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Mi disegni la scuola? Passaggi e permessi per diventare grandi Manuela Emilia Colombo Scuola di Counseling Familiare e dell’Età Evolutiva - Gruppo F Centro Psicologia di Gorgonzola Tutor Laura Toma Anno 2013

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Mi disegni la scuola?

Passaggi e permessi per diventare grandi

Manuela Emilia Colombo

Scuola di Counseling Familiare e dell’Età Evolutiva - Gruppo F

Centro Psicologia di Gorgonzola

Tutor Laura Toma

Anno 2013

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Counseling

nelle trasformazioni del ciclo di vita

Mi disegni la scuola?

Passaggi e permessi per diventare grandi

Grazie,

prima di tutto a

Valeria, Francesca, Silvia, Alessandro,

a Laura Toma

ai docenti della Scuola di Counseling

alla Associazione Capirsi Down Monza ONLUS

alla Scuola Materna Maria Ausiliatrice di Brugherio

a tutti i genitori che ho incontrato per motivi diversi,

e per ultima,

ma non per ordine di importanza,

a Piera Campagnoli

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Indice

Introduzione ............................................................................................................. 4

1. Capitolo – I cicli di sviluppo

1.1. Nascita di una madre. E di un padre. ................................................. 9

1.2. I sette stadi di Pamela Levin ................................................................ 11

1.3. Passaggi e permessi per i genitori ...................................................... 14

1.4. Passaggi e permessi per i figli .............................................................. 17

1.5. Dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria ............................... 20

2. Capitolo – Figli si nasce, genitori si diventa

2.1. Gli stili genitoriali .................................................................................... 22

2.2. Emozioni tra bambini e adulti ............................................................ 27

2.3. I circoli viziosi e i circoli virtuosi delle relazioni ................................. 29

3. Capitolo – L’aiuto del Counseling

3.1. Come e perché ..................................................................................... 33

3.2. La consapevolezza del genitore e il cambiamento del figlio .... 37

3.3. Esperienze a confronto: percorsi di counseling .............................. 39

Conclusioni ............................................................................................................. 42

Appendice

Quando il bambino ha una difficoltà o un ritardo psicomotorio ............... 44

Bibliografia .............................................................................................................. 49

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Introduzione

Ognuno di noi convive tutta la vita con un doppio desiderio:

rispetto alla famiglia il doppio desiderio di appartenere e di individuarsi;

rispetto al proprio sé, di essere autonomi e maturi e di non essere soli.

Whitaker (1989)

Ognuno di noi è figlio.

E ogni bambino che nasce trasforma figli in genitori.

Figli si nasce, genitori si diventa.

Ogni genitore accompagna le fasi di crescita dei propri figli aiutandoli a

raggiungere la loro autonomia con amore, con fatica, con entusiasmo,

a volte con dolore, ma sicuramente cercando di fare il meglio possibile.

Ogni bambino concepito da una coppia la trasforma in famiglia. E

questo piccolo nucleo, racchiuso da un invisibile quanto solido confine,

viene riconosciuto dalle famiglie di origine e dalla società, come luogo

dove saranno trasmessi al nuovo nato gli affetti e le regole per poter

stare al mondo.

Ogni individuo, per divenire padre o madre, deve integrare gli aspetti

delle sue diverse identità precedenti, quelle di bambino, di figlio, di

maschio o di femmina, di adulto sposato e di coniuge, con la nuova

identità genitoriale. Questa nuova identità prende forma e colore con la

nascita del figlio, ma inizia a esistere già nell’immaginario di ciascuno

durante la gravidanza e si disegna definitivamente accompagnando il

piccolo nella crescita. Si trasformano così sia il mondo interiore che le

relazioni dei nuovi genitori. Mamma e papà diventano la base di un

triangolo relazionale il cui vertice è identificato dal nuovo nato. Ciascun

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genitore, essendo anche figlio, ha sviluppato un legame con la propria

madre e il proprio padre e così via; i segmenti che uniscono genitori e

figli si moltiplicano creando una rete intergenerazionale sempre più

complessa che circonda il nuovo cucciolo d’uomo. Inevitabilmente i

nuovi genitori si portano dentro un patrimonio emotivo ricevuto in dote

dai propri genitori e rielaborato nella coppia coniugale, che a loro volta

trasmetteranno, consapevolmente o meno, come eredità affettiva al

piccolo.

Uomini e donne, divenuti genitori, utilizzeranno la capacità affettiva che

hanno coltivato negli anni precedenti per allevare il proprio bambino. Il

rapporto con il piccolo metterà alla prova la qualità e la consistenza

delle loro capacità relazionali.

Ogni figlio esige questi legami di amore e di premure che, giorno dopo

giorno, gli permetteranno di sviluppare le proprie connessioni concettuali

nella mente e le relazioni umane nel mondo reale.

Se mamma e papà hanno capito come ci si rapporta con se stessi e

con gli altri, saranno in grado di donare al proprio figlio una vita psichica

autonoma, aiutandolo a diventare un individuo che sa vivere quei

legami che lo uniscono agli altri esseri umani con quel taglio del

cordone ombelicale che rende tutti figli.

“Prendersi cura di sé per prendersi cura dei figli” è di fondamentale

importanza, come conoscere le necessità e i bisogni propri e del figlio

può essere di sostegno e incoraggiamento.

La crescita umana è fatta di stadi che si ripetono continuamente nel

corso della vita e le diverse fasi di sviluppo dei figli riattivano nei genitori

bisogni e angosce che fanno parte della loro storia evolutiva. A volte

chiedere aiuto quando ci si sente in difficoltà permette di diventare

genitori capaci di prendersi cura di sé e di rispondere in modo

sufficientemente adeguato alle necessità dei figli.

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Essere genitore con successo significa lavorare molto duramente.

Occuparsi di un neonato o di un bambino che fa i primi passi è un lavoro

che impegna 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 alla settimana, e che spesso

crea molte preoccupazioni. Dare tempo e attenzioni ai bambini significa

sacrificare altri interessi e altre attività.

L’intensità dei sentimenti che i genitori provano per un figlio, l’emozione

che sentono per lui quando sorride per la prima volta o quando

comincia a parlare o a leggere, è inimmaginabile finché non la

sperimentano. Tutto ciò comporta tanta pazienza e fatica. Spesso

momenti di frustrazione, delusione e vulnerabilità sono così intensi da

compromettere il vivere quotidiano dei genitori stessi.

Un percorso breve di counseling professionale è in questi casi molto utile

perché i genitori possano ritrovare quegli equilibri che col tempo e con

la fatica dell’accudimento del nuovo nato, vengono compromessi. Le

situazioni non vengono più riconosciute per quello che sono realmente e

si trasformano in momenti di vero e irrimediabile sconforto. Inoltre

accompagnare nelle varie fasi di crescita i figli comporta una

risperimentazione di vissuti personali che possono mettere ulteriormente

in crisi i genitori.

Un confronto con se stessi e con le proprie forze, mediato dall’intervento

di un counselor, può risultare costruttivo e permettere ai nuovi genitori di

vedere in maniera più obiettiva le reazioni emotive e i bisogni personali

al fine di crescere serenamente i propri figli.

Giorgia frequenta la prima elementare, è brava a scuola. Dopo aver

pranzato con la mamma svolge subito i compiti; due pomeriggi alla

settimana frequenta un corso di ginnastica ritmica. Gioca e si diverte

con i suoi giocattoli. Ogni tanto però, fa i capricci e fa i dispetti alla

sua sorellina Anna di 2 anni. “Anna è piccola ma Giorgia è grande

dovrebbe capire……. Ma perché deve far così? Perchè si mette a fare

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i capricci? Non c’è motivo!” Mamma Giulia non ne può più. La

situazione peggiora mese dopo mese e mentre ad Anna viene concesso

tutto perché è “piccola”, a Giorgia viene chiesto sempre più di essere

“grande”; Giorgia allora continua a provocare la mamma per

richiamare la sua attenzione. Accompagnata in un breve percorso

personale Giulia riguarda le situazioni quotidiane e si accorge che

Giorgia è si più grande di Anna…. ma ha solo sei anni! Raccontare le

dinamiche delle due sorelline e ripercorrere i sentimenti che le

provocano, permetteranno a Giulia di ridimensionare le sue

apprensioni e di essere più serena anche nei confronti delle esigenze

di Giorgia che diminuisce fortemente la sua dose di capricci.

Prima, come figli, si è oggetto di cura in una modalità unidirezionale;

attraverso la coppia si sperimenta una modalità reciproca: io mi prendo

cura di te, tu ti prendi cura di me; quando si diventa genitori, si definisce

la nostra capacità di prendersi cura di qualcun altro per sempre.

"Essere radicati in qualcuno per poter mettere radici in un altro con cui

diventare coppia per poi poter offrire ancora ad un altro l'intreccio di

queste radici". Queste le parole di Bertolini e Neri che esprimono con una

splendida immagine, quanto sia complesso e affascinante questo

intreccio che si chiama “ciclo della vita”.

Dalla mia esperienza personale come mamma, attraverso la mia

esperienza professionale nell’ambito di una genitorialità compromessa

dall’handicap, fino agli studi e ai tirocini sperimentati grazie alla scuola di

Counseling Familiare e dell’Età Evolutiva di Gorgonzola, è nato un

profondo interesse sulle tappe evolutiva del “ciclo di vita”, con

particolare attenzione ai passaggi e ai permessi che i piccoli, ma anche

i grandi, necessitano di avere per poter completare il proprio processo di

crescita.

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Il counseling è, in questo ambito, un valido aiuto per imparare a

riconoscere e a riconoscersi quelle “piccole” difficoltà che entrano

inevitabilmente nella relazione tra genitori e figli a più livelli parentali, o

più semplicemente tra generazioni. Il nostro vissuto da figli porta ad una

personale strutturazione di ciascuno come genitore e fa emergere

emozioni a volte contrastanti. Riuscire ad accogliere, elaborare e poi

restituire in maniera pulita queste emozioni ai figli è il percorso che il

counseling può offrire.

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1. Capitolo – I cicli di sviluppo

1.1. Nascita di una madre. E di un padre

Daniel N. Stern, da Nascita di una madre:

«Fino a non molto tempo fa, avevo sempre pensato

che una madre fosse semplicemente una donna con

una responsabilità in più, che le richiedeva azioni e

reazioni nuove.

In realtà ogni neomadre sviluppa un assetto mentale

fondamentalmente diverso da quello che aveva in precedenza ed

entra in un campo dell’esperienza sconosciuto alle non-madri».

Tutti abbiamo un’organizzazione psichica di base, cioè un assetto

mentale. Dopo aver sospinto ai margini la vita mentale preesistente,

l’assetto materno andrà ad occupare con forza l’area centrale della

vita interiore della neomamma e le imprimerà un carattere del tutto

diverso.

Quando una donna si prepara a diventare mamma affronta

un’esperienza che non ha eguali nella vita e per un certo periodo di

tempo il fatto di avere un bambino determinerà i suoi pensieri, le sue

paure o le sue speranze, le sue fantasie; influenzerà le sue emozioni e le

sue azioni e affinerà perfino il suo sistema sensoriale e di elaborazione

delle informazioni.

La precedente organizzazione mentale rimarrà sullo sfondo per un

periodo di tempo variabile. Poi, mano a mano che le parti pratiche della

vita richiederanno di nuovo la sua attenzione, l’assetto materno

retrocederà in secondo piano senza però sparire del tutto, resterà dietro

le quinte e riaffiorerà ogni volta che il figlio avrà bisogno di lei perche è

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ammalato o si è cacciato in qualche guaio, o si trova in pericolo: subito

reagirà come madre indipendentemente dalla sua età.

Con la nascita del bambino la neo-mamma assume un nuovo ruolo

all’interno della famiglia di origine, nonché una posizione chiave nella

successione delle generazioni. Di colpo si inserisce da protagonista nel

flusso della storia del nostro pianeta. La propria identità viene modificata

dallo sguardo degli altri.

Il giorno in cui è nato il figlio diventa il punto di partenza di un nuovo

calendario personale.

C’è poi anche un forte cambiamento nell’ambito sociale.

Diventare madre è un processo in evoluzione che cresce con tempi non

necessariamente uguali per tutte.

Questo processo di trasformazione si può riassumere in tre fasi:

1. nascita fisica La gravidanza e il parto permettono di prepararsi a

diventare madre fisicamente

2. nascita psicologica I mesi successivi al parto portano piano

piano alla nascita di una madre psicologicamente attenta

(L’effettivo accudimento comporta la strutturazione della nuova

identità materna e l’incontro con le responsabilità)

3. nascita sociale e politica Adattamenti necessari

(l’integrazione con il resto della vita: vita matrimoniale e

lavorativa)

Il processo che porta a diventare madre inizia con la gravidanza ma non

ha mai fine. Resterà per sempre parte di sè e sarà ulteriormente

elaborato e trasformato a mano a mano che i figli cresceranno, se ne

andranno di casa, si sposeranno e avranno figli a loro volta.

È importante non dimenticare che, accanto a lei (la madre), c’è un

uomo impegnato a percorrere il cammino che lo porta a diventare

padre. La neomamma deve trovare un modo per assimilare nel

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rapporto di coppia la sua nuova identità materna. Il neo padre deve

dedicarsi a costruirsi un proprio “assetto paterno”. I padri devono

districarsi tra un passato tradizionale e un futuro ancora non ben definito.

Le coppie sviluppano ruoli materni e ruoli paterni assegnando a

ciascuno specifici compiti familiari. Questa divisione di ruoli e di compiti

deriva dalle “credenze culturali genitoriali”.

Una prima grande differenziazione tra modalità organizzative della

famiglia che si viene a creare alla nascita di un figlio è quella tra famiglie

tradizionaliste e famiglie egualitarie, che verranno meglio illustrate nel

secondo capitolo. Entrambe le modalità presentano elementi positivi e

negativi, e sta ai genitori e alla loro volontà di relazionarsi e comunicare

la buona riuscita della nuova vita familiare. Anche la nuova veste dei

genitori, come educatori più consapevoli soprattutto dal punto di vista

pedagogico, porta a una nuova ri-strutturazione del sistema famiglia

che, come tutte le grandi trasformazioni culturali e sociali, presenta le

sue zone d’ombra e vive molte resistenze.

1.2. I sette stadi di Pamela Levin

Quando un bimbo nasce inizia, senza più fermarsi, il suo personale

processo per “diventare grande”. La crescita umana è un ciclo di

sviluppo composto da stadi che cominciano nell’infanzia e si ripetono

continuamente nel corso della vita.

Durante ciascuno di questi stadi, gli individui sperimentano conflitti, si

confrontano con le conseguenze delle proprie azioni, e sviluppano

risorse interne, nella speranza che esse li porteranno ad affrontare con

successo lo stadio successivo.

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Vivere significa confrontarsi quotidianamente con ciò che accade

intorno noi e, soprattutto, confrontarsi con le emozioni delle persone che

interagiscono con noi.

Si può dire che i bambini nascono in una posizione fondamentalmente

sana, e, incontrando genitori che manifestano un atteggiamento

positivo e accogliente verso se stessi e verso gli altri, possono crescere in

maniera sana.

Per incoraggiare i genitori nel difficile compito di allevare i propri figli e

per ridurre le loro frustrazioni è importante renderli consapevoli dei

bisogni, che nelle diverse fasi evolutive, sperimentano insieme ai figli. È

importante che i genitori prestino attenzione ai propri bisogni per poter

avere le energie e le disponibilità necessarie per prendersi cura dei

propri figli.

Educare i bambini implica insegnare loro a usare il proprio pensiero, le

proprie emozioni e il proprio comportamento, in modo che siano

responsabili di se stessi e sappiano risolvere i problemi che, di volta in

volta, si troveranno ad affrontare.

Se i genitori si prendono buona cura di sé, sono capaci di aver cura dei

propri bambini; e, in questo modo, i bambini avranno un modello su cui

fare riferimento nel prendersi cura di se stessi.

Pamela Levin sostiene che, a partire dall’infanzia, si viene per la prima

volta, a contatto con la struttura dei primi sei stadi di sviluppo e che

successivamente si risperimenteranno (settimo stadio) attraverso le

situazioni che si incontreranno durante tutta la propria esistenza.

Essere genitori fa ritornare, come in un “flash-back” ai bisogni e alle

angosce che caratterizzano la fase evolutiva del proprio bambino e

questo può essere doloroso. Ma se i genitori, essendo oggi persone

adulte, riconoscono questi bisogni per quello che sono, possono

riaffrontare certi problemi che non hanno risolto a suo tempo in maniera

soddisfacente, e trovare una soluzione più adeguata.

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Ogni ciclo di sviluppo è una tappa evolutiva che prosegue per tutto

l’arco della vita; durante ciascuno dei sette stadi di sviluppo primari e

della loro risperimentazione nascono dei conflitti che portano alla

definizione di risorse che servono a sviluppare potere e abilità e, di

conseguenza, a rafforzare l’autostima.

Il libro "I cicli dell'identità" di Pamela Levin si chiude con una citazione di

un pensiero di un indiano pellerossa; citazione che ci ricorda che tutti i

fenomeni della natura sono ciclici:

«Le cose cambiano, poi ritornano al loro inizio. Al pari dei cicli che

percorrono il sole e la luna, il cielo, i corpi degli uomini e degli animali, i

nidi degli uccelli, i giorni e le stagioni, tutto ritorna in un cerchio. Il

giovane diviene vecchio, e dal vecchio il giovane nasce e cresce. E' il

cammino scelto dal Grande Spirito".

Sacajawa, Guida indiana Shoshoni della spedizione Lewis e Clark.

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L'esperienza della vita quotidiana ci insegna che non tutte le persone

completano in modo produttivo le varie tappe e fasi della loro esistenza

Possono infatti scontrarsi, in modo inconsapevole, al di fuori della loro

coscienza, con messaggi che sabotano la propria crescita.

1.3. Passaggi e permessi per i genitori

Generalmente il mondo interno dei genitori, ovvero le sensazioni e le

emozioni, guida le loro interazioni con il bambino quando si tratta sia di

nutrirlo, di giocare con lui, sia di accompagnarlo nei passaggi importanti

del suo percorso di vita.

Spesso il disagio per i genitori nell’educazione dei figli è la scarsa

conoscenza che hanno di se stessi e del figlio che stanno allevando.

Provare a conoscere (e a ri-conoscersi) le necessità e i bisogni propri e

del figlio può essere di sostegno e incoraggiamento.

J. Clarke (1978) esplicita chiaramente, in una sua affermazione, i principi

da cui partire per poi poter migliorare i nostri pensieri e di conseguenza

le nostre azioni:

«I tuoi genitori hanno fatto il meglio che potevano. Tu come

genitore hai fatto il meglio che potevi. Se vuoi ora puoi usare

questi nuovi strumenti; non è mai troppo tardi per

cominciare».

Nella crescita umana interviene un insieme di importanti fattori

individuali che accompagnano in maniera univoca ciascun individuo:

unicità del figlio e suo personale modo di rispondere agli stimoli

unicità dei genitori, che si pongono di fronte al bambino con il loro

peculiare modo di essere

unicità della loro interazione, dovuta al particolare incontro di quel

determinato bambino con quei genitori.

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Il processo di crescita è, di fatto, molto complesso; non è solo

un’interazione di causa-effetto (“se attiverò questo comportamento,

otterrò questa reazione”). I comportamenti, gli atteggiamenti e i

messaggi che i genitori possono dare a se stessi e ai figli sono molto

importanti e sono diversi a seconda della tappa evolutiva che si sta

attraversando. Per questo motivo una coppia può ritrovarsi a dover

chiedere aiuto in una specifica fase della sua crescita per diventare

genitori sempre più consapevoli.

A volte si mettono in atto dei comportamenti con i figli che portano a

conflitti; essendo coinvolti nella situazione anche con la propria

emotività, i genitori non riescono a rivedere da soli le dinamiche che

hanno portato allo scontro. Rielaborare le ciò che succede attraverso

l’aiuto di una persona esterna al conflitto può essere utile per trovare un

nuovo modo di affrontare la situazione. Qualche volta può bastare

parlarne con una amica con figli un po’ più grandi dei propri, che ha già

affrontato la stessa situazione. Ma non sempre è sufficiente; perciò

rivolgersi allo sportello pedagogico della scuola o ad un counselor,

facendo qualche incontro per capire meglio cosa sta succedendo e

cosa si sta provando, può essere importante.

È bene prestare attenzione alle caratteristiche specifiche di ogni tappa

evolutiva, ai comportamenti che aiutano i bambini ad attraversare

quella determinata fase e comprendere alcuni possibili problemi,

evidenziando quali interventi possano avere effetto positivo sulla

crescita. Inoltre, riconoscere i permessi che gli adulti hanno necessità di

dare a se stessi e i bisogni che è importante che soddisfino, fa in modo

che i genitori siano in grado di avere cura dei propri figli nel momento in

cui risperimenteranno, insieme ai figli stessi, quel determinato stadio di

sviluppo.

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Un esempio: primo tra tutti i permessi che è necessario dare ai propri figli

e che è necessario riconoscersi anche come genitori è il permesso di

esistere.

Il bambino, per ottenerlo, non deve guadagnarselo ne deve mettersi

nella condizione di dover gratificare qualcuno per sentirsi accettato. E

questo vale anche per i genitori.

E ancora, come si può altrimenti aiutare qualcuno, in primo luogo la

propria prole, a crescere, a esistere, a imparare a sentirsi competente se

non si è in grado di darsi la possibilità di esserlo noi stessi?

“Tu sei competente”. È un messaggio da inviare a ogni età; dire al

bambino che è bravo perché ha imparato a richiamare l’attenzione

dell’adulto piangendo quando è bagnato, complimentarsi con lui

perché ha scelto i giocattoli che vuole portarsi in macchina, lodare il

figlio maggiorenne che ha superato l’esame per la patente sono

messaggi fondamentali per i nostri figli. Per poterli passare a loro, i

genitori devono però averli ricevuti a loro volta: se questo non è

successo, quando erano piccoli, è utile che imparino a riconoscerseli da

adulti, anche con l’aiuto di qualcuno che gli permetta di rielaborarli.

Elemento fondamentale perché i genitori possano acquisire un metodo

per risolvere i problemi che si trovano ad affrontare nell’allevare i figli è

avere una buona autostima personale, affinché possano poi

trasmetterla ai figli.

L’autostima può essere definita come un:

insieme di atteggiamenti che una persona ha verso se stessa e

verso gli altri, atteggiamenti che comprendono: l’accettazione

delle proprie competenze e dei propri limiti, la capacità di

gestire e utilizzare le regole sociali in modo flessibile, il

riconoscimento dei propri diritti e le capacità di agire

assertivamente, sapendo gestire in modo efficace le critiche.

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(Assertività: capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie

emozioni e opinioni senza tuttavia offendere né aggredire l'interlocutore)

L'autostima permette alle persone che la sperimentano di sentirsi

fiduciose delle proprie competenze, capaci di prendersi cura di se stessi

e degli altri senza, per questo, danneggiarli o prevaricarli, imponendo

loro la propria personalità.

Importante è non confondere l’autostima con l’egocentrismo, con la

spavalderia o con sentimenti di superiorità che, al contrario, sono

modalità che nascono da una negativa considerazione di sè.

1.4. Passaggi e permessi per i figli

Conoscere cosa succede ai propri figli durante le varie tappe di sviluppo

permette ai genitori di essere più consapevoli dei bisogni e dei permessi

che i bambini hanno necessità di soddisfare.

Appena nati, ossia durante la prima tappa evolutiva, i bambini hanno

bisogno fondamentalmente di esistere: di essere riconosciuti come

persone degne d’amore indipendentemente da quello che fanno. Nel

secondo stadio, fino a circa 24 mesi, si passa dall’essere al fare, al

bisogno di conoscere, esplorare. “Puoi fare le cose in modo autonomo e

allo stesso tempo ricevere sostegno e protezione, mi piace che prendi

iniziative, esplori e sperimenti cose nuove, puoi essere curioso e intuitivo”:

questi sono i permessi che i genitori devono concedere ai propri figli in

questa fase. Inizia poi lo stadio della prima separazione, che dura fino a

circa i tre anni. “Sono contento che tu sperimenti ed esamini le cose,

che scopri le tue capacità e i tuoi limiti; sono contento che tu stia

crescendo; puoi pensare con la tua testa, puoi avere idee diverse dalle

mie e fare le tue scelte; sono contento che ti separi da me”: questi sono

alcuni dei permessi che porteranno il bambino alle prime autonomie

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che sperimenterà in maniera pratiche durante il periodo prescolare. Il

quarto stadio, che corrisponde al periodo della scuola dell’infanzia, è il

periodo della socializzazione e della costruzione della propria identità.

Quando finalmente il bambino ha capito che può separarsi dai genitori,

perché quando torna a casa è sicuro di ritrovarli, può affrontare

serenamente il mondo esterno e cominciare il proprio cammino verso

l’autonomia. Ecco alcuni permessi da dare ai figli in questo stadio: “puoi

essere grande (potente) e avere ugualmente dei bisogni da soddisfare;

non è necessario che ti senta male, impaurito, triste o arrabbiato per

ottenere che io mi prenda cura di te e ti presti attenzioni; puoi renderti

conto delle conseguenze dei tuoi comportamenti; puoi scoprire come

sei fatto: le persone vanno bene comunque, maschi o femmine che

siano”. Dai sette anni si passa al quinto stadio, lo stadio dell’attività

creativa, della costruzione e della competenza, che si sviluppa durante il

periodo della scuola primaria. In questa fase è necessario fare in modo

che possa avere i seguenti permessi: “puoi pensare prima di fare

diventare tua una regola; puoi farcela; puoi scoprire un tuo modo di fare

le cose; fidati delle tue sensazioni e dei tuoi sentimenti”.

Ultimo stadio, il sesto, ovvero il compimento della prima sperimentazione

dei cicli di sviluppo: lo stadio dell’adolescenza o della separazione. È lo

stadio che permette di diventare adulti, di esistere separatamente dai

genitori pur sapendo che i genitori potranno comunque darci una

mano, perche “puoi essere una persona grande e avere ancora dei

bisogni”.

È comprensibile che sia necessario aver concluso nel migliore dei modi

ciascuna tappa evolutiva per affrontare la successiva, e, per i genitori,

riconoscersi determinati permessi per poterli concedere ai propri figli.

Dai 19 anni si risperimentano durante tutto il ciclo della vita, alcune

situazioni che ci portano a stimolare nuovamente quei bisogni e a

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richiedere quei permessi, che se precedentemente non abbiamo

soddisfatto, possiamo in ogni momento riprendere e rielaborare. Il

counseling interviene efficacemente nei momenti critici di passaggio

durante la crescita dei figli, permettendo ai genitori di rielaborare la

propria fatica con uno sguardo ai figli che crescono da una parte, ma

anche e soprattutto ai propri bisogni personali dall’altra.

Mamma- Io ieri sera alle otto e mezza sono andata in camera, ero

stanchissima! Mattia piangeva, perché voleva la mamma ma io non ce

l’ho fatta!

Counselor- Eri molto stanca e avevi bisogno di staccare ….

Mamma- Si non stavo in piedi. E questi momenti da sola mi aiutano.

Prima mi sentivo in colpa, ma adesso no. Ho fatto luce su questo

aspetto: non è che lo lascio da solo, è con suo papà e suo fratello. E io

riesco a riposare

Counselor- Non l’hai abbandonato! Hai solo dedicato un po’ di tempo

al tuo bisogno di riposare.

Mamma- Proprio così. E ora ho capito che questo è importante,

perché mi fa stare meglio e se sto bene riesco a non arrabbiarmi

sempre coi miei figli perché sono troppo stanca!

Questo piccolo stralcio di colloquio, sembra trattare un tema banale: la

stanchezza di una madre che accudisce due figli piccoli. Ma se la

mamma non riconosce il suo bisogno di riposo e non si dà il permesso di

ritagliarsi quella mezzora in più di sonno per rigenerarsi, potrebbe

ritrovarsi in una situazione sempre più faticosa, compromettendo in

maniera più complessa la relazione col suo bambino. Non sentirsi in

colpa di avere un bisogno, è fondamentale.

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Se gli adulti riconoscono i propri bisogni e trovano delle strategie per

risolvere i problemi che questi bisogni comportano, avranno la capacità

di riconoscere anche i bisogni dei propri figli durante le loro fasi di

crescita, e troveranno il modo di non giudicarli e di aiutarli a crescere

attraversando i conflitti che si creeranno in maniera costruttiva.

1.5. Dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria

La scuola dell’infanzia ha ancora l’aspetto di una famiglia, ma allo

stesso tempo è già una scuola, e rappresenta per molti bambini il

“tirocinio” alla vita di società. Le maestre seguono i bambini con affetto

e competenza, facendo particolare attenzione alla personalità di

ciascuno, però ci sono già orari, regole e un minimo di disciplina da

rispettare. Preparare un bambino alla scuola dell’infanzia significa

innanzi tutto favorire la sua indipendenza e la sua autonomia.

L’ingresso nella prima classe della primaria è, se vogliamo, un momento

ancora più carico di emozioni. La qualità delle relazioni familiari influenza

notevolmente il loro adattamento scolastico, la loro capacità di

ambientarsi in classe, di superare i primi ostacoli e integrarsi con i

compagni.

Il compito dei familiari è quello di ascoltare, sostenere, rassicurare,

mostrarsi sereni, rilassati e fiduciosi, senza voler negare che il primo

impatto con la realtà scolastica sia un passaggio delicato. Per fare

questo occorre che i genitori possano esplicitare le proprie ansie e i

propri dubbi per poterseli riconoscere e quindi elaborare.

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Non si può passare i permessi ai bambini se non si passano a

noi stessi. È sempre possibile darsi dei permessi

Se un genitore è felice e disteso (anche se

occupatissimo), il suo amore saprà espandersi e

moltiplicarsi. Come i bambini hanno dei bisogni

anche gli adulti ne hanno e per soddisfare quelli

dei loro figli, è importante che si occupino dei

loro, che si nutrono per poter nutrire, che si

prendono cura di sé, per poter prendersi cura dei figli. il rischio è che se

ciò non avviene si sviluppino meccanismi o dinamiche intrafamiliari che

possono portare anche a situazioni patologiche.

Interventi di counseling individuale, di coppia o di gruppo, permettono

di risistemare, in maniera preventiva, i sensi di colpa, individuare le

necessità che non vogliamo riconoscerci perché culturalmente

considerate dei tabù, riappropriarci dei permessi che forse non abbiamo

avuto ma che non potremmo concedere ai nostri figli se non li facciamo

propri.

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2. Capitolo - Figli si nasce, genitori si

diventa

2.1. Gli stili genitoriali

Genitori: tradizionalisti ed egualitari

In modo naturale madri e padri tendono automaticamente a decidere

chi si occupa del bagnetto o del bucato, degli appuntamenti col

pediatra o dell’alzata notturna per il pasto, a seconda della realtà

culturale in cui sono a loro volta vissuti. Ci sono due grandi “categorie” in

cui i genitori si identificano: i tradizionalisti e gli egualitari. In varie

modalità si sovrappongono, ma sotto molti aspetti sono modi molto

diversi di vivere la genitorialità.

Nell’organizzazione tradizionale, il padre dà per scontato che sia la

madre a occuparsi completamente delle cure del bambino. A volte

condivide il lavoro della sua compagna, ma lo fa per aiutarla e non

perché senta che sia un suo ruolo preciso nei confronti del piccolo. Il

papà è quindi colui che può creare una rete di supporto, che possa

essere una sorta di protezione di quell’area franca dove la mamma

possa imparare ad aver cura del piccolo.

Il padre non è immediatamente coinvolto nella sopravvivenza del

piccolo e la madre sente piano piano, sempre più, la responsabilità di

tenere in piedi la famiglia.

In questa situazione nascono alcuni atteggiamenti in contrapposizione:

la mamma non capisce come il proprio marito possa rivolgersi verso

l’esterno in una fase così delicata, e il marito non capisce come la

mamma sia così costantemente coinvolta dal nuovo arrivato.

Il padre dedica al figlio meno tempo rispetto alla mamma, soprattutto

nel momento del gioco, e il suo livello di tolleranza è limitata; e se

costretto a restare col piccolo potrebbe addirittura irritarsi. Anche le

mamme si irritano, ma in questo modello tradizionale di accudimento il

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padre passa il compito alla moglie, indipendentemente dal livello di

irritazione di quest’ultima.

È proprio su questo punto che, a volte, si innescano le fatiche coniugali

durante i primi anni di vita dei figli. Il cambiamento deve avvenire a

livello culturale: gli schemi acquisiti sono quelli che spingono bambini e

uomini da una parte a occuparsi del mondo esterno, e bambine e

donne ad occuparsi di quello interiore.

Il padre sente come suo compito non tanto la cura vera del figlio

quanto il fatto di insegnargli qualcosa, di introdurlo nel mondo in

generale, campo dove si sente più a suo agio e ha maggiore sicurezza.

Nella società contemporanea, molti uomini riconoscono i cambiamenti

avvenuti nei ruoli genitoriali, anche se non sono ancora in grado di

metterli in pratica in maniera costante. I problemi nascono quando tra

uomo e donna non c’è accordo circa la natura del matrimonio e i

rispettivi ruoli. Quando la moglie comincia a riesaminare il marito sulla

base della sua idoneità come padre, potrebbe mettere in pericolo il loro

rapporto di coppia. A questo punto può essere necessario un aiuto per

riprendere in mano situazioni che altrimenti potrebbero avere delle

conseguenze importanti sulla vita futura della famiglia.

Il modello tradizionale ha comunque i suoi vantaggi, a patto che madre

e padre, che svolgono ruoli differenti ma complementari, siano

d’accordo e continuino, serenamente, il loro legame di intimità.

Un numero crescente di coppie, oggi, crede nell’importanza di

condividere le cure del bambino e la maggior parte degli aspetti della

vita familiare. I fattori fondamentali che alimentano la spinta verso il

matrimonio egualitario sono principalmente tre: entrambi i genitori

lavorano a tempo pieno per mantenere la famiglia; l’ideologia

femminista, che ha portato una rivoluzione culturale; e la famiglia

sempre più mononucleare dove i ruoli di nonni, zii, fratelli e sorelle sono

sempre meno presenti.

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Anche questo tipo di cogenitorialità non è comunque sempre la

soluzione perfetta: condividere tutti i compiti che l’accudire un bambino

comporta è più facile pensarlo che metterlo in pratica, poiché non si

riesce sempre a dividere le cose perfettamente a metà. La reciproca

verifica sullo svolgimento dei propri compiti, la concorrenza in cui si

entra, a volte, rischiando sentimenti di gelosia, quando un genitore ha

l’impressione che il bambino si trovi meglio con l’altro, possono portare a

conflitti all’interno della coppia.

Una cosa è chiara: i modelli di famiglia stanno cambiando, e non è

facile districarsi in nuove situazioni e nuovi ruoli.

Genitori che educano

I genitori hanno un ruolo educativo da sempre. La novità storica del

nostro tempo è quella dei genitori che vogliono prendersi cura dei figli,

nella ricerca della migliore educazione possibile. I valori contenuti nella

Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia del 1989 portano,

anch’essi, una trasformazione sostanziale nel rapporto genitori-figli,

basata sul rispetto dei bisogni infantili, sulla non violenza e sull’ascolto.

Oggi i genitori sono più sensibili ai contenuti pedagogici. Alla nascita di

un figlio fanno, infatti, maggiore riferimento a libri ed esperti, piuttosto

che a mamma o papà, o ai nonni. Manca però, a livello sociale, il

sostegno dato dalla condivisione tra famiglie di un atteggiamento da

mantenere con i figli sotto il profilo educativo, e di una condivisione delle

fatiche e dei rischi di cui i genitori si devono far carico per far crescere i

propri figli. In questa situazione la famiglia si è abituata a privatizzare

fortemente l’educazione e quando è costretta a delegarla alle diverse

istituzioni preposte, tende ad assumere un atteggiamento di forte

controllo, al punto che le situazioni di attrito e conflitto tra genitori e

insegnanti sono all’ordine del giorno.

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Questo cambiamento, come tutte le grandi trasformazioni culturali e

sociali, ha bisogno di tempo per emergere ed essere consolidato in

maniera costruttiva.

Oggi siamo quindi in una fase di transizione. La famiglia contadina dove

il figlio era considerato una risorsa, o la famiglia borghese, che si

fondava sulla formalità, dove il figlio doveva onorare e garantire la

discendenza genealogica della famiglia, sono ben lontane dalle

famiglie di oggi. A partire dagli anni cinquanta-settanta la famiglia si

trasforma, fondandosi sull’innamoramento e sulla reciprocità

sentimentale, dove gli unici responsabili sono gli sposi, essa tende a

nuclearizzarsi, creando un’armonia dove gli affetti sono l’elemento

centrale.

La famiglia nucleare di oggi è una vera e propria novità storica, nella

quale si cerca un rapporto diverso con i figli e una relazione

comunicativa più profonda, basata sull’ascolto dei bisogni reali.

Inoltre, le condizioni sociali e culturali sono radicalmente cambiate negli

ultimi 40 anni; la bassa natalità ha portato, come conseguenza, una

proiezione del proprio bisogno di amore sull’unico figlio, che farà fatica

a crescere e ad allontanarsi dal nucleo familiare originario.

Tutti questi cambiamenti portano al passaggio dalla famiglia normativa

alla famiglia affettiva.

La cultura genitoriale dei nostri giorni vive la difficoltà che nasce da

un’interpretazione in senso iperprotettivo del ruolo affettivo-relazionale. È

un’interpretazione legittima, ma non meno pericolosa di quella

autoritaria, poiché nasconde il rischio di un eccesso di controllo e di un

blocco del processo psicoevolutivo. L’essere guidati è, per i figli, una

necessità imprescindibile, che ha una sua evoluzione specifica. Il

processo che conduce a liberarsi dalle figure guida (la cosiddetta

ribellione adolescenziale) è fondamentale per potersi assumere la

propria autonomia.

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Cosa si può fare

Il temine latino “educazione” significa tirare fuori, cioè lavorare sulla

creatività, su un’identità positiva, ricca di risorse e potenzialità da

sviluppare.

Ciò che manca ai figli è l’ascolto da parte dei genitori.

L’ascolto offerto dal genitore serve a creare quella distanza emotiva

che favorisce la capacità del figlio di sviluppare la propria autonomia, il

proprio essere persona originale, separata dal destino dei genitori. Si

tratta di porsi nella relazione con un atteggiamento di profondo rispetto,

includendo anche la dimensione conflittuale che, inevitabilmente, si

origina con la nascita di un nuovo individuo all’interno di un contesto

familiare.

Spegnere la televisione e stare assieme. In casa, ai giardini, con altre

famiglie.

La migliore protezione che possiamo offrire ai bambini è favorire la loro

crescita, l’incontro vitale con la realtà e con gli altri, l’esperienza della

vita. I bambini hanno bisogno di rischiare, di sfidare se stessi e mettersi

alla prova; solo in questo modo potranno varcare la soglia dell’infanzia

al momento giusto. Non si deve temere se questo procura loro anche

sofferenze o frustrazioni: la paura è quella che rimangano, piuttosto, ai

margini della vita, soffocati dalla abilità adulta di programmare tutto,

anche per loro.

Uno degli strumenti principali che la famiglia educativa ha a disposizione

per attuare il proprio scopo, ovvero quello di dare una buona

educazione ai propri figli aiutandoli a crescere come persone autonome

e ben individuate, sono le regole. Si può definire la regola come quella

mappa di orientamento che i genitori consegnano ai figli per insegnare

loro a gestire la propria vita in condizioni di libertà. La regola non

struttura necessariamente i rapporti sociali, ma li regolamenta

garantendone il buon funzionamento.

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2.2. Emozioni tra bambini e adulti

Sappiamo bene cosa sono le emozioni, e gli scienziati ci stanno dando

continuamente supporti scientifici su cui riflettere ulteriormente. Tutti

abbiamo provato amore e odio, rabbia e gioia. Quello che affascina e

incuriosisce è cosa lega stati mentali come questi al groviglio che

chiamiamo “emozioni”, che cosa rende tanto diverse queste ultime da

altri fenomeni mentali per i quali non usiamo questo nome, e come

fanno ad influenzare le percezioni, i ricordi, i pensieri e i sogni. A volte

non si riesce a comprendere se è la persona a controllarle o sono loro a

controllare le persone.

Le emozioni sono delle funzioni biologiche del sistema nervoso e sono

rappresentate nel cervello. È decisamente diverso considerarle come

semplici stati psicologici, indipendenti dai meccanismi cerebrali

sottostanti. Le ricerche psicologiche sono preziosissime, ma studiare le

emozioni in quanto funzioni cerebrali porta molto più lontano.

Oggi, i meccanismi cerebrali delle emozioni presentano una base

scientifica che permette di capire meglio cosa siano, come operino e

perché abbiano tanta influenza sulla vita di ciascuno.

Le emozioni sono “percezioni” che capitano e che non possono venire

generate a comando. Quello che si può fare è predisporre delle

situazioni esterne che portino degli stimoli capaci di innescare

automaticamente delle emozioni. In altre parole, è possibile creare non

delle emozioni, ma delle situazioni in grado di modularle. Non si ha quasi

nessun controllo diretto sulle risposte emotive. Inoltre, le emozioni, una

volta che sono state provate, diventano il movente di comportamenti

futuri e, a volte, possono mettere nei guai. Quando la paura diventa

ansia, il desiderio lascia il posto all’avidità, o il fastidio alla rabbia, la

rabbia all’odio, l’amicizia all’invidia, l’amore all’ossessione o il piacere a

una forma di dipendenza, le emozioni cominciano a remare contro. Ci

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vuole igiene emotiva per conservare la salute mentale. Le emozioni

possono avere conseguenze utili ma anche patologiche.

Le interazioni emozionali tra genitori e figli sono della massima

importanza. Crescere figli emotivamente intelligenti è, oggi più che mai,

di importanza vitale, proprio per le diverse situazioni familiari che si

creano connesse ai conflitti di coppia e ai divorzi, alla stimolazione

multimediale e di gruppo, sempre più precoce, dei ragazzi di oggi. Una

buona educazione dei figli comincia dal cuore dei genitori e continua,

momento per momento, nello stare vicini ai figli quando la tensione

emotiva cresce, quando essi sono tristi, arrabbiati o spaventati. L’essenza

dell’essere genitori consiste nell’essere presenti in un modo particolare,

quando, soprattutto, conta davvero.

Di fronte a un conflitto i genitori non necessitano della sola intelligenza;

l’essere buoni genitori implica l’emozione. Questa implicazione

comporta,però, una relazione con i figli dove anche i genitori non

rinneghino i propri sentimenti e accolgano l’emozione del figlio senza

cercare di distrarre la sua attenzione dal sentimento, né rimproverandolo

per il fatto di provarlo.

Gottman definisce 5 fasi attraverso le quali avviene il processo che

permette al genitore di accogliere le emozioni del figlio e i

comportamenti che queste emozioni comportano:

quando il genitore

1. diventa consapevole dell’emozione del bambino

2. riconosce in quella emozione un’oppportunità di intimità e

insegnamento

3. ascolta con empatia e convalida i sentimenti del bambino

4. aiuta il bambino a trovare le parole per definire le emozioni che

sta provando

5. pone limiti, mentre esplora strategie per risolvere il problema in

questione

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Fondamentale per i figli sono il rispetto e la considerazione da parte dei

genitori, che non significa che non ci saranno più momenti di fatica o

sentimenti offesi, tristezza o stress. Il conflitto è un fatto normale all’interno

della vita famigliare.

Cominciare ad interrogarsi sulle proprie reazioni ai sentimenti negativi dei

figli, a partire dall’età prescolare, (quando cominciano davvero a

nascere i primi veri conflitti) è importante.

Infatti, abbiamo ereditato per tradizione una tendenza a svalutare i

sentimenti dei bambini soltanto perché questi ultimi sono più piccoli.

Prendere sul serio le loro emozioni non è facile, perché significa riuscire a

guardare le cose dalla loro prospettiva.

Questo non implica essere genitori permissivi, dando ai figli ragione

qualunque cosa facciano. Differenziandosi dai genitori autoritari, che

hanno la caratteristica di imporre molti limiti e di aspettarsi

un’obbedienza rigorosa anche senza dare spiegazioni, essere dei

genitori autorevoli significa porre dei limiti più flessibili, fornendo ai figli

spiegazioni e molto affetto.

Tutte queste considerazioni sono frutto di studi che recentemente hanno

dimostrato che praticare forme positive di disciplina durante la crescita

dei figli, lodarli più che criticarli, premiarli più che punirli, incoraggiarli più

che scoraggiarli, permette loro di crescere più serenamente e con

un’intelligenza emotiva più spiccata.

2.3. I circoli viziosi e i circoli virtuosi delle relazioni

La presenza dei genitori, le prime figure con cui il piccolo entra in

contatto alla nascita, è fondamentale, perché consente al bambino di

comprendere la differenza tra mondo esterno e interiore. Inoltre i genitori

sono un modello per la costruzione del rapporto con gli altri.

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I bambini piccoli tendono a collegare le emozioni a situazioni ed eventi

concreti; per esempio, la gioia può essere ricondotta ai baci e alle

coccole dei genitori, la tristezza alle punizioni, la rabbia ai dispetti degli

altri bambini e la paura ai ladri, al buio, al temporale (paure molto

frequenti nei piccoli).

Crescendo, i bambini arrivano a comprendere sempre di più i propri stati

d’animo e quelli altrui e, intorno ai sei anni, riescono a mascherare le

proprie emozioni, manifestando quello che gli altri si aspettano da loro.

È necessario che i genitori insegnino ai figli a riconoscere cosa provano a

livello emotivo.

Occorre, innanzitutto, che i genitori, per primi, siano consapevoli delle

proprie emozioni: solo una buona conoscenza di se stessi può aiutare a

comprendere gli aspetti emotivi dei propri figli. È fondamentale

riconoscere il fatto di provarle e identificare correttamente i propri

sentimenti.

Successivamente, è possibile ascoltare con empatia i sentimenti del

bambino: i bisogni del figlio (paure, timori, preoccupazioni) vanno

accolti con attenzione, interesse e comprensione. I bimbi, anche piccoli,

hanno spesso molto da dire, ma non sempre vengono ascoltati.

Accogliere quello che dicono, non significa registrare solo il dato

comunicato, ma riflettere insieme, provando a porsi nella loro

prospettiva e a condividere i loro vissuti. In questo modo si aiuta il

bambino a trovare le parole per definire le emozioni che prova. Ogni

emozione ha un nome ben preciso. Imparare a nominarle significa

incominciare a riconoscerle, a distinguerle e a padroneggiarle in modo

più consapevole.

È importante riconoscere al bambino la sua capacità di capire cosa gli

succede di fronte ad una precisa situazione. La presentazione di un

problema del figlio (per esempio, la paura del buio o del temporale)

porta spesso i genitori ad attivarsi alla ricerca di diverse soluzioni, nel

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tentativo di risolverlo completamente. Il rischio che si corre è però quello

di sostituirsi completamente al piccolo. Essendo, però, lui il padrone delle

sue emozioni e del suo modo di essere e pensare, va supportato,

aiutato, accompagnato e non escluso dalla risoluzione del problema.

E’ importante verbalizzare l’emozione, darle un

nome e aiutare il bambino a esprimerla. Parlare

delle emozioni aiuta a gestirle. Con lo sviluppo

delle sue capacità verbali, il bimbo si dota di

uno strumento in più per gestire la propria

emotività. È per questo che, in genere, è così difficile per un bimbo in

età prescolare gestire rabbia, pianto ma anche le emozioni positive.

E’ importante riconoscere l’emozione del bambino: mai negarla o

minimizzarla:

“Non arrabbiarti!” – reazione: “come faccio a non arrabbiarmi? Mi

arrabbio ancora di più, non riesco a non arrabbiarmi”

“Non essere arrabbiato!” – viene letto come: “non ESSERE te stesso”

“Non è niente, cosa vuoi che sia?” - reazione: “per me è tutto, per

me è importante!”

Queste risposte fanno sì che il bambino non si senta compreso,

accettato, aiutato.

Piuttosto è meglio spiegare i motivi per cui il

comportamento non è accettabile e trovare

insieme una soluzione e suggerire alternative, vie di

mezzo, proporre un premio per il comportamento

richiesto (rinforzo positivo).

“Vedo che sei arrabbiato. Ti capisco, ma se ti

comporti così puoi farti male o fare male a qualcun altro …. cosa

possiamo fare per riuscire a giocare insieme?”

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Solo dopo che il bambino ha espresso (come sa e come può) la sua

emozione e si è sentito compreso (e non negato), può calmarsi e

affrontare il discorso sul piano razionale.

Inutile tentare di controllare l’emozione con la logica finché l’emozione

è forte; è difficile per gli adulti, “figurarsi” per i bimbi. E’ una questione

fisica, neurologica. Le neuroscienze hanno portato una spiegazione

scientifica: il lobo frontale che controlla le emozioni finisce di svilupparsi

solo dopo l’età di dieci anni.

Non è necessario sforzarsi di interpretare o capire il

moto emotivo del bimbo.

E’ molto più importante riconoscerlo e far sapere al

bimbo che l’abbiamo recepito.

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3. Capitolo - L’aiuto del counseling

3.1. Come e perché

Il difficile compito di far crescere i figli verso

l’autonomia comporta dei passaggi inevitabili e a

volte dolorosi, che i genitori devono imparare ad

affrontare. Accogliere gli inevitabili conflitti – fra

genitori stessi, con i figli e con gli insegnanti – e

trasformarli in occasioni arricchenti, di conoscenza reciproca, è una

parte necessaria di questo percorso. È importante distinguere una regola

da una punizione, e riconoscerne l’importanza e il senso educativo nella

chiarezza della comunicazione e nella sostenibilità personale. È

importante capire che una regola per esser educativa deve essere

concordata e condivisa, e che i figli ne hanno assoluto bisogno, come di

un argine, di un confine di sicurezza.

I genitori devono essere consapevoli che un rapporto piacevole non è la

cosa più importante; può andar bene nella relazione con i nonni e con

gli amici, ma il genitore non è semplicemente un amico. Fare resistenza

per insegnare ai figli come conquistarsi la vita può essere faticoso, ma

dà soddisfazione e consente loro di imparare a vivere anche senza

genitori.

Bisogna provare a coniugare l’educazione alla felicità, i conflitti con la

crescita, la fatica con l’autonomia.

Quando il rapporto educativo non è adeguato alle necessità evolutive

dei bambini, questi ultimi finiscono per presentare sintomi psicofisici,

comportamentali ed emotivi che preoccupano come vere malattie.

I genitori di oggi, per acquisire la compiacenza del figlio ed evitare di

vivere situazioni di tensione, interpretano il proprio ruolo in senso

prevalentemente gradevole e affettuoso, e si impegnano più nel

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convincerlo che nell’educarlo. Inoltre, le figure che la società

tradizionale offriva a sostegno delle famiglie – nonne, zii,, vicini di casa,

ecc – sono quasi completamente scomparse, e si vive sempre piu isolati

nelle proprie mura domestiche. La figura dell’adulto si è via via

stemperata in un ruolo di eterno giovane, assumendo un esclusivo

riferimento affettivo; i genitori trascurano il dovere di essere punti di

riferimento sicuri, stabili, continuativi, in grado di garantire un

attaccamento primario nel primo anno di vita del bambino e la

capacità di stare al mondo negli anni successivi. La chiarezza delle

regole educative e una giusta distanza relazionale sono fondamentali

per il benessere dei bambini.

I genitori tendono a vivere i figli in una dimensione emotiva: l’obiettivo

della relazione con i figli è quello di star bene insieme, vivere belle

emozioni, creare una dimensione affettiva positiva. il bisogno dei genitori

è quindi quello di realizzare se stessi: avere una famiglia felice.

Il bisogno dei figli è, piuttosto, quello di

crescere e di essere accompagnati verso

l’autonomia, ed è prioritario rispetto a quello

di star bene con i propri genitori.

Alcuni elementi interferiscono profondamente e compromettono

l’impostazione educativa della relazione.

La paura di ferire, che deriva dai fantasmi di origine

autobiografica legati a sofferenze presunte o reali vissute nella

propria infanzia.

La convinzione che un bambino che piange stia sicuramente

soffrendo, quando il pianto, a livello infantile, è lo strumento di

comunicazione per antonomasia. Se si interpreta il pianto soltanto

come espressione di sofferenza, a un bambino basta poco per

metterci in difficoltà.

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Il rispecchiamento narcisistico che fa in modo che il genitore viva il

figlio solo in relazione alle proprie aspettative personali senza

riuscire a stabilire quella naturale separazione fra alterità: “io sono

io, mio figlio è un’altra struttura di vita, di destino di esperienza”. Il

legame simbiotico fondamentale nei primi mesi di vita deve, via

via, trasformarsi e rappresentare un argine contenitivo per i

bambini. Argine che rappresenta i limiti di cui i bambini hanno

necessità per incanalare la propria energia che, altrimenti, si

disperderebbe.

Per mettere in atto certe modalità e strategie è necessario riconoscersi

le capacità di poterlo fare.

In tal senso anche Rogers sostiene «Gli individui hanno in se stessi ampie

risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli

atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste

risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile

di atteggiamenti psicologici facilitanti »

L’intervento di counseling può, quindi, aiutare a “tirar fuori” queste

personali potenzialità e a prevenire situazioni di disagio.

Il counseling è, per sua natura, una competenza relazionale, in quella

che è definita relazione d’aiuto tra colui che è portatore di una richiesta

e il counselor che la accoglie. Il counselor, attraverso il colloquio,

permette alla persona che chiede aiuto di promuovere un

cambiamento.

È un approccio basato sulla centralità della persona, persona degna di

fiducia, in grado di valutare la propria situazione, di comprendere se

stesso, di fare scelte e agire di conseguenza. Per il counseling, la persona

ha in sé le risorse per superare i momenti di difficoltà e il counselor ha il

compito di accompagnare la persona a ritrovare la capacità e

l’autonomia per poter scegliere in che direzione andare.

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Il punto focale del colloquio diventa, quindi, l’individuo e non il

problema, poiché lo scopo non è quello di risolvere una particolare

problematica portata dal cliente, ma quello di aiutare la persona a

crescere, affinché possa affrontare sia il problema contingente, sia quelli

successivi, in maniera più consapevole e integrata.

È importante offrire ai clienti la possibilità di comprendere ciò che

davvero sono, di conoscersi e di interpretare significativamente la loro

esperienza personale.

Il counseling significa ascoltare nel profondo, prestando attenzione alle

parole, ai pensieri, ai significati espliciti ma anche sottesi alle intenzioni, ai

gesti ai toni di voce, perché molto spesso le sole parole portano un

messaggio e il tono della voce, i gesti e la postura ne portano altri.

La persona diventa protagonista a tutti gli effetti della relazione.

Il counseling è un intervento rivolto alla persona in situazione di disagio. Il

disagio può essere inteso come malessere lieve e correlato alle situazioni

della vita quotidiana. Oppure può essere legato a momenti di difficoltà

nell’affrontare le trasformazioni che il ciclo della vita comporta. O

ancora, il disagio può essere causato dalla perdita di una condizione di

stabilità che provoca una sofferenza, a volte intensa, ma circoscritta nel

tempo.

Il disagio è compatibile con la vita quotidiana; una persona con disagio

può gestire la propria vita, anche se con fatica e difficoltà. È umano

cercare, quindi, di risolvere quelle problematiche che portano malessere

per ritrovare un buon equilibrio interiore e pratico che permetta di vivere

serenamente.

Affrontare meglio i cambiamenti che la vita comporta e le

momentanee difficoltà che ne ostacolano il sereno sviluppo è l’aiuto

che il counseling può dare attraverso interventi brevi, limitati nel tempo.

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Per i genitori in difficoltà, il counseling offre uno spazio di ascolto in un

tempo ben preciso: quello personale, quello del momento in cui sta

succedendo la fatica. Non è necessario ritrovare cause antiche o nuove

proiezioni future. Ogni genitore lavora con il counselor nel qui ed ora.

Accoglienza, non giudizio, ed empatia sono gli ingredienti di questo

ascolto, che permettono ai genitori la libertà di raccontare ad alta

voce, senza essere giudicati. Esprimere a parole quello che uno sente,

pensa e vive, aiuta a riflettere e ad analizzare con maggior distacco

quello che accade. Il colloquio di counseling aiuta a comprendere quali

siano le strategie migliori da mettere in atto, o semplicemente a capire

che la situazione fa parte del momento di crescita ed è inevitabile.

3.2. La consapevolezza del genitore e il cambiamento

del figlio

Il progetto che ho svolto durante il tirocinio nella scuola materna dove

ho affrontato il passaggio alla scuola primaria insieme ai bambini di 5

anni e ai loro genitori, e i vari colloqui che ho condotto con genitori di

bambini e ragazzi in età scolare, mi portano a fare una riflessione.

I colloqui svolti hanno evidenziato chiaramente il bisogno dei genitori di

potersi tranquillizzare sui passaggi di vita dei propri figli e la necessità di

condividere insieme pensieri e paure.

I genitori hanno apprezzato, particolarmente, gli incontri di condivisione

alla scuola materna, soprattutto per la possibilità che hanno avuto di

“ripassare” le tappe evolutive che caratterizzano questo passaggio

specifico, approfondendo i bisogni dei bambini di quella età e

riconoscendo i propri.

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Che cosa accade quando si inizia la prima classe della primaria lo

sanno tutti: nuova scuola, nuovi compagni, si comincia ad imparare a

leggere e a scrivere e cosi via. La parte ludica di questa esperienza si

ridimensiona rispetto ai tempi della materna, e cominciano le prime

prove e le prime frustrazioni. Tutto serve per crescere. Questo è un punto

importante di cui, a volte, non si è davvero consapevoli come genitori.

La qualità delle relazioni familiari influenza notevolmente l’adattamento

scolastico dei figli, la loro capacità di ambientarsi in classe, di superare i

primi ostacoli e integrarsi con i compagni.

Il compito dei familiari è quello di ascoltare, sostenere, rassicurare,

mostrarsi sereni, rilassati e fiduciosi, senza voler negare che il primo

impatto con la realtà scolastica sia un passaggio delicato.

Per fare questo occorre che i genitori possano esplicitare le proprie ansie

e i propri dubbi per poterli riconoscere e quindi elaborare.

Ecco che in un clima facilitante di scambio e condivisione, i genitori, in

gruppo o individualmente, hanno potuto rendersi conto delle proprie

difficoltà e hanno saputo anche rispondersi, riflettendo su cose a cui

probabilmente da soli non avrebbero pensato. I bambini di 5 anni non

sanno realmente cosa sia la scuola primaria: non ne hanno esperienza

diretta, quindi non la conoscono davvero. Hanno delle idee, perché gli

adulti hanno raccontato loro le proprie. Quindi, l’attenzione è proprio su

quello che noi adulti comunichiamo ai nostri figli: queste saranno le idee

che poi i figli faranno proprie.

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3.3. Esperienze a confronto: percorsi di counseling

Mamma- Io ho delle ansie con Lucrezia che con Luca non ho avuto.

Pero ho proprio riflettuto su questa cosa qui, dopo gli incontri che

abbiamo fatto, qui: le ansie sono mie! E sto cercando di non passarle

a lei! Lei non parla con gli adulti …. cosa farà con le maestre?

Questo mi preoccupa. Se a lei una persona non le va, non le va. Ma

più la sproni a parlare, come per esempio a salutare una persona che

non le va di salutare, sicuramente non spiccica una parola. Poi io so

tutto quello che succede, alla scuola materna …. cosa è successo alla

gita, cosa ha fatto la sua amica in mensa e cosi via …..

Counselor- Lucrezia ti racconta tutto quello a cui lei è interessata, ma

se non vuole parlare con qualcuno, non lo fa e basta.

Mamma- Ieri non c’è stato verso di rispondere alla sua maestra, le ha

detto un ciao veloce ed è uscita, e se la sgrido è peggio!!! Alla sua

maestra l’ho detto fin dall’inizio: se non parla molto con lei … è

perché è fatta un po’ cosi. Poi quando abbiamo parlato della scuola

del prossimo anno si è messa a piangere perché non avrebbe più

rivisto ne la maestra ne i suoi compagni.

Non sempre si può entrare nel mondo dei bambini, né tanto meno nei

loro pensieri. Lucrezia spesso non vuole salutare nemmeno la sua

maestra della scuola materna quando finisce la giornata e la mamma,

a volte, la rimprovera. Quasi però piange al pensiero che quando

passerà alle primaria non la vedrà più. A Lucrezia la sua maestra sta a

cuore, ma sentirsi obbligata a parlare con lei per forza, non la interessa.

In effetti, uno dei nuovi bisogni che i bambini hanno affacciandosi al

quinto stadio di sviluppo verso il passaggio alla scuola primaria è quello

di potersi fidare dei propri sentimenti, di cominciare a fare le cose a

proprio modo, di sapere di potercela fare da soli.

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Mattia è un bimbo adottato, arrivato in famiglia a 3 anni e mezzo con

una diagnosi di lieve ritardo mentale. In realtà oggi, che ha 6 anni e

frequenta l’ultimo anno di scuola materna, ha dimostrato che

probabilmente il ritardo era dovuto all’abbandono e alla mancanza di

riferimenti adulti nei primi anni di vita. Questo ultimo anno di scuola

materna è un po’ difficile rispetto alla relazione con i genitori adottivi, in

quanto Mattia mette in atto una serie di sfide relazionali

Mamma- […]Tu hai davanti questo bambino bellissimo, di sei anni,

che però ha della parti di adolescente stronzo di quattordici e delle

parti di neonato di due … non è facile. Da un lato hai paura, chissà

cosa ha vissuto prima, dall’altro lato ti senti anche forte, queste sfide

qui ti rafforzano. Però, insomma, è dura. Questi giorni faticosi ……..

Quello che è accaduto in questi giorni è l’apice di due settimane,

forse anche di più, è un intensificarsi di provocazioni e strafottenza e

dell’ignorarti ….

Counselor- Da questi racconti mi sembra che Mattia sia in quella fase

provocatoria, dove ha bisogno di cominciare a prendere le distanze.

Oggi, dopo tre anni che è con voi, ha capito che può contare su di voi

e può cominciare ad affrontare un primo distacco. Può cominciare a

sperimentare la sua vita autonoma e prova a vedere come può fare.

Solitamente la fase del primo distacco succede tra il primo e il

secondo anno di vita. Ma per Mattia è oggi che ha consolidato la fase

di attaccamento con voi e che quindi sa di potersi allontanare senza

perdervi. È un bisogno fisiologico quello di separarsi, ma attiva in

questo modo la tua emotività. E’ un po’ come metterti alla prova

dicendo: allora io sto crescendo, ormai sono quasi convinto, anche se

non ancora del tutto, che posso contare su di voi, perché questo poi lo

fa vedere con l’affetto, allora posso fare un passo in più, che è quello

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di provare ad allontanarmi, sapendo però che posso tornare alla

base.

Mamma-[…] Questa lettura non l’avevo mai fatta, ma effettivamente

la riconosco, perché il suo tentativo è quello di stare in piedi da solo;

per cui tu ci sei in casa, lui lo sa e per questo può non considerarti,

ignorarti, mangiare con un estraneo dall’altra parte del tavolo….. ti

guardo in faccia, ci sei e può comunque stare da solo perché

finalmente è sicuro che non scapperai!!!! Bello questo davvero, ….

letta cosi è positiva. Proverò a lasciargli spazio, come dire, non

dando peso all’aspetto sminuente, ma invece……..Va bene stai li

perché sei grande, puoi star li coi grandi e non volermi con te.

Mattia ora ha capito che può contare sui suoi genitori, sul fatto che non

verrà ancora abbandonato, e cosi può iniziare ad allontanarsi da loro. I

genitori possono e devono dare spazio a questi primi tentativi di

allontanamento perché possa riconoscersi “grande”. I comportamenti di

sfida letti non pensando a lui come persona ma alla sua condizione di

bambino adottato, di ritardo cognitivo e così via, facevano perdere di

vista il normale sviluppo, anche se con tempi più allungati, che tutti i

bambini attraversano per poter crescere e allontanarsi.

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Conclusioni

Il termine genitorialità non coinvolge l'essere genitori reali, ma è uno

spazio psicodinamico, autonomo, che fa parte dello sviluppo di ogni

persona. Ovviamente, l'evento concreto della nascita di un figlio e le

tappe evolutive che il figlio attraversa per diventare adulto, attivano, in

un modo particolare e molto intenso, questo spazio mentale e

relazionale, rimettendo in circolo tutta una serie di pensieri e fantasie

legati al proprio essere stati figli, alle modalità relazionali ritenute più

idonee, ai modelli comportamentali da avere.

Durante le fasi evolutive dei nostri figli può succedere di aver bisogno di

aiuto per poter superare momenti di difficoltà che altrimenti

diventerebbero veri e propri problemi.

Anche in questo ambito “prevenire è meglio che curare” e la

conoscenza e il confronto possono essere un aiuto molto importante,

insieme alla rielaborazione delle situazioni attraverso percorsi brevi di

counseling familiare o individuale.

Su un vecchio diario ritrovato nella scatola dei ricordi della mia

adolescenza, ho riscoperto questa frase: “vivere non è copiare ma

inventarsi”. È un pensiero che mi piaceva molto, e che ancora oggi

condivido. Credo che l’elemento centrale del lavoro del counselor sia

proprio quello di aiutare le persone a vivere consapevolmente la propria

vita e a essere se stesse, e non la copia (bella o brutta) di qualcun altro.

Per ritrovare la vera essenza di sé, è utile, ogni tanto, guardarsi dentro e

guardare le relazioni che ci legano agli altri.

Che siano figli, partner, insegnanti, amici, o semplicemente persone che

incontriamo per caso, non possiamo fare a meno di vivere queste

relazioni con la consapevolezza che ciascuna di esse avrà un peso nel

nostro futuro.

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L’importante è riuscire ad essere coerenti con se stessi, con i propri

principi e con i propri sentimenti. Per fare questo è necessario poter

rielaborare le cose che accadono, guardandole da un altro punto di

vista, per capire perché ci hanno portato conflitti o fatiche.

L’aiuto di un counselor che accompagna in queste rivisitazioni, permette

di riconoscere le potenzialità presenti in ciascuno di noi, per

comprendere e correggere ciò che ci provoca disagio.

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Appendice

Quando il bambino ha una difficoltà o un ritardo

psicomotorio

Prima ancora che l’evento nascita sia compiuto, ossia prima del

momento del parto, la futura mamma principalmente, insieme al futuro

papà, immagina come sarà il proprio figlio o la propria figlia, e comincia

ad affrontare e ad adattarsi ai primi cambiamenti che via via si

presentano nella sua “nuova” vita.

Il pensiero che qualcosa non possa funzionare al momento dell’incontro

col proprio bambino sognato per nove mesi, esiste ma altro è prevedere

il trauma che il genitore deve affrontare di fronte all’effettiva nascita di

un bambino con disabilità.

Quando si scopre, non solo che quel figlio immaginato non arriverà mai,

ma che, al suo posto, c’è qualcuno che non ci si aspettava di

incontrare, la cosa più sconvolgente è che tutto quello che ci si

immaginava per lui improvvisamente non esiste più. Non si riesce più ad

immaginarlo come scolaro, come adolescente o come adulto; come

persona che si differenzia da noi e che possa seguire una sua strada.

“Ma io questa estate avevo già prenotato le vacanze in Sardegna con il

viaggio in aereo, ci potremo andare??”

Alessia, madre di Luca, 2 giorni, affetto da trisomia21 senza

complicazioni cardiache.

“Ho chiesto a mio marito di non mettere nessun fiocco nascita fuori

dalla porta del nostro palazzo.”

Luna mamma di Livia, 10 giorni, emorragia celebrale durante

il parto per un distacco di placenta

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Il corso del tempo si ferma, e quando il tempo si ferma si blocca anche

la capacità di andare con l’immaginazione oltre il presente. Il futuro non

si vede più, perché diventa emotivamente inimmaginabile. Nello stesso

modo viene cancellato il passato con le sue fantasie e i suoi sogni: esiste

solo un presente difficile in cui ci si sente prigionieri.

Questo accade anche quando la disabilità o la difficoltà del figlio viene

diagnosticata durante i primi anni di vita.

Il percorso di adattamento a cui va incontro la mamma di un figlio con

disabilità o ritardo di sviluppo è, in qualche modo, prevedibile; quello

che non è prevedibile è la singola reazione di quella specifica famiglia di

fronte a quella precisa situazione. Alcune caratteristiche comuni a

queste madri sono la necessità di vedere al di là dell’handicap, i dubbi

sulla propria competenza materna, la paura di non riuscire ad amare

quel figlio, e la necessità di reinventare il matrimonio partendo da nuove

basi.

“Meno male che ho anche Veronica, così so di essere una mamma

normale!”

Anna, mamma di Veronica 3 anni e di Giulia, ancora nella

pancia, venuta a conoscenza della presenza della trisomia 21 nel

corredo cromosomico della seconda figlia.

Invariabilmente, il punto di partenza è la notizia del possibile handicap.

La coppia o la famiglia, prima di venire a conoscenza di questa nuova

situazione, nella maggioranza dei casi, non aveva problemi particolari.

L’apprendere il problema del figlio comporta un enorme quantità di

lavoro emotivo nelle settimane successive all’evento. Questo è un

momento fondamentale per chiedere aiuto, per fare in modo che

questa fatica sia accolta e contenuta, e che le energie che servono per

affrontarla siano condotte nella direzione giusta.

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Nella gran parte delle situazioni di handicap, nessuno può sapere come

evolverà la vita del bambino e con quali tempi. Questa incertezza è la

parte più difficile da accogliere per i genitori; non sapendo

precisamente cosa potrà essere in grado di fare il proprio figlio, i genitori

non riusciranno a crearsi quell’immagine del futuro che permetterà al

figlio di esistere davvero. Le persone esistono se sono pensate.

Accettare circostanze che si discostano dalla norma richiede spesso

tempi molto lunghi. Superare la negazione iniziale e ridefinire le distanze

tra il bambino immaginato e quello reale con le sue imperfezioni, è

fondamentale. A volte può essere utile il conforto e l’appoggio di una

figura professionale che possa accompagnare i genitori a lavorare sul

loro vissuto, sulle emozioni che stanno provando. Un percorso di

counseling personale o di coppia può aiutare a ricostruire la realtà

concreta ed emotiva, evitando di scivolare, da una parte, nella paralisi

di un pessimismo distruttivo (che potrebbe provocare danni più seri dal

punto di vista psicologico) e dall’altra, nella negazione ottimistica (che

potrebbe impedire di prendere misure terapeutiche realistiche e arrivare

a una pace interiore più stabile).

Ciò che accomuna la maggior parte delle mamme è la voglia di

scoprire come sarà il carattere del proprio figlio, come affronterà la vita.

Le preoccupazioni create dall’handicap e i relativi dubbi su quello che il

piccolo sarà in grado di fare e in quale misura, bloccano qualsiasi

scoperta della sua vera personalità. “Quali sono i suoi pregi, le sue

attitudini, le preferenze, le inclinazioni e le sue antipatie naturali?”

Queste sono le cose che i genitori devono riuscire a guardare al di là

dell’handicap, ciò che anche quel figlio potrà avere. Vedere oltre la

difficoltà però non è facile, perché spesso si tende a misurare tutto in

relazione all’handicap, perdendo parte della sua individualità.

Un altro aspetto importante è l’identificazione che ogni madre compie

sul proprio figlio: il figlio come una continuazione di se stesse. In una

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situazione in cui il bimbo presenti un handicap, questa reazione

potrebbe essere di totale rifiuto: il pensiero di morte su quel bambino

“diverso” è un sentimento terribile ma possibile, e da accogliere in tutta

la sua vastità.

La rielaborazione e l’accoglienza di sentimenti cosi devastanti, e in un

certo senso contrastanti con la “bellezza” di diventare madre, è

necessaria per ritrovare l’equilibrio interiore con se stessi e poter di nuovo

condurre una vita serena e appagante, anche con una nascita difficile.

Non bisogna perdere di vista ne se stessi né il proprio partner, nonostante

le difficoltà. Inoltre non bisogna trascurare i propri bisogni.

La maggior parte delle mamme di un bambino con handicap o nato

prematuro vive una forma di trauma durante le prime settimane e i mesi

che seguono il parto. Queste madri non devono essere lasciate sole.

Hanno bisogno di qualcuno che le aiuti a sentirsi convalidate come

madri in quelle aree, anche se molto ridotte, in cui possono

effettivamente sentirsi tali. Hanno bisogno di guardare il loro bambino

per quello che sa fare, non per quello che non gli riesce. Hanno bisogno

di una persona che le accompagni a ricostruire il passato che si è

frantumato nel momento in cui qualcuno ha parlato di handicap e a

riscoprire il futuro che non riescono più a concepire e a vedere.

Pediatri, infermieri, neurologi, fisioterapisti e tutte le figure professionali

che si occupano del bambino sono fondamentali per il suo benessere,

ma serve anche qualcuno che possa fare una sintesi tra le diverse

metodologie, inevitabilmente disomogenee, che frammentano la

visione che la madre ha del problema, e che conducano quet’ultima a

ritrovare il suo bambino “intero”, anche se con la sua “speciale

normalità” (Ianes, 2006). Il counseling familiare può diventare un valido

supporto per ridefinire, insieme ai genitori, la propria identità e quella del

proprio figlio.

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La partenza Paola e Simona (Montobbio Lepri 2000)

“In una scuola materna del comune di Genova, come in moltissime altre scuole

della città, lavora da alcuni anni, in qualità di ausiliaria, una giovane donna dal

dolce viso orientale. Si chiama Paola ed è, come tutte le persone, unica ed

irripetibile, ciò non dimeno appartiene ad una categoria: è handicappata

mentale. Fa parte anche di una sottocategoria: è una persona con Sindrome di

Down; ha?, ha avuto?, avrà per sempre? Questa malattia (?). menomazione (?),

stigma (?) peculiarità (?), caratteristica (?).Per i colleghi della scuola, per i

bambini, per i genitori, Paola è Paola e basta.

Questa scuola materna è frequentata anche da una bambina, Simona, anch’essa

con tratti orientali , anch’essa persona unica ed irripetibile, “scritta” (dalla

Natura? da Dio? Dagli uomini? Dagli specialisti? Dai genitori? Dagli

operatori?) alla stessa categoria di Paola, e anche alla stessa sottocategoria:

quella dei congiunti del Dottor Down.

La mamma di questa bambina, nell’accompagnarla a scuola, ha osservato a

lungo silenziosamente Paola al lavoro, quando accoglie i bambini sulla porta

della scuola, quando li aiuta a togliersi il cappotto e a mettersi il grembiulino

colorato o a lavarsi le mani, o infine quando scende in cucina per aiutare nella

preparazione dei cibi.

Guardando Paola la mamma di Simona ha cambiato atteggiamento verso la

propria bambina: una volta ha confidato a un’altra mamma: “ora, io e mio

marito, abbiamo capito cosa potrà fare da grande”.

La stessa cosa, in forma diversa, è stata detta anche dalla maestra di Simona.

Paola ha regalato ai genitori della piccola “sorellina” Down un immaginario

nel mondo dei grandi, e questo ha consentito ai genitori (e alla maestra) di

pensare a Simona in termini di progetto di vita e di educazione verso un obiettivo

nel mondo degli adulti.

Il viaggio di Simona verso il mondo dei grandi è cominciato davvero con questa

intuizione-scoperta della sua mamma.”

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Novara Daniele – Bambini ma non troppo – 2000 Edizioni La

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Novara Daniele – Dalla parte dei genitori – 2009 Le comete Franco

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Novara Daniele – La grammatica dei conflitti – 2011 Edizioni Sonda

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Twerski Abraham J. – Su con la vita, Charlie Brown! – 2000 Oscar

Mondadori

Watzlawick Paul – Pragmatica della comunicazione umana – 1967

Astrolabio