Meridiani Della Migrazione Da Ureche a Cioran

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Alexandra Vranceanu Pagliardini Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran

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Alexandra Vranceanu Pagliardini

Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran

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Alexandra Vranceanu Pagliardini

Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran

2012

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Referenţi ştiinţifici: prof. univ. dr. Rodica ZAFIU lector univ. dr. Oana UȚĂ

Şos. Panduri, 90-92, Bucureşti – 050663, România

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Tehnoredactare computerizată: Meri Pogonariu

Descrierea CIP a Bibliotecii Naţionale a României VRANCEANU PAGLIARDINI, ALEXANDRA Meridiani della migrazione nella letteratura romena da

Ureche a Cioran / Alexandra Vranceanu Pagliardini – Bucureşti: Editura Universităţii din Bucureşti, 2012

ISBN 978-606-16-0146-2 821.135.1.09

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S o m m a r i o

Introduzione / 9

1. Le mappe filologiche dell’Europa / 21 Curtius e Valery Larbaud ▪ Il canone della letteratura europea ▪ Il

modello di Curtius e l'evoluzione delle sue idee nelle ricerche attuali ▪ Il superamento delle correnti letterarie ▪ L'abbattimento delle frontiere delle letterature nazionali ▪ Il ruolo delle traduzioni nella creazione di uno spazio letterario europeo ▪ Applicazione e attualizzazione della topologia di Curtius ▪ La topologia e il terreno di unità della letteratura europea ▪ Un topos stabile nella cultura romena: «il paragone con le altre culture» ▪ Cultura della frontiera: centro e periferia per la cultura romena ▪ La cultura degli intellettuali migranti, i cittadini europei ▪ Nazione e migrazione

2. Grigore Ureche e il mito di Bisanzio / 65

Le prime cronache: fra storia, politica e letteratura ▪ Ureche, uomo politico e umanista ▪ I topoï umanistici nella cronaca di Grigore Ureche ▪ Grigore Ureche: senza un libro in cui si parla delle sue origini nazionali, l'uomo è simile agli animali ▪ Il principe-eroe. Ștefan cel Mare ▪ La «fortitudo» nel ritratto di Ștefan cel Mare ▪ La Sapientia. Battaglia di Podul Înalt (Vaslui) ▪ Ștefan cel Mare e la pietas. Il mito di Bisanzio ▪ Le linee di separazione che hanno portato alla formazione dell'identità europea nella visione di Ureche ▪ «De la Râm ne tragem» [Da Roma discendiamo] ▪ Sulla separazione fra cattolici e ortodossi, fra Oriente e Occidente dell'Europa ▪ La relazione con i polacchi ▪ Testo e immagine: temi comuni nel Letopiseț di Ureche e negli affreschi della

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Bucovina ▪ Dalla pittura bizantina all'arte post-bizantina all'epoca di Petru Rareș ▪ Dall’esercizio retorico alla pratica della narrazione negli affreschi della Bucovina ▪ L’Assedio di Costantinopoli e l’Inno acatisto alla Vergine Maria ▪ Il ritratto dei fondatori ▪ Il Giudizio Universale ▪ Dalla retorica bizantina alla narrazione della storia

3. Il simbolo del libro (Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul, Ion Budai Deleanu) / 131 Medio Evo, Umanesimo, Rinascimento e Barocco nella cultura romena ▪ Miron Costin, guerriero, umanista, poeta ▪ Il libro è stato dato da Dio come uno specchio intelligente della mente dell'uomo: De neamul moldovenilor ▪ «Défense et illustration» de la langue roumaine: il poema filosofico Viața lumii ▪ Da Fortuna labilis al pessimismo storico «bietul om subt vremi» [il povero uomo schiacciato dai tempi] ▪ Constantin Cantacuzino Stolnicul (1639-1716), il modello padovano e il moto del libro ▪ Il libro come strumento di lavoro e di lotta ▪ Translatio studii ▪ Dimitrie Cantemir (1673- 1723), l'esiliato perenne ▪ Una cultura cosmopolita: Cantemir fra Oriente e Occidente ▪ Divanul: Il libro è composto di tre portate. Metafore alimentari ▪ L'«impero della retorica» e l'arricchimento della lingua romena: le influenze della cultura umanistica ▪ Descriptio Moldaviae e Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor: culto della latinità, europeismo e occidentalismo ▪ Ion Budai Deleanu (1760-1820), intellettuale e poeta ▪ Il cammino tortuoso dalla scienza alla letteratura. Tiganiada (1812) ▪ L'elogio della retorica. Dalla storia alla poesia ▪ Musa iocosa ▪ Défense et illustration ▪ Dulcis amor patriae e oggettività ▪ Guerra o esilio? ▪ Miles gloriosus e la guerra contro i turchi ▪ La decostruzione della retorica mer mezzo di una parata di erudizione. Filologia iocosa ▪ Filologi e muse

4. L'utopia di Cioran / 249 Costanti formali ▪ Il topos «translatio studii» ▪ La «romanità» come topos identitario per i romeni ▪ «Défence et illustration» ▪ Il mito di Bisanzio e il complesso della frontiera e del ritardo ▪ Cioran come

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scrittore rappresentativo dell'esilio ▪ «Il destino» di Cioran ▪ Cioran, fra il mito di Bisanzio e il complesso della frontiera: Schimbarea la față a României [La trasfigurazione della Romania] (1936) ▪ La teoria della barbaritas come alternativa alla romanitas ▪ Il Rinnegato ▪ Il meteco ▪ Il persiano e il romeno ▪ Lo scita, il troglodita, il membro di un'orda sconosciuta ▪ L'uscita dallo spazio nazionale: la forza creatrice dell'esilio ▪ Cambio di lingua e assunzione di un'altra identità ▪ Translatio studii. Perché Parigi? ▪ L'utopia di Cioran: il cosmopolitismo ▪ Cioran, scrittore europeo ▪ «Literature for Europe» Casanova vs. Neubauer ▪ «Cioran, de l’inconvenient d’etre né en Roumanie» (Casanova, 2008, 308) ▪ Esilio o migrazione?

Corpus / 297 Bibliografia / 299

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I n t r o d u z i o n e

L'esperienza della partenza lontano da casa, sia essa esilio, fuga

o viaggio di studio, porta spesso ad una cristallizzazione della coscienza nazionale. Nal caso degli uomini di cultura romeni, questo fatto si verifica a partire dal secolo XVII, con la scrittura del primo testo in lingua romena con valore letterario, Letopisețul Țării Moldovei (La cronaca della Moldavia) di Grigore Ureche. Ureche, che aveva trascorso i primi due decenni della vita in Polonia, rifugiatosi con la famiglia di suo padre, scriverà negli ultimi anni di vita una cronaca in cui riflette sulla storia della Moldavia. Il modello sarà seguito da un altro nobile moldavo, l'umanista Miron Costin, che riflette anche lui sull’origine della sua stirpe in De neamul moldovenilor (Sulla stirpe dei Moldavi). Analogamente ad Ureche, Miron Costin aveva avuto un'esperienza di esilio in Polonia e anche Dimitrie Cantemir conosce l'esilio, tanto in gioventù, a Istambul, quanto in età matura in Russia presso Pietro il Grande. Non sono gli unici intellettuali romeni che hanno vissuto in esilio o, come si dice in romeno, «în pribegie», che hanno trascorso lunghi periodi della loro vita in altri paesi, sia per studiare, sia per cospirare, sia per trovare rifugio. Questi umanisti e intellettuali conoscevano molte lingue straniere, il latino, il greco, lo slavone, il polacco, il russo, il turco, e scrivevano opere in lingue straniere. Li accumuna il modo in cui il confronto con altre culture, la cultura classica, la cultura bizantina, la cultura polacca o turca, li conduce verso una riflessione sull’identità della loro cultura. Trovatisi nella crisi di ridefinizione, necessaria per il cambiamento di ambiente culturale, gli scrittori esiliati o pribegi fanno un esame anatomico preciso dello «specifico nazionale». Nel caso di Cioran il paragone fra

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la cultura romena e le altre comincia già nel periodo giovanile, quando era ancora uno scrittore romeno. Il soggiorno di studio di due anni in Germania all'età di 22 anni produce in lui una crisi identitaria profonda, che si manifesterà poi nella sua controversa opera a tinte fasciste Schimbarea la față a României [La trasfigurazione della Romania]. La partenza per un dottorato a Parigi ha per lui un effetto di ridimensionamento dell'identità culturale romena, che si conclude con una decisione brusca: la rinuncia alla lingua romena a favore del francese. Cioran commenterà nei suoi scritti in francese questo passaggio doloroso e farà una riflessione sull'esilio e sul cambiamento di identità che esso presuppone.

Ho scelto alcuni esempi rappresentativi di scrittori di epoche diverse della letteratura romena per poter seguire il modo in cui gli scrittori romeni hanno accolto la relazione fra migrazione e appartenenza nazionale.

Per quale motivo scelgo qui il termine «migrazione» e non «esilio» oppure «viaggio»? Ancorché questo lavoro parta da testi antichi della letteratura romena, il bersaglio cui mira è il mondo contemporaneo. Molto si è scritto negli ultimi anni su esilio e migrazione, sul modo in cui si distinguono dal punto di vista giuridico e sulle differenze fra la letteratura dell'esilio e la letteratura migrante. Il vantaggio del termine «esilio» è che esso risulta più chiaro, essendo definito esattamente nella legislazione delle diverse epoche.

Negli ultimi tempi è apparso un termine che definisce il mutamento di luogo degli scrittori, spesso causato da considerazioni economiche o politiche, ma che non è un esilio propriamente detto. Termine recente, la «letteratura migrante», è utilizzato soprattutto nello spazio della letteratura in lingua inglese, francese e spagnola (chicano):

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«L’expression "écriture migrante et métisse" est apparue pour la première fois sous la plume du poete et linguiste Robert Berrouë-Oriol, dans un article paru dans le magazine transculturel Viceversa (1986). Il soulignait l’emergence de cette écriture au Quebec.» (Giguère, 2001, 19)

Lo scrittore britannico Salman Rushdie è uno degli inventori del termine «migrant writer», che egli usa per distinguersi dagli scrittori in esilio. Il termine pone l'accento sul fatto che lo scrittore «migrante» non si trova nella sua heimat, ma abita «una patria immaginaria», forse la «repubblica delle lettere», e che questo mutamento di luogo, e anche di cultura e di lingua, genera in essi una coscienza di estraneità, homelessness. Come osserva un teorico della letteratura migrante, Homi Bhabha, il cambiamento di luogo fa sentire lo scrittore «unhomely», privo di casa, impossibilitato ad avere una casa sua. Homi Bhabha problematizza la necessità di trovare un posto per la letteratura migrante nella cosiddetta "casa della finzione":

«In the House of Fiction you can hear, today, the deep stirring of the "unhomely." You must permit me this awkward word - the unhomely - because it captures something of the estranging sense of the relocation of the home and the world in an unhallowed place. To be unhomed is not to be homeless, nor can the "unhomely" be easily accommodated in that familiar division of social life into private and the public spheres.» (Bhabha, 1992, 141)

Il brano fa parte di una conferenza tenuta all'Università di Harvard, in seguito pubblicata tale quale con il titolo assai espressivo The World and the Home, e ripresa in seguito in The Location of Culture, opera molto citata dagli specialisti della letteratura migrante.

Nell’introduzione al dizionario Passages et ancrages en France. Dictionnaire des écrivains migrants de langue française (1981-2011), le curatrici del volume, Ursula Mathis-Moser e Birgit Mertz-Baumgartner spiegano per quale motivo hanno scelto il termine migrante invece di esilio o diaspora. Le loro osservazioni critiche mi saranno molto utili nello studio degli scrittori esaminati in questo

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volume, anche se non si tratterà di scrittori contemporanei, ad eccezione di Cioran:

«Le sujet migrant dispose de plusieurs systèmes référentiels et très souvent de plusieurs langues pour transcrire dans un acte performatif une identité de l’entre-deux, une identité soumise à un constant processus de trasformation et de translation. Le critique qui se sert du concept de "littérature migrante" renonce à une perception du contact culturel comme processus d’échange entre deux identitiés culturelles autonomes et préconise une logique non-binaire, reconnaissant l’étrangeté, l’hétérogeneité inhérente à toute culture.» (Mathis-Moser; Mertz-Baumgartner, 2012, 13) (vedi anche Mathis-Moser; Mertz-Baumgartner, 2012, 10-18)

Il termine «scrittore migrante» è utilissimo per la letteratura contemporanea, ma presenta un interesse anche per la letteratura romena antica, in cui gli scrittori romeni, membri di famiglie nobiliari e influenti, trascorrevano spesso lunghi periodi all'estero per motivi politici. Il rifugio in Polonia di Grigore Ureche o Miron Costin a causa dei conflitti con i turchi, la partenza definitiva di Dimitrie Cantemir in Russia dopo la perdita del dominio della Moldavia, rientrano nella categoria dell'esilio piuttosto che in quella della migrazione. Ma la relazione fra letteratura migrante e letteratura di esilio ha anche un'altra utilità, in quanto mette il relazione due tipi di relazioni fra centro e periferia: per l'esiliato il centro è sempre la casa dove gli è proibito tornare, mentre per il migrante la casa è il mondo. Lo scrittore che ha sperimentato l'esilio scrive per rafforzare, sostenere, «illustrare» la letteratura nazionale, l'identità nazionale, lo scrittore migrante scrive per un pubblico internazionale.

Risulta interessante il caso di Cioran, che si reca a Parigi per un soggiorno di studi prolungatosi indefinitamente, e che alla fine decide di «esiliarsi», cioè di non tornare più nella Romania occupata dai sovietici. Quando inizia l'«esilio» di Cioran e possiamo considerare che abbia a che fare veramente con l'«esilio»? Ho scelto di mettere in relazione il caso di Cioran con quella che si può considerare la

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tradizione romena del suo pensiero, perché ci è utile per seguire il modo in cui si costruisce l'immagine della cultura romena attraverso le relazioni con le altre culture. Nel caso di Cioran il dialogo è principalmente con la cultura francese, ma prima di Cioran altri intellettuali e umanisti avevano messo in relazione la cultura romena con la cultura latina, o bizantina, o polacca, o turca, per definirsi meglio. Questa modalità di autodefinizione, propria di uno spirito colto, ha portato a un cosmopolitismo, che oggi viene considerato tratto caratteristico dell'intellettuale europeo. Incontreremo spesso nei testi degli scrittori qui analizzati, Grigore Ureche, Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantzcuzino Stolnicul e Cioran, un topos ricorrente nella cultura romena: il paragone fra la cultura romena e le altre culture. Questo topos si associa, nella letteratura romena antica, con il topos del libro che fonda, che legittima, che dà identità ad una stirpe.

Mi sembra utile mettere in evidenza in che modo la circolazione di uomini di cultura romeni nel mondo e il loro cosmopolitismo li ha portati ad una riflessione profonda sulla propria identità. Cercherò di evidenziare il dialogo implicito che si porta avanti nei secoli fra questi scrittori e che si vede nella comparsa di alcune costanti formali riconoscibili nelle loro opere. Le informazioni storiche e di storia letteraria sono soltanto una base per l'analisi di testo, che ha come scopo quello di far luce su alcuni nodi di significato, topoï e miti.

Letopisețul di Grigore Ureche introduce certi miti essenziali nella cultura romena, miti fondanti che incontreremo poi in altri testi. Qui appare per la prima volta nella cultura romena il mito della latinità dei romeni, che l'autore fa risalire alla conquista romana, quindi della storia, della latinità della lingua, che lui confronta con altre lingue romanze e che decide di usare per porre l'accento sul fatto che i romeni di Valacchia, Transilvania e Moldavia fanno parte dello stesso popolo. Ureche schizza il ritratto di un principe-eroe, Stefano il

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Grande («Ștefan cel Mare»), che descrive come un erede degli imperatori bizantini. Questa idealizzazione di un personaggio storico porterà alla comparsa del mito di Bisanzio.

Per gli scrittori romeni del XVII secolo il fatto di scrivere in lingua romena rivestiva un'importanza politica e storica. In una terra dove la tradizione culturale era basata sui testi religiosi scritti in slavone e dove il pubblico dei lettori era ridotto, una letteratura intesa nel senso moderno del termine, non poteva fiorire. Da ciò deriva che è stato necessario legare questi testi ad una tradizione umanistica europea, che questi uomini di cultura e al tempo stesso politici hanno sentito il bisogno di trapiantare in Moldavia. In virtù di questo mi sembra importante seguire il modo in cui essi hanno adottato la retorica classica per scrivere la storia. Prenderò in esame alcuni topoï che E.R.Curtius identifica fra le costanti formali che hanno generato la letteratura europea, e in modo speciale il simbolo del libro che legittima un popolo e una cultura.

Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul sono stati uomini di cultura, ma anche politici, ministri o voievoda, e hanno associato nella loro opera retorica e politica. I viaggi in Europa hanno segnato la loro esistenza e li hanno condotti ad una riflessione profonda sulla cultura nazionale.

Gli uomini di cultura romeni hanno cominciato fin dal secolo XVI a porsi il problema della definizione, attraverso gli scritti, della propria identità. L'accesso alla repubblica delle lettere umanistica è consentito dalla produzione di scritti filologici in cui si presenta la propria cultura, altrimenti, in assenza di tali scritti, i romeni sono considerati un popolo inferiore. Grigore Ureche e, in seguito, Miron Costin scrivono per assicurare alla cultura moldava un posto nella repubblica delle lettere. Dimitrie Cantemir risponde ad un invito dell'Accademia di Berlino scrivendo in latino una Descriptio Moldaviae. Nelle opere di questi scrittori appare spesso il desiderio di trovarsi un posto nella repubblica delle lettere umanistica. Essi rispondono così ad

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un complesso di marginalità e di ritardo culturale che appare spesso nella cultura romena.

La cultura europea si costruisce nell'ambito di una polarità centro-periferia che esclude numerose culture considerate come periferiche. Nel XX secolo il complesso «marginalità/ periferia/ ritardo» genera un trauma che appare soprattutto nei primi decenni del secolo, incoraggiato dalla teoria del sincronismo di Lovinescu ed esploderà negli anni Trenta con Nu (No) di Eugen Ionescu e con Schimbarea la față a României (La trasfigurazione della Romania) di Cioran.

Il topos del paragone con le altre culture ha un merito particolare, specialmente nel contesto delle discussioni recenti sulla letteratura europea. La storia letteraria è sempre stata legata alla ricerca identitaria, ma i suoi metodi sono cambiati molto nei ultimi anni. Dopo lo storicismo del XIX secolo è apparso un altro bisogno nella storia letteraria, quello di sottolineare il multiculturalismo, le intersezioni fra le culture. Nel XIX secolo lo studio della letteratura e della cultura ha dato ai Paesi formatisi dopo la caduta degli imperi un’identità che li ha aiutati a definirsi: in questo senso lo studio della letteratura nazionale giocava allora un ruolo centrale nella formazione dei giovani paesi europei. Adesso però viviamo l’epoca della globalizzazione e la letteratura serve anche per dialogare, per presentarsi agli altri. Non solo il mondo globalizzato è più uniforme e omogeneo, ma siccome la circolazione delle persone si fa sempre più agevole, diventa più importante potersi presentare davanti agli altri tramite il biglietto da visita costituito dalla propria cultura. Tanto più se si tratta di popolazioni in parte migranti, che quindi hanno radici almeno in due paesi.

In questa situazione, la letteratura nazionale diventa piuttosto un tipo di passaporto, una via d’accesso all’altro attraverso un portfolio di valori culturali in parte peculiari in parte condivisi. L’Europa attuale conta numerosi cittadini con identità nazionale multipla, che affondano le radici in più aree culturali. I fenomeni

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migratori che hanno coinvolto anche la Romania sono, da una parte, fenomeni che richiedono un’attenta presentazione della cultura romena in vista della migliore integrazione della popolazione romena stabilitasi ormai da molto tempo in altri paesi europei. D'altro canto proprio a questa porzione migrante della nazione romena risulta essere naturalmente affidata la funzione di promotori capillari della conoscenza e dell'apprezzamento della loro cultura di origine. In quest'ottica penso soprattutto all’Italia, dove la minoranza romena è numerosa e bene integrata.

Mi sembra importante cominciare a immaginare un sistema concettuale che metta insieme e riscopra i valori culturali romeni conosciuti in Europa e che vanno a formare il fondo comune europeo. Gli scrittori romeni hanno arricchito la letteratura e l’arte francese già dal secolo scorso e la letteratura romena francofona è ormai assai importante e ben conosciuta. È mio avviso che la storia letteraria possa dare numerose ed esaurienti risposte alle crisi di identità dei cittadini della nuova Europa. L’opera di Cioran, dove si incontrano tutti questi temi, è la meta del viaggio che propongo in questo libro. Ma, per capire la crisi identitaria di Cioran, la sua disperazione e la sua utopia, si deve fare un percorso storico-letterario che faccia vedere come il suo pensiero si costruisce in riferimento (implicito) a una lunga tradizione romena di riflessione sulla propria identità.

Benché una parte del presente studio si riferisca alla letteratura romena antica, partirò da una domanda che intendo porre alla letteratura romena contemporanea: come si spiega la facilità con cui un gran numero di scrittori romeni ha trovato il suo posto in altre culture, da dove poi, almeno alcuni, furono reintegrati nel circuito di valore della cultura romena? È questo un fenomeno che caratterizza solo l'epoca attuale? Che importanza può avere il fatto che uno scrittore abbia trascorso lunghi periodi di tempo al di fuori delle frontiere nazionali per quanto riguarda il suo modo di vedere la cultura romena e la propria identità? Cercherò di rispondere a questa

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domanda studiando alcuni testi letterari romeni e presentando i destini di alcuni umanisti e scrittori.

Il mio punto di partenza è La Letteratura europea e il Medio Evo latino di E.R.Curtius, tanto per la sua visione di letteratura europea, quanto per il suo metodo di lavoro, la topologia. Nel primo capitolo mi soffermerò brevemente sulla relazione fra filologia e letteratura comparata e presenterò l'evoluzione delle innovative idee di Curtius sul rapporto fra letteratura nazionale e letteratura europea.

Il secondo capitolo riguarda il mito di Bisanzio inventato da Grigore Ureche nell'opera Letopisețul Țării Moldovei de la începuturi și până la domnia lui Aron Vodă. Analizzerò alcuni topoï che Curtius considera rappresentativi per la letteratura europea e che Ureche utilizza per costruire la sua versione del mito di Bisanzio: l'immagine del principe eroe come mito fondante, il topos dell'origine romana dei romeni di Moldavia, Valacchia e Transilvania. Mi sembra utile focalizzare in Ureche la continuità delle forme umanistiche della cultura europea per sottolineare il modo in cui egli, per effetto della propria educazione, si accinge a scrivere un libro in cui la storia dei moldavi è presentata nel modo che aveva visto lui nelle scuole gesuitiche della Polonia, dove aveva studiato. Nella seconda parte del capitolo mi soffermerò su alcuni rappresentazioni degli affreschi moldavi del XVI secolo, che hanno giocato probabilmente un ruolo importante nella genesi del mito di Bisanzio.

Nel terzo capitolo l'attenzione si sposta sul topos del libro che fonda e dà legittimazione ad una stirpe o ad una cultura. Considerato da Curtius un simbolo ricorrente in diversi periodi della letteratura europea, tale topos appare nelle opere di Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul e Ion Budai Deleanu.

Nel secondo e terzo capitolo farò diversi riferimenti all'utilizzo della retorica classica, il che dimostra come, nonostante lo slavone e il greco fossero le principali lingue di cultura in Moldavia e in Valacchia, l'umanesimo era tuttavia penetrato anche nell'Europa

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orientale. L'educazione nelle scuole della Polonia, dove si studiava la cultura latina, la cultura bizantina, arrivata dai romeni in slavone, la conoscenza della lingua greca, attraverso le relazioni diplomatiche e amministrative con i funzionari della Sublime Porta, tutto ciò ha fatto emergere la necessità di definire la cultura romena in rapporto a tutte queste altre culture fra loro molto differenti. Il fatto che gli umanisti romeni dovevano confrontarsi con lingue e culture diverse ha portato all'utilizzo della filologia come argomento politico per la definizione della propria identità romena nell'ambito della repubblica delle lettere. Il contatto con l'Oriente, tramite l'eredità bizantina, e quello con l'Occidente, attraverso le scuole latine, sono una costante della cultura romena.

Il quarto capitolo ha per protagonista Cioran. Ritroveremo nella sua opera una parte dei miti e dei topoï che apparivano in Ureche, Costin, Cantemir, Budai Deleanu. Seguiremo qui il modo in cui Cioran si definisce e, implicitamente, definisce la cultura romena utilizzando una retorica rovesciata, ma in cui si riconoscono ancora i modelli romeni originari.

Tutti gli scrittori che sono stati scelti appaiono dei cosmopoliti, e per questo motivo il modo in cui essi riflettono sul destino della cultura romena è intimamente connesso ad una visione più ampia, di dimensione europea. Francis Claudon osserva un legame profondo fra migrazione, cambiamenti di lingue e di culture e cosmopolitismo, inteso come tratto specifico di uno scrittore europeo. Nell'ultimo sottocapitolo del libro dedicato ai movimenti letterari europei, Claudon si pone la domanda: «Qu’est-ce qu’un écrivain européen?». Ed ecco la risposta: «Al limite, e senza temere un certo spessore di questo tratto, si comprenderà meglio l'europeità della letteratura contemporanea cercandola presso coloro che non abitano più nel vecchio continente. Vladimir Nabokov ha lasciato la Russia sovietica subito dopo la rivoluzione leninista, ha vissuto a Berlino, poi in Francia, poi in Inghilterra, quindi si è stabilito definitivamente negli

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Stai Uniti, come professore di letteratura russa; morirà in un palazzo di Montreux, in Svizzera. Esiste un'opera russa, tedesca, americana di Nabokov (cfr. Lolita, 1955), ma come classificarlo, a che nazionalità attribuirlo, se non al cosmopolitismo europeo, di cui afferma l'esistenza proprio passando da una cultura all'altra? E poi, soprattutto, questi trasferimenti non mostrano il desiderio di una nostalgia di un ‘territorio’ sentimentale che non esiste più, devastato dalla guerra, relegato dalla storia di questa cara Europa?» (Claudon, 2004, 125)1 Il fatto che il cosmopolitismo sia, secondo Francis Claudon, tratto distintivo dello scrittore europeo è l'idea che qui mi interessa. Ma occorrerebbe che ci si ponesse la domanda – può essere per un puro caso che Francis Claudon chiuda la sua descrizione della letteratura europea con uno scrittore migrante che, inoltre, ha anche in qualche modo abbandonato l'Europa?

Questo lavoro parte da una relazione presentata al convegno interuniversitario di Bressanone sul tema Curtius e l’identità europea (2009), in cui avevo lavorato sul rapporto fra la topologia di Curtius e la letteratura romena antica. Dalla discussione sono emersi spunti interessanti che mi hanno spinto ad approfondire l’esperimento. La seconda tappa di questa ricerca è stata la seduta di soutenance de habilitation à diriger des recherches all’Università Paris Est Val-de Marne. In quella sede dalla comissione sono venute domande feconde e l’incoraggiamento ad approfondire questo fra i miei campi di ricerca. Il terzo cantiere in cui si è costruita questa ricerca sono state le mie lezioni tenute all’Università di Padova, e soprattutto le discussioni con gli studenti e il loro interesse e coinvolgimento nell’indagine del rapporto lacerante, ma fecondo fra nazione e migrazione.

1 Le traduzioni in italiano di testi citati in altre lingue sono a cura di chi scrive, salvo altra esplicita indicazione.

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Le mappe filologiche dell’Europa

La base teorica di questo studio prende le mosse dal

monumentale lavoro di E. R. Curtius Letteratura europea e Medio Evo latino, la cui attualità, per la comprensione della letteratura oggi, nell'epoca della globalizzazione, ci risulta essenziale. In esso si trova ispirazione sia per la visione d'insieme, che per il metodo di lavoro qui adottato: presenterò per questo brevemente il modo in cui Curtius vede il rapporto fra le letterature nazionali e la letteratura europea e la presenza e l'evoluzione delle sue idee nelle teorie comparatistiche più attuali.

1.1. Curtius e Valery Larbaud

Discutendo, in maniera polemica, all'interno del volume sulla

Letteratura europea, l’influenza del canone francese in relazione alla letteratura mondiale1, Curtius osserva il ruolo centrale di Valery Larbaud, che «ha dedicato al cosmopolitismo letterario un’analisi seria e sottile» (Curtius, 2006, 300) e cita la riflessione fatta dal critico francese sul rapporto fra le culture centrali e le culture marginali in Europa:

«Il y a une grande différence entre la carte politique et la carte intellectuelle du monde. La première change d’aspect tous les cinquante ans; elle est couverte de

1 «Il concetto di letteratura mondiale doveva spezzare il già vacillante canone francese.» (Curtius, 2006, 300)

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divisions arbitraires et incertaines, et ses centres prépondérants sont très mobiles. Au contraire, la carte intellectuelle se modifie très lentement et ses divisions présentent une grande stabilité, car ce sont les mêmes qui figurent sur la carte que connaissent les philologues et où il n’est question ni de nations ni de puissances, mais seulement de domaines linguistiques... Il existe un triple domaine central: français-allemand-italien, et une ceinture de domaines extérieurs, de «marches»: scandinaves, slaves, roumain, grec, espagnol, catalan, portugais et anglais.»

[C'è una grande differenza fra la mappa politica e la mappa intellettuale del mondo. La prima cambia aspetto ogni cinquant'anni; è piena di divisioni arbitrarie e incerte, e i suoi centri di potere sono molto mobili. Al contrario, la mappa intellettuale si modifica molto lentamente e le sue divisioni presentano una grande stabilità, dato che sono le stesse che figurano sulla mappa che conoscono i filologi, dove non trovano spazio nazioni e potenze, ma soltanto i domini linguistici... Esiste un triplice dominio centrale francese-tedesco-italiano, e una cintura di domini esterni, di "marche": scandinave, slave, romeno, greco, spagnolo, catalano, portoghese e inglese.] (Valery Larbaud, Ce vice impuni, la lecture..., 1925, 46 s)» (Cit. in Curtius, 2006, 300)

La frase di Valery Larbaud, che osserva la differenza fra le mappe politiche e quelle filologiche, è uno dei punti su cui si basa la mia ricerca. Il critico francese ritiene che le carte dei filologi, che ricalcano aree culturali e linguistiche, siano più stabili di quelle dei politici, basate sui centri di potere. L'idea piace a Curtius, che scrive la sua opera negli anni bui della seconda guerra mondiale, cercando di recuperare attraverso la cultura quello che la politica sembra aver perduto per sempre, cioè l'unità e l'identità stessa dell'Europa. 2

Questa concezione può risultare molto utile per lo studio della letteratura romena, la cui mappa è stata per secoli più estesa della Romania, che come entità politica nasce solo nel XIX secolo. Ma l'assenza di unità nazionale non ha impedito agli uomini di cultura di scrivere in romeno, nonostante utilizzassero anche lo slavone, il latino o il greco come lingue di cultura. Possiamo quindi parlare di una 2 Si trovano riflessioni e spunti su questo tema nel volume Paccagnella; Gregori ( a cura di), Gregori, 2011.

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mappa filologica della cultura romena molto prima dell'esistenza di una formazione territoriale denominata Romania.

Dopo la formazione dello stato nazionale, e più in particolare nel periodo della sua storia che ha seguito la prima guerra mondiale, molti scrittori romeni si sono integrati in altri spazi culturali, in primo luogo emigrando a Parigi e scrivendo in francese. Senza che li si possa considerare a pieno titolo esiliati, essi partono in molti per Parigi, alla ricerca del «Meridiano Greenwich della modernità», per riprendere l'etichetta che Pascale Casanova attribuisce alla capitale francese nel suo libro La république mondiale des lettres (2008), pubblicato per la prima volta nel 1999. In questa categoria rientrano Tristan Tzara, Benjamin Fondane, Isidore Isou, e molti altri che appartengono contemporaneamente a due letterature nazionali, romena e francese. Ancora una volta il concetto di mappa filologica è utile per descrivere una realtà ambigua che non corrisponde a nessuna nazione in senso politico e istituzionale.

La cultura romena appare sulla «mappa intellettuale» di cui parla Valery Larbaud proprio grazie ai suoi esponenti che hanno viaggiato, che sono entrati in contatto con altri letterati e filologi in epoche diverse, siano essi stati degli umanisti, o degli intellettuali nel senso moderno del termine3. Inoltre molti degli scrittori e filologi romeni che hanno contribuito, nei secoli, a collocare la cultura romena sulla mappa intellettuale dell'Europa sono stati in pari misura letterati e uomini politici. Fra questi abbiamo Grigore Ureche, Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul, che sono stati tutti uomini politici: hanno avuto in mano il potere, a un certo punto della loro vita, ma hanno anche agito politicamente con i mezzi e con le prerogative di uomini di cultura europei. Per mezzo delle relazioni con gli umanisti di altre culture, essi hanno giocato il ruolo di anello 3 Ancora nel periodo fra il 1980 e il 2011, se guardiamo al numero di scrittori migranti francofoni presenti in Francia, i romeni sono di gran lunga i più numerosi fra quelli provenienti da paesi europei (Moser, 2012).

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di congiunzione fra romeni ed europei. La circolazione dei valori romeni in Europa si è prodotta con mezzi diversi: certi scrittori hanno studiato nei paesi stranieri, in Polonia, a Constantinopoli, Padova, Parigi, in qualche caso furono esiliati, in altri hanno fatto viaggi o peregrinazioni che nascondevano scopi politici, molti di loro furono simultaneamente, o in periodi diversi della vita, cittadini di più Stati fin dal XVI secolo, inoltre hanno scritto in lingue diverse, integrandosi in più culture. L'Umanesimo romeno porta in sé l'impronta di queste appartenenze culturali e nazionali multiple.

Il passaggio di Valery Larbaud citato da Curtius è utile nel nostro lavoro anche perché nomina esplicitamente la cultura romena, collocandola in una posizione marginale in rapporto al centro dell'Europa. È vero altresì che per lui la cultura inglese, nel contesto europeo, sarebbe altrettanto marginale che la cultura romena, e possiamo facilmente comprendere che dietro a questa visione sta di fatto la visione del primato assoluto della latinità: per i filologi romanzi la centralità dipende dal peso che riveste il latino nella struttura profonda di una cultura o di una lingua. Non vorrei qui addentrarmi troppo nel dettaglio riguardo alla gerarchia delle culture in Europa, ma vorrei soltanto rimarcare che, nel caso dei romeni, essi hanno assunto questa posizione periferica come un vero e proprio segno distintivo dal punto di vista culturale, il che ha generato un complesso d'inferiorità e di marginalità.

La metafora delle mappe della cultura può essere letta anche in chiave diversa. In primo luogo si lega alle linee di separazione, di demarcazione nei confronti degli altri spazi. Ci sono poi i concetti di frontiera e di periferia, gravidi di conseguenze sia sul piano politico che su quello culturale. Il rapporto fra centro e margine, un tema assai importante nella cultura romena moderna, è legato alla posizione della cultura romena sospesa fra Oriente e Occidente, al margine dell'Europa, alle porte dell'Oriente.

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Dal momento in cui le frontiere interne dell'Europa sono più o meno completamente cadute, le mappe dei filologi sono diventate più importanti di quelle dei politici. Il fenomeno della migrazione, a sua volta, pone ulteriormente in discussione le frontiere fra culture e richiede un approccio del tutto nuovo, assai diverso dal nazionalismo delle storie letterarie d'impronta herderiana. L'interesse per la mediazione culturale cresce progressivamente in un universo in cui tanti cittadini possiedono (almeno una) doppia appartenenza. Questa novità richiede un cambiamento profondo nell'affrontare lo studio della letteratura, giacché anch'essa ha sempre avuto un'imprescindibile funzione identitaria. Sarà quindi compito dei filologi tracciare le nuove mappe dell'Europa, in modo che possa essere rappresentata, oggi, una convergenza, laddove nel passato si sottolineavano la differenze. Per questo appare vincente la scelta di orientare una ricerca come la presente su Curtius, al tempo stesso uno dei più importanti filologi europei e uno dei padri fondatori della letteratura comparata.

Per definire l'Europa, Curtius pensa alla storia e alla cultura del vecchio continente, in modo che la geografia ne viene ridisegnata secondo le coordinate culturali: «Accingendoci ora a trattare questo argomento, noi ci riferiamo all’Europa non in senso geografico, ma in senso storico. Quella "europeizzazione del quadro storico" oggi tanto necessaria deve essere applicata anche alla letteratura. Se l’Europa è un organismo che partecipa di due insiemi culturali, quello antico-mediterraneo e quello moderno-occidentale, lo stesso deve valere anche per la sua letteratura, che può essere intesa come un tutto unico soltanto se entrambe le sue componenti vengono comprese in uno sguardo solo.» (Curtius, 2006, 16)

È importante osservare che, per Curtius, l'Europa va costruita secondo linee diacroniche o, più esattamente, la cultura europea va studiata nel suo sviluppo diacronico. Non potremmo mai comprendere come si sia formato lo spirito europeo, se non

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seguissimo passo passo come si sono separati e distinti gli spazi culturali, come determinate culture sono arrivate ad essere considerate europee, mentre altre no, oppure non sufficientemente. Sospesa in una sorta di zona grigia, la cultura romena può trarre molto profitto da tale modello proposto da Curtius.

Parlando della sua ricerca sulla letteratura europea, Curtius spiega: «Se mi sono soffermato su tale opera, è anche perché l’analisi a cui mi accingo richiede preliminarmente un’interpretazione storica dell’Europa. L’Europa sarebbe semplicemente un nome, un’"espressione geografica" (come Metternich ebbe a dire dell’Italia), se non vi si annettesse un significato storico. Non può trattarsi, però, delle vecchie concezioni contenute nei nostri trattati scolastici: per questi, infatti, la storia dell’Europa, come tale, è addirittura inesistente; esistono solo le storie parallele, senza collegamenti reciproci, di vari popoli e Stati.» (Curtius, 2006, 14)

In questa visione d'insieme non appare mai il nome degli scrittori romeni, in quanto il canone di Curtius lascia del tutto fuori l'Europa orientale4.

1.2. Il canone della letteratura europea

Accettiamo l'assunto preliminare che, quando parliamo della letteratura europea, la mappa è una metafora cognitiva per il canone: lo è certo per Curtius, che disegna la mappa culturale e filologica dell’Europa prendendo come punti di riferimento i nomi importanti che hanno fondato il canone europeo. Per definire la letteratura europea, Curtius utilizza inoltre due coordinate, una temporale e una spaziale, in riferimento a uno spazio simbolico: «La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe).» (Curtius, 2006, 20) 4 Questo fatto è stato evidenziato e analizzato in particolare in Krömer, 2011, 189-198.

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Per Curtius la letteratura europea significa essenzialmente quella dell'Europa occidentale: «La nostra analisi è partita dalla constatazione che l’Occidente mediteraneo e nordico costituiscono, dal punto di vista storico, un'unità vitale. Ci siamo proposti di dimostrare tale unità anche nell’ambito letterario […].» (Curtius, 2006, 255) Egli sceglie esempi soltanto da alcune letterature: tedesca, inglese, francese, italiana, spagnola, con pochi riferimenti a quelle catalana e portoghese. Nessun richiamo alla zona slava, a quella nord-europea o a quella romena. Il tema essenziale della ricerca di Curtius è, in effetti, il Medio Evo latino, e così si spiega l'attenzione esclusiva riservata alle letterature romanze occidentali e il silenzio sul Medio Evo slavo o greco, cioè praticamente su tutta l'area della cultura bizantina, di cui fa parte anche la cultura romena. Il modo in cui Curtius argomenta che la letteratura medievale latina non è un momento di arresto, bensì un periodo di continuità nella cultura europea, potrebbe condurre a certe conclusioni rischiose, come ad esempio il fatto che potremmo arrivare a definire la letteratura europea soltanto in funzione delle letterature nominate da Curtius. Pur restando un nome importante nella storia della disciplina delle letterature comparate, Curtius viene criticato per il suo canone europeo troppo riduttivo, che comprende solo una parte delle letterature europee. David Damrosch osserva in Toward a History of World Literature (Damrosch, 2008, 481–495) che spesso, parlando di cultura europea, i comparatisti filologi parlano solo di due tre letterature5. Sul termine di letteratura europea grava un'accusa pesante da parte dei comparatisti dell'ultimo ventennio: le prime attestazioni del termine Weltliteratur risalenti al XIX secolo associano

5 «When people did look beyond the boundaries of a single nation, they usually stayed within a particular region, as in Ernst Robert Curtius’s European Literature and the Latin Middle Ages or Erich Auerbach’s Mimesis: The Representation of Reality in Western Literature. Even within their announced focus on Europe and on Western literature, Curtius and Auerbach concentrated largely on the literatures of just a few countries. So often praised for its remarkable range across Western literature, indeed, Mimesis might just as well have been subtitled The Representation of Reality in Italy and France — home to fifteen of the book’s twenty central texts.» (Damrosch, 2008, 482)

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l'eurocentrismo al concetto di letteratura universale. Nel momento in cui si inizia a parlare di letteratura universale, in Germania con Goethe e in Francia con Madame de Staël, il termine è definito in modo limitativo ed è quasi sinonimo di letteratura europea6, oppure, in senso ancora più restrittivo, la letteratura europea è ridotta alla letteratura di alcuni paesi europei.

Il dibattito sulla letteratura europea comincia timidamente dopo l’unificazione economica, giuridica e, in parte, politica, sebbene gli uomini di cultura e in particolare gli storici letterari siano rimasti abbastanza indietro rispetto agli economisti e ai giuristi, che sono riusciti a trovare un terreno comune di discussione, che guardi al di là delle divergenze nazionali. Un fatto strano, se pensiamo che la «letteratura europea» ha costituito, fin da quando Goethe ha proposto l’idea di una Weltliteratur, il nucleo forte della letteratura universale. Nel contesto della globalizzazione, discipline come la storia letteraria e la letteratura comparata mettono in discussione la loro antica relazione di interdipendenza e si ridefiniscono a vicenda.

Di fronte a queste accuse, pochissimi studiosi europei sembrano essersi preoccupati di vedere quali sono le caratteristiche della letteratura europea in quanto tale. Sono gli studi portati avanti soprattutto da americani e canadesi che hanno aperto il canone ad altre culture, considerate minoritarie, e a scrittori non canonici, intavolando una discussione teorica sulla legitimità di tale apertura del canone7. Siccome la disciplina della letteratura universale ha ricevuto un grande impulso negli ultimi decenni, parallelamente alla fioritura degli studi postcoloniali, il concetto di letteratura europea viene talora discusso secondo questa duplice prospettiva: da un lato si

6 Benché Goethe parli del romanzo cinese, che ritiene simile al romanzo europeo, tuttavia lo spazio destinato alle letterature non-europee nel quadro della Weltliteratur resta sempre ridotto fino all'epoca del postcolonialismo (cfr. Goethe coins a phrase, introduzione a Damrosch, 2003, 1-36). 7 Per esempio Weixlmann, 1988, 273-283; Said, 2001, 64-68; Pizer, 2000, 213-227; Hutcheon, 1995.

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pone la questione dell'allargamento delle frontiere e del superamento dell'eurocentrismo, dall'altro si rileva che il termine è stato associato, con una limitazione arrogante, ad un numero ristretto di autori e correnti, con l'esclusione arbitraria di vaste aree culturali.

Sul piano metodologico, si può parlare oggi di un cambiamento di paradigma nella rappresentazione della letteratura europea. Anche dopo essere stata accusata di aver monopolizzato l’attenzione e aver marginalizzato altri spazi, la letteratura europea si è venuta a trovare in una situazione paradossale: a quasi due decenni dalla caduta del comunismo, si continua a parlare di letteratura occidentale, espressione meglio definita di quanto sia quella di letteratura europea, e negli studi più recenti le letterature «minori», come la letteratura romena, continuano ad avere uno spazio ridotto. Le letterature dell’Est non sono riuscite a interagire con il nucleo del canone europeo e neppure a mettere in crisi il sistema gerarchico adottato finora.

Un particolare sguardo critico si rintraccia in ricerche recenti, come quelle di Cornis-Pope, John Neubauer8 e Maria Todorova9, i quali, per individuarne l’identità, isolano lo spazio balcanico e del Sud-Est europeo. I volumi dedicati a queste letterature riscrivono in senso postmoderno la storia della letteratura della regione, mettendo in luce sia il modo in cui la letteratura e l’identità nazionale si sono

8 L'idea che la nazione sia un'invenzione del XIX secolo, effettuata con l'ausilio di racconti, miti e figure rappresentative, è stata applicata in una storia della cultura dell'Europa centrale e orientale, coordinata da Marcel Cornis-Pope e John Neubauer (2004). In quest'opera gli autori cercano di offrire una visione trasversale, caleidoscopica e multiculturale di questo mondo, talora etichettato come balcanico. Gli studiosi analizzano soprattutto per quali vie le culture hanno rafforzato, e talvolta anche inventato, la propria identità attraverso i miti letterari, e soprattutto attraverso la critica letteraria, capace di promuovere un poeta nazionale, oppure il nucleo di valori culturali che incarnerebbero lo spirito nazionale. 9 La visione di Edward Said, secondo cui è l'Occidente che inventa l'Oriente, ha lasciato la sua impronta anche su certi studi che riguardano la zona balcanica, e che nominano anche la Romania e la sua cultura, come i lavori di Maria Todorova. Si veda in particolare il saggio «The Balkans: From Discovery to Invention» (1994) e il volume Todorova (a c. di)(2004).

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determinate reciprocamente, sia il processo che ha condotto all’«invenzione» dell’universo balcanico.

Gli studiosi hanno cominciato ad immaginare una possibile storia della letteratura europea, secondo diverse prospettive. Per esempio, Beatrice Didier cura il monumentale Précis de littérature europeenne, Paris, Presses Universitaires de France, 1998; Roberto Antonelli coordina il numero tematico Il canone europeo della rivista «Critica del testo», Sapienza, X/1 (2007), e si sofferma sul problema del canone letterario nell'articolo La letteratura europea, ieri, oggi, domani (pp. 9-40). Antonelli commenta qui la teoria di Curtius, e in particolare le trasformazioni che il canone europeo ha subito ineluttabilmente sotto l'influsso del multiculturalismo, da cui deriva l'importanza della definizione di letteratura europea nel rinnovato contesto attuale.

Ci sono anche altri tentativi di costruire una storia della letteratura europea, ma il dominio di riferimento della categoria «letteratura europea» non è definito in modo esauriente10.

Per il teorico della letteratura mondiale (world literature) David Damrosch, la ridefinizione della letteratura europea è legata alla rivisitazione della memoria collettiva che ha strutturato il relativo spazio culturale:

«Rethinking Europe concerns relations of national identities and collective memories, and the collective memories on which nations build are often transnational in nature. These concerns are very current today, but from the beginning, Comparative Literature as a discipline has been involved in rethinking the cultural-political landscape of Europe, even as it has worked to see European literature within the broader world at large. If comparatists are striving for a more fully global vision today, this expansion also involves an expanded conception of Europe itself. Comparative Literature has often been accused of ‘Eurocentrism,’ yet during the past century, much of Europe has often been farther than China from the discipline’s field of vision. In 1960, Werner Friederich, founder of the Yearbook of Comparative and General Literature,

10 Mi riferisco a Gérard, 1998; Didier (1998) Claudon, 2008.

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noted wryly that the term ‘world literature’ was rarely being applied to anything like the full world, even the full European world.» (Damrosch, 2007, 135)

L’unificazione europea, che sul piano culturale è ancora solo un’aspirazione, avrebbe come modello non gli stati-nazione del XIX secolo, che perseguivano l’unità linguistico-nazionale, e la differenziazione identitaria, ma una conoscenza reciproca e una visione comune che non dovrebbero avere come effetto una separazione brutale del centro (o dei centri) dal margine (o dai margini).

Se nell’epoca della globalizzazione è cambiato il modo in cui percepiamo la nazione, e forse anche il modo in cui la letteratura nazionale ne definisce l’identità, allora anche i confini del dominio culturale studiato dovrebbero essere riformati. Ad esempio, la caduta delle frontiere interne nel contesto dell'Unione europea dovrebbe produrre una differenza nel modo in cui percepiamo la nostra identità nazionale. L’unificazione europea all’inizio del terzo millennio dovrebbe produrre dei cambiamenti di prospettiva di importanza analoga a quella introdotta, nel XIX secolo, dalla separazione in stati nazionali. La storia letteraria, a sua volta, dovrebbe rispondere a questo cambiamento di paradigma con un cambiamento di mentalità. Non si potrà certo parlare della sparizione di un ambito, ma almeno di un mutamento di prospettiva del nostro abituale modo di affrontare la storia letteraria tradizionale.

Questi nuovi punti di vista riflettono un aggiornamento della metodologia, del modo in cui è recepita la letteratura e del modo in cui è organizzata e gerarchizzata dalla storiografia. Ciò che colpisce di primo acchito è l’impressione di crisi profonda che consegue a un imponente rovesciamento del paradigma: è come se la letteratura europea, definita in modo meno lungimirante che all’epoca di Goethe, dovesse essere ripensata, perché la metodologia della storia letteraria

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ha subito una profonda trasformazione. Ma proprio questa crisi, innescata dagli studi teorici sulla storia letteraria e sulla relazione fra letteratura nazionale e universale, può dimostrarsi estremamente feconda e produttiva.

Dai contributi critici e teorici citati, derivano alcune idee portanti di un nuovo modello. La dissoluzione del concetto di nazione e l’emigrazione determinano la formazione di identità nazionali ambigue, che non possono più essere catalogate tassonomicamente nel quadro di una storia letteraria nazionale. La serie dei cambiamenti politici legati all’unificazione europea e alla globalizzazione ha prodotto, o sta per produrre, un modo diverso di scrivere la storia letteraria. La metodologia della storia letteraria narrativa, così come è stata praticata nel XIX secolo, può trarre profitto dalle ricerche di letteratura comparata, metodo che può offrire uno strumento di presentazione più adeguato alle esigenze di culture non contrapposte ma dialoganti.

La moderna letteratura europea dovrà continuare in un certo senso la repubblica delle lettere, come osserva Adrian Marino nel primo capitolo del Précis de littérature européenne diretto da Beatrice Didier (Marino, 1998, 13-18).

Sintetizzando le definizioni della letteratura europea che emergono nel dibattito contemporaneo, si osserva che essa può essere definita sostanzialmente o come la somma delle letterature nazionali che compongono l’Europa o come un insieme di testi che hanno circolato molto e che hanno prodotto in questo modo un’identità comune riconducibile a un canone europeo. Quest’ultima definizione va verso l’idea che esistono degli scrittori europei da considerare transnazionali grazie alla loro presenza in più sistemi letterari (Casanova, 2009, 20-21). Il fatto di oltrepassare le frontiere nazionali inscrivendosi in una corrente letteraria europea è una costante nella riflessione di molti scrittori europei moderni.

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Le correnti letterarie che, dal XIX secolo, hanno riunito scrittori di diversi paesi, costituiscono la via più semplice per avere una visione sintetica della letteratura europea. In quest'ottica il concetto di modernità gioca un ruolo centrale, in quanto riguarda non tanto il rapporto dello scrittore con la tradizione, nazionale o meno, quanto il desiderio di innovare. Dall'Ottocento le innovazioni nella letteratura europea assomigliano a delle ondate che percorrono il continente portando oltre le frontiere nazionali il Romanticismo, il Realismo, il Naturalismo, Il Simbolismo. Francis Claudon vede l’unità della letteratura europea proprio in queste ondate che si chiamano «les mouvements littéraires européens», cui dedica un libro,(2008). L’idea che è la modernità che consolida il concetto di letteratura europea apparirà poi, fra l’altro, nel volume già citato di Pascale Casanova, La république mondiale des lettres (1999).

Così si fa strada l’idea di una letteratura che si propone di dissolvere le frontiere nazionali europee e di comunicare, attraverso le traduzioni, con diversi sistemi culturali. Questo concetto appare spesso nelle discussioni recenti sulla formazione di un corpus letterario europeo, che potrebbe addirittura entrare nei futuri programmi scolastici (R. Antonelli, «Sul senso e sulle prospettive di una ricerca»).

I rapporti fra filologia e comparatistica sono stati fin dalla nascita della seconda disciplina molto strette. Vilashini Cooppan, un teorico americano della world literature, afferma che i filologi E.R.Curtius e Erich Auerbach sono i fondatori della disciplina della letteratura comparata11. Il libro di Curtius non ha avuto però molti

11 «The foundational aspirations to a broadly imagined, incipiently global knowledge of literature were first voiced for comparative literature by Goethe, subsequently reiterated in the middle of the twentieth century by Ernst Robert Curtius and Leo Spitzer in the forms of a Latinate Europe’s common tradition, and found perhaps their most haunting expression in the work of Eric Auerbach, the other patron saint of the discipline.» (Cooppan, 2004, 16)

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seguaci, anche se è stato tradotto e citato numerose volte, in quanto non ha aperto una scuola di pensiero che avrebbe portato alla costituzione di una disciplina di studio. Mi soffermerò nel paragrafo successivo sul suo modello d'indagine, per descriverlo in breve e per mostrare quali sono i punti del suo metodo che si potrebbero applicare utilmente allo studio della letteratura romena, in una visione ispirata allo stesso tempo alla filologia e alla letteratura comparata.

1.3. Il modello di Curtius e l'evoluzione delle sue idee nelle ricerche attuali.

Curtius spiega assai poco del suo metodo di analisi, che tuttavia si può ricavare da alcune sue enunciazioni generali, ma soprattutto dal modo in cui si strutturano le sue argomentazioni. È importante ricordare che questo metodo è il risultato di alcune polemiche in cui era coinvolto lo stesso Curtius. Una delle polemiche è la rivalutazione della posizione della letteratura medievale latina, vista non come sorella minore della cultura classica, ma come anello di congiunzione fra il mondo dell'antichità e quello della modernità. Un risultato secondario ma essenziale di questa polemica è il fatto che così si cerca di stabilire una continuità della cultura europea. Un'altra polemica che coinvolge Curtius è quella contro il metodo della Geistesgeschichte (storia dello spirito), che egli considera riduttivo in quanto associa in una stessa categoria fenomeni del tutto eterogenei. Curtius crede che tale metodo tenda a considerare le epoche storiche come se fossero collocate in sistemi chiusi, essendo le loro caratteristiche generali derivate dall'estetica, dalla metafisica, dal carattere nazionale o da una combinazione di questi tratti.

Farò riferimento ai criteri secondo i quali Curtius definisce la letteratura europea e alle caratteristiche essenziali del suo metodo, che metterò in relazione con gli orientamenti più recenti della

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comparatistica, per imbastire una procedura di analisi che si propone di cercare, nella letteratura romena, alcuni dei topoï identificati da Curtius nella letteratura europea. Si sceglieranno così dal ricchissimo libro di Curtius, gli aspetti metodologici che possono essere applicati alla letteratura romena e che possono aiutare a presentarla in un contesto europeo.

Tre sono le osservazioni preliminari per lo studio della letteratura europea che derivano dal metodo di Curtius, e che riprenderemo nel nostro lavoro. La prima riguarda il superamento della suddivisione della letteratura europea in correnti, che risulta del tutto limitativa, la seconda osservazione si riferisce alla non opportunità della suddivisione della letteratura europea in letterature nazionali, e infine la terza prende come oggetto il ruolo della traduzione nello studio della letteratura europea. Quest'ultima osservazione viene espressa in modo indiretto, ma è assai importante per l'epoca della globalizzazione in cui viviamo oggi e si evince da un'affermazione di Curtius sul ruolo della traduzione nella conservazione della «freschezza» di un testo. Queste tre osservazioni hanno trasformato Curtius in un pioniere degli studi sulla globalizzazione in letteratura.

1.4. Il superamento delle correnti letterarie

La strutturazione in correnti ed epoche letterarie viene

considerata da Curtius un ostacolo per lo studio delle forme della tradizione letteraria. «Si potrebbe abbozzare una morfologia della tradizione letteraria: ma ecco che ancora una volta manca, alla scienza infima della storia letteraria, la strumentazione di concetti diferenziati ed elaborati secondo principi autonomi. Esistono, sì, una una mezza dozzina di concetti: ma sono come macigni, pesanti e grossolani, e si chiamano umanesimo, rinascimento, classicismo, romanticismo,

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preromanticismo, preumanesimo: con una così misera strumentazione, non c’è più nulla da fare.» (Curtius, 2006, 434) Egli crede che questa sistematizzazione presenti molti inconvenienti, fra cui quello di costituire un insieme di concetti vaghi, generalizzanti e dunque trasferibili con difficoltà da una letteratura all'altra. Curtius respinge quindi senza appello la suddivisione della letteratura europea in epoche letterarie, perché secondo lui questo modo tassonomico di definizione manca di concretezza e non parte dall'analisi concreta dei testi.

Si tratta di un punto di vista oggi molto attuale, assunto nella discussione in corso negli ultimi anni sulla crisi delle storie letterarie (Perkins, 1992). Quando il teorico Hans Perkins parla di crisi delle storie letterarie e della difficoltà di realizzare storie unitarie della letteratura universale, esso usa gli stessi termini di Curtius, anche se in effetti non lo cita esplicitamente. Anch'esso sottolinea in Is Literary History Possible?, che, dietro a certi termini come manierismo o classicismo, si nascondono realtà letterarie diffuse e che non hanno un corrispondente preciso nelle letterature nazionali europee.

Parlando dell'opposizione arbitraria fra Classicismo e Romanticismo, Curtius osserva che questa fu introdotta dai comparatisti francesi in quanto rilevante in modo specifico per la storia letteraria francese, mentre nelle altre letterature è fortemente limitativa: «Questa specie di scienza letteraria ha l’ingenua intenzione di imporre alla letteratura europea schemi di sviluppo validi esclusiamente per la Francia (secolo XVII = classicismo, XVIII = classicismo e preromanticismo, XIX = romanticismo) combinanadoli con la carta geografica-politica uscita dai trattati di pace, seguiti alla prima guerra mondiale.» (Curtius, 2006, 299)

Per quanto riguarda la letteratura romena, essa potrebbe trarre assai profitto da questa dissoluzione del concetto di corrente letteraria, dato che questo si ritrova nella letteratura romena in forma

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impura fino al periodo moderno. Eliminando alla radice questo genere di polemiche riguardo all'esistenza di un unico barocco o classicismo, ci possiamo meglio concentrare sui testi letterari e sui temi o gli stili ad essi connessi.

1.5. L'abbattimento delle frontiere delle letterature nazionali.

La suddivisione dello studio della letteratura europea nelle

singole letterature nazionali sembra a Curtius persino più limitativa di quella in correnti letterarie, e quindi costituisce un metodo del tutto superato. Da un lato l'associazione della geografia e storia politica con lo studio della cultura gli sembra sbagliata, dall'altro la doppia limitazione imposta dal frazionamento sia nel tempo che nello spazio gli sembra eccessiva: «La storia delle "grandi potenze" di oggi o di ieri viene insegnata sulla base delle ideologie e dei miti nazionali, artificiosamente isolati. L’Europa, cosí, viene dunque scomposta in tanti frammenti geografici; inoltre, mediante le suddivisioni in Evo antico, Medio Evo ed Evo moderno, viene frazionata anche nel tempo. Tale duplice scomposizione è, fino ad un certo punto (per lo più superato nella pratica), necessario per motivi pedagogici. Tuttavia, per motivi pedagogici sarebbe altretanto necessario collegare il tutto con una visione d’insieme.» (Curtius, 2006, 14-15)

Ciò che interessa Curtius sembra essere quella visione globale che non si può ottenere al di fuori di uno studio comparatistico: «La parcellizzazione della letteratura europea in una quantità di filologie tra loro disgiunte lo impedisce quasi totalmente.» (Curtius 2006, 21) L'espressione «filologie tra loro disgiunte» solleva un ulteriore problema, assai discusso, e in modo polemico, negli studi recenti di letteratura comparata: qual è il ruolo della lingua, e quindi della filologia, nello studio della Weltliteratur? «Le filologie “moderne” si dedicano alle ”letterature nazionali moderne”: tale concezione è sorta

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con il risveglio delle nazionalità sotto la spinta del Super-stato napoleonico; è dunque legata ad un’epoca precisa ed apare perciò tanto più dannosa per la visione globale.» (Curtius, 1999, 21)

In una recensione all’apparizione di Europaische Literatur und lateinisches Mittelalter, l’altro padre fondatore della disciplina della comparatistica, anche lui filologo romanzo, Erich Auerbach, osserva:

«Among the leading ideas, there is first of all the radical rejection of all national or chronological isolation within European civilization, and the establishemnent of “European Literature as the intelligible field of study” for historians of literature. Closely linked with this program is the conception of European literature as a unity based on the Latin tradition – a tradition which has never been interrupted, if not in the last two centuries.» (Auerbach, 1950, 348)

Il motivo per cui Curtius rifiuta la separazione della letteratura europea in filologie disgiunte è l'importanza centrale accordata all'analisi dei topoï, intesi come unità intermedie del discorso che si sono tramandate dalla cultura classica a quella moderna per mezzo della retorica. Il fatto che tali topoï si ritrovano in diverse letterature neolatine, ad esempio in quella francese, in quella spagnola e in quella italiana, è proprio ciò che, secondo Curtius, conferisce unità alla cultura europea. Quindi, di là dal fatto che sono stati originariamente trasmessi attraverso la lingua latina, questi topoï verranno studiati ora nelle lingue moderne in cui si manifestano, in quanto la loro circolazione ne evidenzia il carattere transnazionale, in questo caso europeo.

In molti paesi dell’Europa centrale e sud-orientale, le storie nazionali si affermano, nel XIX secolo, in stretta relazione con lo sviluppo del concetto di nazione. Nello spazio europeo orientale, la tradizione delle storie letterarie ha una genealogia legata molto strettamente alla storia e alla politica. Nella presentazione di una ricerca collettiva in più volumi dedicata alla storia letteraria dell’Europa orientale, Marcel Cornis-Pope e John Neubauer osservano:

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«Literature was first institutionalized in societies that had problematic identities: Germany, Italy, some Scandinavian, and most East-Central European cultures. Constructing a national literature was in these areas a major contribution to the struggle for a national language, culture, and political independence.» (Cornis-Pope, Neubauer, 2002, 12)

Nell’Europa sud-orientale i poeti e gli scrittori hanno contribuito all’«invenzione delle nazioni» attraverso le loro opere e l’impegno profuso nella fondazione di istituzioni culturali. Un buon esempio per la cultura romena è la generazione del 1848 (Paşoptişti), che era al corrente di ciò che accadeva nell’Europa contemporanea, e cercava di produrre altrettanto per l'identità letteraria romena. I filologi che studiavano la lingua, i folcloristi che raccoglievano testi popolari, i critici che sostenevano un «poeta nazionale» e che sottolineavano l’importanza della scelta di soggetti ispirati alla storia nazionale, sono stati coloro i quali hanno legato la storia letteraria all’identità nazionale. I filologi hanno giocato quindi un ruolo centrale in questa operazione mirata a modellare uno spirito nazionale12. Ebbene, qui si trova il nucleo concettuale della storiografia letteraria nazionale13, che appare e si sviluppa in un momento in cui alla letteratura si chiedeva di generare un’immagine forte e stabile: «National literary histories 12 «The philologists also republished medieval and Baroque texts, which often represented glorious chapters in the national history. Above all, they canonized national poets. In the early phases of constructing a national literature this usually meant the revival of an older poet; in the later phases it amounted to the apotheosis of a nineteenth-century one. All peoples of East-Central Europe manufactured in this way national icons.» (Cornis-Pope, Nebauer, 2002, 14) 13 Nella letteratura inglese, il luogo che occupa Shakespeare fin dal XVIII secolo è essenziale par la definizione di uno spirito nazionale. Steven Grennblatt osserva: «The project of literary history in the eighteenth and nineteenth centuries and the particular place that Shakespeare occupied in it were bound up with nationalism not only in England but in France, for example, where a rejection of Shakespeare played a role in the defining of national taste, and in Germany, where an emulation of Shakespeare shaped several of the greatest literary careers.» (Greenblatt, 2001, 51) Quindi la letteratura gioca un ruolo centrale nella formazione dello spirito nazionale non solo nei paesi che si formano politicamente nel XIX secolo, ma anche in un paese con una lunga continuità e stabilità istituzionale, come la Gran Bretagna.

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had archetypal structures and stock roles that could be filled by different heroes and villains. The nation assumed in these grand narratives the role of a collective hero» (Cornis-Pope, Neubauer, 2002,15) Le storie letterarie romene si sono definite secondo la poetica ottocentesca che richiedeva la ricerca di uno spirito nazionale – anche se critici come G. Călinescu o E. Lovinescu hanno sempre sottolineato lo stretto rapporto con la cultura europea.

Sarà forse giunto il momento di pensare non solo a come la letteratura ci può aiutare a capire la nostra specificità nazionale, ma anche al fatto che non abbiamo più tutti un’identità nazionale semplice, pura, bensì siamo il risultato dell’epoca della globalizzazione e la nostra cultura è sempre più ibrida. Si tratta di un'ibridità che non possiamo nettamente definire, proprio perché derivante da molteplici radici culturali.

In virtù di tutto ciò, negli ultimi decenni questo tipo di storia letteraria romena, il cui modello si può riconoscere in Iorga o Călinescu, è da considerarsi superato. La storiografia letteraria nazionale è entrata in crisi a causa di numerosi e diversi fattori: la globalizzazione, i fenomeni migratori, la diffusione degli studi postcoloniali e la generale imposizione dell’inglese quale lingua di comunicazione. Non si sente più la necessità di sottolineare il carattere nazionale della letteratura, in quanto la storiografia non è più chiamata a inventare un’identità nazionale, mentre, al contrario, le identità marginali e difficilmente classificabili sembrano attrarre l’attenzione dei critici proprio sui loro elementi di ibridismo e indefinibilità. Ebbene come si fa storia letteraria in questo contesto? O meglio, è ancora possibile la storia letteraria in questa situazione? Questa ultima domanda costituisce il titolo di un importante saggio di David Perkins, Is Literary History Possible?14

14 Muovendo dall’osservazione che la maggior parte delle storie letterarie del XIX secolo sono assimilabili a delle narrazioni, David Perkins pone la questione in questi termini: «The question, then, of whether literary history is possible is really whether any

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La crisi delle storie letterarie nazionali acquista nuova luce se guardiamo la questione da una prospettiva di tipo comparatistico. In un articolo intitolato «'Living in the Same Place': the Old Mononationalism and the New Comparative Literature», pubblicato nel 1995, Marjorie Perloff osserva che è diventato impossibile parlare della letteratura americana come espressione di un’unica nazione15. Il modo in cui Marjorie Perloff guarda alla migrazione degli scrittori16 e alla circolazione delle idee e dei temi da una letteratura all’altra si applica molto bene alla letteratura europea. La Perloff continua quindi con un’osservazione di ordine metodologico che mostra come anche il modo di fare letteratura comparata sia cambiato rispetto al metodo in voga nel XIX secol, quando si confrontavano le letterature nazionali17.

Alla crisi delle storie nazionali corrisponde il cambiamento del concetto delle nazioni, che nell’Europa di oggi si stanno trovando una

construction of a literary past can meet our present criteria of plausibility.» (Perkins, 1992, 17) 15 «This, I shall argue here, is where comparative literature can – indeed must – play a central role. For, given the migrations and emigrations, the exiles (sometimes voluntary, more often forced) that have created U.S. citizenry in the late twentieth century, how can we continue to take 'American literature,' as it continues to be called in survey courses and textbooks, as a mononational entity? And what about an earlier period like the Renaissance? Given the movement from nation to nation in that period, coupled with the exploration of the New World, is it meaningful to study, say, English Renaissance lyric in isolation?» (Perloff, 1995, 249) 16 Il tema è stato molto dibattuto negli ultimi anni e offre interessanti spunti di riflessione nella questione dell’identità europea e, in modo particolare, anche del fenomeno dell’esilio romeno. Riporto alcuni titoli che si riferiscono alla difficoltà di classificare opere o scrittori che non appartengono a una (sola) letteratura nazionale: Mardorossian, 2002, 15-33; Walkowitz, 2006; Mathis-Moser; Mertz-Baumgartner, 2012. 17 «I am thinking not so much about comparisons between national literatures--the old comparative literature, which was, in many ways, a natural response to nineteenth-century national paradigms--as about the simple reality that today the national literatures are themselves assemblages of many 'other-national' strands, sedimentations where different national and hence linguistic elements won't separate out, compost heaps, so to speak, in which nations of origin become curiously conflated. To understand this new situation, we must begin by looking at the nineteenth-century model of a 'nation space.'» (Perloff, 1995, 249)

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definizione piu aperta. Alla luce di tutto ciò, sarà quindi utile pensare a un modello di analisi della storia letteraria come quello di Curtius. Non si dovranno certo annullare tutte le distinzioni che riguardano le letterature nazionali, piuttosto, dovremmo imparare a fare la storia delle letterature nazionali in una maniera comparatistica, europea.

In Italia è già stata pubblicata una magistrale storia letteraria romena impostata secondo questi nuovi e imprescindibili parametri, diretta da Bruno Mazzoni e Angela Tarantino. I curatori presentano la loro visione sulla storia letteraria con queste parole: «Rispetto alle indagini e agli studi romeni di storia letteraria e alle sintesi critiche recenti […] abbiamo ritenuto di dovere operare un taglio tematico-problematico che superasse l’impianto storicistico classico, teso in prevalenza a illustrare il sistema letterario di una determinata realtà linguistico-culturale, e i suoi relativi codici di riferimento, come sistema stabile, rigidamente fissato lungo un asse cronologico-evenemenziale.» (Mazzoni; Tarantino, 2010, VIII-IX). Il risultato di questa ricerca revoluzionaria nel campo della storia letteraria romena, a cui ci siamo ispirati, viene descritto cosi dagli curatori: «L’insieme di questi elementi è stato il prodotto dell’incontro/scontro tra civiltà e culture diverse, impostesi talora con la forza ovvero liberamente scelte in nome del loro proprio prestigio e della loro affinità o consonanza con taluni elementi propri dell’immaginario romeno, che si sarebbe tentati di definire, sulla scorta dell’affascinante morfologia della cultura del poeta e filosofo transilvano Lucian Blaga, con il sintagma "matrici stilistiche"» (Mazzoni; Tarantino, 2010, IX).

1.6. Il ruolo delle traduzioni nella creazione di uno spazio letterario europeo

All'interno di un paragrafo in cui polemizza con la

Geistesgeschichte, Curtius osserva: «Per la letteratura tutto il passato è

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presente; Omero può apparirci nuovo grazie ad una nuova traduzione, e l’Omero di Rudolf Alexander Schröder non è quello di Voss. In qualsiasi momento io posso leggere Omero o Platone, ed allora ne sono "padrone", totalmente padrone; essi esistono in inumerevoili esemplari.» (Curtius, 2006, 21-22)

Sebbene egli rimanga un adepto della filologia e scelga di parlare di testi la cui lingua gli è nota, non esclude però l'attualizzazione di un testo per mezzo della traduzione. La visione che ha Curtius del problema della traduzione è sorprendentemente moderna. È vero che Curtius fa tale affermazione per sottolineare la differenza fra le arti figurative e la letteratura, ma l'idea che un testo possa essere studiato in traduzione, e in tal modo esso diventi più attuale, è rivoluzionaria per lo studio comparatista. In ricerche recenti sulla letteratura universale nell'epoca della globalizzazione, 18 si è riaccesa questa polemica: è meglio che in un corso di letteratura universale vengano introdotti testi, altrimenti inaccessibili, in traduzione, in modo da superare l'eurocentrismo, oppure dovranno essere studiati solamente testi in lingua originale? La visione globalizzante della questione apre l'accesso anche ad alcuni testi scritti in lingue inaccessibili e da leggere in traduzione, ma resistono i puristi che ritengono che in tal modo si aprirebbe il vaso di Pandora e si distruggerebbero a poco a poco dalle fondamenta sia la filologia che lo studio del testo19.

Curtius rimane sicuramente un filologo, tuttavia il fatto che vede la traduzione come un mezzo con cui uno scrittore può essere "rinfrescato" non è molto differente dall'argomento dei comparatisti che credono che sia meglio se un romanzo in cinese viene letto in traduzione, piuttosto che farlo rimanere completamente inaccessibile

18 Vedi Gillespie, 2005, 337–341. 19 Negli ultimi anni questa polemica si è trasferita nel contesto dell'allargamento del campo della disciplina che studia la letteratura universale. Vedi Damrosch, 2003.

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a studiosi che non conoscono la lingua. Goethe non pensava diversamente quando parlava di Weltliteratur nelle conversazioni con Eckermann. Il motivo per cui Curtius sottolinea il ruolo e l'importanza della traduzione nella ricezione di alcuni testi che altrimenti sarebbero rimasti inaccessibili, come è anche il caso di Omero, è che lui cerca in ogni modo di abbattere le frontiere fra le letterature, superando la distinzione fra le filologie parallele. D'altra parte il culto di Curtius per il latino spiega forse la frequenza con cui appare il termine "globale" nelle sue affermazioni di valore teorico. Il latino, e in particolare il latino medievale, è il mezzo ideale di trasmissione di quei topoï che assicurano unità formale alla letteratura europea.

Nel caso della letteratura romena la questione riveste una certa importanza, dato che, non essendo il romeno una lingua di comunicazione internazionale, le traduzioni svolgono una funzione insostituibile per l'accesso all'agone culturale europeo. Si vedranno molti casi antichi di autori che scrivono le proprie opere sia in romeno che in altre lingue, come il latino o il greco, fino agli esiti paradossali cui condurrà Cioran il rapporto con la sua madrelingua.

1.7. Applicazione e attualizzazione della topologia di Curtius

La letteratura europea non andrebbe dunque studiata in funzione delle correnti o delle letterature nazionali. Anche l'esistenza delle diverse lingue nazionali non andrebbe utilizzata come argomento per la separazione della letteratura europea nelle differenti filologie, ma si dovrebbero al contrario studiare gli elementi di continuità e di unità nel contesto europeo. E così siamo giunti all'adozione del metodo di Curtius, cioè alla topologia.

1. 7.1. La topologia e il terreno di unità della letteratura europea

Per mostrare il campo in cui la letteratura europea si costituisce in unità concettuale che può essere studiata, Curtius ricorre a un

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termine preso in prestito dalla retorica classica: il topos. Egli accorda un’importanza maggiore a queste unità del discorso che sono i topoï e al fatto che esse circolano fin dall'antichità, cioè non appartengono specificamente alla letteratura greca o a quella latina, e si trasmettono lungo i secoli nelle diverse letterature su un'area geografica abbastanza vasta, l’Europa. Utilizzando la topologia come metodo di ricerca, Curtius evita il conflitto latente fra nazionale ed europeo o universale. In virtù di tale metodo, che egli non spiega a fondo, ma applica con dovizia di esempi, argomenta l’esistenza di un certo numero di topoï che circolano dagli antichi ai moderni passando attraverso la letteratura medievale.

