Mensile di promozione sociale SICUREZZA E … · 2015-10-28 · Le grandi paure degli italiani di...

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PIÙ CHE IN UNA BOTTE, SIAMO IN UNA “BOTTIGLIA” DI FERRO Mensile di promozione sociale Culture a confronto SICUREZZA E CRIMINALITÀ Anno 5 - Numero 1 Gennaio 2008 www.socialnews.it Giustizia, libertà e sicurezza: la dimensione europea di Franco Frattini Ma chi è, veramente, il lupo cattivo? di Marcella Lucidi Italia, vecchia signora misconosciuta di Sebastiano Somma Com’è difficile accettare il lontano ed il diverso di Alessandro Meluzzi Bestie nere di ieri, oggi e domani di Enrico Pugliese Comportamento antisociale o indicatore di un modello sociale in crisi? di Serenella Pesarin I mille volti del crimine di Carmelo Lavorino Le grandi paure degli italiani di Giorgia Meloni La riforma della legge “contro” l’immigrazione di Sandro Gozi Poste Italiane s.p.a. Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB TS

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PIÙ CHE IN UNA BOTTE, SIAMO IN UNA “BOTTIGLIA” DI FERRO

Mensile di promozione sociale

Culture a confronto

SICUREZZA E CRIMINALITÀ Anno 5 - Numero 1 Gennaio 2008

www.socialnews.it

Giustizia, libertà e sicurezza: la dimensione europea di Franco Frattini

Ma chi è, veramente, il lupo cattivo? di Marcella Lucidi

Italia, vecchia signora misconosciuta di Sebastiano Somma

Com’è difficileaccettare il lontanoed il diversodi Alessandro Meluzzi

Bestie nere di ieri,oggi e domanidi Enrico Pugliese

Comportamento antisociale o indicatore di un modello sociale in crisi? di Serenella Pesarin

I mille volti del crimine di Carmelo Lavorino

Le grandi paure degli italiani di Giorgia Meloni

La riforma della legge “contro” l’immigrazione di Sandro Gozi

Poste Italiane s.p.a. Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB TS

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3 Il senso della sicurezzadi Massimiliano Fanni Canelles

4 Immigrati, una minaccia permetà degli italianidi Luca Casadei

5 Ma chi è, veramente,il lupo cattivo?di Marcella Lucidi

6 Le grandi paure degli italianidi Giorgia Meloni

7 La riforma della legge“contro” l’immigrazionedi Sandro Gozi

8 Giustizia, libertà e sicurezza:la dimensione europeadi Franco Frattini

10 Comportamento antisocialeo indicatore di un modellosociale in crisi?di Serenella Pesarin

12 I mille volti del criminedi Carmelo Lavorino

13 Italia, vecchia signoramisconosciutadi Sebastiano Somma

14 Com’è difficile accettare illontano ed il diversodi Alessandro Meluzzi

15 Per una città (che) si-curadi Leonardo Carocci e Mohamed A. Tailmoun

16 Bestie nere di ieri, oggie domanidi Enrico Pugliese

18 Accogliamo i nostri ragazzidi Sonia Viale

19 Non carcerieri mapersonale specializzatodi Luigia Mariotti Culla

20 Giovanissimi e nuove mafiedi Gianluca Guida

22 Dimenticati dietro le gratedi Enrico Sbriglia

24 Le radici della delinquenzadi Stefano Ricca

25 La violenza non ha etniao razzadi Ernesto Doni ed Elton Kalica

26 Le colpe della degradazionedi Mauro Palma

28 Detenzione, extrema ratiodi Paolo Canevelli

30 Condannare non bastadi Luciano Eusebi

"Alcuni di noi sono davvero strani: si appassionano per ciò che l'umanità abbandonaquando ti impongono la moda più consumistica; piangono per la perdita di un libroanche se la televisione parla solo di calciomercato; accolgono nelle loro case i disere-dati ma si oppongono al commercio della droga; combattono per i bambini senzainfanzia e senza padri ma rifiutano la guerra e le armi di distruzione. Alcuni di noi sonodavvero strani: lottano a fianco dei lavoratori sfruttati; combattono per il riconosci-mento dei senza terra, dei senza voce; difendono le donne oppresse, mutilate, violate;mettono in discussione tutto per raccogliere un fiore e rischiano la propria vita perdonare un sorriso. È proprio vero, siamo davvero strani: abbiamo scelto di urlare almondo l'importanza del valore della vita". Il direttore

Il senso della sicurezzaMassimiliano Fanni Canelles

PIÙ CHE IN UNA BOTTE, SIAMO IN UNA “BOTTIGLIA” DI FERRO

Mensile di promozione sociale

Culture a confronto

SICUREZZA E CRIMINALITÀ

Copertine di

PPaaoolloo MMaarriiaaBBuuoonnssaannttee

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econdo l’opinione dei sociologi il pregiudizio generatoda paure ed ossessioni nei confronti di individui appar-tenenti ad un’etnia o cultura diversa dalla propria si tra-

sforma sovente in razzismo. Le paure dell’invasione e dellaglobalizzazione facilitano poi il connubio extracomunitario-ladro/stupratore/omicida che sembra essere diventatouno stereotipo comune. Ma il problema della sicurezza edella criminalità presenta altre sfaccettature socio-econo-miche che dovrebbero essere prese in esame e che condi-zionano i percorsi di ogni individuo come la povertà, la man-canza di lavoro, il basso livello di istruzione, la tossicodipen-denza e, non ultime, le esperienze traumatiche di una vitapoco fortunata. D'altra parte la secolarizzazione del mondooccidentale con il progressivo indebolimento delle ideolo-gie e delle fedi religiose ha portato ad un disorientamentonei confronti dei valori e della morale spingendo l’individuoalla ricerca ossessiva del piacere. Se poi consideriamo chela nostra società è strutturata quasi esclusivamente sul-l’importanza di un’immagine vincente si può facilmentecapire come molti individui siano emarginati e introdotti inpercorsi devianti. Ed è proprio su questi aspetti che si inse-risce l’utilizzo della violenza nella prevaricazione fisica epsicologica dell’altro, dei più deboli, delle donne, sui bambi-ni o nel condizionamento delle masse e della folla che si tra-duce nei drammatici avvenimenti degli stadi o delle manife-stazioni come il G8 di Genova. Una questione rilevante daporsi è però quanto tutto questo sia legato alla nostra per-sonale percezione del fenomeno o al modo in cui lo stessofenomeno è visto o rappresentato da opinionisti, personecon responsabilità politiche e istituzionali e dagli organi dicomunicazione di massa. Evocare lo spettro della microcri-minalità (lavavetri, venditori abusivi, barboni, questuanti)come grave pericolo da combattere non prendendo ade-guati provvedimenti, almeno paritari, verso la criminalitàorganizzata, la mafia e le lobby del mercato umano e delladroga quantomeno rende perplessi se non completamentesfiduciati. È possibile anche che, pur a fronte di un livellostazionario dei dati sulla criminalità, le nostre aspettative disicurezza siano aumentate, così come l’idea del diritto aduna vita soddisfacente. Nel contempo è aumentato ilnumero delle persone anziane, sicuramente più timorose edeboli. Poi la frenesia della competizione sociale ha toltotempo al rapporto umano creando società sempre più soli-tarie ed anonime con istituzioni burocratizzate e servizisempre più impersonali che trasmettono insicurezza. Infinein un contesto di scarsa e spesso discutibile applicazionedei regimi detentivi, non investire sul reinserimento socialedei detenuti ha favorito la reiterazione del reato quandoquesti tornano in libertà. Rispetto ai secoli e agli anni pas-sati quindi non sembra che ci sia stato un aumento di vio-lenza e criminalità ma invece è evidente come sono diversele modalità e le tipologie in cui queste vengono espresse. Èprobabile che forme sommerse siano venute allo scoperto,sicuramente difficile è l'interazione di nuove culture, e glistrumenti mediatici sono ridondanti e vengano strumenta-lizzati. Di certo oggi lo scenario è cambiato e proprio perquesto le istituzioni, il potere politico (e soprattutto quelloeconomico) devono individuare le risposte più appropriatein modo che i cittadini possano considerarsi oltre che “con-sensi elettorali" anche persone sicure.

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CRIMINALITÀ, SICUREZZA, STRANIERI:UN PROBLEMA NON SOLO ITALIANO

11.. PPrroobblleemmii iimmmmaaggiinnaarrii??. La violenza giovanile e la criminalità degli stranieri sono pro-blemi immaginari? I dibattiti in corso non sono altro che esagerazioni alimentate daimedia e dai partiti? Circolano addirittura cifre false, come asseriscono taluni operato-ri del settore giovanile? Forse non è aumentata la violenza tra i giovani, ma la percezio-ne che ne abbiamo, perché oggi le persone sono sensibilizzate al problema e quindi piùdisposte a sporgere denuncia? È vero che i giovani – come deplorano verbosamentetaluni – vengono ingiustamente tacciati di delinquenza? Ecco alcune considerazioni inmerito. Sul piano statistico, i crimini commessi da stranieri (e parlo di reati gravi, direati violenti e connessi alla droga) saltano talmente agli occhi che persino i «minimiz-zatori» più accaniti non possono negarne le proporzioni. Passiamo alla violenza giova-nile: l’aumento dei reati violenti ad opera di giovani è solo un impressione non corro-borata dai fatti? La risposta è decisamente «no». Dalla fine degli anni Ottanta, i reativiolenti sono raddoppiati se non addirittura triplicati. Sempre più spesso le vittimesono giovani (prof. Martin Killias, Tages-Anzeiger del 7.8.2007). Lo stesso dicasi per gliautori dei reati: il numero dei giovani delinquenti ha registrato un netto aumento – seb-bene il numero delle denunce sia in calo!22.. SSttaattiissttiicchhee.. Giungiamo quindi ai risultati seguenti. Negli ultimi anni la violenza gio-vanile è aumentata a dismisura e con essa le proporzioni delle violenze commesse. Tragli autori spiccano i giovani stranieri, segnatamente quelli di origini balcaniche. «Il pro-blema principale resta la criminalità giovanile», sostiene il capo della polizia BernhardHerren. Sproporzionatamente alta appare la quota di giovani di origini balcaniche, cherappresentano il 52,6 per cento di tutti i giovani stranieri indiziati di reati contro la vitae l’integrità della persona. Dietro a ciascuna di queste cifre si nasconde una vicendapersonale. Ciascuno di noi conosce qualcuno che è rimasto vittima di violenze e diabusi. Dalle statistiche non trapelano né la sofferenza delle vittime e dei loro cari né leatrocità che possono distruggere tutta una vita. Basta ricordare gli stupri commessinegli ultimi mesi.33.. DDuuee ccaassii rreecceennttii.. Nella città di Zurigo un gruppo di giovani violenta una ragazza ditredici anni. Tutti i dodici presunti aggressori sono già noti alla polizia, tra l’altro perrapina. I media e le autorità tentano di tenere segreta la loro origine. Soltanto dopoalcuni giorni trapela che sei dei dodici giovani arrestati sono Svizzeri naturalizzati diorigine balcanica e turca, mentre quattro provengono dai Balcani, uno dall’Italia e unodalla Repubblica dominicana (Tages-Anzeiger, 18.11.2006). Nel novembre del 2006 sidiffonde la notizia di uno stupro collettivo a Steffisburg (Cantone di Berna). Gli impu-tati sono due fratelli albanesi (15 e 16 anni), un Pachistano quindicenne, un sedicennesvizzero di origine tamil, un diciottenne brasiliano e due altri stranieri diciottenni(Blick, 15.11.2006).44.. RReeaattii ee ppeennee.. Ritengo vile e pericoloso negare l’esistenza di stranieri criminali. Perrisolvere un problema, occorre innanzi tutto prenderne atto – e noi abbiamo decisa-mente un problema. Nella veste di ministro di giustizia ritengo più importante proteg-gere i cittadini dai criminali che dispensare ai criminali ogni tipo di terapia possibile eimmaginabile. Nella veste di ministro di giustizia, competente anche in fatto di migra-zione, ritengo che non debba essere soltanto possibile, ma addirittura obbligatorioespellere gli stranieri che si macchiano di reati. Chi commette reati ne deve subire leconseguenze – subito. Se trascorrono mesi o anche anni prima che il reato sia punito,la pena non esplica l’effetto desiderato. Abbiamo constatato che molti giovani vittimedi violenze, minacce o coazione non si fanno avanti per paura. Non osano confidarsi nécon i genitori né con la scuola o la polizia. È un fenomeno preoccupante. Se tolleriamofenomeni di questo tipo, ne raccoglieremo le conseguenze. Occorre intensificare lacooperazione tra i servizi di protezione dei minori, le autorità competenti per le natu-ralizzazioni, la polizia, le autorità penali, la scuola e l’assistenza. È inammissibile che unufficio tratti una domanda di naturalizzazione, mentre un altro cita la stessa personaa comparire per una contravvenzione – e che entrambi siano all’oscuro di quanto fac-cia l’altro. Sono indispensabili l’informazione reciproca e lo scambio di dati!55.. CChhee ffaarree?? DDaa ddoovvee ccoommiinncciiaarree?? Il fatto che il perseguimento penale non funzionisempre a dovere non sembra essere riconducibile tanto alle leggi, quanto alla loro ese-cuzione. Le procedure durano troppo a lungo, spesso le sanzioni disposte non sonoabbastanza incisive e quindi non producono l’effetto auspicato, il coordinamento fra levarie attività statali è carente. Le conseguenze sono allarmanti: gli agenti di polizia e glialtri operatori del settore sono frustrati poiché constatano che non cambia nulla. Illavoro ne risente, si diffonde un sentimento di rassegnazione, anche tra gli insegnanti.Da una prima riflessione traiamo le seguenti conclusioni:1. Occorrono misure adeguate a sostegno dei genitori. Va comunque valutata la possi-bilità di rafforzare l’obbligo dei genitori ad assumersi le proprie responsabilità educa-tive. È ad esempio ipotizzabile un inasprimento della responsabilità civile per i genito-ri che omettono i loro doveri educativi basilari.2. Va rafforzata la cooperazione istituzionale, in particolare tra i servizi di migrazione,quelli di naturalizzazione e le autorità di polizia. Non è accettabile che operino indipen-dentemente l’una dall’altra senza sapere cosa fanno le altre. È quindi indispensabile unmaggior coordinamento. La cooperazione tra le scuole e la polizia appare comunqueessenziale: converrà quindi valutare se obbligare gli insegnanti a denunciare reati diuna certa gravità. La polizia dev’essere informata dei reati gravi commessi durante laricreazione.3. La prevenzione deve essere rafforzata, soprattutto nelle scuole. Non basta tematiz-zare la violenza durate l’insegnamento, è anche pensabile di far intervenire agenti dipolizia esperti, come accade per l’educazione alla sicurezza stradale. Numerose misu-re preventive presuppongono inoltre la cooperazione attiva delle famiglie. Ecco perchévanno intensificati anche gli sforzi di prevenzione rivolti alle famiglie alloglotte e menoistruite di origini straniere.4. Gli sforzi per integrare i giovani stranieri vanno intensificati. In particolare le cono-scenze linguistiche devono essere impartite il più presto possibile. Al rifiuto categori-co di integrarsi si dovrà rispondere con provvedimenti efficaci in materia di diritto deglistranieri, tra cui anche l’allontanamento.5. I procedimenti penali devono essere accelerati per quanto possibile: i giovani vannopuniti quanto prima per i reati commessi. Le esperienze fatte nel lavoro sociale con igiovani insegnano che i comportamenti problematici si acutizzano se i tempi cheintercorrono tra il reato e la sanzione sono troppo lunghi. Non si tratta di chiedere penesevere a ogni costo, ma di applicare sanzioni «su misura», adeguate all’autore delreato.

Christoph BlocherIntervento del consigliere federale svizzero in occasione della

«waldstättertagung» a sempach

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Questo periodico è aperto a quanti desiderino collaborarvi aisensi dell’art. 21 della Costituzione della Repubblica Italiana checosì dispone: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensie-ro con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione”.

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SOCIAL NEWSAnno 5 - numero 1 - Gennaio 2008

DDiirreettttoorree rreessppoonnssaabbiillee::Massimiliano Fanni CanellesDirigente medico azienda sanitaria n°4

DDiirreettttoorree eeddiittoorriiaallee::Luciana Versi

RReeddaazziioonnee::Claudio CettoloCapo redattore, graficaPaolo Buonsante Giornalista pubblicista, satiraSerenella PesarinDirettrice Generale DGM Ministero GiustiziaPaola Viero Esperta UTC Ministero Affari EsteriCristina Castelli Professore ordinario università CattolicaDaniela CarrettiUfficio legalePaola Pauletig Redattore Social News on-line e segreteriaCinzia LacalamitaRelazioni esterneMarina Cenni, Elena VolponiCorrezione ortograficaDavid Roici, Alessandra SkerkSpedizioni

SSeeddii ddii RReeddaazziioonnee::

Trieste (Ivana Milic), Udine (Claudio Cettolo), Milano

(Manuela Ponti), Roma (Paola Viero), Napoli (Grazia

Russo), Torino (Elena Volponi), Bologna (Maria Rosa

Dominici), Palermo (Salvo Garofalo).

CCoollllaabboorraattoorrii ddii RReeddaazziioonnee::Luca CasadeiMaria Rosa DominiciPaolo FalconerAlessandro Maria FuciliMicaela MarangoneEmanuel MianDavid RoiciGrazia RussoMartina SeleniCristina SirchClaudio Tommasini

CCoonn iill ccoonnttrriibbuuttoo ddii::Christoph BlocherPaolo CanevelliLeonardo CarocciLuca CasadeiErnesto DoniLuciano EusebiFranco FrattiniDavide GiacaloneSandro GoziGianluca GuidaElton KalicaCinzia LacalamitaCarmelo LavorinoMarcella LucidiLuigia Mariotti CullaGiorgia MeloniAlessandro MeluzziEmanuel MianMauro PalmaRossana Silvia PecoraraSerenella PesarinEnrico PuglieseStefano RiccaEnrico SbrigliaSebastiano SommaMohamed A. TailmounSonia Viale

Gennaio 2007 - BBUULLLLIISSMMOOFebbraio 2007 -- DDIISSTTUURRBBII AALLIIMMEENNTTAARRIIMarzo 2007 - VVIIDDEEOOGGIIOOCCHHIIAprile 2007 - FFAARRMMAACCII EE IINNFFAANNZZIIAAMaggio 2007 - AACCQQUUAA

Giugno/Luglio 2007 - BBAAMMBBIINNII SSCCOOMMPPAARRSSIIAgosto/Settembre 2007 - DDOOPPIINNGGOttobre 2007 - DDIISSAAGGIIOO SSCCOOLLAASSTTIICCOONovembre 2007 - SSIICCUURREEZZZZAA SSTTRRAADDAALLEEDicembre 2007 - AAFFFFIIDDII

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ripreso con forza il dibattito sulla sicurezza dei cittadini. Undibattito su un argomento serio che vive ormai da anni, traalti e bassi, dentro l’agenda politica e che non è - per quantotempo ancora occorrerà ribadirlo? - appannaggio di una

parte politica contro l’altra, ma tema da affrontare con equilibrio eresponsabilità perché la criminalità provoca paura e alla pauraoccorre saper parlare. Prima di tutto riconoscendola. Non c’è dub-bio che sulla paura, sulla percezione delle persone stia incidendo,oggi, insieme ad altre voci - mai da trascurare - la presenza di tantiimmigrati tra noi. Con il pacchetto sicurezza e con le norme sulleespulsioni dei comunitari minacciosi per l’ordine e la sicurezzapubblica, abbiamo cercato – prima dell’omicidio della signoraReggiani a Roma – di parlare alle paure della gente.La violenza è però una realtà, a prescindere dalla presenza o menodi stranieri all’interno della nostra comunità. Secondo gli ultimidati ISTAT sarebbero circa 6 milioni 743 mila, per esempio, ledonne tra i 16 e i 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nelcorso della loro vita. L’indagine dice anche che aumenta la violen-za tra le mura domestiche e che molto spesso è il partner o l’ex adesercitarla. Dati che devono far riflettere quando parliamo di immi-grazione e sicurezza, quando imputiamo solo all’aumento dellapresenza straniera la percezione di paura.Non c’è dubbio che anche tra gli immigrati ci siano i criminali,come anche le vittime però. Forse siamo più abituati a leggere gliimmigrati tra i primi e meno tra le seconde. Forse c’è anche dadomandarsi perché spesso passano inosservate le notizie di cro-naca in cui le vittime sono gli stranieri stessi. O da domandarsi chiè che commette reato “comprando” una prostituta minorenne, osfruttando un clandestino…La questione è non voltare le spalle anessuna di queste realtà perché tutti i reati ci devono essere intol-lerabili, quelli commessi per mano degli immigrati e quelli controdi loro, in uno stato di diritto che ha e deve migliorare la sua azio-ne preventiva e repressiva verso chiunque vuole stare “fuori legge”.Il dato sul rapporto che esiste tra criminalità e immigrazione è inol-tre complesso e molto spesso viene analizzato sull’onda dell’emo-tività politica. Per prima cosa l’aumento della presenza straniera inItalia è il prodotto di due dinamiche: l’immigrazione regolare e l’im-migrazione irregolare o clandestina. Non si può saltare a piepari questa distinzione, perchè dire che un reato su tre è commes-so da un immigrato è un affermazione vera solo in parte. Sono gliimmigrati irregolari a delinquere di più. Molti lo fanno per pagare ildebito agli sfruttatori o per sopravvivere. E sono sotto il ricattodella criminalità che li usa, li arruola o li rende schiavi. Tra gli immi-grati regolari la stima dei reati scende sensibilmente; attestandosial 2%. E non si tratta di reati predatori, quelli che determinanomaggiore allarme. Perché è un dato sociale diffuso che una casa, illavoro e la possibilità di integrazione aiuta di più a non perdere labussola. Sarebbe anche utile uscire da quell’indistinto che è ormaila parola “immigrato” per vedere che alcune comunità di stranieriche vivono tra noi hanno ben poco a che vedere con comporta-menti illegali. Ma, per rimanere nella questione regolari/irregolari,è fuor di dubbio che le norme in vigore - è cambiato il Governo mac’è ancora, purtroppo, la Legge Bossi-Fini - non sono riuscite a fer-mare l’immigrazione irregolare. Anzi, aver pensato la regolarità

come un percorso ad ostacoli dentroun sistema occupazionale flessibile,quando non precario, ha spintoanche molti immigrati a ritrovarsiirregolari di ritorno.La procedura del decreto flussi 2007ha evidenziato - contando le doman-de finora pervenute e cioè 655milarichieste di assunzioni per lavoratoriextracomunitari tra i tre click day -ancora una volta la sproporzione trala domanda di lavoro migrante e lequote effettivamente messe a dispo-sizione (170mila). Non c’è dubbio che molti di questi lavoratoristranieri siano già in Italia e stiano lavorando in nero. Cambiare leregole sull’immigrazione serve, quindi, oggi, anche alla causa dellasicurezza, serve a rendere fruibile, attraverso i flussi, il sistema diingresso e di soggiorno regolare per gli immigrati che voglionolavorare e integrarsi nel rispetto della legge. Non è una questioneideologica ma di buon senso perché, ad esempio, non c’è cedi-mento nel dare una possibilità concreta - che oggi non esiste -all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro regolare. Oltre300mila domande di assunzione del decreto flussi 2007 sonostate inoltrate da datori italiani per lavoratori/lavoratrici domesti-che, colf e badanti. Dunque l’auspicio è che si discuta d’immigra-zione senza ideologie e che si comprenda l’urgenza di metteremano alla normativa vigente. Non penso solo alla legge Amato-Ferrero. Penso anche alla legge sullo sfruttamento del lavoro, alrecepimento delle due direttive europee sull’asilo. Penso soprat-tutto alla legge sulla cittadinanza che riforma il testo in vigore del1992, un testo fondamentale perché il nostro paese si allinei con ilresto d’Europa. Quello che dobbiamo dire con altrettanta chiarez-za è che tutto ciò che deve essere fatto per garantire la sicurezzanon c’entra con l’esigenza di rendere agevole – e non un percorsoa ostacoli – il cammino di quegli immigrati che vogliono vivereregolarmente e onestamente in Italia lavorando e crescendo i pro-pri figli. Favorire l’integrazione e governare i fenomeni in corso nondevono assolutamente far pensare che contestualmente si abbas-si la guardia sul contrasto alla criminalità. Purtroppo esiste unagestione criminale dell’immigrazione clandestina, sia nei paesi diorigine come nel nostro. Non si può fermare l’emorragia di perso-ne verso l’Italia o verso l’Europa senza combattere questo nemicoastuto che guadagna sulla loro pelle. E senza contrapporgli unaazione di cooperazione tra i Governi. Da qui sono maturate e devo-no crescere le importanti azioni delle Forze di Polizia che stannoreprimendo i nuovi schiavisti. Anche questo significa garantiresicurezza: non giustificare quelle illegalità “di dettaglio”- il lavoronero, gli affitti a nero, il bagarinaggio dei servizi - che trovano,magari, consenzienti gli immigrati, ma che non ci insegnano a con-vivere e lasciano sempre pensare che, in fondo, vivere “fuori legge”può tornare conveniente.

Marcella Lucidisottosegretario ministero dell'interno con delega all’immigrazione

Ma chi è, veramente, il lupo cattivo?Secondo gli ultimi dati ISTAT, sarebbero circa 6.743.000 le donne tra i 16 e i 70 anni

vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. L’indagine dice anche che

aumenta la violenza tra le mura domestiche e che molto spesso è il partner o l’ex ad

esercitarla. Sono dati che devono far riflettere quando parliamo di immigrazione e sicurezza,

quando imputiamo solo all’aumento della presenza straniera la percezione di paura

Èer nove italiani su dieci la criminali-tà è cresciuta nel nostro paese nelcorso dell’ultimo anno. Per quasi lametà (47%) gli immigrati rappre-

sentano una minaccia per la sicurezza el’ordine pubblico. È quanto emerge daun’indagine sulle paure degli italiani rea-lizzata da Demos – e curata dal sociologoIlvo Diamanti – per la Fondazione Unipolise presentata a Bologna lo scorso 17dicembre. Da questa ricerca, svolta trami-te sondaggio telefonico su un campionerappresentativo della popolazione italia-na, si apprendono alcuni altri dati degni diinteresse. Uno di questi è che, seppure ilconcetto di sicurezza nel dibattito pubbli-co mediatico sia inteso quasi semprecome sinonimo di difesa personale e, diconseguenza, venga ricondotto al feno-meno della criminalità, in realtà esso èpercepito e riempito di significati anche inrelazione a nuove fonti di incertezza erischi (degrado dell’ambiente, precarietàdel lavoro ecc.), che assumono un rilievotalvolta superiore a quello legato alla cri-minalità. Tuttavia la criminalità, ma sareb-be meglio dire la percezione di essa, restatra i principali indici in tema di sicurezza.Diverse ricerche (ad esempio, Bandini T.,Gatti U., Marugo M. I., Verde A., 1991;Traviani G. V., 2002) hanno dimostrato,infatti, come la paura della criminalità siaspesso indipendente dal reale grado didelinquenza presente in una determinata

area e sia fortemente correlata ad altrifattori, quali l’età dell’intervistato, il luogodi residenza, il sesso e, in buona parte, lerappresentazioni offerte dai mass mediadei comportamenti criminali. Se è certa-mente ingenua – e da tempo superata –la visione dei mezzi di comunicazione dimassa come di potenti formatori dellecoscienze e demiurghi delle convinzionicollettive, poiché occorre considerarel’esposizione selettiva dei fruitori e altrimolteplici elementi soggettivi e conte-stuali che influiscono sulla ricezione,comprensione e valutazione dei messag-gi, non si può non considerare il loroimportante ruolo nel determinare i temidel dibattito pubblico (potere di “agendasetting”) e nel diffondere immagini e opi-nioni, pregiudizi e stereotipi. Ciò avviene,da un lato, in modo “naturale”, vale a direa causa del loro stesso funzionamento.Finestre sul mondo o buchi della serratu-ra, a seconda di come li si voglia conside-rare, i media devono in ogni caso fare iconti con spazi limitati – tre colonne di unquotidiano, un minuto e mezzo di un ser-vizio radiofonico, due ore di fiction televi-siva – che richiedono un’irrinunciabileoperazione di selezione e sintesi, dallaquale ne esce colpita la complessità dellarealtà presentata, che non è più “realtà”ma immagine parziale di essa. Un difettocongenito, che si rivela tanto più pericolo-so quanto più complessi sono i temi del

“taglia e cuci” mediatico. Nontutte le colpe, tuttavia, si pos-sono dare ai mezzi: dietro aessi ci sono sempre delle per-sone, alle quali spettano lescelte e dalle quali è lecitoattendersi un operare intelli-gente e riflessivo, il meno pos-sibile superficiale. Alle quali,ad esempio, spetta il compitodi garantire una rappresenta-zione degli stranieri nei mediache eviti ogni forma di discri-minazione, di approfondire lecaratteristiche strutturali di unfenomeno complesso, qual èquello dell’immigrazione, percomprenderlo nei suoi aspettidi “normalità”, di considerareciascuna persona come tale

prima di identificarla con una categoriache, per sua natura, non può che essereriduttiva. Ma dalle quali, purtroppo, spes-so capita di sentire un linguaggio piùemotivo che razionale, che usa le parolecome bolle di sapone da far scoppiare infaccia per il gusto della stupefazione, o divedere rappresentati milioni di stranieri,con volti e vite estremamente diversi, allastregua di una minoranza che delinque,dandoci così modo di proiettare e ingi-gantire i fantasmi deformati dei nostritimori nei confronti dell’altro sconosciuto,per poi riempirci di paura e diffidenza finoal colletto della camicia. Titoli urlati epoco coerenti ai testi relativi, focus suaspetti patologici delle storie, collocazio-ne delle notizie sugli immigrati esclusiva-mente nelle pagine di cronaca nera, pro-blemi poco approfonditi ma quasi sempreseguiti da soluzioni tanto radicali quantosemplicistiche... Sono numerose le viedella cattiva informazione, ma una è laprincipale: la mancanza di completezza edi molteplicità dei punti di vista. In attesadi mass media che siano in grado di rac-contare gli altri attraverso ciò che è statodefinito un “decentramento narrativo”capace di creare empatia, ci si potrebbeaccontentare di media in grado di offrircivisioni più ampie del mondo in cui vivia-mo. Dicendoci, ad esempio, che i romenisono al primo posto nella lista dellesegnalazioni per discriminazioni razzialiche il call center dell'Unar – l'Ufficio anti-discriminazioni razziali che fa capo allaPresidenza del Consiglio dei ministri – haregistrato negli ultimi mesi. O che solo il6% degli stupri viene commesso daestranei (categoria nella quale rientranoanche e non solo gli immigrati che cifanno paura), mentre la stragrande mag-gioranza è opera di fidanzati, mariti econoscenti. Sarebbe un primo passotanto importante quanto difficile da partedi chi, data la sua appartenenza al genereumano, è forse più portato a mettersi neiguai piuttosto che in discussione. Comedimostra l’8% degli italiani (indagineDemos) che ha acquistato un’arma persentirsi più sicuri.

Luca Casadeigiornalista agenzia prima pagina

Immigrati, una minacciaper metà degli italiani

Gli stranieri fanno paura? Immigrazione e violenza

Nel dibattito mediatico il concetto di sicurezza viene ricondotto al fenomeno della criminalità ma viene percepito anche in relazione a nuove fonti di incertezza e rischi quali degrado dell’ambiente, la precarietà lavorativa e altro ancora

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Marcella Lucidi

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Page 4: Mensile di promozione sociale SICUREZZA E … · 2015-10-28 · Le grandi paure degli italiani di Giorgia Meloni La riforma della legge “contro” l’immigrazione di Sandro Gozi

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ochi giorni fa veniva pubblicata dalpiù importante istituto nazionale diricerche una indagine statisticasulle grandi paure degli italiani

dagli ultimi quindici anni ad oggi. Per laverità, sarebbe bastato interrogare a casoi clienti di un qualunque mercato rionaled’Italia per scoprire che gli italiani sonoterrorizzati dalla criminalità come proba-bilmente mai prima d’ora. Si è cercatospesso di negare la fondatezza di questapaura ricorrendo allo stereotipo della TVche influenza le sensazioni dei cittadini.La realtà è che i mezzi di comunicazionedi massa raccontano i fatti di cronacacome sempre, ma soprattutto riflettonolo stato d’animo della popolazione. C’è undiffuso senso di insicurezza cui la politicadeve far fronte. Spesse volte si affermache la prima libertà civile è quella di potersvolgere serenamente la propria esisten-za, anche a prescindere dal proprio conte-sto finanziario. Certamente, non viviamoun’epoca di grande benessere economi-co, ma una vita libera dalla paura non haalcun prezzo e chi si occupa del bene pub-blico deve tenerne conto senza remore econ grande determinazione. È tempo discegliere la sicurezza senza timore di pas-sare per beceri reazionari. C’è una certacultura “radical chic” che tende a consi-derare la sicurezza quasi come un meroprivilegio piccolo borghese. Mi spiacedover constatare come una certa “sini-stra politica” continui ad ignorare colpe-volmente il fatto che la sicurezza non rap-presenti un lusso da ricchi capitalisti,quelli con la macchina blindata ed il gara-ge sotto casa, ma la difesa dei più deboli,di coloro che sono costretti a prendere gliautobus di notte, degli anziani, delle stu-dentesse che neppure di giorno possonoattraversare un parco al centro diBologna! Purtroppo ho la sensazione chequesta emergenza venga scarsamenteconsiderata dall’attuale governo naziona-le. Normalmente non sono solita usaretoni “estremi” per definire le mie idee e lamia azione politica. Eppure il comporta-mento di Romano Prodi e dei suoi uominilo trovo indegno per la grave situazione in

cui viviamo. Dapprima si è pensato diprovvedere a questa criticità con semplicidisegni di legge da inviare al Parlamento,peraltro con l’astensione del Ministrodella Solidarietà Sociale che ritenevaeccessive le misure immaginate…Successivamente, di fronte alla solleva-zione popolare che seguì alcuni gravi fattidi sangue, si ricorse in tutta fretta ad undecreto governativo che però al momentoè ancora in alto mare perché gli estensoridi quel decreto hanno pensato bene diinserirci una norma contro “l’omofobia”sul quale è dovuto intervenire persino ilPresidente della Repubblica. Insomma, lavera emergenza nazionale per questisignori è la discriminazione ideologica neiconfronti degli omosessuali. D’altra partequesto è il governo che ha promosso l’in-dulto e ciò basterebbe per raccontarel’idea di sicurezza e legalità che ne infor-ma l’attività istituzionale.Il problema sicurezza presenta connes-sioni profonde con la questione degliimmigrati. Ma anche con il concetto disolidarietà. Penso che serva chiarirsi sulprincipio sacrosanto di solidarietà. Rifiutofermamente tutto l’armamentario ideolo-gico che ha talmente a cuore gli immigra-ti clandestini da sognare per loro un desti-no da accattoni ai margini delle nostrestrade. Per me solidarietà è accoglierequalcuno sapendo di poter offrirgli lavoro,assistenza, istruzione. Di questa immigra-zione abbiamo addirittura bisogno, nonho paura a dirlo. Agli immigrati cheamano il nostro popolo, la nostra terra, lanostra cultura ed hanno deciso di condivi-dere con noi il loro futuro voglio poterdire: siete i benvenuti. Ma l’immigrazioneclandestina non è una risorsa, è un pro-blema grave. E per questo mi indigna ildecreto Ferrero-Amato, un provvedimen-to che ha abbattuto la legge che porta ilnome del Presidente di AlleanzaNazionale, una legge che vincolava l’in-gresso degli immigrati in Italia all’esisten-za di opportunità lavorative e per questo èstata ritenuta esemplare persino da per-sonaggi simbolo della sinistra internazio-nale come il premier spagnolo Zapatero.

Con ild e c r e t oFe r r e r o -A m a t osono statespalanca-te le portea l l ’ immi-g r a z i o n eselvaggia,s e n z ar e g o l e .Aggiungoche con lareintroduzione della figura dello “spon-sor” si rischia di istituzionalizzare un veroe proprio mercato degli schiavi. Lo spon-sor è un cittadino italiano o non italianoche versa una certa somma di denaro adun immigrato senza alcun lavoro da svol-gere in Italia, consentendogli comunquedietro questo versamento di denaro dientrare nel nostro Paese. Ebbene, non civuole molta immaginazione per ritenereche gli immigrati appena giunti in Italiasaranno costretti a risarcire, e con gli inte-ressi, il loro “sponsor”. Fortunatamente suquesto è intervenuta l’Unione Europeache ha bruscamente frenato il governoitaliano, ma la questione rimane aperta.D’altra parte, come ha rilevato recente-mente anche Nicolas Sarkozy, in tema diimmigrazione tutti i popoli d’Europa siritrovano sulla stessa barca, e dunquenessuna nazione può permettersi di pro-muovere una legislazione che rechi dannoalle altre popolazioni europee. Ci vorreb-bero ben altri tempi per esaurire un puntodi vista accettabile sull’immigrazione.Resto convinta delle parole del presidentefrancese e le faccio mie: l’Italia è di chi laama. Ciò non vuol dire respingere indiscri-minatamente, ma selezionare l’accesso alnostro territorio e dunque accettare chiintende condividere la medesima storiaed il medesimo destino della nostracomunità nazionale.

Giorgia Melonivicepresidente camera dei deputati

Le grandipaure

degli italiani

Spesso si afferma che la prima libertà civile è

quella di poter svolgere serenamente la propria

esistenza anche a prescindere dal proprio

contesto finanziario. Certamente, non viviamo

un’epoca di grande benessere economico, ma una

vita libera dal timore non ha alcun prezzo e chi si

occupa del bene pubblico deve tenerne conto

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Il ruolo della politica

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On. Giorgia Meloni

immigrazione - lo confermano i dati, ma è sufficiente pas-seggiare per le strade delle nostre città - è un fenomenoche caratterizzerà la società italiana nei prossimi anni e acui faremmo bene ad abituarci, senza timore, piuttostoosservandolo con lungimiranza e imparando a gestirlo,

nel tempo, senza gli allarmismi e le isterie dettate dai fatti di cro-naca. In quest’ottica si colloca la riforma della legge sull’immi-grazione in discussione alla Camera, volta ad intervenire sulledebolezze e le insufficienze emerse in sede di attuazione dellavigente legge Bossi-Fini, una legge che non era “sull’immigrazio-ne”, ma “contro” l'immigrazione e che ha finito con il produrresituazioni di forte criticità. Da un lato essa non è stata capace difavorire in modo efficace l’incontro tra domanda ed offerta dilavoro; dall’altro anche sul fronte delle espulsioni ha dimostratoevidenti carenze. L’obiettivo della riforma è duplice: risolvere iproblemi sollevati dalla Bossi-Fini, e soprattutto inserire le inno-vazioni all'interno del moderno orizzonte europeo. Un orizzonteche non è certo quello di una società italiana chiusa, rispettoall'Europa unificata su scala continentale. In un’Europa compo-sta da ventisette Paesi e destinata a crescere, il diritto di liberacircolazione delle persone deve continuare ad essere un princi-pio fondamentale dell'Unione, parte costruttiva della cittadinan-za europea ed elemento fondamentale non solo del mercatointerno, ma di quello spazio di libertà, sicurezza e giustizia checostituisce uno degli obiettivi fondamentali dell'Unione europea.Tuttavia, se è giusto prendere atto del fenomeno migratorio eoptare per l’integrazione piuttosto che per l’edificazione dinuove barriere, è altrettanto doveroso oggi, in Europa e in Italia,limitare tutte le situazioni in cui i nostri concittadini possanoconsiderare situazioni di insicurezza personale come frutto delprocesso di allargamento e di libera circolazione in Europa,anche perché è vero l'esatto contrario. Un'applicazione piena e

completa del principio di liberacircolazione richiede, infatti,anche una puntuale disciplinadelle norme volte a reprimere gliabusi e l'illegalità, nell'interessenon solo dell'Italia ma di tutti i cit-tadini comunitari rispettosi dellenostre leggi e dei nostri principifondamentali. Solo attraverso ilrafforzamento degli strumentilegislativi nazionali e, ancor dipiù, della cooperazione europea,si garantiscono risposte credibilial problema della sicurezza. Anulla servono, invece, demagogici ritorni a cittadelle chiuse ditipo medievale. Da qui a dieci anni gli immigrati, comunitari enon, saranno parte integrante della società italiana, che diverràsempre più multietnica. Abbiamo creduto a lungo di essere unPaese che poteva fare a meno dell’immigrazione, di potercidifendere dall’ondata migratoria erigendo barriere. È tempo diabbandonare questo “splendido isolamento”, rimboccarci lemaniche e prendere atto che il vecchio modello, incarnato dallaBossi-Fini, non funziona più, se non altro perché il mondo ci èentrato prepotentemente in casa e non possiamo far finta dinulla. Bisogna inoltre considerare che gli immigrati svolgono unruolo sociale sempre più rilevante, si pensi al settore domestico-assistenziale per esempio. Il rilancio dell’istituto dello sponsorvoluto dalla riforma si inquadra, allora, perfettamente in questanuova logica di integrazione perché l’immigrato sponsorizzatoha minori probabilità di cadere nella marginalità e diventare uncarico sociale. Allo stesso modo, una disciplina più generosadovrebbe riguardare i ricongiungimenti familiari, come premes-sa per un’immigrazione più integrata e “normale”. È a questotipo di immigrazione che dobbiamo mirare. Solo una politica deldoppio binario, che coniughi immigrazione e integrazione, legali-tà e accoglienza, riuscirà infatti a far fronte alla sfida dell’immi-grazione che il nostro Paese affronta (e affronterà) in questosecolo. Con l’inizio del 2008, secondo le fonti anagrafiche, i figlidegli immigrati hanno superato il milione. Fra soli venti anni, que-sti bambini saranno degli adulti cresciuti ed educati in Italia. Perquanto tempo ancora potremo permetterci di trattarli come cit-tadini di serie B? La risposta che dobbiamo fornire è una politicalungimirante, attenta ai bisogni di tutti, “nuovi” e “vecchi” citta-dini: solo così saremo in grado di gestire al meglio l’immigrazio-ne, considerandola finalmente come una risorsa e non più comeuno spauracchio. Se non ci riusciremo, pagheremo il prezzo di unPaese diviso, non integrato, poco cosciente della propria ric-chezza demografica.

Sandro Gozipresidente del comitato parlamentare schengen,

europol e immigrazione

La riforma dellalegge “contro”l’immigrazione

“La “Bossi-Fini” ha finito con il produrre

situazioni di forte criticità. Da un lato essa

non è stata capace di favorire in modo

efficace l’incontro tra domanda ed offerta

di lavoro; dall’altro ha dimostrato evidenti

carenze anche sul fronte delle espulsioni”

L’

L’azione del Governo

On. Sandro Gozi

traffico di esseri umani(panorama.it)

Page 5: Mensile di promozione sociale SICUREZZA E … · 2015-10-28 · Le grandi paure degli italiani di Giorgia Meloni La riforma della legge “contro” l’immigrazione di Sandro Gozi

egli ultimi 50 anni abbiamo lavorato insieme per realizzarel’ideale dei padri fondatori dell’Unione europea. La pace e laprosperità sono i maggiori successi conseguiti dall’Unione.Allo stesso tempo, abbiamo garantito la coesione sociale e

la solidarietà tra gli Stati membri. Lo spazio di pace e prosperità siè esteso nel corso dei progressivi allargamenti dell’Unione, cheoggi conta almeno 500 milioni di cittadini. Il mio settore,"Giustizia, libertà e sicurezza", è al centro dell’interesse dei citta-dini. Il trattato aiuterà l’Unione europea ad affrontare problemicome la lotta contro organizzazioni criminali responsabili del traf-fico di persone attraverso le frontiere; il cosiddetto "asylum shop-ping", ovvero gli spostamenti dei richiedenti asilo da uno Statomembro all’altro alla ricerca delle condizioni migliori; la prevenzio-ne della criminalità e la lotta al terrorismo tramite il congelamen-to dei beni. La dimensione europea ha un valore aggiunto. Sfideall’ordine del giorno quali la migrazione, il terrorismo, la criminali-tà organizzata e il rispetto dei diritti fondamentali richiedono coo-perazione. Lavorare su scala europea permette di conseguire unvalore aggiunto. Vorrei allora e innanzitutto ricordare brevementealcune recenti proposte a vantaggio dei cittadini:11.. IIll ppaacccchheettttoo aannttiitteerrrroorriissmmoo. Il novembre scorso ho presentatoun insieme di proposte antiterrorismo, che comprende misure perimpedire l’uso di Internet a fini di terrorismo, lo sviluppo di unsistema europeo di raccolta dei dati relativi ai passeggeri e unpiano d’azione in materia di esplosivi.LLaa ddiirreettttiivvaa ""PPrrootteezziioonnee ddeeii ddaattii nneellll''aammbbiittoo ddeell tteerrzzoo ppiillaassttrroo""..Purtroppo il terrorismo è una minaccia costante. Per questo dob-biamo essere sicuri di non abbassare mai la guardia, ma al tempostesso di rispettare pienamente i diritti fondamentali. