo di Mat-teo14. Ora, se il Vangelo di Giovanni era già diffuso in Egitto tra il 100 e il 125 d.C., è molto probabile che la sua stesura risalga già al I secolo. Lo stesso appello a cristiani di origine ebrea e di origine pagana può essere stato inserito in considerazione del-le tensioni sorte dopo Tanno 7015.

Giovanili fu testimone oculare

Ancor più di quanto esposto finora, ci pare significativo il qua-dro risultante dalla descrizione di Gerusalemme, ai fini di una datazione precedente la distruzione della città avvenuta nel-l'anno 70. La grande accuratezza con cui l'evangelista descrive i luoghi dell'opera e della predicazione si spiega benissimo se pensiamo che l'autore stesso era stato testimone oculare degli eventi. Citiamo soltanto qualche esempio: «A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, c'era una piscina, chiamata in ebrai-co Betesda, con cinque portici. Sotto questi portici giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi, invalidi» (5,2-3). «Pro-nunciò queste parole nel luogo del tesoro, insegnando nel tem-pio» (8,20). «Va' e lavati alla piscina di Siloe» (9,7).

«Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone» (10,23). «Betania non è lontana da Gerusalemme se non circa quindici stadi» (11,18). «Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c'era un orto, in cui entrò con i suoi discepoli» (18,1). «Pilato condusse fuori Gesù e sedette su una tribuna nel luogo chiamato Pavimento di pietra, in ebraico Gab-batà» (19,13). «Egli, portando la croce da sé, uscì verso il luo-go detto del Cranio, in ebraico Gòlgota» (19,17).

14 CP.Thiede-M. d'Ancona, op. cit. 15 K. Berger, op. cit., pp. 16,66ss.

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È chiaro che nessun teologo è in grado di fornire descrizioni così precise e particolareggiate: solo un testimone oculare può farlo. D'altra parte, se il Vangelo di Giovanni fosse davvero sta-to redatto all'inizio del II secolo e fosse nato indipendentemente da Giovanni, «sarebbe ben difficile spiegare la presenza e la ric-chezza di particolari di carattere storico, topografico e di altro genere, tali da dimostrare che, effettivamente, Giovanni accom-pagnò Gesù nella sua missione, e tutto ciò risulta così frequen-te nel quarto Vangelo ... Inoltre, alcuni dati di carattere topo-grafico, forniti per precisare la missione di Gesù a Gerusalem-me dopo l'anno 70, non si presentarono diversi, agli occhi di un testimone oculare, rispetto a prima di tale data»16. H quarto Van-gelo, insomma, non risulta ambientato in una Gerusalemme mi-tica, bensì in un contesto logistico e cronologico descritto con cura e conosciuto a perfezione dall'evangelista, al punto che egli a volte dà per scontata tale conoscenza da parte del lettore. D'al-tra parte, l'esattezza delle sue descrizioni è stata confermata da scavi archeologici: ad esempio, nel caso della descrizione del-la piscina di Betesda nonché del fenomeno dello «straripamen-to delle acque»17.

Si noti che, nel quarto Vangelo, questa precisione e ap-profondita conoscenza dei luoghi non vale solo per Gerusa-lemme, ma anche a proposito di altre tappe della missione iti-nerante di Gesù: «Ora, arriva ad una città della Samaria chia-mata Sichar, vicino al podere che Giacobbe aveva dato al figlio suo Giuseppe. C'era là il pozzo di Giacobbe. Gesù, affaticato com'era dal viaggio, si era seduto sul pozzo; era circa l'ora se-sta» (4,5-6).

L'autore del quarto Vangelo sapeva insomma esattamente quando Gesù fece questo, quando fece quest'altro e dove, il che ci porta ancora una volta alla conclusione che egli era costan-temente insieme al maestro. Giovanni fu quindi senza ombra di dubbio uno dei Dodici, come egli stesso specifica e sottolinea:

l6H.J. Schulz, op. cit., pp. 311ss. 17 Id., p. 312.

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«Colui che ha visto ha testimoniato e la sua testimonianza è ve-race ed egli sa che dice il vero, affinché anche voi crediate» (19,35). «Questo è il discepolo che rende testimonianza di que-ste cose e che le ha scritte, e sappiamo che la sua testimonianza è veridica» (21,24).

Giovanni fornisce inoltre alcuni particolari sull'arresto di Ge-sù che non si trovano da nessun'altra parte: ad esempio, svela non solo che fu proprio Pietro a staccare l'orecchio al servito-re del sommo sacerdote mentre, stando ai Sinottici, a commet-tere tale azione fu semplicemente «uno di quelli che erano con Gesù», (Mt 26,51); ma dà perfino un nome alla vittima, Malco (Gv 18,10). Questo nome proprio viene più spesso tradotto con «Giuseppe», e a portarlo sono quasi sempre uomini di origine araba18. Giovanni è inoltre l'unico a collocare la festa pasquale dell'anno 30 nella giornata di sabato, e ciò è corretto dal punto di vista storico, come il collocare la crocifissione di Gesù in un venerdì, nonché l'ultima cena non la sera di Pasqua, bensì il gio-vedì, pemettendo così di risolvere le apparenti contraddizioni presenti nella cronologia sinottica.

Anche a proposito della passione, il quarto Vangelo rivela par-ticolari decisivi, verificati sul piano archeologico, e che confer-mano ancora una volta come Giovanni sia stato veramente te-stimone oculare: il gioco dei dadi usando come tavolo i vestiti di Gesù; il capo abbassato al momento della morte conferma-to dall'autopsia e dalla Sindone di Torino (v. Appendice); l'uso di spezzare le gambe confermato dal ritrovamento dello sche-letro di Giv'at ha-Mivtar; il colpo di lancia al costato, nonché lo sgorgare di acqua e sangue, confermati dalla ricostruzione me-dica dell'autopsia (cfr. anche la Sindone di Torino); l'uso di aloe e mirra per la sepoltura di Gesù, confermato da ritrovamenti archeologici contemporanei presso sepolcri ebraici; la crocifis-sione con chiodi confermata da Giv'at ha-Mivtar (cfr. la Sin-done di Torino).

Per quanto riguarda poi i particolari molto precisi relativi al

18K. Berger, op. cit., p. 64.

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comportamento dei membri del Sinedrio nei confronti di Gesù, questi possono essere stati desunti da parte della comunità di discepoli anche facendo riferimento ad altre fonti, citate per no-me dal quarto Vangelo: pensiamo ai membri del Consiglio Ni-codemo e Giuseppe d'Arimatea. Forse fu persino possibile a due stimati e rispettati «consiglieri della città» prendere visione degli atti processuali di Pilato relativi al procedimento contro Gesù.

D'altra parte, nulla fa pensare che l'identificazione dell'auto-re con la persona di Giovanni, figlio di Zebedeo, pescatore be-nestante, non sia attendibile19. Riguardo all'indicazione, alla fi-ne del suo Vangelo, che i discepoli pescarono esattamente 153 pesci (Gv 21,11), Thiede fa notare che l'osservazione è più che mai plausibile da parte di un pescatore, per il quale la conta, la preparazione e la rapida vendita della merce facendo parte del-la vita di tutti i giorni20. Si noti che Giovanni, per il pesce, non fa qui uso del vocabolo greco normalmente usato, ichthys, come invece fanno i Sinottici, bensì di opsàrion, parola derivata dal gergo dei pescatori21.

I tratti «dualistici» presenti nel quarto Vangelo - pensiamo al-la polarità fra luce e ombra, verità e menzogna, vita e morte -trovano i loro paralleli nei papiri di Qumran «e ci fanno per-venire alla conclusione che la formazione spirituale dell'evan-gelista fu influenzata da contatti con circoli essenici»22. Il pecu-liare vocabolario del quarto Vangelo - pensiamo, ad esempio, a concetti come «spirito di verità», «luce di vita», «avanzare nel-l'oscurità», «figli della luce» e «vita eterna» - corrisponde an-ch'esso al linguaggio dei papiri del Mar Morto. Come sappiamo, Giovanni figlio di Zebedeo era stato discepolo di Giovanni Bat-tista, prima di entrare nella cerchia dei discepoli di Gesù. Vi è una serie di indizi - il suo insegnamento, il suo modo di bat-

" Benestante, poiché, secondo Marco 1,20, aveva parecchi dipendenti e possedeva numerose imbarcazioni.

30C.P. Thiede, Ein Fischfur..., cit., p. 81. 21 A.N. Wilson, Jesus, London 1993, p. 49. 22HJ. Schulz, op. cit., p. 315.

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tezzare, il suo operare nel deserto - che stanno a indicare, ap-punto, che l'evangelista era vicino agli esseni. Al pari di Luca, (1,5) suo padre era membro della classe sacerdotale di Abia e poteva far risalire il proprio albero genealogico ad Aronne, per-ciò egli apparteneva all'antica, legittima dinastia sacerdotale dei «figli di Zadoc», i quali, fin dai tempi dei Maccabei, rappresen-tavano la colonna del movimento essenico23. Il «battesimo al di là del Giordano» corrispondeva alla visione essenica di una purificazione rituale, il «raccoglimento nel deserto» alla prepa-razione a una «nuova conquista della terra», necessaria alla fon-dazione del «nuovo Israele», in ottemperanza al modello vete-rotestamentario. È ancora una volta Giovanni Evangelista a con-frontarsi, con maggiore precisione rispetto agli altri evangelisti, con l'insegnamento del Battista, è lui che fa più spesso riferi-mento a quest'ultimo e al rapporto tra questi e Gesù. Ciò po-trebbe avere la sua motivazione nella vita del figlio di Zebedeo, ma con tutta probabilità ha anche a che fare con i luoghi in cui nacque il Vangelo, con Efeso: infatti alla comunità ebraica di questa grande città dell'Asia Minore appartenevano pure nu-merosi seguaci di Giovanni Battista, come sappiamo anche gra-zie agli Atti degli apostoli (19,3)24.

«In dubio prò traditio»

Mentre talvolta alcuni teologi danno l'impressione di voler aderire al principio in dubio contra traditio («nel dubbio, contro la tradizione»), ciò che abbiamo detto finora non sembra smen-tire in nulla la tradizione. D'altra parte, noi aderiamo al princi-pio contrario, in dubio prò traditio: di fronte ai dubbi, è la tra-dizione che deve fare da guida; d'altra parte, lo ripetiamo, non troviamo il minimo argomento che si possa addurre per confu-tare la tesi della paternità del quarto Vangelo da parte di Gio-

aId.,p. 341. M K. Berger, op. cit., pp. 54,145ss.

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vanni. Il che sta a significare che il quarto Vangelo, per quanto elaborato sul piano teologico, è comunque un rapporto scritto da un testimone oculare. La presunta coloritura di particolari a volte attribuita a Giovanni - il suo Gesù non soffre, non mo-stra alcuna debolezza e, anzi, porta la corona come un re - di-mostra, in ogni caso, che non vi è distanza e che vi è invece in-condizionata ammirazione da parte del discepolo prediletto Gio-vanni come autore.

È proprio a partire dal rapporto di questo testimone ocula-re che è possibile desumere una datazione antica del Vangelo di Giovanni. In verità, si riflette da tempo al riguardo. Iniziatore della riflessione fu, nel 1976, il teologo inglese J.A.T. Robin-son, autore di Honest to God, il quale, nel suo saggio Redating the New Testamenti fa risalire la redazione complessiva del Nuo-vo Testamento all'epoca anteriore al decisivo anno 70. Il libro trovò grande eco nei Paesi anglosassoni. Da allora si sono di-chiarati concordi con la tesi della datazione antica non solo il papirologo C.P. Thiede25, ma anche teologi come H.J. Schulz del-l'Università di Wurzburg26, nonché Klaus Berger dell'Univer-sità di Heidelberg27. Tutti questi studiosi fanno risalire il Van-gelo di Giovanni agli anni immediatamente successivi al 66 d.C., mentre Berger Io ritiene addirittura il più antico dei quattro. Se-condo gli studi, a portare chiaramente a questa conclusione sarebbero da un lato il profondo radicamento del quarto Van-gelo nel pensiero giudaico-cristiano, dall'altro il serrato con-fronto con Giovanni Battista. Secondo Berger, la parte più an-tica risalirebbe addirittura agli anni 40, mentre la stesura sarebbe stata conclusa subito dopo la morte di Pietro. Schulz sottoli-nea d'altro canto «la straordinaria frequenza di precisi dati di carattere cronologico, topografico, temporale e antropologico»23, considerandoli chiari indizi dell'origine apostolica del Vangelo, soffermandosi in particolare sulla cronologia della settimana di

^C.P.Thiede-M. d'Ancona, op. cit. ^HJ. Schultz. op. cit., p. 171. 27 K. Berger, op. cit. 2!tHJ. Schultz, op. cit., p. 171.

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passione, che pare allo studioso assai più attendibile rispetto a quella presentata dai Sinottici. Anche Robinson ha studiato «la conoscenza della cronologia e della topografia della missione di Gesù da parte del quarto evangelista, assai più profonda rispetto ai Sinottici», mostrando «come i Sinottici, facendo più spesso ri-corso a materiale di seconda mano, indicano indirettamente in Giovanni Evangelista e nella sua più precisa cronologia un te-stimone e per così dire un cronista di prima mano. Esempi cor-rispondenti sono da considerarsi particolarmente significativi proprio al fine di dimostrare il carattere di testimone oculare del quarto evangelista. È assai più preciso in vari punti»29. Il Van-gelo di Giovanni offre insomma una cronologia trasparente sul piano storico, la quale appare assai più attendibile della «sto-ria della passione arricchita da una particolareggiata introdu-zione» narrata da Marco30. A richiamare l'attenzione in merito era già, nel 1960, il neotestamentarista Aileen Guilding, il qua-le faceva notare come l'intera costruzione del quarto Vangelo sia imperniata sul ciclo festivo ebraico e «presti particolare at-tenzione ai luoghi della lettura completa della Torah nel suo ciclo di tre anni»31. A ciò si aggiunga il fatto che, riguardo ai par-ticolari giuridici e logìstici, l'autore si mostra «assai più attendi-bile dei Sinottici»32. Sempre secondo Guilding, la diffusa teoria secondo cui il fatto che Giovanni parli di «ebrei» dimostrereb-be la sua distanza, sul piano effettivo come su quello tempora-le, rispetto alla Chiesa primitiva giudaico-cristiana, è invece er-rata: anche Paolo, nelle sue lettere redatte negli anni 50, carat-terizza le cerchie dominanti dell'ebraismo (specialmente dei sadducei), i quali rifiutavano il messaggio di Gesù, prendendo le distanze da loro e definendoli «giudei» (2Cor 11,24), benché in altri passi egli si mostri fiero della sua formazione farisaica.

Non solo nella descrizione degli ultimi giorni terreni di Gesù, ma anche in altri particolari, Giovanni ci presenta osservazioni

79 Idem, pp. 301ss. 30M. Kàhler, cit. in H.J. Schultz, op. cit., p. 313. 31 A.N.Wilson, op. cit., p. 40. 32HJ. Schultz, op. cit., p. 313.

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proprie e originali rispetto ai sinottici. A d esempio, r iguardo al Battista ci informa che «non era ancora stato messo in prigio-ne», (3,24), mentre in Marco 1,14 si ha l'impressione che Gesù cominciò l'annuncio del Vangelo quando il Battista si trovava già in carcere. Sono appunto tali particolari a confermare la tra-dizione secondo la quale l'apostolo Giovanni conosceva già i tre Vangeli sinottici nel momento in cui cominciò a mettere per iscritto i propri ricordi.

Berger33 postula già un «cambio di paradigma»: il quarto Van-gelo non sarebbe un mero «prodotto di una cristologia svilup-patasi successivamente e già avanzata» né, ancor meno, un'o-pera «farcita di elementi pagani e ostici», ma piuttosto il Van-gelo più profondo, più autentico, scritto nientemeno che dall'apostolo prediletto di Gesù, dall'unico che gli rimase fe-dele fino ai piedi della croce e che assieme a Pietro e Andrea inizialmente, e in seguito con Pietro e Giacomo, divenne una delle tre «colonne» della Chiesa primitiva, malgrado la sua gio-vane età, appunto a causa della sua vicinanza a Gesù, che lui aveva amato come un figlio. È proprio in virtù di tale maggiore vicinanza che l'immagine di Cristo presentata da Giovanni si differenzia da quella dei Sinottici. Di conseguenza, se in Gio-vanni Gesù è concepito come Figlio dell'uomo, Messia e Figlio del Padre, ciò non è da ricondursi a qualche teoria sorta nel II secolo a seguito di un'elaborazione teologica, ma corrisponde all'autorivelazione manifestata dinanzi alla cerchia ristretta dei suoi discepoli, per cui a buon diritto Berger definisce il Vange-lo di Giovanni Insider-Evangelium34. Ciò costringe ancora una volta a prendere le distanze dai vari tentativi di razionalizza-zione a cui abbiamo assistito nel XIX e nel XX secolo. Gesù fu insomma molto più dell'errante predicatore carismatico, figura alla quale hanno voluto ridurlo certi illuministi. Ciò nonostan-te, riesce difficile a molti trarre le conseguenze necessarie da questa scoperta. Oggi come ieri, persiste una certa paura a met-

" Cit. in H.J. Schultz. op. cit., p. 314. 11K. Berger, op. cit., p. 105.

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tersi in rappor to con un Cristo che va ben al di là della ragione

umana, che si è rivelato nel Gesù storico...

Il nostro viaggio alla ricerca del Gesù storico è cominciato ai piedi del Golgota e termina dinanzi al sepolcro vuoto. Abbia-mo verificato l'esistenza storica di Gesù attraverso l'analisi di un documento contemporaneo, ma anche alla luce della crona-ca redatta da un testimone oculare, da uno dei suoi intimi; un rapporto confermato da un particolare importante. Con ciò sia-mo giunti al punto di arrivo della nostra storia, in cui ha fine il verificabile e inizia la fede, ovvero il verificabile inizio della fede. Una fede così forte che vi furono uomini disposti ad an-dare incontro alla morte per essa. Una fede capace di soprav-vivere a tutte le persecuzioni sanguinose, sinché, dopo quasi tre-cento anni, sotto Costantino raggiunse il suo trionfo. In hoc si-gno vinces, venne rivelato all'imperatore da una visione. Non solo Costantino vinse grazie alla croce, ma la croce stessa vin-se mediante Costantino, per vivere la propria risurrezione at-traverso il ritrovamento delle reliquie del Golgota. Come gli in-segnamenti di colui che un tempo vi fu crocifisso, essa è so-pravvissuta ai secoli.

35 Cit. in M.G. Siliato, op. cit., p. 13.

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APPENDICE

Il «titulus crucis» e la Sindone di Torino

La più nota reliquia della passione è senza dubbio la Sindo-ne di Torino. Negli ultimi decenni sono stati pubblicati libri a centinaia, per cercare di spiegare la misteriosa impronta d'un Uomo crocifisso apparsa su un lenzuolo di lino grande 4,36 me-tri per ljlO1.

E ormai certo che quella impronta giallastra riproduce il ca-rattere di un negativo fotografico, che nessun artista sarebbe stato capace di creare prima dell'invenzione della fotografia2. Inoltre, l 'esame delle tracce di sangue rinvenute sul telo ha rivelato che queste risultano effettivamente essere di sangue umano, del gruppo AB, all'epoca comune tra i semiti3. Infine, parte delle macchie risale inequivocabilmente a dopo il de-cesso, il che, al pari del rigor mortis, riconoscibile senza ombra di dubbio, si oppone in modo netto a ogni speculazione secondo

1 La migliore e più attuale opera sull'argomento è M.G. Siliato, La verità della Sin-done, Casale Monferrato 1998.

2N. Ballosino, The Image on the Shroud, London 1998, pp. 5-11; A. Milanesio-S. Si-racusa-S. Zacà, An «Inexplicable» Image, London 1998, pp. 38-40.

3 P. Baima BoUone-S. Zacà, The Shroud under the Microscope, London 1998, pp. 23ss.

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la quale l 'Uomo della Sindone sarebbe sopravvissuto al sup-plizio4.

Quando, nel 1988, furono effettuate analisi del tessuto da par-te di tre laboratori situati a Hicson (Arizona), Oxford e Zurigo, i n s e g u i t o a i q u a l i f u p o s s i b i l e d a t a r e il r e p e r t o a t t r a v e r s o l ' a -

nalisi al radiocarbonio, furono avanzati dubbi circa l'autenticità di questa affascinante reliquia. L'analisi condotta col più avan-zato sistema C14, attraverso la spettrometria all'acceleratore di massa (AMS), presso tutti e tre i laboratori conduceva aUo stes-s o risultato: l a S i n d o n e s a r e b b e r i s a l i t a a l 1 3 2 5 c i r c a , c o n u n m a r -

gine di approssimazione di 65 anni al massimo5. Molti fattori confutano questo risultato. Innanzitutto, anche

i minimi particolari della Sindone corrispondono ai dati rileva-ti dagli storici riguardo alla pratica della flagellazione e della crocifissione in uso presso i romani, mentre che nessun artista medievale poteva essere in possesso degli strumenti necessari per conoscere approfonditamente tale pratica. Inoltre, benché la Sindone fosse esposta in Europa occidentale per la prima vol-ta nel 1357 a Lirey, in Francia6 - come dimostra una medaglia per pellegrini - , fonti contemporanee rivelano che, per lo meno a partire dal 944, una «Sindone», sulla quale «si poteva chiara-mente vedere la figura di nostro Signore», era venerata a Co-stantinopoli7. Un disegno della Sindone di Gesù conservato nel Codice Pray, un manoscritto ungherese risalente alla seconda metà del XII secolo, mostra la stessa stoffa con trama a lisca d i p e s c e , l a s t e s s a d i s p o s i z i o n e « a t e s t a i n s u » e q u a t t r o p i c c o l i

fori prodotti da bruciatura in modo simmetrico sul telo ripie-gato e ben visibili sulla Sindone di Torino, mentre la figura di

ai 4 Questi risultano provati in G. Ricci, The Holy Shroud, cit., pp. 96,153, lólss , 175,

199.230,277-280; P. Baima Bollone-S. Zacà, op. cit., pp. 28-32. L'ipotesi secondo cui Ge-sù sarebbe sopravvissuto alla crocifissione è stata oggetto di varie pubblicazioni che hanno destato molto clamore: fra le altre E. Gruber-H. Kersten, op. cit., e. J. Reban, Christus wurde lebendig begraben, Ziirich 1976.

5 B. Barberis-P. Savarino, Shroud, Carbon Dating and Calculus of Probabilità, Lon-don 1998; E. Gruber-H. Kersten, op. cit., pp. 144-240.

6E. Gruber-H. Kersten, op. cit., pp. 354-366. 7 R o b e r t d e C l a r i , Conquest, p p . 1 0 3 s s .

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Cristo deposto dalla croce corrisponde inequivocabilmente al-l'immagine sindonica in almeno dieci particolari: capo piegato in senso leggermente diagonale, tracce di sangue sulla fronte, foggia della barba, posizione della spalla sinistra, braccia appa-rentemente allungate, posizione e curvatura della mano, «pol-lice mancante», anche larghe, ginocchia piegate. È stato dimo-strato che il manoscritto risale al periodo successivo all'invio di una delegazione di chierici ungheresi a Costantinopoli nel 1150 , ove vennero loro mostrate le reliquie degli imperatori bizanti-ni e assieme a esse anche la Sindone8. Verosimilmente, la Sin-done cadde in mano ai crociati in seguito della conquista di Co-stantinopoli, avvenuta durante la IV crociata nel 1204, per es-sere poi trasportata in Francia.

Se dunque della Sindone si parla a partire dal X secolo, la da-ta stabilita con l'esame al radiocarbonio probabilmente non è attendibile, anche perché si è verificato che l'inquinamento del lenzuolo avrebbe condotto a un'errata datazione. In effetti nel 1532, in seguito a un incendio scoppiato nella cappella di Chambéry in cui si trovava all'epoca conservata, la reliquia fu esposta a un grande calore e a impregnazione di vapori. Le de-corazioni d'argento dello scrigno in cui la Sindone si trovava ri-piegata SÌ fusero e gocce di stagno colarono sul lino, provocan-do i fori che si vedono al centro e alle estremità, mentre il ca-lore produsse le bruciature sulle pieghe, carbonizzando - e alterando ovviamente anche la quantità di Q4 - le due linee scu-re parallele e le otto grandi macchie simmetriche che oggi ri-saltano alla vista9.

Nel frattempo, peraltro, un cardiologo americano, Leoncio Garza-Valdés dell'Università di San Antonio, in Texas, ha di-mostrato che anche un altro fattore può avere contribuito al-l'errata datazione. Infatti, analizzando un frammento della Sin-done al microscopio, ha potuto constatare che questo è coper-

8M.G. Siliato, op. cit., pp. 36ss; G.M. Zaccone, On the Trailo/the Shroud, London 1998, pp. 47s.

"B. Barbcris-P. Savarino, op. eie., pp. 23s; M.G. Siliato, op. cit.. pp. 38ss.

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to da una patina di batteri dì consistenza plastica dello spesso-re variante da 1 a 500 micron. Anche uno degli scopritori del procedimento AMS, il professor Harry Gove. fisico, ha ricono-sciuto che tale «strato bioplastico» può senz'altro aver influen-zato fortemente la datazione10.

Una datazione più antica è richiesta anche dall'impronta di due monete visibili nell'immagine della Sindone all'altezza degli occhi, monete identificate grazie all'opera di vari ricer-catori, come lepta coniati all'epoca di Ponzio Pilato (26-36 d.C.). In una delle monete sono perfino riconoscibili quattro lettere dell'iscrizione: precisamente, Y CAI. Benché l'esatta grafia gre-ca sia TIBEPIOY KAIIAPOI (TIBERIOU KAISAROS), si so-no trovate diverse monete con un conio ibrido tra greco e lati-no, TIBEPIOY KAIZAPO£, risalenti proprio agli anni 29-30 d.C11. Si noti che l'usanza di deporre monete sulle palpebre dei de-funti è documentata, all'epoca di Gesù, nel cerimoniale fune-bre ebraico.

Benché la Sindone di Torino abbia seguito un percorso com-pletamente diverso rispetto a quello delle reliquie sessoriane della basilica di Santa Croce in Gerusalemme - i ricercatori del-la Sindone suppongono che, dopo la crocifissione di Gesù, es-sa sia stata portata a Edessa, nel nord della Siria, da dove poi, nel 944, sarebbe giunta a Costantinopoli12 - , vi sono numerose testimonianze incrociate al riguardo. Se studiamo più da vici-no l'immagine sindonica, possiamo sottolineare alcuni partico-lari interessanti.

- Le ferite causate dalla corona di spine. Qui risulta chiaro che non si trattò della «corona di spine», che conosciamo grazie al-l'iconografia cristiana, bensì piuttosto di un «casco di spine», for-

'"L. Garza-Valdés, The DNA ofGod?, London 1998, pp. 47-54; E. Gruber-H. Ker-sten, op. cit.. p. 245; S.M. Paci, Resurrexit sicut dixit, in 30 Tage, 3 (1998), pp. 54-56.

11 G. Moretto, The Shroud. A Guide, London 1998, p. 51; N. Ballosino, op. cit., pp. 32-38.

13 Che le stazioni fossero quelle è stato confermato dal ritrovamento di polline sul velo funebre (cfr. E. Gruber-H. Kersten, op. cit., pp. 115-128; W. Waldstein, Neueste Erkcnntnisse iiber das Turiner Grabtuch, Stein am Rhein 1997, pp. 16-22).

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se ispirato all'uso della mitra dei re orientali. L'intera regione dell'occipite, al pari della fronte dell'immagine riprodotta sulla Sindone, risulta coperta da macchie di sangue, in alcune di ti-po arterioso, in altre venoso, le quali sono senza ombra di dub-bio causate da ferite da punta13. La distanza tra le macchie ren-de possibile l'identificazione dell'intreccio di spine con lo zizyphus spina Christi, una varietà del giuggiolo. Anche le reli-quie delle spine conservate nella basilica di Santa Croce deri-vano dalla medesima pianta14. Queste ferite costituiscono un in-dizio ulteriore, che dimostra come la Sindone non possa deri-vare da nessun altro Crocifisso, dal momento che l'incoronazione di spine non rientrò mai nel contesto dei supplizi romani. Tale ulteriore supplizio fu solo unicamente voluto per umiliare il «re dei giudei».

- L'impronta del patibulum. II dorso dell'Uomo della Sindo-ne mostra due ampie contusioni all'altezza della scapola sinistra e della zona sovra-scapolare: in quest'area deve aver gravato, con tutto il suo peso, una trave portata sulle spalle. Un leggero gonfiore, rilevato nella parte sinistra della scapola, potrebbe es-sere dovuto al fatto che le braccia superiori del Crocifisso era-no legate alla trave. L'impronta della trave in direzione obliqua sta a indicare che la parte sinistra del patibulum poteva essere legata con un laccio alla caviglia sinistra del condannato, pro-vocando cadute, come lascia supporre la ferita al ginocchio si-nistro. La larghezza del patibulum sembra coincidere con l'im-pronta della Sindone: esso risultava lungo circa 13 centimetri15, esattamente come la trave della «croce del buon ladrone» con-servata come reliquia nella basilica di Santa Croce16. Che la Sin-done rispecchi con tanta esattezza storica il modello del pati-bolo costituisce un forte indizio della sua autenticità: infatti tut-ta l'arte cristiana del medioevo, in contrasto con l'antica prassi

13 G. Moretto, op. cit., pp. 66s. ,J B. Bedini, op. cit., pp. 60-62.

G. Ricci, Kreuzweg, cit., pp. 13-15; Id., The Holy Shroud, cit., pp. 93-96. 16B. Bedini, op. cit., p. 37.

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della crocifissione, ci mostra Gesù in cammino verso il Golgota con l'intera croce che gli pesa sulle spalle.

- Le ferite causate dai chiodi. Su l'immagine della Sindone, la trafittura dei chiodi risulta nel carpo, dato attendibile dal pun-to di vista anatomico e storico, in contrasto con l'intera arte cri-stiana fino al rinascimento (da quando cioè alcuni artisti co-minciarono chiaramente a orientarsi prendendo come model-lo la Sindone di Torino): se infatti i chiodi avessero traforato il palmo delle mani, questo si sarebbe lacerato nel giro di po-chissimi minuti. Invece nel carpo che si trova in un punto, tra ra-dio e ulna, in cui è possibile senza gran fatica conficcare un chio-do che può reggere il peso del corpo. In questo modo si ferisce il nervo mediale, preposto alla coordinazione dei movimenti del pollice. Come risulta da esami clinici condotti su braccia ampu-tate, una tale ferita libera il pollice, che può ritirarsi all'interno del palmo delle mani. Ebbene, questo particolare è chiaramen-te riconoscibile sul lenzuolo: pare infatti che il Crocifisso abbia soltanto quattro dita, mentre il pollice ritratto non è visibile.

Dalla posizione dei piedi, dobbiamo concludere che, per la crocifissione dell'Uomo della Sindone, questi siano stati posti l'uno sull'altro attraversati da un unico lungo chiodo17.

Le analisi effettuate sulla Sindone nell'ottobre 1978 permise-ro di studiare a fondo anche il lato nascosto del lino, il retro che le Clarisse del monastero di Chambéry, dopo l'incendio del 1532, avevano saldamente cucito a un telo di rinforzo. Per compiere le analisi venne disfatta per un tratto la cucitura, in modo da per-mettere l'introduzione di apposite apparecchiature fra i due tes-suti. Così è stato possibile mettere in luce e fotografare la gran-de macehia di sangue all'altezza dell'articolazione del polso si-nistro dall'altro lato del tessuto. Il sangue sgorgato non ha completamente imbevuto il lino, ma lo ha reso opaco. Dunque, in quel punto, esattamente all'altezza della ferita, è colato tan-to sangue da non permettere il passaggio della luce. Si tratta di

17 G. Ricci, Kreuzweg, cit., pp. 39-43.

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una ferita quadrangolare, larga 1 cm e aperta. Senza dubbio la ferita è stata prodotta da un chiodo quadrato delle dimensioni di poco inferiori a un centimetro, mediante il quale l'impietoso carnefice trafisse il polso del condannato18. Un chiodo di questo genere, largo alla testa esattamente 0,9 cm e lungo 11,5 cm, si trova nella cappella delle Reliquie della basilica di Santa Croce. La punta è spezzata; probabilmente in origine era lungo 14 cen-timetri, esattamente come il chiodo del crocifisso Giv'at ha-Miv-tar19. Così, i riscontri effettuati sul lenzuolo sindonico confer-mano la tradizione delle reliquie della passione conservate nel-la basilica Sessoriana.

- Iscrizione. I francesi André Marion e Anne-Laure Coura-ge, nel libro La Sacra Sindone. Nuove scoperte (1997), hanno svelato una scoperta affascinante20 relativa alla Sindone. Già nel 1978 il farmacista italiano Piero Ugolotti dichiarava di aver sco-perto sul lenzuolo tracce di un'iscrizione; l'ipotesi incontrò su-bito il sostegno del filologo Aldo Marasconi, docente presso l'U-niversi tà Cattol ica di Milano. Nel 1995 gli scienziati Gregoire Kaplan, Marcel Alonso e lo stesso André Marion, dell'Istituto Ottico di Parigi, annunciarono che ci sono elementi in grado di confermare l'esistenza di questa e anche di altre iscrizioni at-torno al volto sindonico. I dati sono stati confermati da mo-derni metodi di analisi al computer, fra i quali l'amplificazione digitale deUe variazioni di colore rilevate suUa superficie del len-zuolo. Già una volta l'équipe diretta da Marion, fisico nucleare del Cnrs, seguendo tale metodo, nel 1991 aveva scoperto i truc-chi usati nei processi nazisti degli anni trenta, nei quali si face-vano costantemente ricorso alla falsificazione di calligrafie e do-cumenti, come nel caso del «massacro di Altona», in cui venne condannato a morte un innocente, di nome Lutgen. Anche per la Sindone, Marion e i suoi colleghi ebbero successo: con l'aiu-

l8M.G. Siliato, op. cit., pp. 291-297. 19 G. KroU, Aufden Spuren Jesu, Leipzig 1998, p. 360; G. Ricci, The Holy Shroud, cit.,

pp. 167-182. 20 A. Marion-A.L. Courage, Nouvelles Decouvertes Sur le Suaire de Turiti, Paris 1997.

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to del loro metodo venne alla luce una scritta, evidentemente opera di qualcuno che aveva studiato il lenzuolo dopo il suo ritrovamento nel sepolcro vuoto. Non si tratta di un'illusione, né di un inganno dovuto all'effetto Rorschach, bensì di un'i-scrizione leggibile, composta da lettere grandi almeno un centi-metro, che risaltano nettamente dal fine tessuto del lenzuolo. Di tale iscrizione risultano leggibili con chiarezza quattro parole: IN NECE (M) (Pena di morte), (O)PSKIA (ombre di un viso), (I)HSOY (Gesù) e NAZARENOUS. Sono in caratteri greci, mentre sono in caratteri latini in necem e Nazarenous, che tro-viamo anche nella tavola di Gesù, mentre nel Vangelo di Gio-vanni si trova il greco Nazoraios.

I paleografi hanno potuto confermare che lo stile dell'iscri-zione è tipico della regione greco-siriaca ed è databile a prima del V secolo21. Forse fu un funzionario di Pilato a esaminare il referto a seguito del ritrovamento del sepolcro vuoto, e a sigla-re «elemento di prova» il lino con la misteriosa immagine. Pro-babilmente tale exactor mortis stese pure il verbale del trasferi-mento della salma dalla croce al sepolcro, segnando il nome e la causa del decesso del Crocifisso, prima di sigillare il sepolcro. Naturalmente si tratta solo di supposizioni.

I sindonologi americani Mary e Alan Whanger sostengono persino di aver rinvenuto nella Sindone un'impronta del titu-lus, la cui iscrizione risulterebbe identica a quella della reliquia di Roma. Secondo loro risulterebbero leggibili, su un lato del-la Sindone, presso le gambe del Crocifisso, le lettere ZA.EN e ZA.IN (da NAZAPENY2 o NAZARINUS), in lettere greche o latine. Le singole lettere risultano incise in maniera insolita, ma identica a quelle dell'iscrizione del titulus, presentando le stes-se caraneristiche tipiche del I secolo22. Come nel caso della sco-

21 M.G. Siliato, op. cit., pp. 336-346; E. Marinelli, Shadow Letters on the Shroud, in In-side the Vatican (dicembre 1997), pp. 56-58; G. Rocchi, Il dato (sorprendente ma vero) della grafia «picena» nelle scritte originarie della Santa Casa, della Sindone e del «Tìto-lo» della Croce - autentica - di Cristo, in Note di Paleografìa, Paleoepigrafia e Lingui-stica, Monco 1998, pp. 149-163.

H M. e Alan Whanger, The Shroud ofTurin, Franklin (Tenn.) 1998, pp. 98s.

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perta dèlie altre scritte, anche per queste i primi esiti delle ri-cerche incoraggiano studi più approfonditi, mentre una valu-tazione definitiva risulterebbe per il momento affrettata. D'al-tra parte, se studi incrociati confermassero la perfetta coinci-

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denza con le reliquie del titulus, ci troveremmo a disporre di un ulteriore elemento di prova inconfutabile circa l'attendibilità di entrambi questi «muti testimoni del Golgota».

Tutto ciò di cui oggi siamo a conoscenza, è che l'Uomo av-volto nel lenzuolo funebre era Io stesso che era stato condan-nato a morte sulla croce come «re dei giudei», comc recitava la tavola accusatrice. Benché sigillato, il suo sepolcro fu trovato vuoto il terzo giorno. Il lenzuolo funebre rende così testimo-nianza della passione e della morte di colui che resuscitò dai morti.

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CRONOLOGIA

L'epoca degli Asmonei

175 a.C: l'ebreo ellenista Menelao è nominato sommo sacer-dote da re Antioco IV. Gli ebrei si ribellano, il re marcia su Gerusalemme e dedica il tempio a Zeus. Conseguente rivolta dei Maccabei sotto la guida degli Asmonei.

164 a.C.: primo successo dei Maccabei. Nuova consacrazione del

tempio di Gerusalemme. Contrariamente alla tradizione, diventa sommo sacerdote un asmoneo, nonostante l'oppo-sizione di molti.

145 a.C. circa: farisei ed esseni creano un movimento di oppo-sizione agli Asmonei.

142 a.C.: autonomia nazionale ebrea sotto la signoria degli Asmo-nei.

63 a.C.: occupazione della Giudea da parte dei romani. Gli Asmo-nei diventano famiglia reale vassalla.

37 a.C.: fine della signoria asmonea grazie alla vittoria di Erode il Grande (37-4 a.C.), sostenuto dagli esseni. Nasce il quar-tiere esseno di Gerusalemme.

Circa 22 a.C.: nascita di Maria, madre di Gesù. 392

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Ca. 19 a.C.: Erode dà inizio ai lavori di ampliamento del tem-pio, nello stile pomposo tipico dell'ellenismo.

Ca. 18 a.C.: nascita di Ponzio Pilato.

L'epoca di Gesù

Ca. 7 a.C: nascita di Gesù di Nazaret. Ca. 4 a.C.: morte di Erode il Grande. 6 d.C; la Giudea diventa provincia romana. 6-15: Anna sommo sacerdote del tempio. Ca. 8-10: nascita di Giovanni «discepolo prediletto di Gesù». 18-37: Giuseppe Caifa sommo sacerdote del tempio. 25/26-36: Ponzio Pilato prefetto di Giudea. 26-29: missione pubblica di Giovanni Battista. 28: inizio della missione pubblica di Gesù. 6 aprile del 30: arresto di Gesù. 7 aprile del 30: condanna di Gesù di Nazaret come «re dei giu-

dei» ad opera di Ponzio Pilato, crocifissione e sepoltura. La croce viene nascosta.

9 aprile del 30: il sepolcro di Gesù viene trovato vuoto. Il Risorto appare ai discepoli.

18 maggio del 30: ascensione di Gesù.

L'epoca della prima comunità

28 maggio del 30: Pentecoste. Nascita della prima comunità. 30: secondo la leggenda, il Mandylion giunge a Odessa. Il re Ab-

gario V si fa battezzare. 33: presso Damasco, Paolo ha una visione di Cristo. 39: morte di Ponzio Pilato. 41/42: Erode Agrippa II diventa re della Giudea e dà inizio al-

la prima persecuzione contro i cristiani. Morte di Giacomo e arresto di Pietro, che riesce a fuggire. Anche gli altri di-

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scepoli fuggono e danno inizio alla loro missione nel mon-do. Giovanni si reca a Efeso, Pietro a Roma.

42/44: Pietro a Roma. 44: morte di Erode Agrippa II. 44: Marco redige il primo Vangelo a Roma. 48: concilio Apostolico a Gerusalemme. Morte di Maria. 49: conflitti fra ebrei e ebrei-cristiani, con conseguenti tensioni

a Roma. Ca. 50: Vangelo di Matteo. 62: Giacomo viene ucciso a Gerusalemme. 62: Paolo giunge a Roma. Ca. 62: Luca scrive il suo Vangelo. Ca. 62-67: Pietro per la seconda volta a Roma. 64: incendio di Roma. Inizio della persecuzione neroniana con-

tro i cristiani. 65-67: martirio di Pietro e Paolo. 66: inizio della guerra giudaica. 67/68: Giovanni scrive il suo Vangelo a Efeso. 70: distruzione del tempio di Gerusalemme.

La prima Chiesa

72/73: costruzione della chiesa degli Apostoli a Gerusalemme, una sinagoga ebreo-cristiana edificata sul Santo Sepolcro.

Ca. 80: nuova definizione dell'ebraismo grazie al sinodo di Jam-nia.

Ca. 100: morte di Giovanni a Efeso. 107: vengono giustiziati alcuni parenti di Gesù, a causa della lo-

ro discendenza da re Davide. 130: l'imperatore Adriano fonda Aelia Capitolina, edificata sul-

le rovine di Gerusalemme. Sul sepolcro di Gesù viene co-struito un tempio in onore di Venere.

132-134: rivolta degli ebrei sotto Simone Bar Kochba. 134: dopo il bando degli ebrei da Gerusalemme, la chiesa degli

Apostoli passa agli ebrei-cristiani. 394

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Ca. 160: il vescovo Melitone di Sardi visita Gerusalemme e te-stimonia della tradizione riguardo al sepolcro di Gesù sot-to il foro occidentale.

177: sotto Abgar Vili, Osroene diventa il primo regno cristiano del mondo, con capitale Edessa. Vengono coniate monete che mostrano Abgar con una croce sulla corona.

L'epoca di Costantino e dei suoi successori

Ca. 248: nascita di Elena e di Costanzo Cloro, genitori del fu-turo imperatore Costantino.

27.2.273: nascita di Costantino il Grande. 293: Diocleziano istituisce la tetrarchia, Costanzo Cloro diven-

ta imperatore d'Occidente. 306: dopo la morte di Costanzo Cloro, Costantino viene eletto

imperatore dai soldati. Fine settembre del 312: visione della croce da parte di Costan-

tino a Milano. 27 . 10 . 3 12 : vi t toria di Costant ino su Massenzio. C o m i n c i a la cri-

stianizzazione di Roma. Costruzione della basilica Laterana. Febbraio 313: editto di tolleranza di Milano. 324: Costantino sconfigge Licinio e diventa imperatore dell'in-

tero impero romano. 20.5-19.6.325: concilio di Nicea. Costantino incontra Macario,

vescovo di Gerusalemme. Luglio 325: Elena si reca a Gerusalemme. ^ Agosto 325: viene riportato alla luce il Santo Sepolcro, per vo-

lontà di Costantino. 14.9.325* ritrovamento della reliquia della croce, in presenza di

Elena. Gran parte della croce, i tre chiodi e metà del titulus sono portati a Roma, il resto rimane a Gerusalemme.

Estate 326: in occasione dei decennalia, Costantino rompe con Roma.

20.3.327: consacrazione della basilica di Santa Croce a opera di papa Silvestro I.

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18.8.327/8: morte di Elena. 4.11.328: fondazione di Costantinopoli. 14.9.335: consacrazione deUa chiesa del Santo Sepolcro. 22.5.337: morte di Costantino il Grande. 338: Eusebio completa la biografia di Costantino; in essa non

si fa cenno al ritrovamento della croce. 348: il vescovo Cirillo di Gerusalemme conferma il ritrovamen-

to della croce durante il regno di Costantino. Ca. 380-390: nella sua Storia della Chiesa Gelasio, vescovo di

Cesarea, descrive il ritrovamento della croce a opera di Elena.

383: la pellegrina Egeria descrive la venerazione delle reliquie della croce e della metà del titulus nella chiesa del Santo Se-polcro a Gerusalemme.

Ca. 390: viene edificata a Roma la basilica di Santa Pudenziana, in cui si trova un mosaico che raffigura la chiesa del Santo Sepolcro.

395: Ambrogio di Milano elogia Elena e celebra il ritrovamen-to della croce nella sua commemorazione funebre per Teo-dosio. In tale occasione nomina il titulus.

D medioevo

614: le truppe di Cosróe II invadono Gerusalemme e saccheg-giano la chiesa del Santo Sepolcro. La reliquia della croce cade nelle loro mani.

3.5.628: la reliquia della croce è restituita dai persiani all'impe-ratore Eraclio.

629: l'imperatore Eraclio riporta la reliquia della croce nella ri-costruita chiesa del Santo Sepolcro.

638: Omar ibn el-Khattab, secondo califfo della Mecca, entra a Gerusalemme, e la città passa sotto il dominio islamico.

944: il Mandylion di Edessa viene portato a Costantinopoli e più tardi identificato con la Sindone, ovvero il lenzuolo fune-bre di Gesù.

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1009: il califfo al-Hakim Bi-Amr-Illah fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro.

1099: i crociati conquistano Gerusalemme e venerano la reliquia della croce.

Ca. 1140: ricostruzione della basilica di Santa Croce sotto il car-dinale Gerardo, recupero e messa in salvo del titulus.

15.7.1149: consacrazione della nuova chiesa del Santo Sepol-cro a opera dei crociati.

4.7.1187: il sultano Saladino sconfigge i crociati e riconquista Gerusalemme. La reliquia della croce cade nelle mani dei musulmani, i quali probabilmente la vendono all'impera-tore di Costantinopoli.

1204: i crociati riconquistano Gerusalemme, saccheggiano la città e si impadroniscono delle sue reliquie, fra cui la Sindone.

1204-1261: regno latino di Costantinopoli. 1239: vendita della corona di spine a re Luigi IX. 1357: prima esposizione al pubblico in Europa del lenzuolo fu-

nebre di Gesù.

L'epoca moderna

1.2.1492: ritrovamento del titulus durante i lavori di restauro del-la basilica di Santa Croce.

1496: papa Alessandro VI conferma, con la bolla «Admirabile Sacramentum», l'autenticità della tavola di Gesù.

1575: la basilica di Santa Croce diventa una delle sette chiese del percorso dei pellegrini dell'anno santo.

1629: la maggior parte delle reliquie della croce, su indicazione d* papa Urbano Vili, viene trasportata da Santa Croce al-la basilica di San Pietro.

13.9.1798: la reliquia del titulus viene salvata in maniera rocam-bolesca dalle mani dei rivoluzionari della Repubblica Ci-salpina.

1925: al termine dell'anno santo si decide la costruzione della cappella delle reliquie in Santa Croce.

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1952: viene terminata la costruzione della cappella delle reliquie. 1978: approfondite ricerche confermano l'autenticità della Sin-

done di Torino (poi contestata nel 1988 dalla datazione del carbonio).

1997: ristrutturazione della cappella delle Reliquie presso San-ta Croce.

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LE PRIME FONTI RELATIVE AL RITROVAMENTO DELLA CROCE

325 d.C.: Costantino il Grande, citato da Eusebio (Viìt. Const 111,30): ... la testimonianza della sua santa passione, così a lungo rimasta sepolta sotto terra ...è ora venuta alla luce.

348: Cirillo di Gerusalemme (Catechesi IV, 10): Il santo legno della croce ...da questo luogo ... ora quasi in tutta la terra ... sino a oggi visibile presso di noi.

351: Cirillo di Gerusalemme (Lettera a Costantino II, 3): Sotto ... Costantino ... [fu] ritrovato in Gerusalemme il santo le-gno della croce. 383: Egeria (Diario di viaggio 37,1): Poi viene portato uno scrigno d'argento ricoperto d'oro, in cui si trova il santo legno della croce; viene aperto, il santo legno vie-ne tirato fuori e, assieme all'iscrizione della croce, adagiato sul tavolo. 388: Gelasio di Cesarea (Storia della Chiesa, citato in Rufino, Hist. Ecc. 10,7 seg.): Lì, [Elena] trovò tre croci, sepolte nel terreno. Una era la croce di Cristo e le altre quelle dei due ladroni, che furono crocifissi

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con lui... fece edificare una meravigliosa chiesa sul luogo del ri-trovamento della croce... Cercò i chiodi, che avevano legato il corpo del Salvatore alla croce ... li trovò ...da quel santo legno prese un pezzetto, per portarlo a suo figlio, mentre ne ripose un altro in una scatola d'argento.

395: Ambrogio di Milano (discorso funebre in onore di Teodo-sio 45,46): Essa [Elena] si recò sul Golgota, fa scavare il terreno, quindi si imbatte in tre legni, strumenti di martirio ... trovò pure l'iscri-zione e adorò, si intende non il legno ma il Re.

398: Giovanni Crisostomo {Sermone su Giovanni, Hom. 85): ... che le tre croci si trovavano lì... [identificate] in base al ti-tolo.

402: Rufino di Aquileia (Storia della Chiesa 1,17): Lì [Elena] trovò tre croci in ordine sparso ... veramente si tro-vava lì anche la tavola, che Pilato fece scrivere in greco, latino ed ebraico.

440: Teodoreto di Ciro (Storia della Chiesa 1,17): Furono ritrovate tre croci, sotterrate presso il sepolcro del Signore ... Essa [Elena] fece portare nel palazzo alcuni pezzi della cro-ce del nostro Salvatore ... il resto fu riposto in uno scrigno d'ar-gento.

440: Socrate Scolastico (Storia della Chiesa 1,17): Presso di loro si è trovato pure il titulus, su cui Pilato aveva fat-to incidere la scritta in varie lingue.

444: Sozomeno di Gaza (Storia della Chiesa II, 1), che scrisse la sua Storia della Chiesa f r a il 4 4 3 e il 450 , fu l'ultimo autore ad

avere contatti, all'epoca della sua gioventù, con testimoni ocu-lari del ritrovamento della croce, all'epoca già molto anziani: Furono trovate tre croci, assieme a un ulteriore pezzo di legno, sul quale si trovava l'iscrizione in caratteri ebraici, greci e latini: «Gesù Nazareno, re dei giudei».

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recente, Torino 1997. Ziehr, Wilhelm, Das Kreuz, Stuttgart 1997.

Ringraziamenti

Ringrazio tutti coloro eh© mi hanno aiutato a scriver© questo

libro, fornendomi incoraggiamento e rendendone possibile la nascita. In particolare: Sua Santità papa Giovanni Paolo II; S.E. mons. Giovanni Battista Re; S.E. mons. Stanislaw Dziwisz; S.E. card. Camillo Ruini; S.E. card. Miloslav Vlk; S.E. card. Joachim Meisner; rev. padre abate don Luigi Rottini O. Cist.; mons. Cor-rado Balducci; padre Louis Th.; padre Simone O. Cist.; Juan de la Cruz O. Cist.; padre prof. em. dott. Melchor Escriva sj; padre Joseph Kaulmann; prof. dott. Pierluigi Baima-Bollone; dott. Ga-briel Barkay; dott. Orna Cohen; prof Karlheinz Dietz; prof. dott. Werner Eck; prof. Esther Eshel; prof. dott. Hanan Eshel; prof. Ben Isaac; dott. Simcha Lev-Yadun; prof. Nili Lifshitz; prof dott. Israel Roll; dott. Leah Di Segni; prof. John P. e Rebecca Jack-son; Barry Chamish; David Bar-Levav; Agneska Schejok; Ingrid Schlotterbeck; Eva Tothova; Ferdinando Paladini; dott. Maria Luisa Rigato; prof. Alan Whanger; L. Alexander Wolfe; mia ma-dre Renate Hesemann; prof. Carsten Peter Thiede per la con-sulenza scientifica e l'eccellente prefazione, l'editore Herder per tutta la sua assistenza e, infine, Natalie, per la sua amorevole de-dizione e per il suo appoggio morale.

406

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INDICE DEI NOMI

Abegg M., 183 Abgar Vili, 390 Abgario V, 388 Abia, 371 Abramo, 17 Acilio Severo prefetto, 278 Ademaro da Gerusalemme, 270 Addai v. Taddeo Adone, 31,153-155,241 Adriano imperatore, 108,150-155,

159,186,188,192-196,198,203, 204,222,223,227,235,241,247, 251,347,389

Aetheria v. Egeria Affanni A.M., 295,305 Afrodite, 152-155,188,189,195,

196,203,204,244,251 Agapio vescovo, 39 Agnese martire, 278 Agrippa I re, 117 Alamarico I di Gerusalemme re,

275

Alarico, 293 Albino governatore, 52,105 Albrecht M. von, 30 Alessandro di Cappadocia, 189 Alessandro di Cipro, 243,244 Alessandro di Cirene, 58-60 Alessandro Ianneo re, 112,162 Alessandro Magno imperatore,

161 Alessandro procuratore, 172 Alessandro Severo imperatore,

294,319 Alessandro III papa, 301 Alessandro VI papa, 392 Alessio III imperatore, 275 Alessio IV imperatore, 275,

283 Alessio V imperatore, 275 Alexamenos, 125 al-Hakim Bin-Amr-Illah califfo,

270,271,392 Alletto, 236

407

Page 412: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Alonso M., 383 Ambrogio di Milano, 248, 252,

255,257,258,265,283,288,314, 391,396

Andrea apostolo, 115,120,122, 130,169,374

Angelo Comneno v. Alessio III Angenendt A., 15,154,300,318 Anna madre di Maria, 177,178 Anna II sommo sacerdote, 38,158 Anna sommo sacerdote, 91, 94,

200,388 Antigono Mattatia, 162 Antigono re, 162,166 Antioco IV re, 161,387 Antipatro governatore, 162 Antonino frate, 268 Antonino Pio imperatore, 153,

155,188,246 Antonio di Piacenza, 260,268 Antonio Felice procuratore, 70 Apollo, 31,80,137,138,237,281,

305 Apollonio di Tiana, 30,31,61 Archelao, 170 Arculfo, 218 Areta re, 171 Aretz E., 259 Ario, 147 Aristobulo, 162 Aristotele, 30 Aronne,101,167,173,176,177,

371 Artemidoro, 115,119,122,126,

127,210 Asa di Giuda re, 217 Astarte, 153-155 Attico governatore, 176

Attis, 31 Augusto imperatore, 32,34,171,

210,223,232,293 Aureliano imperatore, 237,294 Avigad N., 192 Azzi C., 351

Bagatti B., 188 Baima Bollone P., 125,351,377,378 Bajasid II, 287 Baldovino II imperatore, 315,316 Balducci G, 328,346 Baldwin X, 346 Ballosino N, 377,388 Barabba, 36,78,110 Bar-Am A., 193 Barberis B., 351,378,379 Barbet P., 121,131 Barkay G., 336-338 Barnaba, 63 Barnes T.D., 241 Bauckham R. J.,-183 Baudler G., Il i , 260 Baumann R.A., 111 Baur F.C., 366 Bedini B., 295,314,324,381 Bella F., 351 Ben Aphlul, 187 Ben-Chorin S.,50 Benedetto VII papa, 299 Benedetto XIV papa, 302 Benoit R, 107 Berbenni G., 351 Berger K., 44,366,367,369,371,

372,374 Bernardino da Siena, 309 Bernini G.L., 288,349 Betz O., 95

408

Page 413: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Bianca di Castiglia, 316 Binthir, 117 Bohetus, 92 Bolgi A., 287,305,306 Bonani G., 353 Bonaparte N., 303 Borgehammar S., 9,241 Bòsen W., 33,34,91,93, 111, 117,

202,207 Bovio, 223 Brandt A. von, 327 Braun H., 183 Breuer N., 287 Broshi M., 353 Bruce RE, 156,163 Bultmann R.,51 Burcardo, 301 Burridge R., 44

Caffaro-Rore M., 123 Caifa sommo sacerdote, 41,91,92,

94-97,99,100,364,388 Caio Caligola imperatore, 37,64 Camelot T., 16 Cantalamessa R., 201 Caracalla imperatore, 293 Carausio, 236 Caritone, 67 Carlo Magno, 269 Carlo V imperatore, 301 Carmi I., 353 Carvajal cardinale, 301 Casaroli A., 330 Celso, 43,44 Chadwick H.,241 Chamish B., 333 Charlesworth J.H., 247 Cicerone, 89, 111, 120

Circe, 67 Circignani N., 304 Cirillo di Gerusalemme vescovo,

108,225,228,242,258-260,306, 391,395

Ciro re, 164 Claudia Proda, 79 Claudio imperatore, 40,63,73 Clemente Alessandrino, 55,62,64,

158,189,365 Cleofa, 158,358,361 Cohen O., 334,335 Colonna Giovanni cardinale, 319 Conon, 176 Cook E., 183 Coponio prefetto, 38 Corbo, 230 Cornelio Nepote, 45 Corona E., 336,351 Cosróe 11,266,391 Costantino il Grande imperatore,

20,22,137-148,188,195,197, 202,203,209,218-221,223-225, 227,231-233,235,237-244,247, 248,251,256-258,260,262,263, 270,276-281,293-295,298,302, 305,311,375,390,391,395

Costanza figlia di Costantino, 225 Costanzo Cloro, 112,137,144,235-

238,277,390 Costanzo II, 260 Courage A.L., 383 Cresto, 40,73 Crispo, 146,241,277 Croce B., 308 Crossan J.D., 50,53 Cruz J.C., 261,268 Cumano, 85,86

409

Page 414: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

d'Ancona M., 56,57,186,323,334, 366,367,372

Daniele, 97,164 Dassel R. von, 15 Davide re, 17,74,95,101-103,106,

113,118,167-169,173-175,177, 184,194,353,389

de Rosa Peter, 31,43,47 Decio imperatore, 176 Del Ton G., 39,68,69 Delehaye H.,7 Destot, 121 Di Fausto E, 305 Di Segni L., 335,338,339,347 Dibelius M., 51 Dietz K., 351 Diez Fernandez F., 204 Dillange M., 310,318 Diocleziano imperatore, 137,144,

146,235-237,276,296, 390 Diogene Laerzio, 30 Dionigi di Alicarnasso, 118 Dioniso, 31 Dismas santo («buon ladrone»),

313 Domiziano imperatore, 175,222 Doresse J., 55 Douglas A.E., 325 Dracilliano, 220 Drenkelfort P.H., 295,305 Duquesnqy E. 287 DuvalY.,259 Dziwisz S., 349

EckW., 339-341,343,344 Edersheim A., 90 Egeria, 228,257,260,261,268,391,

395

Egesippo, 156,158,175,176 Elena figlia di Costantino, 225 Elena imperatrice, 9,12,18,23,

128,140,190,225,233,235-239, 241-248,253,255-259,262,263, 265,267,277,279-283,287,288, 290,291,295-298,302,305-307, 311,312,314,315,320,331-334, 348,356,362,390,391,395,396

Elia, 167 Eliogabalo imperatore, 293-295 Elisabetta, 170,176 Embach M.,259 Epifanio di Salamina, 156,186,246 Eraclio imperatore, 266-268,290,

391 Erasmo da Rotterdam, 308 Ercole, 80,237 Erode Agrippa I re, 37,60,63,82,

92,107,117, 156,191,362 Erode Agrippa II, 107,109,388,

389 Erode Antipa re, 73,77,79,82,170,

171,175,316,335,339 Erode il Grande re, 32,34,83-85,

91,105,107,108,112,120,150, 151,162,166,170,171,178,185, 191-194,199,204,271,365,387, 388

Erodoto, 111 Eshel E., 337 Eshel H., 337,338 Etchegaray R„ 44 Euctierlo vescovo, 227 Eumolpo, 66 Eusebio di Cesarea, 30,38,39,61-

64,68-70,72,139-141,144,147, 148,158,159,174,176,184,187-

410

Page 415: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

190,197,203,218,220,221,224-227,229,232,239,240,242,244, 258,259,262-265,280,314,363, 391,395

Eustazio, 241 Eutiche di Alessandria, 177,187,

269 Ezechia (bandito), 171 Ezechiele, 52

Falasca S., 248 Fasael, 83,150,162,194 Fatima, 270 Fausta, 144,146,241,277,293 Federico I Barbarossa imperato-

re, 15 Federico II imperatore, 315 Felice governatore, 112,117 Festo governatore, 158 Fibione, 110 Fidia, 281,305 Filemone, 63

Filippo (figlio di Erode), 170,171 Filippo apostolo, 169 Filippo imperatore, 316 Filone, 34,35,37,83,105,107,115,

117,168,210 Filone d'Alessandria, 31,33,45,

104 ,107 Filostrato, 30,45 Finegan J., 176 ,190-192 ,194 ,195 Firmico Materno, 122 F i a c c o g o v e r n a t o r e , "21 O

Fleury Ch.R. de, 308,321 Floro governatore, 210 Fiury-Lemberg M., 351 Flusser D., 32,117,174,177,200

Follieri M., 351 Freeman-Grenville G.S.P., 153,

189,192,269 Fricke G., 114,128 Funk R.W., 53,54

Gabrieli F, 274 Galba imperatore, 126 ,127 Galerio, 137 ,144 ,237 Galla Placidia, 291 Gallione proconsole, 106 Ganzfried S.,250 Garza-Valdés L., 379,380 Gelasio di Cesarea, 242,251,262,

395 Geoffroy de Villehardouin, 283 G e r a r d o cardinale, 292, 299, 300,

392 Geremia, 52 Gessio F loro procuratore, 1 0 7 Gesù B e n Ananus, 5 2 , 1 0 5 , 1 1 6 Geva H., 150 Ghiberti G., 351 Giacobbe, 368 Giacomo figlio di Giuda il Gali-

leo, 112,171 Giacomo figlio di Zebedeo, 357 Giacomo fratello di Gesù, 177-

179,246,358 Giacomo fratello di Giovanni, 362 Giacomo il Giusto, 182 Giacomo il Maggiore apostolo, 38,

63,69,156-160,169,182,357, 3 7 4 , 3 8 8 , 3 8 0

Giacomo il Minore apostolo, 159, 358

Giamblico, 3 0 , 4 3 Gingras G., 261

4 1 1

Page 416: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Gioacchino padre di Maria, 177 Giosuè, 103,164,323 Giovanni Battista, 14,101,170,

231,365,370-372,374,388 Giovanni Crisostomo, 252,253,

259,396 Giovanni di Gerusalemme vesco-

vo, 259 Giovanni evangelista, 8,19,20,29,

44,47,49,51,54,61,74,88,91, 103,108,127,133,135,149,156, 159,179,182,199,201,206,211, 216,217,250,252,254,319-322, 324,333,347,348,357,358,361-364,366-374,388,389,396

Giovanni figlio di Zebedeo, 357 Giovanni Marco, 246 Giovanni Paolo II papa, 21,201,

346,349,359 Giove, 80,137,151,237,279 Girolamo santo, 63,154 Giuda Ciriaco, 246-248 Giuda fratello di Gesù, 175,179 Giuda il Galileo, 112,159,169,171 Giuda Maccabeo, 161 Giuliani G., 288 Giulio Africano, 174 Giulio Cesare, 33,80,100 Giulio comandante romano, 222 Giunone, 137,151,279,305 Giuseppe, 158,169,177,358 Giuseppe Caifa, 92 Giuseppe d'Arimatea, 149,164,

198-202,206,207,209,210,214-217,249,344,370

Giuseppe figlio di Giacobbe, 368 Giuseppe figlio di Gorion, 200 Giuseppe figlio di Maria, 357

Giuseppe Flavio, 30-33,35,37-39, 45,52,57, 64,72, 83, 84, 86-89, 91,93,98,99,104,106,107,109-113,116,117,130,157,158,165-168,171,191,194,200,202,210, 211,214,323,343,344

Giustiniano imperatore, 248,285, 315

Giustino II imperatore, 309 Giustino il Martire, 187 Gnilka J., 33 Goffredo di Buglione, 272 Golgos, 152 Gorion figlio di Nicodemo, 200 Gottschalk G., 154,236 Gove H., 380 Grant M.,236,280 Gregoriani D., 302 Gregorio di Nissa, 259 Gregorio I papa, 298 Gregorio XIII papa, 302 Griesbach XB., 47 Gruber E., 50,121,130,284,330,

378,380 Guglielmo di Tiro, 270,275 Guilding A., 373 Guregh Kapikian, 190

Haas N., 212 Hampel V., 96 Hannas, 92 Harnack A. von, 49 Harun al-Rashid, 269 Hefele K., 309 Heinen H., 259 Hesemann M., 9,72,128,214 Hillel, 200 Hofmann A., 154

412

Page 417: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Hohl E., 154 Holtzmann HJ., 48,49 Huleatt Ch., 56 Hynek R., 131

Iacopo da Varazze, 245,246,268 Iacopone da Todi, 359 Ibn Moy califfo, 270 lesse, 173 Imad ad-Din, 273 Inanna-Istar, 153 Innocenzo Vili papa, 15,287,301 Ippico, 83,150 Ippolito, 55 Ircano, 162 Ireneo di Lione, 64,69,70,362 Isaac B., 346,347 Isacco fratello di Angelo Comne-

no, 275 Isaia, 52,78,87,95,102,173 Ishmael ben Fiabi, 92 Isocrate, 45 Ivy S., 353

Jackson 1,351 Jean de Jandun, 317 Jehochanan Ben Haskul, 212-214,

250 Jehuda Ben Ezechia, 172 Joazar sommo sacerdote, 171 Johnson L.T., 53-55 Jung-Inglessis E.M., 302

Kàhler M.,373 Kaplan G., 383 Kapustin A., 193 Karaba, 117 Kaswalder P., 351

Katros, 92 Katsimbinis G, 205 Kenyon K., 192 Kersten H., 50,121,130,284,330,

378,380 Klomer A., 173 Kloppenburg J., 49 Kneissel P., 341 Krautheimer R., 221,280,282,295 Kroll G., 109,110,153,192,202,

203,207,213,218,223,225-227, 229,231,250,262,269,270,272, 383

Labieno, 120 Lachmann K, 48 Lafrery A., 303 Lamm M., 250 Làpple A., 205 Lattanzio, 139,140,143 Laudert-Ruhm G., 49,50 Lavas G., 204 Legner A., 15,308,309 Legrand A., 132 LeRoux de Lincy A.J.V., 317 Lessing G.E., 46 Levi, 177 Lev-Yadun S., 334 Libby W.F., 324 Liciniano, 146,277 Licinio, 137,139,146,219,240,276,

277,390 Lieberman, 117 Lifshitz N., 334 Lisner M., 301 Lorenzo martire, 278 Losemann V., 341 Luca evangelista, 29,36,42,45,47-

413

Page 418: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

49,51,54,58,69,70,94,101,104, 127,158,170,176,177,298,313, 357,358,364,371,389

Luciano, 45 Lucio II papa, 292,299 Luigi IX re, 310,315-318,392 Lutero M., 169 Liitgen, 383 Lux U., 192

Macario vescovo, 148,218,220, 225,239,241,243,244,246,247, 253,255,258,263,291,390

Mack B.L.. 50 Macrina, 259 Magness X, 229 Maier F.G., 325 Makdimon ben Guriyon v. Nico-

demo Malco, 369 Manaem, 166 Mancini I., 153,188 Mandeville X, 284 Manuele I Comneno imperato-

re, 275,309 Maometto, 270 Mara Bar Sarapion, 42 Marasconi A., 383 Marcellino martire, 278,280 Marcello, 37 Marco Antonia, 82,162

a Marco Clemente prefetto, 339 Marco evangelista, 29,42,45,47-

49,51,54,56-65,68,69,95,110, 128,133,159,160,164,180,198, 251,345,357,358,364,365,367, 370,373,374,389

Marco Licinio Crasso, 111

Marco Ponzio, 33 Maria, 154,159,176-178,184,298,

358,359,361,362,387, 389 Maria di Cleofa, 159,358 Maria figlia di Simone, 92 Maria Gabriella di Savoia, 351 Maria Maddalena, 357 Maria madre di Giacomo il Mi-

nore e Giuseppe, 159,357 Mariamne, 83,150,162 Marinelli E., 384 Marion A., 383 Marte, 120,137,237,279 Marullo prefetto, 37 Massenzio, 137,139,142-145,177,

293,390 Massimiano, 137,144,236,277,293 Massimino Daia, 137,146 Massimo vescovo, 247 Mattatia, 161 Matteo evangelista, 29,42,45,47-

49,51,54,56,58,68,69,71,73, 89,110,128,133,177,206,228, 357,364,365,389

Maurizio santo, 15 Mazario, 139 Meisner X, 222 Melitone di Sardi, 189,191,390 Melozzo da Forlì, 289,291,301 Melqart, 90

Mendoza cardinale, 289,290,301 Menelao, 161,387 Merten E., 154 Merz A., 30,39,44,46,47,98,163 Michelangelo Buonarroti, 301,349 Michele arcangelo, 14 Michele Paleologo, 316 Milanesio A., 377

414

Page 419: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Milk XT., 188 Millard A., 59,218,366 Milziade, 144 Minerva, 137,151,279 Mitra, 137 Mitropulos T., 204 MochiF.,287 Mòdder H., 131 Modesto patriarca, 268 Montanari S., 145,295,298,302 Moraldi L., 35 ,36 ,87 Morecross E, 337 Moretti L., 351 Moretto G., 380,381 Mosè, 17 ,36 ,98 , 103 , 157 Motropulos T., 121 Muhammad adh-Dhib, 163 Mumprecht V., 30 Murphy-O'Connor X, 192,194

Naaman, 297 Nerone imperatore, 40,60,63,65,

67,70,73,109,125,144,222,278, 293,302

Niceforo Foca imperatore, 270 Nicodemo, 91, 169, 199, 200, 201,

215-217,370 Nicolini G., 305 Niketas Choniates, 285 Noè V., 351

Norwich XX, 280

O'Callaghan X, 56,57,345 Omar ibn el-Khattab, 269,391 Onoria, 291 Orazio, 115 Origene, 39,43, 44, 55,130,159,

190

Ostrogorsky G., 280 Othon de la Roche, 286

Paci S.M., 67,280 Pagnini S., 324 Paladini F., 329,330,352 Paolino di Nola, 154,245,259,307 Paolo santo, 17,51,58,60,62-64,

67,69,70,85,102,106,115,157, 182,189,222,231,278,344,373, 388,389

Papia vescovo, 61,68,363 Passalacqua P., 302 Pellegrino di Bordeaux, 108,227,

229 Pellegrino di Piacenza, 109,218,

225 Persch M., 259 Persefone, 153 Petronio comandante romano, 64 Pfirrmann G., 71 Pietro apostolo, 51,58,60-64,66,

69,89,95,119,120,140,156,182, 183,222,231,278,280,300,361, 363-365,369,374,388,389

Pinkerfeld J., 184,185 Pio I, vescovo, 222 Pio VI papa, 303,304 Pitagora, 30,31,43 Pixner B„ 107,108,166,167,177,

183-185,187,192 Platone, 30 Plauto, 119,120 Plinio il Giovane, 40 Plinio il Vecchio, 81 Plutarco, 45 Policarpo Giovanni vescovo, 363 Pomarancio v. Circignani N.

415

Page 420: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Pompeo, 89,162 Pomponia Graecina, 67 Ponzio Aquilio, 33 Ponzio Pilato, 8,28,31-38,40,42,

52,72-80,83,86,91,92,94,100, 104-110,114,115,117,118,130, 152,180,210,211,214-216,253, 322,332,342,347,348,365,367, 370,384,388,396

Poppea, 113 Porfirio, 30 Procopio di Cesarea, 261 Pseudo-Abdia, 115,120,122 Pudente, 222,229,231,300

Quinones cardinale, 301 Quintiliano, 149,360 Quirino senatore, 112,171

Rabbi Akiba, 151,175 Rabbi Gamaliel, 186 Rabbi Samuel il Giovane, 186 Rabbi Yohanan Ben Zakkai, 200 Rachele, 17 Radegonda santa, 309 Rahmani L.Y., 340 Ramelli I., 64,65 Re G.B., 329,330,350 Re Magi, 15,18 Reban J.,378 Reich R.a92 Reimarus H.S.,46 Reinhard di Chàtillon, 273 Reinhardt W., 183 Ricci G, 116,118-122,132,133,

213,214,250,378,381-383 Riesner R.,247 Rigato M.L.,329,331,351

Robert de Clari, 283,284,286,378 Roberto d'Angiò, 316 Roberts C.H., 366 Robinson IA.T., 372,373 Rocchi G., 384 Rodley GA.,353 Rodolfo, 270 Roesger A., 154 Roll I.,346,347 Ronig F., 259 Rorschach, 384 Rottini L., 329,336,346,347,350 Rubens P.P., 305 Ruck C.A.P., 154 Rufino d'Aquileia, 239,242,243,

251,253,254,257,262,282,395, 396

Rufo di Cirene, 58-60

Safrat S., 177 Saggio di Samo, 80 Saladino, 273,286,392 Salah ed Din v. Saladino Salome Alessandro, 162 Salome madre di Giovanni e Gia-

como, 357 Salomone re, 109,162,367 Satyros, 45 Savarino P., 378,379 Scarre C., 280 Schejok A. 123 Schischkoff G., 30 Schonfield H., 172 Schottroff L.,50 Schulthess F., 42 Schulz H.J., 63,368,370,372-374 Schweitzer A., 50 Sebastiano martire, 278

416

Page 421: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Seiano, 105 Selenco, 161 Seneca, 106,129,130 Senofonte, 30,45 Senofonte di Efeso, 121,214 Sensi M., 351 Sergio di Costantinopoli, 266 Seth, 101,102 Settimio Vegeto governatore, 110 Sierra-Atienza, 15 Siliato M.G., 113,116,119,122,

130,132,285,312,331,332,349, 375,377,379,383,384

Silvestro I papa, 298,390 Simeone cugino di Gesù, 179 Simeone vescovo, 176 Simone (Asmoneo), 161 Simone (Simeone) apostolo, 65,

159,169,358 Simone Bar Kochba, 96,151,175,

186,187,337,338,389 Simone di Cirene, 26,58,59,74,

121,214,313 Simone figlio di Cleofa, 158 Simone figlio di Giuda il Galileo,

171 Simplicio papa, 226 Siracusa S., 337 Sisto III papa, 298 Socrate, 30,31 Socrate Scolastico, 244,245,253,

257,262,280,282,332,396 Solimano il Magnifico, 152 Somoano Berdasco R., 351 Sozomeno di Gaza, 189,203,245,

248,256,262,332 Stanton E., 44 Stanton G., 57

Stefano protomartire, 302 Stegemann W., 50 StrauB D.E, 47 StroudW., 133 Strugnell J., 353 Sulpicio Severo, 245,259,307 Svetonio, 32,40,45,58,114,126,

127,210,359,360

Tacito, 31,40,45,65,67,81,82, 111, 359

Taddeo discepolo, 319 Tammuz, 153-155 Tartaglia L., 139 Teodora, 236,277 Teodoreto di Ciro, 154,244,245,

251-253,256,262,282,288,295, 297,396

Teodosio imperatore, 109, 228, 231,248,265,267,283,391,396

Teofane, 268 Teofilo, 69 Tertullo, 157 Testa E., 153 Theissen G., 30,39,44,46,47,98,

163 Thiede C.P., 7,56,57, 67,74,92,

169,186,191,205,308,323,334, 345-347,352,353,366,367,370, 372

Tiberio Alessandro governatore, 112

Tiberio imperatore, 32,34,37,40, 42,72,73,80,81,105,106,210, 359,360,365

Timoteo, 63,222 Tisserand L.M., 317 Tito, 98,130,194

417

Page 422: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Tito Livio, 113 Tito Mucio (Muzio) Clemente,

113,339,342 Tito Petronio Nero, 65,67,209,

210,360 Tolomeo re, 161 Tommaso apostolo, 13,18,55,169,

319,320 Traiano imperatore, 40,175,363 Tribbe F.C., 275 Trimalcione, 66 Tsafrir Y., 194 Tully M., 46 Tyche, 153

Uexhull W. von, 154 Ugolotti R, 383 Ulpiano, 116 Urbano Vili papa, 306,392

Valentiniano III imperatore, 291, 300

Varo condottiero romano, 170 Varo governatore, 112 Vartan santo, 190 Venere, 80,152,189,190,242,389 Veronica, 287 Vespasiano imperatore, 38 Vitale Bravarone A., 246 Vitale Bravarone L., 246 Vitellio procuratore, 37

Vitucci G., 33,194,214 Vlk M., 351 VotawGW.,44

Waerden B.L. van der, 30 Waldstein W., 380 Wallfli W., 353 Wasson R.G., 154 Weise Ch.,48 Whanger A., 384 Whanger M., 384 Wilke CG.,48 Wilson A.N., 370,373 Wilson I., 125 Winter P., 100 Wise M., 183 Wolfe L.A., 336

Yeshua Ben Gilgoa, 187 Yonah A., 359,342

Zacà S., 377,378 Zaccaria, 170,266,282 Zaccaria vescovo, 267,268 Zaccone G.M., 379

Zadoc (Zadok), 91,161,371 Zebedeo, 357,370,371 Zenobia, 235,237 Zenobio, 221,223-226 Zeus, 161,387 Ziehr W., 259,307,310

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Page 423: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

INDICE

Prefazione di Carsten Peter Thiede pag. 7 Introduzione. Gesù: la prova? » 11

1. ALLA RICERCA DEL GESÙ STORICO » 25 Ai piedi del Golgota » 28 Crocifisso sotto Ponzio Pilato » 31 Pilato: un funzionario in carriera » 33 La testimonianza di Giuseppe Flavio » 38 La sommossa di Cresto » 40 Quando venne appeso Jeshu » 41 Il saggio re dei giudei » 42 Liete novelle e biografie di Gesù » 43 La «ricerca critica sulla vita di Gesù» » 46 Q » 48 Gesù storico o Gesù kerygmatico? » 50 Uno stravagante di nome Gesù » 51 Il seminario su Gesù » 53 Il quinto Vangelo » 54 Il frammento di Oxford » 56 Marco a Qumran » 56 Marco conosceva testimoni oculari » 57

Page 424: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

L'interprete di san Pietro pag. 60 Una satira di Marco? » 64 Matteo: un nome per due Vangeli » 68 Quando fu redatto Luca? » 69 L'iscrizione di Nazaret » 70 Il Messia condannato » 74

2. IL RE DEI GIUDEI » 75 A Gerusalemme per le feste di Pasqua » 81 La cittadella Antonia » 85 Il tempio » 87 Il sommo sacerdote » 90 I sommi sacerdoti » 93 II Sinedrio » 94 L'accusa » 96 La congiura contro Gesù » 97 Il Messia » 101 Il processo a Gesù » 104 Lo scranno del giudice » 106 Il pretorio » 107 Barabba » 110 «Ibis in crucem» » 111 La flagellazione » 115 Incoronato di spine » 116 La via della croce » 118 Innalzato sulla croce » 121 La tunica di Gesù » 127 La lotta contro la morte sulla croce » 129 L'ultima preghiera » 133

3. N E L ^ E G N O DELLA CROCE » 136 Da Gerusalemme a Roma » 140 Il vessillo della croce » 141 La fine del tiranno » 143 Il cammino trionfale della croce » 145 Il primo concilio della Chiesa imperiale » 146 Dov'era situato il Santo Sepolcro? » 149

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Page 425: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Sulle macerie di Gerusalemme pag. 150 L'Afrodite del Golgota » 152 La comunità delle origini » 155 La morte di Giacomo » 157 La nascita di una nuova religione » 160 Sadducei, farisei... » 160 ...ed esseni » 163 Gesù era un esseno? » 168 Dalla casa di Davide » 169 I nazareni » 171 Maria: una vergine del tempio essena? » 177 Non fu il portatore di speranza di una setta » 178 La Chiesa degli apostoli » 182 Sion diventa cristiana » 186 Nella piazza del mercato? » 189 Dinanzi alla porta » 192

4. OPERAZIONE SANTO SEPOLCRO » 196 II sepolcro era vuoto » 198 Chi era Giuseppe d'Arimatea? » 199 Deicidi? . . » 200 La topografia del Golgota » 202 «Com'è usanza per gli ebrei» » 207 La maledizione della croce » 209 Il crocifisso di Giv'at ha-Mivtar » 212 Prima del sorgere della terza stella... » 215 Colloqui presso il sepolcro » 217 Il sepolcro scavato nella roccia » 217 Un rinvenimento sorprendente » 218 Le prime chiese » 221 Il sacrilegio di Zenobio » 224 Il piccolo colle del Golgota » 227 Così appariva la chiesa del Santo Sepolcro » 229 Battesimo sul letto di morte » 231

5. LA SCOPERTA DEL MILLENNIO » 234 La figlia di un oste diventa imperatrice » 235

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Page 426: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

Il viaggio a Gerusalemme pag. 238 Un corteo trionfale a celebrazione dell'amore

per il prossimo » 240 La «Legenda aurea» » 245 Un fatto storico » 247 Sangue di vita » 249 L'identificazione della «vera croce» » 251 L'innalzamento della croce » 255 Lo smembramento del «titulus» » 256 Verità o leggenda? » 258 Il «monumento alla vittoria della passione» » 264 Una gran donna » 265 Il ratto della reliquia » 266 II ritorno della croce » 267 Sotto il vessillo dell'islam » 269 Il sacrilegio del califfo » 270 La prima crociata » 271 Una crociata contro altri cristiani » 274 La città di Costantino » 276 Un affare funesto » 277 Come Roma divenne cristiana » 278 La morte di Elena » 279 Una seconda Roma sul Bosforo » 280 Un chiodo per l'elmo dell'imperatore » 282 Ricca di tesori e reliquie » 283 Il grande saccheggio » 285 Reliquie per il palazzo imperiale » 288

6. UNA GERUSALEMME A ROMA » 289 Il «Sessorium» » 293 Da luogo di peccato a chiesa » 294 La terra del Golgota » 297 La Gerusalemme romana » 298 Le reliquie murate nell'altare » 299 Santa Croce in occasione dell'anno santo » 301 Quasi perse! » 303 La cappella di Sant'Elena » 304

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Page 427: MICHAEL HESEMANN-Titulus Crucis

La cappella delle Reliquie Pag- 305 Il destino delle reliquie della croce » 306 Il sacro chiodo » 312 La trave orizzontale » 313 Aculei della corona di spine? » 314 La Sainte Chapelle » 317 Un dito di san Tommaso? » 319 L'iscrizione della croce » 320 La datazione per mezzo del carbonio » 324 La datazione biologica » 325 Paleografia » 326 Ulteriori ricerche a Roma » 328 Di fattura romana » 330 Il legno del «titulus» » 333 L'età dell'iscrizione » 336 L'avvocato del diavolo » 340 Altri esperti, altre opinioni » 345 Ancora una volta a Roma » 346

7. CHI STAVA SOTTO LA CROCE? » 356 «Stabat Mater dolorosa» » 357 In prima linea? » 359 Scritto a Efeso » 362 Qual era lo scopo di Giovanni? » 364 Cristologia avanzata » 366 Giovanni fu testimone oculare » 367 «In dubio prò traditio» » 371

Appendice: il «titulus crucis» e la Sindone di Torino » 377

Cronologia » 387

Le prime fonti relative al ritrovamento della croce » 395

Bibliografia » 397

Indice dei nomi » 407

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