Pensando come un comparatista moderno, Curtius ci fa vedere una sorta di rete che lega con il filo rosso dei topoï le letterature e poi, da fine filologo, analizza i singoli testi scendendo al livello più profondo (close reading) e nelle lingue originali. Curtius descrive il suo metodo come una morfologia comparata delle culture: «La prima guerra mondiale aveva posto in evidenza la crisi della cultura europea. Come nascono, come crescono e tramontano le culture e gli elementi storici che lo sostengono? La risposta a questa domanda può provenire solo da una morfologia comparata delle culture che operi secondo una logica stringente.» (Curtius, 2006, 12)

Questa morfologia comparata delle culture e composta da elementi di continuità ed elementi di identica struttura: «La nostra analisi è partita dalla constatazione che l’Occidente mediteraneo e nordico costituiscono, dal punto di vista storico, un'unità vitale. Ci siamo proposti di dimostrare tale unità anche nell’ambito letterario; era dunque necessario rendere visibili gli elementi di continuità che fino ad oggi erano sfuggiti all’osservazione degli studiosi. Una minuziosa analisi filologica ci ha permesso di scoprire, in testi di più varia provenienza, elementi di identica struttura che sono stati interpretati, perciò, come costanti espressive della letteratura europea: essi

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dimostrano che la teoria e la prassi dell’espressione letteraria si sono propagate dappertutto con le medesime caratteristiche: il denominatore comune fu la retorica.» (Curtius, 2006, 255)

L'idea che esista una letteratura europea è argomentata implicitamente mediante una strutturazione unitaria del dominio dell'analisi. Curtius argomenta parallelamente la necessità di trovare un punto di coincidenza fra antichità e modernità20, e l'esistenza di una letteratura europea.

Lo studio dei topoï come metodo per sottolineare l'unità culturale di uno spazio ha attirato molti adepti. In effetti, fra le prime recensioni sul volume di Curtius, c'è quella di Spitzer, secondo cui non vi si trova in verità un metodo21. Anche Gelley manifesta la stessa osservazione, affermando che la topologia è semplicemente un’arte per trovare la verità22.

L'idea più importante fra quelle che hanno ispirato il lavoro di Curtius potrebbe essere che, con l'aiuto della retorica, diventa possibile trovare l'unità di un universo apparentemente caotico e restio a ogni principio ordinatore e classificatore: la letteratura europea. Anche se egli non ha accordato nessuna attenzione alle zone

20 Curtius dimostra che la letteratura medievale, invece di costituire una pausa nell'evoluzione del pensiero europeo, presenta numerosi punti in comune tanto con la letteratura dell'antichità, che con quella del Rinascimento, del Manierismo o dell'Illuminismo. «Nessun periodo della storia letteraria europea è stato tanto negletto quanto la letteratura latina del primo e dell’alto Medio Evo. Eppure risulta evidente dalla concezione storica dell’Europa che proprio quel periodo assume una posizione chiave, come anello di congiunzione fra il mondo antico avviato al tramonto ed il mondo occidentale in lenta, graduale formazione.» (Curtius, 2006, 21) 21 «Personally, I am not convinced that topology is a new method - it is only a new, and very rich, source of historical information which finds its place within the age-old inquiry into outward sources-it represents indeed a more systematic approach to the ultimate out-ward sources.» (Spitzer, 1949, 426). 22 «It might be said that Curtius makes no claim for any general method, that what he offers in European Literature is only a propaedeutic for further historical and critical studies. On one occasion he does indeed write that topology (Toposforschung) represents for him simply “a heuristic, an ars inveniendi”» (Gelley, 1966, 586)

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letterarie la cui lingua non gli era nota, come nel caso del romeno, nulla ci impedisce di applicare il suo metodo a tale area ed estenderne così il campo di applicazione.

Il libro di Curtius diventa così estremamente attuale e tuttora assai fecondo, in quanto il modo in cui propone di oltrepassare le coordinate nazionali, cercando invece i punti di continuità fra letterature, risulta utile particolarmente nel caso di una ricerca che mira a mettere in relazione la letteratura romena con la letteratura europea. Attingerò quindi a piene mani al suo metodo per rilevare, da un lato, l’unità della cultura romena all’interno di un'area che fino al 1859 non era chiamata «Romania», bensì corrispondeva ai territori di Valacchia, Transilvania e Moldavia, dall’altro, per evidenziare i punti di comunicazione fra questa e la cultura europea.

Applicando il metodo di Curtius, si potrà aprire il canone europeo a testi romeni, anche meno conosciuti, attraverso delle analisi di testo. Si mostrerà che le «costanti formali della letteratura europea», identificate da Curtius, appaiono anche nella letteratura romena. In questo modo il mio lavoro s'ispirerà alla Letteratura europea, di Curtius, e, al tempo stesso, vi si farà uso sia della ricerca filologica, che dei metodi della letteratura comparata. Il soggetto del lavoro, per coerenza metodologica, si focalizza invece in modo esclusivo sulla letteratura romena.

Perché è cosi importante definire una letteratura nazionale, in questo caso la letteratura romena, in un contesto europeo? Definendo la letteratura nazionale nell’ottica della letteratura europea sottolineiamo il fatto che esistono due universi: il primo è quello dei prodotti letterari nazionali, strutturati in un sistema coerente che esprime, secondo un discorso critico dato, l’identità nazionale; il secondo è un sistema più ampio e complesso, più difficile da definire, ma all'interno del quale è importante l'inclusione della letteratura romena, per non rischiare facili e deleterie marginalizzazioni, ghettizzazioni o addirittura esclusioni. In altri termini, una storia

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letteraria narrativa costruita solo in funzione di valori nazionali, tenuta al di fuori del sistema letterario europeo, può difficilemente essere immaginata nel mondo globalizzato.

La piena conoscenza dell’altro (sia esso un popolo, un’epoca, uno spazio geografico) avviene oggi per il tramite della cultura (traduzioni, mostre ed esposizioni, turismo), ma questo non è una novità assoluta, in quanto anche i nostri avi illuministi e romantici conoscevano gli altri attraverso i viaggi, e possiamo affermare che le memorie di viaggio siano parte integrante dell’immaginario europeo fin da prima del XIX secolo23. A differenza del viaggiatore romantico che attraversa l’Europa alla ricerca di paessaggi esotici e che, giunto a Budapest, crede di essere approdato in Oriente, il lettore contemporaneo dispone certo di un numero di informazioni virtualmente infinite. Eppure la percezione che un citadino occidentale ha della Romania è rimasta pericolosamente vicina agli stereotipi veicolati più di un secolo fa da Paul Morand e Bram Stoker.

In tale contesto affrontare la questione dell’immagine della letteratura romena nel mondo e in Europa significa, in buona sostanza, accettare il fatto che assumiamo un punto di vista più aperto anche quando pensiamo alla storia letteraria nazionale. Vale a dire che, nel momento in cui presentiamo le grandi figure della letteratura romena, lo facciamo nella prospettiva della loro potenziale integrazione nella cultura europea. Se accettiamo che la necessità di integrarci culturalmente nella famiglia degli spiriti europei sia molto più pressante per la cultura romena che per quella tedesca, italiana o tedesca – che costituiscono il nucleo forte del canone letterario europeo, come osserva Curtius, – allora diventa essenziale elaborare un percorso metodologico ben fondato che conduce dalla storia letteraria romena alla letteratura europea.

23 Cfr. la relazione molto importante fra le memorie di viaggio e l’invenzione dell’Europa orientale sottolineata in Andersen (2007) e Gephardt (2005).

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Quando associamo la letteratura romena alla letteratura europea riprendiamo, secondo una prospettiva diversa, il dibattito che G. Călinescu affrontava nei capitoli dedicati alla relazione fra valori nazionale e valori universali. La differenza è che la storia di Călinescu era una narrazione unitaria, concepita secondo il modello impostosi nel XIX secolo, con al centro Eminescu, poeta nazionale, mentre la storia letteraria postmoderna, organizzandosi in altri modi, fa affiorare implicitamente il discorso dell’attuale crisi delle storie letterarie nazionali24, e allo stesso tempo, ci costringe a guardare il destinatario e il punto di arrivo, ovvero la letteratura europea. Finora esiste una sola storia letteraria romena che potremmo definire postmoderna, di cui è apparso il secondo volume, curata da B. Mazzoni e A. Tarantino. La visione originale presente in questa storia letteraria è pari alla precisione con cui riesce a cogliere i punti più importanti del modernismo romeno.

1.7.2. Un topos stabile nella cultura romena: «il paragone con le altre culture»

Si seguirà in primo luogo la storia di un topos persistente nella

storia letteraria romena: il paragone fra la cultura romena e le altre culture. Esso compare già negli umanisti ed è legato in origine alla responsabilità di definizione della propria nazione di fronte agli altri popoli. Si ritrova negli scrittori vissuti fra Cinquecento e Seicento, come Grigore Ureche (1590-1694), che scrive il suo Letopisețul Țării Moldovei de când s-au descălecat țara și de cursul anilor și de viața domnilor care scrie de la Dragoș până la Aron Vodă per conservare la memoria della storia della Moldavia, ma in sostanza per rendere nota l'esistenza stessa di questa terra e di questo popolo. In certi casi il topos è legato a un più o meno esplicito complesso d’inferiorità rispetto alle

24 Cfr. Greenblatt (1997, 2001), Perkins (1992).

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altre culture, che compare talora legato ad un altro topos classico, «io offro cose mai dette» .

In queste prime opere storiche gioca un ruolo essenziale anche l’esilio o il viaggio, nella cristallizzazione della conscience de soi dell'autore e della sua appartenenza identitaria. Nel Cinquecento e nel Seicento, infatti, molti intellettuali moldavi o valacchi erano obbligati a partire dal loro paese a causa delle condizioni politiche. In un libro dedicato all'esilio romeno Eva Behring scrive: «Grigore Ureche (circa 1590-1647) si reca da bambino in Polonia, dove suo padre, gran governatore (vornic) di Moldavia, si era dovuto rifugiare; Miron Costin (1633-1691), al quale è stata attribuita, al pari del padre e dei fratelli, anche la cittadinanza polacca e il rango di nobile di Polonia, ha frequentato il collegio gesuita di Bar, divenendo membro della «șleahtă» (consiglio del regno polacco), e, a venti anni, ha colto con gioia l'occasione di tornare in Moldavia. [...] Dimitrie Cantemir (1673-1723), [...] a causa della sua politica antiturca, è partito per l'esilio in Russia (1711) ed è stato attivo lì fino alla morte, come sapiente di corte e famigliare di Pietro il Grande. » (Behring, 2001, 16)

Questi intellettuali, la cui esistenza fu segnata da partenze, in alcuni casi ripetute, e di ritorni, come accadde per Miron Costin, Dimitrie Cantemir o Grigore Ureche, hanno scritto opere allo scopo di definire la romenità scrivendone la storia, sotto l’influsso della retorica umanistica.

Perché tuttavia questi intellettuali umanisti scrivevano in lingua romena? Perché credevano che fosse importante l'esistenza di scritti non solo in slavone o in greco o in latino, ma anche in romeno? Una ragione è sicuramente il fatto che avevano viaggiato e che si erano integrati nella repubblica delle lettere umanista. Ma il ruolo centrale della cultura in lingua nazionale ha nel loro caso un valore politico.

L'isolamento degli intellettuali romeni dal Centro e dall'Oriente dell'Europa, in combinazione con il loro legame con l'area culturale

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bizantina, ha fatto sì che la cultura romena fosse meno conosciuta in Occidente. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 i romeni si sono rivolti verso l’Occidente e hanno capito quanto fosse importante far conoscere la propria terra. Per Ureche e Costin diventa quindi importante scrivere un libro con valore fondante, in cui i romeni potessero riconoscersi, e far conoscere il loro paese agli stranieri. Le loro cronache si ispirano sia all'umanesimo europeo, che al desiderio che avevano gli autori stessi di legittimare la propria stirpe, mediante la scrittura e la circolazione dei libri.

Il contatto con altri umanisti europei ha generato un processo di auto-definizione: capiamo chi siamo nella misura in cui ci confrontiamo con gli altri e ci definiamo per mezzo degli altri, in relazione al modo in cui gli altri ci vedono. Grigore Ureche, Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul hanno deciso di presentarsi in modo migliore, più chiaro, più completo, allorché si sono resi conto di non essere sufficientemente conosciuti dagli altri.

Parallelamente, uno specifico e profondo legame fra nazione e migrazione si può leggere in alcune biografie letterarie della letteratura contemporanea. Per esempio nella letteratura dell’esilio e di migrazione, questo desiderio di auto-definizione è legato all'auto-finzione che spinge gli autori, non solo romeni, a tematizzare il loro essere stranieri nella terra di esilio o di migrazione. Occupa un posto particolare nel caso dei saggi filosofici di Cioran, la relazione fra biografia e metafore dello straniero. A ben vedere, Cioran prosegue, con un uso molto originale della retorica, la messa in discussione dell’identità del romeno, e implicitamente la ridefinizione, dal punto di vista di un marginale, della cultura europea.

La cultura europea ha affidato un ruolo privilegiato alla riflessione sul dialogo fra le culture, basato sia sull'imitazione sia sulla competizione. Basti qui ricordare le relazioni fra greci e romani nel

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modo antico, o la «querelle des anciens e des modernes», che persiste fino all'epoca moderna, per capire come la cultura europea si sia costruita su questo tipo di dialogo fra culture. Il paragone si aggancia non di rado all'esortazione a identificare una cultura come più antica, oppure più giovane, o altrimenti diversa, considerata superiore o inferiore per un motivo o per un altro. Così Virgilio imita Omero, Ronsard imita Petrarca, Mazzini chiede agli scrittori italiani di leggere la letteratura europea più recente e così via. Certamente l'apparizione costante di questo topos ha contribuito alla nascita dell'identità europea.

La circolazione degli uomini di cultura, al pari di quella dei valori, è essenziale per alimentare lo spirito europeo e per generare il topos del «paragone della propria cultura con le altre». Oltre all'importanza del viaggio in altri spazi culturali, rimane essenziale il ruolo delle biblioteche, delle università, e in generale delle istituzioni che promuovono la diffusione e la conoscenza di culture diverse, la cui frequentazione conduce al desiderio di auto-definizione in rapporto agli altri e alle loro culture. Potremmo affermare che l'educazione, la comunicazione con altri intellettuali e, fino al periodo moderno, la relazione profonda fra filologia e politica, sono fra i fattori generanti di questo topos.

Un altro topos letterario, connesso al precedente, quello del «complesso d'inferiorità culturale», nasce dall'angoscia che, in assenza di testi umanistici in cui si presentano i romeni agli altri popoli, essi saranno considerati una stirpe culturalmente inferiore. Siamo di fronte ad un complesso di marginalità, talora d'inferiorità, che, a ragione o a torto, appare come costante formale negli scritti degli intellettuali romeni dalle origini fino ad oggi. Ma occorre fare attenzione a definizioni troppo sbrigative, in quanto ciò che chiamiamo oggi complesso di inferiorità nel XVII secolo poteva essere una struttura

retorica ricorrente («io offro cose mai dette»).

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Nella Școala ardeleană (Scuola latinista romena), le ricerche filologiche sulla romanità della lingua romena hanno principalmente uno scopo politico, cioè quello di definire la cultura romena nel principato soggetto all'Impero asburgico (vedi Senatore, 2006). Ritroviamo le discussioni legate all'identità dei romeni anche nel periodo moderno, quando la cultura romena si rapporta al nuovo centro culturale dell'Europa, e cioè Parigi25. Il topos del paragone fra la cultura romena e le altre culture si trasforma in un complesso d'inferiorità a partire dal XX secolo, probabilmente proprio ad opera di Eugen Lovinescu e a causa della sua teoria del sincronismo. Il critico romeno credeva che la cultura romena avrebbe dovuto percorrere a tappe forzate tutti i periodi e le fasi storiche che la separavano dalla cultura europea, in altri termini che si «sincronizzasse» in riferimento a quest'ultima, recuperando il suo ritardo sull'orologio della storia. Questo concetto comparatistico dogmatico, apparso agli albori della letteratura romena colta, si sviluppa soprattutto con il modernismo, toccando nel periodo contemporaneo forme radicali. Numerosi intellettuali sviluppano inoltre in questo periodo un complesso d'inferiorità che li spinge ad emigrare verso quello che considerano il centro dell'Europa, e cioè la capitale francese. Fra i nomi che potremmo citare, i casi di Tristan Tzara, Benjamin Fondane, Emil Cioran, Eugen Ionesco,. Questo complesso della periferia, tipico per il periodo moderno, ha portato, come conseguenza indiretta, vere e proprie ondate di scrittori, artisti e filosofi romeni che, per mezzo della cultura francese, si sono perfettamente integrati nel panorama culturale europeo.

Potremmo dire che ciò che era apparso all'inizio come angoscia del ritardo culturale, si accompagnerà più tardi a un'angoscia della marginalità, a un complesso della frontiera.

25 Vedi Spiridon, 2004, 2006 e Alexandrescu, 1999, 2010.

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1.7.3. Cultura della frontiera: centro e periferia per la cultura romena

Dire che la Romania è un paese alla frontiera dell’Europa, una frontiera fra Oriente e Occidente, era diventato, a partire dal XVIII e poi nel XIX secolo, un luogo comune. Non conta tanto la geografia reale, la frontiera concreta, ma il fatto di trovarsi all’incontro di due forme di cultura, considerate come irriducibilmente antagonistiche: la cultura musulmana e la cultura europea. Per capire l’importanza di questa frontiera tra Oriente e Occidente che caratterizza l’immagine della Romania, mi soffermerò su un saggio in cui si spiega la formazione dell’Europa proprio attraverso una somma di linee separazione e frontiere fra culture.

Si tratta di un saggio sintetico nel già citato volume Précis de litterature européenne, diretto da Beatrice Didier, in cui Vincent Fournier (Fournier, 1998, 97) afferma che l'identità europea si è formata in funzione di linee successive di separazione culturale (clivages), determinate dal cambiamento di alcune frontiere geografiche. Si tratta di una serie di linee di rottura, che hanno definito e costruito lo spazio che oggi chiamiamo Europa. In virtù di questa teoria, diventa assai più facile definire che cosa non è Europa, piuttosto che ciò che essa è: la prima separazione essenziale si produce fra lo spazio greco-romano e il resto del mondo, i barbari; la seconda separazione è quella fra la parte occidentale e quella bizantina dell'Impero romano, seguita poi dallo scisma fra la chiesa ortodossa e quella romana; un'altra rottura essenziale è data dall'occupazione dell'Impero bizantino da parte degli Ottomani, il momento in cui l'Europa rischia di restringersi alla sua parte occidentale.

Se cerchiamo di definire la collocazione della cultura romena in funzione di questi spazi, vedremo che essa si ritrova sempre alla frontiera: sia essa ai margini dell'Impero romano, oppure nella zona bizantina, ma lontano dal suo centro. Dopo l'ultima, traumatica, frattura, la caduta di Costantinopoli nel 1453, che coincide con l'inizio

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del Rinascimento italiano, un momento essenziale per la storia della cultura europea moderna, lo spazio romeno rimane in sospeso fra la zona orientale ottomana, da cui dipende politicamente, e l'Europa centrale, cui appartiene per quanto riguarda la parte transilvana.

L'appartenenza per secoli a una zona di frontiera conferisce allo spazio romeno, secondo la prospettiva del centro occidentale, un certo carattere esotico, nel senso etimologico di straniero. Fino al XIX secolo i paesi romeni sono percepiti come un certo tipo di Oriente, bizzarro e sorprendente, in quanto vi si possono reperire, nonostante tutto, alcuni elementi di modernità e anche di «europeità». Le cose non cambiano radicalmente con il passaggio al XX secolo, quando lo spazio romeno continua a essere concepito come orientale e pertanto esotico, e anche, con l'avvento di una successiva sfumatura del concetto, il balcanismo26. Ciò che è ancor più interessante è che persino gli uomini di cultura romeni percepiscono lo spazio romeno, sia esso la Moldavia, la Transilvania o la Muntenia, come zona di frontiera, come uno spazio in cui s'incontrano prodigiosamente le combinazioni più insolite di civiltà diverse. Il multiculturalismo che caratterizza d'altra parte molte culture europee, diventa per gli intellettuali romeni un tema ricorrente. Sorin Alexandrescu ritiene che la posizione delle terre romene fra tre potenti imperi, ai margini dell'Europa, fra culture molto dissimili (un'isola latina all'interno del mare slavo), sia ciò che porta i romeni ad un complesso di inferi

orità27. Intendiamo sottolineare anche l'importanza del concetto di

«centro», un ruolo che nella cultura romena hanno ricoperto prima Costantinopoli e in seguito Parigi. In funzione del centro si definisce la posizione dell'intellettuale romeno, che si sente più o meno, marginale. Per secoli la cultura romena è stata orientata, allo stesso

26 Si veda per il confronto fra orientalismo e balcanismo Todorova, 1994, 455-456, Todorova, 2004 (a c.di). 27 Alexandrescu, 1999, 2000, 2010.

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modo delle altre culture ortodosse dell'Est europeo, su Bisanzio. Nel caso romeno, anche e soprattutto dopo la scomparsa di questo centro di cultura, il mito della rinascita di Bisanzio è rimasto nell'identità culturale, dove ha resistito per molto tempo. Tale mito può essere accostato al sogno di continuazione dell'Impero romano d'occidente, la renovatio imperi del franco Carlo Magno e del tedesco Ottone I nel Medio Evo, sopravvissuto in Europa occidentale nel Sacro Romano Impero fino all'epoca napoleonica. Allo stesso modo il mito di una continuità, o meglio di una rinascita di Bisanzio, appare nel XVI secolo e si spegne solo con la comparsa di un nuovo centro culturale capace di affascinare le menti degli intellettuali, Parigi. Queste due relazioni hanno lasciato impronte profonde nella cultura romena e ci posso

oscia, in quanto Costantinopoli-Bisan

troppo lontani dal «meridiano Greenwich» della modenità, Parig

no aiutare a coglierne i rapporti con la cultura europea. La cultura romena si mette in relazione quindi, in epoche

successive, essenzialmente a due centri culturali. Il rapporto con Bisanzio si richiama piuttosto al mito di Bisanzio che alla città reale sul Bosforo. I romeni ricreano un mito, immaginano un centro ormai assente, la cui assenza produce ang

zio era già divenuta Istambul. La scoperta dell'Occidente e della modernità porta invece con

sé, ad iniziare dal XIX secolo, una tensione generata dal fatto che, sentendosi abbandonati alle porte dell'Oriente, i romeni temono di trovarsi

i. Quest'oscillazione successiva tra due centri di cultura ci può

aiutare a capire il ruolo che hanno giocato nella cultura romena, in epoca moderna, l'esilio e la migrazione. L'osservatore critico più famoso della posizione non sufficientemente centrale ed europea della Romania è Cioran, che di questo tema ha fatto un vero e proprio topos divenuto patrimonio universale attraverso i suoi scritti. Infelice di appartenere a una cultura che considera minore e marginale, Cioran si trasforma in un apolide parigino e commentatore lucido e apparentemente

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cinico dei rapporti fra culture maggiori e culture minori. Ma Cioran non fa altro che proseguire un'idea presente già da tempo, e portarla al par

perché la loro stirpe non «arrossisca di vergogna» di fro

entale che la sua cultur

nizzazione culturale con l'Europa, che non si è placat

ossismo, quella della translatio studii. Già i primi scritti importanti in lingua romena, le cronache

moldave dei secoli XVI-XVII, erano dovute alla paura degli umanisti romeni che, in mancanza di una cultura scritta, il popolo romeno non possa integrarsi fra gli altri stati. Educati in Polonia, nei collegi dei gesuiti, i «cronicari» (cronisti) moldavi iniziano a scrivere la storia dei romeni in romeno,

nte alle altre. Il tema della riflessione sulla propria identità culturale in

dialogo con l'identità degli altri popoli della regione, o con diversi centri di potere e di cultura, come Bisanzio, Istambul, Berlino, Vienna o Parigi, è ricorrente nella cultura romena. La definizione della cultura romena in rapporto alle altre culture appare anche in Dimitrie Cantemir, che scrive la sua Descriptio Moldaviae su richiesta dell'Accademia di Berlino, sviluppa la sua ricerca in Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor, scritta in latino, ma che poi decide di autotradursi in romeno perché considerava fondam

a si dotasse di testi scritti nella propria lingua. Più tardi la Școala ardeleană (Scuola latinista romena) continuerà

l’attività di auto-definizione per mezzo della filologia. In seguito saranno i Pașoptiști (gli scrittori del ‘48) che cambieranno il centro d'interesse adottando Parigi e la modernità. Con il XX secolo arriva l'angoscia della sincro

a fino ad oggi. L'angoscia della marginalità culturale, il complesso e la

frustrazione della frontiera, sono temi che fanno parte del topos del paragone con le altre culture. Questo può derivare da cause oggettive, ma è di fatto una creazione degli intellettuali, tramandata lungo i secoli e stabilizzatasi nel tempo. A mio avviso è importante che accettiamo l'esistenza di questo topos anche perché esso può aiutare i

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giovani romeni che vanno cercando il loro posto in Europa a capire in che modo si è costituita la cultura romena. Infatti la cultura romena è stata costruita proprio attorno a questa angoscia identitaria, a questo eterno paragone con gli altri, un paragone praticato dagli intellettuali romeni fin dal XVI secolo. Un paragone che genera angoscia, ma che può anche essere adottato come segno distintivo, con esiti paradossali in Cio

peri, al punto d'incontro/di scontro fra cristia

ran, come vedremo. Il tema interessa molto sia gli studi culturali che gli studi

letterari. Le teorie della frontiera (Border theory) ipotizzate negli ultimi due decenni ruotano attorno ad alcuni temi d'elezione, quali la marginalità sessuale, sociale o nazionale, l'identità ibrida o di frontiera, i métissages postmoderni, la battaglia contro il canone portata avanti dalle personalità «di frontiera», il campo degli studi postcoloniali28. Uno dei punti fondamentali delle teorie della frontiera è l'individuazione di uno spazio culturale specifico costituitosi in prossimità delle linee di frattura (clivages). Potremmo dire che la cultura romena nel suo insieme si definisce cultura di frontiera, al margine dell'Europa, alla confluenza fra Oriente e Occidente, al confine dei grandi im

nesimo e islam. L'interesse delle teorie che riguardano la frontiera29 deriva dal

legame con la dissoluzione del nazionalismo nel multiculturalismo, prima di tutto in aree come Stati Uniti, Canada, Messico, in cui tali fenomeni hanno portato alla riscrittura delle storie delle letterature nazionali, secondo prospettive come il métissage, le differenze e le ibridazioni, e non più come espressioni di uno spirito culturale unitario. Da ciò discende anche l'interesse particolare per gli scrittori

28 Vedi Greene, 2000, 337-347, in cui si analizzano i concetti proposti in due lavori che sono punti di riferimento nel campo della teoria della frontiera, Michaelsen; Johnson (a

Front Lines/Border aba.

c. di), 1997 e Welchman (a c. di), 1996. 29 Si vedano anche i numeri tematici Critical Inquiry, Vol. 23, No. 3, Posts, Spring, 1997, e nr. 4, Summer, 1997, diretti da Homi Bh

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migranti30, che non sono più integrabili in una sola letteratura, poiché la loro identità risulta indefinibile ed appartiene in pari misura a molti spazi culturali. Il tema della frontiera s'incontra frequentemente nelle letterature dell'ultimo decennio del XX secolo, tanto da poter parlare di una narrativa (Smorkaloff, 1994, 88-102) caratterizzata da determinate problematiche: il viaggio, il personaggio migrante con identità ambigua, povero e alla ricerca perpetua di una destinazione, il con

nia nella cultura europea, si può rivela

ltura romen

fronto fra nazionalismo e cosmopolitismo. Border Theory, la teoria della frontiera, costituisce un campo di

ricerca di grande interesse per le aree marginali dell'Europa, come quella romena, in quanto si lega a temi rilevanti come il problema dell'identità e, in questo contesto, l'identità del migrante, il rapporto centrale-marginale, il rapporto fra il canone della letteratura nazionale e quello della letteratura europea. Evidentemente, la border theory non solo si collega ad essi, ma è anche determinata da temi di ricerca che interessano in modo particolare gli studi umanistici anglosassoni: il postcolonialismo e la globalizzazione. Tale argomento, applicato agli aspetti dell'integrazione della Roma

re estremamente produttivo. I testi in cui appare il tema della frontiera mettono spesso in

discussione il tema dell'identità, essendo questa strettamente legata ad uno spazio inequivocabilmente definito, interno alle frontiere stesse. Se si tratta poi di una geografia simbolica, allora la frontiera è generata dalla storia o dalla storia delle mentalità. Sicuramente gli scrittori assumono nelle loro opere la frontiera in modi diversi e la trasformano secondo la mentalità della loro epoca e le peculiarità del loro stile. Ma se ci avvaliamo della terminologia di Curtius, allora possiamo considerare che «la frontiera» è diventata nella cu

a un vero e proprio topos, data la costanza con cui appare.

30 Walkowitz, 2006; Mathis-Moser; Mertz-Baugartner, 2012.

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Se i romeni si vedono come frontiera fra Oriente e Occidente, essi si vedono anche come una cultura di frontiera nel senso della separazione dal centro. La prima idea caratterizza il periodo antico della letteratura romena, mentre il complesso della lontananza dal centro appare piuttosto nel periodo moderno e in particolare nel XX secolo. Questa modifica è probabilmente legata al fatto che, nel corso dei secoli, il centro culturale percepito dagli uomini di cultura romeni cambiato. Subito dopo la caduta sotto la dominazione turca,

er la letteratura e per la cultura. A partire dall’epoca moderna, invece, è Parig

ra figura, una rappr

che n

èBisanzio rimane un centro spirituale molto importante p

i che diventa il centro determinante, per la cultura europea. 1.7.4. La cultura degli intellettuali migranti, i cittadini europei

Sullo sfondo del conflitto fra centro e frontiera, fa la sua

comparsa, insieme con la migrazione massiccia dei romeni verso diversi centri culturali del mondo globalizzato, un'alt

esentazione simbolica del fenomeno. Si tratta di una figura geometrica che potrebbe forse anche portare al superamento del conflitto fra margine e centro, e alla definizione di questa rappresentazione è dedicato nell'insieme il mio lavoro.

La figura cui mi riferisco, che utilizzo come metafora gnoseologica, è l'ellissi. Immaginiamo per un istante che una cultura nazionale sia assimilabile con un cerchio. Costruita attorno allo specifico nazionale, al poeta nazionale, alla lingua nazionale, la cultura nazionale è stabile, strutturata e purificata di ogni elemento allotropo. Sicuramente di tratta di una creazione di laboratorio, dato

ella realtà è difficile determinare con chiarezza le frontiere e le caratteristiche dello «spirito nazionale». Immaginiamo come un cerchio anche lo scrittore nazionale, che si riferisce ad un centro con cui si pone in relazione, e a frontiere o a zone marginali ben definite.

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Immaginiamo ora uno scrittore in esilio o migrante, e disegniamolo come un'ellissi, la figura geometrica che ha due centri e non uno solo: lo scrittore esiliato o migrante non è un cerchio costruito intorno ad un unico centro. Vorrei dire con questa analogia che egli non gravita attorno ad una sola identità definita, bensì il suo universo culturale è dotato di due centri, uno nel mondo da cui proviene, a cui rimane legato per lingua, abitudini di vita e cultura, e un secondo nella terra in cui è arrivato, cui si è legato in anni di coabitazione, la cui lingua ha appreso, e di cui è diventato di fatto cittadino. Immaginiamo inscritti in questa ellissi anche gli scrittori che hanno viaggi

lineare proprio la difficoltà di appartenenza, nello stesso

no o più stati europei, e al tempo stesso cittadini europei. questo senso tutti i cittadini dell'Europa moderna non hanno più

ato molto, che si sono formati attraverso il confronto con le altre culture: questi scrittori, per mezzo del loro doppio legame con le due culture, per mezzo del loro doppio centro di riferimento, sono proprio coloro che contribuiscono al dissolvimento delle frontiere.

Le ellissi sono strutture geometriche complesse, più difficili da descrivere e da rappresentare che i cerchi, e per questo pongono alcuni problemi. Ho scelto questa analogia fra scrittori migranti ed ellissi per sotto

tempo, a due mondi, e la crisi di identità che ne consegue, ma anche perché credo che, sempre di più, i cittadini dell'Europa futura assomiglieranno tutti ad ellissi in movimento piuttosto che a cerchi chiusi e stabili.

Gli intellettuali romeni si sono definiti attraverso lo sguardo di scrittori diventati in qualche modo stranieri, ma nella nostra epoca lo sguardo dello straniero si trova dovunque. Non si vive più in comunità chiuse mono-nazionali: le vicende migratorie, l’insegamento e il marketing culturale fanno di tutto per aprire le porte alle culture diverse, alla varietà. Molti cittadini hanno origini miste o famiglie multiculturali, tutti viaggiano, e siamo ormai tutti, allo stesso tempo, cittadini di uIn

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un singolo centro, che corrisponde alla nazione di provenienza, ma assomig piuttosto a delle ellissi, più o meno definite, più o meno compl

ecedenti causata dall’emigrazione dei g

nal» (specifico nazionale) in un modo

siderazione nel presente lavoro, la que

liano esse.

1.7.5. Nazione e migrazione

Alla crisi delle storie letterarie nazionali corrisponde una crisi

profonda del concetto di nazione. La cultura romena conosce negli ultimi anni una situazione senza pr

iovani, una crisi profonda di ridefinizione nazionale. La Romania, a partire dal 1989, è entrata in lizza per la corsa verso l’Europa, una corsa che fa pensare alla modernizzazione del paese nella seconda metà del XIX secolo.

Come definiamo l’identità nazionale oramai che si è costituita l’Europa e che si parla della globalizzazione? Sarebbe utile parlare della nazione e dello «specific națio

diverso, dato che il paradigma dell’Ottocento è da considerarsi caduco e non eterno, e che le nazioni si ridefiniscono con un occhio all’Europa (e forse un altro agli Stati Uniti, il cui modello culturale è presente più di quanto non sembri).

In che modo si può definire l’identità nazionale quando si tratta di un’identità mista, complessa? Qual è il legame fra nazione e migrazione? A prima vista nazione e migrazione appaiono due concetti che si pongono in opposizione: mediante la migrazione si perde proprio la nazionalità, il migrante cerca di integrarsi nella nuova nazione e di essere accettato, integrato con pieni diritti, o almeno tollerato tanto da poter sopravvivere. Così sembra che la migrazione indebolisca la nazione. Ma è questo vero o si tratta di una falsa apparenza? A ben vedere, ache alla luce delle analisi testuali e dei personaggi che prenderemo in con

stione non sta proprio in questi termini: la migrazione, almeno la migrazione come si svolge in Europa oggi, nei primi decenni del

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nuovo millennio, al contrario, sembra piuttosto aiutare la nazione a svilupparsi e a propagarsi nel tempo.

Un primo fatto che fa riflettere è che l'identità nazionale resta latent

visibile talvol

collocato. – Ma ora, voi avete un mond

li europei. Per questa ragione ho scelto il topos del

e a casa e diventa invece essenziale quando, su un suolo straniero, ci chiedono di definirla. Rimanendo a casa, invece, raramente si ha l'occasione di tematizzare la propria coscienza e appartenenza nazionale.

Gli studi recenti sulla letteratura dell’esilio e di migrazione hanno mostrato che la nazionalità è vissuta assai più intensamente dai migranti, che si confrontano con la necessità costante e quotidiana di autodefinirsi. Ne derivano un sentimento di vergogna e una pressione psicologica, descritto nel periodo moderno da Cioran, ma

ta anche nelle opere di Cantemir o Costin, che il membro di un popolo poco conosciuto sente quando deve presentarsi di fronte ad un cittadino appartenente ad un paese più conosciuto o rispettato in Europa e nel mondo, come l'Italia, la Francia o la Germania.

Giuseppe Mazzini, il maggior teorico del Risorgimento italiano, quando era da definire la nascente identità nazionale del futuro stato italiano, suggeriva agli scrittori italiani, nel suo saggio «D’Una letteratura europea (1829)», di scrivere per un publico europeo e non solo italiano. Mazzini usa a tale proposito la metafora del teatro: «Un tempo la Patria consegnava al Poeta il volume delle leggi, e delle religioni de’ padri, dicendogli: Tu veglierai perché questo deposito rimanga intatto nel core de’ concittadini; i tuoi voti non saranno sacri, che al cerchio di mura dov’io t’ho

o a teatro di vostra gloria; voi dovete parlare ad un mondo: ogni suono della vostra cetra è patrimonio dell’umana stirpe, né potete toccare una corda, che l’eco non si propaghi fino all’ultimo limite dell’Oceano.» (Mazzini, 1967, 121).

Trasferendo queste parole di Mazzini allo studio della letteratura romena, mi sembra ancora piu importante immaginare descrizioni della letteratura romena che non parlino solo ai romeni, ma anche ag

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«paragone con le altre culture» che presenta una mise en abyme di uesta ricerca, nel senso che si riferisce al modo in cui gli intellettualli anno definito la cultura romena come risultato dei loro incontri con ltre culture.

qha

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2.

Grigore Ureche e il mito di Bisanzio

Questo capitolo s'incentra sulla figura di un umanista romeno, l'aristocratico moldavo autore della prima cronaca in lingua romena con valore letterario, Letopisețul Țării Moldovei (La cronaca della Moldavia). Grigore Ureche (1590-1647), dopo aver ricoperto cariche politi

ano le cronache storiche per stipulare accordi diplomatici con le altre potenze, e anche per

letterario del nostro

che di rilievo in Moldavia, si è dedicato negli ultimi anni di vita alla stesura della sua cronaca, dove ha sintetizzato tutti i documenti precedenti sulla storia della Moldavia a lui noti, integrandoli nella sua visione della storia. Per Ureche la storia ha un valore morale: se gli uomini non conoscono il proprio passato,

«să să aseamene fiarălor și dobitoacelor celor mute și fără minte» [assomigliano agli animali selvaggi e al bestiame, muti e senza senno] (Ureche, 1955, 57).

Alla fine di una lunghissima vita ricolma di funzioni ufficiali di rilievo e di onori militari, Ureche scrive la sua opera storica, ma non su committenza di un principe, bensì per creare, all'interno della cultura della Moldavia, un testo capace di definire la posizione dei moldavi, nel contesto dell'Europa orientale del XVII secolo. Il suo Letopiseț ha anche un valore politico, in quanto, fin dal XV secolo, i voievoda [sovrani] della Moldavia utilizzav

giustificare azioni militari o cambi di alleanze. Il valore testo deriva dal modo in cui Ureche racconta la storia

ricorrendo a strumenti retorici sottili, con un risultato che avrebbe

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avuto una eco assai vasta nella letteratura romena, a partire dai contemporanei (Miron Costin), fino agli scrittori moderni (Vasile Alecsandri, Costache Negruzzi, Barbu Delavrancea).

aa identitaria romeno-moldava, occorrerà

riferir

isanzio per mezzo della Moldavia. Nella secon

celebri, che si ritrovano negli af

Il Letopiseț di Ureche apre la discussione sul problema dell'origine dei romeni e della loro relazione con le altre culture, ripresa e sviluppata in seguito dagli altri umanisti: i romeni di Moldavia, Valacchia e Transilvania hanno un'origine comune, romana, e quindi la lingua romena è romanza. Un'altra «costante formale» che diventerà ricorrente nella cultura romena è il mito di Bisanzio, ripreso e ricreato nella figura eroica di Ștefan cel Mare [Stefano il Grande] (1457-1504) e nella trasfigurazione mitica della sua crociata contro i turchi.

Per vedere come fa uso Grigore Ureche della retorica classica nella scrittura della storia della Moldavia e, più ancora, per capire il modo in cui il suo soggiorno giov nile in Polonia lo ha portato a cristallizzare una coscienz

ci al ruolo dello slavone nella cultura romena e al rapporto fra la cronaca di Ureche e le fonti da cui ha attinto le sue informazioni.

Nella prima parte del capitolo mi soffermerò sul modo in cui Ureche genera, pur nel suo stile sobrio e conciso, il mito della continuità della missione di B

da parte del capitolo, seguirà l'interpretazione di tale recupero del mito, collegandolo ad alcune rappresentazioni figurative assai

freschi di certi monasteri moldavi (Humor, Moldovița). Si tratta di cicli pittorici anteriori di circa mezzo secolo alla stesura dell'opera di Ureche, in cui questo stesso mito appare nella sua variante figurativa.

2.1. Le prime cronache: fra storia, politica e letteratura

Il testo di Ureche, Letopisețul Țării Moldovei, non è la prima cronaca storica della Moldavia, e neanche la prima in lingua romena.

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Conosciamo l'esistenza di diverse opere in slavone che sono servite proprio come punto di partenza per Ureche, e di un Letopiseț [cronaca] in romeno1, oggi perduto.

In Moldavia si conservano molte cronache derivate da un prototipo più antico, di cui due vengono chiamate dagli editori Letopisețul de la Putna e Letopisețul de la Bistrița (Panaitescu, 1971, 125-153). Il prototipo che ha costituito il modello di queste varianti è Cronica despre Ștefan cel mare [Cronaca su Stefano il Grande], scritta, secondo le ricerche di Panaitescu, proprio alla corte del signore2, e in seguito copiata in diversi monasteri e così diffusa. Panaitescu afferma: «Le conoscenze all'interno del letopiseț, riguardo alla storia della Moldavia prima del regno di Stefano il Grande, sono imprecise, scarse e talvolta errate. La composizione della cronaca signorile a partire dal secolo XV è stata fatta a corte. Il letopiseț in slavone di Stefano il Grande è dunque un letopiseț signorile, un'opera ufficiale.» (Panaitescu, 1971, 354-355)

La lingua slavona gioca qui, nei secoli XV e XVI, lo stesso ruolo del latino nelle cancellerie principesche dell'Europa occidentale, ed era anche la lingua usata in diplomazia. Si sa ad esempio che alcuni principi la conoscevano, ad esempio Stefano il Grande la capiva e la parlava (Bogdan, 1919, 479).

Le altre cronache in slavone sono quelle scritte da Macarie, vescovo di Roman, da Eftimie, egumen a Căpriana, e dal monaco 1 P.P.Panaitescu fa un riepilogo storico dei testi in lingua romena in «Începuturile literaturii în limba română» (Gli inizi della letteratura in lingua romena) e osserva che «la prima cronaca in lingua romena è quella di Mihai Viteazul» (PanaiteÈ difficile comunque stabilire con precisione quale sia stata la prima cr

scu, 1971, 352).

lingua

dalla corte, non potevano sapere. Da ciò conclude che il testo non poteva essere stato scritto in monastero, bensì da un membro della corte di Ștefan, purtroppo per noi

, 135-142)

onaca scritta in romena, dato che la maggior parte di esse ci è giunta in copie infarcite di

interpolazioni. 2 Panaitescu osserva che in questa cronaca appaiono dettagli estremamente concreti, riguardo ad un terremoto avvenuto proprio mentre Ștefan era a tavola, o legati al numero di armi catturate in battaglia, cose che un monaco o un ecclesiastico, lontani

impossibile da identificare. (Panaitescu,1971

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Azarie, «che dal punto di vista stilistico sono più complesse, e risentono dell'influsso della versione medio-bulgara della cronaca di Manasse» (Panaitescu, 1971, 354)3. Si tratta di autori che sono tutti dei chierici, alcuni con funzioni di spicco nella gerarchia ecclesiastica, e quindi le loro opere sono cronache ufficiali, «letopisețe domnești» [cronache signorili]. La differenza essenziale nei confronti del Letopiseț di Ureche appare in primo luogo a livello linguistico: le cronache scritte da Macarie, Eftimie o Azarie, e anche il Letopiseț anonimo su Stefano il Grande, sono opere in lingua slavona, a differenza del testo di Ureche, che è scritto in romeno. Una seconda distinzione si può cogliere a livello stilistico: le cronache scritte da Macarie, Eftimie e Azarie sono influenzate dalla retorica bizantino-slava, mentre nello stile di Ureche tale influsso non appare. Una terza differenza è fra le funzioni degli autori delle cronache precedenti e la posizione di Ureche: questi è un nobile di corte che scrive per altri nobili come lui, il che spiega il cambiamento di paradigma che introduce nel proprio Letopiseț. P. P. Panaitescu ritiene che questo passaggio, da cronache ufficiali su committenza del signore, che saranno al tempo stesso un panegirico di costui, alla cronaca di stampo umanistico, con un'interpretazione razionale e morale della storia, sia il risultato di un profondo mutamento nella società moldava del XVI secolo. Se fra i secoli XV e XVI la politica era dominata dal principe, nel secolo seguente, in cui scrive Ureche, i nobili diventano sempre più ricchi e dominano l'economia del paese, sostituendosi all'autorità del sovrano: «L'elemento di continuità nella politica del paese non è la signoria, bensì la classe di grandi boiardi.» (Panaitescu, 1971, 360)

Un'altra differenza profonda fra le cronache precedenti e l’opera di Ureche si manifesta a livello di destinazione e di funzione del testo. Le cronache in slavone erano scritti ufficiali di corte, con valore in

3 Si veda anche Bogdan, 1891 e Iorga, 1924.

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primo luogo politico e diplomatico. Ad esempio la Cronica despre Ștefan cel Mare era usata dal signore come argomento nelle trattative con gli altri sovrani: «Un dettaglio interessante, finora non rilevato, nella storia di Stefano il Grande, è la rivelazione che venivano utilizzate le cronache ufficiali per stendere i trattati diplomatici del 1503.» (Panaitescu, 1971, 145) Ștefan chiama il suo logoteta (logofăt) e gli fa leggere il passaggio della cronaca in cui si parla della regione della Pocuția, e il suo discorso viene utilizzato nella relazione all'ambasciatore polacco. Sintetizzando il valore politico delle cronache in più epoche, Panaitescu osserva: «Le cronache ufficiali avevano una duplice funzione, quella di sostenere all'esterno gli argomenti della diplomazia di fronte alle nazioni straniere, e quella di sostenere all'interno le prerogative del principe di fronte alle pretese della nobiltà. Inizierò dalla funzione esterna delle cronache moldave, più facile da documentare. [...] Nel 1565 l'ambasciatore polacco Nicolae Brzeski, mandato dalla Porta ottomana in Moldavia per intavolare trattative, durante il suo passaggio per Iași, prende la cronaca moldava-polacca per usarla come strumento diplomatico. Nel 1700 un altro ambasciatore polacco, Rafael Leszczynski, recandosi alla Porta

i impiego in un testo del genere, ma la motivazione

, prende con sé a Iași una copia della cronaca polacca di Miron Costin. Nel 1597 il cancelliere polacco Ioan Zamoyski scriveva al logoteta moldavo Luca Stroici: "Prego moltissimo, la vostra signoria, di procurarmi quella cronaca della Moldavia, che ha avuto la benevolenza di promettermi". [...] Le traduzioni tedesche, polacche e russe della cronaca della Moldavia, fatte nel XV secolo, avevano la funzione di fornire spiegazioni diplomatiche su una terra straniera.» (Panaitescu, 1971, 144)

Da questa sintesi fatta da Panaitescu si possono capire le motivazioni profonde, politiche e diplomatiche, di un letopiseț che non si potrà studiare soltanto con i metodi dell'analisi letteraria. È evidente che la retorica trov

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sarà,

tenziale valore diplomatico, resta in primo luogo una rifless

no a capire.» (Cartojan, 1996, 249)

oni raccolte da fonti diverse […], esaminate con occhio critico […], ricompone, con la

come nel mondo classico, politica e argomentativa, non estetica e letteraria. La tradizione delle cronache scritte è quindi legata a un ampio spettro di destinatari differenti, che comunque cercano tutti nel testo dei segnali identitari da cui partire per alleanze politiche e diplomatiche. Tutto ciò non esclude la possibilità di una riflessione sulla storia, ma al contrario la pone in una luce più chiara ed evidente. Pur avendo funzioni differenti, anche il Letopiseț di Ureche, fatto salvo tutto il po

ione sulla storia. A questo proposito Cartojan osserva: «Ureche è uno spirito critico. Egli ha una concezione pragmatica della storia; essa deve darci delle norme di educazione "ai figli e ai nipoti, sulle cose cattive da evitare... e al contrario su quelle buone da seguire, per imparare e per migliorare." Ma chi ha una concezione simile della storia, si rende ben conto che la prima condizione da adempiere è la seguente: obiettività totale nella ricostruzione della verità storica. Per questo Grigore Ureche confronta continuamente le fonti nazionali con quelle straniere, in modo che dal confronto delle notizie contraddittorie, si possano raccogliere quei chicchi di verità che si riesco

Un altro studioso di letteratura romena antica, D. H. Mazilu, lo considera «una persona equilibrata, con una comprensione umanistica delle cose» (Mazilu, 2000, 69 ) e arriva a conclusioni simili a quelle di Cartojan, che esprime in modo più esplicito: «Indipendente come un grande aristocratico, che si trova nella situazione di poter professare il proprio punto di vista, e di avere quella dignità e autonomia – verticalità che mancava agli "scrittori a comando", Ureche è uno storico dalle letture ben solide. Con l'aiuto di esse, struttura una concezione coerente della storia e, sorretto da informazi

pazienza dell'archeologo, il passato di una terra e di un popolo.» (Mazilu, 2000, 70)

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D. H. Mazilu pone l'accento, con maggiore precisione, sullo spirito indipendente di Urechie, mettendolo in relazione con la sua posizione sociale molto elevata. Alla data della composizione della cronaca, egli è vornic al Țării de jos, cioè «il secondo dei notabili boiardi; aveva, in tempo di pace, il compito di amministrare la Moldavia da Iași al confine della Valacchia, con le province bessarabiane e Cetatea-Albă, mentre in tempo di guerra comandava l'esercito.» (Cartojan, 1996,

ma: «La cronaca di Eustratie appare come

244) Grigore Ureche non è il primo autore di una cronaca in lingua

romena. Si sa già da Miron Costin, umanista romeno quasi contemporaneo a Ureche e grande ammiratore della sua opera, che è esistito un Letopiseț in romeno, servito da modello e da fonte d'informazioni ad Ureche. P. P. Panaitescu attribuisce questo Letopiseț, oggi perduto, ad un importante umanista dell'epoca, Eustratie Logofătul, amico di Costin, e affer

uno scritto storico indipendente da ogni partito o signore, una traduzione di vecchi annali slavoni, con l'aggiunta di leggende: i miracoli di San Procopie e di San Dimitrie» (Panaitescu, 1971, 352-353).

Ureche ha utilizzato anche altre fonti oltre a quelle sopra enumerate. Ha consultato sicuramente una cronaca polacca (Kronika Polska) scritta da Joachim Bielski, ma pubblicata con il nome di suo padre, Marcin Bielski, nel 1597 a Cracovia. Ha utilizzato inoltre, di Alessandro Guagnini, Sarmatiae Europaeae Descriptio, Cracovia, 1578, e anche l'Atlas sive cosmographicae meditationes (Duisburg, 1611), di Gerardo Mercatore, e forse anche, di Enea Silvio Piccolomini, Historia rerum ubique gestarum, e Poloniae finitimarumque locorum descriptio, di Abraham Ortelius, oltre ad altre opere a noi non note4.

4 Vedi P. P. Panaitescu, in particolare il documentato studio introduttivo all'edizione del

Si veda anche D. H. testo (Ureche, 1955, 5-54 ) e anche il suo lavoro più ampio Influența polonă în opera și personalitatea cronicarilor Grigore Ureche și Miron Costin, 1924. Mazilu, 2000.

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La cronaca di Ureche non si è conservata in originale, ma in diverse copie manoscritte, interpolate da Simion Dascălul e anche da copisti meno importanti (Misail Călugărul, Axinte Uricariul ed altri). Essi hanno completato, laddove lo ritenevano necessario, il testo di Urech

erito intrinseco dell'interesse suscitato. Il valacco Constantin Cantacuzino Stolnicul si procura a Iași la cronaca,

terpolata da Simion Dascălul. Dimitrie Cantemir cita Ureche e continua la sua opera in Hronicul vechim

isce l'importanza delle opere umanistiche per la

e, aggiungendo talvolta il proprio nome al testo. Tali interpolazioni rendono assai difficile un'analisi della lingua di Ureche5.

Secondo D.H.Mazilu, le interpolazioni così numerose e frequenti, sono dovute al successo che ha raccolto all'epoca il Letopiseț di Ureche (Mazilu, 2000, 59). Non essendo una cronaca ufficiale, essa ha circolato solo per il m

ma ottiene solo la variante copiata e in

ei a ungaro-moldo-vlahilor6. Fra le interpolazioni a carattere tendenzioso, quelle di Simion

Dascălul hanno suscitato grandi polemiche e sono state commentate da filologi a partire dal XVII secolo. Miron Costin avrebbe in seguito scritto un'opera in romeno De neamul moldovenilor [Sulla stirpe dei moldavi], e due in polacco (Poema polonă e Cronica polonă), per mettere a tacere le discussioni sulle interpolazioni di Simion Dascălul alla cronaca di Ureche, da cui risultava, fra l'altro, che i romeni sarebbero i discendenti di malviventi liberati dalle prigioni romane e confinati nella Dacia dopo la conquista romana. Come Ureche, anche Miron Costin è allo stesso tempo umanista e uomo politico, e crede fermamente nel valore umanistico del libro come elemento fondatore di un'identità culturale. Cap

politica della Moldavia e per le sue relazioni diplomatiche. La

5 Per il problema delle interpolazioni si veda Mazilu, 2000, 60-63. Una sintesi delle discussioni sull'interpolazioni si trova in Chițimia, 1972, 197-271. 6 Tratteremo queste opere nel capitolo seguente.

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miglior dimostrazione che il modo di scrivere di Ureche ha avuto veramente un'influenza importante sulla cultura romena, è il fatto che altri umanisti hanno scritto libri per continuare il Letopiseț, o meglio per sviluppare i problemi da esso aperti.

Possiamo affermare che il Letopiseț di Ureche ha fatto scuola e ha aperto la strada a un modo di riflettere sulla storia romena, sul ruolo della cultura e su quello della ricerca umanistica. Per gli umanisti romeni che l'hanno conosciuto e che, a loro volta, hanno scritto opere analoghe di grande rilievo citeremo i seguenti: Miron Costin, Ion Neculce e Dimitrie Cantemir, in Moldavia; Stolnicul Constantin Cantacuzino in Valacchia.

2.2. Ureche, uomo politico e umanista

Ureche appartiene ad una famiglia nobiliare moldava, attestata

nei documenti fin dagli inizi del XV secolo, al tempo della signoria di Alexandru cel Bun [Alessandro il Buono]. L'inizio della potenza della famiglia si lega alla figura leggendaria di Ștefan cel Mare, un personaggio che occuperà un posto centrale nel Letopiseț di Grigore Ureche. Principe coraggioso, che ha lottato con successo contro i turchi, e che è stato fregiato dal papa del titolo di «Athleta Christi», Ștefan cel Mare ha regnato in Moldavia per 47 anni. È durante il suo regno che comincia il Rinascimento moldavo, un fenomeno simile in qualche modo a quello che Erwin Panofsky, nel suo libro Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale (2009) chiamava Rinascimento ottoniano, cioè un fenomeno locale in qualche misura isolato e diverso dal Rinascimento europeo.

Al tempo di Ștefan cel Mare, la famiglia Ureche faceva parte della nobiltà senza funzioni politiche, ma il bisnonno dello scrittore riceve da Ștefan cel Mare e da Petru Rareș, figlio di Ștefan, diventato anche lui voievoda, ampi possedimenti nei villaggi di Hotinești e

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Brătul

oscenza, tutti elementi che si rifletteranno nella sua cronaca.

ești, per meriti militari7. Il nipote di questo nobile bellicoso, Nistor Ureche, padre di Grigore, si dimostra un grande diplomatico e un politico squisito. A lui si devono i beni ingenti accumulati e la conquista del potere da parte della famiglia.

Nistor Ureche era anche un uomo molto colto, che conosceva il latino (Panaitescu, 1971, 481). Con una vita piena di imprese eccezionali e numerose missioni diplomatiche, Nistor Ureche può essere considerato una fonte importante tanto per la cultura del figlio che per il suo interesse verso la storia. Nistor Ureche ha scritto un'agiografia in romeno e di lui si conservano anche delle lettere dilpomatiche in latino. Ottiene «indigenatul polonez», cioé ha il diritto legale di comprare possedimenti in Polonia, appartiene al rango nobiliare polacco, fa anche parte del gruppo dei nobili polacchi esentati dalle imposte (șleahtă), il che gli consente di rifugiarsi in Polonia quando la situazione politica della Moldavia lo richiede. Trascorre in esilio in Polonia un lungo periodo, che gli permette di offrire a suo figlio, il futuro cronicar, un'educazione umanistica nelle scuole dei Gesuiti polacchi. Questo lungo periodo trascorso presso stranieri, in particolare umanisti, proprio negli anni decisivi della formazione, può in parte spiegare la decisione successiva di Ureche di scrivere un'opera di grande respiro sulla cultura moldava. Nestor Ureche guida il consiglio dei nobili moldavi (divan) e diventa per un breve periodo principe reggente della Moldavia. Egli ha fondato il monastero di Secul, dove si è fatto lui stesso monaco nei suoi ultimi anni di vita. Lascia in eredità a Grigore Ureche dei beni ingenti, una grande esperienza politica, una cultura cosmopolita e relazioni diplomatiche assai utili in un'epoca così turbolenta. Avrà raccontato a suo figlio una serie di storie sugli uomini potenti del suo tempo e, in ogni caso, gli ha lasciato in eredità una visione storica di ampi orizzonti, un rispetto per la scrittura e per la con

7 Vedi St.Orășanu, 1899, 40-41.

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Grigore Ureche, l'autore del Letopiseț, vive quindi fino ai diciotto anni in Polonia, dove si svolge la sua formazione, in seguito fa ritorno in Moldavia, per seguire il padre nella sua ascesa politica. Possiamo presupporre che tanto il gusto per la retorica classica, quanto il suo modo di confrontare la situazione della Moldavia con quella delle altre terre, si sia ispirato alle esperienze vissute durante l'esilio, ma anche al destino politico notevole, ma contrastato, del padre. Grigore Ureche ha una carriera politica molto più lineare: all'inizio logofat8, in seguito mare spătar [gran portatore di spada (del sovrano)], e nel 1642 mare vornic al Țării de Jos [gran governatore della Moldavia del Sud]. Al co

a non ci riesce. Il nuovo voievo

il consiglio di Ureche, Vasile

amico, sarebbe stato sconfitto (Cartojan, 1996, 244-245).

ntrario di Nistor Ureche, che si era rifugiato spesso in Polonia, il cronista non è mai stato obbligato a fuggire dal suo paese, dove partecipa in prima persona ai maggiori eventi storici. Era spătar, una funzione importante nella corte, quando viene a sapere che i turchi avevano deciso di sostituire il signore regnante con un altro, Iliaș, che aveva lasciato ricordi molto amari. Insieme con altri due nobili, Ioan Costin (padre dello scrittore Miron Costin) e Vasile Lupu, cerca di fermare questa sostituzione del signore, m

da cerca di ucciderli con un complotto, ma egli lo viene a sapere in tempo e riesce a organizzare una rivolta popolare che spinge alla fuga Iliaș. Dopo un breve interregno viene incoronato voievoda Vasile Lupu, mentre Ureche ottiene dall'amico l'investitura a mare vornic [gran governatore]. Comincia in quegli anni a scrivere la sua cronaca. Nel suo ultimo anno di vita, Ureche promuove una coalizione cristiana in funzione anti-turca. Seguendo

Lupu si allea con il cneaz polacco Radziwill, con il papa e con i veneziani, ma questa coalizione non riuscirà a sconfiggere i turchi. Ureche muore comunque senza sapere che Vasile Lupu, il voievoda suo

8 «Il logofat o cancelliere era chiamato a ricercare i testi che riguardavano i fatti storici, necessari ai bisogni della diplomazia.» (Panaitescu, 1971, 146)

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Ureche non è un chierico o un umanista che vive nel mondo dei libri, bensì un uomo di potere, figlio e nipote di nobili che avevano avuto un ruolo importante nella storia moldava, e lui stesso uomo politico di primo rango. Scrive il Letopiseț indirizzandosi ad altri nobili che vorranno, al pari di lui, fare e scrivere la storia della Moldavia, ma soprattutto affinché sulla storia della Moldavia non cada l'oblio. Il suo Letopiseț rimarrà custodito nel Monastero di Bistrița, che all'epoca svolge un ruolo analogo a quello di un'università9. Qui Ureche viene anche sepolto e da qui il libro inizia il suo viaggio nella cultura romena, dove è destinato a fare scuola.

Possiamo affermare che con esso, appare nel panorama delle rico, la prima

opera letteraria romena scritta da un protagonista della storia. Il punto di co

prime cronache, a carattere eminentemente storico e reto

nvergenza fra tutte le cronache del XV e del XVI secolo è che descrivevano la storia utilizzando la retorica a fini sia politici che culturali. Gli umanisti moldavi avevano capito la necessità di autodefinirsi dal punto di vista culturale, al fine di poter stabilire delle relazioni diplomatiche con le altre potenze.

Grigore Ureche occupa una posizione importante proprio per la sua cultura, dato che conosceva il latino, lo slavone, probabilmente il greco e benissimo il polacco. Queste competenze linguistiche gli consentono di leggere numerose cronache latine, slavone e polacche, in cui va alla ricerca di riferimenti alla storia della Moldavia, per poter confrontare le fonti ed elaborare così la sua versione della storia, alla cui stesura si dedica negli ultimi anni di vita.

Ureche scrive in virtù della propria cultura umanistica, acquisita negli studi in Polonia, ma anche perché ha compreso il pericolo costituito dai turchi, e quindi troveremo nel suo testo la

9 Sui monasteri focolari di cultura, si veda Ruffini, 1980, capitolo secondo, pp. 45-95 e pp. 64-84. Si veda anche Alzati, 1981, 200-201, 204. Al. Niculescu osserva: «In Moldavia i monasteri erano delle vere università» (Niculescu, 1970, 28)

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definizione e il commento dei margini e confini che sono alla base della formazione dell'identità europea medievale: la separazione fra cristia

mena antica

cultura più fioren

nesimo e mondo musulmano e la separazione fra chiesa ortodossa e chiesa romana. I moldavi dell'epoca si sentono nettamente distinti da turchi e tartari, che li invadono a ondate frequenti e la cui lingua e cultura rimane per loro del tutto estranea: per i romeni le civiltà orientali, cioè i turchi o i tartari, rappresentano un pericolo che mette a repentaglio l'esistenza stessa, quindi non si avverte, come in Europa occidentale, l'aspetto esotico e affascinante dell'Oriente, ma se ne percepisce solo quello minaccioso10.

2.3. I topoï umanistici nella cronaca di Grigore Ureche

La retorica classica si fa strada per due vie nella cultura ro. La prima è quella bizantino-slava, la cui influenza si fa sentire

precocemente, in coincidenza con l'entrata delle terre romene nella sfera dell'Ortodossia. Nei suoi studi sulla relazione fra cultura slava e cultura romena nei secoli XV e XVI, P. P. Panaitescu sostiene che per influsso slavo si deve intendere piuttosto influsso bizantivo filtrato attraverso la lingua slavona: «La cultura slava ortodossa del Medioevo, così come appare per quanto riguarda gli slavi meridionali, si sviluppa sotto l'influsso bizantino. Bisanzio è il centro di

te del primo periodo del Medioevo. A quella corte brillavano la filosofia, la teologia, la poesia, la storia, l'educazione accademica, l'arte dell'architettura e del mosaico, le arti politiche e le scienze dell'amministrazione. Attraverso i suoi missionari ed evangelizzatori, Bisanzio ha cristianizzato e conquistato dal punto di vista culturale gli slavi, cioè bulgari, serbi e russi. Gli slavi meridionali ovviamente furono legati per molti più secoli alla dominazione bizantina. Di

10 Per poter parlare di un «esotismo» romeno, si dovranno attendere gli anni Trenta del XX secolo, quando il ricordo delle invasioni turche e tartare sarà entrato nel dominio della storia remota e per questo si sarà del tutto affievolito.

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conseguenza, la cultura slavo-ortodossa, adottata anche dai romeni, era originariamente bizantina.» (Panaitescu, 1971, 40)

Le cultura bizantina è stata un'evoluzione naturale della cultura classica greco-latina, di cui ha sviluppato anche il culto per la retorica. Fra i romeni, dove la lingua slava era usata nelle cancellerie voievodali e in chiesa, l'influsso della retorica bizantina arriva nei docum

ava caratterizza le opere in

enti e negli scritti del XVI secolo. Trattando l'influsso della retorica bizantina nelle cronache slavone di Macarie, Eftimie e Azarie, Panaitescu osserva: «la lingua slava di questi testi è assai ardua, ricca e con volute retoriche complesse» (Panaitescu, 1971, 64) e «A differenza delle cronache del XV secolo, esse hanno la tendenza di abbellire il racconto a guisa di un testo retorico-letterario, secondo il modello della cronaca bizantina – tradotta in slavone – di C. Manasse» (Panaitescu, 1971, 73) (Si veda anche Panaitescu, 1971, 114- 115).

La seconda via di accesso della retorica alla cultura romena è di matrice umanistica, nel senso che si tratta del risultato dell'educazione umanistica dei giovani nobili che, pur non intraprendendo una carriera ecclesiastica, hanno frequentato gli studi nei collegi gesuiti della Polonia. Di conseguenza, possiamo ipotizzare che la retorica di stampo umanistico appare negli scritti in lingua romena dei secoli XVI e XVII, mentre la retorica bizantino-slslavone scritte da ecclesiastici anche nei secoli precedenti.

Nella Moldavia del XVII secolo troviamo una grande varietà di scuole: ci sono certamente scuole di orientamento bizantino (che nel XV secolo usavano la lingua slavona, ma che si apriranno gradualmente al greco, e accanto a queste ci sono anche scuole a influenza occidentale in cui si usa il latino11. Del resto, i romeni studiavano in latino non solo nelle scuole dei Gesuiti in Polonia, bensì anche alla Scuola della Patriarchia di Costantinopoli, dove «predominava l'insegnamento classico con professori che avevano

ce par l’ecole», pp. 201-219. 11 Vedi Iorga, 1935, cap. «La Renaissan

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studiato in Italia» (Panaitescu, 1971, 44), e in seguito anche a Iași: «Alla metà del XVII secolo, Vasile Lupu realizza la prima scuola voivodale, una specie di università, basata sugli studi classici, a Iași. Si tratta del collegio Trei Ierarahi. Questo collegio fu fondato nel 1641 [...] si basava sugli studi classici e la lingua d'insegnamento era il latino.» (Panaitescu, 1971, 82-83)

Vasile Lupu, voievoda di Moldavia per 17 anni, è amico di Grigo

e anche

re Ureche, e non a caso gli anni in cui viene fondata questa accademia signorile sono proprio gli stessi in cui Ureche scrive la propria cronaca e si interroga sull'origine romana dei romeni e della loro lingua. P. P. Panaitescu, che ha studiato la questione dell'insegnamento nei principati romeni e il rapporto fra le diverse lingue di cultura presenti, lo slavone, il greco, il latino e il romeno, offre numerosi dati sull'apertura in Moldavia di scuole in latino e in greco, di matrice bizantina o classicizzante, e anche sulla circolazione di intellettuali romeni nelle diverse scuole in Polonia e in Italia,

a Costantinopoli, che resta ancora un centro di interazione degli intellettuali fra Oriente e Occidente. Dal suo quadro si può concludere che, a partire dal XVII secolo, gli intellettuali romeni hanno accesso a molti modelli di formazione12, in cui la retorica è in tutti i casi «il denominatore comune» (Curtius, 2006).

In Ureche incontreremo unicamente l'influsso della retorica umanistica, che egli aveva studiato in Polonia, e non la retorica lussureggiante bizantina o post-bizantina, penetrata invece attraverso la filiera religiosa nelle cronache di Macarie, Eftimie e Azarie.

Gli specialisti hanno inoltre rilevato nello stile di Ureche possibili influssi da Tito Livio o da Tacito. Inoltre Ureche segue il modello umanistico della storiografia, che, come definito da Tito Livio, parte dalle origini e si propone di arrivare fino al tempo

12 Vedi Panaitescu, 1971, 81-85, 43-47.

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presente13. Purtroppo, la cronaca di Ureche rimane incompiuta, in quanto non arriva fino al racconto dei fatti che l'autore ha vissuto in prima

a della stesura della

orica per presentare la sua

persona. È tuttavia probabile che molte delle informazioni che egli riprende sull'epoca immediatamente precedente, le abbia ricevute da suo padre. Come Machiavelli, Ureche aveva partecipato ai fatti politici e la sua cronaca è dunque una riflessione sulla storia recente, vista dall'interno.

Ureche ha uno stile conciso e chiaro, dalle fatture classiche (Cartojan, 1996, 251). Proprio come osserva Curtius, all'interno del volume già citato, nell'Excursus XIII. La concisione come ideale stilistico (Curtius, 2006, 543), Ureche abbrevia molto i commenti. La sua preferenza per la brevità e concisione crea l'illusione dell'oggettività; seleziona, fra tutti i fatti storici che conosce, non solo per via libresca, ma anche dall'esperienza politica del padre, quelli che può utilizzaremeglio per sottolineare le sue idee di fondo. Si utilizzano inoltre nella cronaca i topoï umanistici, che vengono adattati alla lingua romena.

Ureche separa il ritratto fisico e morale dei principi, dalla descrizione delle loro azioni. A questo ritratto non dedica che poche frasi, mentre di solito usa una sintassi articolata e arborescente. Il motivo per cui sceglie la brevitas a discapito dell'amplificatio (cfr. Curtius, 2006, 546-547), risiede nel fatto che il Letopiseț non è un panegirico, bensì una storia critica della Moldavia. L'autore ha uno spiccato senso critico, derivante, da un lato, dall'età ormai avanzata, dall'altro dalla lunga esperienza politica, da cui gli derivavano una notevole capacità di comprendere gli eventi e anche in qualche misura distacco e indifferenza. D'altra parte, i principi su cui scrive Ureche, e ormai anche i loro successori, erano morti all'epoccronaca. Lo stile di Ureche non ubbidisce a costrizioni formali o condizionamenti politici: egli utilizza la ret

13 Pompiliu Constantinescu (1957) ha legato il ritratto di Annibale in Tito Livio a quello di Ștefan.

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spiegazione della storia e per sostenere le sue idee, mai con funzione di laudatio.

La prima parte di questo capitolo sarà dedicata all'analisi di tre aspettcostanumanassumstoria.sovranȘtefantipica ritratt oldavi, con l'adozrispett

traumche cocontincittà dBisanzNella Basileu ne

nazionali, l'uomo è simile agli animali

i della cronaca, di cui i primi due sono considerati da Curtius ti formali della cultura europea, e che Ureche riprende dagli

isti. Il primo è costituito dal simbolo del libro, che in Ureche e valori legati alla legittimazione della stirpe di fronte alla Il secondo aspetto su cui mi soffermerò è il ritratto del no-eroe, Ștefan cel Mare. Le modalità con cui viene descritto corrispondono alle caratteristiche che Curtius attribuisce alla descrizione di sovrani ed eroi nella letteratura europea. Il

o di Ștefan è una meditazione sulla storia dei mione di un altro topos classico, «la decadenza dei moderni o agli antichi», e conduce alla generazione di un mito di Bisanzio. Dopo il 1453 i popoli dell'Europa sud-orientale hanno vissuto un a collettivo che ha generato un mito, quello di una nuova Bisanzio ntinua la gloria dell'impero distrutto dai turchi. Si tratta di una uazione a livello spirituale: al pari di Enea che porta lontano dalla istrutta i lari e i penati di Troia, si immagina una continuazione di io, vista come simbolo culturale, come mito, nelle terre romene. visione di Ureche, Ștefan è l'eroe salvatore che prende il posto del s di Bisanzio. Il quarto aspetto esaminato si riferisce al parago

con le altre culture, un risultato, probabilmente, sia dell'esilio da lui sperimentato in gioventù, sia della sua cultura, dei libri consultati per ricostruire la storia della Moldavia. Questa riflessione sul rapporto fra «noi» e «gli altri» riveste un ruolo importante nella definizione identitaria perseguita all'interno del suo Letopiseț.

2.4. Grigore Ureche: senza un libro in cui si parla delle sue origini

Ureche è un uomo politico umanista preoccupato di spiegare in un libro l'origine dei romeni. Uno dei copisti e interpolatori più

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importanti di Ureche, Simion Dascălul, aggiunge all'opera diversi commenti, fra i quali la prefazione, in cui presenta le opere di Ureche riportando le sue parole in terza persona14:

«Mulţi scriitorii au nevoit de au scris rândul şi povéstea ţărâlor, de au lăsat izvod pă urmă, şi bune şi réle, să rămâie feciorilor şi nepoţilor, să le fie de

sono sgorgati nel paese e si no moltiplicati e ingranditi [e l'ha scritto] perché non sia dimenticato che cosa

Seconmolda a per essere ammessi nel teatro della storia. Il libro, capacepopolvoce epionie Curtius nel topos,

învăţătură, despre céle réle să să ferească şi să să socotească, iar dupre céle bune să urméze şi să să învéţe şi să să îndireptéze. Şi pentru acéia, unii de la alţii chizmindu şi însemnând şi pre scurtu scriind, adecă şi răposatul Gligorie Uréche ce au fost vornic mare, cu multa nevoinţă cetind cărţile şi izvoadele şi ale noastre şi cele striine, au aflat cap şi începătura moşilor, de unde au izvorât în ţară şi s-au înmulţit şi s-au lăţit, ca să nu să înnéce a toate ţările anii trecuţi şi să nu să ştie ce s-au lucrat, să sa asémene fierălor şi dobitoacelor celor mute şi fără minte.» (Ureche, 1955, 57) Grigore Ureche (Simion Dascalu)

[Molti scrittori hanno sentito il bisogno di scrivere l'ordine e il racconto dei fatti delle loro terre, di lasciare una traccia, buona o cattiva, che potesse rimanere ai discendenti e ai nipoti, in modo da essere d'insegnamento, nelle imprese malvage perché se ne guardino e ci ragionino sopra, nelle imprese lodevoli perché le imitino, in modo da imparare e diventare più retti. E per questo, gli uni dagli altri componendo e redigendo e in breve scrivendo, cioè anche la buonanima di Grigorie Ureche, già vornic mare (gran governatore), con tanta fatica leggendo i libri e le fonti, le nostre e quelle straniere, hanno trovato l’inizio e il cominciamento della stirpe, da dove sosia capitato nel Paese nei tempi passati e perché gli uomini non siano come le belve o il bestiame, muti e senza ragione». Grigore Ureche (Simion Dascalu)

do Ureche, il libro sull'origine e sulla storia della stirpe è per i vi la sola vi di mettere in salvo il passato e di conferire così l'identità a un

o e a una stirpe, è ciò che distingue l'uomo dall'animale privo di d'intelligenza. La figura retorica in cui si sottolinea il ruolo ristico del libro, viene identificata da

14 P. P. Panaitescu, il filologo che ha curato l’edizione migliore del libro di Ureche, ritiene che queste parole appartengano a Ureche, anche se sono state riportate dal copista. A proposito della difficoltà di distinguere le interpolazioni di Simion Dascălul dal testo originale di Ureche, vedi anche Mazilu, 2000, 3, 58-63

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Alexandra Vranceanu Pagliardini 84

caracteristico per l'esordio di un'opera, «io offro cose mai dette». Nel testo di Ureche viene adottata nel commento introduttivo di un copista, Simion Dascălul, che però non si limita a copiare, bensì interviene nel testo con l'aggiunta di rettifiche o commenti ritenuti essenziali dallo stesso copista.

Curtius osserva che fin dalla tarda antichità il simbolo del libro riveste un ruolo importante nella cultura europea: «L’Antichità pagansalvazsacri del corso della sSilvestfigure upa nel libro di

ale della stirpe dei moldavi. L'autore è cosciente del valore originale della sua ricerca e riflessione storica, che parte un'ind po umanistico sul passato della Moldavia, descri

cronaca, intende la sua fonte romena, .d.r.), ma anche libri stranieri abbiamo cercato, per poter sapere la verità, per

Urechstorie un'inf

a nella sua fase religiosa conclusiva attribuì al libro un senso di ione e di sacralità. I poemi omerici erano allora divenuti i "libri del paganesimo"». (Curtius, 2006, 341) L'immaginetoria già scritto nello «spirito della divinità» appare in Bernardo re, insieme all'idea che «il cielo è aperto come un libro di » (Curtius, 2006, 355). Il posto centrale che occ

Ureche la riflessione sulla storia spiega l'apparizione del simbolo del libro come legittimazione cultur

da fonti in sé povere e non convincenti. Ureche ha portato avanti gine storica di stama

tto impropriamente nei testi precedenti: «nu numai letopisețul nostru, ce și cărți striine am cercat, ca să putem afla adevărul, ca să nu mă aflu scriitoriu de cuvinte deșarte, ce de dereptate, că letopisețul nostru așa de pre scurt scrie, că nici de viața domnilor, carii au fost toată cârma, nu alege, necum lucrurile den lăuntru să aleagă (…).» (Ureche, 1955, 58)

[non solo la nostra cronaca(la nostrannon essere uno che scrive parole vuote, ma cose giuste, perché la nostra cronaca così brevemente scrive che né della vita dei signori, che sono stati al timone, parla, e neanche spiega le ragioni interne dei fatti (…)]

e sottolinea in questo passo la mancanza di documenti delle precedenti e la loro debolezza interna: essi non fornivano

ormazione sufficiente, e neanche si ponevano il problema di

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 85

riflettelăuntr i erano o cronache di corte o

ște oameni neașăzați și

ttendibili, cioè quelle in cui si mescolano leggende e voci:

Al coscrittepropoche simolda

e più compiutamente scrivono,

re sui fatti storici e sulle loro cause («Necum lucrurile din u să aleagă»). Le cronache anterior

cronache scritte da ecclesiastici, quindi sia le une che le altre non potevano incontrare il favore del fine umanista Ureche, né a livello dei contenuti, né a quello stilistico-retorico. Ureche ricorda poi anche le due cause che sono alla base della penuria di informazione storica in lingua romena, la povertà e l'ignoranza:

«Nici iaste a să mira, că scriitorii noștri n-au avut de unde strânge cărți, că/scriitorii dentăiu n-au aflat scrisori, ca de ninemernici, mai mult proști decât să știe carte.» (Ureche, 1955, 58)

[Non c’è da meravigliarsi, se i nostri scrittori non hanno avuto donde raccogliere libri perché i primi scrittori non hanno trovato libri, come presso uomini instabili e vagabondi, piuttosto incolti che letterati]

Ureche respinge fermamente le fonti non a

«Ce și ei au scris, mai mult den basne și den povești ce au auzit unul de la altul.» (Ureche, 1955, 58)

[Quelli hanno scritto soprattutto partendo dalle favole e dai racconti che hanno udito raccontare gli uni dagli altri]

ntrario cita con rispetto le fonti straniere documentate, quelle in polacco e in latino, che ha consultato direttamente. A sito di esse si avverte tutta la sua ammirazione per gli stranieri sono interessati alla storia di altri popoli, in particolare dei vi, e non soltanto alla propria.

«Iar scrisorile striinilor mai pe largu și de agiunsu scriu, carii au fost fierbinți și râvnitori, nu numai a sale să scrie, ce și cele striine să însemneze. Și de acolo multe luînd și lipindu de ale noastre, potrivindu vremea și anii, de am scris acest letopiseț» (Ureche, 1955, 58)

[Gli scritti che gli stranieri più ampiamentequelli che sono stati ferventi e ambiziosi, non solo nello scrivere le proprie vicende, ma anche nell'insegnare quelle straniere. E così, riprendendo molte

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cose da questi e aggiungendole alle nostre, trascorrendo in questa fatica anni e anni, ho scritto questa mia cronaca storica]

esto passaggio emerge Da qustrumstoricaper laricord ando Ureche era mare vornic, il voivoda suo amico,

risult

[h scritto questa cronaca, che, se risulta in molti punti imperfetta, penso che le colpevole, perché non può l’uomo, in

ta ti casi, descrivere bene tutto ciò che vede, anche quello che succede sotto i

chiaramente il ruolo del libro come ento veridico e autentico per la conservazione della memoria , e allo stesso tempo il desiderio di Ureche che ci siano anche sua cultura degli scrittori come ne esistono stranieri. Occorre are che, qu

Vasile Lupu, apre l'Accademia signorile Trei Ierarhi, con insegnamento in latino, verosimilmente su consiglio dell'amico.

L'introduzione al Letopiseț si conclude con un topos catalogato da Curtius, sotto la denominazione «modestia del retore», fra le costanti formali della letteratura europea. Ureche si scusa qui del

ato imperfetto costituito dalla sua opera, attribuendone il difetto alla lontananza nel tempo dei fatti narrati:

«am scris acest letopiseț, carile de pre în multe locuri de nu să va fi nimerit, gândescu că acela ce va fi înțeleptu nu va vinui, că de, nu poate de multe ori omul să spuie așa pre cale tot pre rândul, cela ce vede cu ochii săi și multe smintește, de au spune mai mult, au mai puțin, dară lucrurile vechi și de demult, de s-au răsuflat atâta vreme de ani? Ci eu, pe cum am aflat, așa am arătat.» (Ureche, 1955, 58)

opersone intelligenti non mi troverano

nsuoi occhi. E per questo tante cose muta, dicendo di più o di meno. Allora che sarà con le cose antiche e lontane, che sono passate da tanto tempo? Ma io, come le ho sapute, così le ho presentate.]

Dobbiamo porre in relazione questa excusatio propter infirmitatem con il suo desiderio di produrre un testo convincente, equilibrato e in nessun caso basato su «basne» [favole]. Simion Dascălul aggiunge, riprendendo le parole dello stesso Ureche:

«apucatu-s-au și dumnealui de au scris/începătura și adaosul, mai apoi și scăderea care se vede că au venit în zilele noastre, după cum au fost întâiu țărîi

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și pământului nostru Moldovei. Că cum se tîmplă de sîrgu de adaoge povoiul apei și iarăși de sîrgu scade și se împuținează, așa s-au adaos și Moldova, carea mai apoi de alte țări s-au descălecat, de s-au de sîrgu lățit și făr zăbavă îndireptatu» (Ureche, 1955, 57)

[ha cominciato la sua signoria a scrivere l’inizio e il seguito, poi la discesa che si vede arrivata nei nostri tempi, rispetto a come era all’inizio la terra e il paese nostro di Moldavia. Come accade spesso, che viene una quantità grande di acqua e poi scende e diminuisce, così è cresciuta anche la Moldavia, che poi in altri paesi si è installata e si è allargata e senza pigrizia in ogni direzione indirizzata.]

Questa «decadenza», legata soprattutto alla politica di vassallaggio nei confronti dei turchi, ormai imboccata dalla Moldavia, avrebbe avuto come soluzione, secondo Ureche, l'alleanza con i polacchi, l'apert

realtà storica corrisponde, in nda nella famiglia Moldavia era una

terra

ura di scuole, la produzione di libri e la fiducia nella capacità di resistenza della Moldavia, come ai tempi di Ștefan cel Mare.

Nel suo grado di mare vornic, Ureche ha lottato per liberare la Moldavia dalla dominazione turca, sia con i mezzi umanistici che con quelli politici. La sua cronaca è la dimostrazione della sua fiducia nel ruolo fondamentale del libro e della cultura per l'educazione e per la legittimazione stessa di un popolo. Ureche non scrive una storia «oggettiva», quanto piuttosto una storia «argomentativa», dal che deriva il peso accordato nell'opera alla retorica.

2.5. Il principe-eroe. Ștefan cel Mare

Ureche crede di vivere in un'epoca di decadenza rispetto a quella precedente, che era stata di grande splendore, sotto lo scettro di Șefan cel Mare. Si tratta di un topos della retorica classica, «laudatio temporis acti», anche se in questo caso laquanto al tempo di Ștefan, la cui memoria si tramaUreche a partire dal bisnonno del nostro cronista, la

potente, mentre ai tempi di Ureche non lo è più. Il Letopiseț di Grigore Ureche è una storia umanistica della

Moldavia, in cui il ritratto dei voievoda viene fatto mediante strumenti

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retorico-letterari. In posizione centrale nel testo si trova il principe che ha dominato la storia rinascimentale della Moldavia, Ștefan cel Mare, cui la cronaca attribuisce il ruolo di modello.

Uno dei procedimenti usati dal cronicar al fine di educare i contemporanei è la creazione eroica del sovrano-eroe, in riferimento allo stesso Ștefan cel Mare, da una parte avvalendosi dei mezzi della retorica classica, dall'altra omettendo la menzione del suo vassallaggio nei confronti dei polacchi o dei turchi, in momenti diversi del suo lungo regno, durato ben 47 anni. Avendo come scopo il valore pedagogico della storia, Ureche sceglie quali fatti menzionare e quali ignorare nella costruzione della sua cronaca.

Per Ureche la continuità con Bisanzio s'incarna nell'immagine di un voievoda che, con l'aiuto di Dio, riesce a conservare una Moldavia forte e autonoma. Si tratta di Ștefan cel Mare, descritto secondo il mode

ome novello imperatore. Siamo di fronte ai tratti caratt

Pur avendo il Letopiseț di Ureche una struttura narrativa paratattica, in cui sono inseriti, sullo stesso piano, i profili di molti

llo del sovrano-eroe, così come l'ha identificato Curtius nella cultura europea. Il ritratto di Ștefan è costruito, seguendo la retorica classica, in funzione di tre costanti formali: fortitudo, sapientia e pietas (Curtius, 2006, 197-203). Il valore di Ștefan nel campo delle armi, la fortitudo, unita all'intelligenza nel negoziare con i nemici, riuscendo anche a manipolarli, la sapientia, vanno di pari passo con il rispetto per la divinità, pietas, che ha portato il sovrano a fondare nuove chiese, a ricevere l'aiuto della divina provvidenza e ad essere riconosciuto dal vescovo c

eristici dei sovrani del Medioevo europeo, ma queste tre caratteristiche in particolare configurano Ștefan come il basileus che continuerà Bisanzio su un piano ideale.

2.5.1. La «fortitudo» nel ritratto di Ștefan cel Mare

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princ

ini per la ricchezza di dettagli e l'ampiezza dei commenti sulle sue gesta, e più ancora per la sua presentazione dal punto di vista rpossie tagliatamente diversspiegabisavoȘtefan a anche con l'esistenza di una cronaca scritta proprio alla

to ricca di dettagli concreti appresi per via di

chiara ofessato da Ureche per i valori che erano alla base dell'azione politica di Ștefan,

la stabilità e l'autonomia dei moldavi15. Per questo os «fortitudo et sapientia», consid tratti eroici nella letteratura europ197-20

ascendper lapoliticdall'incon le

ipi che hanno regnato sulla Moldavia a partire dal XIV secolo, la figura di Ștefan cel Mare si staglia sul panorama e domina la scena della storia moldava. Si tratta di una figura dominante sia per la posizione occupata nel testo, che per lo spazio ad essa assegnato, in altri term

etorico. Ureche poco si sofferma sui primi sovrani, di cui non de sufficienti informazioni, mentre descrive deti avvenimenti del voivodato di Ștefan. Questo fenomeno si può re in più modi: con le relazioni dirette fra il sovrano e il lo di Grigore, Danciul Ureche, che aveva lottato insieme con , m

corte del principe, quindi molretta. Un'ulteriore motivazione per cui la sua immagine è così mente definita nel testo deriva dal rispetto pr

coincidenti con i propri: Ștefan è riuscito a mantenere, per mezzo della fortitudo e della sapientia,

il voievoda sarà descritto con il topte dei rierato da Curtius una costan

ea antica e medievale (vedi Curtius, 2006, cap. Eroi e sovrani, p. 3). La fortitudo è la caratteristica principale di Ștefan cel Mare, che e al trono della Moldavia nel 1457: in quegli anni duri e difficili Moldavia, questo tratto si manifesta certo con le capacità he e militari di vincere le battaglie, ma anche, come si vede fin izio del voivodato, con l'abilità di tessere relazioni diplomatiche terre vicine.

15 Sull’autonomia dei paesi romeni, si veda Alzati, 1981, 142-146.

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Il regno di Ștefan s'inaugura nel sangue. Egli vendica, infatti, il padre, uccidendo il principe regnante Aron, che aveva usurpato il regno di suo padre, Bogdan. Dopo la morte di questi, Ștefan viene confermato sul trono dall'assemblea dei nobili e si prepara subito alla guerra:

Decii Ștefan vodă gătindu-să de mai mari lucruri să facă, nu cerca s« ă așeze

Urech

Siamocorso aca:

țara, ci de războiu se gătiia, că au împărțitu oștii sale steaguri și au pus hotnogi și căpitani, carile toate cu noroc i-au venit.» (Ureche, 1955, 83) [Quindi il vodă Ștefan, preparandosi ad imprese ancora più grandi, non si applicava ad organizzare il paese, ma alla guerra si preparava, dato che ha distribuito al suo esercito bandiere e ha nominato centurioni e capitani, e tutte queste gli sono riuscite con buona sorte]

e descrive Ștefan come «om războinic și de-a pururi trăgîndu-l inima/ spre vărsare de sânge» (Ureche, 1955, 83). [un uomo bellicoso e sempre pronto a versare sangue] di fronte a una costante del suo carattere che torna più volte nel della sua cron «ca un leu gata de vînatu» (Ureche, 1955, 88) [come un leone pronto alla caccia] «Ștefan vodă, fiindu aprinsă inima lui de lucrurile vitejești, îi părea că un an ce n-au avut treabă de războiu, că are multă scădere, socotindu că și inimile voinicilor în războaie trăind se ascut și truda și osteneala cu carea să diprinsese iaste o a doao vitejie» [Al principe Stefano, essendo il suo cuore acceso di imprese valorose, sembrava che un anno senza guerra avesse molte perdite, e riteneva che anche i cuori dei suoi soldati si affilano vivendo nella guerra, e le fatiche e i lavori a cui si abituano in battaglia aggiungono un secondo valore in battaglia.] (Ureche, 1955, 89) «Ștefan vodă fiindu gata de războiu ca un leu ce nu-l poate îmblânzi niminea» (Ureche, 1955, 110). [Essendo il vodă Ștefan pronto alla guerra, come un leone che nessuno può addomesticare]

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L'elemdella pin sintritrattcontradi Ște la concisione dell'autore:

ento ritorna anche nel ritratto, collocato da Ureche alla fine arte dedicata a Ștefan. Citerò il passaggio perché vi si ritrovano esi tutti i tratti considerati da Curtius come costanti formali dei i di sovrani ed eroi, ma anche per mostrare determinate ddizioni retoriche di cui si serve Ureche per schizzare il ritratto

fan cel Mare. Colpisce anche qui «Fost-au acest Ștefan vodă om nu mare la statu, mînios și de grabu vărsătoriu de sînge nevinovat; de multe ori la ospețe omorîea fără giudețu. Amintrelea era om întreg la fire, neleneșu, și lucrul său îl știia a-l acoperi și unde nu gândiiai, acolo îl aflai. La lucruri de războaie meșter, unde era nevoie însuși se vîrîea, ca văzându-l ai săi, să nu să îndărăptieze și pentru aceia raru războiu de nu /biruia. Și unde biruia alții nu pierdea nădejdea, că știindu-să căzut jos, să rădica deasupra biruitorilor.» (Ureche, 1955, 111) [Era questo principe Stefano un uomo non alto di statura, facile all’ira e pronto a versare sangue innocente; tante volte ai festini uccideva senza giudizio. Altrimenti era un uomo integro, non pigro e sapeva prendere cura delle sue cose e lo trovavi dove non avresti mai creduto. In cose di guerre maestro, dove era necessario interveniva personalmente, così i suoi lo vedevano e non si ritiravano e per ciò poche guerre non ha vinto. E quando vincevano gli altri, lui non perdeva la speranza, che, anche sapendosi caduto, si sarebbe rialzato sopra i suoi vincitori.]

La descrizione inizia assai verosimilmente, con la concisione che si mostra al lettore come indizio dell'imparzialità del narratore, quindi si trasforma gradualmente in ritratto da epopea. Ureche ci tiene molto al proprio stile conciso e minimale, che anche nei commenti morali lascia trasparire appena l'opinione delnarratore.

Tale scelta stilistica si collega strettamente al ruolo centrale accordato al libro: affinché i moldavi non rimangano «come fiere selvatiche o bestiame domestico, muti e senza senno», scrive la sua storia che vuole oggettiva, nel senso da lui intesto, cioè non sarà destinata al diletto, ma all'educazione. Quando si rende necessario per Ureche abbandonare la brevitas e avventurarsi nei territori del panegirico, l'autore si appoggia alle opinioni di altri:

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«Iar pre Ștefan vodă l-a îngropat țara cu multă jale și plângere în mănăstire în Putna, care era zidită de dânsul. Atâta jale era, de plângea toți ca după un părinte al său, că cunoștiia toți că s-au scăpatu de mult bine și de multă apărătură. Ce după moartea lui până azi îi zicu sveti Ștefan vodă, nu pentru sufletu, ce iaste în mîna lui Dumnezeu, că el încă au fost om cu păcate, ci pentru

ejești, carile niminea din domni, nici mai nainte, nici după

Facen

aese] come soggetto per designare la sofferenza collettseppe111). Itipica toți cătutti cperso

anticamolda to in cui la storia si trasforma quasi spontacosì, nai mupolacc

lucrurile lui cele vitaceia l-au ajunsu.» (Ureche, 1955, 111)

do di un soggetto indeterminato, «îi zic sveti Ștefan» [lo chiamano Santo Stefano], Ureche racconta che «l’intero paese» ha pianto la sua morte come la morte del padre. Poiché Ureche tiene molto alla propria obiettività, egli sottolinea che Ștefan non possedeva la perfezione morale, el încă au fost om cu păcate [lui è stato comunque un uomo peccatore], tuttavia la sua fortitudo, lo colloca al di sopra degli altri uomini, pentru lucrurile lui cele vitejești, carile niminea din domni, nici mai nainte, nici după aceia l-au aj

uso

unsu [per le sue imprese potenti, che nessuno fra i principi, né prima, né dopo di lui, ha eguagliato]. Ureche descrive Ștefan come un eroe da epopea e fa uso del termine «țara» [il p

iva: «l-au îngropat țara cu multă jale și plângere» [lo hanno llito, il paese intero, con gran cordoglio e pianto] (Ureche, 1955, l personaggio eroico è visto come un padre, una caratteristica dell'eroe: «plângea toți ca după un părinte al său, că cunoștiia s-au scăpatu de mult bine și de multă apărătură.» [piangevano ome per il proprio padre, poiché sapevano tutti che avevano un grande bene e una grande gloria] (Ureche, 1955, 111) Il ritratto di Ștefan rimane un unicum nella letteratura romena . Nessuno degli altri cronisti ha tracciato, per nessun principe vo o valacco, un ritratneamente in leggenda (sveti Ștefan). Ștefan si avvia a diventare ella memoria collettiva, l'apostolo della fede cristiana di fronte

sulmani, ma anche l'apostolo dell'integrità nazionale di fronte ai hi o agli ungheresi, e quindi un simbolo eroico.

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Una semplificazione del ritratto di Ștefan, ridotto ai minimi i dell'epiteto omerico fortitudo, rischierebbe però di non farci

re le sottigliezze del testo di Ureche, che non ha scritto una da agiografica, bensì una storia morale della Moldavia. a Sapientia. Battaglia di Podul Înalt (Vaslui).

termincoglieleggen

2.5.2. L

i

principe Casimiro, e 5000 di Ungheria, ha affrontato i

L'idea che la lotta contro i turchi non può essere vinta solo con la fortitudo, bensì occorre anche il ricorso alla sapientia, appare molte volte nella descrizione delle imprese di Ștefan. Un evento centrale è costituito dalla battaglia di Podul Înalt (o di Vaslui), in cui Ștefan, nel 1475, si scontra con i turchi, con l'aiuto di polacchi e transilvani, e vince «nu așa cu vitejia, cum cu meșteșugul.» [non solo con la forza, ma anche con la tecnica] (Ureche, 1955, 92).

La battaglia di Podul Înalt è una vittoria della cristianità sotto la guida del principe moldavo, che riesce, abbinando fortitudo e sapientia, a sconfiggere i turchi:

«Ștefan vodă avîndu oastea sa, 40.000 și 2000 de leși ce-i venise într-ajutoriu cu Buciațchi de la craiul Cazimir și 5000 de unguri, ce-i dobîndise de la Mateiașu craiul ungurescu, le-au ieșit înaintea turcilor din sus de Vasluiu, la Podul Înalt, pre carii i-au biruitu Ștefan vodă, nu așa cu vitejia, cum cu meșterșugul. Că întâi au fostu învățatu de au pîrjolitu iarba pretutindeni, de au slăbitu caii turcilor cegingași. Decii ajutorindu puterea cea dumnezeiască, cum să vrea tocmi voia lui Dumnezeu cu a oamenilor, așa i-au coprinsu pre turci negura, de nu să vedea unul cu altul. Și Ștefan vodă tocmisă puțini oameni preste lunca Bîrladului, ca să-i amăgească cu buciune și cu trâmbițe, dându semnu de războiu, atunci oastea turcească întrocându-să la glasul bucinelor și împiedicîndu-i și apa și lunca și negura acoperindu-i, tăindu-i lunca și sfărămându, ca să treacă la glasul bucinilor.» (Ureche, 1955, 92)

[Il principe Stefano, avendo il suo esercito di 40.000 e 2000 polacchi che gli erano venuti in aiuto con Buciațchi da parte del

ngheresi, che aveva ricevuto da Matei, il principeuturchi sopra Vaslui, a Podul Înalt, e gli ha vinti il principe Stefano, non tanto con il valore, quanto con la tecnica. Perché prima ha avuto l’astuzia di bruciare

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l’erba dappertutto, in modo da indebolire i cavalli fragili dei turchi. Quindi aiutandolo la potenza di Dio, come accade quando la volontà di Dio incontra quella del uomo, così sono stati avvolti i turchi nella nebbia, che non si vedevano più l’un l’altro. E il principe Stefano aveva assoldato un po’ di gente per imbrogliare con buccine e trombete, dando il segnale di guerra, e quindi

La desdel mattrav a la

h

decii s-au întorsu la scaunul său, la

l’esercito turco arretrando al suono delle buccine e impedendoli l’acqua e il pantano e la nebbia coprendoli, e attraversando il pantano e andando a morire nel tentativo di seguire il suono delle buccine. ]

crizione di questa battaglia svolge un ruolo centrale nella genesi ito di Bisanzio all'interno del testo. Il mito si costruisce

erso alcuni tratti essenziali: l'eroe, aiutato da Dio (talvoltMadonna o i Santi militari) e dal miracolo da lei concesso, riesce vittorioso contro i musulmani e fa ritorno da trionfatore nella sua città, dove viene accolto dal metropolita e da tutto il clero, e dove fa costruire una nuova chiesa, a memoria perenne dell'impresa. Il principe è così consacrato «eroe della cristianità» ed è visto con gli attributi di «un imperatore». Le tappe progressive di questa consacrazione appaiono nella cronaca di Ureche per raccontare le imprese di Ștefan e per costruire al tempo stesso l'idea che lo spirito di Bisanzio è sopravvissuto in terra romena. Anc e se caduta con il suo impero ormai da due secoli, per gli umanisti romeni Bisanzio resta il centro della cultura, ma si tratta di una Bisanzio simbolica e ideale, che essi possono tenere in vita con le proprie azioni e opere gloriose.

La battaglia di Podul Înalt presenta inoltre numerose affinità con le modalità con cui, quasi un secolo prima, un pittore aveva rappresentato la scena dell'assedio di Costantinopoli (fig.1.), in certi affreschi realizzati nelle chiese di Moldovița e Humor. Ritroveremo in questi affreschi, che formeranno l’argomento della seconda parte di questo capitolo, la nebbia, l'elemento acquatico e il miracolo divino, presenti anche nella descrizione della battaglia di Podul Înalt. Dopo la vittoria di Podul Înalt Ștefan fonda una chiesa:

«Și într-aceia laudă și bucurie au ziditu biserica în tîrgu la Vasluiu, dîndu laudă lui Dumnezeu de biruință ce au făcut. Și

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Suceava, cu mare pohvală și biruință, de la însuși Dumnezeu de sus, ieșindu-i înainte mitropolitul și cu toți preoții, aducîndu sfînta Evanghelie și cinstita cruce

domnitor16. Il termine împărat

în mîinile sale, ca înaintea unui împăratu și biruitoriu de limbi păgîne, de l-au blagoslovitu. Atuncea mare bucurie au fostu tuturor domnilor și crailor de prin prejur de biruință ce au făcut Ștefan vodă.» (Ureche, 1955, 93)

[E per questi fatti in segno di lode e di gioia hanno fondato la chiesa nella città di Vaslui, lodando Dio che aveva dato loro gloria. Quindi è tornato sul suo trono a Suceava, con grande gloria e trionfo, concessi proprio da Dio l’altissimo, e gli sono venuti incontro il metropolita e tutto il clero, portando il santo vangelo e la croce santa nelle sue mani, come davanti a un imperatore e trionfatore sulle lingue pagane e lo hanno benedetto. Allora grande e stata la gioia di tutti i signori e principi vicini per la vittoria del principe Stefano.]

Il fatto che Ștefan sia accolto dal clero della città che gli concede pohvală, cioè gloria, come ad un imperatore e biruitoriu de limbi păgâne [vincitore di lingue pagane], è un procedimento definitorio nei confronti del mito di Bisanzio.

Soffermiamoci sul termine împărat atribuito da Ureche a Ștefan in questo paragrafo. Nella lingua romena il sovrano della Moldavia è denominato sia con il termine slavo di voievod o vodă, che con il termine di origine latina domn o

16 Iorga commenta l’origine latina del termine «domn» per i capi romeni: «Donc, lorsque les chefs de la montagne roumaine ont organisé une principauté capable de se maintenir et de résister aux prétentions hongroises et à l’invasion ottomane, ils ont appelé cet Etat Domnia a toată Țara Românească, c’est-à-dire «Dominatio totius terrae romane». Il est compréhensible que quiconque étudie seulement la vie de l’Occident ne se rende pas compte de l’importance de cette "Romania" de l’époque des Lombards, que, en partant de l’Occident et en se maintenant dans les limites occidentales, il ne souligne pas assez l’idée de l’"imperator" qui surgit dans la personne de ce rebelle, de cet "antarte" à l’époque du Pape Grégoire.» [Dunque, quando i capi della montagna romena hanno organizzato un principato capace di mantenersi e di resistere alle pretese ungheresi e all'invasione ottomana, hanno chiamato questo Stato Domnia a toată Țara Române

prestito; perciò esistono i termini «crai», «țar» etc.

ască, cioè «Dominatio totius terrae romanae». È comprensibile che chiunque studi soltanto la vita dell'Occidente non si renda affatto conto dell'importanza di questa "Romania" dell'epoca dei Longobardi, e che, partendo dall'Occidente ma mantenendosi all'interno dei limiti occidentali, non sottolinei abbastanza l'idea di "imperator" che sorge con questo ribelle, questo "antarte" all'epoca di Papa Gregorio.] (Iorga, 1923, 82-83) (Iorga, 1923, 82-83) Nel caso di altri paesi il romeno non traduce, ma prende in

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[imperatore] fa riferimento all'impero di Constantinopoli, dunque in questo caso Ureche lo usa per assimilare Ștefan al basileus bizantino.

Ureche segue una tendenza che era apparsa in Moldavia dopo la caduta di Bisanzio. Cesare Alzati, discutendo dei rapporti fra l'ortodossia moldava e l'oriente bizantino nel tardo Cinquecento, osserva: «Posto sulla via che da Costantinopoli conduceva alla Moscovia, il paese moldavo divenne infatti il primo rifugio di quei vesco

edevano iproporsi l’immagine del monarca amante di Cristo e protettore della

ione ortodossa perennemente riproposto

i è ricorrente nella letteracompars

vi e patriarchi che, profughi delle terre turche, si recavano nella Slavia del nord per cercarvi soccorso e asilo. […] Questa circostanza fece sì che il piccolo stato si aprisse in breve alla vita dell’intera ortodossia e, inoltre, che il voivoda, sotto la cui tutela si ponevano i gerarchi delle più grandi Chiese, aumentasse in dignità agli occhi sia dell’oriente cristiano, sia degli stessi sudditi che in lui vrChiesa il cui prototipo per eccelenza, dalla tradiz

all’attenzione dei fedeli nella persona di Costantino, era l’împărat, il basileus di Bisanzio.» (Alzati, 1981, 200-201; Si veda anche Alzati, 1981, 236).

Questa tendenza di presentarsi come continuatore di Bisanzio era diventata particolarmente forte con Vasile Lupu, il voivoda amico di Ureche. A questo proposito scrive Iorga: «[...] Lupu, salito al trono della Moldavia, si fece chiamare Basile, come l'imperatore legislatore, di cui, sognando di recuperare una Bisanzio dove lo avrebbero portato le armi dei Veneziani e dei Polacchi, avrebbe emulato l'opera promulgando un suo codice, mentre a Iaşi usciva la prima traduzione integrale di Erodoto.] (Iorga, 1935, 11)» (Si veda anche in Iorga, 1935,163-180 il capitolo dedicato a Vasile Lupu)

tema della vittoria dei cristiani sui paganIltura europea. Nella letteratura romena esso fa già la sua

a nella Cronica lui Ștefan cel Mare, in cui le vittorie di Ștefan venivano presentate come vittorie della cristianità. Commentando

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proprdella Ștefan è legato a trutti i principi cristiani nella lotta controsono mondo cristiano, il che corrisponde al termine latino usato dagli scrittori medievali, respublica christiana, nel senso di unità di azione

io quest'antica cronaca, P. P. Panaitescu afferma: «Il signore Moldavia i turchi: tutti gli stati cristiani interessati alla guerra con i turchi denominati dal cronista con il termine collettivo hristiansvo,

politica.» (Panaitescu, 1971, 146-147) È possibile che Grigore Ureche, nella descrizione di Ștefan,

abbia subito l'influsso di questa cronaca, non pervenutaci, scritta in slavo al tempo del voievoda17. È anche molto probabile che il termine hristiansvo corrispondesse in pieno alla visione politica di Ureche, che ha cercato anche di mettela in pratica incoraggiando l'alleanza con la Polonia e con gli stati cattolici italiani, in funzione anti-turca.

2.5.3. Ștefan cel Mare e la pietas. Il mito di Bisanzio.

Accanto agli attributi della fortitudo e della sapientia, Ștefan ha una terza qualifica importante, egli è pio (pius). Elemento centrale nel ritratto di Enea, la pietas riappare nei ritratti dei sovrani medievali, dove viene ripresa e attribuita al cristianesimo. La pietas di Ștefan emerge nella costanza della sua lotta contro i turchi (come un «atleta di Cristo», secondo il titolo attribuitogli dal papa), e anche nella sua opera instancabile di fondatore di monasteri. Ștefan costruiva una chiesa e la offriva in voto ogni volta che riusciva vittorioso in battaglia, un procedimento che lo ha portato a fondare ben 43 chiese.

La sua pietas è pienamente ricambiata, con il frequente sostegno ottenuto da Dio in battaglia: spesso nell'epos medievale coraggio e successo in battaglia derivano dall'aiuto divino:

«Zic unii să să fie arătat lui Ștefan vodă la acest războiu sfântul mucenicu Dimitrie, călare și într-armatu ca un viteazu, fiindu-i întru ajutoriu și dînd

17 In una lettera ai principi europei Ștefan si proclama «porta della cristianità» (in Ștefan cel Mare și Sfânt. Portret în cronică, 2004, 348-349)

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vălhvă oștii lui, ci iaste de a și credere, de vreme ce au zidit biserică.» (Ureche, 1955, 106)

[Dicono certi che si sia mostrato al principe Stefano durante questa guerra il santo martire Dimitrie, sul cavallo e armato come un valoroso, concedendogli aiuto e dando gloria al suo esercito, ed è da credere, visto che ha costruito la chiesa]

L'aiuto divino si manifesta sia ad opera dei santi guerrieri, Dumitru e Procopie, sia con la protezione della Vergine Maria, a cui Ștefan dedica Putna, il monastero in cui sarà seppellito. L'importanza accordata da Ștefan ai santi militari si ritrova anche nell'iconografia. Anca Vasiliu segnala che a Pătrăuți, una delle chiese fondate da Ștefan, dove si conservano affreschi del suo tempo, nel nartece si rappresenta «una schiera di santi militari rappresentata come una processione di cavalieri condotti dall’arcangelo Michele a cavallo. L’immagine merita che ci si soffermi un poco in questo contesto, bench

1998, 43) (Vedi Grabar, 1930, 19-27).

é non abbia, al primo sguardo, niente di propriamente escatologico; si tratta di una cavalcata di santi al seguito dell’imperatore Constatino, che illustra o piuttosto interpreta, secondo la Vita Constantini di Eusebio di Cesarea, l’episodio della visione della Croce apparsa all’imperatore prima della battaglia con Massenzio nei presi di Ponte Milvio. […] Può darsi che invece l’aspro guerriero Stefan cel Mare si vedesse proiettato al seguito di questi cavalieri in armi e nimbati, difensore del cristianesimo e già futuro santo, o in procinto di combattere sotto l’egida di questo esercito santo, invisibile e invincibile, che fa in seguito rappresentare nella sua prima fondazione ecclesiastica. […] l’accento della composizione è posto sulla figura centrale di San Giorgio (ben distinto dall’insieme per mezzo di uno spazio libero assicurato in seno alla processione), santo al quale Stefano il Grande consacrava un culto particolare, e non sulla figura dell’imperatore Constatino guidato dall’arcangelo Michele, relegati entrambi nella parte destra della composizione.» (Vasiliu,

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Anche se il ritratto di Ștefan non è in sé costruito come un panegirico, tuttavia nelle ultime righe, quelle che chiudono il ritratto, Ureche mette da parte la sua abituale concisione e ricorda che il suo perso

certificano la natura sovrumana ed eroica, in senso cristiano, del sovrano. Ricordiamo questi elementi: l'aiuto divino, il

fan, il ricordo del fatto che tutti crai [principi di Polonia] e gli altri sovrani cristiani esultano

itamente), dall'altro, più direttamente, si duole tefan. Infatti, a

proposito del figlio di Ștefan, il vodă Bogdan, Ureche scrive: «după moartea

naggio è chiamato sveti Ștefan [santo Stefano], dalla gente o dal paese (țara), e ci sono anche altri momenti in cui Ureche associa al ritratto del principe alcuni elementi definitori della sfera del miracoloso, che

miracolo della nebbia che a Podul Înalt provoca lo sterminio dell'esercito turco, l'immagine imperiale di Ște

iper la sua vittoria (hristiansvo) [l'intera cristianità]), l'omaggio riservatogli dal metropolita con tutto il clero, la fondazione di una nuova chiesa. Attraverso questi elementi l'impresa concreta della battaglia acquisisce una dimensione spirituale.

La retorica utilizzata da Ureche per trattrggiare la figura di Ștefan è del tutto trasparente. Dietro la concisione non si trova l'obiettività, bensì l'aspirazione di fornire un modello morale, di generare un mito, il mito di Bisanzio. Il ritratto di Ștefan è costruito con un procedimento di trasfigurazione della realtà storica, senza eluderla completamente, ma correggendola con omissioni mirate, per offrire una immagine-modello. Da ciò si può dedurre che, da un lato, Ureche si rammarica per la caduta di Costantinopoli (pur non confessandolo esplicper la decadenza della Moldavia, seguita alla morte di Ș

lui luasă, de lucruri vitejești, cum se tîmplă din pom bun roadă bună iase» (Ureche, 1955, 111) [dopo la sua morte aveva continuato le imprese gloriose, come succede che da albero buono viene buon frutto]. Ma essuno potrà uguagliare Ștefan, né in fortitudo, né in sapientia (Iorga, 1904) e, soprattutto, nessun sovrano della

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Mold

2.6. L

ell'alleanza e del co

a Ureche riguardano l'origiconcistragemromenCante tina romena.

ava lo potrà uguagliare in pietas, né si potrà ritrovare un altro sovrano così benedetto da tutta la cristianità (hristiansvo), che lo stesso Domineddio favorisca come ha favorito lui.

Incontreremo tutti gli elementi sopra negli affreschi di Moldovița e di Humor, in particolare nell'affresco che ha come soggetto l'Assedio di Costantinopoli, trattato nella seconda parte di questo capitolo.

e linee di separazione che hanno portato alla formazione

dell'identità europea nella visione di Ureche Prendiamo in esame a questo punto il modo in cui Ureche

riflette sulle linee di separazione (clivages) che hanno portato alla cristallizzazione dell'identità europea. Ureche avverte queste linee di frattura come traumi identitari difficili da superare, mentre le sue riflessioni sulla relazione fra «noi» e gli «altri» si struttura su tre livelli: il primo livello riguarda la relazione con le proprie origini, e qui troviamo i riferimenti a Roma e a Bisanzio; il secondo riguarda la relazione privilegiata con la Polonia, che costituisce per Ureche un modello sia per la forma di organizzazione statale, basata sul ruolo centrale della nobiltà, sia per la cultura umanistica; il terzo livello riguarda la rete di relazioni con le potenze vicine, con cui la Moldavia ha avuto rapporti diversificati posti tra i due estremi d

nflitto aperto.

2.6.1. «De la Râm ne tragem» [Da Roma discendiamo]

Le indicazioni più importanti fornite dne latina dei romeni. Le riflessioni di Ureche sulla romanità sono e, ma edificanti, e la sua lapidaria affermazione, «de la Râm ne », sarà destinata a diventare un luogo comune della cultura

a, ripresa e sviluppata in seguito da Miron Costin, da Dimitrie mir e anche dai filologi della Scuola la

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Le affermazioni di Ureche sulla latinità della lingua romena possono avere come fonte diverse cronache latine. Molti umanisti italiani, tedeschi e slavi avevano osservato che la lingua parlata da moldavi e valacchi è di origine latina. Panaitescu cita le opere del tedesco Johann Schltberger (1396), di Poggio Bracciolini (1451), di Flavio Biondo (1453), del bizantino Laonic Chalkokondyl (metà del XV secolo), del polacco Jan Dlugosz (Panaitescu, 1971, 97-98) (Vedi anche C rtojan, 1996, Mazilu, 2000)

cavallo], Ureche apre la discussione su un tema che tornerà spesso nella cultura romena, quello dell'unità dei romeni

essere adattacagnastemmricorre nno

Așijderea și limba noastră din multe limbi iaste adunată și ne iaste amestecat

aParlando dell'origine della Moldavia, chiamata in romeno antico

«descălecat» [discesa da

di Moldavia, Valacchia e Transilvania, derivante dalla loro origine romana comune. Egli osserva che la Valacchia era stata fondata, come voivodato, prima della Moldavia, e racconta la leggenda che sarebbe alla base della scelta di un uro (zimbru) per lo stemma della Moldavia. Dopo aver raccontato la leggenda secondo cui la Valacchia sarebbe stata fondata da un generale romano il cui nome era Flaccus, aggiunge che il nome di Valacchia non può

to anche alla Moldavia. Il nome della Moldavia deriva dalla che ha cacciato (a vânat) l'uro, e per questo l'uro appare sullo a della Moldavaia. Questa leggenda sarà commentata e tta da Miron Costin e da Dimitrie Cantemir, che scrivera

opere logiche importanti sulla romanità dei moldavi. Notevoli sono invece le osservazioni di Ureche sul lessico, che

tornano più volte nel testo, e che a quell'epoca non erano comuni. Se pochissimi erano i testi letterari in romeno, del tutto assenti erano studi filologici sull'origine della lingua romena.

filo

«graiul nostru cu al vecinilor de prin prejur, măcară că de la Rîm ne tragem, și cu ale lor cuvinte ni-s amestecate.» (Ureche, 1955, 61) [Allo stesso modo anche la nostra lingua è assemblata e la nostra favella è mescolata con quelle dei vicini dei dintorni, anche se da Roma discendiamo e con le loro parole le nostre si sono mescolate.]

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Desta una liconfrocaval»diciam queste riflessioni Ureche non fa

particolare interesse un'osservazione di Ureche sul francese, ngua che probabilmente non conosceva, ma con la quale vuol ntare il romeno: «Așijderea și de la frânci, noi zicem cal, ei zic (Ureche, 1955, 61). [Ugualmente [accade] con i francesi, che noi o cal, e loro dicono caval]. Con

altro c e dischiudere un campo di discussione che diventerà centrale nei secoli successivi.

2.6.2. Sulla separazione fra cattolici e ortodossi, fra Oriente e Occidente dell'Europa.

La seconda linea di separazione che innerva l'identità europea

è quella religiosa, che corre fra cattolici e ortodossi. La riflessione su questo confine invisibile, ma non per questo non sensibile, fra ortodossi e cattolici, una divisione che potrebbe portare tutti alla schiavitù nei confronti dei musulmani, è un filo rosso che collega le cronache di corte, dedicate ai sovrani. Ureche parla del possibile ricongiungimento di ortodossi e cattolici nel concilio di Firenze:

«fu săbor mare în Florenția, în țara Italii, adunare mare de părinți, ca să poată împreuna biserica răsăritului și cu apusului» (Ureche, 1955, 72) [ci fu un grande concilio a Firenze, nel paese dell’Italia, una grande assemblea di sacerdoti, al fine di unificare la chiesa d’oriente con quella d’occidente]

Al concilio partecipa, come rappresentante della Moldavia, Grigore Țamblac. Il commento di Ureche denuncia che fu a causa della corruzione e dei tanti conflitti che non si arrivò a nessuna soluzione, anche se l'imperatore bizantino, per scongiurare la caduta di Costantinopoli in mano turca, era disposto a qualsiasi concessione:

«Unde pre urmă bun nimica nu s-au ales, că în loc de împreunare, mai mare vrajbă și zarvă și dispărțire s-au făcută măcară că împăratul paleolog, de nevoia turcilor ce-i venise la grumazi, că rămăsese numai cu numele împăratu, iare afară coprinsese turcii tot, pristănise la toate capetele legii, pre voia papii, numai să-i dea ajutoriu împotriva vrăjmașului său, ce-i și făgăduisă.» (Ureche, 72)

h

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[Dove alla fine niente di buono è uscito, perché invece dell’unione, hanno fatto più grande conflitto e rumore e separazione, anche se l’imperatore paleologo, per l’urgenza dei turchi che gli arrivava alla gola, perché solo il nome gli era rimasto di imperatore, e intorno tutto avevano preso i turchi, si era accordato su tutti i capi di legge, scondo il volere del papa, purché lo aiutassero contro il suo nemico, come gli avevano promesso.]

Urechsarebbgreceaaveva che secondo lui «au luat mâzdă» [hanno

unione,

ompetizione risulta questo conflitto religios

ccidente per le loro guerre contro i turchi.

e ritiene colpevole di questo conflitto il vescovo di Efeso, che si e opposto all'unificazione delle due chiese «pentru pizma scă» [per l’invidia greca], accusando di corruzione quelli che no accettato l'accordo,

preso la bustarella]. Il ritratto del greco corrotto è una costante nella cultura romena, fino all'epoca moderna, uno stereotipo che va spiegato probabilmente con la sensazione del tradimento, avvertito dopo la caduta di Costantinopoli, allorché nei paesi romeni si sono presentate numerose famiglie nobili greche che avevano acquisito potere collaborando con i turchi vincitori. Tornando al concilio di Firenze, il risultato era stato che pur avendo sottoscritto gli accordi di

le due chiese erano rimaste più divise di prima. Per il cronista moldavo, questa riunificazione non sarebbe un fatto religioso, ma piuttosto politico: egli non è infatti preoccupato degli argomenti teologici delle due parti, ma dà un'interpretazione tutta politica del conflitto. Secondo lui il conflitto fra ortodossi e cattolici è fra Oriente e Occidente dell'Europa, e si basa sul fatto che per secoli Bisanzio aveva il potere e il primato, mentre l'Occidente è diventato in un secondo tempo più potente, e dalla loro c

o senza frutti per nessuno. Da come Ureche ignora del tutto le motivazioni religiose, si capisce che per lui le questioni dogmatiche e teologiche nascondono un conflitto di natura economica e politica, fra l'impero orientale vicino alla fine e l'Occidente in netta crescita. Presumibilmente Ureche, attraverso le esperienze fatte dal padre, era a conoscenza delle difficoltà con cui i principi romeni potevano ricevere aiuto dall'O

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Torneremo su questi aspetti, ma osserveremo ancora che, essendo lo stile di Ureche caratterizzato da brevitas e concisione, troviamo un solo comm

arsa da molti anni, e il suo p

ricordare il commento politico di Ureche sul concilio di Firenze terminato con un nulla di fatto, che ha portato all'accoccideè in Usvilupavevavolta d

nell'opdecremimmeMoldagloriatrova

ento sugli aspetti religiosi delle questione. Egli osserva che pur essendo le due chiese spose di Cristo, tuttavia rimangono fra loro separate:

«Răsăritul iaste începător, apusul va să să înalțe și așa una alțiia nu va să dea cale, cum răsăritul cu apusul n-ar fi fostu logodna lui Hristos.» (Ureche, 1955, 73) [L’oriente è iniziatore, l’occidente si vuol innalzare e così l’uno all’altro non vuole cedere, come se quella d’oriente e quella d’occidente non fossero entrambe spose di Cristo.]

Dato che quando lui scrive Bisanzio è già scomposto è stato ormai occupato dall'impero ottomano, con cui i

moldavi devono lottare con tutte le forze, Ureche conclude la discussione, con il suo stile brusco e conciso, come se questo conflitto fra Occidente e Oriente non lo riguardasse: «Ci de acestea destulu-i, la ale noastre să ne întoarcem.» [Ma di questo abbiamo parlato abbastanza, torniamo alle nostre vicende.] (Ureche, 1955, 73).

Sarà comunque da

entuazione dei dissensi fra la chiesa orientale e quella ntale, fra Est e Ovest. La visione della storia e del potere politico reche moralizzatrice e fatalista, in quanto secondo lui dopo lo po segue una decadenza e, come Bisanzio, e quindi l'Oriente, dominato la cultura europea per secoli, adesso sarebbe stata la el primato dell'Occidente. Questa visione, comune a quell'epoca, sarebbe apparsa anche

era di Dimitrie Cantemir, intitolata proprio Incrementa atque enta Aulae Othomanicae (1714-16), redatta in latino e divenuta

diatamente il libro di riferimento in questo campo. Anche la via, come abbiamo già visto, aveva conosciuto momenti di

, mentre, quando scrive Ureche, all'inizio del XVII secolo, si in decadenza.

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2.6.3. La relazione con i polacchi

Abbiamo visto come Ureche considera l'ortodossia e il cattolicesimo chiese sorelle e che secondo lui l'unione non si è potuta realizzare prima della caduta di Costantinopoli solo a causa della corruzione e della sete di potere dei rappresentanti delle due chiese. Ureche riflette a fondo sull'idea che i sovrani moldavi avrebbero dovuto allearsi con altri cristiani per difendersi dai turchi, ma osserva anche che i principi cristiani, siano essi i valacchi ortodossi o gli ungheresi e i polacchi cattolici, tradiscono speso i patti nelle alleanze, il che non fa che aumentare la forza dei turchi.

Ci soffermeremo su alcuni esempi di effetti nefasti di questa politica controproducente e inefficace. Dopo aver descritto concisamente una serie di conflitti con gli stati vicini, Ureche narra che Ștefan alla fine avrebbe apprezzato un'alleanza con Matiaș Crai, voievo[princnemic

ce și să înceapă zarvă,gândindu-să că într-acele amestecături i

da della Transilvania, da lui chiamato «craiul ungurescu» ipe ungherese], al fine di opporsi con forze maggiori ai turchi, o comune e potente: «Decii, după puțină vreme au încetatu vrajba între craiul ungurescu și între Ștefan vodă, că văzîndu ei că vrăjmașul lor și a toată creștinătatea, turcul, le stă în spate și volniciei tuturor întinde mrejile sale, ca să-i coprinză și arătându-să priitenu cu multe cuvinte de înșălăciune și cătră unul și cătră altul, ca să-i poată ădărî cap de priz

să vor închina lui, pentru să le dea ajutoriu și mai apoi îi va pleca și suptu jugul său, văzându această înșelăciune, Mateiași craiul și cu Ștefan vodă s-au împăcatu și s-au așezatu.» (Ureche, 1955, 86)

[Quindi dopo poco tempo hanno concluso la lite tra il principe ungherese e il Principe Stefano, perché, vedendo che il loro nemico e di tutta la cristianità, il turco, gli sta dietro e alla libertà di tutti lancia le sue esche per catturarli, e mostrandosi amico con false parole, rivolte all’uno e anche all’altro, per trovare un motivo e creare un conflitto e cominciare una guerra, pensando che in questo modo diventeranno suoi vassalli, perche lui gli darà aiuto e poi li dominerà sotto il suo giogo; vedendo questa truffa, il principe Matei e il principe Stefano hanno fatto la pace e si sono fermati.]

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Ma le alleanze fra cristiani non sono destinate a durare. Ad esempio la relazione fra Ștefan e Albrichtu, crai [principe] di Polonia, che Ureche descrive, secondo una struttura tipica dell'epos medievale, in cui l'eroe è tradito da un alleato, come Cristo dall'apostolo Giuda e Charlemagne da Ganelon. Non sappiamo se Ureche aveva letto l'epica medievale, ma la legge interna della storia degli eroi combattenti è costruita con una logica interna, in cui la struttura si ripete. Forse Urech

cco Albert (Albrichtu). La storia del tradimento del principe cattolico, che attacca la Mointitol(Rimp i):

carile trebuia cu toții să-l ajutorească.» (Ureche, 955, 105)

Viene q i evidenziata la linea di rottura all'interno della cristianità, fra

o così facile preda dell'impero ottomano. Il tema er stato già rappresentato anche negli affreschi di Moldovita, Voron

vicini con le loro particolarità di abbigliamento, come si faceva

e aveva potuto conoscere questo repertorio epico attraverso l'intermediario dei romanzi popolari. Nella cronaca di Ureche il principe-eroe Ștefan è tradito proprio da un alleato, un Gano il cui ruolo viene interpretato proprio dal principe pola

ldavia è seguita da una breve riflessione, un commento morale ato «Nacazanie silnim, adică certarea celor puternici» rovero dei potent

«Că acesta Olbrihtu nu spre păgâni, ci spre creștini vrea să facă războiul, nu da ajutoriu celui ce nu avea odihnă de turci, ci vrea să slăbască pre acela ce să lupta cu vrăjmașii creștinilor, pre1

[Perché questo Albert non contro i pagani, ma contro i cristiani vuole fare guerra, non dà aiuto a quello che [lottava] senza riposo contro i turchi, ma vuole indebolire quello che lotta con i nemici dei cristiani, quello che tutti dovrebbero aiutare.]

ucattolici e ortodossi, i quali, invece di lottare insieme, si attaccano reciprocamente, divenend

aet e Sucevita, nella forma del Giudizio Universale, di cui si

parlerà più avanti. Si tratta della tecnica di rappresentare i popoli

comunemente nelle varie Cosmografie e come fa Ureche stesso in un brano che interrompe le sequenze narrative che si riferiscono al

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sovrano moldavo. Nella descrizione della signoria (del territorio su cui regna) Ștefan l'autore si dilunga anche a descrivere i popoli che vivono nelle vicinanze della Moldavia. Fra queste sono rilevanti le considerazioni sui polacchi e sui turchi, che esprimono chiaramente la sua visione politica. Ad esempio, per quanto riguarda i polacchi, si avverte tutta l'ammirazione di Ureche per il ruolo da essi accordato alla cultura.

Il cronista crede infatti fermamente nel valore dello studio e della conoscenza del passato e nel ruolo fondante della cultura, e in particolare del libro. A questo proposito grande è la sua ammirazione per l'amore per la cultura che ha riscontrato tra i polacchi:

«Leșii sântu […] oameni învățați de carte, că pentru învățătură și a cărții și a vitejii nu li-i preget, nici de trudă, nici de cheltuială, ce încunjură țările de învață, ca să deprinză tinerețile truda și la bătrânețe înțelepciunea […] » (Ureche, 1955, 113) [I polacchi sono (…) uomini istruiti sui libri, perché per l’insegnamento e per i libri e per imprese gloriose non hanno esitazioni, né per la fatica, ne per la spesa, girano nel mondo per studiare, per educarsi e faticare da giovani per essere saggi da vecchi (…)]

Applicando queste idee alla politica estera, con estrema coerenza, fino agli ultimi anni di vita, Ureche ha sostenuto l'avvicinamento alla Polonia e all'alleanza con Venezia e con il papa, cui miravano anche i polacchi in funzione anti-turca18.

2.7. Testo e immagine: temi comuni nel Letopiseț di Ureche e negli affreschi della Bucovina

Il mito di Bisanzio ha un impatto molto grande sulla cultura

romena. I principi romeni sono spaventati dall'idea della sostituzione

18 Si ricordi il matrimonio della figlia di Lupu con un cneaz (principe) polacco e

, 244). l'alleanza antiturca con i polacchi, i veneziani e il papa, conclusasi con esito sfavorevole (Cartojan, 1996

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dell'imparo bizantino con un impero islamico, e si sentono in dovere di raccogliere e preservare l'eredità di Bisanzio. Cesare Alzati in particolare fa notare che questa continuità con Bisanzio si rende visibile nella figura del voievoda, che assume gli attributi del basileus: «Non

tru Rareș, succeduto al padre dal 1527 al 1538, quant

ostante i condizionamenti e le dipendenze cui i voivodi furono spesso costretti dalle potenze vicine, nella coscienza del paese, come del resto nella vicina Ungrovalacchia, non si attenuò, almeno fino all’età fanariota, l’alto concetto dell’autorità e della dignità connesse al titolo voivodale. La ieratica grandezza del domn, tratteggiata sul modello degli imperatori romani di Bisanzio, trovava nei riti di incoronazione, e soprattutto nel loro momento propriamente religioso, la sua più piena manifestazione. L’ordo liturgico per la benedizione e l’incoronazione riproduceva l’antico rituale dei basilei di Constantinopoli, riproponendone i contenuti teologici e le significazioni simboliche.» (Alzati, 1981, 191)19

I moldavi si rappresentano sia nei testi che nei dipinti come combattenti per la fede cristiana contro i musulmani. Tale concezione della propria storia, presente fin dal XV secolo nella Cronica despre Ștefan cel mare, appare tanto negli affreschi risalenti al tempo del regno del figlio di Ștefan, Pe

o nel Letopiseț di Ureche. Leggendo attentamente il contenuto degli affreschi esterni di Moldovița (1537) e Humor (1535), possiamo mettere in relazione la descrizione fatta da Ureche della battaglia di Podu Înalt, da noi precedentemente analizzata, e in particolare il miracolo divino della nebbia che consente ai moldavi di sbaragliare l'esercito musulmano, con l'arte moldava del XVI secolo.

Il tema della lotta con i pagani costituisce una costante della cultura europea e Fournier considera la divisione fra cristiani e musulmani come una delle linee di frattura più forti fra quelle che

19 Cfr. anche Alzati, 1981, 206-207. Si veda inoltre Georgescu, 1971, 313-337 e Șerban, 1971, 299-309.

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hanno generato l'identità europea. Nella cultura moldava essa appare nel XV secolo, dopo la caduta dell'Impero bizantino, per il fatto che prima di questo evento i romeni non avevano avuto relazioni con il mondo musulmano (Anghelescu, 1975).

Potremmo fare un'analogia fra il mito di Bisanzio e la renovatio imperii di Carlo Magno. Allo stesso modo in cui Carlo Magno si consid

i renovatio imper

loro spazi di libertà e autonomia. Senza essere occupati direttamente

era il continuatore di Roma nella lotta contro i nemici della chiesa e del cristianesimo, i nuovi barbari, allo stesso modo i voievoda moldavi si vedono continuatori degli imperatori di Bisanzio nella difesa della religione ortodossa e della cultura bizantina. Si tratta evidentemente di una ipostasi simbolica, assunta rispettivamente da questi sovrani di fronte a potenziali invasori di altra cultura e religione, con cui pare impossibile una sintesi o fusione. La cultura europea si è formata proprio attraverso questi ripetuti rifiuti dell'alterità, che troviamo tanto nel sogno carolingio d

ii quanto nel mitul Bizanțului generato in primo luogo dalla figura di Ștefan cel Mare. Sotto le insegne di questo sovrano, i moldavi si autodefiniscono frontiera d'Europa di fronte agli invasori musulmani e trasformano il sovrano in eroe, per mezzo di testi, ma anche di opere d'arte.

Nel 1456 Atene cade in mano turca e il Partenone diventa una moschea, nel 1460 soccombe la Morea nel Peloponneso, nel 1461 è la volta della fine dell'Impero di Trebisonda. Spariscono in rapida successione il Territorio di Bulgaria, il Regno di Serbia, Il Regno di Serbia. Dopo la caduta di Bisanzio e la conseguente occupazione da parte dell'Impero ottomano di tutte le regioni che ne facevano parte, i romeni sono obbligati a cercare una via per negoziare i loro diritti e i

dai turchi, che non ebbero mai il diritto di comprare terreni, di costruire moschee e di sposarsi nel territorio romeno, tuttavia i moldavi hanno dovuto dipendere per secoli dalla Sublime Porta. Da

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ciò deriva la funzione politica, religiosa e persino identitaria del mito di Bisanzio nella cultura romena. Proseguendo sulla linea delle analogie fra renovatio imperii, con tutti i suoi effetti successivi sul Medioevo europeo, e mitul Bizanţului, possiamo considerare gli affreschi in cui si rappresenta l'assedio della città di Costantinopoli come una sorta di Chanson de oland per immagini.

L'arte moldava successiva al 1550 presenta inoltre molti temi in comune con il testo di Ureche. Nella storia dell'arte romena, il XVI e XVII secolo costituiscono un periodo di grande fioritura

R

, definito in quest

stazione la più spettacolare dell’attività artistica in Moldavia: il rivestimento delle facciate di chiese con un

rca filologica ci consente un'analisi in parallelo dei testi e delle immagini, nel caso in cui tale procedimento può portare ad una magg

20. Segue

i termini da Anca Vasiliu: «È in questo periodo, breve ma straordinariamente fecondo come ogni Rinascimento, e nel quadro di questo processo di continuità e non di ripetizione del modello bizantino, che nasce la manife

programma completo e coerente di pitture.» (Vasiliu, 1998, 12) La rice

iore comprensione del significato e anche del destino di certi temi. Il più celebre sostenitore teorico dell'idea che la storia dell'arte rientri in pieno fra le discipline umanistiche è stato Erwin Panofsky, specialista in particolare del Rinascimento (Studi di iconologia, 2009b)

ndo un percorso simile, ma orientato in primo luogo sull'analisi dei testi leterari, il filologo Helmut Hatzfeld ha scritto una sorta di storia delle diverse arti viste in parallelo con la letteratura, Literature through Arts21, che ha per soggetto, in particolare, la letteratura francese. Hatzfeld ha identificato, nelle diverse epoche culturali, temi, motivi e stili che caratterizzano sia la letteratura che l'arte in Francia.

20 Secondo la sua opinione, la storia dell'arte è, o meglio dovrebbe essere, una disciplina umanistica, nel senso che per capire a fondo un quadro o una scultura non si può prescindere dalla lettura dei testi letterari o dalla conoscenza del contesto storico e filosofico in cui l'opera d'arte ha visto la luce. 21 Hatzfeld, 1967 e Hatzfeld, 1969.

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Ha individuato, ad esempio, delle corrispondenze fra arte romanica ed epica medievale, fra lo stile gotico e la poesia cortese. Seguendo il metodo di questo tipo di ricerche, mi soffermerò sui tre temi più importanti che appaiono negli affreschi dei monasteri di Moldovița e Humor, e metterò in relazione tali temi con quelli che ho già individuato in Letopisețul Țării Moldovei: la rappresentazione dell'assedio di Costantinopoli, il ritratto dei donatori, i sovrani moldavi rappresentati con le insegne degli imperatori bisantini, e la rappresentazione degli «stranieri» nel Giudizio universale.

Moldavia romena? Una risposta a tali quesiti potrebbe essere collegata, secondo

Per poter presentare il carattere innovativo degli affreschi sia dal punto di vista plastico che per quanto concerne il contenuto, sarà opportuna una breve digressione sulla relazione fra arte bizantina e arte moldava post-bizantina.

2.7.1. Dalla pittura bizantina all'arte post-bizantina all'epoca di Petru Rareș

Per analizzare la pittura parietale delle chiese dei monasteri di

Moldovita e Humor occorre definire esattemente il posto che essa occupa nel quadro dell'arte bizantina, di cui al tempo stesso troviamo in queste opere sia una continuazione che una evoluzione ulteriore.

Questi affreschi vengono considerati da specialisti come André Grabar (1930, 1935) come post-bizantini, in quanto, pur partendo da forme bizantine, gli artisti moldavi del Cinquecento introducono una serie di modificazioni sul piano della percezione della realtà, nel senso cioè della scoperta di una forma di realismo, che non coincide però con quella del Rinascimento. Qual è la causa della comparsa di tali innovazioni iconografiche – il cosiddetto realismo moldavo – e perché esse si ritrovano soltanto in un perimetro ristretto, nel Nord della

Sorin Ulea (1968, 1984, 1985) e Vasile Drăguț (1987), alla continuazione

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della politica antiottomana di Ștefan da parte del figlio Petru Rareș, soprattutto nel suo primo periodo di regno. Il risultato artistico sarebbe l'adattamento delle tematiche religiose rappresentate al contesto politico, per sostenere l'impresa del sovrano anche per mezzo delle arti e della cultura. I pittori e gli autori del programma iconografico utilizzano gli affreschi come rappresentazioni identitarie, in quanto per noi oggi essi hanno soltanto un valore estetico, mentre essi erano concepiti, per mezzo di una retorica visuale, come una forme di argomentazione politica e morale.

Il fatto che la chiesa accetti tale attualizzazione politica del messa

ance Iorga dedic

ggio religioso si può spiegare facilmente con molte ragioni. La chiesa ortodossa era nel XVI secolo la depositaria della cultura in Moldavia. Gli ecclesiastici e i monaci ortodossi erano i soli che, nelle terre soggette ai turchi dopo la progressiva fine dell'impero di Bisanzio, avevano mantenuto il legame con tutto quello che era sopravvissuto della cultura bizantina. Questi legami sono stati studiati dagli storici e sono di vario tipo: finanziari, politici e di immagine. Gli aiuti finanziari dei principi romeni per l'ortodossia bizantina sono durati per secoli. I principati romeni hanno devoluto somme ingenti di denaro ai monasteri greci, al fine di sostenere la loro resistenza e sopravvivenza culturale e religiosa. Attraverso l'istituzione delle «chiese dedicate», i principi offrivano offrivano a queste terreni e possedimenti, le cui rendite venivano poi inviate ai monasteri affratellati. Ad esempio, come registra Iorga, «Il grande boiardo moldavo Nestor Ureche aveva creato un legame fra il nuovo monastero nel Monta Athos, ricostruito da Alexandru Lăpușneanu, e il monastero di Secul» (Iorga, 159)22 In Byzance après Byz

a il sesto capitolo al tema «L’Imperialisme Byzantin par les princes roumains» [L'Imperialismo Bizantino adopera dei principi

22 Sull’influsso bizantino sui territori romeni e sull’istituzione delle metropolie di Valacchia e di Moldavia, e i loro rapporti con Monte Athos, si veda Ruffini, 1980, 10-14.

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romeni] (Iorga, 1935, 126-156), e sottolinea che «Les rapports entre la Valachie avec l’Athos commencent dès le XIV-e siècle (…)» [I rapporti fra la Valacchia e il Monta Athos iniziano nel XIV secolo] (Iorga, 1935, 129; ma vedi anche 129-134, 142-145) ; e ancora «Ce Patriarcat remplaçant Byzance se cherchait aussi des relations à l’extérieur.» [Questo Patriarcato, sostituendo Bisanzio, cercava anche relazioni esterne] (Iorga, 1935, 103). Era dunque naturale che la chiesa ortodossa fosse particolarmente interessata all'indipendenza della Moldavia, e in particolare al fatto che non si permettesse la penet

he si basa sulla religione. Di conseguenza, la parol

razione turca sul suo territorio. Il primo punto di riferimento per la definizione della pittura

della Bucovina è dunque il canone bizantino, che rappresenta il punto di partenza per l’arte religiosa ortodossa. Una delle caratteristiche più importanti dello stile bizantino, considerato estremamente unitario, è costituita dalla sua forza di conservazione. Questa forza viene conferita prima di tutto dal carattere religioso dell’arte bizantina, che risulta dalle condizioni stesse da cui nasce: il trionfo e la diffusione del cristianesimo coincidono con l’apparizione di uno Stato, l'Impero romano d'Oriente, c

a e l’immagine sono poste al servizio della religione, che devono rendere più accessibile ai fedeli. Perciò, da un lato, le opere d’arte bizantine sono anonime: l’artista, come il prete, media l’accesso alla divinità, e la sua creazione deve essere impersonale e basata sulla tradizione. Dall’altro lato queste opere si costruiscono sulla ripresa dei prototipi visuali già codificati, partendo dall’idea che, così come la liturgia ripete lo stesso contenuto, allo stesso modo le immagini devono riprendere gli stessi modelli, considerati essenziali.

Al posto delle forme pure preferite dalla scultura e dalla pittura greca classica, l’arte bizantina sceglierà l’immagine schematica. Né la rappresentazione anatomica del corpo umano, né la somiglianza con la realtà interessano l’artista bizantino, che mette l’accento solo sulla maniera in cui il volto umano può esprimere e trasmettere la fede.

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Perciò, l’asceta magro e severo dalle guance smunte, occhi grandi ed aspetto drammatico è il protagonista di quest’arte stilizzata, orientata verso il divino e l’eterno, e non verso la somiglianza con la peritura realtà individuale e concreta. Al contrario, negli affreschi cinquecenteschi di Moldovița e Humor, l'artista adatta l'alfabeto formale bizantino alla realtà contemporanea. Tali innovazioni formali e tematiche nella pittura murale delle chiese moldave hanno indotto gli studiosi, in primo luogo Grabar, ad affermare che non si può parlar

fine dell’Antichità fino al XII secolo

monaci, porta l’impronta dei manoscritti miniati, per il quale hanno opta

e di stile bizantino, ma piuttosto post-bizantino, nell'arte moldava. Tornando all'arte bizantina, a partire dalla fine del IV secolo

l’arte ecclesiastica diventa un mezzo per l’educazione dei fedeli, e gli argomenti sono presi dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, dai testi apocrifi, dall’agiografia. È un’arte teologica, visto che l’artista non aspira alla libertà d’interpretazione, ma diventa il portavoce del dogma della Chiesa, la sua funzione essendo quella di tradurre in linguaggio visivo le decisioni dei concili. Il posto dei mosaici o degli affreschi nelle chiese, gli argomenti, l’atteggiamento o l’espressione dei personaggi, vengono scelti in base a un modello preciso, carico di significati teologici.

Una causa importante della stabilità iconografica dello stile bizantino è costituita dal fatto che, dalla

, Bisanzio rimane il più notevole e il più stabile centro culturale europeo, costituito e definito in funzione dell’architettura, dell’iconografia e del pensiero religioso cristiano, che diventerà ortodosso con lo scisma dell’XI secolo. Tuttavia la ripresa dei prototipi visuali è avvenuta entro certi limiti. Il fasto che caratterizzava il periodo di Giustiniano (si pensi a San Vitale a Ravenna) viene sostituito, dopo la sconfitta del movimento iconoclasta, con uno stile più austero: il nuovo stile (X secolo), fortemente influenzato dai

to gli artisti nel tentativo di ritrovare le forme perdute nell’iconoclastia. In questo periodo, l’arte monastica tende a fissare il

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dogma visuale, e dal XII secolo la sua influenza si estende molto: Venezia, l’Italia meridionale, la Sicilia normanna, la Russia, la Bulgaria, la Serbia. Ritroveremo nelle chiese moldave questo stile che porta l’impronta dei manoscritti miniati a diversi livelli: le tecniche pitturali (utilizzo dello sfondo dorato, colorato a Sucevița), il modo di «raccontare in immagini», il modo di rappresentare i personaggi, il fatto che le immagini non hanno soggetti liberi, ma illustrano sempre i testi sacri.

Nei secoli XIV-XV, la Rinascenza bizantina dell’epoca della dinastia dei Paleologi, che porrà nuovamente in valore la pittura «a fresco», influenza molto l’arte e l’archittetura della Bucovina. La pittura ricopre interamente le pareti, mentre le composizioni diventano più complesse, fino ad illustrare anche salmi, preghiere o inni sacri23. L’arte bizantina diventa narrativa, e i pittori cominciano a prestare uno spazio maggiore alla vita della Vergine e maggior attenzione ai dettagli pittoreschi e drammatici o alla rappresentazione del movimento. È questo tipo di arte bizantina che sara il punto di partenza delle pitture parietali dei monasteri della Bucovina. Analizzeremo in modo speciale un inno dedicato alla Vergine, l'Inno acatista, e la sua illustrazione pittorica, effettuata dagli artisti moldavi negli af eschi di Moldovița e di Humor.

teologici assegnati a ciascuna parte dell’edif . Ci sono due luoghi centrali: la cupola, che rappresenta il cielo

frNella chiesa bizantina la sintassi spaziale è netta e precisa,

scandita dai significati icio

e dove appare il Cristo Pantocrator, e l’abside, in cui figura la Vergine col Bambino. Il legame tra queste due rappresentazioni viene fatto attraverso una composizione che occupa la volta davanti all’abside: un trono vuoto preparato per il Giudizio universale su cui vengono collocati gli strumenti della Passione di Cristo (Etimasia).

23 Ad esempio, i mosaici del monastero di Chora, divenuta poi la moschea Kahriye, a Costantinopoli, o gli affreschi del complesso di Mistra, nel Peloponneso.

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Sulle pareti vicino all’altare appaiono i profeti del Vecchio Testamento, mentre le navate sono consacrate alle dodici festività della

omprensione delle innovazioni della pittur

l sistema della cupola centrale, l’importanza maggiore attribuita all’affresco,

servato alla simbologia. Compaiono però anche interess ti modifiche: nella pittura murale del Nord della Moldavia gli art

chiesa, che riassumono il dogma. Nel nartece viene raffigurata la vita della Vergine e nel timpano dell’ingresso, che conduce dal nartece verso l’interno della chiesa, la composizione Deesis (la Santa Vergine e Giovanni Battista intercedono per l’umanità davanti a Cristo, in trono). All'interno, le chiese della Bucovina conservano tali schemi e parimenti lo stile della rappresentazione e l’iconografia.

L’influsso dell’impero inizia a indebolirsi già dal XII secolo, ma, anche dopo la sua scomparsa nel XV secolo, la sua importanza rimane notevole, poiché l’arte bizantina diventerà l’arte dell’ortodossia. Per quanto riguarda i Principati Romeni, si può parlare dell’influsso dell’arte bizantina solo nel XV secolo. La Chiesa ortodossa ha avuto qui una funzione considerevole nell’organizzazione della vita laica e soprattutto nel consolidamento dello Stato (si veda Ruffini, 1980, 19-42). Dunque un ruolo sociale e politico, non solo religioso, e questo fatto si rivela essenziale per la c

a parietale moldava. Si tratta di monumenti dipinti tra i secoli XV-XVIII – Suceviţa, Moldoviţa, Voroneţ, Arbore, Humor -, collocati nel Nord della Moldavia, in Bucovina.

2.7.2. Dall’esercizio retorico alla pratica della narrazione negli affreschi della Bucovina

Come abbiamo visto, all’inizio l’architettura religiosa romena prende a modello le forme bizantine: la costruzione basata su

secondo il modello dell’illustrazione dei manoscritti e uno spazio importante ri

anisti partono dallo schema bizantino, che conservano in quanto

tale all’interno della chiesa, ma che modificano negli affreschi delle

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pareti esterne. Questa forma di realismo si fonda su una attualizzazione e, ancor più, su una narrativizzazione dell’enunciato pittorico.

Gli affreschi che ricoprono le pareti esterne e interne delle chiese dei monasteri Moldoviţa, Suceviţa, Arbore e Voroneţ illustrano il Vecchio e il Nuovo Testamento. Vi appaiono, in più, una serie di temi ricorr

i. Finanche gli arabeschi e i motivi decor

enti, specifici di quest’area culturale, organizzati in un discorso unitario ed eloquente: il Giudizio Universale, l’Albero di Jesse, l’Assedio di Costantinopoli, l’Inno alla Vergine: «Questo programma, relativamente stabile per tutto il gruppo di chiese dipinte durante il regno di Petru Rares (da Probota fino a Voronet), comporta la presenza quasi-obbligatoria del Giudizio Universale sulla facciata occidentale, accompagnata in generale dalle Dogane celesti, equivalente popolare della Scala di San Giovanni il Sinaita, sostituendo l’ascensione di una torre a quella di una scala, e alcuni santi militari che combattono il drago o il nemico, autentiche «psichomachie», raffigurate sul pilastro o sul contrafforte sud, generalmente molto vicino all’ingresso principale.» (Vasiliu, 1998, 135).

Le innovazioni stilistiche e iconografiche della pittura murale moldava sono state notate e commentate varie volte (Grabar, 1935, Vasiliu, 1998, Nandriș, 1985, Ulea, 1968) Il loro elemento di originalità proviene dalla trasformazione e dall’adattamento dei temi sacri alla realtà contemporanea: i paesaggi ricordano la natura del Nord della Moldavia, e alcuni personaggi indossano costumi popolari rumeni e utilizzano attrezzi contadin

ativi rassomigliano a quelli ricamati sulle camicie della Bucovina, mentre alcuni temi sono ispirati al folclore locale.

2.7.3. L’Assedio di Costantinopoli e l’Inno acatisto alla Vergine Maria (fig. 1)

Tra le scene ricorrenti nei monasteri del Nord della Bucovina, un posto a parte è occupato dall’Assedio di Costantinopoli. Il tema fa

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parte dell’Inno acatisto dedicato alla Santa Vergine e rappresenta la traduzione in immagini della prima strofa del canto: «Il canto di gloria alla Vergine (In Te il mondo si rallegra) meglio conservato a Humor, ma è raffigurato in una disposizione simile a Probota e a San Giovanni il Nuovo di Suceava» (Vasiliu, 1998, 134).

Qui il principio dell’attualizzazione dei temi religiosi è evidente già n

della Moldavia, alla sua lotta anti-ottomana. Il val

uolo: quello di un racco

ella scelta del soggetto. Il pretesto storico della scena è il seguente: nel 626 le truppe persiane pongono l’assedio a Costantinopoli, che viene salvata miracolosamente dalla Vergine Maria. All’inizio, la scena raffigura la città bizantina al cui interno si vede una processione con l’icona della Santa Vergine, mentre al di fuori delle porte della città gli infedeli vengono bruciati dalle fiamme inviate dal cielo. Il pittore di Moldovita ha modificato però la leggenda, trasformando i bizantini in moldavi e i persiani in turchi. Ma al tempo in cui si dipingeva questa scena, i turchi avevano già conquistato Bisanzio. All’inizio questo veniva interpretato come un’anacronismo (Henry, Grabar), ma in realtà si tratta di un'attualizzazione della storia bizantina, con un riferimento diretto alla storia contemporanea

ore retorico di questa sostituzione che riscrive la storia ha una duplice valenza: da un canto, essa costituisce un impulso alla lotta contro i turchi, dall’altro, grazie a questa sostituzione, la Moldavia viene presentata come la diretta erede e continuatrice dell’Impero bizantino e dell’ortodossia.

Non da ultimo, l’immagine costituisce una preghiera rivolta alla Santa Vergine, dalla quale si chiede un miracolo analogo per i moldavi: «Lode, inno alla gloria della Vergina Madre e ricordo dei fatti esemplari legati alla "storia" dell’Incarnazione, dell’icona della Vergine, e per estensione della Chiesa, l’Inno acathistos gioca, letterariamente e pittoricamente, un doppio r

nto, nell’estensione delle dodici prime strofe, concernenti lo

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sviluppo storico, esemplare , della maternità verginale, e quello di un canto poetico, mistico, sviluppato nelle dodici ultime strofe, consacrate alle funzioni rappresentative e iconiche della Theotòkos, del Cristo e della Chiesa nel mondo. […] E stato concepito nel VI secolo

nte, riceve il colpo di grazia

, verosimilmente da Roman il Melode (al tempo di Giustiniano) (Vasiliu, 1998, 158)

Negli affreschi di Humor l’attualizzazione del tema viene ulteriormente sviluppata: i persiani, raffigurati ancora in abbigliamento turco, attaccano la città con l’artiglieria, cosi come i veri turchi avevano fatto nel 1453. Inoltre, ad una delle porte della città viene raffigurato un soldato sul punto di uccidere un turco. Sopra la testa di questo soldato c’è scritto Toma, e gli studiosi (Ulea, Drăguț) considerano che possa trattarsi del pittore Toma da Suceava, autore dell’affresco, che si autorappresentava come esempio di coraggio. Il comandante della cavalleria degli assedianti, che possiamo riconoscere come turco perché porta il turba

dal soldato Toma, che invece porta il berretto tipico (bonetă) dei dignitari moldavi del XVI secolo, come vengono rappresentati nei quadri votivi dell'epoca.

Nella pittura murale della Bucovina fa così la sua comparsa il valore retorico del discorso figurativo, che si rivolge a due istanze: quella umana e quella divina. Il tema dell'Assedio è distinto dal resto delle scene che illustrano l'inno, e amplificato dalla dimensione molto maggiore, oltre che dalla posizione, centrale, all'altezza degli occhi, e posta in grande evidenza sulla parete esterna. A Humor l'artista (Toma?) ha collocato, a sinistra della scena che rappresenta l'Assedio, i quattro santi militari a cavallo, nell'atto di sterminare i nemici. I santi militari, come simbolo del combattimanto per la vera fede, fanno la loro comparsa già nella Cavalcata dell'imperatore Costantino (1487), a Pătrăuţi, nella chiesa fondata da Ştefan cel Mare.

La stabilità del programma iconografico dimostra che alla corte di Petru Rares (1527-1538) la forza persuasiva dell’immagine era ben

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nota e apprezzata. La politica di indipendenza di Petru Rares, minacciato da Solimano il Magnifico, che aveva conquistato Belgrado nel 1521 e il regno d’Ungheria nel 1526, si avvale abilmente di questo mezzo di propaganda visiva.

I programmi iconografici erano concepiti con la supervisione dei monaci ortodossi fra cui avevano probabilmente un ruolo preminente quelli del monastero di Bistrița, (Ruffini, 1980), il centro di cultura che custadiva i manoscritti del Letopisețul moldovenesc, la fonte principale utilizzata da Ureche per la sua opera. S.Ulea attribuisce a Petru Rareș l’iniziativa di rivestire l’esterno delle chiesa, pratica che si inizia con la chiesa principesca (la cappella della corte signorile di Rareș) di Hârlău, la prima che viene decorata con affreschi esterni, dove si dipinge un programma iconografico unitario. La concezione del programma era stata affidata al teologo Macario, autore ugualmente del programma delle pitture di Dobrovăț, realizzate per iniziativa di Rareș nel 1529 (Ulea, 1985, 14-48).

Le chiese della Bucovina sono interamente rivestite con una serie di narrazioni visuali in cui gli eventi non si costruiscono secondo un asse narrativo temporale, ma si distribuiscono secondo lo spazio. L’osservatore si confronta quindi con un ciclo di narrazioni visuali simultanee, in cui può saltare da un evento all’altro, ma che domina con la vista contemporaneamente. Il filo temporale delle diverse storie può essere legato o intrecciato in vari modi, il che conferisce una certa libertà di lettura, ma rende difficile l’interpretazione per uno sguardo a cui manchi la conoscenza del testo illustrato. Gli episodi vengono però collegati gerarchicamene e retoricamente ad un tema centrale, vale a dire al discorso politico abbinato a quello religioso. Come l’immagine bizantina illustrava il discorso biblico, parimenti gli artisti selezionano nelle storie religiose quegli aspetti che possono sottolineare e sostenere il tema dell’indipendenza della Moldavia.

In tale contesto, l’Inno acatisto alla Santa Vergine, all’autrice del miracolo di Costantinopoli, sostiene palesemente il discorso di una

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guerra giusta, che abbina la difesa della Moldavia a quella della fede cristiana. Questi temi erano facilmente compresi dai contemporanei, i quali potevano agevolmente colmare le ellissi di contenuto presenti nei cicli di immagini, con la conoscenza del passato leggendario e con l'esperienza politica del presente. Tutti gli elementi scelti nei cicli narrativi hanno un valore pienamente argomentativo, in un insieme retori

Ureche avrebbe utilizz

dai Persiani nel VII secolo: «Il posto

co in cui la narrazione sostiene la retorica visuale. I temi degli affreschi sono organizzati in un discorso complesso,

strutturato in nuclei tematici autonomi ma resi interdipendenti: la preghiera a Gesù, raffigurato nell’Albero di Jesse, e quella alla Santa Vergine (Inno acatisto), confluiscono nell’Assedio della città di Costantinopoli, salvata grazie al miracolo compiuto dall’icona della Vergine: «Le immagini moldave sembrano, in effetti, concepite e giustapposte come le componenti di un discorso che voglia recuperare, in condizioni nuove, l’economia teologica e politica dell’icona e la sua funzione operativa .» (Vasiliu, 1998, 93)

Nelgli affreschi di Moldovița (fig. 1.) possiamo osservare che svolge un ruolo centrale l’immagine della Vergine, un’icona in immagine, ma anche gli elementi centrali che

ato più tardi nella sua cronaca per incarnare il mito di Bisanzio. Come negli affreschi di Moldovița, l’esercito turco è disfatto da un miracolo divino, la nebbia e i soldati annegati per mezzo di un inganno di Stefano, trasfigurato nel testo come se fosse un intervento divino. La processione religiosa compare in Ureche dopo la vittoria del principe, mentre nell’affresco la processione è proprio all’origine del miracolo. Ma anche se in un ordine diverso, tutti gli elementi visuali dell’affresco sono presenti nella narrazione della battaglia di Podu Înalt.

Riprendendo in un'immagine il miracolo compiuto dall'icona, cioè da una precedente rappresentazione della Vergine Maria, il pittore si propone, attraverso una sorta di mise en abîme rituale, di infondere al suo dipinto la stessa forza dell’icona che compie miracoli, che aveva salvato Bisanzio

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centra

utti, pienamente leggib

personaggi in azione. Ci sono due registri sovrapposti, uno

le che occupa l’icona, semi-velo, e semi-Immagine, nella teoria della Incarnazione diventa all’inizio del XVI secolo, il tema ridondante della decorazione iconografica e, ci sembra di poter dire, il punto di partenza, la «chiave» di lettura stessa di tutti i programmi concepiti nei pochi decenni durante i quali sono state realizzate in gran parte le pitture esterne nei monasteri moldavi.» (Vasiliu, 1998, 102)

Il fatto che questi temi attualizzati appaiano sulle pareti esterne della chiesa conferisce ad essi un ulteriore e cospicuo rilievo. Le immagini diventano in tal modo accessibili a t

ili alla luce naturale, in un certo senso sottratte allo spazio strettamente sacro e impenetrabile del sacello, pur rimanendo sotto gli auspici della sacralità dell'edificio. L’appartenenza all'area culturale ortodossa, per eccellenza conservatore, vincola gli artisti per quanto riguarda lo sfruttamento della sintassi spaziale: lo spazio interno era delimitato e definito liturgicamente con precisione, rimanevano disponibili per le innovazioni soltanto le pareti esterne, in un rapporto che potremmo definire para-liturgico, rispetto a quello liturgico dell'interno. Dobbiamo sottolineare che con tale procedimento, lo stile bizantino non viene abbandonato, bensì completato.

Senza che si tratti di una rottura con la tradizione medievale della rappresentazione dello spazio, gli artisti cercano di ridefinire più chiaramente possibile uno spazio per le azioni dei personaggi. A differenza dell’arte bizantina, dove lo spazio in cui vengono iscritte le figure è una superficie opaca, a massimo dorata, l’artista moldavo prova a circoscrivere gli attori in uno spazio reale e a includervi dei

descrittivo, e l’altro che simboleggia una effigie sacra. A proposito del rapporto con la pittura di illustrazione dei manoscritti, mentre nella miniatura l’immagine è vista da vicino e l’artista è preoccupato della fisionomia, qui l’accento cade sull’azione dei personaggi o, piuttosto, sui loro costumi e attributi. I personaggi si differenziano per l’aspetto esteriore che li colloca in una gerarchia sociale o li attribuisce ad un’area religiosa e culturale.

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Gli affreschi esterni delle chiese in Bucovina sono concepiti inoltre come un enunciato retorico, e proprio questo carattere persuasivo li allontana dal modello bizantino. Del resto, numerose opere d’arte hanno avuto nella cultura europea una funzione retorica di stampo simile, ad esempio le chansons de geste, l’epopea medievale, quali

tema specifico

La Chanson de Roland o El Cid, servivano a incoraggiare le truppe prima della battaglia e numerose sono state le rappresentazioni all'esterno delle chiese medievali del XII e XIII secolo dei personaggi della narrativa carolingia (Lejeune, Stiennon, 1966).

Senza abbandonare l’area culturale bizantina, i pittori moldavi adatteranno gli schemi conosciuti al messaggio politico. Il messaggio politico rimarrà però sempre celato dietro i soggetti sacri. La forza del linguaggio visuale di questi affreschi esterni deriva dalla narrativizzazione dell’enunciato retorico24; come nell’immagine pubblicitaria, la narrazione visuale è capace di captare l’attenzione e di orientare subliminalmente l’osservatore nella direzione desiderata. Sicché gli affreschi si devono leggere come un testo su più piani.

La scoperta del realismo non è dunque il risultato di una ricerca teorica, quanto nasce piuttosto dalla necessità di trovare un linguaggio plastico atto a tradurre un discorso nuovo. Perciò il pittore sarà piuttosto impegnato ad adattare alcuni attributi, che sono quelli tradizionali adoperati nella pittura medievale, in modo che possano conferire individualità ai personaggi. Va sottolineata pure l’influenza specifica che hanno avuto i manoscritti sugli affreschi bizantini25. Gli influssi dei manoscritti miniati sulla pittura religiosa si possono notare nell’Inno Acatisto dedicato alla Vergine, un

24 Il pittore sfrutta qualsiasi occasione per attualizzare il messaggio religioso, ciò che permetteva una convincente identificazione dell’osservatore dei secoli XV-XVI con i personaggi degli affreschi. Vengono introdotti nella tematica sacra vari temi specifici al folclore romeno, ad esempio, le Dogane celesti (Vamile Vazduhului) o l’Atto d’intesa tra

o qualcosa dal loro carattere di illustrazione di un testo.

Adamo e il diavolo (Zapisul intelegerii dintre Adam si diavol). Proprio in quest'ultimo il pittore rappresenta Adamo nelle vesti di un contadino moldavo. 25 Custodi della tradizione bizantina durante la riforma iconoclasta, essi hanno lasciato la loro impronta sullo stile degli affreschi, che dovrebbero essere letti come in un libro. Gli artisti bizantini trasferiranno sulle pareti delle chiese le storie concepite per ornare i manoscritti, mantenend

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dell’ortodossia, dove le rappresentazioni sono direttamente riprese dai codici miniati. A volte l’influsso si spinge fino al livello della tecnica artistica: ad esempio, a Sucevita si può trovare finanche la tecnica dei miniaturisti di mescolare i pigmenti con dell’oro per conferire loro lucentezza e spessore.

Perché la lettura attualizzante dell’immagine possa essere resa agevole al potenziale combattente contro i turchi, il pittore ha modificato il suo stile visuale e ha adattato gli schemi rigidi dell’iconografia bizantina alla realtà quotidiana attraverso una serie di dettagli. I pittori moldavi non si preoccupavano di un nuovo stile visivo, ma della scelta dei temi o delle storie capaci di rappresentare

lotta. A questo scopo vengono scelti i temi da illustrare e viene sperimentata una gamma di procedimenti tecnic

capace di esprimere un discorso politico, vale a dire un discorso

abilmente un’esortazione alla

i ad hoc26. Quindi, per adattarsi a un discorso diverso da quello strettamente religioso, gli artisti della Bucovina innovano, ma solo fino a un certo punto, imparando a raccontare per immagini a scopo di persuasione. Con l’asservimento della Moldavia all'Impero ottomano, questo discorso visuale perderà la sua attualità e i pittori abbandoneranno le ricerche nel campo del realismo. Negli anni che hanno seguito il voivodato di Petru Rareş, il tema iconografico della Caduta di Costantinopoli scompare dalla pittura, mentre l'Inno Acatisto, privo ormai del significato politico-militare che gli era stato attribuito, ridiventa simbolo meramente liturgico e le sue illustrazioni pittoriche non vengono più collocate in posizione centrale, all'ingresso della chiesa, ma trasferite piuttosto alla facciata nord.

Il realismo che abbiamo rilevato negli affreschi moldavi proviene dunque dalla necessità di trovare un linguaggio pittorico

26 Ciò costituisce un’innovazione importante, che però non ha avuto conseguenze ulteriori né sulla teoria della pittura, né sulla storia della pittura romena. Questo tipo di innovazione non ha prodotto un’influenza decisiva, perché si fonda solo su un procedimento di illustrazione di un discorso verbale, e non sulla definizione di un nuovo stile, magari basata su nuove idee matematiche e filosofiche, come avveniva nel Rinascimento italiano.

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attuale. Come all’immagine religiosa veniva chiesto di far rivolgere il pensiero del fedele a Dio, parimenti gli affreschi esterni dovevano sottolineare la continuità fra Bisanzio e la Moldavia, fra il Basileus e il Voievod, per mezzo della chiesa ortodossa. Da questo punto di vista, i pittor

il volt

martir profeti, vescovi. A proposito di questi ritratti dei fondatori eare alcuni elementi che hanno portato

zio: i principi moldavi si rappresentano

i moldavi rimangono fedeli alla teoria dell’arte bizantina, in quanto in essa, in una maniera analoga, si traduceva in immagine e in persuasione retorica il discorso religioso. Non deve essere guardata con sorpresa questa maniera di abbinare la narrazione con la retorica, visto che la retorica visuale è un acomponente fondamentale della pittura medievale.

2.7.4. Il ritratto dei fondatori

Ritornando agli affreschi moldavi che stiamo analizzando, non tutte le immagini sono narrative, bensì viene inserita anche una serie di «ritratti» idealizzati, come le raffigurazioni dei filosofi dell’antichità oppure il quadro votivo della famiglia del donatore, o icone – la Vergine Maria, Deus Pantocrator. Gli artisti bizantini, che usavano molto lo schema nella rappresentazione della fisionomia umana, non s’interessavano affatto all’arte del ritratto, mentre nella pittura parietale della Moldavia, si può osservare che i santi assumono talora

o riconoscibile di personaggi famosi del tempo27. I ritratti dei fondatori, un tempo posti nel santuario, appaiono qui nel nartece, mentre sulle pareti vengono rappresentate figure di santi, monaci,

i,delle chiese, si devono sottolinalla genesi del mito di Bisan

27 «Inoltre sono rare le intrusioni di carattere parimente storico: il ritratto di Grigorie Roșca, in quanto egumeno a Probota (sulla facciata Nord, vicino all’entrata) e in quanto metropolita di Moldavia a Voronetz (sempre in vicinanza dell’entrata, sul lato sud), in compagnia dell’eremita Daniele, figura quasi leggendaria del periodo del principe Stefano il Grande, «santificato» ante literam della pietà popolare; […]; il «cavaliere» Toma di Suceava, pittore (?) di Humor, «autoritratto» presunto dell’artista che cavalca verso il nemico, nella rappresentazione dell’assedio di Costantinopoli, sulla facciata sud […]» (Vasiliu, 1998, 153)

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secondo l'ipostati degli imperatori bizantini. La tematica politica si insinua anche nel ritratto di Petru Rareş e della sua famiglia, i quali vengono raffigurati a Moldoviţa in costumi di tipo bizantino, proprio per m

sente e quello miracoloso-divino si realizza negli affres

ostrare che sono i discendenti degli imperatori di Bisanzio. (fig. 2) Nei principati romeni, che non avevano fatto parte dell'Impero

bizantino, così come accade nelle regioni occupate dagli slavi medirionali, il legame con Bisanzio diventa paradossalmente più forte dopo la scomparsa dell'impero stesso. Tale continuità appare in modo specifico al momento dell'incoronazione, in cui i principi moldavi fanno ricorso al rituale di Bisanzio. Iorga osserva che Alexandru Lăpușneanu, principe della Moldavia, si fa rappresentare insieme alla sua famiglia in un'ipostasi imperiale («il ritratto di questo principe in atteggiamento imperiale», Iorga, 1935, 135). L'incoronazione dei principi romeni ha luogo a Costantinopoli, rispettando il rituale bizantino : «a risoluzione d'incoronare un principe romeno fu presa quando, dopo lughi sforzi da parte dell'ambasciatore francese, Pierre detto Boucle d’Oreille, il vecchio cortigiano del re di Francia Henri III, ebbe ottenuto quello che lui chiamava "l'eredità di suo padre e dei suoi antenati". Per la sua ambizione e per quella di ciò che restava di bizantino a Istambul, venne ripristinato il cerimoniale degli imperatori.» (Iorga, 1935, 137).

Tutto ciò si vede chiaramente nella rappresentazione pittorica dei donatori, che illustra il momento dell'incoronazione, trasferendolo su un piano religioso.

2.7.5. Il Giudizio Universale

A proposito dei temi escatologici, la miscela tra il registro ancorato nel pre

chi in una maniera simile all’Inferno di Dante, e i contemporanei che non prendono una posizione favorevole alla politica esterna moldava vengono collocati nell’Inferno. Allo «Sguardo divino» vengono rivolte le preghiere espresse in linguaggio visuale e viene

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consacrata l’intera chiesa; del resto, i principi moldavi erano soliti erigere una chiesa dopo ogni vittoria contro i turchi, come abbiamo visto

la realtà, la pittura della permettere

all’osservatore di identificare il soggetto, i personaggi, lo spazio dell’a

a proposito di Ştefan cel Mare. Nel Giudizio Universale i gruppi di dannati vengono identificati

secondo l’abito e, parimenti, abbiamo visto che nell’Assedio di Costantinopoli la trasformazione dei persiani in turchi avviene sempre attraverso gli abiti e le armi. I pittori moldavi non sono tanto interessati all’organizzazione del quadro in base alla prospettiva spaziale, bensì ai dettagli che permettono l’identificazione del soggetto. Nell’arte dell’affresco esterno l’accento cade sul colore, sul dettaglio e sulla narrazione. Il dettaglio funge da etichetta, identifica il personaggio, l’azione e, talvolta, la storia rappresentata. Finanche lo spazio viene identificato attraverso alcuni dettagli come la merlatura, la fortezza, la linea che segna il suolo, una pietra, o un motivo architettonico (colonna, porta), una nuvola, un mandorlo per definire l’appartenenza del personaggio allo spazio terreno o celeste. In assenza di regole precise nel ricalcareBucovina si serve di questi segni codificati per

zione. Un posto notevole viene concesso all’elemento favoloso, e l’inventività e il talento dei pittori si può notare anche nella rappresentazione dei demoni, assai diversificati e fantasiosi. Gli artisti moldavi si servono dunque, per la rappresentazione dei personaggi, degli schemi bizantini a cui aggiungono una serie di tratti distintivi e variabili, i quali conferiscono loro personalità. Il costume, la posizione e la postura sono gli elementi che danno individualità alle immagini dei personaggi.

Anche nel Giudizio Universale risulta evidente l’attualizzazione: accanto ai turchi e agli ebrei, tra i dannati appaiono anche dei cattolici, un rinvio esplicito ai polacchi, che non avevano sostenuto i moldavi contro i turchi. Un’altra spiegazione per cui il gruppo dei cattolici

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viene collocato nell’Inferno, potrebbe essere che la chiesa ortodossa si esprimeva così apertamente contro l’unione con la Chiesa di Roma.

È anche possibile che questa separazione fra popoli, stirpi, religioni non sia soltanto «morale», ma anche politica. Parlando della rappresentazione negli affreschi parietali della Bucovina, in diversi contesti, degli stranieri, Anca Vasiliu osserva: «Le rappresentazioni realistiche delle nazioni sono state spesso interpretate dagli storici dell’arte come un "quadro della vendetta divina" cui i Moldavi votavano i loro nemici; come la "prova" più espressiva (con la rappresentazione dell’Assedio di Constantinopoli, nel ciclo dell’Inno acathistos) del ruolo conferito alle pitture esterne: rendere vivo, fino al "cuore del popolo", il messaggio d’una guerra santa" contro i pagani (i Turchi e i Tatari invasori del paese) e contro tutti gli eretici e avversari della Vera fede (Armeni, Latini, Maroniti etc.). Pertanto, le nazioni non sono rappresentate unicamente nel Giudizio universale – figurano pure, simbolicamente, come gentili nell’immagine della Pentec 28oste.» (Vasiliu, 1998, 249)

2.7.6. Dalla retorica bizantina alla narrazione della storia

Nella maggior parte dei casi esaminati, siamo di fronte a cicli narrativi composti da più riquadri che vanno letti in serie. La successione degli affreschi obbedisce al principio di una necessità esterna all’ordine della pittura, che fornisce, allo stesso tempo, un numero di elementi, un fondo su cui le immagini diventano leggibili, quasi fossero unità di un discorso. Benché l’asse temporale sia discontinuo, i molteplici elementi possono essere ricomposti in un testo visuale unitario attraverso una linea (o una rete di linee) retorica.

28 Nella nota Vasiliu aggiunge: «Enunciata già nel 1912 da W.Podlacha l’idea di un messaggio politico, che sarebbe stata pronunziata attraverso le pitture esterne moldave, sara ampiamente ripresa da Sorin Ulea e Vasile Drăguț. (…) Una posizione piu cauta rispetto all’interpretazione storicizzante di Podlacha la troviamo nell’opera di Vasile Nandriș.» (Vasiliu, 1998, 249)

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Nella pittura parietale moldava si possono dunque identificare due retoriche: la retorica religiosa, alla quale corrisponde lo stile bizantino e quella politica, che gli artisti nascondono dietro le narrazioni visuali a soggetto sacro, ma rappresentate in uno stile pittorico in buona misura realista. Prevale, sul piano dello sguardo, la retorica nuova, che attualizza l’enunciato pittorico e lo adatta al discorso politico di Petru Rareş. Colui che guarda viene a mano a mano introdotto in un universo concreto, estraneo ad un’arte di tipo bizantino che si esprime attraverso prototipi. Soltanto all’interno della chiesa l’osservatore ritrov

, cosi com’era già successo nel caso dell’assedio di Costa

avi. Abbiamo anche visto, nella pittura del XVI

a i prototipi sacri, che completerà all’uscita con la lettura degli affreschi «politici» esterni.

L’originalità degli affreschi del Nord della Moldavia consiste in queste rappresentazioni esterne, ma la pittura dell’intera chiesa costituisce un enunciato visuale, che dev’essere guardato nel suo insieme per essere compreso. Le due retoriche visuali, quella bizantina e quella realistica, si completano, e la forza dell’argomentazione è ugualmente grande in entrambi gli enunciati.

Lo sguardo umano è preparato per la lotta contro i turchi attraverso le preghiere visive rivolte a Gesù e alla Santa Vergine, ma al contempo sottilmente informato della sorte dei polacchi, che finiscono nell’inferno perché non difendono il cristianesimo. Al fedele, e potenziale combattente, viene altresì ricordata la possibilità di un miracolo

ntinopoli, e gli viene suggerita cosi l’idea che Dio non può lasciare la Moldavia sola dinanzi al pericolo, contro cui a lui si chiede di lottare. In modo analogo, nella Scala di Climax viene sottolineata l’idea che la vita è piena di prove, ma che alla fine del percorso si trova il Paradiso.

Abbiamo seguito in questo capitolo il modo in cui i romeni si sono definiti in funzione degli altri, soffermandoci più specificamente sui moldavi. Abbiamo visto il ruolo centrale dell'eredità bizantina che, attraverso lo slavone e la cultura ortodossa, con i suoi riti e i suoi miti, si trasmette ai mold

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secolo, l'importanza che i moldavi hanno dato al Letopiseț di Ureche, al fine di auto-definirsi rapportandosi alle origini romane, alla relazione con Bisanzio e, in seguito, al sistema dei conflitti e delle alleanze con i vicini. Un ruolo centrale ha giocato in questa autodefinizione la relazione con le lingue di cultura, slavone, greco, latino, e con le scuole di pensiero, umanistica e bizantina. Passeremo in rassegna nel capitolo successivo la continuità dell'eredità dell'opera di Ureche, e vedremo come le idee da lui intuite e introdotte nel circuito culturale, siano destinate ad avere un impatto enorme.

Come vedremo nel prossimo capitolo, gli umanisti romeni vengono educati nei collegi dei Gesuiti in Polonia, quindi studiano in latino, ma conoscono sicuramente tanto il greco che lo slavone, che studiano alla Scuola ortodossa di Costantinopoli o a anche Padova. Chiedono a anz con il re di Po uando Buda cade sotto la dominazione turca, con il principato transilvano, sempre allo scopo di opporsi ai turchi o ai tartari. Da questo punto di vista, possiamo definire i paesi romeni come collocati fra l’Oriente e l’Occidente: «Posto al confine tra l’occidente latino e l’oriente, cresciuto all’ombra di Bisanzio, questo popolo si è trovato infatti ad essere compartecipe di entrambi i mondi, sebbene mai sia giunto ad identificarsi con uno di essi a tal punto da venire assorbito.» (Alzati, 1981, 9)

Dal punta di vista culturale, però, parlare di Oriente e Occidente è ambiguo e non del tutto corretto, in quanto i moldavi si vedono sempre come una vera e propria barriera fra Oriente e Occidente, identificandosi fortemente con quest'ultimo. Si sforzano di costituire una sorta di bastione europeo o cristiano di fronte all'avanzata dei turchi e della religione musulmana, e costruiscono un vero e proprio mito di questa resistenza, a partire dal Letopiseț di Ureche. Inoltre, come vedremo, ci sarà da riflettere sul fatto che tutti i grandi cronicari ro n

iuto al papa o alla Repubblica di Venezia, fanno allelonia, con quello di Ungheria, e in seguito, q

e

meni sono stati uomini politici con la vita piena di peripezie, fra cuon manca l'esilio.

i

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Fig. 1. La Chiesa dell’Annunciazione del monastero di Moldovita. L’assedio di

Costantinopoli. Dettaglio del proemio dell’Inno acatisto

Fig. 2. La chiesa della Dormizione, Monastero Humor, quadro votivo, il principe Petru Rares

accompagnato dalla principesa Elena e il principe ereditario presentano il plastico della chiesa

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3

Il simbolo del libro (Miron Costin, Dimitrie Cantemir,

Constantin Cantacuzino Stolnicul, Ion Budai Deleanu)

Il presente capitolo tratterà di quattro scrittori romeni, i primi tre del XVII secolo, Miron Costin, Dimitrie Cantemir e Stolnicul Cantacuzino, e il quarto che si colloca fra il XVIII e il XIX secolo, Ion Budai Deleanu. Il loro destino è stato fortemente segnato dal viaggio e dalla peregrinazione, e tutti e quattro hanno avuto una cultura umanistica, avendo compiuto studi a Costantinopoli, a Padova, a Bar o a Camenița in Polonia, a Vienna, a Berlino. Dal punto di vista politico-culturale i primi tre hanno avuto anche accesso a posizioni chiave nel voidodato di Modavia, il quarto è stato magistrato asburgico in una zona di frontiera fra tedeschi, polacchi e romeni, mentre accumuna tutti la convinzione che fosse loro dovere scrivere un libro in lingua romena che desse fondamento all'identità romena da punto di vista storico, filologico e culturale.

Sarà opportuno tuttavia fornire qualche breve indicazione preliminare in merito alla polemica storico-culturale sull'uso delle etichette e denominazioni di correnti letterarie nella letteratura romena antica. Quindi passerò in rassegna i quattro scrittori iniziando con una presentazione biografica, mirata soprattutto ad evidenziare lo stretto legame fra esperienza personale di migrazione o di esilio e coscienza di una forte appartenenza culturale identitaria, da innestare nel contesto culturale europeo.

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I primi tre, Miron Costin, Stolnicul Constantin Cantacuzino e Dimitrie Cantemir, si ritrovano sulla scena politica delle terre romene nello stesso periodo, l'ultima parte del XVII secolo, qualche decennio dopo la morte di Grigore Ureche. Ion Budai Deleanu è un caso un po' diverso, in quanto è da considerare già uno scrittore moderno, non ha ricope

lo in topos. Abbiamo già analizzato, nel capitolo precedente, il ruo che aveva riservato alla conoscenza del

modellizzante in riferimento al presente. Lo scrittore Ureche, che è l'occas

ico-culturale della conoscenza del passato e

rto funzioni politiche e non appartiene alla nobiltà, tuttavia il suo esempio sarà utile per completare la mia analisi. Farò riferimento in particolare all'introduzione, e anche al testo, della sua Țiganiada, seguendo quale sviluppo del tutto originale ha dato ai topoï identitari che i primi tre hanno introdotto stabilmente nella cultura romena.

Il filo rosso che attraversa queste mie analisi e le personalità dei quattro autori è il simbolo del libro, elencato da Curtius fra le costanti formali della letteratura europea. Anche nella letteratura romena antica, questo simbolo, che prende le mosse dalle pagine di Ureche, si incontra con una frequenza e una persistenza tale da trasformarsi a pieno tito

lo centrale che Urepassato, un ruolo bivalente, da un lato fondante della propria identità, dall'altro

anche e soprattutto uomo politico e di potere, ha avuto ione di vedere come si definisce, nell'Europa centrale e

occidentale, l'identità culturale specifica in funzione della diffusione della cultura umanistica, e tale concezione si è poi cristallizzata nell'azione di scrivere, dopo tante esperienze, alla fine della vita attiva, il suo libro, Letopisețul Țării Moldovei. È probabile che l'immediato successo della copia manoscritta, lasciata incompiuta alla sua morte da Grigore Ureche, sia dovuta al fatto che la stessa fiducia dell'autore nel ruolo politnella scrittura di tipo umanistico fosse condivisa anche dai suoi successori ideali, Costin, Cantemir e Cantacuzino. Tutti tre erano a conoscenza del libro di Ureche, che essi hanno in qualche modo

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continuato e sviluppato. E se in Grigore Ureche, come si è mostrato nel capitolo precedente, è impossibile separare la vocazione culturale umanistica dalla visione politica, ci apprestiamo a individuare la stessa convergenza negli scrittori che analizzeremo nelle prossime pagine.

La domanda di fondo che ci poniamo su questi scrittori è la seguente: sono essi scrittori europei? A nostro avviso assolutamente sì, e questa affermazione verrà argomentata attraverso il metodo di Curtius, cioè scandagliando in profondità il loro ricorso alla retorica e all'utilizzo dei topoï, così come appare, ad esempio, nella costellazione dei temi costruita attorno al simbolo del libro. Ci poniamo qundi una seconda domanda: possono essere con certezza compresi nel quadro delle correnti europee del Rinascimento o del Barocco? Su questo vale la pen

degli assi lungo i quali è stata sistematizzata la grande famig

a soffermarci all'inizio, anche per mostrare quali rischi presenta l'utilizzo di queste categorie per la periodizzazione della letteratura romena.

3.1. Medio Evo, Umanesimo, Rinascimento e Barocco nella cultura romena

Il titolo di questo sottocapitolo è in qualche misura ironico: evidentemente non potrò analizzare questi concetti in riferimento alla letteratura romena antica nello spazio di qualche pagina, tuttavia ritengo importante, prima di procedere nella mia analisi, segnalare alcune incongruenze e incoerenze che si ritrovano a proposito di questi termini nella storiografia letteraria romena. Inoltre nelle pagine che seguono si cercheranno anche spiegazioni e cause di questo problema terminologico.

Unolia delle lettere europee fa capo alle correnti che hanno marcato

la cultura europea, a cominciare da Rinascimento, Barocco, Manierismo, Illuminismo fino a Romanticismo, Realismo, Naturalismo, Simbolismo,

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passando poi alle Avanguardie, al Modernismo e al Postmodernismo. Se ci soffermiamo su queste etichette che descrivono correnti moderne, vediamo che, a partire dal XVIII secolo, esse corrispondono a grandi linee alla periodizzazione della letteratura romena che coincide con le teppe nella storia nazionale romena. Tuttavia, se cerchiamo rappresentanti romeni nelle definizioni di questi correnti europee, fornite nella bibliografia di riferimento in inglese, italiano, spagnolo o persino in francese, non ne troviamo. Fanno eccezioni, com’è normale, il Dadaismo e talvolta il Surrealismo, per il semplice motivo che scrittori nati in Romania hanno pubblicato in francese i loro t

i dei secoli precedenti, in quanto risulta assai arduo trovare corrisp

Ciò non ha impedito tuttavia la circolazione della cultura

esti, e quindi si sono integrati per questa via nella cultura europea. Invece, per il periodo fra il XV e il XVIII secolo le «etichette» non corrispondono più.

Gli storici della letteratura romena hanno accordato attenzione particolare a categorie letterarie del tipo «Umanesimo», «Rinascimento» o «Barocco», con la persuasione che soltanto in questo modo la letteratura romena antica potesse essere considerata a pieno titolo una delle letterature europee. Se è vero che per quanto concerne l'Illuminismo e il Romanticismo, vale a dire le correnti che hanno caratterizzato la seconda metà del XVIII secolo e soprattutto il XIX secolo, sono presenti anche nella letteratura romena rappresentanti delle correnti letterarie diffuse in tutta l'Europa, il discorso cambia per le corrent

ondenze nei testi della letteratura romena. La causa di ciò, come si può dedurre dal capitolo precedente, è il fatto che nella zona sud-orientale dell'Europa, dominata dalla cultura bizantina, dalla religione ortodossa e anche dalle lingue di cultura greca e slavona, le correnti che si sono sviluppate in Europa sono penetrate con molta difficoltà.

classica, sia per mezzo della cultura bizantina, di lingua greca e poi slavona, sia per mezzo della lingua latina, insegnata nelle scuole

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cattoliche dell'Europa orientale. Ma in questo contesto non è stato possibile trasmettere quei paradigmi unitari che definiscono correnti come «Rinascimento» o «Barocco». Tuttavia ritroveremo tutti i singoli fenomeni, così ritroveremo nella cultura romena i topoï barocchi, come potremo incontrare anche dei «Rinascimenti» simili a quelli descritti e analizzati da Erwin Panofsky nel suo libro Rinascimento e rinascimenti nella cultura europea, ad esempio i fenomeni da noi descritti nel capitolo precedente, anche in campo artistico. Ciononostante difficilmente possiamo parlare di correnti letterarie che si presentino con gli stessi tratti formali che si riscontrano in Europa occidentale.

Il rischio che si incontra se si intendono omologare gli scrittori dell'Europa orientale alle correnti che si sono sviluppate in Occidente, in particolare nei secoli che hanno seguito la caduta di Bisanzio, è quello di suscitare la nascita di un complesso d'inferiorità che non è necessario, né risulta utile. Questo complesso del ritardo fa la sua comparsa nelle letterature dell'Europa centrale e orientale, in quanto non ci sono in esse rappresentanti diretti e contemporanei delle correnti letterarie europee. Da ciò deriva il fatto di sentirsi «in ritardo» rispetto al calendario culturale europeo, o comunque un po' «meno europ

Cândea, 1979, 262-266).

ei» degli altri, e questo modo di rapportarsi alla letteratura europea, in correlazione con il complesso della frontiera, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, genera uno iato, una linea di frattura.

Virgil Cândea intitola un capitolo sull'Umanesimo romeno: «Remediile întârzierii»1 [I rimedi per il ritardo] (

P. P. Panaitescu scrive molti articoli polemici per spiegare il rapporto complesso fra Umanesimo occidentale e influenza della cultura bizantina che si instaura nel XV e nel XVI secolo (Panaitescu, 1971). Filologo di grande valore e specialista di letterature slave, 1 Il titolo completo è «Remediile întârzierii: 2. Un nou învățământ, concesii doctrinare și acceptarea inovațiilor», [I rimedi del ritardo: 2. Un nuovo insegnamento, concessioni

innovazioni] (Cândea, 1979, 262-266) dottrinali e accettazione delle

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Panaitescu resta fino alla fine scettico di fronte alle possibilità di una piena omologazione, sia a livello di denominazione che a livello concettuale, fra le correnti letterarie europee e quelle romene in questo periodo. In termini più espliciti, sente il bisogno di difendere la letteratura antica, di lingua slavona e sottoposta alla sfera d'influenza bizantina, dalle accuse di critici che, negli anni Venti e Trenta del XX secolo, consideravano questi fattori come la causa principale dell'isolamento della cultura romena in Europa. Il filologo spiega in che m

il complesso della frontiera e il comp

suo volume su Umanism în cultura română, pubblicato nel 1979, egli

odo l'appartenenza allo spazio culturale dell'Europa orientale abbia avuto una funzione definitoria per la cultura romena, rispondendo così agli adepti del «modernismo» e dell'«europeismo», esasperati dal «ritardo» ella cultura romena. Il problema del sincronismo e del ritardo, esploso con il modernismo nella cultura romena degli anni Venti e Trenta, è alla base di alcune polemiche che di fatto nulla hanno a che vedere con le opere degli scrittori romeni del XVI e XVII secolo, ma che risalgono ad altre cause, fra cui senz'altro le più evidenti sono

lesso della marginalità, di cui la cultura romena era affetta almeno dal XIX secolo.

Negli studi di storia letteraria rumena dedicati al periodo antico si è discusso in maniera polemica in relazione alle categorie estetiche corrispondenti alle correnti di Rinascimento o Barocco. I critici letterari hanno confrontato tratti comuni, paradigmi, influenze e sono pervenuti a conclusioni diverse rispetto alla questione di fondo: esistono un Rinascimento o un Barocco rumeno?2

L'esistenza di un Umanesimo romeno ha sollevato meno polemiche, essendo stato tale problema analizzato a fondo da uno storico equilibrato come Virgil Cândea. Tuttavia, nella conclusione del

afferma: «Il problema dell'umanesimo romeno è relativamente recente e

2 Mazilu, 1996; Mazilu, 1984.

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da poco occupa uno spazio fra i concetti degli storici. Fino ad oggi, per almeno tre decenni, le opere e le idee di scrittori romeni del XVII secolo, che potevano essere interpretati come manifesti umanistici, sono stati segnalati e analizzati come fatti isolati, in quanto pure curiosità e particolarità letterarie, come, ad esempio, la conoscenza della lingua latina da parte di quel tale boiardo moldavo, oppure i versi in italiano composti dal principe valacco Petre Cercel.» (Cândea, 1979,

citato. Cândea passa

327) Il motivo del rifiuto di parlare di un Umanesimo romeno

deriva, secondo Cândea, «dall'applicazione meccanica dei criteri cronologici e morfologici della storiografia culturale occidentale» (Cândea, 1979, 327) Una conclusione, questa, che potrebbe benissimo essere stata scritta da Curtius, che però non viene qui

quindi in rivista tutti gli studiosi che hanno portato un contributo importante in questo campo di ricerca: Nicolae Iorga, P. P. Panaitescu, Tudor Vianu, Mihai Berza, Petru Iroaie, Liliana Botez, Alexandru Duțu, Mircea Muthu3.

Virgil Cândea aveva pienamente ragione quanto affermava che, fino agli anni Quaranta, quando viene concepita la Istoria literaturii române de la origini până în prezent [Storia della letteratura romena dalle origini fino al presente] (1982) di George Călinescu, l'uso di queste categorie storiografiche era assai problematico. Ad esempio lo stesso Călinescu comprende l'epoca che va dal XVI al XVIII secolo sotto l'etichetta «Epoca veche. Secolele XVI-XVIII. Începuturile. Literatura de Ev Mediu întârziat» [Epoca antica. I secoli XVI-XVIII. Gli inizi. La letteratura del tardo Medioevo] (Călinescu, 1983, 7-56). L'uso del termine «Medioevo» riferito ai secoli XVII e XVIII sarà certamente difficile da giustificare. Călinescu parlerà di «classici ritardati» ancora

3 Nel capitolo «Istoriografia umanismului românesc» [Storiografia dell'umanesimo romeno] (Cândea, 1979, 327-349). Le note, i commenti e la bibliografia di questo capitolo costituiscono una sintesi notevole delle ricerche in questo campo. Si veda anche Alexandru Duțu, 1975.

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con i

raria, fra letteratura romena e lettera

(n.d.r. sec.XVIII), che gli elementi che attestano questi contatti nel XVII secolo non sono affatto «inconsistenti», e infine che proprio in quel

poeti Văcărești, nel XIX secolo. Chiamerà poi «i grandi classici», utilizzando il senso di classicus come categoria generale e non facendo riferimento alla corrente storica, gli scrittori Mihai Eminescu, Ion Creangă e I. L. Caragiale, della seconda metà del XIX secolo. In questo modo, dilatando il Medioevo fino al XVIII secolo, e collocando il Classicismo nel XIX secolo, l'omologazione degli scrittori romeni alla cultura europea diventa un'impresa assai ardua.

Assai più equilibrata la scelta di Alexandru Niculescu e Florica Dimitrescu, che hanno scelto il titolo: Testi romeni antichi (secoli XVI-XVIII) (Niculescu; Dimitrescu, 1970). Il volume contiene un'antologia di testi romeni, e una Introduzione (pp. 15-51), in cui Al. Niculescu disegna un panorama della storia della letteratura romena antica, evitando le etichette pericolose delle correnti letterarie.

Dan Horia Mazilu è uno specialista di letteratura romena antica, con una formazione da slavista, che ha cercato di trovare categorie equivalenti, a livello di corrente lette

tura europea. I titolo dei suoi lavori sono estremamente suggestivi: Vocația europeană a literaturii române vechi [La vocazione europea della letteratura romena antica] (Mazilu, 1991) o Barocul în literatura română [Il Barocco nella letteratura romena] (Mazilu, 1976). D. H. Mazilu ha riflettuto a più riprese sui problemi del Barocco romeno, da lui identificato negli scrittori del XVII secolo. Nell'Introduzione al suo volume Barocul în literatura română din secolul al XVII-lea [Il Barocco nella letteratura romena del XVII secolo] D. H. Mazilu parte dai seguenti concetti: «Siamo pienamente convinti che i legami fra gli scrittori delle Terre Romene e la spiritualità barocca siano iniziati molto prima della data comunemente oggi accettata [...]

secolo, a partire dal quarto decennio, è stata favorita la penetrazione presso di noi della condizione di spirito del Barocco.» (Mazilu, 1976, 21)

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D. H. Mazilu tornerà in seguito sul tema sia per rispondere alle polemiche, sia per precisare i dettagli della sua analisi4. Nel 1994 lo studio

ne della retori

I secolo, secondo Mazil

e (ad esempio a quella francese)» (Mazi

so riprende questi argomenti e sintetizza quali sono stati i fattori che hanno portato alla comparsa dei tratti barocchi nella cultura romena. Un primo fattore di diffusione del barocco è costituito dalle scuole gesuite aperte in Polonia (Mazilu, 1994, 245), che hanno preparato il terreno alla sensibilità barocca per mezzo della retorica:

«Le scuole hanno portato la retorica e non pochi studiosi sostengono che quest'arte della costruzione e dell'ornamento del discorso sia stata la strada maestra, per la quale la maniera stilistica del Barocco è potuta penetrare nella cultura e nella letteratura polacca (e non solo polacca)» (Mazilu, 1994, 245). Questa apertura verso la retorica barocca era stata del resto preparata dalla tradizio

ca bizantina (interessante al proposito il capitolo di Mazilu «Participarea tradiției bizantine». [La partecipazione della tradizione bizantina], in Mazilu, 1994, 278-279)5.

Un'altra fonte del barocco è stata nel XVIu, la circolazione degli intellettuali romeni e le loro relazioni con

gli scrittori europei: «Hanno avuto un ruolo definitorio i contatti (...), i legami con il mondo romanzo, con l'Italia in primo luogo, mondo che, oltre ai numerosi modelli e suggestioni proprie, è servito ai letterati dell'Europa dell'Est e del Sud-Est come filiera (analogamente a quanto accaduto con il caso neoellenico) per la ricezione dei testi barocchi appartenenti alle altre letteratur

lu, 1994, 246). Per quanto riguarda la Transilvania, Mazilu parla di una «situazione privilegiata» «sul piano delle relazioni dei letterati di qui con i movimenti di idee e con la sensibilità dell'Occidente

4 Sulle polemiche legate all'accettazione del concetto di Barocco nella letteratura romena antica, si veda Mazilu, 1994, 240-243. 5 Si veda anche Muthu, 1974; no, 1969; Curticăpeanu, 1975, in particolare il capitolo Mari«Arhipelagul baroc».

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europeo.» (Mazilu, 1994, 270) e conclude: «Il XVIII secolo transilvano è, nel suo insieme, un periodo del Barocco.»6 (Mazilu, 1994, 273)

Nicolae Manolescu, specialista di letteratura romena moderna, o più specificamente, contemporanea, ma autore anche di una storia della letteratura delle origini (Manolescu, 2008), respinge tutte le discussioni che riguardano il barocco nel capitolo «A existat un baroc românesc?» [È esistito un Barocco romeno?] (Manolescu, 2008, 29-31). Dal suo punto di vista, i temi barocchi presenti nel poema Viața lumii di Miron Costin sono classici, in quanto appaiono anche in Ovidio e in Orazi

tterarie, riman

o (Manolescu, 2008, 30). Non lo convince nessuno degli argomenti esposti da diversi specialisti della letteratura romena del XVII secolo, riguardo all'influsso della cultura polacca o italiana, per mezzo delle scuole, delle biblioteche o della retorica gesuita.

Il motivo per cui sono importanti le discussioni sulla presenza nella letteratura romena di un Barocco, di un Classicismo, o di un Rinascimento, è che, in assenza di ciò, non troveremo mail il nome di scrittori romeni nei manuali di letteratura europea.

Fino ad oggi sia le storie letterarie nazionali che quelle europee sono strutturate in funzione delle correnti e dei generi letterari. Ma, come abbiamo potuto constatare, nonostante le polemiche e le critiche a tale sistema classificatorio, gli scrittori continuano ad essere classificati, e ad essere classificati con etichette che non corrispondono dall'uno all'altro studioso. Così si approda ad una situazione di confusione difficile da spiegare.

Le discussioni, anche polemiche, sulle correnti legono necessarie almeno finché la letteratura europea continuerà

ad essere organizzata in funzione di esse. Risulta allora molto importante l'esistenza di ricerche filologiche rigorose al fine di identificare motivi, temi, concezioni, idee, che appaiono tanto nella letteratura romena che in quella europea, e che possano essere ascritti

6 Si veda anche Zamfir, 1970.

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alla s

nvinto o meno il collega N. Manolescu.

ensibilità e alla temperie barocca. In assenza di ciò non incontreremo mai nomi come Miron Costin, Grigore Ureche o Dimitrie Cantemir nelle sintesi sulla letteratura europea. Un caso del tutto eccezionale fra gli storici della cultura europea resta quello di Ramiro Ortiz, il quale, all'interno di un lavoro dedicato allo studio del topos «fortuna labilis» nella letteratura europea, analizza il poema Viața lumii di Miron Costin. Restano dunque essenziali le ricerche svolte da D. H. Mazilu, di cui abbiamo testé parlato, a prescindere dal fatto che abbia co

Sarebbe però forse anche il momento di trovare categorie meno restrittive delle correnti letterarie, per definire la letteratura europea, categorie che fossero più facilmente applicabili sia ai testi scritti nell'Occidente, che a quelli scritti nell'Oriente europeo. Curtius si spinge a sostenere che le correnti letterarie sono dannose per la comprensione dell'unità della cultura europea e propone di sostituire a tale sistema la topologia come metodo di lavoro. La topologia può fornire una soluzione più semplice a tali questioni, anche perché in alcuni casi i nomi delle correnti sono solo metafore epistemologiche, assai limitative allorché si trasferiscono da un campo all’altro. La circolazione dei topoï può dare un’idea tanto dell'influenza della cultura classica sulla cultura rumena che degli elementi di continuità che esistono fra la cultura dell'Europa occidentale e quella dell'Europa orientale. La topologia di Curtius si può usare proficuamente anche allorché ci troviamo di fronte a testi letterari difficilmente inquadrabili nella rete di coordinate costruita su correnti e generi letterari.

Il metodo di Curtius può certamente costituire un modello per lo studio della letteratura antica romena, in quanto quello che egli propone è una dissoluzione dei limiti imposti da categorie come le correnti letterarie, e anche i generi letterari: tramite l'analisi della circolazione di un topos da un'epopea, a un sermone, a una tragedia, suggerisce che i generi letterari sono anch'essi categorie le cui frontiere possono essere superate.

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Curtius sottolinea a questo proposito il ruolo della retorica nella cultura europea: «Nella nostra analisi ci siamo attenuti al sistema della retorica greca, le cui concezioni metodologiche ci hanno portato a stabilire alcune categorie storiche. Da tale punto di vista questo libro potrebbe intitolarsi Nova rhetorica.» (Curtius, 2006, 147) Se veramente, come ritiene Curtius, la retorica è «il denominatore comune» della cultura europea, si apre per noi una prospettiva assai stimolante, in quanto essa appare costantemente nella letteratura romena, fin dalle origini.

Gli scrittori scelti per questo capitolo, Miron Costin, Dimitrie Cantemir, Stolnicul Constantin Cantacuzino e Ion Budai Deleanu, prese

e uattro un’educazione umanistica, basata sullo studio del latino e

ilizzano i topoï umanisti e fan

testi romeni, il topos del libro lega l'identità culturale dei romeni al

ntano nei proemi i loro libri non tanto come imprese individuali, bensì come il risultato del desiderio di assegnare uno spazio alla cultura rumena nel contesto europeo, anche se da parte loro non si usa ancora esplicitamente il termine Europa. Avendo ricevuto tutti qdella letteratura classica, non sarà a caso che ut

no appello alla retorica a sostegno delle proprie idee. Tutti e quattro sono molto preoccupati del posto occupato dai rumeni nel mondo e dal modo in cui viene presentata la loro storia «nazionale», dunque per essi l'impresa di scrivere un libro e di immetterlo nella circolazione europea è una posta importante all'interno del gioco dell'Umanesimo. Oltre alla retorica, che vedremo applicata nei topoï analizzati, essi credevano che la scrittura in sé di un libro consentisse loro di trovare un posto al sole per i rumeni per mezzo della cultura.

Mi soffermerò quindi sulle loro opere cercando soprattutto il topos del libro, che metterò in relazione con altri topoï che, durante i secoli, arrivano a costruire il tema della ricerca identitaria, intesa come definizione della propria cultura nel paragone con le altre. In questi

posto da loro occupato nella storia. Negli esempi citati appaiono

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anche altre delle «costanti formali "concrete" della tradizione letteraria»7 (Curtius, 2006, 255) come «le muse», «gli eroi», «il culto della retorica», «l’esordio». I loro testi appartengono a più generi e sono stati scritti fra il XVII secolo e gli inizi del XIX, ma ritroveremo un dialogo che si instaura fra essi, e che coinvolge anche il testo di Ureche che abbiamo già analizzato, con la ripresa di idee dall'uno all'alt

ar e Came

ro e anche con citazioni esplicite. Il topos del libro assume qui una serie di valori legati alla storia e all'identità nazionale, viste all'interno di un contesto umanistico, ed ecco perché il metodo di analisi proposto da Curtius per studiare l'unità della cultura europea, applicato a questi testi rumeni, cala a pennello.

Si è scelto di studiare questi casi concreti per mostrare in che modo la topologia possa sostituire una storia letteraria concepita in funzione delle correnti e in che modo nasce, attraverso la relazione con la retorica umanistica, il topos del «paragone con altre culture». 3.2. Miron Costin, guerriero, umanista, poeta

Come Grigore Ureche, anche Miron Costin (1633-1691) era nobile polacco, e trascorre anch'egli i suoi primi venti anni in Polonia, dove si era rifugiato il padre a causa della sua politica filo-polacca. Miron Costin frequenta così i collegi gesuiti polacchi di B

nița, dove studia «secondo il metodo scolastico la lingua latina e il classicismo latino» (Panaitescu, 1923, 536), quindi partecipa alla sua prima guerra, come nobile polacco, contro i cazachi. Dopo la morte del padre, parte per la Moldavia, dove si prepara a entrare in politica al servizio della famiglia di boiardi Cantacuzino, che diventeranno i suoi protettori e amici. Si sposa con una giovane appartenente alla famiglia dei signori di Moldavia, Movilă, che gli porta in dote beni ingenti. Percorre un ricco cursus honorum nella politica della Modavia, 7 «Tra le costanti formali "concrete" della tradizione letteraria si collocano le Muse.» (Curtius, 2006, 255)

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e partecipa anche a un grande numero di battaglie (Panaitescu, 537- 538), che descriverà puntualmente nel suo Letopiseț. Nel 1685 viene cattur

lievo lontano da Ia

t

ri di quelli di

ato di polacchi insieme al suo principe, Duca Vodă, e condotto al cospetto del re Giovanni III Sobieski (1624-1696). Il re, che lo conosceva già, lo libera e lo invita nel suo castello di caccia di Daszow, dove Costin rimarrà due anni.

Costin scriverà in esilio il suo Poema polonă [Poema polacco], dedicato proprio a Sobieski. Le relazioni di Miron Costin con il re di Polonia continueranno anche dopo il suo ritorno in Moldavia. Era stato richiamato in Moldavia dal nuovo sovrano, Constantin Cantemir, che tuttavia gli affida un incarico di scarso ri

și, a Putna, località non rilevante dal punto di vista politico-amminis rativa, anche se che ospitava, come abbiamo già detto, la tomba di Ștefan cel Mare. In seguito Costin avrà un conflitto diretto molto forte con il sovrano stesso, che si concluderà con la sua decapitazione. Costin sosteneva infatti l'alleanza della Moldavia con la Polonia, piuttosto che quella con gli Asburgo, preferita da Constantin Cantemir. Il fratello di Miron, Velicico Costin, aveva ordito un complotto per rimuovere dal trono Constantin Cantemir, ma il sovrano ne era venuto a conoscenza e di conseguenza aveva condannato a morte entrambi i fratelli, pur non essendoci nessuna prova del coinvolgimento di Miron Costin nel complotto.

Cartojan sintetizza nel brano seguente la carriera politica di Miron Costin, un personaggio che occupa un posto nella storia culturale romena per i suoi scritti storici raffinati ma anche molto documentati: «Per mezzo delle cariche da lui ricoperte nella gerarchia dei boiardi (mare comis, paharnic, vornic al Țării de Jos, mare logofăt), e anche per mezzo della sua cultura latina e polacca, Miron Costin si trova continuamente sui campi di battaglia e nel consiglio ristretto dei sovrani, e la sua parola ha sempre grande peso nei luoghi in cui si decide la storia della Moldavia nella seconda metà del XVII secolo.» (Cartojan, 1996, 263) I suoi scritti sono molto più va

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Ureche, ma occorre puntualizzare che sono tre i punti importanti in cui Miron Costin risulta essere un continuatore di Ureche.

Il primo è costituito dalla problematica dell'origine romana della

dal suo redecessore. Ha anche il vantaggio di scrivere su eventi che conosce

piuttosto che quelli della

Romania, un tema che Costin approfondisce in una cronaca in lingua polacca, Cronica Țărilor Moldovei și Munteniei (Chronika ziem moldawskich y multanskich), quindi nel Poema polonă (Istorie în versuri polone despre Țara Moldovei și despre Țara Românească -Historya polskimi rytmami o Woloskiey ziemi I Moltanskiey), due opere scritte durante il suo esilio polacco e dedicate a Giovanni Sobieski, e ancora in De neamul moldovenilor, din ce țară au eșit strămoșii lor, scritto direttamente in romeno alla fine della sua vita e rimasto incompiuto.

Il secondo elemento di continuità con l'opera di Ureche è la cornaca Letopisețul Țării Moldovei, che Ureche aveva lasciata incompiuta, al voivodato di Aron Vodă, cronaca che Miron Costin riprende e prosegue in riferimento agli anni che vanno dal 1594 al 1661. Miron Costin ha avuto accesso a molte più fonti rispetto a Ureche8, e inoltre di queste ha fatto un uso diverso ppersonalmente o su cui può interrogare testimoni diretti. Per queste ragioni egli usa i toni e gli stili delle memorie,

cronaca o della storia con valore morale e pedagogico adottati da Ureche, e da noi analizzati ed evidenziati nel capitolo precedente.

Il terzo elemento di continuità, centrale secondo la prospettiva del nostro studio, è rappresentato dal ruolo del libro nella politica e nella cultura. In sostanza Costin sviluppa quello che Ureche aveva intuito, e cioè il fatto che un popolo che non conosce le proprie origini, che non possiede libri di stampo umanistico sul proprio passato, si presenta sulla scena della storia «come le belve o il bestiame». Pienamente convinto che «gli altri» ci vedono in funzione della nostra storia, della rete dei nostri rapporti culturali, dei libri di stampo

8 Si veda Onu, 1967, 8-10; Panaitescu, 1923; Mazilu, 1991, 31-32.

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umanistico che abbiamo prodotto e messo in circolazione, Costin si avvale della filologia come arma politica e diplomatica in un modo molto più raffinato e complesso rispetto a Ureche.

L'umanista Costin apprezzò molto la retorica9 e, da fine diplomatico, scrisse molti discorsi ufficiali in lingua polacca. A lui si deve inoltre un poema filosofico, Viața lumii [La vita del mondo], dove ritroviamo molti dei topoï che Curtius considera costanti formali della letteratura europea, e anche un poema morale Stihuri împotriva zavistiei [Versetti contro l'invidia], poemi che Liviu Oni attribuisce agli anni 1671-1673 (Onu, 1967, 16-17). La conoscenza di numerose lingue straniere (latino, slavone, ucraino, polacco) gli ha anche consentito di intrattenere una corrispondenza epistolare intensa e copiosa con molti uomini di cultura del suo tempo, con cui ha anche scambiato le opereconosMoldoe in fr 3.2.1. della

simbopoleminterpdopo Urechsue mintroddiscen a parte

10, il che ha prodotto l'effetto di diffondere largamente la cenza dei suoi scritti fra i contemporanei. Il Letopiseț Țării vei è stato tradotto in latino già nel XVII secolo, in greco nel 1729 ancese nel XIX secolo (Mazilu, 2000, vol. 3, 78).

Il libro è stato dato da Dio come uno specchio intelligente mente dell'uomo: De neamul moldovenilor

Nell'opera De neamul moldovenilor [Sulla stirpe dei moldavi], il lo del libro occupa la posizione centrale. Si tratta di un testo ico, in cui Costin polemizza innanzitutto con il più famoso degli olatori del testo di Ureche, Simeon Dascălul, il quale, subito la morte di Ureche, aveva copiato il manoscritto lasciato da e, facendolo circolare solo nella variante che comprendeva le odifiche. Simeon aveva interpolato la cronaca di Ureche

ucendo uan leggenda secondo cui i romeni sarebbero i denti di malviventi liberati dalle carceri d

ellettuali polacchi, si veda Mazilu, 1996, 200. 9 Sul rapporto di Costin con l'oratoria polacca, si veda Mazilu, 1996, 199. 10 Per i contatti di Costin con int

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dell'Imperatore romano, e inviati al re degli ungari per colonizzare un territorio del tutto disabitato (Ureche, 1955, 58-59). La scomparsa del testo originale di Grigore Ureche subito dopo la morte dell'autore e il fatto che le uniche copie disponibili contenessero le interpolazioni di Simeon spinge gli umanisti romeni, fra cui Miron Costin e, in seguito, Dimitrie Cantemir e Stolnicul Cantacuzino, a scrivere opere polemiche destinate a correggere «basnele» [le favole menzognere] fatte circolare da Simion Dascălul11. Costin inizia il suo De neamul moldovenilor partendo dall'idea che il suo libro costituisce un recupero della verità, necessario nei tempi storici duri e difficili in cui si trova a vivere. Di qui l'u

au stătut sufletul nostru. Să încep osteneala aceasta, după

liul eamului, din ce izvor şi săminţie sîntu lăcuitorii ţării noastre, (...) (Costin, 1967,

sediati su questo lembo di terra,

uesta offesa a diversi scrittori, è per il cuore un grande dolore. Ha vinto il pensiero di

so nell'esordio di una strategia retorica che mette in evidenza la difficoltà della sua impresa:

«Începutul ţărâlor acestora şi neamului moldovenesc şi muntenesc (...) și cîți sint și in țările ungurești cu acest nume, români, și pînă astăzi, de unde sint și din ce seminție, de când și cum au descălecat aceste părți de pământ, a scrie, multă vréme la cumpănăatâta vacuri de la descălecatul ţărâlor cel dintîi de Traian împăratul Rîmului, cu câteva sute de ani peste mie trecute, să sparie gândul. A lăsa iarăş nescris, cu mare ocară înfundat neamul acesta de o seamă de scriitori, este inimii durére. Biruit-au gândul să mă apuc de această trudă, să scoţ lumii la vedere fen132)

[L’inizio di questi paesi e della stirpe moldava e valacca (…) e di quelli che sono nei paesi ungheresi con questo nome, romeni, e fino ad oggi, da dove sono e di

e semenza, da quando e come si sono inchscrivere, per molto tempo sospesa è rimasta la nostra anima. Accingerci a questa fatica, dopo tanti secoli dalla prima colonizzazione di questi paesi, fatta da Traiano, l’imperatore di Roma, con mille e qualche secolo in più passati, il pensiero si spaventa. Ma lasciare non scritto, la stirpe trafitta con qdcominciare questa fatica e portare alla vista di tutti la natura della stirpe, e da che fonte e da che semenza sono gli abitanti del nostro paese.]

«teza imposibilei delimitări» [la tesi della delimit

11 Cfr. azione impossibile delle interpolazioni] Chițimia, 1972.

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La suaoffro tempocomin . Però siccome

sogge

strategia è imparentata con la falsa modestia e con il topos «io cose mai prima dette», in quanto Costin dichiara: «Per molto la nostra anima è rimasta sospesa» prima di decidere se ciare un lavoro di cui «il pensiero si spaventa»

«lascia e ancora non scritta [la vera storia], con le grandi offese conficcate nel profondo a questo popolo da parte di certi altri scrittori» gli porta grande sofferenza «gli addolora il cuore», decide di intraprendere l'impresa. Incontriamo qui anche un topos secondo Curtius specifico dell'exordium, «chi possiede sapientia ha il dovere di comunicarla agli altri» (Curtius, 2006, 102).

A differenza di Ureche, che vede nel libro un oggetto quasi sacro, capace di ridare la dignità a un popolo solo perché conserva la memoria del passato, Costin si mette in scena. Egli non solo parla dei fatti, ma li presenta in uno stile elevato. La sua preoccupazione per la retorica appare nelle molte digressioni che

r

fa prima di entrare in un tto da trattare. Così, dopo aver presentato con modestia il suo dialogo con sé

stesso, terminato con la decisione di scrivere il libro, Costin introduce una voce fittizia che mette in dubbio la possibilità di tale impresa:

«Zice-va neştine: "prea târziu iaste! După sutele de ani, cum să vor putea şti poveştile adevărate, de atâtea veacuri?"» (Costin, 1967, 133) [Qualcuno dirà: "È troppo ormai tardi; dopo centinaia di anni come faranno a sapere le vere storie, da tempo trqscorse?"]

La risposta mette in luce un valore conferito al libro in quanto il libro, dono lasciato da Dio agli uomini è «lo specchio intelligente della mente umana» e per suo tramite si può conoscere il mondo.

«Răspunz: Lăsat-au puternicul Dumnezeu iscusită oglindă minţii omeneşti, scrisoarea, dintru carea, daca va nevoi omul, cele trecute cu multe vremi le va putea şti şi oblici, și nu numai lucrurile lumii, staturile şi începăturile ţărilor și a împărățiilor, ci şi singură lumea, ceriul şi pămîntul, că sînt zidite după cuvântul lui Dumnezeu celui puternic.» (Costin, 1967, 133-134)

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[Risposta: Il potente Domineddio ha lasciato in dono, specchio intelligente della mente umana, il libro, nel quale, se l'uomo faticherà, le cose da lungo tempo passate potrà conoscere e capire. E non solo le cose del mondo, lo stato attuale e gli inizii dei paesi del mondo, ma anche il mondo in sé, e il cielo e la terra, che sono stati creati secondo la parola del potente Domineddio.] utilizza questa duplice analogia costruita in funzione di più Costin

metafretardaspecchconos , sia dal punto di vista religioso, cristiano, come dono dell'umpari d terra, creazione divina. Inoltre dal punto di vista umanGiova

Ureche, da lui rispettato profondamente. Del resto lo cita cià nella

l e il monaco

ore dopo aver preparato il lettore attraverso la tecnica della tio: il libro è visto qui sia dal punto di vista umanistico, come io intelligente della mente umana e quindi mezzo di

cenza del mondodivino dotato di un carattere sacrale. Dato che la storia politica

anità «lo stato attuale e gli inizii dei paesi del mondo», è, al i cielo e

istico, l'intelletto umano era stato assimilato a un libro da nni di Salisbury (Curtius, 2006, 355). Vediamo ora in che modo Costin si pone come continuatore di

prefazione de suo De neamul moldovenilor, scrivendo «Laud osîrdia răpăosatului Ureche vornicul, carele au făcut de dragostea țării letopisețul său (...) [Lodo lo zelo di Ureche il governatore, che ha prodotto con l'amore per la nostra terra il suo Letopiseț] (Costin, 1967, 135) e aggiunge ancora «numai lui de această țară i-au fost milă, să nu rămâie în înturnerecul neștiinții» [di questo paese solo a lui si deve la benevolenza di non averla fatta rimanere nelle tenebre dell'ignoranza] (Costin, 1967, 136). Coglie l'occasione per distingure nel suo giudizio l'opera di Ureche da quella degli interpolatori, Simion Dascălu

Misail, che «nu letopisăță, ce ocări sunt.» [non sono cronache, ma calunnie] (Costin, 1967, 136). Costin preannuncia così fin dal proemio il bersaglio polemico della propria opera, affermando che non saprebbe dire quali siano le fonti delle leggende ingiuriose sull'origine dei romeni come discendenti di briganti e fuorilegge. Al proposito egli scrive «Și mult mă mir de unde au aflat ei aceste basne»

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[E mi meraviglio molto delle fonti in cui essi hanno trovato queste menzogne] (Costin, 1967, 136) aggiungendo di aver fatto attente ricerche su tutte le fonti scritte, senza trovare traccia di questa notizia.

«Eu, iubite cetitoriule, nicăiuri n-am aflat nici un historic, nici latin, nici leahu, nici ungur, și viața mea, Dumnezeu știe, cu ce dragoste pururea la istorii iaste și până la această vârstă, acum și slăbită.

L'idearesponun va

secoli

ie ho trascorso continuamente]), ma egli pensa anche

De aceste basne să dea samă ei, și de această ocară. Nici este șagă a scrie ocară vecinică unui neam, că scrisoarea iaste lucru vecinic. Când ocărăsc într-o zi pe cineva, iaste greu a răbda; dară în veci? Eu oi da seamă de ale mele câte scriu.» (Costin, 1967, 137)

[Io, amato lettore, in nessun luogo ho trovato nessuno storico, né latino, né polacco, né ungherese, e in vita mia, Dio lo sa, con che amore mi sono dedicato alla lettura delle storie, fino alla mia età attuale, ora anche arrivata alla sua debolezza. Di queste menzogne rendono conto loro, e di queste falsità. E non è uno scherzo quando si scrivono falsità antiche su un popolo, perché la scrittura è cosa eterna. Quando insulto un giorno qualcuno, è difficile sopportare; e se è per sempre? Io risponderò personalmente del mio scritto.] che lo scritto è eterno, e per questo chi scrive ha la sabilità di stabilire il vero, conferisce al libro, secondo Costin,

lore sacro. Egli cita poi le sue fonti, « mari și vestiți historici» [glistorici grandi e illustri], «ale căror scrieri sunt clasice, adică perene» [i cui scritti sono classici, cioè imperituri], «și acu scrisorile în lume și vor trăi în veci» [e ora i loro scritti vanno per il mondo e vivono nei

] (Costin, 1967, 137) e, denuncia Costin, dalle loro opere si vedeva chiaramente che né Simeon Dascălul, né il monaco Misail hanno scritto il vero libro umanistico «sacro» di politica e storia.

L'amore per il vero e il ruolo fondante del libro si sposano in Miron Costin con il piacere della conoscenza. Abbiamo già visto, in una delle citazioni precedenti, che Costin dichiara di aver trascorso l'intera vita cercando e leggendo libri («viața mea, Dumnezeu știe, cu ce dragostea pururea la istorii iaste» [la mia vita, Dio lo sa, con che amore per le stor

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al suo propral dulce litterarum otium per Costin fonte d'istru

«diletto lettore», cui continuamente si rivolge. Segue una vera e ia ode della lettura, in cui Costin lega il piacere della conoscenza

del lettore, che diventa zione della mente all'astuzia («iscusită zăbavă» [ozio che rende

a la mente]), e affilat in cui il libro si confonde e va a coincidere a poco a poco con le Sacre scritture:

tri, cândva, și mai slobode vacuri, întru care, pre lângă b bav

riptura depărtate lucruri de ochii noștri ne învață, cu

lettura dei libri tu faccia l'ozio che affina la mente; che

nostri errori lo troviamo. (...) La Sacra Scrittura ci insegna le cose che sono dai

Divers tesso piano gli scrittosi ved o «sacro» di politica e storia.

Râm ne tragem» [Veniamo da Roma]. L'ammirazione per l'antichità, che si manisfesta anchefilologdi frondi Bis mito dell'Occidente:

«Puternicul Dumnezeu, cinstite și iubite cetitoriule, să-ți dăruiască, după aceste cumplite vremi anilor noșalte tre i, să aibi vreme și cu cetitul cărților a face iscusită ză ă, că nu iaste altă și mai de folos în toată viața omului zăbavă, decât cetitul cărților; căci, cu cetitul cărților, cunoaștem pe ziditorul nostru Dumnezeu, cu cetitul laudă îi facem pentru toate a lui cătră noi bunătăți, cu cetitul, pentru greșalele noastre, milostiv îl aflăm. (...) Scacele trecute vremi să pricepem cele viitoare.» (Costin, 1967, 138-139)

Dio onnipotente, gentile e amato lettore, ti conceda, dopo questi tempi terribili dei nostri anni, un giorno, secoli più liberi nei quali, accanto alle altre attività, tu abbia il tempo e con la non c'è un altro e più utile per la vita dell'uomo ozio che la lettura dei libri; perché lrggendo libri libri conosciamo Dio nostro creatore, leggendo gli rendiamo lode per tutte le sue bontà vero di noi, leggendo pieno di pietà per i

nostri occhi lontane, perché quei tempi lontani ci aiutino a capire quelli futuri.]

e volte nei suoi proemi Costin colloca sullo sri classici e i testi biblici, al fine di esaltare il ruolo del libro. Egli

e autore umanista di un libre comIl primo capitolo dell'opera De neamul moldovenilor si intitola

«De Italiia» e descrive il territorio moderno, che corrisponde all'espressione metonimica di Ureche «de la

nello stile barocco, nel gusto per la retorica e nel culto della ia, appare anche nel modo in cui viene descritta l'Italia. Siamo te ad una translatio studii in cui l'Italia prende il posto del mito

anzio e che prepara l'avvento, in epoca moderna, del

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«Aceea țară iaste amu scaunul și cuibul a toată dăscăliia și învățătura: cum era Athina într-o vreme la greci, amu este Padova în Italia, și de alte iscusite și trufașă meșteșuguri.» (Costin, 1967, 143)

[Quel paese è adesso il seggio e il nido di tutta la scienza e l'insegnamento: come era Atene un tempo dai greci, adesso è Padova in Italia, e di altre astuzie e

așa, – și era om de înțăles: "Mie nu-mi trebuiaște să mai cetesc la istorii de

belle arti.]

Anche se conosceva solo per fama l'Italia e il Rinascimento, la sua ammirazione è smisurata:

«Iaste țara Italiei plină, cum să zice, ca o rodie, de cetăți și orașă iscusite, mulțime și desime de oameni, târguri vestite, pline de toate bișugurile. Pentru mare iscusăniia și frumsățări a pământului aceluia, i-au zis raiul pământului (...)» (Costin, 1967, 142)

[È il paese d'Italia pieno, come si dice, come un melograno, di citadelle e città fatte ad'arte, una fitta moltitudine di gente, mercati famosi, pieni di tutte le ricchezze. Per la grande civiltà e bellezza di quella contrada, l'hanno chiamata il paradiso terrestre (...)])

Il questo contesto riappare il simbolo del libro visto come specchio, e Costin esorta il lettore a contemplarsi nello specchio costituito dal libro:

«Caută-te dară acum, cetitorule, ca într-o oglindă și te privește de unde ești lepădând de la tine toate celelalte basne» (Costin, 1967, 143)

[Guardati quindi adesso, o lettore, come in uno specchio e contemplati da dove vieni liberati da tutte le altre menzogne.]

Costin insiste sulle affinità fra Moldavia e Italia, e cita un amico vescovo italiano, il francescano Vito Piluzzi, che introduce come personaggio, e fa anche parlare in prima persona:

«În casa noastră au fost această voroavă, în Iași, cu un episcop italian, care între alte, foarte pre voia gândului mieu, mi-au zis cuvinte de aceste neamuri, zicând

moldoveni, cine sint; preo o seamă de obiceaiuri, foarte bine îi cunosc de unde sîntu (...) Toate acestea întocmai cu italiianii sînt (...) "» (Costin, 1967, 145)

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[A casa nostra c'è stata questa discussione, a Iaòi, con un vescovo italiano che, fra le altre cose, proprio come lo penso anch'io, mi ha detto riguardo a questi popoli – ed era un uomo di buon senso: "Non mi serve leggere storie sui moldavi, chi sono; da diverse habitudini che hanno, capisco molto bene da dove vengono. (...) Tutte queste sono proprie nche dei italiani. "]

Padre Vito Piluzzi, che ha ricoperto anche l'incarico di prefetto, e poi vicariovescovChristsecondo alcuni storici è proprio lui la fonte principale da cui Miron

ndo capitolo si intitol

olazioni di Simeo

re gloriose, li toglieva da sotto le insegn

apostolico, della missione cattolica in Moldavia, nonché o titolare di Marcianopoli, pubblica in romeno il testo Dottrina

iana, che viene stampato a Roma in caratteri latini. Inoltre

Costin attinge le informazioni sull'Italia per scrivere questo capitolo della sua opera.12 Un altro argomento di cui discute Costin nel capitolo sull'Italia è la lingua romena, che egli confronta sia con il latino che con l'italiano (Costin, 1967, 145). Il seco

a «Pentru Împărăția Râmului» [Per l'Impero romano], il terzo «De Dachiia», il quarto «De Traian împăratul» [Sull'imperatore Traiano]. In questo capitolo egli parla, per primo fra gli umanisti romeni, delle rovine archeologiche romane, che lo colmano di malinconia e lo portano verso il topos «ubi sunt».

Per questa via Costin risolve il problema delle interpn Dascălul, che credeva che una terra si potesse colonizzare solo

con ladri e briganti. Costin spiega che i coloni romani erano vecchi soldati, «veterani, adică slujitori bătrâni» [veterani, cioè combattenti anziani]. Egli ci ricorda anche l'etimologia di bătrân [vecchio], che viene proprio dal latino veteranus, e racconta: «Acestor veterani apoi îmbătrâniți în slujbe vestite îi scotea de subt steaguri și le da pre la orașă pre la sate locuri de casă, de vii, de grădini, de pământuri.» [A questi veterani, invecchiati in guer

e e dava loro, vicino alla città o vicino al villaggio, terreni per

lo originale del testo di Peluzzi è: Dottrina christiana tradotta in lingua

. Roma: Stamperia di Propaganda Fide 1677. Per le info12 Il tito valacha dal padre Vito Pilutio rmazioni su Vito Peluzzi e la sua opera si veda Pacelli, 2009 e Teresa Ferro, 2004.

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abitarmodoitorna ironizza,

ttato da Costin anche nelle opere presen(Carto ine romana dei moldavi è motivprima

e, per viti, per giardini o campi] (Costin, 2003, 405); allo stesso l'Italia era stata colonizzata dai cittadini romani. Cantemir qui anche sulle menzogne di Simeon Dascălul e r

notando che sarebbe stato difficile trovare tanti briganti per poter colonizzare un'area così vasta:

«Din temniță cu sutele de mii de oamni cum s-ar afla? Și apoi fămei, iară atâtea tâlhărițe?» (Costin, 2003, 406) [Ma un carcere con centinaia di migliaia di detenuti da liberare, come si sarebbe trovato? E poi le donne, sarebbero altrettante brigantesse?]

L'argomento più evidente fra quelli utilizzati da Costin è quello della periodizzazione, in quanto fra l'impero di Traiano e il regno di Laslo, a cui sarebbero stati inviati i briganti delle carceri romane per colonizzare la Dacia, ci sono molti secoli di distanza.

Nel sesto capitolo descrive le città della Moldavia di origine romana. Nel settimo, rimasto incompiuto, discute sulle abitudini, sulla lingua, sull'evangelizzazione, e apre così la strada all'opera di Dimitrie Cantemir, Descriptio Moldaviae. Nell'ultimo capitolo intendeva descrivere la vita della Dacia romanizzata dopo la partenza dei romani, ma non poté portare a compimento la sua opera.

Dal modo in cui struttura De neamul moldovenilor, si capisce che Costin ha posto al centro dell'opera la relazione fra daci e romani. Il tema della latinità o romanità era stato tra

composte in Polonia, dove, in Cronica polonă [Cronaca polacca], ta, in eleganti versi polacchi, il passato latino dei romeni jan, 1996, 275-279). Per Costin, l'origo di vanto, come aveva affermato già nel poema dedicato anni a Giovanni Sobieski: «Totuși (românii) nu s-au sălbăticit cu totul, din cauza seminței celei bune semănate mai întâi în acest popor, căci natura cea dintâi a lucrurilor nu piere ci, dimpotrivă, se păstrează veșnic, măcar în parte.» (Costin, 1965, 249)

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[Pero ( i romeni) non si sono inselvatichiti del tutto, a causa del buon seme seminato prima in questo popolo, perché la natura originaria delle cose non perisce, ma, al contrario, si conserva per sempre, almeno in parte.]

P. P. Panaitescu ha analizzato, facendo un parallelo tematico, i tre scritti in lingue e stili diversi, in cui Costin sceglie come soggetto l'origi

iane din Asiria.» (Costin, 1965, 244-245)

Non sromen

ne dei romeni (Poema polonă, Cronica polonă și De neamul moldovenilor) ed è pervenuto alla conclusione che in Cronica polonă egli insiste soprattutto sulla geografia e sulla religione dei moldavi, in De nemaul moldovenilor si sofferma sulle «menzogne» di Simion Dascălul, e descrive estesamente l'Italia, mentre in Poema polonă, «l'autore è preoccupato in primo luogo della forma artistica, metrica. Lascia da parte le argomentazioni, l'erudizione e sceglie di insistere alcuni elementi che potrebbero dare un aspetto letterario all'opera: le leggende e le descrizioni (la descrizione della Moldavia vista dalla montagna da parte degli occupanti, la leggenda del cacciatore del mitico uro e quella dell'anello di Negru Vodă).» (Panaitescu, 1971, 570-571)13

In Poema polonă Miron Costin ricorre a molti riferimenti alla mitologia classica, e il suo stile si avvicina qui molto alla moda barocca che piaceva ai polacchi, ma che Costin non aveva adottato nelle opere scritte in romeno. Il riferimento alla Muse ha lo scopo di mettere in scena il topos «translatio studii»:

«zeițele depărtate din Helicon și câte cântărețe sunt în jurul Helespontului, precum și Aretuzele și Pieridele, fecioarele din părțile Siciliei, și n-ați lipsit și voi, D

[le dee lontane del monte Elicona e tutte le dee del canto che sono intorno all'Ellesponto, come anche le Aretuse e le Pieridi, le vergini dalle parti dalla Sicilia, e non siete mancate neanche voi, Diane di Assiria.]

iamo di fronte a un'impresa che caratterizza solo la cultura a, in quanto questo tipo di scrittura cronachistica epica si

13 Vedi anche Panaitescu, 1923.

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pratics'inscrdobbiSobiesVienn

n'opera scritta durante l'esilio

personale del re, con cui Costin aveva intrattenuto rapporti episto ri quando Sobieski non era ancora salito al trono. Costin era cresciuera starimastoccorrpadre iltà della Polonia, in secondo luogo occorre considerare la sua ammirazione per

a spesso. Possiamo affermare che Costin, con il suo Poema polonă, ive nelle linee di tendenza della letteratura polacca. Ma amo anche pensare che qui l'autore si rivolgeva a Giovanni ki, il re che aveva respinto l'attacco dei turchi alla conquista di a e da cui Costin aspettava grazia e libertà. Anche il fatto che Poema polonă è u

andrebbe spiegato e chiarito meglio. Che cosa ha significato per Costin l'esilio in Polonia? Catturato dai polacchi e fatto prigioniero, ma liberato immediatamente su richiesta, quando Constantin Catemir lo invita a tornare in Moldavia. Era stato tenuto prigioniero nel castello

lato in Polonia ed era nobile polacco dall'età di 5 anni. Suo padre to al servizio della corona e si era rifugiato in Polonia, dove era o fino alla morte. Si tratta dunque di un esilio politico, ma e considerare due attenuanti, in quanto in primo luogo Costin era anche cittadino polacco e membro della nob

la cultura polacca e per quella occidentale, in terzo luogo gioca un ruolo anche l'amicizia e l'ammirazione per Giovanni Sobieski, in cui vede la sola speranza di salvezza dei moldavi. Mazilu ritiene che il gesto di Costin, che dedica il poema al re polacco, nascondeva, accanto al desiderio di enfatizzare l'importanza storica del suo popolo, chiare connotazioni politiche, che l'autore esplicita alla fine del proemio:

«Doamne! Dacă păgânul nu va tăia acum ultimul fir al vieții locuitorilor, desigur va preface această țară în pașalâc, căci de mult pregătește acest lucru. (…) Atunci vei vedea, polonule, ce fel de vecini vei dobândi la granițele tale, ce nenorocire înseamnă să locuiești aproape de asemenea vecin. Dacă pierzi prilejul de acum, pe care Dumnezeu și-l arată prin brațul războinic al marelui tău rege, nu vei mai vedea curând altul asemănător.» (Costin, 1965, 234) (Vedi anche Mazilu, 1996, 258; Cartojan, 1996, 279-282)

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«Oddio! Se il pagano non taglierà adesso l’ultimo filo di vita degli abitanti, certamente trasformerà questo paese in pașalâc, perché da molto tempo prepara

excusatio propter infirmitatem Costin

i adus cu multă cheltuială și doice, chemând pe zeițele îndep

ioso e libero, mi affliggevano scene inaud

relazione questo tono pessimistico con il fatto che Miron Costin si

questa impresa (…) Allora verdai, o polacco, che razza di vicini otterai per le tue frontiere, che sciagura significa habitare accanto vicini siffatti. Se perdi questa occasione, che Dio ti mostra per mezzo del braccio guerriero del tuo grande ré, non ne vedrai presto un'altra simile.» (Costin, 1965, 234) (Vedi anche Mazilu, 1996, 258; Cartojan, 1996, 279-282)

La sottigliezza retorica di Costin, raggiunge un livello inattingibile allorché solletica la sensibilità di re Giovanni Sobieski con argomenti filologici. All'inerno di una barocca

tesse un elogio della lingua polacca che colloca al di sopra della latina:

«Mă rușinez de muza mea sarmată în fața maiestății voastre regale (…) Cât privește bogăția limbii polone, dacă se ia bine seama, ea este mai bogată decât vestita limbă latină (…)» (Costin, 1965, 218) (Vedi Mazilu, 1996, 256-257)

[Arrossisco di vergogna per la mia musa sarmatica che si trova di fronte alla vostra regale maestà (...) Per quanto riguarda la ricchezza della lingua polacca, ci si rende ben conto, che essa è più ricca dell'illustre lingua latina]

La menzione della musa sarmatica prosegue con un riferimento alla translatio studii, in quanto si afferma che le muse si sono trasferite in Polonia: «a

ărtate din Helicon» (Costin, 1965, 220) [hai portato a caro prezzo anche balie, chiamando le dee lontane dell’Elicone]. Costin prosegue quindi «Dar pe când aceste zeități zburau pe deasupra țării Moldovei spre regatul slăvit și liber, pe mine mă îndurerau nemaiauzite scene de tiranie neroniană, prădăciuni, cruzimi de nepovestit.» (Costin, 1965, 260) [Ma mentre queste divinità volavano sopra il paese della Moldavia verso il regno glor

ite di tirania neroniana, saccheggi e crudeltà inenarrabili.] Questo trasloco delle muse in direzione dell'Occidente europeo preannuncia la scomparsa del mito di Bisanzio. Possiamo mette in

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trovava in esilio, un esilio dorato e regale, è vero, ma comunque un esilio che lo tiene lontano da casa.

Se il poema inizia con il ricorso alla musa sarmatica, che ha arricchito la dote delle muse latine e greche, il tema centrale dell'opera resta la latinità della lingua e del popolo romeno. Questa idea di nobilitazione propter latinitatem della stirpe moldava aveva come scopo retorico quello di attirare la simpatia del re umanista polacco, il quale, come tutti gli umanisti del tempo, era stato educato nella

enerazione dei valori latini e romani.

delle "ascendenze" romane (anche i cronisti ussi

ntemporanea (Mazilu, 2000, Partea a III-a, 2

(Mazi opere romândel corimarr o operato gli scrittori e i poeti

lcuni scrittori che ci tenevano lla

vMazilu rileva che nel periodo in cui Costin scrive il suo Poema

polonă, «C'era la modar ne avevano costruita una per la stirpe slava) e delle radici conficcate saldamente in un'antichità nobile e gloriosa. (...) il sarmatismo, del resto, era già in voga nel XVII secolo.» (Mazilu, 2000, 233)

Abbiamo osservato che la Polonia non è l'unico luogo di destinazione della translatio studii. L'Italia è l'altro luogo prediletto che Costin descrive come la terra utopica della civiltà e della bellezza. Come abbiamo già accennato, la sua amicizia con il missionario francescano e vescovo cattolico italiano Vito Piluzzi è probabilmente il motivo per cui descrive l'Italia co

34). Costin ha conosciuto la letteratura e la storiografia latina

lu, 1991, 27) e per questo in tutti i suoi proemi fa riferimento alledell'antichità. Nel suo lavoro Vocația europeană a literaturii

e vechi, D.H.Mazilu osserva: «Le esercitazioni svolte nel periodo llegio lo hanno fatto familiarizzare con gli strumenti (a cui à fedele per sempre) con cui hann

del tempo.» (Mazilu, 1991, 27). Questa familiarizzazione con la retorica e la letteratura classica

lo ha condotto a «l'assimilazione di agrande spiritualità umanistica dell'Europa e l'avvicinamento, in un

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pianoche er

i moltefino acontri te di Costin alla cultura rumena sia stata la

aine: il poema filoso

perfezl'occuuman

nella perchéscrive

i questo tipo, che si chiamano questo tipo di scrittura, molti

Analo in questo si mettono sullo stessoVirgil

sufficientemente ampio, alla cultura e alla letteratura barocca, a in piena fioritura nella Polonia del Seicento.» (Mazilu, 1991, 28)

mirazione per la cultura classica si manifesta in modL'amplici in Costin attraverso l'influenza del latino, dalla citazione lla ripresa della sintassi. Il critico G. Călinescu ritiene che il buto più importan

regola zzazione sintattica sulla base del modello latino, che lo scrittore adatta alla lingua parlata rumena con risultati notevoli14.

3.2.2. «Défense et illustration» de la langue roum

ri

fico Viața lumii

La frequentazione della letteratura classica, il gusto per la ione della forma e per la retorica, la convinzione che la lettura è

pazione più piacevole, tutto ciò, come nel caso di altri grandi isti europei, conduce naturalmente Costin sulla via della poesia. Il suo poema filosofico Viața lumii occupa un posto particolare letteratura romena, sia per le qualità estetiche intrinseche, si nel proemio che lo precede Costin sostiene la necessità di

re poesia in lingua romena.

«În toate țările, iubite cetitoriule, să află acest fel de scrisoare, care elinește ritmos să chiamă, iar slovenește stihoslovie, și ca acestu chip de scrisoare au scris mulți lucrurile și laudele împăraților, a crailor, a domnilor și începăturile țărâlor și a împărăției lor.» (Predoslovie – voroavă la cetitoriu). (Costin, 1967, 159)

[In tutte le terre, diletto lettore, si trovano scritti din greco ritmos, mentre in slavone stihoslovie, e inhanno scritto opere e lodi di imperatori, di principi, di signori, e narrato gli inizi della storia dei loro paesi e dei loro imperi.] (Proemio – discorso al lettore).

gamente agli altri proemi, anche piano le scritture sacre e gli scritti umanistici, si citano Omero e io accanto ai padri della chiesa:

14 Călin cu, 1982. Anche i linguisti si sono occupati di questo fenomeno (Cazacu, 1960; Rosetti, 1950).

es

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«Așa au scris vestit istoric Omir războiaele Troadii cu Ahileus, așa Verghilie, începătura Împărăției Râmului și alții fără număr dascăli, într-acest chip și sfinții învățători besericii noastre cum ieste Ioan Damaschin, Cozma. » (Costin, 1967, 159)

[Così ha scritto il celebre Omero sulle guerre con Achille nella Troade, così Virgilio sulle origini dell'Impero di Roma, e innumerevoli altri aedi, in tal guisa hanno scritto anche i santi maestri della nostra chiesa, come Giovanni Damasceno, Cosma.]

Con la modestia del retore, ricorda che il ruolo del suo poema, che gli è costato ben poca fatica, è quello di «illustrare» la lingua romena, nel senso in cui intendeva il concetto la Pléiade francese.

de scrisoare ce să cheamă ățături ar putea fi pre limba

«Nu să poftescu vreo laudă dintr-această puține osteneală, ci mai multu să să vază că poate și în limba noastră a fi acest feliu stihuri. Și nu numai aceasta, ce și alte dăscălii și învromânească, de n-ar fi covârșit vacul acesta de acum de mare greotăți, și să fie și spre învățături scripturii mai plecate a lăcuitorilor țării noastre voie.» (Costin, 1967, 160)

[Non desidero nessuna lode per questa piccola fatica, piuttosto che si veda che anche nella nostra lingua ci possono essere questo tipo di scritture che si chiamano versi. E non solo queste, ma anche altri insegnamenti e arti ci potrebbero essere in lingua romena, se questo nostro tempo non fosse opresso da grandi difficoltà, e se anche gli abitanti di queso paese fossero più orientati verso lo studio dei libri.]

Alla fine di preambolo intitolato «înțelesul stihurilor, cum trebuie să să citească» [la comprensione dei versi, come conviene che si legga], in cui Costin parla in particolare della rima e del ritmo, troviamo un'esortazione rivolta «al suo diletto lettore»:

«Cetindu, trebuie să citești și al doilea și al treilea rându, și așa vei înțelege dulceața, mai vârtos să înțelegi ce citești, că a ceti și a nu înțelege ieste a vântura vântul sau a fiierbe apa» (Costin, 1967, 162)

[Quando leggi, leggi anche la seconda e la terza riga, e così capirai la dolcezza, più potentemente capirai che cosa leggi, perché leggere e non capire è come dare aria al vento o cuocere l'acqua.]

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D. H. Mazilu vede in questo poema «O sensibilitate de tip baroc născută sub apăsarea "vremilor cumplite".»15 [Una sensibilità di tipo barocco sotto l'oppressione "di tempi terribili".] (Mazilu, 2000, 80)

Fortuna labilis16 è un motivo a larga diffusione nella letteratura europea e, come afferma Mazilu, può essere una dimostrazione del modo in cui Costin ha recepito il gusto barocco dalla filiera polacca del XVII secolo. Ma nel caso si Costin fortuna labilis è molto più che un artificio retorico, piuttosto una formula che esprime la sua visione della storia.

3.2.3. Da Fortuna labilis al pessimismo storico «bietul om subt vremi» [il povero uomo schiacciato dai tempi]

Costin si propone la continuazione di Letopisețul Țării Moldovei dal punto in cui lo ha lasciato Ureche, ma la sua visione della storia è assai diversa. Il mito di Bisanzio scompare, e viene sostituito dalla translatio studii verso l'Italia e la Polonia. Non si trova nell'opera di Costin nessun principe della Moldavia che non venga idealizzato. Come Ureche aveva fatto nella sua cronaca solo nel caso di Ștefan cel Mare, Costin anche per il regno di Vasile Lupu trova ragioni di lode e di elogio, mettendone in evidenza il desiderio di essere un seguace degli imperatori di Bisanzio, fino a prendere, da sovrano, il nome di Vasile, da basileus (Costin, 2003, 142-143). Il suo regno di 19 anni viene introdotto con queste parole: «Fericită domniia lui Vasile Lupu» [felice la signoria di Vasile Lupu] (Costin, 2003, 257), ma il capitolo si

15 Fra i temi che Miron Costin trae dalla poetica barocca, D.H.Mazilu identifica il labirinto, la ruota della fortuna (Mazilu, 1991, 38 e Mazilu, 1996, 248), fortuna labilis (Mazilu, 1996, 226), le meditazioni sulla morte e la coscienza della decadenza di tutte le cose (Mazilu, 1996, 223), carpe diem (Mazilu, 1996, 225), la tendenza al dettaglio e la cura del particolare (Mazilu, 2000, vol 2, 165). Vedi inoltre in Mazilu, Mazilu, 1996, il capitolo «Miron Costin sau neliniștea aparentului echilibru», [Miron Costin o l'inquietudine dell'equilibrio apparente] (190-271). 16 Sul poema Viața lumii e sul motivo fortuna labilis, vedi Cartojan, 1996, 282- 287. Ortiz, 1927.

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 163

conclude così: «pre cât au fostu fericită domniia aceasta, cu atât mai cumplite vremi s-au început de atunce, den care au purces den scădere în scădere această țară, până astădz.» [come pure è stata felice questa signoria, tanto più erano aspri i tempi in cui è iniziata, e ha cominciato a decadere sempre più la nostra terra, fino a oggi.] (Costin, 2003, 276)

Ma, dato che Miron Costin lo ha conosciuto personalmente e, alla fine del suo regno, lo ha anche tradito per favorire un suo consigper Valabilis,di Va palmente per questoin moappreletteravisto, filosoficoViața lumii. Il tema fortuna labilis si collega

polacchi. A differe

liere, Ștefan, che prenderà poi il suo posto, la sua ammirazione sile Lupu gli porge il destro per una rilessione sul tema fortuna

una delle idee predilette di Costin. La descrizione della signoria sile Lupu è centrale nell'opera di Costin princi motivo. La sua vicenda politica consente a Costin di sviluppare do narrativo questo motivo che non solo era oltremodo

zzato dalla letteratura barocca, ma affondava le sue origini nella tura latina classica e medievale, ed era già al centro, come si è del poema

così al tema dei «tempi difficili». Costin descrive da stratega gli errori compiuti da Lupu e in

seguito, senza fornire spiegazioni, ritroviamo Costin nel campo avverso. Vasile Lupu17 andrà a finire in una sua tenuta a Costantinopoli, ma Costin non dice perché, né spende una parola per spiegare perché lui ha abbandonato Vasile Lupu – la ragione sarà certamente fortuna labilis.

Il suo Letopiseț è ricco di riferimenti alle relazioni internazionali, in qu to vi compaiono cazachi, turchi e soprattutto ian

nza di Ureche, che si limitava a cercare le fonti di informazione,

lu osserva che Miron Costin utilizza questo topos in modo meno esplicito, dato conta la storia della signoria si Vasile Lupu, sovrano della Moldavia e amico di nonché conosciuto in gioventù dallo stesso Costin: «Esemplare per zione dei meandri della fortuna labilis è la no

17 Maziche racUreche,l'illustra tevole storiella che costruisce "grandezza e decadenza di Vasile Lupu".» (Mazilu, 1991, 35)

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Alexandra Vranceanu Pagliardini 164

sopratpoliticconcludell'aropere 2006). re diletto, Costin prevede una

litica pressoché continua in cui si trova a vivere, e che sembrerebbe rendere del tutto vana la conservazione della memoquandche avtempi li hanno lasciato quell'«ozio che affila la mente»

«Ce sosiră asupra noastră cumplite aceste vremi de acmu, de nu stăm de

Deci priimește, în ceastă dată, atâta din truda

tutto nelle cronache antiche, Costin manifesta la propria visione a, dà esempi, fa delle analogie, espone, commenta e trae le sue sioni. Per inciso noteremo che si tratta di un modo di procedere gomentazione storica del tutto simile a quella presente nelle storiche dell'umanista italiano Nicolò Machiavelli (Inglese,

Sempre attento al suo lettopossibile critica a cui risponde in anticipo:

«Și de ași avia la cineva pentru acestu lucru vreo hulă, că letopisețul acesta mai multu de lucruri străine pomenește, decât de loc de țară, făcut-am acestu cursu, pentru să să dezlege mai bine lucrurile țărâi, care la ce vreme s-au prilejuit. Și aceia să știe că această țară fiindu mai mică, nice un lucru sângur den sine, fără adunare și amestec cu alte țărî, n-au făcut.» (Costin, 2003, 286)

[Anche se ricevessi da qualcuno per questo lavoro una dura critica per il fatto che questa mia cronaca riferisce più su fatti stranieri invece che su quelli del posto, ho seguito questa strada, per chiarire meglio i fatti del paese, quali e quando si sono svolti. E quelli sappiano che questo paese, essendo più piccolo, neanche un singolo fatto da solo, senza unirsi e agire insieme con altri paesi, ha realizzato.]

Questo sentimento dell'imminente fine del mondo è motivato in Costin dalla crisi po

ria della stirpe. Quindi non si tratta solo di modestia del retore o Costin, nel proemio del Letopiseț, si schermisce affermando rebbe desiderato iniziare dalle origini la storia dei moldavi, ma i

urissimi non g d(«iscusita zăbavă») necessario per compiere tale opera:

scrisori, ce de griji și de suspinuri. Și la acestu fel de scrisoare gându slobod și fără valuri trebuește. Iară noi prăvim cumplite vremi și cumpănă mare ământului nostru și noaă. p

noastră, cât să nu să uite lucrurile și cursul țărâi, de unde au părăsit a scrie răpăosatul Ureche vornicul.» (Costin, 2003, 174)

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[Purtroppo arrivarono su di noi questi terribili tempi di adesso, quando non stiamo a scrivere, ma stiamo in ansia e in pianto. E per questo tipo di scrittura ci vorebbe un pensiero libero e senza tempeste. Invece noi guardiamo tempi terribili e le incertezze delle scelte per noi e per la nostra terra. Quindi ricevi, stavolta, solo questo poco dalla nostra fatica, solo per non far dimenticare le cose e il corso dei fatti del paese, dal punto in cui ha smesso di scrivere la buonanima di Ureche il comandante.]

Il topos dei «tempi durissimi» che non lasciano spazio per le imprese umanistiche appare molto spesso in Costin, e si lega alla costellazione concettuale classico-cristiana del pessimismo stoico. Potremmo interpretarlo attraverso il prisma della retorica, prendendo in considerazione che, in ogni caso, in mezzo a innumerevoli battaglie, cambi

quindi

acuzino Stolnicul (1639-1716), il modello padovano e il moto del libro

Per comprendere a fondo il simbolo del libro nella Istoria di

amenti di sovrano, attività diplomatiche, Costin è tuttavia riuscito a trovare il tempo di scrivere due Letopiseț, uno in romeno e uno in polacco, e anche molti poemi e un certo numero di discorsi. Ma se ci ricordiamo che alla fine muore decapitato senza giudizio, senza la possibilità di scolparsi o difendersi, allora «cumplitele vremi» [i dempi durissimi] che descrive prendono una colorazione del tutto differente. In effetti alcune frasi epigrammatiche del suo Letopiseț che sono poi divenute celebri, assomigliano in qualche misura agli aforismi di Cioran:

«Dzicem că de-ar hi cutare și cutare, acmu ar hi într-altu chip. Iară nu sunt vremile supt cârma omului, ce bietul om supt vremi.» (Costin, 2003, 304)

[Diciamo che se allora fosse stato così o cosà, adesso sarebbe interamente diverso. Ma non sono i tempi sotto il timone dell’uomo, ma il povero uomo soggetto ai tempi.]

Vedremo nell'ultimo capitolo il destino di questa frase nel pensiero di Cioran.

3.3. Constantin Cant

Constantin Cantacuzino Stolnicul è necessario conoscere il destino di

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Alexandra Vranceanu Pagliardini 166

questo

).

sintetico (vedi Ruffini, 1973)

umanista valacco, nella cui vita, pur avendo egli scritto relativamente poco, i libri hanno occupato un posto centrale. Allo stesso modo di Miron Costin, e come farà negli anni successivi Dimitrie Cantemir, Constantin Cantacuzino aveva in mente un'opera monumentale che affrontasse il tema della storia dei paesi romeni dalle origini fino all'età contemporanea. A tale scopo ha raccolto una quantità impressionante di libri, ma non è riuscito a terminare il suo lavoro, che arriva solo fino al IV secolo d.C. Ma la figura di Constantin Cantacuzino Stolnicul deve essere vista sia attraverso la lente delle sue realizzazioni come scrittore nel genere storico che collocata nel contesto culturale della sua epoca.

Nato nel 1639, Constantin Cantacuzino Stolnicul apparteneva ad una famiglia dell'alta nobiltà, i Cantacuzino, che aveva avuto fra gli antenati un imperatore di Bisanzio, in quanto accampavano la discendenza dal basileus Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354

Il padre di Constantin, di origine greca, era venuto da Costantinopoli e aveva sposato una principessa romena, dando così origine al ramo valacco della famiglia Cantacuzino. Nel 1665, dopo l'uccisione del padre, Constantin Cantacuzino parte per un lungo viaggio che lo porterà a Costantinopoli, quindi a Venezia, e infine all'Università di Padova, dove studia logica, filosofia, fisica, matematica, geometria. Il ritratto di Constantin Cantacuzino, in piedi e rivestito di un lungo mantello, si può ancor oggi ammirare nella Sala dei Quaranta, dove troviamo appunto quaranta eruditi illustri che hanno frequentato l'Università di Padova. Di questo periodo ci è pervenuto solo un diario di viaggio molto

, da cui possiamo dedurre che cosa ha studiato e che libri ha

comprato a Padova18.

18 Vedi a questo proposito il primo lavoro monografico su Constantin Cantacuzino Stolnicul (Ortiz; Cartojan, 1943).

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Anche se non ha mai accettato di diventare voievoda di Valacchia, Constantin Cantacuzino ha avuto un ruolo importante a corte e può essere considerato una sorta di eminenza grigia (consigliere di fiducia) di due principi regnanti romeni, suo fratello Șerban Cantacuzino e Constantin Brâncoveanu, che hanno lasciato un'impronta profonda nella storia della Romania. Nell'ultimo trentennio del XVII secolo, i fratelli Cantacuzino hanno in mano il

ominio della Valacchia e usano il loro potere per far eleggere sovrani ntacuzino, Șerban

antacuzino sale al trono negli anni 1679-1688, e a lui succede Const

ffari esteri di Bu

dscelti da loro. Il fratello di Constantin CaC

antin Brâncoveanu, nipote di Șerban e di Constantin, che regnerà per ben 26 anni. In questo lungo periodo, Constantin Cantacuzino Stolnicul, consigliere di entrambi, ha potuto applicare nell'azione di governo e di promozione culturale tutto ciò che aveva appreso Padova e nelle altre tappe del suo viaggio di studio.

Constantin Cantacuzino Stolnicul era stato il mentore del nipote Constantin Brâncoveanu, che per questo sceglierà lo zio per amministrare la politica estera e la diplomazia della Valacchia. In questa funzione, Stolnicul organizza la Cancelleria per gli a

carest «reclutando ogni sorta di dragomanni e traduttori, e di esperti nella cifratura e nella decifrazione della scritture e dei messaggi che gli passavano per le mani; sono stati posti all'opera cartografi per elaborare carte geografiche del paese; è stato costituito un corpo di cavallerizzi di fiducia, rapidi e ingegnosi nell'opera di trasmettere e nascondere i messaggi diplomatici, che partono da e arrivano a Bucarest.» (Cantacuzino, 1996, 180)

Ma la carriera brillante del nostro autore avrà un epilogo tragico. Accusato di aver complottato contro l'Impero Ottomano, Constantin Cantacuzino sarà decapitato, i suoi averi confiscati e il suo corpo gettato in mare senza sepoltura, mentre la sua testa sarà esposta nel centro della città a monito per tutti i possibili futuri traditori. «Il 16

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aprile 1716. Ștefan Cantacuzino e suo padre sono condotti al patibolo con catene alla gola, ai piedi e alle mani. Nel mercato di Costantinopoli vengono venduti all'asta i gioielli, i beni, l'oro, l'argento e anche i cavalli di loro proprietà.» (Cantacuzino, 1996, 201) Prima della decapitazione, vengono torturati affinché rivelino il nascondiglio di tutti i propri tesori, quindi uccisi insieme a tutti i membri maschili della loro famiglia.

3.3.1. Il libro come strumento di lavoro e di lotta

Nicolae Iorga sottolinea l'importanza dell'educazione umanistica, ricevuta da Constantin Cantacuzino Stolnicul: «Ma ben presto Constantin Cantacuzino Stolnicul esercitò la guida di questo mondo di letterati riuniti a Bucarest, e la sua Accademia, che prendeva nome da suo fratello, il principe regnante Șerban, riproduceva nella capitale valacca il tipo della scuola di Padova, ma era di lingua greca e con un programma di studio nel quale si leggevano gli stessi autori che a Bisanzio, di cui si ereditavano anche gli studi di grammatica e di retorica.» (Iorga, 1935, 205-206)

Constantin Cantacuzino, che aveva compreso a fondo l'importanza dell'educazione, ha quindi protetto e incoraggiato lo sviluppo delle scuole, fino alla fondazione, secondo il modello dell'Università di Padova, di una scuola superiore a Bucarest, chiamata Academia Princiară de la Sfîntul Sava (1694). Nel suo libro Byzance après Byzance Nicolae Iorga dedica un capitolo a questo tema, intitolato «La renaissance par l’école» [Il Rinascimento per mezzo della scuola] (Iorga, 1935, 201-219), e osserva l'influsso del modello delle scuole di origine bizantina a Costantinopoli, e anche dell'influenza occidentale, in primo luogo di Padova, sulla «rinascita» culturale dell'epoca Brâncoveanu. la circolazione degli uomini di cultura e di scienza ha portato all'integrazione della Valacchia nel circuito europeo. In questo periodo si passa dallo slavone al greco e si

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mode

tacuzino, nel

Cantacuzino cita proprio Aristotele.

rnizza e si laicizza l'insegnamento19. D.H.Mazilu commenta così questa evoluzione delle scuole secondo il modello occidentale nell'epoca Brâncoveanu: «L'Accademia Signorile, istituzione che ha goduto del sostegno generoso e costante da parte di Brâncoveanu, con professori di gran fama (il primo rettore, Sevastos Kyminitis di Trebisonda, discepolo di Corydaleu, cui sono succeduti il cipriota Markos Porphoropoulos e un altro maestro di Trebisonda, Gheorghe Hypomenas, che fu anche «borsista Brâncoveanu» a Padova) ha conferito a Bucarest una posizione culturale privilegiata, di eccellenza, fra i centri d'insegnamento che si trovavano in questa parte dell'Europa. In essa venne adottato un programma di studi che rifiutava il dogmatismo costantinopolitano (tale alleggerimento è evidente dopo le riforme introdotte da Stolnicul Can1694, e da Hrisant Nottaras, nel 1707) e promuoveva, nello spirito del neoaristotelismo secondo l'interpretazione di Corydaleu, gli studi umanistici e classici. La Scuola de la Sfîntul Sava, di rango universitario, fu illustrata da grandi personalità come docenti, Ioanes Komnênos, Mitrofan Grigoras, Gheorghe Maiota, Panait Sinopeus, Ioannes Avramios, Bartolomeo Ferranti, e ha contato fra i suoi studenti anche i figli del voievoda, come Toma e Ștefan Cantacuzino (il secondo, figlio dello Stolnic, sarà il futuro sovrano), Barbu Greceanu e altri rampolli della famiglie aristocratiche, ma si sono qui formati anche giovani provenienti dai paesi balcanici, dal disperso mondo ellenico e anche dalla Russia.» (Mazilu, 2000, 110).

M. Ruffini osserva che l'insegnamento a Padova era considerato il più liberale in Italia e qui si fondava il libero pensiero, soprattutto in seguito alle lezioni del filosofo Cesare Cremonini, che insegnò il neoaristotelismo a Padova dal 1591 al 1631 (Ruffini, 1973, 22). Così si spiega anche perché, nei primi paragrafi del proemio della sua Istoria,

19 Per la relazione fra influenza slavona e greca, si veda Cartojan, 1996, cap.«Epoca lui Șerban Cantacuzino», 331-337; e quindi «Epoca lui Brâncoveanu», 337-346.

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Studiando le relazioni fra la Valacchia e l'Italia, N.Cartojan osserva che «le relazioni politiche e culturali dei nostri paesi con Venezia non furono mai così intense come al tempo di Brâncoveanu.» (Cartojan, 1996, 338) (Vedi anche Ortiz; Cartojan, 1943). L'interesse per una formazione occidentale, il che nel XVII secolo significa per i romeni studiare in Italia, appare ad esempio in un boiardo contemporaneo a Stolnicul Cantacuzino, un certo Matei Crețulescu, che inserisce nel testamento la richiesta che il figlio studi latino e italiano. (Cartojan, 1996, 340-341). Un po' paradossalmente, anche l'influsso greco si fa sentire da noi attraverso la filiera della formazione italiana: «D'altronde, Brâncoveanu aveva appreso da Stolnicul Constantin Cantacuzino quale grande prestigio godeva la

cultura greca nell'Italia cattolica. (Cartojan, 1996, 341)20 Accanto a quella politica, è altrettanto importante l'attività

editor

3 si pubblicano gli Atti degli Apostoli, che

iale di Constantin Cantacuzino Stolnicul. Egli cura dal punto di vista filologico e pubblica diversi libri in romeno. Lo storico Ion Mihai Cantacuzino, suo discendente, così annota riguardo al periodo del principato di Șerban Cantacuzino: «Sul piano culturale, la tipografia della Mitropolia di Bucarest è stata riaperta nel 1680, dopo 26 anni di chiusura: ciò permette la pubblicazione in romeno di numerosi libri religiosi, in quanto la liturgia religiosa, a partire da quella data, viene officiata nella lingua compresa da tutti e non in slavone. Nel 1680 esce il libro Liturghierul, curato dall'erudito Constantin, fratello del voievoda; i testi canonici sono tutti in slavone, ma i commenti vengono redatti in lingua romena. Nel 1682 vengono pubblicati integralmente i Vangeli in lingua romena, in un'edizione a cura di Iordache-Coconul (n.d.r. Cantacuzino), l'altro fratello del voievoda (n.d.r. Șerban Cantacuzino). [...] Nel 168

20 Per l'influsso greco sulla cultura romena, si veda Cartojan, 1996, 341-344. Per l'influenza italiana nell' epoca Brâncoveanu, si vedano Ortiz, 1916; Ruffini, 1933. Per

ena, resta fondamentale Iorga, 1969. l'influsso della letteratura italiana, si veda anche Cartojan, 1928. Per il ruolo di Brâncoveanu nella cultura rom

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vanno

da di Tr

a formare, insieme ai Vangeli, il Nuovo testamento. Nel 1687 esce a Venezia una Bibbia in greco, Divina Scriptura, curata da Nicolas Glykis, su pagamento di «Kir Ioanni Serbano Cantacuzino, voievodul Ungrovlahiei și al Craiovei» [il principe Șerban Cantacuzino, voievo

ansilvania, Valacchia e Craiova]. Questa Bibbia, molto bella e molto rara, è una riproduzione di quella apparsa a Francoforte sul Meno nel 1557. Si tratta dello stesso testo greco alla base della traduzione delle prima bibbia in lingua romena, iniziata da Șerban al tempo del suo regno» (Cantacuzino, 1992, 196). Questi fatti mostrano come per Stolnicul Cantacuzino la pubblicazione di libri in romeno o in greco, presso editori romeni, fosse un'attività essenziale. Inoltre la lingua romena si costruisce in funzione di questo monumento costituito dalla Biblia de la București o Biblia Cantacuzino (Si veda anche Mazilu, 2000, 109-112).

Rimane legata al nome di Constantin Cantacuzino Stolnicul l'esistenza di una steraordinaria biblioteca. Mario Ruffini, che ad essa ha dedicato uno studio molto dettagliato, la considera una delle più

grandi bibliteche private dell'Europa del tempo (Ruffini, 1973, 56). Solo una parte di essa si è conservata, mentre il resto si è disperso in Europa, ma da quanto ci resta possiamo capire che Stolnicul Constantin Cantacuzino preparava la stesura delle sue opere storiche partendo dalla consultazione di molte fonti documentarie. Non possiamo quindi separare la sua opera, Istoria, dalla costituzione di questa biblioteca, in cui si preparava le proprie basi documentarie. Qundi la stesura dell'opera storica è stata preparata minuziosamente attraverso la scelta e la raccolta di un grande numero di testi, con cui l'autore intendeva colmare tutte le lacune che aveva trovato nella

precedente stroriografia.21

21 Vedi Ruffini, 1973, 67-76, in particolare per il problema delle fonti storiche di Constantin Cantacuzino.

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Constantin Cantacuzino Stolnicul fu anche il primo cartografo della Valacchia. Dopo aver terminato, agli inizi del 1713, una carta geogra

ltare di fronte agli ottomani, da cui p

politiche rilevanti e di aver sentito al tempo stesso

fica di Valacchia, la invia al figlio Radu per farla stampare a Padova, al Seminario greco, dove verrà pubblicata nello stesso anno.

Senza essere certo un esiliato, Constantin Cantacuzino Stolnicul può essere considerato un intellettuale che ha fatto parte della repubblica delle lettere, grazie ai suoi studi in Italia, ma anche a Constantinopoli, un intellettuale che ha voluto sempre essere informato sulla vita culturale europea, e che che ha definito la propria identità e quella della sua cultura in rapporto ai centri culturali da lui frequentati. Data la sua origine, in parte romena, in parte greca, Cantacuzino ha avuto una sensibilità nazionale particolare, che traspare dalle sue opere sia nel modo in cui interpreta il topos della «translatio studii», che nel modo in cui definisce l'identità nazionale.

Da un altro punto di vista, il fatto che aveva assunto, parlando in termini moderni, la guida degli affari esteri del principato, è una prova ultariore di questa sua apertura verso l'Europa, un'apertura che gli sarebbe costata la vita, come del resto al suo principe, a Constantin Brâncoveanu. Tutti gli autori di cui si parla in questo capitolo, Miron Costin, Dimitrie Cantemir e anche Stolnicul Constantin Cantacuzino, si sono preoccupati delle relazioni diplomatiche fra i paesi romeni e l'Europa, relazioni che cercano di occu

oliticamente dipendono, ma che alla fine vengono scoperti dai turchi e giustiziati o esiliati. Li accumuna quindi l'interesse per la cultura europea, il desiderio di liberare le terre romene dalla dominazione turca, e, dal punto di vista delle attività concrete, il fatto di aver ricoperto cariche

il bisogno di scrivere un libro fondamentale, un'opera in cui si spieghi al mondo e ai romeni stessi la vera origine e identità culturale della stirpe. Tale interesse di definirsi rispetto all'Europa si manifesta politicamente con lettere diplomatiche e con accordi, mentre l'interesse culturale trova espressione nella scrittura di libri in cui si

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presenti la storia culturale dei romeni. Così si spiega che il topos del libro assume forme simili nelle loro opere.

Bibliofilo e appassionato di storia, quindi, Costantin Cantacuzino Stolnicul si è impegnato per molti anni nella crittura dell'opera intitolata Istoriia Țării rumânești întru care să cuprinde numele ei cel dintâi și cine au fost lăcuitorii ei atunci și apoi cine o au mai descălecat și o au stăpânit până și în vremile de acum s-au tras și stă Istoria Țării Românești, la cui redazione, interrotta dalla morte violenta, non viene portata a termine. Rimasto manoscritto, il testo è sparito dalla circol

omysiens (1726). F.Marsigli gli aveva richiesto alcune inform ioni sulla storia della Valacchia, e lui aveva rinviato la risposTagliaritrovatransil mitati e Circoli della Città, Fiumi, Monti, Selve, la ling

collegtemi della romanità della lingua e del popolo romeno, presenti nella

i punti in comune fra la Istorie di Cantacuzino e le opere storiche dei suoi predecessori moldavi. Cantacuzino conosceva l'operSimion D fonte di sospet

azione per due secoli, prima di essere ritrovato, in copie presenti in più monasteri, nel secolo XIX, in cui era pervenuto in forma anonima. Abbiamo saputo che Stolnicul Cantacuzino lavorava alla sua opera, grazie ad alcune lettere scritte in risposta al generale Ferdinand Marsigli (1658-1730), autore dell'opera Danubius Pannonic

azta, dicendo che stava lavorando ad una storia del paese. Carlo vini ha attribuito a Constantin Cantacuzino molti manoscritto ti fra le carte di F. Marsigli: Nomi geografici per la lingua

vana, Nomi geografici de' Codi tutta la Dacia, cioé Transilvania, Valacchia, Moldavia și Nomi per ua valacca (Ruffini, 1973, 33-34). Allo storico Nicolae Iorga (Iorga, 1889) va il merito di aver ato la corrispondenza fra Constantin Cantacuzino e Marsigli ai

Istorie, e di aver potuto così attribuire l'opera anonima proprio a Stolnicul Cantacuzino.

Sono molti

a di Ureche, che si era procurato a Iași con le interpolazioni di ascălul. Queste interpolazioni sono anche per lui

to e di irritazione. Cantacuzino conosceva poi personalmente

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Miron Costin, con cui si era anche imparentato, ma siccome tutti e tue scrivono le loro opere contemporaneamente, entrambi si autopresentano come pionieri. Per quanto riguarda Stolnicul, in primo luogo vorremmo sottolineare il suo desiderio di iniziare la storia dalle origin e il suo interesse maggiore concentrato sulla latinità dei romentenebrpresen a propria impresa e parla di assenza totale di fonti (

dalle Predos riticano i predecessori, che non sono stati capaci

è per chiunque trovare la strada e dare inizio a qualsiasi e è per quello che in nessun modo e da nessuna parte trova

Da auda zerfonti p i.

che possa sapere da sé, nessuno al mondo ha sse stato da un altro istruito.]

i, i. Tuttavia il simbolo del libro come luce che illumina nelle e è un tema ricorrente. Anche Cantacuzino esordisce tando l'unicità dell

sulle fonti latine di Cantacuzino, vedi Ruffini, 1973, 37). Anche il suo desiderio di far uscire la storia della Valacchia temebre dell'ignoranza appare nel proemio, che lui intitola lovie, dove si c

di conservare memoria dei secoli passati, un elogio indiretto del ruolo fondante del libro, analogo a quelli che abbiamo trovato in Ureche e Costin:

«Cu greu și cu strâmt iaste neștine a da cap și începătură fieștecărui lucru, mai vârtos celuia când nici cum, nici de nici o parte ajutor iaste, nici știință de la alții, sau pomenire măcară să află ca o povață, făcându-se și ca o luminare arătându-se, ca să poată ajuta cel ce nu știe de la cel ce știe și cel din întuneric să iasă la lumină.» (Cantacuzino, 1988, 1)

[Difficile e pesante cosa, ma più difficilaiuto, né conoscenza presso altri, o almeno una menzione che si trovi come un consiglio, che si mostri come una luce, perché quello che non sa possa essere aiutato da quello che sa, e quello che è nelle tenebre possa uscire nella luce.] tentico umanista, afferma che nessuna conoscenza può nascere o, e che ogni insegnamento del vero ha bisogno di basarsi su recedent «Că nici unul în lume nu iaste carele den sine numai să știe și nici unul nu au aflat nimic, până n-au fost de altul invățat.» (Cantacuzino, 1988, 1)

[Poiché non c'è nessuno al mondomai trovato nulla, finché non fo

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 175

Comestudialoro mtradiz

ifficile, dico, è per me, visto che non ho trovato finora, per quanto ho faticato,

scrivela scarsembr a nondimeno critica esplicmemo

hi sono stati gli abitanti di questo paese che si siano messi a scrivere sulla

Canta nza di testi storici, che

abbiamo anticipato, cita qui Aristotele, il filosofo che aveva to a Padova, e Diodoro Siculo, poiché entrambi hanno lodato i odelli e le loro fonti, ma poi ritorna sulla mancanza di una

ione umanistica nel suo paese: «Cu greu, zic, foarte-mi iaste, de vréme ce nu aflu eu pănă acum, măcar cât am ostenit, cât am cercat, cât am întrebat (...) că doar aș fi aflat vreun istoric, carele și de țara aceasta, (...) precum de alte țări fac și scriu pe larg toate.» (Cantacuzino, 1988, 1)

[Dho cercato, ho chiesto (...) se solo avessi trovato uno storico che si fosse occupato di questo paese, (...) come in altri paesi fanno e scrivono in lungo e in largo di tutto ciò.]

Si nota qui che importanza aveva per l'autore il fatto che gli altri paesi avevano quello che la Valacchia ancora non aveva. Non sfugge quindi che le informazioni che ha avuto sulla storia degli altri paesi, nel corso degli studi da lui effettuati, hanno fatto nascere in lui il desiderio di

re una storia dettagliata dalla propria terra. Il primo motivo per sità di fonti storiche è, secondo lui, il fatto che la Valacchia sia ata un paese piccolo e quindi marginale, mitamente la mancanza di un libro che abbia conservato la ria del passato: «puțini au fost pământenii aceștii țări, cum să vede, ca să șază ei să scrie ale patriei lor și să istorisească întâmplările moșiei lor, precum fac alții de ale lor, și de nu mulți și multe, însă tot fac, iar la noi mai nici unul.» (Cantacuzino, 1988,2)

[pocloro patria e che abbiano raccontato gli avvenimenti della loro terra, come fanno gli altri con le loro, e se non molti e molte, comunque lo fanno, e da noi quasi

ssuno.] ne cuzino si mostra così irritato per l'asse

afferma che i romeni sono il solo popolo rimasto senza un libro che getti le basi della loro identità:

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«Această dară scădére mare și jale doar într-acest norod al neștiinței și al nevrerei să învéțe fiind, iaste pricină, de astăzi, nu numai de râsul altora și de ocară suntem, ci și orbi, muți, surzi suntem de lucrurile și faptele celor mai de demult s-au întâmplat și s-au făcut (…) au lăsat toate de s-au surpat în prăpastia uitării și întru întunerecul de véci au rămas.» (Cantacuzino, 1988, 3)

[Quindi, questo declino e patimento dell'ignoranza e della non-volontà di imparare solo in questo popolo essendo, è la ragione, che oggi, non solo la derisione e la zimbello degli altri siamo, ma anche ciechi, muti e sordi delle cose e dei fatti che sono successi e che sono accaduti tempo fa (...) hanno lasciato che tutto crolli nella voragine dell’oblio e nelle tenebre eterne sono rimasti.]

i si è servito, criticandone la scarsità di inform ioni e il carattere spesso soggettivo di quelle che vengono fornite

e e a indebitarmi] (Cantacuzino, 1988, 5), tuttavi

suoi abitanti ale diffamano, e molti ingiurie trovano.]

Dunqfonti c rispos

hiunque, come gli va, può dire e scrivere. Perché non c’è nessuno, né con la

Spiega quindi di che fontaz (Cantacuzino, 1988, 5). Osserva quindi che le sole fonti

credibili, fino ad un certo momento della storia, sono soltanto straniere «pe la alții voi umbla a cere și a mă îndatori» [dagli altri andrò in giro a chieder

a anche queste fonti parlano dei romeni sminuendone il valore:

«Măcar că unii dintr-aceia ce scriu de dînsa, ca niște streini ce sunt, și sî voitori de rău unii, nu adevărul scriu, ci-i micșorează lucrurile, și pe lăcuitorii ei rău îi defaimă, și multe hule găsesc.» (Cantacuzino, 1988, 5)

[Anche se certi di quelli che scrivono di essa, poiché stranieri sono e di cattiva fede alcuni, non la verità scrivono, ma ne diminuiscono i fatti, e im

ue, secondo Cantacuzino, in assenza di umanisti romeni e di redibili, ci sono quesiti sulla storia a cui nessuno potrebbe dareta:

«cine cum îi iaste voia poate și zice, și scrie. Căci nu iaste nimeni, nici cu condeiul, nici cu palma, a-i sta împotrivă, și a-i răspunde.» (Cantacuzino, 1988, 5)

[cpenna, né con la mano, a opporsi e a rispondere.]

Guardiamo per un attimo al simbolo del libro come a un duello cavalleresco: alle parole infamanti si può rispondere con la penna o

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con il pugno. Cantacuzino si accinge dunque a scrivere per mettere a riparo la stirpe dei romeni da quelli che hanno scritto falsità («basne»), come aveva già affermato Costin parlando di Simeon Dascălul, quindi nel loro caso il libro è anche un'arma. Accettare il guanto di sfida di questo duello umanistico contro i detrattori è un obbligo d'onore, che solo un umanista può adempiere, come nel caso di Stolnicul Cantacuzino, che ha compreso in pieno l'importanza fondamentale dell'impresa. 3.3.2. Trans

da lu storico, sia attraverso il comm(Canta

on fa nessun cenno al mito di Bisanzio, mentre ricorda la cultura

a acea vrednicie a lor ieșise acel cuvînt și acea ce să , iaste varvar", și care zisă ascultînd-o romanii, și lor

latio studii Cantacuzino si sofferma a lungu sul problema della romanità, i affrontato sia dal punto di vista ento critico delle fonti che presentano imprecisioni cuzino, 1998, 29). Ci sorprende il fatto che, pur essendo egli figlio di un greco,

ndegli antichi greci e in particolare l'uso che essi facevano del termine «barbaro», che egli analizza secondo diverse prospettive e nelle varie tappe della civiltà europea. La prima fase è l'invenzione del termine, risalente ai greci, poi viene la ripresa da parte dei romani:

«De acolo dară, întîi, și de lzice că "tot cine nu iaste elenzicea că tot cine nu iaste elen, nici roman, iaste varvar.» (Cantacuzino, 1988, 30)

[Da lì quindi, per primo, e da quel valore loro erano venuti quella parola e quel modo di dire che "tutto ciò che non è greco, è barbaro", e questo detto sentendolo i romani, anche loro dicevano che tutto ciò che non è greco o romano è barbaro.]

Sempre a proposito dei greci, Cantacuzino riconosce la celebrità di «toate istoriile și toate scripturile câte de ei scriu» [tutte le storie e tutti i libri scritti da loro] (Cantacuzino, 30), ma insiste poi sul fatto che si è

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avuta

ocche, e anche se legge e apprezza scrittori italiani come Tasso o Ariosto, tuttavia la compaCantaumangrandricerca

gîndesc ce au fost și la ce sunt: dăscălia au

Ruffintrovia oluzione storica, della caducità

la totale decadenza dei greci, motivata secondo il topos, comune all'epoca «fortuna labilis». Non è facile identificare nello stile di Constantin Cantacuzino Stolnicul caratteristiche bar

rsa di fortuna labilis non ci pare giustifichi l'attribuzione di cuzino alla corrente del Barocco22. Piuttosto pare che egli, da ista-politico, faccia uso del topos per spiegare la decadenza di un e popolo, la loro caduta in diverse forme di barbarie, e vada alla di una ragione:

«astăzi acel neam atîta iaste de scăzut, de supus, de hulit și de ocărît, și de mojic, cît milă să face tuturor celor ce știind,pierdut, stăpînirile au răpus, cinstele ș-au stins și de toate cîte mai întîi au avut slave, s-au dezbrăcat.» (Cantacuzino, 1988, 31)

[oggi quella stirpe è così decaduta, sottomessa, ingiurata, offesa e abbattuta, che pietà hanno tutti quelli che sapendo quello che c’è stato, pensano a quello che c’è ora: l’istruzione l’hanno perduta, le proprietà le hanno disfatto, gli onori si sono spenti e di tutto ciò che prima gli dava la gloria, si sono spogliati.]

i ritiene che Cantacuzino conosca la filosofia della storia, poiché o nei suoi scritti il senso dell'evm

di tutte le cose, e collega queste riflessioni alla diffusione delle teorie filosofiche di Teofil Coridaleu e alla filosofia neoaristotelica, di cui abbiamo già parlato, insegnata da Cesare Cremonini, all'Università di Padova (Ruffini, 1973, 38)23.

22 Mazilusolo con il s

non crede che il gusto per il Barocco di Stolnicul Cantacuzino si giustifichi uo soggiorno in Italia, bensì che sia opportuno ipotizzare un suo interesse

specifico per la letteratura e la poetica barocca: «La sua particolare applicazione allo stile (documentata nell'opera Istorie) trova un sicuro riscontro nei testi di Tasso (il Rinaldo, nell'edizione del 1562, e l'Aminta, pubblicata nel 1581, si trovavano fra i volumi

che per la

della famosa biblioteca Cantacuzino), di Giovanni Francesco Loredan (De gli scherzi geniali, 1678, e Delle lettere, 1708), di Paolo Segneri o di La Calprenède.» (Mazilu, 2000, 270-271). Il fatto che Cantacuzino apprezzava la letteratura barocca si vede certo dai titoli presenti nella sua biblioteca, ma ciò, insieme al suo interesse per lo stile, non giustifica a nostro parere la sua inclusione nella corrente barocca. 23 Il nostro autore era versato nel campo delle controverse religiose (Ruffini, 1973, 133) e ha avuto una passione costante per Aristotele (Ruffini, 1973, 113), ma an

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Stolnicul Cantacuzino osserva inoltre che, nel periodo in cui , i greci erano emigrati «dai romani», cioè in Italia, e su questo

e sviluppa osservazioni molto iscriveironiz nteressanti:

vață, de la carii și pănă astăzi pe

le scienze imparando, certi, per godere del loro frutto,

ati da loro, dai romani.

Cantacuzino elenca poi una serie di personaggi illustri che hanno

come motivazioni la decadenza politica, cioè la per

za «ei în Țara Frîncească să duc și acolo științéle învățînd, unii, ca să folosească rodul lor cevași, înapoi se întorc și pe alții înalocurea să vede că au cîte o școlișoară de învață. Iar alții acolo rămîind, să paistășescu, și așa împotriva orthodoxiei cestorlalți a îmboldi și a înghimpa să ascut și scriu, măcar că-i batjocoresc frâncii, zicîndu-le că descăliile lor, adicăte ei, elinii, au fugit și au mers la dînșii, la romani. Carii odată toți feciorii oamenilor celor mari și ai domnilor romani mergea, trimițîndu-i părinții lor, în Elada, la Athine, de învăța carte grecească și în științe acolo procopsiia desăvârșit.» (Cantacuzino, 1988, 31)

[loro in Italia vanno e lìindietro tornano e ad altri insegnano, dei quali fino ad oggi si vede qua e là, che hanno una scuoletta per insegnare. E altri lì rimanendo diventano papisti e così contro l’ortodossia di questi altri cominciano e fustigare, pungere, spronare, si affilano e scrivono, anche se gli italiani li deridono, dicendo questi che le loro dotte signorie, cioè loro, i greci, sono fuggiti e sono andLaddove una volta tutti i figli delle persone dei grandi andavano, mandandoglieli i loro genitori lì, in Grecia, ad Atene, per studiare greco e perfezionarsi nello studio delle scienze.]

rispettato a Roma la cultura greca, Giulio Cesare, Cicerone, Augusto, Adriano, per spiegare meglio al lettore il concetto di translatio studii, per cui vengono fornite

dita di indipendenza della Grecia, e il logoramento della lingua greca:

filosofia neo-aristotelica. Ruffini osserva che nei suoi studi affronta sia Tommaso d’Aquino, che Mailha, Louis Godin, Angelo Paciucchelli e altri, e che in questo campo la sua biblioteca era ben fornita. Ruffini rileva in Constantin Cantacuzino Stolnicul un eclettismo letterario e uno spirito privo di pregiudizi (Ruffini, 90, 91), che leggeva sia Tasso o Ariosto, sia la teologia e la prosa latina. Inoltre era sempre informato su tutto perché leggeva costantemente giornali di diversi paesi (Ruffini, 1973, 92-96).

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«robi supuși altora căzînd, ș-au amestecat limba cu tot feliul de varvari, cum se vede că den tot feliul de limbi au într-însa amestecate cuvinte și așa stricîndu-ș-o, cu dînsa trăiesc.» (Cantacuzino, 1988, 31)

[schiavi sottomessi ad altri diventando, si sono mescolati la lingua con quella di altri barbari, come si vede, che, da diverse lingue, hanno mescolato in essa delle

Lo scrpuntoautoct ranti greci, o almeno in parapproil paes

să jăfuiască și ca să

danno consigli.]

Ma d'conser(Canta

dell'or ne») di Simio ălul (Cantacuzino, 1988, 36). manca in lui ogni riferimento

parole e, così rovinandola, con essa vivono.] ittore cambia bruscamente prospettiva e guarda così i greci dal di vista dei romeni. Egli assume quindi il punto di vista degli oni del suo tempo, che vedono negli emigte di essi, una massa di sfruttatori e arrivisti pericolosi, che fittano della posizione di protetti dagli ottomani, per sottoporre e a questi soprusi: «ei prin mijlocul turcilor la Moldova și în Țara Rumânească vin. Ci de la unii să véde și rămîne și folos în pămînturile acestea; iar alții ca răpească numai ce vin. (...) și multe rele și grozăvii fac și aduc, și la réle căi pe domnii țărîlor pun și sfătuiesc.» (Cantacuzino, 1988, 31)

[loro grazie ai turchi in Moldavia e in Valachia arrivano. E certi si vede che hanno da trarre profitto da queste terre; e altri per predare e per rubare vengono solo. (...) e cose terribili fanno e portano, e su cattive strade i principi del paese conducono e gli altra parte loda i greci rimasti nell'Impero ottomano per aver vato la propria fede, anche sotto la dominazione turca cuzino, 1988, 32). Appare anche nella Istorie di Cantacuzino Stolnicul il tema igine romana dei romeni, e la critica alle falsità («bas

n Dascalla storia romena propriamente detta, tanto che non potremmo ricavare una figura di principe-modello dalle pagine di Cantacuzino.

A differenza degli altri scrittori trattati finora, incontriamo in Stolnicul Cantacuzino il tema dell'origine mista, che egli introduce con attenzione e prudenza fra le dispute sulla latinità dei romeni. Citerò in particolare due paragrafi, da cui risulta la visione di Cantacuzino sulla

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questione dell'identità nazionale. Nel primo afferma che l'origine romana e romena dei romeni di tutte e tre le provincie risulta dal fatto che si capiscono nella stessa lingua; quindi passa ad un argomento che lo interessa diversamente:

«Însă rumânii înțeleg nu numai ceștea de aici, ce și den Ardeal, carii încă și mai neaoși sînt, și moldovénii, și toți cîți și într-altă parte să află și au această limbă, măcară fie și cevași mai osebită în niște cuvinte den amestecarea altor limbi, așa cum s-au zis mai sus, iară tot unii sînt. Ce dară pe aceștea, com zic, tot romani îi ținem, că toți aceștia dintr-o fîntînă au izvorît și cură. Nu zic însă că toți, toți cîți sînt astăzi să află lăcuitori într-aceste țărî, că sînt toți români (...) Că și domnii încă mai mulți den străini au stătut, cum și Basarabeștii se trag din neam sîrbesc și alți domni de alte neamuri , cum în viețile lor să va arăta, încă cîți să vor ști den ce rod au fost. Ca acéstea dară neamuri de tot feliul, viind ei aici, și căsătorindu-se, și amestecîndu-se cu lăcuitorii pămînturilor și așezîndu-se, fiind dintr-aceia mai mulți vrédnici și destoinici, rămîind moșténi și numele de a să chema rumâni.» (Cantacuzino, 1988, 40-41)

[Però per romeni intendo non solo questi di qui, ma anche quelli della Transilvania, che sono ancora più schietti, e i moldavi e tutti quelli che si trovano in altre parti, e hanno questa lingua, anche se un po’ diversa in certe parole

per la

uin mescolanza di altre lingue, come si è detto sopra, ma sono tutti gli stessi. E

di, come dicevo, sempre romani li chiamiamo, perché tutti da una fonte

come si

ino è il primo storico che, anche considerando la propria

qsono sgorgati e scorrono. Non dico pero che tutti, tutti quelli che sono oggi abitanti di questi paesi sono romeni. (...) Perché, anche i principi, molti dagli stranieri sono venuti, come ad esempio i Basarab sono di stirpe serba e altri principi di altre stirpi, mostrerà nelle loro biografie, quanti ancora si saprà da che frutto vengono. Siccome queste stirpi di tutti tipi, venendo loro qui e sposandosi e mescolandosi con gli abitanti del posto e installandosi, essendo di quelli più valorosi e capaci, rimangono a ereditare il nome di romeno.» (Cantacuzino, 1988, 40-41)

Manca, purtroppo, la storia propriamente detta di questi scambi e incontri che hanno portato alla formazione del popolo romeno, che Stolnicul aveva intenzione di descrivere nel proseguimento della propria storia. Ma è importante sottolineare che, accanto alla ripresa degli stessi topoï, legati alla romanità e alla continuità storica, Stolnicul Cantacuz

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origine greca, introduce l'elemento della combinazione e del in virtù di incontri e

incroc

odo in cui Stolnicul Cantacuzino è riuscito a ridefinire in ter

romeno.

cambiamento continuo dell'identità nazionale i che modificano la combinazione e la composizione etnica. Ma

allora che cosa resta, che cosa unisce gli individui in modo che si possano chiamare romeni, come ha detto in una citazione precedente? Due elementi in primo luogo: la lingua e il fatto che si sono insediati («s-au așezat») in uno stesso territorio. Sembra poco, ma è esattamente il pensiero che incontreremo negli scrittori moderni, allorché discutono dell'identità migrante, come caratteristica dell'epoca moderna, e riflettono su questo tipo di identità mista.

Stolnicul Cantacuzino sviluppa nel paragrafo successivo la sua idea della combinazione, della sintesi ineffabile e indecidibile che porta alla formazione di un solo popolo anche presso i turchi («tac de turci că îmi pare că nici unul neaoș turc nu e» [taccio dei turchi dove, mi sembra, neanche uno è soltanto turco]) o i russi (și la Moscu – lasă altele – că mai mulți să trag den fel tătărăsc și leșesc [anche a Mosca – lascio le altre – molti camminano in modo tartaresco o polacco]). E conclude:

«Că nici un rod osebit de oameni în véci poate rămînea în lume, nici feliurile limbilor în mii de ani tot acélea neschimbate și nemutate pot sta. Că nimic subt soare iaste stătătoriu, ci toate cîte sînt, în curgere și în mutări sînt zidite de vecinica lui Dumnezeu înțelepciune și putere.» (Cantacuzino, 1988, 41)

[Perché nessuna razza può rimanere per secoli la stessa nel mondo, né i tipi di lingue, per migliaia di anni, invariate e immutate possono restare. Perché niente è uguale sotto il sole e tutto ciò che esiste per scorrere e per mutare è creato, dalla eterna di Dio sagezza e potenza.]

Accanto al topos dell'instabilità, incontrato frequentemente già nella Bibbia, in Eraclito e poi nella poetica barocca, credo che sia importante notare qui il m

mini migranti l'identità nazionale, che nell'epoca fanariota, che seguirà di lì a poco, porterà invece allo sviluppo del nazionalismo

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3.4. Dimitrie Cantemir (1673- 1723), l'esiliato perenne

Per Cantemir la conoscenza, la cultura, l'educazione e la scrittura dei libri non è solo una via di accesso alla repubblica delle lettere, bensì un modo per otterere il potere. Suo padre, Constantin Cantemir, contadino libero (răzeș) del villaggio di Silișteni non aveva posseduto alcuna cultura, per questo fu bersaglio delle ironie dei coltissimi fratelli Costin, allorché salì al trono della Moldavia. Constantin Cantemir si era fatto un nome combattendo come mercenario per il polacchi, ed era poi diventato voievoda di Moldavia tramite una rete di abili relazioni diplomatiche che aveva intessuto con la Sublime Porta. Aveva tuttavia compreso il ruolo essenziale dell'ed

e austriaci, russi. Mentre si applica per imparare molte lingue straniere, compie studi di filosofia, storia, retorica e grammatica.

ucazione e per questo aveva invitato presso di sé un precettore d'eccezione per il figlio, Ieremia Cacavela, un celebre traduttore greco che aveva studiato a Leipzig e a Vienna. A 15 anni Dimitrie viene inviato dal padre come ostaggio, ma anche per completare i suoi studi, alla corte ottomana. Poiché a Costantinopoli fiorivano numerose scuole e biblioteche, il giovane Cantemir ha approfittato del suo soggiorno per assimilare un ricco patrimonio di conoscenze, che avrebbe poi messo a frutto nelle sue opere in età matura. Nel periodo trascorso a Costantinopoli, un periodo che per lui è stato di formazione e di apertura di orizzonti, Cantemir ha lavorato instancabilmente, in primo luogo per costruirsi una rete di relazioni, tanto con i turchi, nelle famiglie in cui viene accolto, fino ad avere il privilegio di consultare la biblioteca sultanale del serraglio, vietata normalmente a tutti, quanto con gli occidentali presenti nella città, francesi, tedeschi

In questa fase della sua vita, Cantemir si prepara ad ottenere il trono di uno dei voivodati romeni. A tal fine concorda il matrimonio

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con C

lla nobiltà locale e ottiene così da Pietro il rande la nomina nel Senato russo. La sua morte avviene nel 1723.

ale ome filosofo. Dopo Divanul (1698), che ha costituito il suo debutto

editor

no protagonisti e vicende delle famiglie Cantemir e Brân

asandra Cantacuzino, il che gli offre il diritto di avere pretese sul trono di Valacchia. Ma questa unione coniugale gli aliena in primo luogo le simpatie di Constantin Brâncoveanu, e anche quelle della stessa famiglia Cantacuzino. Nel 1710 ottiene il trono della Moldavia, e fra i suoi primi atti di governo si registra un trattato di alleanza e vassallaggio nei confronti dello Zar di Russia Pietro il Grande, in funzione anti-turca. Segue il conflitto inevitabile con i turchi e nella battaglia di Stănilești escono vincitori questi ultimi, per cui Cantemir si vede obbligato all'esilio in Russia, dove ripara presso i suoi alleati, e dove resterà per tutta la vita. Qui si sposa in seconde nozze con la figlia di un principe deG

Dimitrie Cantemir aveva iniziato la propria vita intellettuc

iale, ha scritto un trattato di metafisica e uno di logica. Quindi i suoi interessi si sono reindirizzati verso la storia e la filologia, con Descriptio Moldaviae (1714-16), e con diversi trattati storici che hanno preparato la sua opera maggiore: Hronicul Romano-Moldo-Vlahilor (1719-1722). Tuttavia Dimitrie Cantemir era diventato prima famoso come orientalista, in quanto a lui si deve un'importante storia dell'Impero ottomano, Incrementa atque decrementa Aulae Othomanicae (1714-16)24. Oltre a questo, si devono a lui scritti sulla musica orientale, e anche composizioni di musica orientale. Fra la sua produzione più strettamente letteraria, ricorderemo un romanzo allegorico, Istoria ieroglifică, in cui dietro i personaggi, che sono degli animali, si nascondo

coveanu.

24 A proposito di quest'opera, la filologa Nina Façon parla di una coincidenze di idee con i corsi e ricorsi della storia, di cui ha scritto Giovan Battista Vico, anche se non si può parlare con certezza di una conoscenza diretta delle opere di Vico da parte di Cantemir (Condrea Derer, 2011, 163-173).

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Dalla mole enorme degli scritti di Cantemir, abbiamo scelto alcuni passaggi particolarmente significativi per individuare alcuni elementi di continuità con l'opera di Miron Costin. In un intellettuale con una cultura così ricca e con interessi tanto vari e caleidoscopici, il simbolo del libro di arricchisce di nuove valenze. Ci sono altri due aspetti per cui Cantemir deve essere considerato un esempio d'elezione per questa ricerca: da un lato siamo di fronte ad un grande amante della retorica, dall'altro si tratta di un perenne esiliato, che a lungo, sia per la prima che per la seconda caratteristica, raffina l'espressione e il contenuto concettuale delle molte opere dedicate alla al tema della romenità. 3.4.1. Una cultura cosmopolita: Cantemir fra Oriente e Occidente

Dimitrie Cantemir possiede, probabilmente in misura maggiore rispetto agli altri intellettuali della sua epoca, una formazione veramente cosmopolita. Ma questo tipo di formazione intellettuale da «Giano Bifronte» (vedi Muthu, 1973, 3-13) si poteva incontrare anche in altri intellettuali di quest'area, fra la fine de XVII e gli inizi del XVIII secolo. Virgil Cândea scrive: «La storia delle relazioni Oriente-Occidente non potrebbe trovare un'epoca, o un territorio, più fertili per le indagini che l'Europa sud-orientale del XVII secolo. Prima che si formasse una scuola orientalista in Occidente, c'erano qui scrittori cristiani che possedevano, per la loro stessa formazione, due spiritu

alità, cristiana e maomettana, e due culture, europea e araba.» (Cândea, 1979, 230)

Il dialogo fra Oriente e Occidente, che aveva luogo in quest'area nella republica delle lettere alla fine del XVII secolo25, e all'inizio del XVIII secolo veniva incoraggiato dall'indebolimento del potere militare dell'Impero ottomano, dalla crescente curiosità degli

25 Vedi Simion, 2011, 9-55, Mazilu 2000, 301-302.

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occid

lla cultura orientale, i più impo

dell'Impero ottomano e studioso della civiltà dell'Islam (…)» (Cândea,

entali per questo impero esotico, e dalla progressiva apertura, a livello diplomatico, dei turchi. Fin dalla caduta dell'Impero bizantino, gli intellettuali fanarioti, che hanno circolato fra le scuole di Costantinopoli, le università italiane e, più tardi, anche attraverso le aree culturali di lingua francese e tedesca, hanno ricoperto la funzione di anello di collegamento nel dialogo fra Oriente e Occidente. Scrive Cândea: «Costantinopoli conosceva una vita culturale greca, accanto a quella turca; essa era, allo stesso tempo, un luogo d'incontro per scrittori di altre nazionalità, romeni o armeni, rinnegati magiari o veneziani, ma anche per gli orientalisti occidentali. Creta e le isole ionie erano centri di educazione sia per i greci che per gli italiani; Ragusa per gli italiani e per gli slavi del sud. București e Iași per i romeni e per i greci. All'interno dell'impero o all'esterno, questi centri favorivano i contatti fra Oriente e Occidente.» (Cândea, 1979, 245)

Si spiega così la comparsa di alcuni intellettuali che conoscevano entrambe le culture e che sentivano il bisogno di spiegare la cultura orientale agli europei. Fra gli intellettuali romeni di formazione umanistica, ma anche esperti de

rtanti sono da considerare Dimitrie Cantemir e Nicolae Milescu. «Uno dei tratti specifici di questi intellettuali, beneficiari di più stili di cultura, permeabili a diversi sistemi di pensiero, capaci di comprendere o anche di adottare, secondo le circostanze, punti di vista opposti, si definisce e si manifesta fin da quest'epoca.» (Cândea, 1979, 257) (Cândea, 1979, 257) (vedi anche Cândea, 1979, 256)

È lo stesso Cândea che fissa i punti di riferimento geografico-culturali di Dimitrie Cantemir: «conoscitore del classicismo greco-latino e arabo-persiano, autore di un sistema di notazione della musica turca, allo stesso tempo consigliere personale dello zar Pietro il Grande e membro dell'Accademia delle Scienze di Berlino, storico

1979, 230)

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Esiste tuttavia una grande differenza fra il ruolo assegnato da Cantemir all'Oriente e quello da lui riservato all'Occidente. Per lui la conoscenza della cultura orientale aveva lo scopo di trovare una via per poter liberare la Moldavia dalla dominazione ottomana, una conoscenza dunque a carattere difensivo, in ambito politico e anche militare, mentre la conoscenza della cultura occidentale coincideva con la ricerca di un modello in cui rispecchiarsi e identificarsi. Studi

udecrementa Aulae Othomanicae26 non appare certo l'opera di un

ando il mondo orientale, Cantemir andava alla ricerca di punti deboli, di segnali di debolezza e di fragilità, di decadenza («descreșterea») dell'opprimente Impero ottomano. Mircea Anghelescu osserva che Nicolae Milescu, anch'egli esule in Russia, prevede, ma più tardi di Cantemir, la decadenza dell'impero orientale dei turchi: «È interessante che Milescu, come Cantemir ma più tardi, compone in Russia opere sulla vittoria dell'Impero del Nord sull'Impero del Sud (quello dei turchi), compilando documenti apocrifi e altri scritti di origine remota, ma in ogni caso orientale. Si tratta di Cartea sibilelor e Hrismologhionul, per cui P. P. Panaitescu ha proposto modelli greci, ma in ogni caso entrambi gli scritti circolarono in questo periodo in traduzione romena» (Anghelescu, 1975, 20)

Abbiamo visto nel capitolo precedente che Ureche leggeva, dietro al conflitto fra le chiese ortodossa e cattolica, uno scontro politico fra Oriente e Occidente. Constatando con amarezza che l'Impero bizantino non era riuscito a ottenere la collaborazione del papa, né l'unione delle chiese, andando così incontro alla sua disfatta e alla sua scomparsa, tuttavia Ureche contrinua a credere che le due chiese sono sorelle e che le divisioni religiose nascondano in realtà una linea di frattura fra due poteri.

Il tema del confronto fra Oriente e Occidente riappare in Cantemir, che prevede, la decadenza dell'Impero turco, una fine progressiva che l i spiega con la corruzione. Il suo Incrementa atque

26 Non mi soffermerò sulla visione della storia di Dimitrie Cantemir, un tema assai delicato e complesso, recentemente studiato e approfondito. Vedi Joița, 2004.

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ammiratore della cultura orientale, bensì, come già osservato da P.P.Panaitescu, «un libro destinato ai nemici dell'impero ottomano» (Panaitescu, 1958, 197). A conferma di ciò, in Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor Cantemir descriverà i turchi e i tartari come «vrășmașii lupi turcii și cu cei de-o fire cu dânșii tătarâi» [i nemici lupi turchi e quelli simili a loro di carattere, i tartari] (Cantemir, 2003, Hronicul, 990)

Nella visione di Cantemir, come un secolo prima in quella di Ureche, l'Occidente è il nuovo centro dell'Europa, la nuova Bisanzio. Una translatio studii, certo, ma anche una visione politica. Questo duplice valore si ritrova sia nell'alleanza stretta da Cantemir con lo zar Pietro il Grande, sia nell'evoluzione dei suoi scritti sulla storia della cultura dei romeni. Riguardo alla visione politica di Cantemir, Ioan Aurel Pop ritiene che «Anche se ha creduto sinceramente, ma invano, nell'alleanza della sua terra con la Russia e nella possibilità che questa si potesse liberare, con l'aiuto dello zar Pietro il Grande, dal giogo ottomano, Camtemir lo ha fatto sempre con lo sguardo rivolto a Occidente. Siamo convinti che il suo avvicinamento alla Russia sia da considerare nel contesto della riforma della Russia, che su impulso dello zar metteva in atto una modernizzazione delle élites al potere sul modello occidentale.» (Pop, 2011, 120) L'osservazione di I. A. Pop è molto importante e ci torneremo quando analizzeremo il simbolo del libro nell'opera di Cantemir: si constaterà che, secondo la sua visione da umanista, la soluzione per uscire dal circolo vizioso dell'influenza ottomana sarebbe stata quella di aprirsi verso l'Occidente e assegnare alla cultura umanistica un ruolo centrale.

Non si dovrà tuttavia negare l'importanza di Dimitrie Cantemir come orientalista27. La sua Istoria Imperiului otoman esce in traduzione

otti in un lingua orientale (è stato tradotto in arabo tica forma conosciuta, perduta nella redazione in

27 «Pero Cantemir non è solo il primo scrittore romeno la cui opera sia stata fortemente segnata dal contatto concreto con i valori culturali dell'Oriente, egli fu sicuramente uno dei primi scrittori romeni tradLetopisețul Țării Românești nella più an

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francese nel 1743, in tedesco nel 1745 e in inglese negli anni 1734-1736. E non va certo taciuto l'influsso che la conoscenza delle culture orientali ha lasciato in generale nelle sue opere: «L'esistenza di

manifes su diversi piani è stata già da tempo osservata (...). Lazăr Șăine

ente «un orientale» (Iorga

studio appro

un'influenza orientale nelle opere di Dimitrie Cantemir, che sita

anu constata che la sintassi turca con i suoi periodi molto ampi e con il verbo alla fine si rispecchia nella sua Istorie ieroglifică.» (Anghelescu, 1975, 23). Mircea Anghelescu sostiene che «questa influenza stilistica è stata probabilmene più grande di quanto è stato esplicitamente affermato» (Anghelescu, 1975, 23) e la riconosce anche per quanto riguarda «lo stile astratto delle descrizioni», «l'abbondanza delle citazioni dal tesoro della sensibilità folclorica», «la trasformazione frequente della prosa narrativa in prosa rimata (e ritmata)» (Anghelescu, 1975, 24)28. D. H. Mazilu identifica nella opere di Dimitrie Cantemir la presenza «del barocco orientale», (Mazilu, 1994, 243), mentre Iorga lo chiama esplicitam

, 1988, 181). Per quanto riguarda la tesi di Șăineanu riguardo all'influsso del

turco sulla sintassi della frase in Cantemir, i linguisti non sono tutti concordi e hanno avanzato anche altre ipotesi. Se Lazăr Șăineanu e Al. Rosetti si sono espressi a favore dell'influsso della lingua turca, Emil Petrovici (Petrovici, 1953) vi ha visto piuttosto un influsso della lingua latina, mentre Dragoș Moldovanu (Moldovanu, 1969, 40) ha attribuito questa caratteristica della frase lunga e complessa a motivazioni retoriche. Egli spiega le dislocazioni morfo-sintattiche all'interno della frase di Cantemir con il rilievo che ha avuto per lui lo

fondito della retorica fin dall'inizio della sua formazione. La figura retorica raffinata dell'iperbato (dislocazione morfo-sintattica)

romeno, come altre opere di cui sappiamo molto poco): il libro Divanul sau Gâlceava înțeleptului cu lumea è stato tradotto in arabo, attraverso una traduzione intermedia in greco.» (Anghelescu, 1975, 31) 28 Vedi anche Ciocan Ivănescu, 1976.

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caratterizza infatti sia le opere giovanili che quelle della maturità dello scrittore (si veda anche Uță Bărbulescu (2011).

va lo storico: «Il calo del rispetto per l'autorità procura audac i spirito e i nuovi intellettuali non si sentono più legati alle vecchl'ordin mbito e divenuto anticacultura i cominciava a far commercio venale

morte di Constantin Cantemir divent no sovrani, anch'essi per breve tempo, Duca Vodă e Antioh CanteCostanbiblioGâlcea [Il Divan o la disput

metafun'assCurtius analizza nella sezione Excursus V (Curtius, 2006, 488) e nella

3.4.2. Divanul: Il libro è composto di tre portate. Metafore alimentari.

Virgil Cândea ritiene che la prima opera di Cantemir, Divanul,

pubblicata all'età di 25 anni in romeno e in greco (Iasi, 1698), sia stata concepita per farsi un nome nell'alta società. Sullo scorcio del XVII secolo, osser

ia die strutture. Un'altra acquisizione definitiva che legittima e sociale degli intellettuali, fortemente a

mera del potere, è la convinzione del potere nobilitante della (...) In un tempo in cui s.

delle cariche e dignità, si parlava sempre meno di nobiltà degli antenati o del sangue (...).» (Cândea, 1979, 314)

Nel 1693 Dimitrie Cantemir era stato eletto come signore, per un periodo brevissimo, da parte de consiglio della nobiltà (divan) della Moldavia, ma non aveva ricevuto la necessaria conferma della Sublime Porta. Subito dopo la

amir, fratello di Dimitrie. In questa situazione Dimitrie resta a tinopoli, dove possiede un palazzo (fig. 4), una grande

teca e una collezione di opere antiche, e scrive Divanul sau va Înțeleptului cu Lumea sau a Sufletului cu trupula del saggio con il mondo o dell'anima con il corpo]. In questo lavoro filosofico di Dimitrie Cantemir troviamo ore alimentari della cultura, accanto al topos del libro. Si tratta di ociazione che appare, oltre che in altri autori, in Quintiliano.

sezione Metaforica (Curtius, 2006, 154) molti esempi di metafore

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alimentopos d

i Cantemir ha come tema il dialogo fra il saggio e il

riu [Proemio per il lettore] troviamo con un primo paragone: i tre libri che composeguitmiglio

107)

o:

tari riferite all'universo della conoscenza, come accade per il el libro. testo dIl

mondo, che riflette il rapporto fra l’anima e il corpo, quindi un tema tipicamente medievale. All'inizio del testo, nella Carte către cetito

ngono il volume sono paragonati a tre portate di vivande e, in o, a tre specchi in cui il lettore può specchiarsi al fine di rarsi. «Cinstite şi de trudă iubitoriule cetitoriu, iată trei, spre a sufletului dulce

ustare, ți să întind meșcioare.»29 (Cantemir, 2003,g

[Onesto e laborioso lettore, ecco tre, per il dolce piacere della tua anima, tavolini si stendono davanti a te.]

Avevamo incontrato anche nel libro di Costin, Sulla stirpe dei moldavi, la metafora del libro come specchio che riflette il mondo. In quel caso la funzione dello specchio era quella di mostrare la vera origine dei romeni, mentre Divanul è un testo di etica e la metafora del libro come specchio ha una funzione morale in quanto può migliorare oltre che rispecchiare la mente dell'uom

«Într-aceste trei meșcioare, adecă trătăjei, ca în trei luminoase și neprăvuite oglinde, precum/ a trupului, așé a sufletului stat și podoabă îți, privind, socotește și ceva dintr-această lipsă sau grozav vădzind, tocméște și cum să cade frumos orânduiaște și împodobește, și precum lui Dumnădzău, așé oamenilor plăcut și cinstit a fi să te învrednicești.» (Cantemir, 2003, 107)

[In questi tre tavolini, cioé trattatini, come in tre luminose e senza polvere specchi, come del corpo così dell’anima lo stato e la bellezza pensa, guardando, e vedendo un difetto o una bruttura. Esaminandoti dunque, davanti a questi tre pasti, cioè davanti a questi tre libretti, lo stato e la bellezza del tuo corpo e della tua anima, come davanti a tre specchi splendenti e senza macchia, pensa, e se

Dimitrie Cantemir, Divanul sau gâlceava înțeleptului cu lumea sau giudețul sufletului cu upul, a cura di Al. Duțu, București, Editura Minerva, 1990, p. 13.

29

tr

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vedrai un difetto o una bruttura, raddrizzala e correggila bene e come si conviene, e adornali, per essere onesto e piacevole u ni.]

davanti a Dio e davanti agli

Incont

omi

riamo anche in Cantemir la sintesi fra la retorica classica e i temi cristiani, caratteristica del topos del libro nella letteratura europea:

«După aceasta, pre meșcioare, pre acéstea, iată tot feliul de hrană, iată tot niamul de poamă: iaste poama vieții, iaste poama morții, iaste pâinea vieții, iaste pâinea morții – carele vii vrea, acélea vei mânca.» (Cantemir, 2003, 109)

[Dopo di ciò, sui tavolini, su di essi, ecco tutti tipi di cibo, ecco tutte le famiglie di frutti: c’è il frutto della vita, il frutto della morte, il pane della vita, il pane della morte – ciò che vorrai, quello mangerai.]

Nell'arsenale di strumenti culturali e raffinatezze retoriche sfoggiato da Cantemir in Divanul Virgil Cândea vede un'operazione politica: «Era certo naturale che questo combattente per una causa politica, in esilio e senza altre armi che intelligenza e istruzione, due risorse che lo distinguevano tuttavia nella società del suo tempo, mette la sua dote culturale al servizio dei suoi scopi immediati» (Cândea, 2003, 18-19). In altri termini Divanul è per lui un «certificat de cărturărie» [attestato da dotto] (Cândea, 2009, 19).

L'osservazione di Cândea può essere vera, in quanto effettivamente molti intellettuali dello spazio culturale bizantino vedono nell'educazione una modalità di ascensione sociale, ma in Cantemir l'interesse per la retorica, per una scrittura raffinata, con una sintassi elegante e un lessico ricchissimo, talvolta molto più ricco di quanto potesse sprimerlo la «giovane» lingua romena, sono da considerare con un altro significato. Per poter comprendere a fondo questo significato, occorre seguire l'evoluzione della sua opera e la ricorrenza di determinate idee che vanno a costruire una costellazione concettuale che definisce nell'opera di Costin il simbolo umanistico del libro.

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3.4.3. L'«impero della retorica» e l'arricchimento della lingua romena: le influenze della cultura umanistica

Fin dalla sua prima opera, scritta in romeno e in greco, Divanul,

Cantemir si considera un adepto della poliglossia. Il fatto che in seguito egli scrive spesso in latino le sue opere, mostra il suo interesse costante per la forma e il piacere di usare un lessico variato, una sintassi complicata dall'iperbato. A prescindere dal fatto che la prefer

i rivolgono ad un lettore qualunque, bensì ad un raffin

conoscenza o modalità di salvataggio dall'oblio del destino di una Cantemir è

enza per l'iperbato dipenda dall'influsso di lingue diverse dal romeno, cioè dal latino o dal turco, osserviamo comunque che la passione per la retorica resta un elemento ossessivo nell'opera di Cantemir, forse inculcatogli dal suo professore, Ieremia Cacavela. Nella prefazione a Divanul lo stesso Ieremia Cacavela scrive che, ricevendo il libro, «atâta de frumoase și dulce în gustare mi-au părut, cât a nu striga n-am putut: "O, întru tot împărăteasă ritorică! Cu câte daruri, cu câte slave, în puțină vreme pre iubitorii tăi îmbogățăști!"» (Cantemir, 2003, 114) [così belle e dolci da mangiare mi sono sembrate che non esclamare non ho potuto: "O, in tutto imperatrice, retorica! Di quanti doni, di quante glorie in poco tempo i tuoi amanti arricchisci!".] Il vecchio insegnante di Dimitrie loda quindi il libro «cu ritoricesc meșteșug împodobită» (Cantemir, 2003, 114) [con arte retorica addobbata].

Ritroveremo queste lodi della retorica anche nelle altre opere di Cantemir, che non s

ato buongustaio di tavolini («meșcioare») intellettuali. Per questo in Cantemir non incontreremo all'inizio delle sue opere il tema del ruolo del libro come fondatore di identità, specchio della

stirpe, come in Ureche o in Costin. Nell'opera giovanile dimaggiormente presente il piacere di scrivere e di leggere, che era stato espresso da Miron Costin nel poema Viața Lumii. D'altronde Cantemir

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apprezza esplicitamente l'opera di Costin, e cita anche alcuni versi di Viața lumii nella sua opera30. Il topos «fortuna labilis», che era stato centrale nel poema di Costin, si ritrova in Divanul di Cantemir come argomento nella discussione fra Înțelept [Intelletto] e Lume [Mondo], e si ritroverà anche in Descriptio Moldaviae31. Possiamo affermare che Dimitrie Cantemir intende continuare l'opera di Costin nei suoi lavori dedicati alla storia e alla cultura romene: Descriptio Moldaviae e Hronicul vechimei ai romano-moldo-vlahilor.

sard e Du Bellay consigliavano ai poeti di arricchire e a raffin

Il simbolo del libro diventa assai complesso in Cantemir, in quanto il suo intento sarebbe quello di educare il lettore non solo facendogli conoscere il passato, come avevano fatto Ureche o Costin, ma guidandolo in una vera e propria educazione umanistica completa. In altri termini, Dimitrie Cantemir sente il desiderio di riformare la lingua romena dalle fondamenta, al fine di dare al lettore un'educazione umanistica. Come era accaduto nel caso dei poeti francesi della Pléiade, la pratica delle letterature classiche e dell'insegnamento, che poneva l'accento sullo studio della retorica e della perfezione classica dei poeti latini, lo portano alla presa di coscienza delle imperfezioni e insufficienze della lingua nazionale. Come Ron

are la lingua francese, perché potesse conseguire la perfezione del latino, allo stesso modo Cantemir cerca di arricchire il lessico del romeno, con prestiti dal latino o dal greco, e di perfezionare la sintassi con artifici retorici.

Avevamo già incontrato e commentato l'intento di Miron Costin di «illustrare» la lingua romena con la poesia filosofica, espresso nel proemio a Viața lumii. Anche Cantemir scrive su temi filosofici e, come

30 I versi di Viata lumii vengono ripresi in Descriptio Moldaviae, 1961, 179. 31 Il tema Fortuna labilis, viene studiato anche da Cândea, 1694, 41-61. Nel testo di Cantemir, ritroviamo Fortuna labilis (I 3-62) fra le argomentazioni addotte da Înțelept [Intelletto] contro Lume [Mondo]. Ortiz nel suo studio su Fortuna labilis non fa cenno di Cantemir.

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Miron Costin, ritiene, che scrivendo questo libro si compie un atto fondamentale per la nobilitazione della lingua romena e allo stesso tempo un'operazione ad elevato contenuto educativo. Il simbolo del libro, filosof r Cantemir alla missione di conscrittolettera

denom

come si legge fra le righe nella sua attività di linguista, storico, o e scrittore, è profondamente legato pedurre la «giovane» lingua romena, in cui nessuno aveva ancora trattati filosofici impegnativi, alla maturità di lingua retorica e ria a pieno titolo. L'attività di filosofo di Cantemir va di pari passo con quella di

filologo32, dato che lo scrittore dedica molto spazio al metalinguaggio, ai concetti astratti, con una terminologia che era assente dalla lingua romena e che egli adotta dal greco o dal latino. Egli si preoccupa anche di compilare glossari dei termini da lui adattati in romeno dal latino o dal greco, considerando che per questa via può rendere il romeno una lingua aperta alla trattazione di temi filosofici. Questi glossari accompagnano tanto le opere filosofiche che quelle storiche o letterarie, al fine di educare il «diletto lettore» di Cantemir. Nelle «mescioare» [tavolini] di Cantemir non dobbiamo vedere solo un banchetto di idee morali, ma piuttosto un lauto banchetto filologico e retorico.

Nel romanzo Istoria ieroglifică Cantemir si premura di avvertire i critici che nel testo sono state utilizzate parole straniere, puntualmente tradotte nel glossario, chiamato scară [scala]. All'inizio della scară l'autore spiega il motivo dell'introduzione nel testo di un numero csì elevato di parole straniere. Secondo lui anche la lingua romena avrebbe dovuto dotarsi di un fondo lessicale astratto per la

inazione di concetti indispensabili a chi scrive opere filosofiche.

32 Notevole è stata l'attività di Cantemir come creatore di neologismi, tanto da essere stata analizzata da linguisti e filologi. Si vedano ad esempio le osservazioni che riguardatno il lessico, e in particolare i neologismi, di Cantemir, in Chivu, 2011, 125-138. Per la questione della terminologia in Cantemir, si veda Giosu, 1973.

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Cantemir giustifica i prestiti adottati con l'osservazione che si tratta di parole che già circolano in tutte le lingue europee:

«Precum toate alalte limbi de la cea elliniască întăi îndămănăndu-să cu deprinderea îndelungă și a limbii sale supțiiare și a cuvintelor însămnare ș-au agonisit.» (Cantemir, 2003, Istoria ieroglifică, 388)

[Come tutte le altre lingue da quella greca prima attingendo, con la frequentazione prolungata, il raffinamento della loro lingua e l’arrichimento delle parole hanno accumulato.]

Come esempio prende il termine greco hypothesis, adottato da molte lingue, fra cui polacco, latino e italiano, e ancora, potremmo aggiungere noi, inglese e francese (Cantemir, 2003, Istoria ieroglifică, 388).

Il lessico di una lingua è assai recalcitrante alle indicazioni dei grammatici, ed è assai difficile, se non impossibile, imporre delle regole, a livello di sintassi e di lessico, che siano pienamente accettate. Inoltre il destino biografico di Cantemir, in perenne esilio, ha portato ad una debole circolazione e penetrazione delle sue opere nei paesi romeni. Ciononostante, è stato osservato che più della metà dei neologismi proposti nei glossari di Cantemir sono stati effettivamente adottati dalla lingua romena, alcuni dei quali proprio nella forma proposta da Cantemir. Se leggiamo il glossario pubblicato alla fine del primo volume dell'edizione delle sue opere Editură Academiei, del 2003, in cui sono stati pubblicati Divanul, Istoria ieroglifică e Hronicul vechim al romano-moldo-vlahilor, nel quale sono stati unificati in un unico la sorintero emir.

speciaquale

eirtepertorio lessicale gli originari glossari di Cantemir, abbiamo presa di riconoscere come oggi comuni molti dei termini dotti da CantL'attività di linguista di Cantemir è stata analizzata da uno lista della storia della lingua romena, Grigore Brâncuș (2011), il ha osservato che «Cantemir è il primo studioso che ha mostrato

l'esistenza, nella struttura primaria della nostra lingua, di elementi ereditati dal sostrato traco-dacico.» (Brâncuș, 2011, 65). Un'altra

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importante segnalazione risalente a Cantemir, che non era mai stata fatta da nessun filologo precedente, sempre secondo G.Brâncuș, riguarda la natura dell'influsso slavo subito dal romeno, che ha interessato il lessico piuttosto che la struttura grammaticale: «La lingu

iatră, multă

l’esercizio della retorica ho faticato, per una lama così restia come questa,

a dei romeni […] ha conservato tuttavia fermamente una cosa, come le declinazioni e le coniugazioni, mentre alcune parole della lingua latina, quelle antiche oggi sono lasciate cadere.» (Brâncuș, 2011, 67). Un'altra intuizione da linguista degna di nota è stata l'idea di Cantemir di una lingua comune, stră-româna, da cui si sono sviluppati poi i dialetti, come ad esempio l'aromeno. Altre osservazioni nei campi della dialettologia e della dialettologia romene spingono Gr.Brâncuș a dichiarare che il nome di Cantemir «spicca nella storia della linguistica romena.» (Brâncuș, 2011, 74).

L'importanza dell'attività di linguista di Cantemir sta nelle sue osservazioni riguardo alla «giovinezza» della lingua romena, per cui egli parla di «brudia noastră limbă» (Cantemir, 2003, Istoria ieroglifică, 386), cioè «nostra lingua pargoletta, giovane, bambina». La giovinezza della lingua non è certo una qualità dal punto di vista del poliglotta Cantemir, in quanto egli la riferisce piuttosto alla povertà terminologica, all'incapacità di esprimere le sottigliezze del pensiero filosofico. Le stesse osservazioni riguardo alla lingua si ritrovano nel brano in cui esprime la difficoltà di adattare la propria retorica affinata alla lingua romena: r

«nu atâta cursul istoriii în minte mi-au fost, pre cât spre deprinderea ritoricească nevoindu-mă, la simcea groasă ca aceasta, prea aspră pși îndelungată ascuțitură să-i fie trebuit am socotit.» (Cantemir, 2003, Istoria ieroglifică, 386)

[non tanto il filo della storia ho avuto in mente, quanto piuttosto, visto che con

troppa mola e molta e prolungata affilatura, che ne avesse bisogno ho pensato.]

Nel frammento appena citato, tratta da Izvoditoriul cititoriului sănătate, Dimitrie Cantemir avverte il lettore che nel romanzo allegorico Istoria

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ieroglifică l'autore non si è preoccupato della narrazione, ma piuttosto della retorica. Il romanzo ha per soggetto la storia contemporanea, raccontata e descritta con uno stile così raffinato che i critici hanno parlato di poetica barocca33.

L'interesse per la retorica si manifesta in Cantemir in diversi aspetti della sua opera. In primo luogo si deve osservare la sua conoscenza della retorica e degli autori classici. Quindi sarà da tener presente il suo stile pieno di ornamenti e orpelli, che ha indotto gli studiosi a classificare l'autore fra gli scrittori barocchi. Un altro aspetto della s

talismo.

ua opera in cui si mostra l'interesse per la retorica è costituito dalle minuziose descrizioni dei cerimoniali bizantini legati alle liturgie religiose o d'incoronazione dei principi. Di segno opposto, ma anch'essi altamente retoriche, sono i discorsi di nozze che vengono riportati in Descriptio Moldaviae. Qui si può vedere il suo interesse per le tecniche del discorso, anche quando queste non appartengono direttamente al repertorio classico della retorica. In questi casi Cantemir riporta e descrive discorsi nuziali ispirati a una retorica popolare, legata ai costumi popolari romeni, dove il matrimonio viene presentato allegoricamente come una battuta di caccia. In questo caso egli compone un brano poetico che non ha nulla della retorica umanistica o manierista, e che si presenta secondo uno schema rituale prefissato proprio della tradizione popolare. Per questo fu anche considerato uno dei primi folcloristi romeni34. 3.4.4. Descriptio Moldaviae e Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor: culto della latinità, europeismo e occiden

I critici non si sono trovati d'accordo sulla datazione dei testi di cultura, storia e lingua romena scritti da Cantemir sia in versione

33 Sull'importanza della retorica in Istoria Ieroglifică, si veda Mazilu, 2000, 561-587 Zamfir, 1986.

ato che le tappe dello sposalizio, così come le descrive cora nel folclore di determinate regioni romene fino agli

5).

34 Nicolae Cartojan ha osservCantemir, sopravvivevano ananni ’70 (Cartojan, 1974, 27

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 199

latina che in romeno. Citerò qui la datazione fornita da Andrei Pippidi, per dare un'idea del fatto che D. Cantemir è tornato a più ripres

ilor (1717-1723)35.

e su questi soggetti, a distanza di anni, in testi scritti in latino o in romeno: De antiquis et hodiernis Moldaviae nominibus (1712), Descriptio Moldavie, con la prima carta della Moldavia (vedi fig. 3), Historia Moldo-Vlachica (1714), Hronicul vechimei a romano-moldo-vlahilor, nella versione latina, oggi perduta, e l'ultima parte della Descriptio Moldaviae (1715-1716), la versione romena di Hronicului vechimei a romano-moldo-vlah

A differenza di Miron Costin o di Stolnicul Constantin Cantacuzino, Cantemir mira a scrivere una storia dei romeni36, e non solo dei moldavi o dei valacchi. In modo molto chiaro, lo storico Ioan Aurel Pop, annota: «In Cantemir tutti gli episodi della storia dei romeni appaiono correlati con la storia universale e collocati nel quadro della storia universale.» (Pop, 2011, 119). Cantemir consulta un numero molto più vasto di fonti, che commenta e cita anche ampiamente37.

I. A. Pop osserva un cambiamento, un'evoluzione fra la visione della storia in Descriptio Moldaviae e quella che si presenta in Hronic (Pop, 2011, 120-121). Osservato già da Iorga (Iorga, 1969, 327), questo cambiamento di prospettiva è motivato dal fatto che, nel frattempo, Cantemir si era maturato e aveva avuto accesso a più opere in cui si presentava la storia identitaria di altre stirpi, di altri popoli. Si spiega coì il passaggio dallo stile narrativo, adottato in Descriptio Moldaviae, allo stile scientifico e saggistico presente in Hronic.

L'opera Descriptio Moldaviae, redatta in latino su richiesta dell'Accademia di Berlino, nel cui consesso era stato ammesso Cantemir, comprende una descrizione geografica, i riferimenti

35 Vedi Mazilu, 2000, 246-248. 36 Vedi Panaitescu, 1958, 227. 37 Vedi Mazilu, 2000, 292.

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all'ori

dalla dominazione ottomana. Siamo di fronte invece

modo sistematico e inconfutabile, la veridicità delle affermazioni del

gine romana del popolo romeno, l'organizzazione politica e legislativa, i rituali e il folclore romeni.

Descriptio Moldaviae non è una difesa politica, e non ha nulla delle argomentazioni di Miron Costin nel suo Poema polonă, dove l'umanista-politico cerca di suggerire al re polacco Giovanni Sobieski di liberare la Moldavia

ad ul libro che contiene informazioni molto varie e che si legge con piacere, dove fra l'altro Cantemir si esime dallo sfoggiare le sue tecniche retoriche abituali.

Cantemir presenta la Moldavia all'Accademia di Berlino come un paese ricco, con descrizioni inverosimili ispirate all'immagine retorica del corno dell'abbondanza, con origini romane illustri, e con una rilevante eredità bizantina. Ma in Cantemir non si trova propriamente il mito di Bisanzio, in quanto si limita a descrivere scrupolosamente il legame culturale della Moldavia con Bisanzio, soprattutto a livello dei cerimoniali e a quello legislativo. D. H. Mazilu osserva che « descrivendo "le tradizioni del passato e quelle di oggi per l'incoronazione dei signori della Moldavia" (II, 3), Dimitrie Cantemir, per cui le dignità sovrane ("aulae officia") istituite nelle corti di Suceava e Iași, avevano una trasparente origine bizantina, ritiene che l'intero "îghemonicon", incredibilmente complesso, praticato nelle corti dei sovrani romeni, veniva dall'eredità lasciata da Bisanzio. Secondo Cantemir l'esistenza di un legame ininterrotto fra impero bizantino e voivodati romeni era al di là di ogni dubbio. Gli esperti dei giorni nostri, romeni e stranieri, studiando con metodi scientifici e rigorosi la conservazione e l'utilizzo delle tradizioni bizantine nei paesi romeni, in primo luogo a livello politico, hanno dimostrato, in

nostro principe studioso.» 38

38 Vezi Mazilu, 2000, 261-263, Iorga, 1935, vezi Pippidi, 1983.

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 201

Cantemir descrive il cerimoniale dell'incoronazione nei minimi dettagli e osserva che i sultani non hanno abolito queste forme di riverenza nei confronti dei sovrani romeni e «hanno lasciato tutte le leggi del paese, tanto quelle politiche che quelle canoniche» (Cantemir, 1961, 94). Come contropartita, hanno però chiesto sempre più tributi in denaro39.

Il secondo aspetto in cui emerge la continuità fra Bisanzio e la Molda

le un codice

via è quello legislativo, che Cantemir illustra nel cap. XII, Despre legile Moldovei [Sulle leggi della Moldavia]. La Moldavia «a primit de la împărații bizantini, o dată cu domnia, și legile grecești, cuprinse în Codicele bazilicalelor, și din cărțile acelea întinse a scos ceea ce alcătuiește acum pravila în Moldova.» [ha ricevuto dall'impero bizantino, insieme alla signoria, anche leggi greche, comprese nei Codici delle chiese, e dai libri in esse compresi ha estratto tutto quello che costituisce adesso la legge in Moldavia] (Cantemir, 1961, 136). Cantemir si riferisce con rispetto a Vasile Lupu, che ha modernizzato l'eredità bizantina e «a pus oameni cinstiți și cunoscând legile țării să adune laolaltă toate legile scrise și nescrise, alcătuindu-se din e

deosebit de legi, rămas și azi călăuza judecătorilor din Moldova pentru împărțirea dreptății»40 (Cantemir, 1961, 136). [ha incaricato uomini assennati e conoscitori delle leggi del paese di mettere insieme qua e là tutte le leggi scritte e non scritte, costituendo con esse un codice legislativo speciale, rimasto fino ad oggi la guida dei giudici per amministrare la giustizia in Moldavia]. In questo capitolo appare una opposizione interessante: la corruzione dei funzionari turchi e l'iccorruttibilità dei moldavi. Quando descrive il modo in cui effettua i giudizi il Divan della Moldavia, Cantemir osserva che se si prova che

39 Nel cap. XIV Cantemir parla del tributo da pagare ai turchi. Qui si parla anche di

nalis

tangenti, regali, 105-106. 40 Questo corpus legislativo, publicato nel 1646 in romeno a Trei Ierarhi si ispira nella prima parte alle leggi bizantine, nella seconda parte alla Praxis et Theorica Crimi(1616) del giurista italiano Prospero Farinacci.

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un boiardo «a luat plocoane» [ha preso omaggi] e «a făcut judecată strâmbă» [ha emesso una sentenza ingiusta] «se pedepsește înfricoșat» [viene punito spaventosamente] (Cantemir, 138). Lo stesso afferma a proposito dell'incorruttibilità del voievod, le cui decisione non possono essere comprate con doni (Cantemir, 141). Al contrario, sottol

a lui come una forma di regresso, di ricaduta nella

inea più volte che nell'Impero ottomano tutto può e deve essere ottenuto con omaggi, bustarelle, regali41.

Sono molte le idee che Cantemir ricava da Ureche e da Costin, da lui molto apprezzati. Una fra queste è l'immagine idealizzata di Ștefan cel Mare, visto come optimus princeps che ha portato la Moldavia alla sua piena fioritura e che non è stato più eguagliato da nessun altro successore. Un'altra idea importante da lui ripresa e approfondita è quella della romanità dei romeni e della loro lingua. Nel cap. IV, «Despre graiul moldovenesc» [Sulla favella moldava] (Cantemir, 1961, 190-195), Cantemir fa un paragone fra romeno, italiano e latino, e giunge alla conclusione esagerata che il romeno ha conservato più elementi latini dell'italiano. Le sue osservazioni linguistiche verranno approfondite e raffinate meglio in Hronic.

Il suo culto per la latinità lo porta ad affermazioni critiche sulla cultura slava, vista d

barbarie42. Nel cap.V, «Despre literele moldovenilor» [Sulle lettere dei moldavi], Cantemir fornisce una spiegazione fantasiosa sul modo in cui è avvenuto il passaggio dalla scrittura latina a quella cirillica. Egli lo lega alla rottura fra le due chiese e afferma, erroneamente, che il vescovo Marco di Efeso avrebbe chiesto ad Alessandro il Buono di passare all'alfabeto cirillico per impedire ai moldavi di leggere «vicleșugurile papistașe» [le ipocrisie papiste] (Cantemir, 195). Così «el a ajuns ctitorul cel dintâi al barbariei în care

41 Cantemir ritiene che tutti i problemi del paese derivino dai principi stranieri e dai turchi (Cantemir, 1961, 69), racconta del tributo e degli omaggi chiesti dai turchi e afferma che dalla corruzione degli ottomani è derivata quella dei principi moldavi. 42 Vedi Gheție, 1976, 519-521 e Gheție; Mareș, 1985.

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este împotmolită azi Moldova» [egli ha raggiunto il primo creatore della barbarie in cui è sprofondata oggi la Moldavia] (Cantemir, 196). L'idea che lo slavismo sia una forma di regressione culturale viene poi ripresa dalla Școala ardeleană (Mazilu, 282-283) e arriva fino al periodo moderno.

Per Cantemir era quindi essenziale che le sue opere fossero scritte in una forma che rappresentasse in modo genuino la cultura romena. Descriptio Moldaviae, scritta in latino, rappresenta una sorta di passaporto culturale per l'Europa. Ma Cantemir avrebbe voluto che tutte le sue opere scritte in romeno si presentassero in una forma almeno potenzialmente europea. Dunque l'alfabeto cirillico non costitusosten ir l'osses(clivagcome dall'O vera» essenza culturale,

non appar antemir.

moldomoldavfino amolto invece più obiettivo possib mincia con l'affermazione che, anche se avrebbe voluto

iva certo ai suoi occhi un buon vestito per la lingua di cui egli eva a spada tratta la latinità. Inizia così con Cantemsione della latinità della stirpe. Questa linea di separazione e), questa frattura prodotta dal rifiuto della cultura slava, vista

elemento alogeno, che divide i romeni dal centro, ccidente, dalla latinità, dalla loro «

apparirà costantemente da questo momento. L'idea che per mezzo della cultura slava sia pervenuta ai romeni la cultura bizantina

e in CUno dei capitoli più interessanti è il XVII, «Despre năravurile venilor» [Sulle abitudini dei moldavi]. Qui Cantemir decrive i

i con uno sguardo critico profondo, che non si ritroverà più Cioran. Cercando di non farsi influenzare dal sentimento, in lui forte, dulcis amor Patriae, e di essereile, co

soltanto lodare «neamul din care ne-am născut» [la stirpe da cui sono nato], è più utile per i moldavi, «dacă le vom arăta limpede în față cusururile care-i sluțesc decât dacă i-am înșela cu lingușiri blajine (…)» [se mostrerò loro limpidamente per quanto riguarda i vizi che li sfigurano, piuttosto che se li inganno con adulazioni carezzevoli (...)]

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(Cantemir, 1961, 164) La severità di Cantemir in questo capitolo è molto forte ed egli riconosce qui solo due qualità ai moldavi, «credința cea adevărată» [la giusta fede], cioè l'ortodossia, e l'arte dell'ospitalità. Detto

ti dell'educazione, ma addirittura questa

tie să citească și să scrie, să-și scrie

mir pensava ad un'età ideale, in cui un contadino, dopo aver finito di occuparsi dei suoi buoi, avrebbe cominciato, eventuil tratpresente nella letteratura latina, un'utopia di questo tipo trovava

questo elenca una lunga serie di difetti, fra cui arroganza, incostanza, mancanza di misura, piacere dell'alcol, gusto per i piaceri della carne, mancanza di cultura. Rammentiamoci che Ureche ammira nei polacchi l'amore per l'educazione, che desidera anche per sé; con una carica critica minore, Costin suggeriva ai moldavi di dedicare più tempo alla lettura. Il giudizio di Cantemir, dall'altezza della sua cultura cosmopolita, è drastico:

«moldovenii nu numai că nu sunt iubitori de învățătură, ci chiar le e urâtă aproape la toți. […] Ei cred că oamenii învățați își pierd mintea și atunci când vor să laude învățătura cuiva, zic că a înnebunit de prea multă învățătură.»

[i moldavi non solo non sono amanviene odiata quasi da tutti. (...) Essi credono che gli uomini istruiti perdono il lume della ragione, e quindi quando vogliono lodare l'istruzione di qualcuno dicono che è impazzito di troppa educazione.]

Nel brano successivo, si vede che Cantemir non si riferisce qui ai nobili, o ai ricchi, bensì alle persone semplici, i quali credono che:

«pentru un om de rând este de ajuns să șnumele, să-și treacă în condica lui un bou alb, negru și cu coarne, caii, oile și alte dobitoace de povară […]» (Cantemir, Descriptio, 166-167).

[per le persone semplici è già abbastanza saper leggere e scrivere, scrivere il proprio nome, per poter segnare sul suo registro un bue bianco, nero e con le corna, i cavalli, le pecore e le altre bestie da basto.]

Certamente Cante

almente, a leggere il suo romanzo allegorico Istoria ieroglifică, o tato di filosofia, Divanul. Ispirata forse al mito dell'età dell'oro

difficilmente riscontro nella Moldavia reale del suo tempo, ma

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Cantesuoi g i hanno costato la perdita del trono dopo

scuola reca a Trei Ierarhi, e la tipografia, Miron Costin, «cel mai bun

li scritti di Cantemir sulla storia e sulla storia della lingua

romenl'Occidaccess tantinopoli e poi per mezzo di Mosca. L'opera Hronicul vechimDescriCante

ga frase in cui mostra hinis» [Cicerone,

il granlibro. questopaese è

re

mir viveva nel suo universo libresco, il che può anche spiegare i ravi errori politici, che gl

appena 6 mesi di signoria. Cantemir ricorda con rispetto Vasile Lupu, che ha istituito la g

cronicar pe care l-au avut moldovenii» [il miglior cronista che abbiano avuto i moldavi] (Cantemir, 199) e anche Șerban Cantacuzino, signore della Valacchia, che considera insieme i fondatori della cultura moderna. Il quarto fondatore della cultura moderna è per lui suo padre, che gli ha condotto come professore Ieremia Cacavela. Il libro si chiude con la frase: «Din vremea aceea mulți moldoveni au început să învețe literatura grecească, latinească, italienească.» [Da quel tempo molti moldavi hanno intrapreso lo studio della letteratura greca, latina e italiana.] (Cantemir, 1961, 199)43

Ge, mostrano il suo desiderio di portare la cultura romena verso ente, di integrarla nel circuito europeo a cui aveva avuto

o da Cosei al romano-moldo-vlahilor riprende la problematica presente in ptio Moldaviae, ma si tratta di un'opera della maturità, a cui mir lavora fino alla fine della vita. Prolegomena del Hronic inizia con una lun

che anche «Țițeron, marele acela a romanilor Dimostde Demostene dei romani] ha penato molto per scrivere un

Analogamente a Cantacusino, Cantemir descrive la scrittura di libro come un combattimento cavalleresco in cui l'amore per il

lo scudo: «Pre care noi, ca pre un vârtos și tare scut îmbrățășind, drepte arme pe dreptul vom apuca; și în câmpul istoriilor ieșind, cu înfipți pași și cu neîntoarsă față, p

43 Per la fiducia nel ruolo dell'insegnamento e del libro in Cantemir vedi Cândea, 1979, 320, 321.

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vrăjmașea a de demult uitării tiranie la lupta monomahii vom chema.» (Cantemir, 2003, Hronicul, 879)

[Il quale noi, imbracciandolo come un forte e robusto scudo, giuste armi per una giusta causa prenderemo; e nel campo delle storie uscendo, con passi decisi e con sguardo coraggioso, il nemico di sempre, l’oblio, lo sfidiamo a duello.]

La motivazione della scrittura è il desiderio di legittimare la stirpe da cui proviene, l'anelito di argomentare che non si tratta di un popolo barbarCostanper lusignorscientCostin, lotta c

ățat?» (Cantemir,

é uno potrebbe dire: chi sei e da dove vieni tu, omuncolo? Dai barbari da sei uscito, all’improvviso esiliato ti trovi. Come mai hai ottenuto armi

Torna

, însă alți părinți nu-și

ori non noscono, se non i goti , vandali, unni, slavi, cioè i resti remoti della Scizia.]

Nella oggi mol

ico. Esiliato in Russia, lontano dal suo palazzo di tinopoli, dove la sua preziosa biblioteca era diventata ormai

i inaccessibile, perduta ogni speranza di poter riacquistare la ia della Moldavia, Cantemir sente il bisogno di definire ificamente la propria cultura. Non è più, come per Ureche o

un'azione da pioniere, Cantemir vorrebbe utilizzare, in questa avalleresca, la monomahia: «Ce poate cineva să dzică: Cine și de unde ești tu, o, omănașule? Din mijlocul varvarilor ieri alaltăieri ieșind, de năprasnă nemernic te ivești. Ce caută la tine

rme ca acélea? De unde? Și în lupta monomahiii când ti-ai înva2003, 879)

[Perchoco p

come quelle? Da dove? E, nell’arte del duello, quando ti sei addestrato?] anche sul concetto di barbarie e osserva: «Căci toate céle despre apus a Evropii niamuri (nu dea Dumnedzeu trufie cuvântului) măcar că astădzi mari, tari și evghenisite suntpot cunoaște, fără numai pe gotthi, vandali, unni, sclavoni, adică a Schinthiii înghețate rumpturi;» (Cantemir, 2003, Hronicul, 882)

[Perché tutte le stirpi dell’Occidente dell’Europa (non faccia Dio arrogante la parola) anche se grandi e grossi, e nobili, sono, però altri genitco

seconda parte del capitolo 1 dei Prolegomena affronta un tema

to dibattuto e attuale: in che modo cambiano i centri della

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culturdi Cidall'O ente. Dopo aver reso omaggricordl'impoquello

Însă acéstea toate, fiind de noi în limba lătinească scrise/și alcătuite, socotit-am

n poi, più

L'importanza della scrittura è per Cantemir molto più grande di

a. Si parla qui della translatio studii dai greci ai romani, ad opera cerone (Cantemir, 2003, Hronic, 966) per mostrare come

ente, il vero centro si è spostato in Occidriio a quelli che considera i suoi veri precursori, Ureche e Costin,

a che aveva scritto Hronicul in latino, ma che poi aveva sentito rtanza di scrivere libri in romeno, e per questo aveva tradotto che aveva scritto in latino: «că cu strâmbătate, încă și cu păcat va fi, de lucrurile noastre, de ciia înainte, mai mult streinii decât ai noștri să știe. (…) Slujască-să dară, cu cu ostenințele noastre niamul moldovenesc, și ca într-o oglindă curată, chipul și statul, bătrânețele și cinstea neamului său privindu-și îl sfătuiesc (…)» Cantemir, 2003, Hronicul, 1076

[Però tutte queste, essendo da noi scritte e composte in latino, abbiamo pensato che una stortura e un peccato sarebbe, se delle nostre cose, da oggi idagli stranieri che dai nostri sarà conosciuto (…) Che usi, quindi, le nostre fatiche la stirpe moldava e, come in uno specchio lucido, il viso, il corpo, l’antichità e l’ onore della stirpe, guardando, lo consiglio (…)]

L'immagine del libro come specchio appare in Hronic, Prolegomena, capitolo 1:

«Pentru ca oglinda hronicului nostru de tot pravul îndoinții mai ștearsă și mai curată înaintea privelii cititorului să o punem (…)» (Cantemir, 2003, Hronicul, 931)

[Perché lo specchio del nostro hronic, di tutta la polvere del dubbio deterso e ripulito, davanti allo sguardo del lettore lo mettiamo(…)]

quella dell'azione, e lo dichiara esplicitamente, aggiungendo anche pagine molto suggestive sulla difficoltà dell'atto della scrittura:

«împreună cu făcătorii și faptele tot într-un mormânt s-ar fi îngropat, de n-ar fi fost urmat îndată scrâșnetul condéielor după tunetul și trăsnetul armelor. De unde orice și cât noi astădzi avem și știm, mai mult de la scriitorii lucrurilor

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decât de la făcătorii lor trebuie să le cunoaștem; precum și Alexandru Marele Machedon pe Ahilevs fericiia, pentru că i s-au tâmplat scriitoru ca Omir să-i istorisască vitejiile.» (Cantemir, 2003, Hronicul, 1065)

[insieme con gli attori le azioni nella stessa tomba si sarebbero sepolte, se non avesse seguito, lo scricchiolio delle penne, il clamore e il clangore delle armi. E quindi qualsiasi cosa noi abbiamo e sappiamo oggi, più dagli scrittori che dagli attori delle imprese lo conosciamo; come anche Alessandro Magno il Macedone invidiava Achille perché gli è accaduto che uno scrittore come Omero gli ha raccontato le sue glorie.]

Per Cantemir il fatto di non trovare fonti per libri sulla storia è un grande problema. Ci dice quindi che «nu toți istoricii condeile ș-au frânt» [ on tutti gli storici hanno rotto le penne] (Cantemir, 2003,

sta ragione, erimenti alle interpolazioni infondate di Simeon

Dască

n1218) e così è riuscito ad evitare molte difficoltà. Per quetroveremo molti rif

lul e del Monaco Misail al Letopiseț di Grigore Ureche44. Secondo Ion Aurel Pop, «Dimitrie Cantemir ha tracciato quello

che rimarrà per molto tempo lo schema della storia del passato dei romeni nel contesto europeo. Le coordinate fondamentali di questo modello – la romanità dei romeni, la loro unità, unità e persistenza della loro identità di fronte ai valori della migrazione, partecipazione al grande sforzo di contenimento della potenza degli ottomani ecc. – sono diventate delle costanti nella ricostruzione del passato della nazione per molte generazioni di storici, compresi, sotto molti aspetti, quelli attuali. La prima generazione di questo tipo, diventata una corrente segnata dal punto di vista culturale-ideologico, è stata la Scuola Transilvana.» (Pop, 2011, 122) (Scuola latina romena) 44 Su Simion Dascălul (Cantemir, 2003, Hronicul, 1024), «puturoase basne» [favole puzzolenti] (Cantemir, 2003, Hronicul, 1027). Sulla polemica contro quelli che «cu basne au muruit hârtia» [con le storielle hanno insozzato le carte] (Cantemir, 2003, Hronicul, 1292). Sempre su Simeon e Misail, che hanno trattato i romeni «ca pre bureții fără sămânță de ieri, de alaltăieri îi faceți» [come quando lo spago senza fibre di ieri lo fate con quelle dell'altro ieri???] (Cantemir, 2003, Hronicul, 1300). Si veda anche 1334, 1396, 1406 (dove rivela con pena che ha trovato quella storia ripresa dai russi e raccontata di nuvo in tre testi sulla storia della Moldavia).

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Così Cantemir trascorre gli ultimi anni di vita esiliato in Russia, la sua opera circola in Occidente, dove viene portata da suo figlio, Antioh Cantemir, anche lui poeta. Così si spiega perché le sue opere sull'origine dei romani e sulle relazioni con le altre culture troveranno continuatori nella Scuola latina romena. Solo sette anni dopo la morte di Cantemir, una copia di Hronicul vechimei si trovava nelle mani di Inocentiu Klein, un membro di rilievo della Scuola laina romena, che, che l

ne della prima

attolici, protestanti, ortodossi, greco-cattolici. In Trans

segno dell'Illuminismo. I membri della Scuola transilvana, Petru Maior, Gheorghe

'aveva comprata nel 1730 a Vienna. Il lavoro di Cantemir diventerà un elemento centrale per l'attività filologica della scuola stessa.

3.5. Ion Budai Deleanu (1760-1820), intellettuale e poeta

A differenza della Moldavia e della Valacchia, che erano riuscite a conservare una certa autonomia, per la Transilvania andò diversamente: dopo aver fatto parte di un regno ungherese, alla scomparsa di questo è diventata un principato autonomo vassallo dei turchi, per essere in un secondo momento annessa all'Impero d'Austria e quindi all'Impero Austro-Ungarico, fino alla fi

guerra mondiale. La popolazione della Transilvania è multiculturale, in quanto formata da ungheresi, svevi, sassoni e romeni (che ne costituiscono la maggioranza), e comprendente varie confessioni religiose, c

ilvania i romeni avevano meno diritti di ungheresi e germanici, ed erano considerati una «popolazione tollerata». Erano loro negati alcuni diritti, come l'insegnamento in lingua materna, e questa discriminazione ha comportato l'assenza di scritti in lingua romena. I primi contributi letterari e culturali in romeno risalgono alla Școală ardeleană (Scuola transilvana), del XVIII secolo, che si inscrive nel

Șincai, Timotei Cipariu, Aron Pumnul, Samuil Micu, erano degli

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uomini di scienza, storici, linguisti, giuristi, ecclesiastici, che hanno lottato con i mezzi delle scienze umanistiche per i diritti dei romeni di Transilvania. A questo proposito afferma Adriana Senatore: «Nell’arco di meno di un secolo gli intellettuali romeni si accostano, dunque, al pensiero dell’Occidente, ne traggono suggestioni che li obbligano a riflettere su se stessi e sulla propria identità, prendono chiara coscienza del comune retaggio storico (…)» (Senatore, 2006, 10).

La Școala ardeleană è un movimento fortemente unitario di intellettuali romeni, in cui la filologia viene usata come mezzo per ottenere diritti politici per i romeni di Transilvania. Il legame fra romeno e latino e l'eredità culturale romana sono gli srgomenti che ritornano com maggiore feequenza nei contributi scientifici dei membri della Scuola: «Per questa ragione la denominazione di "Școala ardeleană" che al movimento è solita attribuire la storiografia letteraria romena potrebbe a prima vista apparire limitativa, rivolta quasi a ribadirne la localizzazione regionale, ove non si considerasse che in primo piano ne è stata sempre posta la connaturale rilevanza panromena. Gli studiosi italiani hanno, in generale, preferito la definizione di "scuola latinista romena"» (Senatore, 2006, 10).

Il termine fu proposto da Ruffini e in seguito adottato dei critici italiani che si sono occupati di questo movimento, come rileva la stessa Adriana Senatore (Senatore, 2006, 10-11), e per questo lo adottiamo anche noi.

Ion Budai Deleanu45 è stato il solo membro della Școală ardeleană che ha anche scritto testi letterari. Nasce nel comune di Cigmău, nel distretto di Hunedoara, nel 1760, ed è uno dei dieci figli del prete greco-cattolico Solomon Budai. Studia al seminario di Blaj, quindi si sposta a Vienna per gli studi di teologia e diritto. Al ritorno cerca di inserirsi nella struttura ecclesiastica locale, ma non ci riesce

45 Per i dettagli della sua biografia e della sua formazione intellettuale, vedi Senatore, 2006, 9-25.

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per d

della Galizi

isaccordi e incomprensioni, per questo torna a Vienna e continua gli studi giuridici già intrapresi. Inizia a lavorare a un dizionario romeno-tedesco, pubblica un lavoro sulle metodologie didattiche e diverse traduzioni romene di leggi imperiali austriache. Fino alla fine della vita continua le traduzioni delle leggi più importanti dell'Impero, fra cui il codice civile e il codice penale. Rinuncia all'ordinazione sacerdotale e si sposa, scegliendo la carriera giudiziaria. Diventa segretario, consigliere e infine magistrato del tribunale di Leopoli, capitale della regione storica della Galizia, che nel frattempo era passata dalla Polonia all'Impero d'Austria. Svolgendo questa funzione rimane per tutta la vita in questa città multiculturale, capoluogo di una regione in parte polacca, in parte ucraina e in parte compresa nella romena Bucovina del Nord.

L'attività scientifica di Ion Budai Deleanu è assai vasta. Di professione, era specialista di leggi, che ha tradotto in gran numero dal tedesco al romeno. Ha anche tradotto una parte della cronaca di Grigore Ureche in latino e una parte del melodramma Temistocle, di Metastasio, dall'italiano al romeno. Come linguista, ha realizzato un dizionario romeno-tedesco, Lexiconul românesc-nemțesc, ma anche diversi studi sulla storia della lingua romena e due grammatiche Temeiurile gramaticii românești [I fondamenti della grammatica romena] e Dascălul românesc pentru temeiurile gramaticii românești [Il mentore romeno per i fondamenti della grammatica romena]. Come storico, ha scritto un'opera in latino sui popoli della Transilvania, De originis populorul Transilvaniae. Commentatiuncula cum observationibus historico-criticis, in cui si continua, trattando il tema del multiculturalismo dei transilvani, l'opera Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor di Dimitrie Cantemir. Ha scritto anche un'opera sulle popolazioni

a, Scurte observații asupra Bucovinei, che apparirà solo postuma nel 1894. Ha indirizzato nel 1804 un memoriale all'imperatore per denunciare la pessima situazione in cui si trovavano i romeni nel principato di Transilvania.

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Nella sua attività di linguista, traduttore e storico, si può riconoscere un'idea ricorrente: con la sua opera poliedrica intende creare per i romeni di Transilvania tutti quegli strumenti di cui ha

isogno il suddito, in epoca illuministica, per far rispettare i propri

rupolo del giurista, Ion Budai Deleanu, offre ai romeni di ransilvania (o cerca di offrire, dato che molte delle sue opere restano

inedit

altre, come l'epopea Tiganiada o il poema Trei viteji, neanche si propose

bdiritti in uno stato di diritto, come l'Impero austriaco. Con l'attenzione e lo scT

e) le armi giuridiche e culturali per poter essere considerati sudditi con gli stessi diritti rispetto a quelli di origine tedesca o ungherese. Il primo campo in cui si applica è quello delle leggi, che traduce in gran numero perché anche i romeni le potessero conoscere, quindi si rende conto dell'importanza della conoscenza della lingua ufficiale dell'Impero, e per questo realizza il suo dizionario bilingue romeno-tedesco. In terzo luogo si rende conto di quanto sia utile la conoscenza dell'origine dei romeni e dei loro rapporti con gli altri popoli della Transilvania, e per questo intende offrire queste informazioni alla comunità dei dotti, scrivendo un trattato di storia in latino. Ma per Budai Deleanu è fondamentale anche che i romeni conoscano la propria lingua e cultura e l'origine della lingua, per questo scrive una grammatica della lingua romena e, nell'introduzione al suo Lexicon presenta la storia della lingua romena. Tutti questi lavori sono il risultato di ricerche accurate e condotte con metodo moderno, per questo l'autore arriva ad occupare una posizione importante nel campo degli studi storici, linguistici e lossicologici. I suoi lavori si basano sulla raccolta di una ricchissima base di informazioni, elaborate e sviluppate scientificamente, secondo l'orientamento illuministico che era allora dominante in Europa.

Purtroppo molte delle sue opere, come il dizionario romeno-tedesco, non videro la luce durante la vita dell'autore, mentre per

la pubblicazione. I manoscritti, rimasti in possesso dei membri della

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famiglia di Ion Budai Deleanu, che non conoscevano la lingua romena46, saranno venduti per una somma ingente di denaro allo stato romeno, da parte del nipote dell'autore. 3.5.1.

è Ion Budai Deleanu. La prima variante dell'e

esiste una ricchissima bibliografia sia sulla Școală

Il cammino tortuoso dalla scienza alla letteratura. Tiganiada (1812)

Come si è detto, l'unico membro della Scuola latina romena che scrive anche opere letterarie

popea Țiganiada, risale agli anni intorno al 1800 (Manoscritto A), ma in seguito lo scrittore torna sull'opera e separa una parte del testo, distinguendo così il poema intitolato Trei viteji [I tre valorosi], che resta incompiuto. La seconda variante dell'epopea Țiganiada (Manoscritto B) viene terminata nel 1812, ma non vede la pubblicazione. Il poema Țiganiada avrà molte edizioni: la prima, postuma, arriverà solo negli anni 1875-1877, la seconda variante sarà pubblicata nel 1900, quindi nel 1905 e ancora nel 1925. Purtroppo le prime edizioni presentavano modifiche arbitrarie del testo, come ci spiegano Gheorghe Chivu e Eugen Pavel, nel commento all'edizione più recente dell'opera (Chivu, Pavel, 2011, XCII). L'edizione definitiva del testo, realizzata a cura di J.Byck è basata sul confronto fra le due varianti manoscritte del testo e appare nel 1956. Nell'introduzione all'ultima edizione, apparsa presso Editura Academiei Române, Eugen Simion afferma che Țiganiada non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato, pur essendo un testo di grande valore e analizza le cause delle riserve che hanno avuto i critici (Simion, 2011). Molte monografie sono state dedicate all'autore (Petrescu, 1974; Senatore, 2006), e anche in Italia

ardeleană, che specificamente su Ion Budai Deleanu (Valmarin,

46 Il nostro scrittore si era sposato con una polacca che non conosceva il romeno e

preso la lingua del padre. neanche i figli avevano ap

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1995; Senatore, 2006; Mazzoni, 1997, Ruffini, 1941). Ma è anche vero che gli autori di storie letterarie, fino a Nicolae Manolescu, non considerano il nostro autore uno scrittore fondamentale della letteratura romena.

È possibile che Țiganiada non abbia avuto grande eco, a dispetto dei suoi notevoli pregi letterari, perché tratta in un genere comico e satirico, il poema tragicomico, temi come l'identità dei romeni, la loro origine e la loro organizzazione sociale e politica, temi sempre molto dolorosi per i romeni stessi.

Ion Budai Deleanu osa una scelta molto coraggiosa, quella di criticare i romeni rappresentandoli allegoricamente come zingari. Con largo anticipo rispetto a I. L. Caragiale e a Cioran, Ion Budai Deleanu critica

on Budai-Deleanu la spiega con l'occupazione turca

così in modo acido e raffinato i difetti dei romeni, ma questa critica lo allontana dal gusto del grande pubblico e anche dagli intellettuali contemporanei. Nell'introduzione al volume già citato pubblicato dall' Academia Română, Eugen Simion, commentando l'opera Scurtele observații asupra Bucovinei [Brevi osservazioni sulla Bucovina], un testo di divulgazione storico-geografica di Ion Budai Deleanu, osserva che « l'analisi non è certo adulatoria nei confronti dei romeni del nord. Ma è certo un po' esagerata l'affermazione riguardo alla mancanza di moralità che sussiste nella comunità dei discendenti di Roma. È vero che I

e con il dispotismo fanariota, ma l'accumulazione dei vizi strutturali nel carattere del popolo, dovuti a questa esperienza pare eccessiva. Il consigliere giuridico del tribunale provinciale di Leopoli, noto, come recita un documento "per la sua proba moralità", ama certo i romeni, ma quando si tratta delle loro colpe, non li risparmia certo.» (Simion, 2011, LXVIII)47

In quest'opera di Budai Deleanu incontriamo frasi che riappariranno negli scritti di un altro transilvano, anche lui figlio di un

47 Simion, 2011,V-LXXII.

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prete, Cioran. Ion Budai Deleanu vi esprime la sua preoccupazione per il destino dei romeni nell'Impero asburgico: «"Ce poți aștepta de la o națiune (…) care a fost impusă de lungul despotism în clasa sclavilor?"» [Che cosa puoi aspettarti da una nazione (…) che è stata costretta nella classe degli schiavi da un lungo dispotismo?] (cit. in Simion, 2011, LXIX). Il dispotismo di cui parla Budai Deleanu è quello imposto dall'Impero turco, ma il suo tono non cambia quando si riferisce all'occupazione russa, che lui chiama «pustiirea rusească» [la devastazione russa]. Già in questo lavoro emerge lo straordinario spirito critico di Ion Budai Deleanu, che non risparmia né i rappresentanti del potere, né le vittime che hanno accettato la subordinazione.

Inizieremo l'analisi osservando la natura di Giano bifronte con cui si presenta Ion Budai Deleanu. Da un lato, egli prosegue l'opera linguistica e storica dei vari Ureche, Costin o Cantemir, orientandole in direzione delle scienze moderne che lui aveva avuto l'occasione di studiare a Vienna. In più, la conoscenza delle lingue straniere e la possib

eni di organizzarsi, il problema delle origini nobili, la rice

ilità di accedere per molti anni a grandi biblioteche europee, hanno consentito a Budai Deleanu di raccogliere tutte le informazioni che gli potevano essere utili per argomentare le sue tesi, che erano le stesse che avevano già discusso gli uomini di cultura moldavi e valacchi prima di lui.

Dall'altro lato, l'altra faccia del Giano Bifronte, Budai Deleanu compie un atto del tutto innovativo scrivendo un testo di finzione, in cui presenta in modo comico tutti i topoï che abbiamo identificato in Ureche, Costin, Cantacuzino o Cantemir: la guerra con il turco, l'incapacità dei rom

rca della propria identità e il confronto con le altre culture. La differenza fra Ion Budai Deleanu e gli scrittori fin qui

esaminati è in sostanza la differenza fra l'intellettuale moderno e gli umanisti. Budai Deleanu separa definitivamente la scienza dalla finzione letteraria, la storia dalla narrazione e dal mito, la filologia

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dalla politica. Finora abbiamo potuto vedere quanto si potevano mescolare i generi, come ad esempio, nel Poemă polonă, Costin era tanto poeta quanto filologo, come, per dare un altro esempio, il mito si insinuava tra le maglie della narrazione storica in Ureche, o infine come la retorica era chiamata in causa per argomentare la narrazione dei fatti storici in Costin o in Cantemir. In Ion Budai Deleanu ciò cambia profondamente, in quanto la finzione letteraria, cioè il poema eroicomico Țiganiada, si allontana chiaramente dalla storia, e soprattutto dalla storia nel senso umanistico, vista come modalità di legittimazione della stirpe e del popolo. In un saggio in cui ne analizza il pen

nire. (…) C

intertesto, che racchiude riferimenti alla letteratura europea, in primo

siero politico e giuridico, Victor Neuman osserva che «Negli anni in cui Budai Deleanu scriveva sulle origini dei popoli di Transilvania, il senso del termine "storia" si era cominciato a defi

iò che è notevole è che Budai Deleanu aveva imparato a costruire una storia in accordo con le idee del suo tempo. Ha dedicato a questo molto studio e ha compreso che avrebbe dovuto separare completamente il discorso storico dalla letteratura» (Neumann, 2008, 356)

Il fatto che egli era pienamente informato come storico ed estremamente moderno come giurista, come nota lo stesso Neumann, aveva probabilmente anche scatenato in lui il desiderio di ironizzare sui romeni, al fine di educarli. Considerando che aveva prodotto contributi veramente scientifici attraverso i suoi lavori di storia, linguistica e lessicologia, e che aveva fatto per questa via tutto quello che poteva essere in suo potere per nobilitare il destino dei romeni di Transilvania, possiamo essere certi che quando scrive Tiganiada egli non ha intenti denigratori o offensivi, bensì mette in gioco il topos della musa iocosa.

Lo spirito scientifico dell'autore non scompare completamente in quest'opera, ma fa capolino nell'intertesto assai ricco e complesso che accompagna l'epopea. Țiganiada di Ion Budai Deleanu si presenta come poema eroicomico, dotato di un apparato di commento, di un

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luogo

a in grado di individuare i topoï lassici cui si allude, i personaggi e le scene celebri da testi della

i. Il canone della tterat

italiana, alla tradizione culturale romena, ai temi illuministici della Școală ardeleană. Ciò che rende ardua la lettura di Țiganiada è proprio questa complessità di riferimenti e l'erudizione messa in campo dallo scrittore. Il testo è assai complesso per quanto riguarda i riferimenti alla cultura europea (del Conte, 1958), tanto da rimanere impenetrabile ad un lettore che non sicletteratura europea che vengono implicitamente citatle ura europea del classicismo e del barocco è il canovaccio su cui e Ion Budai Deleanu tesse la storia dei suoi «zingari».

Si potrebbero fare molte ipotesi per rispodere alla difficile domanda di fondo: per quale motivo lo scrittore sceglie di scrivere un testo tanto complesso dal punto di vista dei riferimenti culturali?

Certamente la sua formazione di giurista e di studioso, unita alla sua erudizione in tutti i campi di cui si è occupato, sono gli elementi che gli hanno consentito di scrivere questo tipo di epopea intertestuale. L'enciclopedismo settecentesco di Ion Budai Deleanu si manifesta in primo luogo nei suoi lavori scientifici, fra l'altro scritti in romeno, latino e tedesco. Per questa poliglossia e per la sua formazione viennese, può certamente essere considerato, accanto a Dimitrie Cantemir, uno scrittore prima di tutto europeo, che ha scelto in un secondo tempo di assumere la condizione di scrittore romeno. La sua appartenenza all'Illuminismo enciclopedico ha sicuramente contribuito alla sua idea di scrivere un'epopea comica, con un apparato di note sotterranee divertenti, in cui diversi «filologi», bene o male intenzionati, intrecciano le loro voci per spiegare il testo e dare informazioni culturali al lettore potenziale incolto, che non saprebbe, ad esempio, chi sono le Muse, che cosa è l'Olimpo, in cosa consiste un'epopea, qual'è l'etimologia di «Dumnezeu» [Domineddio]. Abbiamo così delle digressioni dotte e comiche allo stesso tempo, che dilatano in modo abnorme il testo e mettono in ombra l'azione epica.

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Un'altra possibile motivazione va cercata nel fatto che Budai Deleanu viveva al di fuori di un sistema nazionale, era in sostanza un auto-esi

resto egli vive del tutto isolato anche dai colleghi e amici della Școală ardeleană.

3.5.2. L

decostabbiam opere di Ureche, Costin, Cantaimporper spdefinidue «funzio

itola Prolog e colloca Țiganiada sulla linea dell'epica

eleanu. Questa elaborata moda

liato, che da trent'anni abitava in una città multiculturale dell'Impero asburgico, il che lo affrancava da una vera e propria tradizione letteraria. Del

'elogio della retorica. Dalla storia alla poesia

Mi soffermerò ora sul modo in cui Ion Budai Deleanu ruisce, riprendendoli in una prospettiva comica, i topoï di cui o parlato a proposito delle

cuzino Stolnicul e Cantemir. Abbiamo osservato che ruolo tante ricopre nelle loro cronache il proemio, che essi utilizzano iegare e giustificare retoricamente i loro passi, e anche per

rsi di fronte agli altri umanisti. Ion Budai Deleanu ci ha lasciato introduceri» [introduzioni] a Țiganiada, ognuna delle due con ni diverse. a prima s'intL

eroica che risale all'Iliade di Omero, su quella dell'epopea eroicomica classica (Batrachiomachia) e moderna (La secchia rapita), e così integra il proprio poema nel sistema letterario europeo. La seconda introduzione, intitolata Epistolie închinătorie. Către Mitru Perea, vestit cântăreț [Epistola dedicatoria. A Mitru Perea, illustre vate] è attribuita ad un alter ego dell'autore, lo zingaro Leonachi Dianeu, che scrive al suo amico lontano, anche lui zingaro, Mitru Perea, per raccontargli come mai ha scritto Țiganiada. Non deve sfuggire che Leonachi Dianeu è l'anagramma del nome dell'autore, mentre Mitru Perea è l'anagramma di Petru Maior, noto linguista della Școală ardeleană, compagno di studi e amico di Ion Budai D

lità di ingresso nel mondo della finzione attira la nostra attenzione e ci avverte che avremo a che fare con un testo letterario

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che fa parte del genere comico, ma in cui la parata di sorprese letterarie erudite non è certo gratuita e fine a se stessa.

Budai Deleanu comincia il Prolog (Proemio) di Tiganiada con l’elogio della retorica e della poesia, cui attribuisce un ruolo essenziale nella creazione degli eroi:

Să fie preceput ş-alte neamuri a Europei preţul voroavei şi dulceaţa graiurilor bine rânduită, adecă ritòrica şi poesia, cum au înţălesu-o elinii şi romanii, o! câţi eròi slăviţi să ar ivi dintre vàrvari, sau doară din cei ce să numea sălbateci, pe carii oameni luminaţi, lipsind, întru neamul lor şi pe vremile când au trăit, un Omèr ş-un Virghil, vecinică i-au acoperit nepomenire. Ş-unde era Ector, cel a Troii naltă sprijană, şi Ahil, tăria şi zidul grecilor, de nu să ar fi născut cântăreţul Omèr? (Budai deleanu, 2011, 5)

[Se altri popoli europei avessero compreso il pregio della parola e della

Nel su Excursus IX, Curtius osserva che il topos che mette in relazione

, confondendo il mondo della finzione con i fatti, aperituancheBudaisalvarDelea

il tem

dolcezza delle lingue ben tornite, cioè della retorica e della poesia, come lo hanno compreso i greci e i romani, oh! quanti eroi eccelsi si sarebbero visti fra i barbari, o fra quelli che vengono chiamati selvaggi. Ma siccome nella loro stirpe e ai loro tempi non c'era alcun Omero e alcun Virgilio, gli uomini colti questi eroi non li hanno mai nominati. E dove sarebbe stato Ettore, il difensore supremo di Troia, e Achille la forza e il muro dei greci, se non fosse nato il poeta Omero?] o

poesia e immortalità risale a Omero, e riappare poi in Teocrito, Properzio, Orazio, Ovidio. Apparentemente, Ion Budai Deleanu mescola la poesia con la storia

fatti storici. Il topos della superiorità del testo scritto rispetto ai lle imprese che vengono narrate, in quanto i fatti sono in sé

ri, se non resi eterni dal testo che sfiderà i secoli, era apparso in Hronic di Cantemir, da dove potrebbe averlo ripreso Ion Deleanu. Questo topos sviluppa l'idea che solo il libro può e i fatti storici dall'oblio, accordando però, nel caso di Budai nu, uno spazio maggiore alla finzione. Riconosciamo qui il simbolo umanistico del libro, che sconfigge po e legittima, con la forza della parola, la stirpe romena,

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simboCanteruolo più imlibro e

llora non perché solo in Grecia e a Roma sono nati uomini grandi e coraggiosi

con la sottigliezza e la grazia

m, deacă să ar fi aflat între români, din vreme în vreme, bărbaţi care să fie

care vieţuind strălucea, au putut răbate la noi.» (Budai Deleanu, 2011, 5-6)

lo che avevamo trovato in Costin, Ureche, Cantacuzino e mir. Riprendendo questo topos Budai Deleanu è cosciente del fondamentale dello scrittore che inventa dei mondi. I poeti sono portanti degli eroi, perché sono loro che trascrivono i fatti nel così li salvano dall'oblio: Deci nu pentru că numa Ellada şi Roma au putut naşte oameni înalţi şi viteji luminaţi, ne mirăm cetind vieţile slăviţilor eroi elineşti şi romani, ci mai vârtos pentru că Ellada şi Roma au crescut oameni întru podoaba şi măestria voroavei deplin săvârşiţi, carii cu supţirimea şi gingăşia condeiului său, au ştiut într-atâta frumsăţa pe eroii săi, cât noi astezi, necunoscând pe alţii asemene, ne uimim de mare-sufleţia, naltă-cugetarea, bărbăţia ş-alte vârtuţi a lor, şi doară nu luom sama că mai mare partea întru aceasta este a scriptoriului. (Budai Deleanu, 2011, 5)

[Ae istruiti, ci meravigliamo leggendo le vite degli eroi valorosi greci e romani, ma piuttosto perché la Grecia e Roma hanno partorito uomini con una conoscenza meravigliosa degli ornamenti della parola, i quali della loro penna hanno saputo idealizzare i loro eroi, tanto che noi oggi, non conoscendone altri simili, ci meravigliamo della loro magnanimità, della loro intelligenza, del loro coraggio e delle altre virtù, e non ci rendiamo conto che il

aggior merito di tutto ciò va al poeta.] m

Budai Deleanu si rammarica poi, come i suoi predecessori, della mancanza di testi di valore romeni in cui poeti di talento avessero cantato il destino di certi eroi:

«Luând firul istoriii neamului nostru romănesc, de când să au aşezat în Dacia, câţi şi mai câţi bărbaţi, cu tot feliul de vârtuţi strălucitori, am cunoaşte doară acuscris viaţa lor şi cu măiestru condeiu împodobindu-le fapte şi înălţându-i după vrednicie, să îi fie trimis strănepoţilor viitori. La lipsa unor ca aceşti autori, acum, pre toate acele persoane luminate din căruntele veacuri, ceaţa uităciunii i-au acoperit. Puţine raze a mărimii lor, cu st

[Prendendo il filo della storia della stirpe nostra romena, da quando si sono insediati in Dacia tanti e tanti uomini, risplendenti di tutti i tipi di virtù, lo

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conosceremmo adesso, se ci fossero stati fra i romeni, ogni tanto, uomini che avessero scritto la loro vita e che, con penna magistrale arricchendo le loro azioni ed elevandoli secondo il loro valore, li avessero tramandati ai futuri nipoti. In mancanza di autori come questi, adesso, tutte quelle persone illustri

Fra gCantamaggi sto topos, tanto da rimproverare i suoi predecessori

tia, in cui il poeta manif

dei secoli canuti, la nebbia dell'oblio li ha coperti. Pochi raggi della loro grandezza, che risplendevano in vita, sono potuti arrivare fino a noi.] li scrittori trattati in questo capitolo, Stolnicul Constantin cuzino è stato quello che ha sviluppato e approfondito ormente que

per la loro poca cura nella conservazione del passato. Di qui si passa facilmente al topos «Ubi sunt qui ante nos», in cui Budai Deleanu si lamenta, non che i principi sono morti, ma del fatto che non sono stati cantati da un poeta sufficientemente illustre:

«Şi unde aflăm la istorie un eroe asemene lui Stefan, principul Moldaviii, sau unui Mihai, domnului Ugrovlàhiii, cărora nu lipsea numai un Omer, ca să fie înălţaţi preste toţi eroii.» (Budai Deleanu, 2011, 6)

[E dove troviamo la storia di un eroe come Stefan, il principe di Moldavia, o di un Mihai, signore di Ugrovlàhii, a cui mancava solo un Omero per essere innalzati al di sopra di ogni altro eroe.]

Si possono qui riscontrare elementi di continuità con Ureche, Costin e soprattutto con Cantemir, ma in Țiganiada il topos viene trattato in chiave comica. L'erudizione che caratterizza lo stile di Cantemir diventa una rassegna di riferimenti culturali citati in chiave ironica. Budai Deleanu ci offre così una perfetta parodia dell'umanesimo che, per mezzo del libro, dà fondamento a una cultura e identità a un popolo.

Quindi si passa al topos della falsa modesesta la sfiducia nel proprio talento retorico e nella capacità della

lingua di esprimere un contenuto elevato: «Răvărsându-şi întru mine neşte scântei din focul ceresc a muselor, bucuros aş fi cântat doară pre vreun eroe dintru cei mai sus numiţi; însă băgând de samă că

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un feliu de poesie de-aceste, ce să chiamă epicească, pofteşte un poet deplin şi o limbă bine lucrată, nesocotinţă dar ar fi să cânt fapte eroiceşti, mai vârtos când nice eu mă încredinţăz în putere, iar neajungerea limbii cu totul mă dezmântă...» (Budai Deleanu, 2011, 6)

[Essendosi riversate su di me alcune scintille dal fuoco celeste delle muse, avrei cantato con piacere anche solo uno degli eroi fra quelli sopra nominati; però capendo che una poesia come quella che si chiama epica ha bisogno di un vero poeta e di una lingua ben lavorata, sarebbe insensato che io cantassi fatti eroici, visto che io non penso di averne la capacità e che la lingua non la posso

aneggiare...]

ca ha bisogno di una lingua ben lavorata, ioè di una lingua con tradizione letteraria. Allo stesso modo in cui

a l'inadeguatezza della lingua romena di fronte all'espressione dei concetti filosofici, Budai Deleanu ritiene, o meglio finge

ultus); rozzi (impolitus, scabies

m

Come aveva fatto anche Cantemir, che aveva lamentato l'immaturità concettuale della lingua romena, nel proemio a Divanul, Budai Deleanu afferma che l'epicCantemir osservav

di ritenere, che l'epica è un genere letterario troppo elevato per la sua lingua. Ma anche rispetto a sé afferma di non essere sicuramente il poeta capace di trattare un soggetto eroico. Budai Deleanu per scusarsi dei suoi limiti usa formule che caratterizzavano questo topos già presso lo storico Tacito. Come spiega puntualmente Curtius nel suo Excursus II, Formule di devozione e umiltà, «L’autore si scusa perché il suo stile (sermo) o il suo ingegno (ingegnum), o ambedue sarebbero aridi, secchi, scarni (ariditas, siccitas, ieiunae macies orationis – quest’ultima espressione è già in Tacito); senz’arte (rudis, simplex, communis, incompositus, incomptus, inc

); rugginosi (rubigo); sordidi (sordidus); meschini (egestas, inopia, paupertas, exilitas, sterilitas).» (Curtius, op.cit., 457)

La modestia viene però vinta dal «desiderio di dire cose mai dette», un altro topos classico, con l'aiuto, certo, delle Muse:

Cu toate aceste, răpit fiind cu nespusă poftă de a cânta ceva, am izvodit această poeticească alcătuire, sau mai bine zicând jucăreauă, vrând a forma ş-a

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introduce un gust nou de poesie romănească, apoi şi ca prin acest feliu mai uşoare înainte deprinderi să se înveţe tinerii cei de limbă iubitori a cerca şi cele mai rădicate şi mai ascunse desişuri a Parnasului, unde lăcuiesc musele lui Omer şi a lui Virghil!...» (Ion Budai-Deleanu, 2011, 6)

[Pero, siccome sono stato rapito dal desiderio di cantare e mettere in versi qualcosa, ho inventato questa composizione poetica, o piuttosto, questo giocattolo, [...] volendo che i giovani che amano la lingua arrivassero ai punti più alti e nelle foreste più nascoste del Parnaso, dove abitano le muse di Omero e di Virgilio!...]

Il discorso è poi deviato con cura verso l'autoironia perché, partendo alla ricerca delle Muse, il poeta cade in uno stagno pieno di rane, allusione al poema eroicomico di Omero Batracomiomachia (cioè La guerra delle rane con i topi). 3.5.3. Musa iocosa

In Curtius troviamo anche il concetto di musa iocosa in cui alla

poesia si associa sia un valore educativo che quello «estetico-edonistico» (Curtius, 2006, 533), nel suo Excursus X, Poesia come intrattenimento. Il topos Musa iocosa compare spesso in Budai Deleanu, basti pensaA diffdivertlettera assato, quanto piuttocritich

«scritt in prima persona dall'alter ego dell'autore, lo zingaro

re che Țiganiada è definita nel Prolog «jucărea» [giocattolo]. erenza di Ureche, Costin e Cantemir, Ion Budai Deleanu intende ire educando, ma anche educare criticando. Il ruolo del testo rio non è più quello di conservare memoria del psto di incoraggiare la riflessione sulla storia, per mezzo delle e, anche acide, ma comiche, dell'autore. Nella sua Epistolia închătorie cătră Mitru Perea, vestit cântăreț, a»

Leonachi Dianeu racconta la propria vita all'amico Mitrea Perea. La biografia di Dianeu è del tutto fantasiosa, ma in essa possiamo riconoscere gli eventi principali della vita di Ion Budai Deleanu: la partenza dal proprio paese e gli studi fatti all'estero, la sensazione di

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marginalità dovuta alla propria appartenenza nazionale, la ricerca delle proprie origini, l'esilio e la nostalgia del proprio paese e della propria lingua, il desiderio di scrivere per l'educazione del proprio popolo.

reinteromanda unTepes (Dr lontario nella guerra fra turchi e tedeschi, lo zingarsenza di cuifrance«dobâ rilej a învăța carte și mai multe limbi» (Budai Deleanu,

acolo voi s-aflu doară i neamul nostru cel adevărat !... Căci auzisăm

um că soiul nostru țigănesc să trage de la Eghipet și purcede din faraonii cei slăviți.» (Budai Deleanu, 2011, 7)

I fatti narrati dallo zingaro Dianeu all'amico di gioventù sono rpretati secondo la tradizione dell'epica eroicomica e del zo europeo del XVIII secolo, in quanto l'autore finge di partire

manoscritto da lui trovato, un'antica cronaca del tempo di Vlad acula). Vo

o Leonachi Dianeu è un soldato, un miles gloriosus che non motivo si accinge a scrivere un'epopea sulla guerra del popolo

fa parte, il popolo zingaro. Dianeu parte per la guerra contro i si, ma viene fatto prigioniero e mandato in Francia, dove studia: ndii p

2011, 7). Allora si arruola nell'esercito francese e viene mandato in Egitto. A questo punto troviamo la prima parodia del topos della ricerca delle origini, che come abbiamo visto è tanto frequente nella cultura romena. Felice di poter andare a scoprire in Egitto le origini nobili autentiche del suo popolo, lo zingaro dice all'amico Perea:

«O, cu câtă bucurie făceam eu acea călătorie, socotind căcuibul strămoșilor noștri ștodeuna, și de obște să zice, c

[Oh, con quanta gioia facevo questo viaggio, pensando che laggiù avrei trovato il vero nido dei nostri antenati e la nostra stirpe, quella vera!... Perché avevo sempre sentito dire, e in generale si dice, che la nostra razza zingara viene dall’Egitto e deriva dai gloriosi faraoni.]

Sarà però deluso e non troverà in Egitto le vere origini del suo popolo, e al contrario scopre che laggiù gli zingari sono «defăimați și de toți urgisiți.» [calunniati e perseguitati da tutti] (Budai Deleanu, 2011, 7-8) Ferito profondamente, sceglie tuttavia di rimanere in Egitto, dove può

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vivere nell'abbondanza, ma prova una forte nsotalgia per il suo paese e quindi scrive il poema Țiganiada utilizzando come fonte una cronaca del M

e è «măiestru cântăreț și viersuitoriu» [maestro di poesi

tinerii cei de limbă iubitori» (Ion Budai-Deleanu, 2011, 6) [attraverso queste

onastero di Cioara: «Treizăci de ani au trecut, drăguță Pereo! De când eu fui silit a mă înstrăina de țara mea.» (Budai Deleanu, 2011, 7) «nu-mi pociu scoate din inimă dorul țării în care m-am născut, și macar trăiesc aici în prisos de toate, totuș, spre fericirea deplin patria-mi lipsește. Având aici vreme de ajuns, mă îndeletnicesc mai mult cu cetera și cu cântări.» (Budai Deleanu, 2011, 8)

[Trent’anni sono passati, caro Perea ! Da quando sono stato obbligato ad andare in esilio dal mio paese.] [non posso far uscire dal mio cuore la nostalgia del paese in cui sono nato, anche se vivo qui nell’abbondanza di ogni bene, tuttavia per avere la felicità, mi manca la patria. Avendo qui abbastanza tempo, mi occupo più della cetra e del canto.]

Anche un altro zingaro, Mârza, che ha sentito il racconto dai suoi trisavoli, gli racconta la storia di Țiganiada. Leonachi Dianeu scrive questa «izvodire poeticească» [creazione poetica] per ricordarsi della terra in cui è nato, «măcar că noao ne este mașteră», e la dedica a Mitru Perea, ch

a e di versificazione]. (Budai Deleanu, 2011, 8)

3.5.4. Défense et illustration

Appare anche in Ion Budai Deeleanu questo topos, già incontrato in Costin e in Cantemir, e legato al desiderio di «illustrare» la lingua romena con un nuovo genere letterario. Leonachi Dianeu vorrebbe educare il gusto dei giovani con una forma nuova - «vrând a forma ş-a introduce un gust nou de poesie romănească» [volendo formare e introdurre un nuovo tipo di poesia romena] (Ion Budai-Deleanu, 2011, 6) e scrivere un testo facile da leggere perché «apoi şi ca prin acest feliu mai uşoare înainte deprinderi să se înveţe

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abitud

etti importanti nell'argomentazione di Budai Deleanu. Il primo aspetto è la novità, che è essenziale in Budai Deleacerte lvocaz scrittori di cui cicivicanei cacultur nche «dolce», si

manista loda le vitù dell'otium dedica lla lettura e augura al lettore che Dio gli conceda il tempo necesscontrahannol'apprdal pu i paesi romeni un

ini più piacevoli i giovani che amano la lingua possano imparare].

Sono tre gli asp

nu, e per questo ha voluto, in tutti i campi, andare a colmare acune della cultura o delle scienze umanistiche romene. Questa ione di pioniere che ha caratterizzato anche gli altri siamo occupati, non può essere separata dall'idea dell'utilità ed etica della cultura. Per quanto riguarda il secondo aspetto, si di Ureche, Costin, Cantacuzino o Cantemir il fatto che la

potesse essere innanzitutto «utile», poi aa basava sugli strumenti della retorica; in Budai Deleanu compare l'idea che i destinatari sono «tinerii cei de limbă iubitori» [i giovani amanti della lingua] e che è necessario fornire loro «deprinderi» [abitudini], cioè l'abitudine di leggere. Il terzo aspetto importante in questa sua «ars poetica» è che Budai Deleanu intende scrivere un testo facile da leggere, per introdurre abitudini più facili, in quanto vorrebbe educare il gusto del pubblico non tanto per lo studio, quanto per il diletto estetico.

L'idea si affacciava anche presso Costin, nel proemio a Viața lumii, ma in quel testo il poeta u

to aario per praticare questo piacere. Cantemir, più critico, era riato dal fatto che i contadini utilizzano il poco sapere che solo per scopi pratici, e non «iubesc învățătura» [amano endimento], cioè non dedicano tempo alla lettura. È vero che, nto di vista storico, non esiste per secoli ne

pubblico al di fuori dei professionisti della scrittura, cioè in pratica gli autori sono umanisti e scrivono per essere letti da altri umanisti. Per questo l'impresa di Budai Deleanu è radicalmente nuova non solo a livello di forma, ma anche a livello di destinatario del testo.

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 227

L'idea della novità assoluta di Țiganiada ricompare in Epistolie, dove Leonachi motiva il proprio scritto con il modello che ha trovato nelle altre letterature:

«cum eu, învățând lătinește, italienește și frănțozește, întru care limbi să află poesii frumoase, m-am îndemnat a face o cercare: de s-ar putea face ș-în limba noastră, adecă cea românească (căci a noastră, cea țigănească, nu să poate scrie și puțini o înțăleg), cevaș asemene (…)» (Budai Deleanu, 2011, 10)

[siccome io, imparando il latino, l’italiano e il francese, nelle quale lingue si trovano belle poesie, mi sono esortato a fare una prova: se si potesse fare anche nella nostra lingua, cioè il romeno (perchè la nostra, quella zingara, non si può scrivere e pochi la capiscono), qualcosa di simile (…)]

Come nelle opere di Costin e Cantemir, la pressione del cosmopolitismo si manifesta nel desiderio di introdurre nella letteratura romena un nuovo genere, un nuovo stile e una nuova forma

. Ma Budai Deleanu, pienamente cosciente della difficoltà di fondere nella sua opera comica innumerevoli frammenti di testi fondamentali per la letteratura europea, si preoccupa anche di attrarre l'attenzione del lettore sul fatto che sta scrivendo un'opera totalmente nuova e senza un modello precedente. Entra qui in gioco il topos «io offro cose mai dette», ed esprime tutta la soddisfazione dell'autore per aver scritto un'opera originalissima:

«Aceast operă (lucrare) nu este furată, nici împrumutată de la vreo altă limbă, ci chiar izvoditură noao și orighinală românească. Deci, bună sau rea cum este, aduce în limba aceasta un product nou» (Budai Deleanu, 2011, 10-11)

[Quest’opera (lavoro) non è rubato, né preso in prestito da nessun’altra lingua, ma è prorio un’invenzione nuova e originale romena. Quindi, buona o cattiva che sia, porta in questa lingua un nuovo prodotto.]

Il topos dell'«illustrazione» della letteratura romena con un genere letterario della cultura europea è ripreso in stile scientifico nella nota esplicativa di uno dei commentatori nell'apparato fittizio, quello che si definisce amico di Dianeu. Il commentatore presenta una breve storia

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del genere dell'epopea e afferma così che in romeno questo genere tterario non esisteva prima: «poeticul, care-i unul din prietenii miei,

au vr

li.] (Budai Deleanu, 2011, 50). Nella stessa nota l'amico di Dianeu fornisce una definizione dell'epdi Diacontesstrofadefiniche ci spie(Budai

cui il letteratopoï, s propria veste di erudito, neanche quando scrive un testo comico, Budai Deleanu fa

leut să aducă în limba noastră un feliu de poesie noao, precum să

află la italieni și alte neamuri; (…)» [il poeta, che è un mio amico, ha voluto portare nella nostra lingua un genere poetico nuovo, già presente presso gli italiani e altri popo

opea e fa un'analisi comparativa fra le fonti classiche e italiane neu, e l'adattamento che ne ha fatto l'autore alla lingua e al to culturale romeno, prendendo in esame caratteristiche come la

, il ritmo, i temi, i personaggi. Nella nota troviamo anche una zione del senso del termine «ritmo», alla stregua di altre note

gano l'origine del termine «Dumnezeu» [Domineddio] Deleanu, 2011, 50-51)

È evidente la vocazione pedagogica presente in questo testo, in lettore curioso può trovare un vero e proprio piccolo trattato di tura europea, nelle note in cui si descrivono personaggi, temi, ituazioni tipiche. Non riuscendo a dismettere la

delle scelte che, dopo duecento anni, saranno proprie dei postmoderni. Separa su due piani i livelli di difficoltà del testo: in alto, nel testo, abbiamo il regno delle Muse, cioè dell'ispirazione poetica il cui scopo è quello di piacere (delectare); in basso, nelle note, abbiamo il dominio dei filologi e degli spiriti critici, cioè le voci che informano, contestualizzano il testo, educano il lettore. Il dialogo fra questi due piani si complica ulteriormente, in quanto anche le voci dei filologi e dei diversi commentatori assumono sfumature comiche si contraddicono a vicenda, in modo che talvolta dal cumulo di informazioni e pareri che forniscono risulta un effetto comico più forte che dall'azione dei personaggi. Potremmo anche affermare che, poiché Budai Deleanu destina il testo a categorie diverse di lettori, appartenenti a livelli culturali differenti, per questo il testo produce diversi tipi di comico.

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3.5.5. Dulcis amor patriae e oggettività

L'amore per l'oggettività, lodato da Cantemir nel capitolo dedicato ai vizi dei moldavi in Descriptio Moldaviae, e non messo a tacere dal suo dulcis amor patriae, appare anche nell'epistola dedic

Don Quijote, si affida a innumerevoli fonti esterne, che da un lato entrano in conflitto con la sua musa, dall'altro non vengono presentate

atoria di Țiganiada a Mitru Perea: «să știi că, fiind eu țigan ca și tine, am socotit cuvios lucru de a scrie pentru țiganii noștri, ca să să priceapă ce feliu de strămoși au avut și să să învețe a nu face și ei doară nebunii asemene, când s-ar tâmpla să vie cândva la o tâmplare ca aceasta. Adevărat că aș fi putut să bag multe minciuni lăudând pe țigani și scornind fapte care ei n-au făcut, cum fac astezi istoricii unor neamuri, care scriind de începutul norodului său, să suie până la Dumnezeu și tot lucruri minunate bârfăsc. Dar eu iubesc adevărul.» (Budai Deleanu, 2011, 11-12)

[sappi che, essendo io zingaro come te, ho pensato che sia una cosa pia scrivere per i nostri zingari per far loro capire che tipo di antenati hanno avuto, e imparare a non fare anche loro simili pazzie, se accadese un fatto di questo genere. È vero che avrei potuto ficcare dentro tante bugie lodando gli zingari e inventando azioni che non hanno compiuto, come fanno oggi gli storici di alcuni popoli, che, scrivendo sugli inizi della loro stirpe, arrivano fino a Dio e sempre cose meravigliose blaterano. Ma io amo la verità.]

La necessità di scrivere la storia per salvare dall'oblio la memoria del popolo, il valore educativo della conoscenza, associati con l'oggettività propria dello studioso, hanno portato Dianeu alla conclusione che è più utile criticare che lodare, in quanto il vero uomo di scienza, non loda mai eccessivamente il proprio popolo. Certamente da questo culto dell'oggettività dichiarato dallo zingaro Dianeu sorge in noi un dubbio che ci fa pensare al paradosso del cretese bugiardo. Nel momento in cui Dianeu dichiara la sua intenzione di dire la verità, diventa un narratore non credibile. Allo stesso modo del narratore del

in modo convincente, fin dall'inizio, nell'epistola dedicatoria. Lo stesso Dianeu è chiaramente un miles gloriosus [soldato fanfarone] e

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racconta una storia che Mârza, un altro soldato fanfarone, ha sentito dal suo bisnonno, Mitrofan, testimone oculare dei fatti, ma anche lui soldato fanfarono. In questo modo più il narratore insiste per convin

ici» presenti nelle note, i quali commentano «la verità del testo» facendo una perfetta parodia dello s«verosroamnfinzio nga tradizconosispiratesplic ate, dobbiamo qui leggere

cere il lettore che Tiganiada racconta dei fatti realmente accaduti, più il lettore diventa diffidente e prudente.

Il topos dell'oggettività si raffina ulteriormente nel testo attraverso le voci dei «filologi» e dei «crit

tile scientifico. Non si tratterà qui della categoria aristotelica del imile», bensì della pretesa «fonte autentica» a cui si ispira il zo. Questa tecnica di basare la presunta verità di un testo di

ne letteraria su una fonte documentaria esterna ha una luione nella cultura europea48, una tradizione che Budai Deleanu ceva molto bene. Leonachi Dianeu pretende dunque di essersi o ad una cronaca, ma se il riferimento alla letteratura europea è

ito, dato che le fonti vengono dichiarun riferimento non solo ad una, ma a molte cronache romene antiche. In altri termini qui sicuramente Budai Deleanu si riferisce alla tradizione culturale romena delle cronache e delle storie. Abbiamo già mostrato che occupano una posizione centrale, nella tradizione culturale romena antica, proprio le cronache, in cui sono topoï ricorrenti la storia dei romeni, la loro origine, la loro romanità, il paragone con le altre culture. Sappiamo dai suoi lavori storici e linguistici che Budai Deleanu conosceva molto bene i testi di Cantemir e Costin, e che fece addirittura una traduzione in latino delle opere di Ureche. Possiamo quindi confermare che Țiganiada, da un lato, riprende in chiave parodistica strutture ricorrenti della letteratura europea, dall'altro, riscrive con un rovesciamento parodico i topoï

48 L'esempio più celebre è quello del Don Quijote, ma in numerosi adottano questa tecnica, che fino alle Lettres persanes, e oltre, non smette di affascinare gli scrittori. È certo una costante della letteratura europea, soprattutto moderna (post-medievale).

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definicostruromena ne ei valori letterari europei.

rapporto del suo testo con la presupposta cronaca che lo ha ispirato,

e la principale chiave di lettura del

benché in esilio da trent'anni, egli fa ancora parte del gruppo:

tori della cultura romena. Questo è stato il suo modo per ire una sintesi che avesse lo scopo di integrare la letteratura

l circuito dIl tema dell'autenticità appare sia per quanto riguarda il

sia per confermare i fatti per mezzo dei testimoni diretti. A questo proposito, scrive Dianeu a Mitru Perea:

«Eu socotesc că țiganii noștri sânt foarte bine zugrăviți în povestea asta, care să zice că au fost scrisă mai întâi de Mitrofan, ce au fost de față la toate …. Însă tu bagă de seamă bine, căci toată povestea mi se pare că-i numai o alegorie în multe locuri, unde prin țigani să-nțeleg ș-alții, carii tocma așa au făcut și fac, ca și țiganii oarecând. Cel înțălept va înțelege!..» ( Budai Deleanu, 2011, 10)

[Io penso che i nostri zingari sono disegnati molto bene in questo racconto, che si dice sia stato scritto prima da Mitrofan che a visto tutto... Però tu stai attento, perché mi sembra che tutta la storia sia solo un’allegoria in molti punti, dove per zingari si intendono anche altri, che così hanno fatto e fanno, come gli zingari una volta. Chi è saggio capisca!... ]

In questo passaggio Dianeu ci offrtesto: gli zingari sono di fatto romeni. Abbiamo già visto che in Scurte observații asupra Bucovinei Budai Deleanu vede i romeni della Bucovina come un popolo oppresso, degli schiavi, e quindi non ci deve stupire la scelta di rappresentarli allegoricamente come zingari.

Lo spirito critico di Ion Budai Deleanu si scatena in questa anti-epopea popolata da anti-eroi che non hanno nessuna intenzione di combattere, ossessionati dal cibo, litigiosi e incapaci di ogni organizzazione, che finiscono per uccidersi fra loro e per discperdersi poi nel mondo. Ritroviamo qui le critiche che Cantemir aveva rivolto ai moldavi in Descriptio Moldaviae, ma qui esse diventano ben più acide e chiaramente orientate. Il ruolo educativo del testo di Budai Deleanu appare chiaramente nella frase conclusiva dell'epistola dedicatoria, dove Leonachi Dianeu ricorda all'amico Mitru Perea che,

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«Scrie-m, rogu-te, cum vă aflați, că eu încă mă țân de ceata voastră și nu mă am lăpădat până acum; ba zioa și noaptea pentru dânsa lucru ș-ostănesc.» (Budai Deleanu, 2011, 9)

[Scrivimi, ti prego, come vi trovate, perché io ancora sono del vostro clan e non ora; al contrario giorno e notte per quello lavoro e fatico.]

Questo sarà per sempre? L'epistola è datata 1812, quando l'autore aveva

08, 127). All'epoca queste cose non erano da prend

ro perco

mi sono svincolato fin

terminato la seconda redazione di Țiganiada, mentre egli muore nel 1820, il che significa che l'autore ha tenuto per otto anni il testo nel cassetto, senza mandarlo a nessuno, oppure, se lo ha mandato a qualcuno, non deve essere affatto piaciuto. Nicolae Manolescu si chiede perché l'autore non abbia pubblicato Țiganiada e ritiene che Budai Deleanu temeva di sollevare uno scandalo con un'opera «che presentava in forma comica, ma anche canzonatoria, le idee care gli illuministi transilvani, che per imporle avavano sostenuto lotte molto aspre» (Manolescu, 20

ere in giro, in quanto i romeni della Transilvania stavano conducendo un'offensiva politica per otterenere i propri diritti con i mezzi della cultura umanistica.

Ma tre decenni di esilio avevano acutizzato lo spirito critico di Budai Deleanu, proprio come accadrà in seguito a Cioran. E sono molti i punti in comune fra i due, non solo a livello biografico. Entrambi sono moralisti e hanno una buona conoscenza della teologia, in entrambi il grande entusiasmo per il sentimento nazionale è accompagnato da una profonda angoscia. Per quanto riguarda il lo

rso concettuale, entrambi hanno riflettuto nelle loro opere sulla «romenità», arrivando ad affermazioni considerate, dai lettori, corrosivamente critiche. Sarà interessante osservare che, partendo da Cantemir, in Descriptio Moldaviae, e passando per Țiganiada, si genera nella cultura romena una modalità di approfondimento della propria identità nazionale in chiave profondamente critica. Le «constanti formali», per riprendere un'espressione di Curtius, di queste posizioni

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critiche sono tanto di carattere sociale che intellettuale; entrambi gli intellettuali sono scontenti soprattutto dell'incapacità dei romeni di organizzarsi meglio e dello scarso amore per la lettura. 3.5.6. Guerra o esilio?

L'intreccio di Tiganiada si basa su due filoni epici, la «chanson de geste» e il racconto d'amore, messi in ombra dalle innumerevoli digre

na, dopo avventure ro lando furioso e ad altre epopee rinascimenta matrimonio. Parpangel viene a sapere che la ita, e abbandona il gruppo di zingari ch con i turchi, per andare alla ricerca di le e, dopo numerose peripezie, fra cui la discesa nell'Inferno e la salita in Paradiso, la gel si chiude con le nozze, e alla sposa Ro o viaggio «dantesco».

Mentr a di Romica, gli zingari vengono ing dal suo esercito, che si sono travestiti da rca degli zingari e provare il

ssioni, che appaiono sia nel testo che, come si è visto, nelle note. L'azione epica principale riguarda la guerra degli zingari con i turchi: Vlad Țepes arma un gruppo di zingari per la guerra contro i turchi. Essi partono da una terra chiamata Flămânda (Affamata), verso una terra chiamata Inimoasa (Coraggiosa), ma non avanzano molto, perché si fermano a mangiare le provviste che hanno ricevuto e si attardano in lunghe discussioni.

Il secondo filone epico è il racconto d'amore che termicambolesche ispirate all'Orli e barocche, con un sua amata, Romica, è stata rape si preparavano alla guerra

i. La fanciulla era stata rapita da spiriti malvagi

ritrova. Il racconto di Parpanmica gli altri racconteranno il su

e Parpangel vaga alla ricercannati da Vlad Țepeș e

turchi per andare alla riceloro coraggio. Alla vista di quelli che sembrano turchi, gli zingari si spaventano e si arrendono, ma Vlad si fa riconoscere e li minaccia aspramente. Le minacce fanno effetto, e così quando incontrano i veri turchi, combattono coraggiosamente, temendo che si tratti ancora di Vlad travestito insieme ai suoi soldati. A questo punto ricevono la

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terra promessa da Vlad Tepes, e nei canti X e XI si descrivono in forma di satira le sterili discussioni fra gli zingari sulla forma di governo migliore per lla discussione segue una battaglia fra a di quella con i turchi, e gli zingari si u opo questo scontro il gruppo di disperde: «to ind, iar se împrăștiară.» (Budai Delea i da qui, del paese/in esilio si sparsero]

Il fina er tutti: gli zingari emigrano, Vlad Țepeș mnul viteaz ai săi vândură,/C streini.» (Budai Deleanu, 2011, 427) [Il principe v andare fra gli stran Appare allora un n ome un deus ex machina, Romândor ( la parola all'esercito di Vlad Țepes e lo es ica alternativa all'esilio:

.» (Budai Deleanu, 2011, 429)

la terra che hanno ricevuto. A zingari molto più violentccidono a vicenda. Dți țiganii de aici, prin țară/ Pribeg

i zingarnu, 2011, 423) [tutti gl

le del poema porta esilio pè tradito e perde il trono: «Pe do

are fu silit a merge înoloroso i suoi lo vendettero,/Che fu obbligato ad

. I turchi si preparano a occupare il paese. ieri]uovo personaggio, creato cSogno romeno), che rivolgeorta alla guerra come un

«Ș-unde-ți merge răsipiți în lume Făr’patrie, casă, fără hrană? Ah, cel mai amar! Ba și făr’nume Purtând cu voi vecinică prihană!... Nu, dragi voinici! Ori la slobozie, Ori la moarte drumul să ne fie!..

[E dove andrete sparsi per il mondo

Senza patria, né casa, né cibo? Ah, quanto e amaro! In più senza nome Portando con voi eterna colpa!... No, cari valorosi! O alla libertà, O alla morte la strada ci porti!...]

Il tema dell'esilio riappare più volte nel corso del poema (vedi Senatore). Senza essere dominante nel poema, dove il tema centrale è piuttosto la guerra, l'esilio è visto come un trauma o una sorte abominata. All'inizio dell'epopea, il vecchio zingaro moș Drăghici, una sorta di Nestore, consiglia agli zingari di lottare con parole molto

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simili a quelle pronunciate da Romândor nell'ultimo canto, nel suo discorso ai soldati.

«Că, dacă nu vă veți prinde dă mână, Părtășiri iubind și împărăcheare, Asupri-vă-va limbă străină Și veți hi pieriți fără scăpare, Nice veți mai face un neam pă lume, Ci veți hi fără țară și nume.

Ba veți hi cum furăt pân-acum,

t dă săracă, Dulce-i când poate cineva zice:

aice!..» (Budai Deleanu, 2011, 27)

mano, amicizia,

iera campo,

nel mondo.

vivono sulla strada... Sia il paese quanto più povero,

uò dire: i qua!

In nota, Mit asi del discorso di moș Drăghici e aggiunge: «O neamul mieu ce bunătate este a avea țara sa, nu ar hu r defăima neamul slujind străinilor care o asupr omprendere la mia stirpe, che bene prezioso è avera una terra che sia tua, non prenderci in giro, né

ra.] (Budai Deleanu, 2011, 27 Dalla nota si capisce che, accanto al desiderio di criticare i difetti

Cumu-s jidovii blăstămați, iacă!.. Ce n-au țară, ci trăiesc pă drum… Să hie țara câ

Asta-i țara mea, eu-s de

[Perché se non vi terrete perCondividendo amore e Vi dominerà lingua stranE sarete persi senza sNon sarete più una stirpe

Ma sarete senza paese, né nome. Ma sarete come siete stati finora, Al pari degli ebrei, che sono maledetti, ecco!.. Che non hanno un paese e

È dolce quando uno pQuesto è il mio paese, io son d

ru Perea offre la parafr, de-ar înțelege

li așa pe sine, nici ș-ae cesc (…)» [O, potess

diffamare la stirpe gli stranieri che ci stanno sop).

della società romena contemporanea, l'autore ha il timore che al lettore possa sfuggire il contenuto morale del suo testo, prendendo in

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considerazione solo il lato comico dei personaggi. Per questo orienta la sua lettura, ma l'effetto comico del testo, qui e in altri passi, è molto più forte delle idee morali.

Un'al ella di Cocon Idiotiseanu, che si riconosce n i di malignità. Critica ad esempio i si preparano alla guerra, per mancan una sua parafrasi in uno stile poetico secondo lui più

«Adică ă de hârtie. Mai bine era să cânte ca țiganii uite. Eu toate câte s-au zis pînă aice în scurt l

u, 2011, 18)

«Cioè be stato meglio cantare come i nostr utto ciò che è stato detto finora, lo avre

le provviste da Vlad Țepeș, essi si

tra voce sotterranea è quel corso del testo per i commenti pienl'intero canto I, in cui gli zingarza di concisione. Propone quindi

appropriato:

teacă-fleacă! Vorbe goale, pagub noștri și cu verșuri cum sânt obicine-aș fi cântat:

Frunză verde de săcară, Iacă țiganii s-armară Ca să-ș puie un vodă în țară, Asemene lor, pe-o cioară; Dar sfădindu-se între sine Lăsară-ș vodă ș-ocine Și mearseră în țări străine, Precum le-au părut mai bine.» (Budai Delean

bla, bla, bla! Parole vuote, carta persa. Sarebi zingari con versi come d’abitudine. Io ti cantato in breve così:

Foglia verde di segale Ecco che gli zingari si armarono Per scegliersi un capo nel paese, Come loro, su una cornacchia; Ma litigando fra loro Lasciarono e capo e terre E partirono in paesi stranieri Come meglio gli sembrò.]

3.5.7. Miles gloriosus e la guerra contro i turchi

Gli zingari guidati da Gogoman sono anti-eroi per eccellenza. Dopo aver accettato le armi e

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prepa

e fossero di ladri le strade piene, ro scontri,

i!...

olto e

rano alla guerra, e allora il loro capo, Gogoman, chiede al principe una guardia che lo protegga, perché ha paura dei nemici:

Dar (să ierți, Măria ta!) să zice Că ar hi dă tâlhari căile pline, Noi n-am vrea să avem cu dânșii price, Ci am trăi cu toată lumea în pace! Deci de temem să nu ne-asuprească Cumva pă drum laia tâlhărească!...

Rugăm dară pă Măria Sa foarte Ca să ne deie pă drum vo pavăză Ori oșteni ce n-au frică de moarte Sau și haiduci cu groaznice obrază, Ca la primejdie să ne ajute; Dă ar hi măcar numa doao sute!» (Budai Deleanu, 2011, 49)

[Ma perdoni (sua Signoria!) si dice ChNoi non vorremmo avere con loMa vorremmo in pace con tutti vivere! Quindi temiamo che ci assalga Sulla strada la banda di ladr

Preghiamo quindi la Sua Signoria mmino una protezionDi darci per il cam

Oppure guardie che non hanno paura di morire Oppure fuorilegge con brutte facce, Perchè ci aiutino nel pericolo, Che ce ne siano almeno duecento.]

Quando, contro tutte le previsioni, e anche contro le proprie intenzioni, gli zingari vincono una battaglia contro i turchi, e con vero coraggio ottengono una vittoria reale, la vittoria viene sminuita e messa in dubbio nell'apparato delle note. Un personaggio di nome Criticos scrive la prima nota: «Aici să vede că autoriu Țiganiadei, fiind și el țigan, au părtenit neamului său (…)» (Budai Deleanu, 2011, 49) [Qui si vede che l'autore di Țiganiada, essendo anche lui zingaro, ha parteggiato per il suo popolo.]

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A questa nota, Erudițian aggiunge che gli zingari non si sarebbero di fatto battuti con i turche, ma sarebbero stati asaliti da un branco di buoi selvatici: «Bine zice dumnealui Criticos, căci așa au însem

Quest

iță!

u, 2011, 47)

a!]

Una delle n ta a Părinte Filologos, ch «Mai sus au zis poeticul că țigani-is din i faraonească; să împrotivește eta aveva detto che gli zingari vengono dal ia egizia e faraonica; le cose si cont 'altra] (Budai Deleanu, 2011, 47). Un'altra not allora a Filologos, ricordando la distinzione a rsonaggio: «Trebuie a ști că

adevărata cunoștință de acum. Deci nu e nice o împrotiveală. C. Simpl

nat și învățatul Talalău, cum că au cetit nește cronice de demult, de molii roase, din care să culege că boii, ca turbați dând pe țigani, foarte pe mulți au prăvălit ș-au călcat.» (Budai Deleanu, 2011, 260)

o Talalău Viene citato spesso da Erudițian, come fonte importante sui fatti, e contraddice spesso il testo del poema (Budai Deleanu, 2011, 161). Un'altra fonte d'informazione fittizia citata nelle note è il libro di Zănoaga (Budai Deleanu, 2011, 50), che corregge le informazioni contenute nella cronaca del Monastero di Cioara.

Anche l'origine degli zingari è oggetto di ironie. La cronaca conservata nel Monastero di Cioara «nu spune» [non dice] (Budai Deleanu, 2011, 47), mentre quella «din Zănoagă» conserva un discorso in cui Vlad si rivolge agli zingari con queste parole:

«Vitează eghipteană rămășDe faraoni viță strălucită, Din vechi iroi tinără mlădiță!» (Budai Delean

[Brava egiziana reliquia! Di faraoni specie illustre, Di antichi eroi giovane gemm

ote che commentano questa strofa è attribuie rileva una contraddizione: India, și aici zice că sunt viță eghipteană ș una cu alta.» [Più su il pol'India, e qui dice che sono prosapraddicono l'una con l

a, di C. Simplițian, replicaristotelica fra io poetico e pe

aici grăiește Vlad Vodă și precum gândea el și după cum socoteala de obște de atunci, iar mai sus au grăit poeticul din sine și după

ițian» (Budai Deleanu, 2011, 48) [Devi sapere che qui parla il principe Vlad secondo quanto pensava lui e come si credeva in quel

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tempo, e sopra parlava il poeta secondo la sua opinione e secondo la vera conoscenza di oggi. Quindi non c’è nessuna contradizione. C. Simplițian]

Nelle discussioni sull'origine degli zingari si rispecchia il tema della ricerca delle origini dei romeni, mentre la pretesa oggettività dei filologi, fa riferimento, in tono comico, alle ricerche della Școala ardeleană.

Il patriottismo e l'identità nazionale sono trattate anch'esse in

scende nell'Inferno e sale in Paradiso, mescolando i ricordi del viaggio di Enea nell'Eneide e di quello di Dante

ue di lor erano vestite

chiave comica e parodica. Parpangel, l'eroe innamorato che parte alla ricerca dell'amata rapita, di

nella Commedia, e anche quello di Astolfo nella Luna nell'Orlando furioso. Fra le cose che vede Parpangel in Paradiso, c'è un'allegoria delle terre romene. Come ad Enea si presentava il futuro glorioso di Roma e della stirpe di Augusto, Parpangel vede una parte del destino delle terre romene, presentate allegoricamente:

«Zării întâiaș dată trii fete Dă împărat, ca când ar hi robite,/(…) Doao dântr-înse era îmbrăcate/ Ca nește doamne stăpânitoare,/ dar totuș făcea slujbă de argate,/ Iar una, în văștmânte ovilitoare/ Dă roabă, era sâlită a face/ Orice răpitorilor săi place.» (Budai Deleanu, 2011, 312)

[Vidi per la prima volta tre fanciulle Figlie di imperatore, che sembravano schiave (…) DCome delle signore e principesse Ma tuttavia facevano un lavoro da serve, Mentre una, in vestiti umili Da serva, era obbligata a fare Tutto cio che ai suoi rapitori piace.]

Parpangel chiede al suo trisavolo che cosa accade con le figlie dell'imperatore, ma questi non ha tempo di rispondere49. Come

49 Vedi i commenti a questa strofa, e la loro collocazione nel contesto sociale e politico contemporaneo, in Senatore, 2006, 94-95.

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Alexandra Vranceanu Pagliardini 240

accade a Enea, che non comprende il senso delle rappresentazioni che si riferiscono alla storia del futuro Impero romano, anche Parpangel resta

che sia comunque possibile ricons

perplesso. L'eroe si risveglia allora all'improvviso «venind nu știu cine/ mă luă și mă dusă cu sine.» [venendo non so chi / mi prende e mi porta con lui] (Budai Deleanu, 2011, 314), e così non conosce il futuro di quelle tre figlie dell'imperatore finite schiave. 3.5.8. La decostruzione della retorica mer mezzo di una parata di erudizione. Filologia iocosa

Come Miron Costin e Dimitrie Cantemir hanno cercato di

portare alla maturità «brudia noastră limbă» [l'imberbe nostra lingua], di levigarla scrivendo filosofia e romanzi, Ion Budai Deleanu vorrebbe illustrare la lingua romena con un'epopea, in modo da operare questa nobilitazione della lingua romena con l'innesto in essa della eltteratura europea, ridotta ai suoi tratti essenziali e più rappresentativi. Riprende così parodicamente i modelli classici, rinascimentali e barocchi, in modo

ocere temi, personaggi e soggetti originari della letteratura europea: il viaggio, la discesa agli Inferi o all'Inferno, il cavaliere con lo scudiero, l'amore, la pazzia d'amore, il rapimento amoroso, il miles gloriosus, il Paradiso, l'intervento degli dei (trasformatisi anche in santi o demoni) nella guerra dei mortali, la guerra con i turchi, la ricerca delle origini.

Se facciamo quindi un'analisi topologica dettagliata di Țiganiada, ritroviamo gran parte delle «costanti culturali della letteratura europea», in particolare quelle proprie dell'epica classica, rinascimentale e barocca, e del romanzo del XVIII secolo. I critici sono caduti nella stessa trappola, e hanno disfatto il testo in pezzetti per poter identificare tutte le fonti, ma questo lo aveva già fatto Ion Budai Deleanu, dichiarandolo sia nel proemio che nelle note. In particolare le fonti principali sono, come modello dichiarato, la Batracomiomachia

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di Omero, come riferimento moderno La secchia rapita di Tassoni e il Don Quijote di Cervantes50.

Un'ostentazione di erudizione tanto complessa non può essere motivata solo da servilismo o da mancanza d'ispirazione. Se avesse imitato soltanto alcuni di questi modelli, questi sarebbero stati sicuramente rilevanti, ma il numero del tutto abnorme di riferimenti e citazion da testi di tutte le epoche, mette in discussione l'idea stessa

e il giardino dei topoï di Curtius fosse stato trasfo

i, di modello. È come s

rmato in un terreno di gioco e fosse stato ricostruito con questo mosaico un disegno ironico in cui gli zingari hanno preso il posto degli achei, un festino ha sostituito il paradiso, l'indifferenza e la litigiosità svolgono il ruolo del coraggio. D'altro canto, come in un quadro di Arcimboldo, queste costanti formali, questi topoï ricompongono un'immagine del tutto nuova. Tiganiada sembra proprio una parodia del canone della letteratura europea, ridotta alle solo costanti formali, messa in scena soprattutto nelle note, per mezzo di una piccola enciclopedia di topoï, personaggi, situazioni, della letteratura europea classica e moderna.

Come si può spiegare questa parata di erudizione giocosa? Budai Deleanu non dimentica che il suo lettore, «brudia», come avrebbe detto Cantemir, cioè giovane, immaturo, bambinesco, non sa chi sono le Muse, chi era Achille, com'è il verso delle epopee, com'è il verso delle epopee, perché gli dei dell'Iliade decidono il destino degli eroi, chi erano Orlando o Virgilio, e così via. In sostanza egli ha inglobato nella carne del suo testo, per mezzo delle note a piè di pagina, venti secoli della letteratura europea, ridotta al canone e alle sue costanti formali.

Ma la sua erudizione è sotto il controllo di uno spirito critico eccezionale, infatti non dimentica il proposito di ironizzare sulla mancanza di coesione dei romeni, sulla loro incapacità organizzativa, 50 Manolescu vede in Țiganiada il vero testo barocco della letteratura romena. Ma a troppi testi letterari romeni à stata attribuita la qualifica di «barocco», il che ha messo in evidenza l'irrilevanza del concetto.

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sulla loro incostanza, per mezzo dell'allegoria degli zingari. Il solo rapporto fra il canovaccio lussuoso, costituito dai riferimenti alla letteratura europea, e il soggetto zingaresco, tessuto da Budai Deleanu, già da solo sarebbe comico, in quanto i personaggi suscitano il riso, le loro azioni non hanno alcuna finalità, non esiste nessun significato elevato e nessuna unità, come accadeva nell'epopea classica.

3.5.9. Filologi e muse

Come abbiamo già osservato, Ion Budai Deleanu fa in Țiganiada una parodia dello stile scientifico, in particolare dei linguaggi della filologia e del diritto, di cui era esperto.

Le note al testo contengono i commenti di alcuni personaggi che leggono il testo e orientano la lettura in direzioni diverse, talora contraddittorie, con il pretesto dell'erudizione e della chiarezza. La voci di questi lettori filologi argomentano le loro posizioni come in un processo, affastellando argomenti convincenti. Si vede chiaramente che Budai Deleanu aveva praticato, da giurista, la retorica nelle sua antica funzione aristotelica di scienza dell'argomentazione. Per questa via parodizza lo stile giuridico, attraverso un accumulo di precisazioni, che dovrebbero chiarire il senso del testo, e invece lo complicano del tutto. Il sistema di note di Țiganiada è assai più complesso di quello di un testo scientifico. Come i romanzieri del XVIII secolo raddoppiavano il testo com i commenti del narratore, così Ion Budai Deleanu raddoppia il proprio testo con le note, che alla fine assumono un ruolo più rilevante di quello dell'azione dei personaggi nel testo. Le note sono attribuite a molti interpreti, con formazioni diverse. Il filologo che compare più spesso è Mitru Perea, lo stesso a cui Leonachi Dianeu aveva dedicato Țiganiada, la maschera che nasconde il filologo e amico dell'autore Petru Maior. Un'altra categoria di glossatori è formata da Philologus e Musofilos, che talora fanno parentesi utili, indicando le fonti classiche del testo, mentre altre volte scrivono lunghe digressioni etimologiche o storiche, che dilatano inutilmente e comicamente l'azione dei personaggi. Ci sono

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anche alcune voci di teologi, cui si attribuiscono commenti moralizzanti, soprattutto quando l'azione dei personaggi sembra mettere in pericolo la virtù dei cittadini. Părintele Disidemonescul o Părintele Evlavios, ad esempio, che vorrebbero espungere dal testo le parti riferite ai demoni o le scene con connotazioni sessuali. Simplițian o Chir Onochefalos rappresentano un'altra categoria di critici: quelli che leggono tutto liberalmente e che non vedono nel testo la descri

nfronti degli zingari). Esiste anche ategoria di lettori pieni di malignità, che non capiscono e nte sul testo, sull'autore e sui personaggi, si chiama Idiotiseanu. Egli fa commenti cr ll'indirizzo di tutti.

Spesso ella realtà, polemizzano fra loro nelle note r oppressiva snatura a vo ggi e allontana il lettore dal senso del testo. I lo mici, perché arrivano a mettere in ombra l'az ei filologi, appetitose per il lettore avve icano il testo con i loro continui riferimenti i europea e alla sua tradizione

avver

di

zione di fatti reali o una finzione, ma legano l'opera alle fonti storiche e documentarie di Țiganiada, come ad esempio la cronaca trovata al Monastero di Cioara (non sfugga che in romeno il termine Cioară [Cornacchia] si usa come ingiuria nei co

una c ironizzano continuameuno di questi critici

itici, talora ingiuriosi, a i filologi, come accade n

iguardo al senso del testo; la loro presenzalte l'azione dei personaro commenti sono così coione dei personaggi. Le note d

rtito e informato, complntertestuali alla letteratura

culturale. Es e non si legano affatto alla trama narrativa del poema, anch'essa assai poco lineare, e potrebbero essere eliminate in una lettura superficiale del testo. Le informazioni che forniscono sono, per quanto riguarda la trama del poema, del tutto irrilevanti. Per questo moti commentatori e studiosi di

s

Țiganiada le hanno ignorate, senza tire che queste voci che materializzano nel testo un gran numero

di potenziali lettori differente, sono una parte essenziale dell'opera. Abbiamo osservato, negli scrittori fin qui studiati, che la retorica

è una presenza costante, ma ciscuno di loro sceglieva una scuola, un tipo di retorica particolare. In Budai Deleanu troviamo invece la sintesi erudita di molte scuole e tipi di retorica. In primo luogo possiamo affermare che egli faccia della retorica una sorta

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personaggio endo in modo parodistico tanto la ret me anche la retorica classica aristotelica ne. Certamente, un lettore filologo, cap ovrapposizioni dei vari topoï e i personaggi a sovrapposti ai topoï apprezzati dagli uman Țiganiada, molto più di un lettore co oema solo la trama epica.

Le m in Budai Deleanu: il narratore s a, le guida. I dialoghi dell'io poetico con siderio di decostruire il

bune și rele.» (Budai Deleanu, 2011, 17)

Qui il dell'atneancla poe

musa,filolog rte per

principale del testo, riprendorica classica che barocca, cocome scienza dell'argomentazioace di cogliere tutte le sdella letteratura europeisti romeni, si divertirà, leggendo mune, che cerchi nel puse sono una presenza costantei rivolge a loro, le chiam la sua musa, la carta, mostra sempre il suo de

modello dell'epopea eroi-comica:

O! tu, hârtie mult răbdătoare Care pe spate-ți, cu voie bună Toată înțălepția de supt soare Și nebunia porți împreună, Poartă ș-aceste stihuri a mele, Cum ți le dau, și

[O tu!, carta molto paziente Che sulla tua schiena, con gioia Tutta la saggezza che c’è sotto il sole E la pazzia porti insieme, Porta anche questi versi miei, Come te li do, e buoni e cattivi.]

topos della «modestia del retore» raggiunge la derisione tività poetica, che non solo sembra rinunciare, ma non intende he tentare di uguagliare i grandi modelli, e neanche si vuole che sia abbia un fine educativo. Guardiamo adesso un altro dialogo, fra l'io poetico e la sua con la quale addirittura polemizza, con un commento dei vari che compare nelle note. Nella strofa 1225, Parpangel pai

cercare la sua amata, rapita da Satana, abbandona il gruppo di zingari proprio durante i preparativi per la guerra, e arriva nel bosco. Come Orlando, è tanto disperato da pensare di uccidersi. A questo punto la voce narrante interrompe il racconto e si scontra con la sua musa:

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Dar ce-mi șoptești, musă, în ureche!... Cântecul doară să-m sfârșesc? Însă Nu vezi tu cum Pegazul îmi streche!... Cum căpăstru și zebele frânsă, Nice vra de poposit să știe, Nici s-abată în dalba țigănie?

Ma cosa mi sussuri, musa, nell’orecchio!... Il canto dovrei finire? Pero Non vedi come il mio Pegaso si imbizzarì Come ruppe il freno e le briglie, Non ne vuol sapere di riposo Ne di fare un giro dai pallidi zingari?]

La lite fra io poetico e Musa viene commentata in nota da tre critici, Mitru Perea, che la spiega, Idiotiseanu, che non capisce, e Chir Onochefalos, che cerca conferme nelle cronache storiche a cui s'ispira il poema. Nella prima nota, Mitru Perea fa una parafrasi della strofa precedente per spiegarla:

«Aici poeticul șuguiește, ca când musa i-ar șopti la ureche să întoarcă cu povestirea la țigani, iar el zice că Pegazul, râmpând frâul, îi streche, adică fuge și nu vra să rămâie pe loc. Pegazul este un cal cu arepi, despre care multe vei afla la mitologhie. Deci în loc de a zice poetul cu alte cuvinte: "eu văd că ar fi rândul să spun mai încolo despre țigani, dar, fiindcă acum am apucat a zice de Parpangel, mai bine este a fârși cu dânsul", în loc adică de a zice aceste, el au zis tot aceaeaș, însă poeticește. M.P.» (Budai Deleanu, 2011, 79)

[Qui il poeta scherza, come se la musa gli sussurrasse all’orecchio di tornare con il raconto agli zingari, mentre lui dice che Pegaso, rompendo il freno, si imbizzarrisce, cioè fugge e non vuole restare fermo. Pegaso è un cavallo con ali, di cui saprai di più dalla mitologia. Quindi invece di dire il poeta in altre parole: "io vedo che sarebbe il momento di continuare a parlare degli zingari, ma, visto che ho cominciato a parlare di Parpangel, meglio è concludere con lui.", cioè invece di dire ciò, lui ha detto la stessa cosa, ma poeticamente. M.P.]

Nella seconda nota (nota della nota) Idiotiseanul, un critico malevolo, continua commentando tanto la nota di Mitru Perea che la discussione fra l'io poetico e la sua Musa: «a) Așadar poeticii aceia trebuie să fie un feliu de nebuni ce nu vorbesc ca oamenii. Idiotiseanul.» (Budai

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Deleanu, 2011, 79). [a) Quindi questi poeti saranno una specie di pazzi che non parlano come la gente. Idiotiseanul.»] Nella nota b) (una nota alla nota della nota), Chir Onochefalos, adepto del rispetto del vero storico, polemizza con Idiotiseanul: «b) Dar nu-i așa, vere! Căci îm pare că ai auzit că poeticul așa află scris. Onoche.» (Budai Deleanu, 2011, 79). [«b) Ma non è così, compare! Perché mi sembra che hai sentito che il poeta così trovò scritto. Onoche.] Da questa abnorme dilatazione di una digressione già in sé insignificante dal punto di vista della trama epica, il dialogo fra il poeta e la musa, che gli chiede proprio di non fare tante digressioni, si vede chiaramente il rapporto del tutto inconsistente fra il filo della narrazione epica e quello dell'erudizione.

Țiganiada è un testo con una complessità di cui la letteratura romena non era ancora pronta a prendere coscienza. Il testo fu quindi letto in generale per le sue valenze comiche ed è stato apprezzato per quanto riguarda il comico delle situazioni e del linguaggio. Ma non si è compreso che il comico è per Budai Deleanu soltanto un mezzo con il quale poter «sincronizzare» la letteratura romena con la letteratura europea, mettendo in discussione in modo comico tutti i topoï gia classicizzati nella letteratura romena: il problema delle origini dei romeni, la loro unità e la possibile indipendenza, il confronto con le altre culture. A questi temi dobbiamo aggiungerne un altro, che non appariva né in Ureche, né in Costin, né in Cantemir, ma che faceva la ua comparsa in Cantacuzino: il tema dell'esilio e della migrazione. I

in same finora, è stato sempre segnato dall'esilio, con le sue componenti positive, come il cosmopolitismo e l'apertura di spirito, e quelle negative, la perdita di radici e l'angoscia delle origini. Budai Deleanu è stato il primo intellettuale che ha posto in relazione i topoï che definiscono la ricerca dell'identità romena con l'idea di esilio.

sdest

l o degli umanisti e intellettuali che abbiamo preso in e

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Fig. 3. Dimitrie Cantemir, Descriptio Moldaviae, pianta della Moldavia

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Fig. 4. Il palazzo di Dimitrie Cantemir di Constantinopole

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4

L'utopia di Cioran

Gli scrittori esiliati o migranti sono inclini, proprio per la loro posizione di passeurs entre les langues et les cultures [viandanti fra le lingue e le culture], a riflettere sulle identità nazionali, sul rapporto fra le letterature da cui provengono e quelle che li hanno adottati, sulle lingue di cultura e sui rapporti fra centro e margine (o frontiera). L'ultimo capitolo di questo studio prende in esame Cioran in quanto scrittore europeo.

Abbiamo osservato nei capitoli precedenti che l'eteroglossia caratterizza molti scrittori romeni dei secoli XVII e XVIII. Ebbene il cosmopolitismo, allora presente nella cultura dell'Europa centrale, un'area in cui le lingue di cultura erano indifferentemente slavone e greco e, dopo la caduta di Bisanzio, anche il latino, rimane una

oca moderna. Al latino si aggiunge l'italiano, e il francese, lingue che servono per entrare in

contat

Dopo la fine di Bisanzio come centro culturale, gli intellettuali iventano cosmopoliti. Se in Europa occidentale il

costan anche nell'epquindi anche il tedesco

te

to con gli umanisti occidentali dei nuovi centri di cultura, dove si era realizzata la translatio studii. Come osserva Virgul Cândea, nel XVII secolo gli intellettuali dell'Europa orientale conoscono tanto le lingue orientali che quelle occidentali. Gli uomini di cultura romeni si sono rapportati sempre a un centro culturale all'esterno del loro territorio e ad una lingua di cultura che non è stata mai la loro madrelingua, ma volta a volta lo slavone, il greco, il latino, l'italiano, il francese (Niculescu, 2002; Valmarin, 2002).

dell'Est europeo d

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latino ha giocato un ruolo unificante, nell'Oriente europeo la poliglossia culturale e la moltiplicazione dei centri culturali di riferim

scrittori romeni che hanno adotta

atizza nei suoi scritti questo passaggio dall'Est all'Ov t, da una cultura (la sua "cultura madre") che egli considera

e"), con tutti i traumi che ciò comporta.

ento ha portato ad un cosmopolitismo che si manifesterà pienamente nei secoli XIX e XX, con la totale apertura alla cultura moderna. Questa è una delle spiegazione per la facilità con sui gli scrittori romeni hanno potuto integrarsi, in epoca moderna, in altre culture: essi facevano parte di una tradizione culturale, per natura sua, intrinsecamente cosmopolita e aperta. La città di Parigi è solo il più recente dei centri verso cui si realizza una translatio studii, ma anche il centro che attrae il numero più grande d'intellettuali moderni1. Tanto è folta la schiera di

to in epoca moderna un'altra lingua di espressione letteraria e che si sono integrati in altri sistemi culturali e linguistici, che si dovrebbe scrivere una storia letteraria dell'esilio romeno. Questi intellettuali, adottando la lingua francese, hanno ottenuto accesso alla repubblica delle lettere. Cioran è un caso rappresentativo di tutto ciò perché egli problem

esminore, ad una cultura centrale (la sua "cultura di adozion

4.1. Costanti formali

Una discussione riguardo all'esilio romeno moderno non può non partire dalla tradizione del cosmopolitismo nella cultura romena. Seguiremo il modo in cui si riflettono nell'opera di Cioran le costanti formali che abbiamo fin qui analizzato nelle opere di Ureche, Costin, Cantemir, Cantacuzino Stolnicul e Budai Deleanu. Cominciamo al proposito con una breve ricapitolazione dei topoï che abbiamo seguito finora negli scrittori dei secoli XVII e XVIII, in modo da poter constatare come e in che cosa il discorso cambia nel periodo moderno.

1 Spiridon, 2004, 2004a

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4.1.1. Il topos «translatio studii» I centri culturali dell'Europa cambiano nei secoli, a questo ci

riferiamo analizzando il topos «translatio studii». Per Ureche e Costin il centro era il mondo umanista a cui avevano avuto accesso tramite le scuole gesuite della Polonia, nella visione di Stolnicul Cantacuzino Padova ha preso il posto di Bisanzio, mentre Dimitrie Cantemir passa da Constantinopoli a Iași, quindi in Russia, conservando però le sue relazioni con L'Accademia di Berlino. Per quanto riguarda Budai Deleanu, per lui il centro era Vienna, ma aveva un rapporto molto profondo con la letteratura italiana.

Nel periodo moderno la translatio studii approda sulle rive della Senna, tanto che alcuni studiosi della letteratura europea considerano la capitale francese «méridien Greenwich de la modernité». (Casanova, 2008) I romeni scelgono questo centro culturale fin dal XIX secolo, tanto che l'influenza francese è dominante nella letteratura romena moderna.

4.1.2. La «romanità» come topos identitario per i romeni

Un altro topos centrale nelle opere degli scrittori da noi studiati la ricerca delle origini romane del poè polo romeno e la conseguente

r la cultura classica. La «romanità» oduzione di storie della lingua,

che ne

ammirazione incondizionata peromena, che si manifesta sia nella pr

ll'adozione della retorica classica, in particolare latina, diventa una costante e assume un valore essenziale per gli intellettuali romeni dei secoli XVII e XVIII, tanto da diventare topos identitario e da essere utilizzata, nella forma della «nobiltà della stirpe» anche come argomento politico e ideologico, e non solo culturale. La scoperta della cultura classica comporta per Costin, Cantemir, Stolnicul Cantacuzino e anche Budai Deleanu, la scoperta di forme letterarie nuove, da essi poi trapiantate nella cultura romena. A prescindere dal fatto che siano

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moldavi, valacchi o transilvani, questi intellettuali cosmopoliti definiscono l'identità culturale romena per mezzo della relazione con la romanità. Ciascuno di essi rielabora però in forme diverse questa eredità latina: Ureche afferma lapidariamente «de la Râm ne tragem» [da Roma veniamo], Costin inserisce nel suo De neamul moldovenilor una vera e propria ode all'Italia, per mostrare ai lettori e compatrioti da che paradiso vengono i loro antenati, Stolnicul Cantacuzino investe nell'educazione umanistica dei valacchi, mettendo insieme la sua rinomata biblioteca e fondando a Bucarest una scuola superiore sul mode

vechimei al romano-moldo-vlahilor. Budai Deleanu assume in sé sia i

storici inguistici, in cui analizza la romanità dei romeni, che un'epop

abbiamo denominato, parafrasando un principio della Pléiade

llo dell'Università di Padova, dove aveva studiato, mentre Cantemir scrive inlatino, su commissione dell'Accademia di Berlino; la sua Descriptio Moldaviae, tradotta poi in romeno con il titolo Hronicul

l'eredità romena che la cultura europea: egli produce, infatti, sia scritte lea in cui fonde le costanti formali della cultura europea, topoï,

personaggi, soggetti, in una forma comica per cui li adatta a tematiche romene di attualità. Il topos della romanità ricomparirà anche in altri srittori romeni moderni, come Ion Heliade Rădulescu, ma nel XX secolo l'ammirazione per la latinità e il suo ruolo di modello si rivolgeranno alla cultura francese. 4.1.3. «Défence et illustration»

La cultura europea ha esercitato un fascino costante sugli intellettuali romeni. Questo fascino si è manifestato tramite il topos che

francese, «défence et illustration» della lingua romena. Ognuno di questi scrittori esprime nel proemio della propria opera il desiderio di scrivere «il libro» fondamentale per integrare la cultura romena nella cultura europea. La loro angoscia che l'eredità romana, e di conseguenza l'identità stessa dei romeni, si possa perdere, in

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mancanza di un libro che possa conservare la memoria del passato, si ritrova tanto in Grigore Ureche o Miron Costin, quanto in Dimitrie

Cantemir, Constantin Cantacuzino Stolnicul o Ion Budai Deleanu2. la ergogna per il fatto che la lingua romena non possiede fino a quel

n'epopea, trova espres

e non si

vmomento un poema filosofico, un trattato morale, o u

sione rispettivamente negli scritti di Miron Costin, Dimitrie Cantemir e Ioan Budai Deleanu. Tale vergogna si manifesta retoricamente in forme diverse, e trova riparazione con la produzione di quelle forme letterarie di cui si lamentava la mancanza.

Nel XIX e nel XX secolo gli scrittori romeni sentono il bisogno di illustrare, di nobilitare, nella propria cultura i generi moderni della letteratura europea, presenti in particolare nella letteratura francese.

4.1.4. Il mito di Bisanzio e il complesso della frontiera e del ritardo

Gli scrittori da noi studiati finora hanno un altro tratto in

comune: tutti definiscono la cultura romena mettendola in relazione con altre culture, sia con quella romana e poi bizantina, sia con le culture moderne, considerate fondamentali, ad esempio la cultura italiana. Il viaggio di studio, la migrazione o addirittura l'esilio, a seconda dei casi, sono esperienze che portano questi intellettuali a un complesso della frontiera e del ritardo: essi hanno la sensazione ch

sono scritti abbastanza testi fondamentali nella cultura romena, che la loro lingua non è ancora abbastanza «matura», che non sia stata «illustrata» da una sufficiente varietà di generi letterari. Se negli autori antichi tutto ciò confluiva nel topos «io offro cose mai dette», tramite il 2 Nel XIX secolo e nella prima parte del XX secolo, queste idee non scompaiono, ma, al contrario, si intensificano gli sforzi per ottenere la «sincronizzazione» con la cultura europea, il dialogo con i rappresentanti più significativi di questa, le relazioni intellettuali con i centri più rilevanti del tempo, Vienna, Berlino e, in modo speciale, Parigi. Questo tema è stato oggetto di numerose trattazioni, fra le queli ricorderemo, in italiano, l'importante storia letteraria coordinata da Bruno Mazzo(2010).

ni e Angela Tarantino

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quale essi potevano presentarsi come pionieri, questa «constante formale» si trasforma nel periodo moderno in complesso dell'inferiorità culturale, ed esplode con Eugen Ionescu ed Emil Cioran.

4.2. Cioran come scrittore rappresentativo dell'esilio

Dopo essere emigrato in Francia, Cioran trasforma il complesso della marginalità in marchio distintivo, in un concetto che si premura di approfondire e analizzare nelle sue opere filosofiche scritte in francese. Cioran ritorna molte volte sul tema, per definire la posizione dell'intellettuale che proviene da una cultura considerata come marginale, e che ha cambiato lingua di espressione e che si è adattato ad un nuovo universo culturale, rimanendo però (o temendo intimamente di rimanere) solo un «meteco» per la cultura che lo tollera, ma non lo accetta, un «rinnegato» per la cultura di origine che ha lasciato. Cioran ha cercato di non legare esplicitamente la sua speculazione sull'intellettuale esiliato alla propria biografia, ma questo legame traspare anche solo dalle metafore di cui fa uso. Il fatto che sia riuscito a definire, nello stile conciso delle sue opere in francese, un vero e proprio modello di intellettuale proveniente da una cultura minore, alla ricerca di asilo nella moderna repubblica delle lettere, attraverso l'integrazione in uno dei centri principali di questa, fa di lui un vero e proprio punto di riferimento per la letteratura dell'esilio.

La problematica della letteratura dell'esilio ha conosciuto negli ultimi decenni uno sviluppo enorme, dato che molti intellettuali provenienti da culture «piccole», cioé poco note e «lontane dal centro», si sono integrati in culture considerate «grandi» e «centrali», come quella inglese, quella francese o quella spagnola. Queste culture «grandi» hanno integrato gli scrittori migranti o esiliati, considerando che questa scelta era una prova che la loro lingua è lingua di cultura, al pari del latino in altre epoche. Ancora una forma di translatio studii, solo che nel mondo globalizzato i centri sono ormai divenuti numerosi e le opzioni possibili si sono moltiplicate.

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Alcune letterature, come ad esempio quella di lingua francese, hanno inventato concetti nuovi per descrivere questo fenomeno dell'inclusione degli scrittori migranti una formula che superi le griglie della letteratura nazionale. Al termine «letteratura francofona» si sta oggi sostituendo quello più ampio di litterature monde en français, che ce

o della migra

indispensabile che conoscesse a fondo la storia delle relazioni fra le

rca di dissolvere la nuova frontiera eretta fra scrittori francofoni e scrittori francesi (Mathis-Moser; Mertz-Baumgartner, 2012). Il gran numero di premi ottenuti da scrittori migranti e gli studi specialistici a essi dedicati negli ultimi anni, in molte lingue, mostra il maggiore interesse esistente verso questi scrittori, la cui esperienza mette in discussione il concetto chiuso di letteratura nazionale.

Nell'universo della globalizzazione è più arduo stabilire verso quale centro e verso quale lingua avvenga la translatio studii, ma il tema presenta un interesse pari a quello che aveva nei secoli passati. Per questo le ricerche legate alla letteratura dell'esilio

zione mettono insieme gruppi di specialisti che vanno oltre le singole lingue o discipline, e che si aprono a non circoscrivere lo studio delle letterature solo in funzione della lingua di espressione.

In tutte queste ricerche dedicate agli scrittori cosmopoliti che oltrepassano le frontiere nazionali in direzione di una «letteratura transnazionale» (Vranceanu, 2010), gli scrittori romeni occupano una posizione privilegiata. Il gan numero di scrittori di origine romena che hanno scritto in francese, alcuni dei quali integrandosi perfettamente nel canone letterario francese, come nel caso di Cioran o Eugen Ionescu, costituisce un fenomeno già studiato come caso esemplare (Quinney, 2012). Arriviamo così ad una domanda spinosa: Cioran è uno scrittore francese o romeno? Potremmo rispondere semplicemente, sia l'uno che l'altro, ma in questo caso lo studioso che rivolge a lui le sue ricerche dovrebbe avere conoscenze approfondite sia sulla cultura francese che su quella romena, così come sarebbe

due culture. Studi di genere, recentissimi, analizzano secondo una

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 257

prospettiva del tutto nuova le letterature nazionali «maggiori», vere e proprie fortezze assediate ed espugnate da scrittori il cui percorso non può certo essere descritto con i metodi offerti dalla disciplina tradizionale della storia letteraria, inventata nel XIX secolo per definire lo «specifico nazionale»3.

Ma questo superamento delle frontiere delle lingue e delle culture e la migrazione degli intellettuali è veramente un fenomeno caratteristico solo del nostro tempo? Proprio per dare una risposta non scontata a questa domanda ho scelto di mettere in relazione nel presente volume alcune opere della letteratura romena antica con quelle

rale specifica, «grande» o «picco » che sia.

è molto interessante da questo punto di vista, perché, da un lato, produce una frattura nel modello fin qui descrit

di Emil Cioran, al fine di mostrare che molte sono le costanti formali e concettuali che persistono. L'identità culturale si costruisce per mezzo di successive delimitazioni, in funzione di quello che gli altri sanno su di noi e di quello che noi sappiamo sugli altri, ma queste delimitazioni non sono certo una novità dei tempi moderni.

Il Medioevo europeo era forse molto più «cosmopolita» del nostro mondo globalizzato, grazie alle lingue di cultura, fra cui un ruolo privilegiato ricopriva il latino, ma dove anche il greco e lo slavone rappresentavano veicoli importanti per la circolazione di idee e forme da una cultura all'altra. Quest'apertura verso le altre culture, sia che si tratti della cultura classica, sia che si tratti delle grandi culture moderne, ha portato un contributo notevole alla formazione della coscienza della propria identità cultu

laL'esempio di Cioran

to (viaggio – complesso d'inferiorità – creazione di un libro fondamentale), dall'altro, ha questa frattura come modello. Cioran ha saputo guardare oltre la propria esperienza individuale, in quanto

3 Mi sono riferita alla relazione fra crisi delle letterature nazionali e letteratura dell'esilio in Vranceanu, 2010.

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non si è limitato a descriverla, ma ha saputo rappresentare la condizione «universale» sia la condizione di tutti i romeni che si erano trasferiti a Parigi, sia quella di tutti gli scrittori francofoni, ma non di madrelingua francese. Per questo, il modello che si ricava dalle sue opere diventa rappresentativo per lo studio della letteratura europea. Attraverso la sua riflessione sull'esilio, Cioran cristallizza un nuovo topos, quello del «meteco», di chi ha rinnegato la propria lingua e la propria cultura, considerate marginali, e si è integrato, attraverso una lingua e una cultura di circolazione internazionale, nella cultura europea tout court.

Molto intenso è il contenuto autofinzionale dei sui essais (saggi), nella cui strategia retorica si combinano la concisione del moralista con una sorta di confessione che porta con sé una illusione di autenticità. Per mostrare come Cioran riesca a descrivere l'esperienza dell'esilio senza scrivere opere narrative (tanto che nelle librerie i suoi saggi sono allineati sullo scaffale della narrativa), seguiremo un percorso in due tappe. Nella prima seguiremo il modo in cui Cioran riprende e trasforma i topoï identificati finora, partendo dal volume di Curtius, negli autori romeni che abbiamo studiato. Nella seconda tappa, spiegherò perché possiamo considerare Cioran molto più che uno scrittore romeno francofono, che ha raggiunto il successo a Parigi, e come sia riuscito a trasformare le propria esperienza intellettuale in un modello esemplare di scrittore europeo.

4.3. «Il destino» di Cioran

Cioran non è il primo scrittore romeno partito per studiare all'estero in un centro importante, che nel suo caso era Berlino, né il primo che è invaso dall'angoscia che la propria cultura non è dotata di un numero sufficiente di opere rappresentative e significative. Non è neanche il primo scrittore che critica i romeni per non aver scritto o letto abbastanza, per non avere abbastanza libri fondamentali. Per

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questa via ritroviamo nella sua opera tutti i topoï di cui abbiamo discusso finora a proposito di Ureche, Costin, Stolnicul Cantacuzino, Cantemir o Budai Deleanu, ma qualcosa cambia, e questo cambiamento è, altrettanto, un altro tassello di questo capitolo: gli crittori trattati finora regiscono all'angoscia della marginalità, della

stile, e «d

lmente come lettore per la sua casa editrice, ma senza avere mai u

atto ritorno in Romania. È stato un esiliato? Sì e no. Romarisponcaso, n Romaavuto le

sfrontiera e del ritardo, scrivendo, in romeno, opere fondamentali, canoniche per la lingua romena. Cioran, al contrario, cambia lingua,

iventa scrittore francese». Durante questo processo di «cambio d'identità», di superamento fisico, linguistico e canonico di uno spazio marginale, riflette e commenta. Questi commenti lo trasformano in un filosofo dell'esilio, della marginalità, dell'esclusione. In un mondo popolato da migranti e passeurs entre les langues, la sua esperienza risulta estremamente rappresentativa, attira l'attenzione dei lettori sui rapporti fra culture grandi e culture piccole, fra centro e margine.

Cioran ha fatto studi di filosofia a Bucarest e due soggiorni di studio all'estero, uno in Germania e uno in Francia, è vissuto con le borse di studio e con i diritti d'autore, lavorando anche occasiona

n posto fisso di lavoro. Il secondo viaggio di studio a Parigi, che aveva come obiettivo una tesi di dottorato, si è poi prolungato, tanto che Cioran non ha più f

Probabilmente non sarebbe ritornato in Romania anche se la nia non fosse stata occupata dai sovietici, ma è difficile dere in modo definitivo a questa domanda, dato che in ogni dopo il 1944, Cioran non avrebbe mai potuto fare ritorno inia, poiché dall'avvento del comunismo tutti coloro che avevano

gami con il movimento fascista venivano incarcerati. Cioran aveva scritto diversi articoli in cui simpatizzava con Corneliu Zelea Codreanu, il capo di uno dei movimenti estremisti fascisti, e a lui aveva dedicato anche un libro: Schimbarea la față a României (1936). Dal 1937 fino alla morte ha abitato nel centro di Parigi. Ha scritto 6 libri in

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romencontrioperanazion

capito

o e 11 in francese, ma ci soffermeremo soltanto sul suo buto alla letteratura dell'esilio, seguendo gli aspetti della sua legati all'interculturalismo e alle metamorfosi della sua identità ale.

4.3.1. Cioran, fra il mito di Bisanzio e il complesso della frontiera: Schimbarea la față a României [La trasfigurazione della Romania] (1936)

Cioran ha il suo primo confronto con l'Europa fra il 1933 e il

1935, nei due anni del soggiorno di studio in Germania. Il risultato di questo confronto si può vedere nella sua opera già citata Schimbarea la față a României, dove il mito di Bisanzio si combina con il complesso della frontiera e quello del ritardo. Un testo difficile, da cui Cioran ha preso le distanze nel 1990, quando lo ha ripubblicato eliminando un

lo dal contenuto fascista4. Fra i motivi che hanno portato Cioran all'ammirazione per la Germania nazista, vista da lui come un paese avanzato, ordinato e bene orientato verso i suoi scopi, c'erano sicuramente questi complessi che derivavano in lui dall'essere romeno.

In un articolo dal titolo «România în fața străinătății» [La Romania di fronte alle nazioni straniere], egli afferma che secondo i tedeschi la Romania è:

«o țară acoperită de păduri, primitivă, trăind ca-n epoci legendare; prin ce are modern, ușuratică și superficială; prin tradiție, neinteresantă și inexistentă. Se crede că la noi siguranța vieții este o simplă poveste. Câțiva m-au întrebat cum ne apărăm de haiducii din păduri și dacă avem jandarmi.» (apud Petreu, 2011, 22)

[una terra ricoperta di foreste, primitiva, che vive come in un'epoca leggendaria; per quanto riguarda gli aspetti moderni, frivola e superficiale; per

4 Non farò qui riferimenti al contenuto idelologico di questo saggio, né alle osservazioni qui presenti sugli ebrei e sugli ungheresi. Il tema è stato trattato esaurientemente da Petreu, 2011, che analizza dettagliatamente come si è prodotta l'adesione del giovane Cioran al fascismo dopo aver trascorso, con la prima borsa di studio, due anni in Germania. Vedi Rotiroti , 2005.

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quanto riguarda la tradizione, priva di interesse e inesistente. Si crede che da noi sicurezza di vita sia una pura favola. Alcuni mi hanno chiesto come ci difendiamo dagli haiduc (uomini selvatici) che vivono nei boschi e se abbiamo dei gendarmi.]

Marta Petreu legge una lettera di Cioran dalla Germania e osserva: «în scriso

etreu, 2011, 38). o stesso complesso, di far parte di una cultura sconosciuta da

parte Deleadenigrl'atten rpolazioni di Simeon Dascălul nella cronaca di Grigore Ureche. Ma la leggenda racconavanzipaesi propresemp Hronic di aver trovato la

abbiano avuto successo, se ancora Cioran, durante il suo viaggio di

ri șocul de identitate transpare și mai brutal: "Este teribil să fii român: nu câștigi încrederea afectivă a nici unei femei, iar oamenii serioși zâmbesc; când te văd deștept, te cred escroc. Dar cu ce am greșit eu de trebuie să spăl rușinea unui popor cae n-are istorie?"» [nelle lettere lo choc identitario traspare in modo più brutale: "È terribile essere romeno: non puoi ricevere la fiducia d'amore di nessuna donna, mentre le persone serie sorridono; quando ti vedono intelligente, ti credono uno scroccone. Ma in cosa ho peccato io per dover lavare la vergogna di un popolo senza storia?] (P

Ldegli europei, lo hanno sofferto anche Cantemir, Costin e Budai nu. Uno dei segni della loro esasperazione di fronte ai testi atori nei confronti dei romeni, che trovavano in circolazione, è zione, che ci può sembrare eccessiva, per le inte

tata da Simeon, secondo cui i romeni hanno come antenati di galera romani, è stata poi ripresa da diversi scrittori dei vicini, e si è potuta contestare solo per mezzo di una vera e ia offensiva di opere umanistiche, storiche, linguistiche ecc. Ad io, Cantemir si lamenta nel suo

«favola» di Simeon Dascălul in ben tre libri in Russia (cap.3, nota 55). Stolnicul Cantacuzino fa una vera perorazione a favore della produzione di un libro che possa conservare la memoria del passato, per rispondere a coloro che scrivono «ciò che vogliono» sui romeni.

Ma sembra che tutti questi sforzi degli intellettuali romeni non

studio nella Germania nazista, si scontra con lo stesso disprezzo per i

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romeni che avevano provato i suoi predecessori. La reazione di Cioran non è, nella sostanza, diversa da quella degli antichi cronicari: anche lui scrive un libro che vedeva come fondamentale, un libro che potesse aiutare i romeni a svegliarsi da una sorta di letargo secolare, a mettersi in movimento per diventare un grande popolo.5

el libro appaiono due elementi che avranno in seguito un rilievoil comistoricdefini1994),geogrviolenArghe

i, ci și la cea spirituală.

Il motcui la

impatia dell'influsso turco, nella

N maggiore sul destino di esiliato di Cioran: il mito di Bisanzio e plesso della periferia. Cioran approfondisce, nel capitolo Spirala ă a României, il rapporto fra Oriente e Occidente dell'Europa, e sce, secondo la prospettiva degli europei occidentali (Todorova, la zona balcanica. Cerca di spiegare in che modo la posizione afica ha determinato la sorte politica della Romania. I termini ti ed esaltati da lui usati ricordano la verve satirica di Tudor zi, poeta contemporaneo ammirato da Cioran: «Balcanii nu sînt numai la periferia geografică a EuropeMai cu seamă la aceasta. Resturile, scursurile, cangrena morală, imbecilități ale instinctului, orizont imediat, determină toate o fizionomie caraghioasă și tristă, de un grotesc deprimant. Balcanul în esența lui reprezintă o zvârcolire ratată, un dinamism închis, o sterilitatate jalnică.» (Cioran, 1990, 196) [I Balcani non sono solo alla periferia geografica dell'Europa, ma anche a quella spirituale. Anzi, soprattutto a questa periferia. I resti, le rimanenze, la cancrena morale, le imbecillità dell'istinto, l'orizzonte immediato, tutto questo determina una fisionomia da saltimbanco e triste al tempo stesso, di un grottesco deprimente. Il balcanico, nella sua intima essenza, è un divincolarsi fallito, un dinamismo bloccato, una sterilità straziante.] ivo per cui Cioran vede la zona balcanica come una frontiera in civiltà scompare si collega all'influenza turca. Budai Deleanu arlava con molta empatia o snon p

sua opera Scurte observații asupra Bucovinei, e neanche Cantemir,

5 Marta Petreu ha condotto un'analisi dettagliata e molto ben documentata sul desiderio, provato da Cioran, di «scuotere» il popolo romeno. Vedi Petreu, 2011, 19-43.

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profondo conoscitore della storia e della religione dei turchi, era un ammiratore della loro cultura. Cioran crede che la mancanza di coesione culturale nella penisola balcanica sia stata la fonte dei conflitti politici. Il suo disprezzo per la cultura turca è senza diritto di appello:

«Atât timp cât dominația turcească s-a întins în acest colț de lume, el avea o unitate, care dacă era exterioară, nu lega totuși mai puțin, prin acea teroare sterilă ce a definit imperialismul otoman, diversele neamuri, răzlețite fără rost pe meleagurile acestea. Turcia ca mare putere și-a definit tăria extensiv. Astfel, ea n-a putut imprima un stil istoric valabil țărilor cucerite. Pe timpul când Imperiul Otoman se întindea până din Maroc la marginile Arabiei și de la Viena la Nil, el n-a putut să dea o formă unui așa mare spațiu de cultură. Imperialismul turcesc este un caz tipic e nearticulație istorică. Exemplul Turciei

e învață de cum nu trebuie să fie un imperialism. Altcum nu ne-am explica de

e turca si è estesa su questo angolo di

erre che ha conquistato. La Turchia, nell'epoca

ia, una

L'ultimsuoi ldelle

nce toate popoarele care au cunoscut jugul semilunei și-au făcut un merit din a-și lichida erditățile turcești. O urmă de drum roman este un îndemn la glorie, o moschee un prilej de amărăciune.» (Cioran, 1990, 202-3)

[Per tutto il tempo che la dominazionmondo, esso possedeva una unità, che, pur essendo solo esterna, non legava tuttavia meno fortemente, attraverso quel terrore sterile che ha caratterizzato l'imperialismo ottomano, popoli diversi, schiacciati senza memoria su questo territorio. La Turchia, con un potere molto forte, ha definito in modo estensivo la sua identità. In questo modo, non ha potuto imprimere caratteristiche storiche valide e persistenti alle tin cui l'Impero Ottomano si estendeva dal Marocco ai confini dell'Arabia, da Vienna al Nilo, non ha potuto dare una forma ad uno spazio culturale così vasto. L'imperialismo turco è un caso tipico di disarticolazione storica. L'esempio della Turchia ci insegna come non si deve costruire un imperialismo. Altrimenti non si potrebbe spiegare che tutti i popoli che hanno conosciuto il giogo della mezzaluna si sono vantati come un merito della liquidazione di ogni eredità turca. Una traccia di strada romana è uno stimolo alla glormoschea un'occasione di amarezza.]

a frase del brano citato, che preannuncia lo stile conciso dei ibri in francese, sintetizza anche la visione politico-culturale opere dei cronicari da noi trattate finora. In essa si esprime

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perfetnella Cantadell'Operalt della

trăim ă creștem în mijlocul unei comunități balcanice. Aparținem prin soartă

ndannati a vivere e a crescere in mezzo ad una comunità balcanica. Per

anni Trenta tutto il svista d

mentare a cărei continuare nu mai are nici un sens.

ului Constantinopol.» (Cioran, Schimbarea…, 1990, 203)

tamente la rottura fra Oriente e Occidente, così come appare visione degli intellettuali romeni. Anche per Costin o

cuzino Stolnicul, le vestigia romane sono il simbolo ccidente, della civiltà, mentre la moschea, la cui costruzione era ro proibita nei trattati su tutto il territorio della Valacchia e

Moldavia, è il simbolo della separazione dall'Europa. Da Ureche a Cioran si riconosce una linea immaginaria che separa la civiltà dalla non civiltà, l'Europa dai Balcani, l'Occidente romano dall'Oriente turco. Come per gli altri europei, queste zone sono separate da un clivage profond (Fournier, 1998). Proprio per questo Cioran ritiene che la collocazione geografica dei romeni alla frontiera del mondo balcanico sia una condanna, una fonte di decadimento:

«Noi, românii privim cu dispreț mărturisit celelalte popoare balcanice (…) Este desigur o rușine inevitabilă a condiției noastre, de a fi fost condamnați săși sBalcanilor, deși aspirația noastră continuă ar fi evadarea spirituală din ei.» (Cioran, Schimbarea…, 1990, 195)

[Noi, romeni, guardiamo con un disprezzo professato tutti gli altri popoli balcanici (...) È certo una vergogna inevitabile della nostra condizione, esserecodestino apparteniamo ai Balcani, mentre la nostra aspirazione continua sarebbe una evasione spirituale da essi.]

Tornato da Berlino dopo due anni di borsa di studio, in cui aveva frequentato con una certa libertà i corsi, ma si era impregnato di politica fascista, che non aveva ancora mostrato negli

uo potenziale nocivo, Cioran assume interamente il punto di elle potenze occidentali riguardo alla regione dei Balcani:

«Încetând hegemonia turcească, individualizarea politică a popoarelor balcanice a dus la o fragDespre o refacere a Turciei, ar fi o crimă să vorbim. Să ne gândim, însă, numai la ce a reprezentat Constantinopolul pentru această regiune umană și ce vid avem să umplem prin apusul său. Problema hegemoniei în sud-estul Europei este identică cu acea a no

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[Cessando l'egemonia turca, l'individualizzazione dei popoli balcanici ha portato ad una frammentazione la cui prosecuzione non ha più senso. Di una ricostituzione della Turchia, sarebbe criminale solo parlare. Pensiamo solo, tuttavia, a che cosa ha rappresentato Costantinopoli per questa regione umana e che vuoto dobbiamo riempire dopo il suo tramonto. Il problema dell'egemonia nel Sud-Est dell'Europa coincide con quello di una nuova Costantinopoli.]

Un'altra fonte del pensiero politico del giovane Cioran è il libro di Nicolae Iorga, risalente proprio a quegli anni, Byzance après Byzance (1935), da noi spesso citato nei capitoli precedenti. Iorga cerca nella sua opera di spiegare, in francese, dunque per un pubblico occidentale, in che modo era sopravvissuta la cultura bizantina nella zona balcanica, ma anche italiana, e in particolare nelle terre romene. Cioran

isanzio:

tantinopol?» (Cioran, 1990, 203)

del tutto dimenticata? Ma noi non dimenticheremo il suo significato e la sua importanza,

recupera il mito di Bisanzio, che oppone al complesso della marginalità. Secondo la sua opinione, la via sola per non rimanere una cultura piccola e marginale, è fare di Bucarest la nuova B

«Într-o astfel de problemă nu se poate vorbi decât deschis: fi-va România țara unificatoare a Balcanului, fi-va Bucureștiul noul Cons

[In questo genere di questione non si può che parlare apertamente: diventerà la Romania il paese unificatore dei Balcani, diventerà Bucarest la nuova Costantinopoli?]

La rin scita folgorante del mito di Bisanzio nell'opera di Cioran è ispirata alla letteratura romantica, che il giovane Cioran vorrebbe trasferire nella politica. Egli riprende idealisticamente un mito che anche Iorga considerava già scomparso fin dal XIX secolo, e getta così un ponte nel tempo per collegarsi alla visione di Ureche:

«Cum să ne bucurăm când vechiul Constantinopol a degenerat într-o temă romantică și că-l mai înțeleg doar poeții, că oamenii politici l-au uitat? Noi însă nu-i vom uita semnificația și greutatea, fatalitatea și tragicul.» (Cioran, Schimbarea…, 1990, 204)

[Come possiamo gioire da quando l'antica Costantinopoli è degenarata in un tema romantico, compreso solo dai poeti, mentre i politici l'hanno

a

la fatalità e la tragicità.]

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Negli

ntificate da umanisti e tellettuali romeni nel corso dei secoli.

n gli altri popoli della regione, che giustificherebbe questa posizione di nuova

nsità, ma

pa. Queste costanti formali apparivano anche nelle

Purtroppo, in quegli anni l'Europa era diminata dal fascismo.

scrittori dei secoli XVII e XVIII, il tema derivato dalla caduta di Bisanzio aveva generato il mito di una sua rinascita attraverso la cultura, la religione e i rituali, e così il mito di Bisanzio si era unito al mito di Roma origine nobile della stirpe. L'angoscia ispirata dalla cultura orientale aveva portato Stolnicul Cantacuzino, di origine fanariota, a preferire Padova, come centro di studi, e Cantemir, che aveva approfittato scuole e delle biblioteche di Constantinopoli, ad allearsi con lo zar Pietro il Grande, per liberare la Moldavia dai turchi. Sono costanti che ritroviamo in Cioran, soltanto espresse con una diversa retorica. Il disprezzo di Cioran per i Balcani è il risultato di una lunga serie di separazioni di identità, idein

Cioran ritiene che la superiorità dei romeni a confronto co

Costantinopoli, sia l'insoddisfazione di se stessi:

«Ceea ce are România în plus, față de celelalte țări mici care o înconjoară, este o conștiință nemulțumită, care-și justifică valabilitatea nu prin adâncime, ci prin permanență. (Cioran, Schimbarea…, 1990, 197)

[Ciò che ha in più la Romania, rispetto agli altri paesi piccoli che la circondano, è una coscienza insoddisfatta, che giustifica il suo valore non per l'inteper la persistenza.]

Cioran intende per «conștiința nemulțumită» dei romeni il modo in cui gli intellettuali degli anni Venti e Trenta commentavano l'influenza della geografia politica sui paesi romeni, l'effetto negativo dell'influsso turco, russo o ungherese, la sensazione di essere alla frontiera dell'Euroopere degli scrittori da noi studiati, ma l'insoddisfazione degli intellettuali romeni raggiunge il culmine negli anni Trenta del XX secolo, proprio quando scrive anche Cioran6. Nei suoi discorsi politici, ideologici e culturali, egli sviluppa questo tema in direzione dell'avvicinamento maggiore alla cultura europea (Pițu, 1997).

6 Vedi Mazzoni; Tarrantino, 2010.

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L'arroganza del giovane Cioran può essere in parte spiegata con l'influsso delle idee fasciste, ma essa non scompare del tutto neanche nei testi successivi, in cui continua a paragonare le culture fra loro e a stabilire delle gerarchie7. Dopo la partenza per Parigi, Cioran attribuirà alla cultura romena i tratti negativi che nel 1936 attribuiva ai Balcani. Potremmo affermare che, vedendo che la Romania non era riuscita ad «evadere spiritualmente» dai Balcani, Cioran prende la decisione di «evadere» dalla cultura romena. A Parigi scompare anche del tutto dagli scritti di Cioran il mito di Bisanzio, mentre rimane, con un ruolo centrale, il complesso della frontiera. 4.3.2. La teoria della barbaritas come alternativa alla romanitas

Nel 1937, cioè solo un anno dopo la pubblicazione di Schimbării

la față a României, Cioran parte per la Francia con una borsa per il dottorato, che lui prolungherà indefinitamente. A Parigi scrive ancora in romeno tre libri: Lacrimi și sfinți [Lacrime e santi] (București, 1937), Amurgul gândurilor [Il crepuscolo dei pensieri] (București, 1940), Îndreptar pătimaș [Guida passionale] (publicato solo nel 1990).

Il suo primo libro in francese appare nel 1949, Précis de décomposition [Sommario di decomposizione]. Fra il 1937, anno della partenza per Parigi, e il 1949, quando diventa uno scrittore francese insignito del prestigioso Premio Rivarol per il suo debutto, un premio che lo porta alla ribalta sulla scena degli intellettuali francesi, erano trascorsi 12 anni.

La rinuncia di Cioran alla lingua romena non si produce senza fare ru . Egli abbandona dmore el tutto la lingua romena, anche nella

freneticamente la lingua e la cultura francese per sta cultura. Allo scopo sceglie,

vita privata. Studiatrovarsi un posto in que

7 Marta Petreu osserva che la gerarchizzazione delle culture in maggiori e minori deriva

dall'influsso del filosofo tedesco Spengler.

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anacronisticamente, la Francia del XVIII secolo e comincia a scrivere nello stile dei moralisti francesi di quel secolo, utilizzando anche la loro lingua. Cioran vive isolato in Francia, e si integra solo in un universo libresco, in rapporto ad un sistema di valori culturali, ad una lingua conosciuta in profondità e a uno stile che esprime un modo di pensare. la concisione diventa il suo nuovo ideale stilistico, che lo porterà all'espressione per aforismi. Cioran sceglie alcuni tratti che considera definitori dello spirito francese, razionalità, eleganza, raffinatezza, concisione, ed effettua un trapianto stilistico e linguistico, mantenendo inalterato il fondo del suo pensiero. Il risultato è il suo Traité de décomposition (Sommario di decomposizione), un testo che, riscrit quattro volte dall'autore, sarà apprezzato dalla critica come operadi decodell'esstraniedell'esoperavalenzmomevannodifficimoralidella manitas. La ricerca dell'identità sfocia in lui nella scoperta di

to di un grande maestro di stile della lingua francese. In Sommario mposizione, compaiono due figure che descrivono l'esperienza ilio, la prima, Il Rinnegato, in forma implicita, la seconda, Lo ro (Le météque) in forma esplicita. Le rappresentazioni iliato o dello straniero si raffineranno ulteriormente nella sua

, e ognuna delle successive rappresentazioni apporterà nuove e a questo personaggio che ha ossessionato Cioran dal primo nto in cui ha cominciato a scrivere in francese. Le sue opere non lette in chiave biografica o narrativa, anche se risulta assai le separare in esse la retorica autofinzionale dalla concisione del sta. Il tema della barbaritas sostituisce in Cioran l'ossessione

roun'identità straniera, non-europea, che descriverà trasformando in modo sorprendente i topoï che abbiamo incontrato negli scrittori studiati nei capitoli precedenti.

4.3.3. Il Rinnegato

Il Rinnegato è una sintesi dell'esilio assoluto, del rendersi

straniero rispetto al mondo e a se stesso, e non tratta soltanto il caso

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partic

o precisa in nessun modo. Non leggendo in chiave biogra

Si rammenta di essere nato da qualche parte, di aver creduto agli inganni

so, dovrebbe rinunciare

olare dell'espatrio. Il saggio adotta la forma di una narrazione in terza persona, in cui un «narratore onnisciente» descrive l'esperienza del suo personaggio, «il rinnegato». La perdita della patria, vissuta in un tempo caduco, non è legata alla Romania, né ad alcuna identità marginale o barbarica, come accadrà negli scritti successivi di Cioran. Il tema del saggio è la rinuncia a un'identità precedente, inprecisata, e l'abbandono degli ideali. Marta Petreu ha interpretato questo testo in relazione con le idee fasciste che Cioran aveva professato in gioventù, ma Cioran non l

fica il saggio, non troviamo neanche il paradigma generale giovinezza-maturità, che si associa in generale a questo tema:

«nativi, di aver proposto princìpi e vantato idiozie appassionate. Ne ha vergogna, e si accanisce ad abiurare il suo passato, le sue patrie reali o sognate, le verità scaturite dalle sue midolla. Non troverà pace se non dopo aver annientato in sé l’ultimo riflesso del cittadino e gli entusiasmi ereditati. Come possono le consuetudini del cuore tenerlo ancora incatenato, quando vuole emanciparsi dalle genealogie e quando l’ideale stesso del saggio antico, spregiatore di tutte le città, gli pare un compromesso? Colui che non può più prendere partito, preché tutti gli uomini hanno necessariamente ragione e torto, perché tutto è giustificato e irragionevole al tempo stesal proprio nome, calpestare la propria identità e ricominciare una vita nuova nell’impassibilità nella disperazione. Oppure inventarsi un altro tipo di solitudine, emigrare nel vuoto, perseguire – seguendo il variare degli esili – le tappe dello sradicamento.» (Cioran, 1996, 84-85)

In questo primo testo in cui Cioran descrive la figura dell'esiliato, appaiono certe caratteristiche essenziali: la perdita del nome, la rinuncia a sé, la perdita della genealogia, la rinuncia agli antenati. La separazione da sé ed eventualmente l'emigrazione e l'esilio, appaiono in una ipostasi poetica – emigrare nel vuoto – e non in una variante sociale, di cambiamento del contesto nazionale. Cioran pone qui il problema della perdita di una identità, della rinuncia alle radici, piuttosto che l'idea del passaggio da un paese ad un altro, o da una cultura ad un'altra.

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Possiamo leggere qui nei termini genealogie o sradicamento una metafora riferita alla famiglia culturale. Alcuni anni prima di pubbl

e essere ancora fatto di

testi l'immconcreneantudel fil ci

icare Précis de décomposition, Cioran scriveva libri in romeno, credeva nella possibilità che Bucarest diventasse la nuova Bisanzio, per arrivare poi a rinunciare definitivamente tanto alla lingua che alla sua cultura di origine. In questo testo non compaiono termini concreti riferiti all'esilio, e neanche un elemento che ci permetta di fissare coordinate spaziali, né in riferimento allo spazio di origine, né a quello di destinazione.

Il rinnegamento è visto come una separazione da sé, che non conduce ad una rinascita, ma solo ad una perdita. Il rinnegato emigra nel vuoto e diventa sempre meno concreto, sempre meno reale:

«(Di rinnegamento in rinnegamento, la sua esistenza si assottiglia: più vago e più irreale di un sillogismo di sospiri, come potrebbcarne? Esangue, egli rivaleggia con l’Idea; si è astratto dai suoi avi, dagli amici, e da tutte le anime e da se stesso; nelle sue vene, un tempo turbolente, riposa la luce di un altro mondo. Emancipato da ciò che ha vissuto, incurante di ciò che vivrà, egli abbatte le pietre miliari di tutte le sue strade e si svelle dai segnali di tutti i tempi. "Non mi incontrerò mai più con me stesso", pensa, felice di rivolgere il suo ultimo odio contro di sé, e ancor più felice di annientare – nel suo perdono – gli esseri e le cose.)» (Cioran, 1996, 84-85)

«Emigrare nel vuoto», «Esangue, egli rivaleggia con l’Idea», sono le metafore che supportano l'idea della liberazione da uno spazio concreto, materiale, per attingere uno spazio astratto. Possiamo interpretare questo spazio esangue come la cultura francese del XVIII secolo, che Cioran si elegge per patria ideale. In questo saggio l'esilio è per Cioran uno spazio astratto, senza coordinate. Negli altri

agine riapparirà, dotata di coordinate che si preciseranno e si tizzeranno. Tornerò sul modo in cui egli definisce spațiul lui [lo spazio della stirpe] per commentare un lavoro di maturità osofo, Exerciții de admirații [Esercizi di ammirazione], il che

permetterà di leggere nel «destino» filosofico di Cioran un'evoluzione della sua concezione dell'esilio.

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4.3.4. Il meteco Il secondo saggio di Précis de décomposition, in cui appare una

rifless

questo saggio, al meteco è associata la figura del barbaro nato in unal'immdiventlatina verso tutti iCantemir, e li sost

ndo.»:

ione sull'esilio, è Tribolazioni di uno straniero, dove, purtroppo, il traduttore italiano ha fatto una scelta che limita molto il senso originale. In francese Cioran aveva usato il termine meteco, a cui aveva dato un senso particolare e che ritorna nella sua opera. Il «meteco» è una figura interessante del mondo greco antico, uno straniero che veniva tollerato nella città, senza però che avesse i diritti di un cittadino. Il meteco non era schiavo, ma poteva diventarlo se e quando gli interessi dalla città lo richiedevano, ad esempio in caso di guerra. Avendo un'identità sociale precaria, il meteco era uno straniero che si trovava nel rischio permanente di perdere la libertà, ma che poteva godere del benessere materiale delle città greche.

In tribu sfortunata. Cioran raffinerà poi nelle opere successive

agine del barbaro, associandola a diversi valori: questo erà una struttura ricorrente che sostituisce il topos della stirpe presente nelle opere dei cronicari. Vedremo che, nel passaggio la sua nuova identità francese, Cioran respingerà uno ad uno topoï identitari consolidati nelle opere di Ureche, Costin e

ituirà con diverse rappresentazione del barbaro. Sarà da ritenere, dal brano seguente, l'idea delle patrie successive di cui si è innamorato il meteco e il fatto che la moltiplicazione delle «patrie», difficile da immaginare, ha portato all'esplosione del concetto, essendo diventato il meteco un «cittadino del mo

«Nato in una qualche tribù sfortunata, percorre in lungo e in largo i viali dell’Occidente. Innamorato successivamente di diverse patrie, non spera più di trovarne una: irrigidito in un crepuscolo intemporale, cittadino del mondo – e di nessun mondo –, è inefficace, non ha nome ne vigore. (Cioran, 1996, 132)

Dopo aver descritto il luogo da cui proviene il meteco come una «tribù sfortunata», Cioran ritorna sul tema del destino, o per meglio

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dire, della mancanza di destino, della Romania, un tema già toccato in Schimbarea la față a României. Non attribuisce in questo testo neanche un nome allo spazio di origine del meteco.

In Schimbarea la față a României, Cioran credeva ancora alla possibilità che Bucarest diventasse la nuova Constantinopoli. Nel frattempo la Romania aveva perso la seconda guerra mondiale, era stata occupata dei sovietici, che avevano imposto il comunismo e avevano cominciato a incarcerare l'élite intellettuale, politica e finanziaria del paese. Molti amici di gioventù di Cioran sono morti nelle prigioni comuniste. Così si può spiegare l'idea che il destino della Romania non possa portare che sfortuna ai suoi cittadini. Leggendo in chiave biografica il testo, osserviamo che lo spazio di origine del meteco è definitivamente condannato dal punto di vista politico, in quanto è una tribù sfortunata e senza destino:

«I popoli senza destino non possono darne uno ai loro figli (…) Non avendo nulla da amare nel loro paese, ripongono il loro amore altrove, in altre contrade, dove il loro entusiasmo stupisce gli indigeni. (…) E lo Straniero che si è dissipato lungo tante strade esclama: "(…) Si hanno risorse soltanto per gli

del meteco con le sue patrie è descritta come una relazione d'amore. Il destino infelice della sua patria ha portato il metecl'inten

l'imm ine di un romeno a Parigi, non la lega al proprio destino, in altri t

assoluti della propria razza, giacché un’anima, al pari di un paese, non sboccia se non entro le proprie frontiere: io pago per averle varcate, per aver eletto l’Indefinito a mia patria e venerato divinità straniere, per essermi prosternato davanti a secoli che avevano escluso i miei antenati. (…) (Cioran, 1996, 132)

La relazione

o all'amore per altre patrie, ma tale amore non può attingere sità che aveva avuto l'amore per la sua vera patria. Cioran non definisce l'immagine del meteco proprio come agermini, non la narrativizza. Il meteco di Cioran è descritto come

un personaggio tragico che deve pagare un hybris per la sua colpa di aver trasgredito la nazionalità, di aver venerato culture straniere e di aver scelto come patria l’Indefinito. Dalla lettura di saggi e aforismi

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posteriori, scritti in uno stile più conciso e con l'abbandono dell'esaltazione romantica da parte di Cioran, risulterà chiaro che la patria del meteco è la repubblica delle lettere.

Ma qual'è la hybris del meteco? Perché deve pagare questa olpa? «Io pago (…) per essermi prosternato davanti a secoli che avevano

eco. La colpa tragica del meteco è uella di aver scelto una cultura e un momento storico di quella

cultur

ona la lingua e la cultura, scegliendo un momento della totalm

orientnuovola solnulla:

cescluso i miei antenati.», afferma il metq

a che non hanno nessun legame con la sua cultura natale. Se mettiamo in relazione questa frase con la tradizione intellettuale romena, possiamo ricavare che il meteco risente come colpa tragica la sua scelta diversa di fronte all'angoscia culturale. Anche altri intellettuali avevano vissuto, davanti alle culture straniere, lo choc di non potersi presentare con un sufficiente patrimonio culturale di libri scritti in romeno, ma essi avevano scelto di «illustrare» la lingua romena, scrivendo a loro volta il libro. Il meteco di Cioran, al contrario, abband

cultura francese per scegliere una forma di cultura a lui ente straniera. Il Meteco si descrive poi come un vandalo che ha perduto amento e identità. L'assenza della divinità, la ricerca di un dio, e la metafora assurda del dio abbandonato o ateo nasconde itudine senza soluzione del meteco, abbandonato al proprio

«Come un vandalo roso dalla malinconia, mi dirigo senza meta, io senza io, verso non so più quali luoghi… per scoprire un dio abbandonato, un dio lui stesso ateo, e addormentarmi all’ombra dei suoi ultimi dubbi e dei suoi ultimi miracoli."» (Cioran, 1996, 133) In questi due brevi testi, Il Rinnegato e Il Meteco, alcuni dei

concetti essenziali che descrivono il trauma dell'esilio nella visione di Cioran: l'origine infamante (membro di una tribù sfortunata, popoli senza destino), il barbaro (vandalo, meteco), la perdita d'identità, la natura

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tragica della condizione dell'esiliato, marchiato dalla colpa di aver abbandonato le proprie radici, gli dei, gli antenati, e l'emigrazione nel vuoto, in un non-spazio che non ha nessuna delle caratteristiche di una «città» reale, di uno spazio concreto. 4.3.4.1 Il persiano e il romeno

esistereXVIII lare alle Lettres persanes di Montesquieu. Nel

ll'Oriente dell'Europa, qui l'attenzione s'incentra sui «gran

.

Cioran ritorna sulla teoria dell'esilio nel volume La tentazione di , dove appaiono allusioni esplicite alla saggistica francese del secolo, e in partico

saggio «Piccola teoria del destino», si riconoscono frasi presenti in Schimbarea la față a României, riscritte in francese e spogliate del tono patetico proprio del testo romeno. Cioran fa di nuovo un parallelismo fra le culture dei diversi popoli europei, ma se nel saggio giovanile era interessato a

di» popoli: «un popolo che è un tormento per se stesso è un popolo malato. Ma, mentre la Spagna soffre per essere uscita dalla Storia e la Russia per volere con tutte le sue forze insediarvisi, i piccoli popoli si dibattono per non avere alcuna di queste ragioni di disperarsi o di spazientirsi. Segnati da una tara originaria, non possono porvi rimedio né con la delusione né con il sogno. Non hanno quindi altre risorse, eccetto quella di essere ossessionati da se stessi. Ossessione non priva di bellezza, poiché a nulla li conduce e a nessuno interessa.» (Cioran, 1984, 51)

Cioran mette qui in relazione due identità nazionali in contrasto: quella di un popolo piccolo, tarato, i romeni, e quella di un popolo grande, con una cultura maggiore, i francesi. Egli riprende il personaggio inventato da Montesquieu nelle Lettres persanes, ma se in Montesquieu il persiano è un personaggio esotico, venuto dall'Oriente a Parigi, in Cioran è un romeno venuto da un popolo piccolo, insignificante, ossessionato dalla propria identità. Il persiano rientra nella serie di personaggi che Cioran aveva schizzato in Précis de

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décomposition, insieme al rinnegato, al meteco, al vandalo. Con l'assunzione di un'identità nazionale differente dalla propria, e che simboleggia la natura di «straniero», di «non-europeo», Cioran prosegue il discorso di Budai Deleanu, che aveva anche lui nascosto la propria identità, dietro la maschera dello zingaro Dianeu:

«Essere Francese è un’evidenza: per questo non si soffre né ci si rallegra; si dispone di una certezza che giustifica la vecchia domanda: "Come si può essere Persiano?" Il paradosso d’essere Persiano (nella fattispecie Rumeno) è un tormento che occorre saper sfruttare, un difetto da cui trarre profitto.» (Cioran,

e ad uno spazio geogrRoma

«Confesso che un tempo considerai un’onta l’appartenere a una nazione

1984, 52)

Se nei saggi su temi legati all'esilio compresi in Précis de decomposition Cioran non aveva legato l'immagine dell'emigrant

afico definito, nel testo del 1956 la tribù sfortunata ha un nome, nia:

qualunque, a una collettività di vinti, sulle cui origini nessuna illusione mi era concessa. Credevo, e forse non mi sbagliavo, che il nostro popolo discendesse dalla feccia dei Barbari, dai relitti delle grandi Invasioni, da quelle orde che, incapaci di proseguire la loro marcia verso Ovest, si accasciarono lungo i Carpazi e il Danubio, per rintanarvisi e sonnecchiare, massa di disertori ai confini dell’Impero, plebaglia imbellettata con un pizzico di latinità. Tale il passato, tale il presente. E tale l’avvenire. Quale prova per la mia giovane arroganza! «Come si può essere Rumeno?», a questa domanda potevo rispondere soltanto con una incessante mortificazione.» (Cioran, 1984, 52)

Si riconoscono qui i tratti infamanti che, nel saggio La transfigurazione della Romania, Cioran aveva attribuito allo spazio balcanico. Ma occorre osservare che il brano appena citato è anche uno sviluppo in negativo dei topoï presenti nelle opere di Ureche, Costin o Cantemir. Cioran diventa una sorta di nuovo Simeon Dascălul, che vede nei romeni un popolo discendente da una massa di disertori ai confini dell’Impero. Egli assume su di sé tutte le storie infamanti che aveva letto Stolnicul Cantacuzino, espresse nelle metafore feccia dei Barbari o

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relitti delle grandi Invasioni. Al posto della lunga e raffinata risposta di Cantemir in Hronicul vechimei al romano-moldo-vlahilor, in cui si spiega, con l'uso della retorica classica, che non solo in Moldavia sono passati popoli migratori, ma che anche i popoli occidentali sono il frutto di

ella obile stirpe latina dei cronicari rimane solo «un pizzico di latinità»,

quella

esso in modo approssimativo: il suo testo é una enorme macch

in: «il greco si piega davan mano, che a sua volta si piegherà davanti al germano, secondillustr

una mescolanza di barbari e di altri popoli, Cioran cede le armi. Dn

latinità che avrebbe accettato prontamente anche Simeon Dascălul, quando affermava che i moldavi sono i discendenti di avanzi di galera venuti da Roma.

Il riferimento agli antichi cronicari non è irrilevante, in quanto Cioran stesso nomina Miron Costin ironizzando sul modo in cui lo scrittore giustificava i tempi difficili in cui scriveva:

«Il più antico storico rumeno cosi inizia le sue cronache: "Non è l’uomo che comanda i tempi, ma i tempi che comandano l’uomo." Formula logora, programma ed epitaffio di un angolo d’Europa.» (Cioran, 1984, 55)

Cioran cita spina che divora e motamorfizza citazioni, reinterpretandole e

integrandole nel proprio sistema concettuale. Per il modo in cui riutilizza strutture e idee precedenti il suo stile presenta numerosi tratti in comune con Borges, che del resto lui ammira moltissimo. In questo brano Cioran nomina esplicitamente i romeni, che vede come vittima della storia.

Tanto Cioran, che Ureche, Costin, Cantemir o Stolnicul Cantacuzino sono dei moralisti, e da questo punto di vista Cioran prosegue una filiera storica della cultura romena, anche se la trapianta sul terreno francese e ci innesta lo stile francese. In «La caduta del tempo», Cioran scrive un brano che sarebbe potuto apparire tanto in Cantemir, quanto in Cantacuzino o in Cost

ti al roo un ritmo inesorabile, una legge che la storia si premura di

are, oggi ancora più che all’inizio della nostra èra. È impari la

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lotta fprimi,

alla rudez Cioran, 1995, 59)

ano e il troglodita, ripresi da Montesquieu. La presenza della letteratura francese del XVIII secolo, in particolare il mito duna m ita

lla scoperta dell'Europa.

lointaidi un rizzata all'amico di gioventù Costantin Noica,

è diverso, più conciso, ma più personale, quasi da confessione. Cioran assume l'identcon lliberar

ra popoli che discutono e popoli che tacciono, tanto più che i avendo consumato la loro vitalità in arguzie, si sentono attratti

za e dal silenzio dei secondi.» (d

4.3.4.2. Lo scita, il troglodita, il membro di un'orda sconosciuta

Per l'invenzione dell'immagine dello straniero, Cioran mescola i dati storici, ad esempio la storia degli sciti e e dei vandali, con dati culturali, come il persi

el buon selvaggio che compare in Rousseau e Voltaire, è come usica in sordina, sullo sfondo dei suoi saggi. Non li c

esplicitamente per costruire l'immagine dello straniero, ma la presenza dei loro testi si sente. Si potrebbe a questo punto sollevare la questione se Cioran scelga il Settecento francese, proprio per il posto centrale che in esso ricopre lo straniero esotico che va a

Il tema dello straniero riappare nel saggio Lettre pour un ami n, che fa parte del volume Storia e utopia. Il testo assume la forma

lettera indiarimasto in Romania. Cioran ritorna qui su un termine che aveva scelto proprio lui in Sommario di decomposizione, ma che ora attribuisce a Noica: «Sarei forse un rinnegato, come tu insinui?» (Cioran, 1969, 28). Lettre pour un ami lointain è la risposta a questa domanda che si pone lo stesso Cioran, e una gradazione del concetto. Lo stile

ità del rinnegato, in una certa misura, e spiega i suoi rapporti a cultura francese. Comincia sottolineando la difficoltà di si definitivamente delle proprie origini: «"La patria non è che un accampamento nel deserto," dice un testo tibetano. Io non vado così lontano. (…) Tutti siamo inseguiti dalle nostre origini; il

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sentimento che le mie m’ispirano si traduce necessariamente in termini negativi, nel linguaggio dell’autopunizione, dell’umiliazione assunta, proclamata, dell’assenso al disastro.» (Cioran, 1969, 28)

sovversive (…).» (Cioran,

i muove nelle mie vene. Discendo forse da qualche orda ono il portavoce di una razza un tempo turbolenta e oggi

muta? Spesso mi piglia la tentazione di forgiarmi un’altra genealogia, di cambiare antenati e di scegliermeli fra coloro che, ai loro tempi, hanno saputo

Quindi fantastica, moltiplicando le maschere dello straniero con altre figure, aggiungendo la figura dello scita, l'immagine del barbaro per i romani. Lo scita è, in qualche misura, un'identità dell'Est europeo, anche perché gli storici hanno a lungo creduto che daci e sciti fossero un unico popolo. Nei cronisti romeni compare spesso questa confusione:

«Come puoi pensare che uno Scita vi si possa adattare e riesca ad afferrarne il significato preciso, a maneggiarle con scrupolo e probità? (Cioran, 1969, 28)

Un'altra figura dello straniero è quella del troglodita, utilizzata da Montesquieu per designare un popolo barbaro dell'antichità. Cioran si descrive come un intruso, un incivile nascosto in mezzo ad una società civilizzata, che però gli resta irrimediabilmente straniera:

«mi ritrovo, in mezzo alla gente civile, come un intruso, come un troglodita innamorato della caducità, sprofondato in preghiere1969, 44-45)

Cioran ritorna sul topos dell'origine latina, che riscrive parodisticamente. Se nello scita possiamo riconoscere un'identità pre-romana, forse daca, alla fine della lettera Cioran si sposta più a est. Per trovarsi un'identità completamente non-europea, egli favoleggia di un'origine mongolica, asiatica, interamente non-latina:

«Impermeabile alle sollecitazioni della chiarezza e alla contaminazione latina, sento l’Asia che sinconfessabile o s

spargere il lutto fra le nazioni, al contrario dei miei, dei nostri, scialbi e piagati, rimpinzati di miserie, amalgamati al fango e piangenti sotto l’anatema dei

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secoli. Sì, nelle mie crisi di fatuità propendo a ritenermi epigono di un’orda illustre per le sue depredazioni, un turanico di cuore, l’erede legittimo delle

si erano ribellati contro il comunismo impo

ad una puntuale attribuzione di nazionalità, ad una materializzazione geografica. viene superariflessiper lariferim

steppe, l’ultimo mongolo…» (Cioran, 1969, 44-45)

Il tema politico di questa lettera è importante per capire come mai Cioran assume l'identità di un membro di un'orda d'invasori selvaggi venuti dalle steppe asiatiche8. La scrive dopo i fatti dell'Ungheria del 1956, quando gli ungheresi

sto dall'occupazione sovietica, e i sovietici avevano reagito mandando i carri armati. L'ammirazione di Cioran per gli ungheresi, che avevano avuto il coraggio di ribellarsi, anche se invano, gli hanno fatto assumere per un attimo un'identità selvatica, di membro dell'Orda. Ma in Cioran risulta più importante della connotazione politica la costanza con cui assume, nei suoi libri in francese, una identità fittizia di barbaro. Questa ricorrenza del topos del barbaro corrisponde specularmente alla costanza con cui si ritrova, nelle opere di Ureche, Costin, Cantemir o Cantacuzino Stolnicul, il tema della romanità, e ricorda anche il modo in cui Budai Deleanu reinventa l'identità dei romeni con l'ipostasi dello zingaro.

Lo straniero di Cioran è un personaggio libresco: anche se volessimo legarlo all'identità romena di Cioran, sfuggirebbe comunque

Probabilmente così si spiega che Cioran considerato un pensatore dell'esilio, con il fatto che riesce a re la propria esperienza individuale, attraverso una continua one e un progressivo raffinamento del concetto, e soprattuto combinazione nella sua ispirazione, fra elementi biografici e enti culturali.

e Cantemir, il cui padre era contadino, aveva ceduto alla tentazione di tarsi la biografia. Pretendeva di discendere da Timur Lenk, ma questa biografia sa fu registrata da Voltaire.

8 Anchreinvenfantasio

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4.3.5. L

is. "La

a dei

'uscita dallo spazio nazionale: la forza creatrice dell'esilio

Soffre veramente Cioran per la propria «romenità», si sente uno straniero con identità di frontiera, anche dopo essere diventato uno scrittore francese famoso? Il complesso d'inferiorità che aveva provato nei due anni passati in Germania, riappare in Francia, alla fine della carriera brillante di Cioran?

In un libro intitolato Le Néant roumain, [Il Nulla romeno] Luca Pițu e Sorin Antohi trascrivono una conversazione con Cioran registrata dopo il 1990. Il titolo del volume si riferisce sia al tema del «nulla», frequente in Cioran, che alla confessione del filosofo che avrebbe voluto scrivere un libro con questo titolo nel 1989, vedendo che i romeni non riuscivano a liberarsi dal comunismo. Dopo la caduta del comunismo, Cioran vive per un breve periodo una fase di rinnovata accettazione dell'identità romena, seguita da una nuova delusione dovuta alla lentezza con cui i vecchi comunisti venivano esclusi dal potere. Questo libro riproduce, tramite le domande elegantemente poste da Pițu e Antohi, la nuova delusione di Cioran, e la sua impressione sulla Romania vista a distanza. Cito qui una delle confessioni di Cioran riguardo al disprezzo dei francesi per la Romania:

«le mépris de la Roumanie était si grand à un certain moment. J’étais parmi des bourgeois, et il y avait un Français particulièrement insolent. Vous savez, on parlait de choses et d’autres, de pays, etc., et d’un coup il se tourne vers moi: "La Roumanie, je veux pas en parler." Ça m’a blessé, ce geste de méprRoumanie etc.", ça veut dire que ça n’existe pas. J’aurais voulu le gifler! Seulement j’étais invité, je ne pouvais pas. Mais c’est le pays le plus méprisé de l’Europe!» (Cioran, 2009, 105)

[il disprezzo della Romania era così grande ad un certo momento. Ero frborghesi, e c'era un Francese particolarmente insolente. Sapete si parlava di una cosa e di un'altra, di paesi, ecc. e di colpo quello si gira verso di me: "La Romania, non voglio parlarne." Questo mi ha ferito, questo gesto di disprezzo. "La Romania ecc.", questo vuol dire che non esiste. Avrei voluto dargli uno

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schiaffo! Soltanto ero ospite, non potevo. Ma è il paese più disprezzato dell'Europa! ]

Un'altcomplSandaStoloja ha vissuto il suo rapporto con

uovo alla Roma«10 ava repr idérée, cependant

larmé. Elle a dû senRoumdecisosi è sq alificata, tuttavia Simon si preoccupa di vederlo così cambiato:

'esilio non deve essere spiegato in Cioran soltantad ese

«Nu mă simt "acasă" decât pe țărmurile mării. Căci nu-mi pot construi o patrie

ra confessione riguardo allo sforzo di Cioran per liberarsi dal esso della frontiera e della marginalità appare nel diario di Stolojan. Amica di famiglia di Cioran e Simone Boué, Sanda n descrive il modo in cui Cioran

la Romania dopo la rivoluzione del 1989, che ha aperto di nnia le porte dell'Europa, dopo un cinquantennio di comunismo: ril 1990. Cioran se dit bien décidé à en finir avec les Roumains. Il is son leitmotiv: la Roumanie s’est décons

Simon s’inquiète de le voir si changé: "Il a fait tant d’efforts pour s’adapter (retenir cet aveu) et maintenant il redevient roumain". C’est la première fois que je l’entends parler sur ce ton vraiment a

tir qu’il qu’il était affecté pour de bon par la résurgence de la anie.» (Stolojan, 2001, 29) [10 aprile 1990. Cioran si dice ben a finirla con i Romeni. Ha ripresto il suo leit-motiv: la Romania u

"Ha fatto tanti sforzi per adattarsi (ricordare questa confessione) e ora ridiventa romeno". È la prima volta che la sento parlare con questo tono veramente preoccupato. Deve aver avvertito quanto era stato coinvolto positivamente dalla resurrezione della Romania.]

Da queste informazioni si può dedurre che Cioran ha sofferto per tutta la vita per un complesso legato alla sua origine romena, complesso che non scompare neanche dopo che ha raggiunto la gloria come scrittore francese, tradotto anche in numerose altre lingue.

a il tema dellMo per via biografica, in quanto appare già negli scritti romeni,

mpio in Amurgul gândurilor, pubblicato in romeno nel 1940:

decât din spuma valurilor. În fluxul și refluxul gândurilor, știu eu prea bine că nu mai am pe nimeni: fără țară, fără continent și fără lume. Rămas cu suspinele

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lucide ale iubirilor fugare în nopți care împreună fericirea cu nebunia. (Cioran, 1996, 195)

[Non mi sento "a casa" che sulle grandi spiagge. Che non posso costruirmi una patria se non con la schiuma delle onde. Nel flusso e riflusso dei pensieri, so anche troppo bene che non ho più nessuno: senza paese, senza continente e senza mondo. Rimasto con i sospiri lucidi degli amori fugaci, nelle notti che mettono insieme la felicità e la pazzia.]

L'idea

sensazione di essere stato allontanato dal mio

ssioni sull'esilio9. Cioran vede nell'esilio una forma

a tutti è dato accedere. È una tuazione limite e come il confine estremo dello stato poetico. (Cioran, 1984, 59)

sarà sviluppata più tardi in De l’inconvénient d’être né:

Per tutta la vita ho vissuto con la«vero luogo. Se l’espressione "esilio metafisico" non avesse alcun senso, la mia sola esistenza gliene fornirebbe uno.» (Cioran, 1991, 78)

Il passaggio in cui Cioran sintetizza la sua idea di esilio è forse questo, dove l'eccesso di mobilità nazionale segna il suo apogeo:

«In perpetua rivolta contro la mia stirpe, ho desiderato per tutta la vita essere altro: spagnolo, russo, cannibale – tutto eccetto quello che ero. È un’aberazione volersi differenti da quello che si è, adottare in teoria tutte le condizioni, esclusa la propria.» (Cioran, 1991, 68)

La moltiplicazione delle identità nazionali corrisponde alla moltiplicazione delle patrie che apparivano nel saggio Il rinnegato: in questo modo si annulla tanto l'idea di patria che quella di identità nazionale. Cioran riesce così nell'impresa di dissolvere nel nulla tutte le ricerche d'identità degli intellettuali romeni. Egli non diventa di fatto francese, quanto piuttosto «apatride», e questa natura non-nazionale, insieme al cammino iniziatico che ad essa conduce, è il vero soggetto delle sue rifle

di iniziazione:

«Sotto qualsiasi forma si presenti e indipendemente dalla sua causa, l’esilio, agli inizi, è una scuola di vertigine. E alla vertigine nonsi

a delle patrie immaginarie riappa9 Il tem re in uno scrittore contemporaneo, indiano e

britanico, Salman Rushdie, e lo incontriamo spesso nelle opere degli autori migranti contemporanei. Questo spiega la rinnovata fama di Cioran come pensatore dell'esilio.

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 283

la perdita dell'identità nazionale, la liberazione dalle proprie tradizioni e dai propri avi, ma, più ancora, il cambiamento di lingua, conduce alla vertigine. Una vertigine creativa, una nuova manifestazione delle muse, che conduce lo scrittore ad una situazione poeticegli in ndesse per esilio l'obbligo esterno di lasciare lo spazio natale:

Se lo scrittore non è costretto a lasciare il suo paese, allora non possiaper Cioran l'esperienza del cosiddetto esilio abbia piuttosto una

educazione. Il secondo eleme

ia: traduceva in romeno la poesia di Mallarmé allorché divent cosciente della tensione insita nel passaggio da una lingua all'altrche cfavore

ittà del Nulla, patria lla rovescia?» (Cioran, 1984, 60)

a parossistica. La definizione che dà dell'esilio ci fa dubitare che te «Non è facile non essere di nessun luogo quando nessuna condizione esterna vi ci costringe.» (Cioran, 1984, 59)

mo parlare di esilio. Altri due elementi ci portano a credere che

valenza gnoseologica e non dovrebbe essere racchiusa nei termini di esperienza biografica. Il primo elemento è il fatto che egli vede nell'esilio una scuola: la partenza e la dissoluzione delle radici, o la loro metamorfosi, sono per lui una forma di

nto è il paragone fra esilio e «stato poetico». Cioran era un grande amante della poesia, e avrebbe voluto essere anche poeta: il lirismo delle prime opere è una prova della sua ammirazione per il linguaggio poetico. Anche l'esperienza del cambio di lingua si lega alla poes

aa. L'atto della traduzione diventa per lui un cammino iniziatico

onduce alla decisione dell'abbandono della lingua romena a del francese. Con la rottura della tradizione nazionale, con la messa in

discussione della propria identità, l'esilio introduce una crisi, una vertigine di libertà totale, la «Città del Nulla»:

«Che cosa allora di più normale che stabilirsi nell’esilio, Ca

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In unorigin a per lui

ere niente di niente che una parvenza di qualcosa.» (Cioran, 1991, 151)

Questo annullamento delle proprie origini ha per lui un valore conce

istatore. In «Vantaggi dell’esilio» Cioran prese

n mareggiato e un conquistatore insieme.(…) (Cioran, 1984, 57)

la condella o sistema. Sappiamo che per

za della loria o dello scandalo letterario. Tutto accetta di abbandonare, fuorché il suo

o dei suoi aforismi paradossali, Cioran equipara le proprie i con «neantul» [il nulla], cioè essere romeno signific

non essere nulla: «Se non rinnego le mie origini è perché, in definitiva, è meglio non ess

ttuale, in quanto nella logica gnostica di Cioran l'inesistenza è superiore all'esistenza:

«Non nascere è indubbiamente la migliore formula che esista. Non è purtroppo alla portata di nessuno.» (Cioran, 1991, 187)

Allo stesso modo ciò che non è creato è superiore al creato, che «è caduto nel tempo», e che, proprio per questo, è sottoposto alla distruzione e alla morte. Nella stessa logica l'appartenenza ad una singola cultura è una limitazione, una caduta.

L'esiliato non è quindi solo un rinnegato o un meteco, ma in pari misura un conqu

nta il lato creativo dell'esilio, il suo valore positivo, che consiste nell'uscita dal sistema chiuso nazionale e nella conquista di un mondo diverso:

«A torto ci immaginiamo l’esiliato come qualcuno che abdica, si ritira e si tiene in disparte, rassegnato alle sue miserie, alla sua condizione di relitto. Se lo osserviamo, scopriremo in lui un ambizioso, un deluso aggressivo, ua quista di un nuovo spazio culturale è legata al combiamento lingua per entrare in un nuov

Cioran, che pensa come un poeta, non come un umanista, la perdita delle lingua equivale ad un cambiamento d'identità:

«Colui che ha perduto tutto, conserva come ultima risorsa la sperang

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nome. Ma il suo nome, come riuscirà a imporlo dal momento che scrive in una lingua che i civilizzati ignorano e disprezzano?» (Cioran, 1984, 57)

Cominciamo così a capire perché il cambio di lingua assume in Cioran l'aspetto di una hybris, come appariva nel saggio Il Rinnegato. 4.3.6. Cambio di lingua e assunzione di un'altra identità

altre lisue cronache e poemi in polacco. Nessuno di loro viveva questi

ena.

lui mospagnCioranl'immanaliz

Lo scr e ha riscritto Le traité de decomposition, la sua prima opera in lingua francese, ben quattro volte, perché non voleva

Budai Deleanu e Cantemir scrivevano in latino, ma anche in ngue, come tedesco, turco o greco. Miron Costin componeva le

passaggi da una lingua all'altra come esperienze traumatiche. Certamente, il cambiamento di lingue, e in modo speciale la loro frequentazione degli autori latini, dava loro l'idea che la lingua romena era una lingua «giovane», che aveva ancora bisogno di molta pratica. Ma la prova che il romeno aveva in sé le potenzialità per «illustrare», nobilitare, forme e generi nuovi è che gli sforzi di questi scrittori furono coronati dal successo anche per quanto concerne le opere in lingua rom

Come si spiega il trauma di cui parla Cioran? Conosceva anche lte lingue ed era anche un grande lettore di letterature straniere, ola, tedesca, francese, russa, italiana. In La tentazione di esistere, ritorna sul verbo rinnegare, già usato da lui per definire

agine dello straniero nel saggio Il rinnegato, già da noi zato, ma qui egli associa il termine al cambiamento di lingua: «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni. Eroicamente traditore, rompe con i suoi ricordi, e fino a un certo punto con se stesso.» (Cioran, 1984, 57) ittore confessa ch

che sembrasse il libro di uno straniero, di uno venuto da fuori:

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«In realtà ho scritto il libro quattro volte, perché non volevo a nessun costo che fosse considerato come il prodotto di uno venuto da altrove.» (Cioran, 1988, 223)

L'amb

guaggio è perché cerca di fare roprio come gli indigeni: ci riesca o meno, quell’ambizione è la sua rovina.»

ica, la cui sguaiataggine

izione di Cioran è di creare qualcosa di nuovo, di «illustrare» la

sua nuova lingua come se fosse stata la sua. Dal suo punto di vista, il meteco, sospeso fra due identità, non ha il coraggio di innovare e ha come ideale l'imitazione degli indigeni:

«Se il meteco non è un creatore in materia di linp(Cioran, 1991, 100)

Ora Cioran, con il suo stile di poeta, talora lirico, talora cifrato e concettuale, non poteva non trasgredire le regole della lingua standard. Riuscirà certo a diventare un maestro dello stile anche in lingua francese, ma descrive questo sforzo di addomesticamento della lingua francese come una lotta, che non gli sembra mai di aver vinto. Cioran illustra questo trauma del passaggio dalla lingua romena alla francese nel saggio «Lettre a un ami lointain», nel volume Storia e utopia, già citato:

«Vorresti sapere se ho l’intenzione di tornare un giorno alla nostra lingua comune o se intendo invece restare fedele a quest’altra, che supponi gratuitamente mi sia facile, mentre facile non mi è e non mi sarà mai. (…) Come puoi pensare che uno Scita vi si possa adattare e riesca ad afferrarne il significato preciso, a maneggiarla con scrupolo e probità? Non c’è una sola parola la cui eleganza estenuata non mi dia vertigine: vi manca ogni traccia di terra, di sangue, di anima. (…) Disgraziatamente, me ne sono accorto a cose fatte, quando ormai era troppo tardi per poter tornare indietro; altrimenti, non avrei mai abbandonato la nostra lingua, il cui odore di marciume, il cui miscuglio di sole e di sterco, la cui robustezza nostalgsuperba mi capita ancora di rimpiangere. Tornarci non posso. La lingua che ho dovuto adottare mi trattiene e mi soggioga con le pene stesse che m’è costata.» (Cioran, 1969, 27-28)

Il cambio della lingua romena con quella francese lo porta a grandi sofferenze, perché Cioran cambia anche stile. Adotta lo stile dei

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moralisti francesi del XVIII secolo, la loro concisione che li conduce talora all'aforisma.

L'amore per la poesia è legato in Cioran all'abbandono del romeno. Come abbiamo detto, stava traducendo la poesia di Mallarmé, quando sente la tensione del passaggio da una lingua all'altra e decide di diventare uno scrittore francese.

4.3.7. T

i, anche se conosceva meglio il tedesco e in gioventù era anche stato grande ammiratore di

, prega l'amico Roma . Quind arigi, dove rimarrà fino alla morte. Non sceglie

avrebbe voluto essere spagnolo. Come in Țiganiada di udai Deleanu, anche nei saggi di Cioran, troviamo innumerevoli

pea. Sceglie Parigi non in quanto capitale della Fancia, ma piuttosto

perch

ranslatio studii. Perché Parigi?

Perché Cioran sceglie di emigrare a Parig

Hitler? Nel 1936, dopo la pubblicazione di Schimbarea la față a României, Cioran, diventato nel frattempo professore di filosofia a Brașov, il solo posto fisso di lavoro da lui mai avuto nella vita

Mircea Eliade che lo aiuti a ottenere una borsa di studio per . Ma il tentativo fallisce, mentre ne ottiene una per Parigii parte per P

Parigi perché conosceva il francese meglio di altre lingue, al contrario lo parlava con un forte accento romeno. La cultura francese non è la sola per cui ha dell'ammirazione, le «patrie» successive che rammenta in Il rinnegato simboleggiano la sua apertura verso le altre culture. L'amore di Cioran non è certo orientato verso una sola cultura: adora Shakespeare, la filosofia tedesca aveva segnato la sua gioventù e conosceva molto bene il tedesco, Tolstoi è uno dei suoi scrittori preferiti, mentreBriferimenti alla letteratura e alla filosofia euro

é era Le méridien Greenwich de la modernité, come afferma Pascale Casanova, dato che qui si trovava la nuova Atene dell'Europa. D'altra parte, molte generazioni di romeni, prima di Cioran, avevano ritenuto che la translatio studii si fosse realizzata verso Parigi. Dunque per

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Cioran Parigi non è soltanto la capitale della Francia, come il francese non è soltanto una nuova lingua di cultura, bensí una vera e propria lingua internazionale. Osservando, dopo il 1990, il declino della Francia e l'ascesa di spagnoli e inglesi nel mondo, Cioran teme che Parigi possa smettere di essere il centro culturale dominante, e commenta:

«Oggi che questa lingua è in completo declino, ciò che mi rattrista di più è costatare che i Francesi non hanno l’aria di soffrirne. E sono io, rifiuto dei Balcani, che mi affliggo di vederla naufragare. Ebbene sprofonderò, inconsolabile, insieme con lei!» (Cioran, 1988, 225)

are Cioran era la propria appartenenza ad una sola cluogo 4.3.8. L

metaftroglogradu dono delle patrie successive, dall'evasione

Teme che, con una nuova translatio studii, il centro da lui scelto sarebbe diventato a sua volta periferia, e che la lingua, da lui appresa con tanto sforzo, possa diventare provinciale come il romeno:

«Il francese è diventato una lingua provinciale. Gli indigeni si adattano. Solo il meteco è inconsolabile. Solo lui porta il lutto della sfumatura…» (Cioran, 2001, 123)

Possiamo da ciò dedurre che Cioran ha scelto la lingua e la cultura francese, fra tante patrie successive possibili, per avere accesso a un universo più vasto, la cultura europea. Sceglie Parigi per la sua qualità di capitale di una littérature-monde en francais, che lo aiuta a oltrepassare le frontiere nazionali che circoscrivono una singola cultura. Ciò che ha voluto evit

ultura, ache grande, come quella francese. Cioran era in primo europeo.

'utopia di Cioran: il cosmopolitismo

Quest'utopia nasce per filiazione diretta dal raffinamento delle ore che descrivono lo straniero, il barbaro, il meteco, lo scita, il dita, fino al membro di un'orda sconosciuta. Essa appare almente dall'abban

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nel vuoto che l'esilio presuppone nella sua visione, dalla vertigine prodotta dalla contemplazione simultanea di più culture europee. Abbiamo osservato ripetutamente che in Cioran la patria è descritta per mezzo di categorie negative – sappiamo da lui che cosa l'esiliato non ha, che cosa ha abbandonato, che non ha un «acasă», una lingua, antenati, ma non sappiamo che cosa ha trovato nella nuova patria, e neancCioranda Cio ltra, da una

i un ttuale, di un avventuriero immobile, a

suo a

esentanti sono infinitamente più informati e più "colti" di quanto non lo siano gli occidentali, incurabilmente provinciali.»

he se ha trovato una nuova patria. Forse per questo il barbaro di resta uno straniero. La figura dello straniero non viene definita ran come un semplice passeur da una patria a un'a

cultura all'altra, da una lingua all'altra. Nel suo penultimo volume, Esercizi di ammirazione. Saggi e

ritratti, nel saggio in cui esprime la sua ammirazione per Borges, Cioran interpreta le diverse tappe del suo diventare straniero rispetto alla cultura romena e il suo destino di esiliato. Il testo è concepito come una lettera indirizzata al filosofo Fernando Savater. Cioran

ichiara di ammirare Borges perché «incarnava il paradosso ddsedentario senza patria intelle

gio in numerose civiltà e letterature, un mostro superbo e condannato.» (Cioran, 1988, 171-172) L'ammirazione per il cosmopolitismo di Borges porta Cioran alla formulazione di una utopia che ci fornisce la chiave di lettura per le patrie successive in cui ha abitato Il Rinnegato. Cioran sovrappone un autoritratto al ritratto celebrativo di Borges:

«Non sono mai stato attirato da spiriti confinati in una sola forma di cultura. Non radicarsi, non appartenere a nessuna comunità – questo è stato il mio motto. Rivolto verso altri orizzonti, ho sempre cercato di sapere quello che succedeva altrove. A vent’anni, i Balcani non potevano offrirmi nulla. E il dramma, e anche il vantaggio, di essere nati in uno spazio «culturale» minore, anonimo. Ciò che era straniero divenne il mio dio. Da qui la sete di peregrinare attraverso le letterature e le filosofie, di divorarle con un ardore malsano. Ciò che accade nell’Est dell’Europa deve neccessariamente accadere nei paesi dell’America Latina, e ho notato che i suoi rappr

(Cioran, 1988, 172-173)

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Quest

scono la relazione fra l'«Occ

o passaggio riproduce sinteticamente il percorso dell'esilio di Cioran da una cultura minore a una patria cosmopolita, che lui ha potuto trovare per mezzo della sua vita a Parigi. Cioran formula quindi un'utopia in cui il fine degli umanisti s'interseca con quello degli scrittori esiliati o migranti di oggi:

«Ma dopo tutto, Borges potrebbe diventare il simbolo di un’umanità senza dogmi né sistemi, e, se c’è un’utopia alla quale sottoscriverei volentieri, sarebbe quella che ciascuno si modellasse su di lui, su uno degli spiriti meno pesanti che mai vi siano stati, sull’ultimo dei delicati…» (Cioran, 1988, 174)

Cioran quindi è, o ha voluto sempre essere, uno scrittore cosmopolita, uno scrittore dell'Europa o del mondo, e il suo esilio dalla cultura romena è motivato da questo desiderio di apertura totale. Nella sua ammirazione per Borges, Cioran arriva alla stessa analogia che fa Francis Claudon10 (Claudon, 2004, 125) per descrivere la caratteristica definitoria dello scrittore europeo, il cosmopolitismo. 4.4. Cioran, scrittore europeo

La figura di Cioran come scrittore europeo, e non soltanto

francese o francofono, appare più distintamente se viene interpretata alla luce della tradizione del cosmopolitismo degli scrittori romeni dei secoli XVII e XVIII. Egli riesce, in modo paradossale, a realizzare un'impresa per cui sarebbe stato invidiato sia da Cantemir che da Costin, e soprattutto da Budai Deleanu. Per il modo in cui concettualizza il ritratto dell'esiliato, dello «scita» venuto dalla remota frontiera dell'Europa, Cioran apporta un contributo fondamentale alla letteratura europea. Per questo motivo la sua opera viene scelta e studiata, fra le altre, ed è al centro dell'attenzione per la sua qualità di scrittura di frontiera, per i temi che defini

idente» e un «Oriente» europeo, che gli occidentali hanno sempre considerato «lontano».

10 Ho citato il brano nell'introduzione.

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Il suo destino di barbaro venuto da «oriente» solleva la curiosità sulla cultura romena. La sua anti-retorica sostituisce un discorso identitario di continuità («de la Râm ne tragem»), con un discorso di rottura, quando Cioran afferma di essere «epigono di un’orda illustre per le sue depredazioni, un turanico di cuore, l’erede legittimo delle steppe, l’ultimo mongolo…» (Cioran, 1969, 44-45). Ciò che non era riuscito, in due secoli di elaborazione retorica, a raffinati scrittori romeni, che affermavano la propria identità europea attraverso il riferimento all'origine romana della loro stirpe, è riuscito a Cioran, che

ole, menzogne] di Simeon Dascălul. Non è senza motivo che utilizzo il termine anti-retoric

nte la retorica ella filosofia moralista francese e, utilizzando la concisione come

si era a poco a poco costruito in due secoli il ritratto nazionale dei romeni. In un certo senso, Cioran riprende e porta avanti

cambiano il romeno con il francese e Bucarest con Parigi. Grande

in sostanza ha solo riscritto in francese le «basne» [fav

a, in quanto non si può affermare che Cioran scriva un testo che si collochi al di fuori dei canoni. quanto piuttosto dobbiamo dire che rovescia un discorso, una retorica stabilizzata, ma considerata da lui non più efficace. Come ha fatto la rivoluzione Dada, realizzata da un altro celebre romeno, Tristan Tsara, Cioran si propone un effetto di choc, di cambiare il modo di vedere le cose, per quanto riguarda l'identità e l'appartenenza nazionale. Riprende formalmedideale stilistico, e brucia uno a uno tutti i topoï identitari, in funzione dei quali

l'eredità di Budai Deleanu, che aveva anch'egli tentato un'esperienza simile, fondendo le costanti formali della letteratura europea con un tema romeno. Ma Cioran ha fatto una scelta decisiva,

amante dei paradossi, Cioran avrebbe sicuramente apprezzato l'evoluzione attuale della sua ricezione critica.

Non senza motivo l'opera di Cioran occupa un posto così centrale negli studi critici e teorici sulla letteratura dell'esilio. Allo stesso modo di lui, gli studiosi che si occupano di questo campo

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cercano di non rimanere ancorati all'interno delle frontiere di una sola letteratura nazionale, e sono sempre alla ricerca di un'utopia cosmopolita che corrisponde perfettamente all'utopia di Cioran. Gli studiosi che indagano la letteratura europea hanno studiato a fondo la sua opera, che hanno considerato un esempio rivelatore per la nuova identità europea ancora in formazione. Presenterò in quest'ultima parte del capitolo una polemica recente riguardante proprio l'opera di Cioran e il modo in cui si relaziona con la cultura europea.

4.4.1. «Literature for Europe» Casanova vs. Neubauer

La polemica si accende fra Pascale Casanova, l'autrice del libro

La république mondiale des lettres, uscito per la prima volta nel 1999, e John Neubauer, l'autore di un saggio dal titolo «Voices from Exile» pubblicato nel volume Literature for Europe, del 2009. Sia Pascale Casanova che John Neubauer sono studiosi di prima grandezza, all'avanguardia per quanto riguarda gli studi sulla letteratura europea e sulle relazioni di questa con la letteratura dell'esilio11. 4.4.1.1. «Cioran, de l’inconvenient d’etre né en Roumanie» (Casanova, 2008, 308)

La tesi di Pascale Casanova è che la republica mondiale delle lettere

viene consolidata dagli scrittori esiliati, che sono «grands intermediaires transnationaux» (Casanova, 2008, 43) e cita anche lei,

Il lavoro della Casanova (2008) è uno dei più letti e citati lavori teorici sull nuova

letteratura dell'Europa o del mondo, e per citare solo una delle riflessioni che ha suscitato, il volume curato de Saussy (2006) stato ispirato dal suo lavoro. Per quanto riguarda John Neubauer, egli è il coordinatore, insieme a Marcel Cornis-Pope (di origine romena) della monumentale e rivoluzionaria storia dello spazio culturale dell'Europa centro-orientale, dal titolo History of the Literary Cultures of East Central Europe: Junctures and Disjunctures in the 19th and 20th Century (2004). Nessuno dei due è uno specialista di lingua e letteratura romena.

11

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 293

come aveva fatto Curtius, Valery Larbaud, il quale «décrivait les lettrés du monde entier comme les membres d’une société invisible, les "legislateurs", en quelque sorte, de la République des Lettres.» [descriveva i letterati del mondo intero come i menbri di una società invisibile, i "legislatori", in qualche modo, della Repubblica delle Lettere] (Casanova, 2008, 44) Questi legislatori sono cosmopoliti e poliglotti, che «en arrachant les textes aux clôtures et aux cloisonnements littéraires, ils imposent une définition autonome (c’est à dire non nationale, internationale) des critères de la légitimité littéraire.» [strappando i testi alle recinzioni e alle separazioni letterarie, impongono una definizione autonoma (cioè non nazionale, internazionale) dei criteri di legittimità letteraria.] (Casanova, 2008, 45).

Gli scrittori esiliati, che sono cosmopoliti e poliglotti, sono il fronte della repubblica delle lettere. Pascale Casanova ritiene che la filosofia di Cioran possa essere interpretata solo per mezzo della sua relazione ambivalente, sia con la cultura «minore» romena, sia con la cultura francese o con la «repubblica delle lettere»: «On ne peut par exemple comprendre la forme de l’ecriture de Cioran (1911-1995), ni même son projet philosophique et intellectuel, qu’à partir de son appartenance à ce qu’il vit très tôt comme une fatalité: l’espace intellectuel roumain.» (Casanova, 2008, 263). [Non si può ad esempio comprendere la forma della scrittura di Cioran (1911-1995), e neanche il suo progetto filosofico e intellettuale, che a partire dalla sua appartenenza a ciò che egli vive molto presto come una fatalità: lo spazio culturale romeno]

Casanova parafrasa un titolo di Cioran nel capitolo a lui dedicato, «Cioran, de l’inconvenient d’etre né en Roumanie» e osserva che e

la ngue et du style français correspondant à leur plus haut degré de connaissance universelle, comme pour tenter d’atteindre au génie

gli non sceglie solo il francese come lingua universale, ma proprio il francese di Racine: «Cioran cherche à retrouver l’état delare

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"pur".» [Cioran cerca di ritrovare lo stato della lingua e dello stile ancese corrispondenti al loro grado più elevato di riconoscimento

unive

lte nel lib

o l'analisi della Casanova, John Neubauer non è d'accordo nel considerare Cioran un esiliato.

frrsale, come per tentare di attingere al genio "puro"] (Casanova,

2008, 309) La studiosa sintetizza in una frase il destino critico di Cioran nella repubblica delle lettere: «Comme si dans et par l’œuvre de Cioran, par une sorte de quiproquo dont seule l’histoire de la République internationale des Lettres peut rendre compte, s’accomplissait la rencontre entre l’imagerie la plus conventionelle de la "grandeur" de l’art littéraire resuscitée par l’imagination nationaliste d’un écrivain roumain devenu par hyperidentification – ironie de l’histoire – plus français que les Français, et les fantasmes littéraires des Francais, hantés par la peur de leur déclin et flattés dans leur représentations de l’histoire littéraire nationale et leurs conceptions les plus archaïques du style et de la pensée.» [Come se nell'opera e per mezzo dell'opera di Cioran, con una sorta di quiproquo di cui solo la storia della Repubblica internazioanle delle Lettere può rendere conto, si fosse compiuto l'incontro fra l'immaginario più convenzionale della "grandeur" dell'arte letteraria, risuscitata dall'immaginazione nazionalista di uno scrittore romeno, divenuto per iperidentificazione – ironia della storia – più francese dei Francesi, e i fantasmi letterari dei Francesi, disertati per paura del loro declino e blanditi nelle loro rappresentazioni della storia letteraria nazionale e nelle loro concezioni più arcaiche dello stile e del pensiero.] (Casanova, 2008, 310) Il nome di Cioran ricorre molte vo

ro della Casanova, come esempio di scrittore europeo, in quanto lei lo considera un esiliato a Parigi, il meridiano Greenwich della modernità.

Anche se accetta fino a un certo punt

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran 295

4.4.1.2

ail the lost paradise of their c

. Esilio o migrazione?

Conviene davvero riflettere sulla distinzione fra cambiamento volontario e involontario di luogo, fra esilio e migrazione? Nel suo articolo «Voices From Exile» (2009), John Neubauer fa una distinzione molto sottile fra la letteratura dell’esilio e la letteratura di migrazione secondo il loro posizionamento, da una parte, rispetto alla letteratura nazionale, dall’altra, rispetto alla letteratura europea. John Neubauer parte dall’idea, sostenuta da Pascale Casanova, che gli scrittori esiliati hanno contribuito alla genesi di una coscienza europea, hanno scritto «letteratura europea»: «I have chosen to write on literary exiles because the flight from home, for all its tragedy, can also be an "eye opener", a new way of perceiving the world – in this case of Europe. Exiles often obstinately and nostalgically bew

hildhood and youth, yet all exiles are forced to redefine in some way not just their worldview but, more specifically, the image, real or imaginary, of the audience they are writing for. For many writers in exile this means abandoning the all but exclusive focus on a vernacular reading public at home, and starting to contribute to what we may, indeed, call "Literature for Europe".» (Neubauer, 216)

La tesi di John Neubaeur è uno dei punti di appoggio importanti per questo nostro lavoro. Egli sostiene che: «exile has frequently been a prime stimulus to turn to a broad, European readership. Perhaps one may even claim that exile writing constitutes a considerable segment of "literature for Europe".» (Neubauer, 217)

Però, si chiede Neubauer, non ci conviene fare una distinzione fra lo scrittore esiliato e lo scrittore che ha scelto di cambiare il suo paese per un altro, la propria cultura, considerata periferica, per quello che si puo considerare un centro?12

12 «Does it make sense to distinguish between exiles, émigrés, and expatritates? I believe so.» (Neubauer, 2009, 228).

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Pur accettando che gli scrittori esiliati sono obbligati a uscire dal quadro ridotto della loro letteratura e quindi generano una visione della letteratura europea, Neubauer pensa che le distinzioni fra queste due categorie siano importanti. Neubauer commenta le affermazioni di P. Casanova e discute sul contributo della letteratura dell’esilio alla formazione della coscienza di una letteratura europea: «Of the genuine twentieth-century literary exiles only Emil Cioran, Milan Kundera, Vladimir Nabokov, and Danilo Kiš receive adequate attention in Casanova’s book, and, it seems to me, she is interested in them mainly because these "genuine" exiles come close to her book’s real heroes, Joyce, Beckett, Juan Benet, Arno Schmidt and others, who were in my view not literally exiles but rather émigrés and expatriates. True, became alienated from their culture, but they were not forced to leave it.» (Neubauer, 2009, 228)

Neubauer pensa che gli scrittori che sono stati costretti ad abbandonare il loro paesi rimangano legati alla letteratura nazionale e non s

ates and refines his former ideology, but it shows no intention to move towards literary autonomy. I could add more examples.» (Neubauer, 2009, 230)

Questo non è il caso di Cioran, che Neubauer considera fra gli «scrittori europei», che, partendo, hanno assunto una nuova identità e si sono integrati nella letteratura europea, abbandonando la letteratura nazionale. Secondo Neubauer questa distinzione è essenziale, perché, se un esiliato rimane ancorato nello spazio da cui proviene, rivolge a orienta a questo spazio le sue opere. Al contrario,

i possano sradicare definitivamente, con un cambiamento totale di prospettiva: «most exiles remain patriotic and deeply political precisely because they were forced into exile due to their ethnic, national, or political identity. In exile they could explicitly criticize those who expelled them, or they could write literary works that express in some way the ideology for which they had to suffer. Vintilă Horia, and many others, belongs to the latter category: Dieux est né en exil reformul

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Meridiani della migrazione nella letteratura romena da Ureche a Cioran

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lo scrittore che abbandona le proprie radici, attraversa volontariamente la frontiera di una teratura nazionale, crea davvero una «literature for Europe». rante, o emigré, è un cittadino della repubblica delle letter gli altri scrittori che rientrano

scrittoreSpagna 'altro caso, quello dello scrittore

scrittoreaver let perti e teorici della letteratura

grazie apone pdell'esili relazione sia con la letteratura

lle

cente, ostin,

letLo scrittore mig

e. Frain questa categoria, John Neubaeur prende come esempio di scrittore esiliato che continua a fantasticare sullo spazio di origine, uno

romeno che ha ricevuto il premio Goncourt, ma è vissuto in , Vintilă Horia. Per definire l

esiliato che si rivolge ad una identità europea, sceglie ancora uno romeno, proprio il nostro Cioran. Possiamo credere, dopo to gli studi di questi due es

europea, che la letteratura romena si sia integrata in Europa proprio queste figure di primo piano. Questo tipo di integrazione erò la questione che occorre riconsiderare la letteratura o, e in particolare la sua

nazionale che con la letteratura europea. i è parso importanteM ritornare in questo lavoro sulla

letteratura romena antica, per cercarvi i fantasmi dell'esilio, della partenza, della poliglossia, della ricerca d'identità in rapporto aaltre culture. Questa rivisitazione storica ha mostrato che la letteratura dell'esilio non è, nel caso della cultura romena, un fenomeno rema uno sviluppo del cosmopolitismo di scrittori come Miron CIon Budai Deleanu o Dimitrie Cantemir, e quindi ben presente fin dal

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Tiparul s-a efectuat sub c-da nr. 3113/2012 la Tipografia Editurii Universității din București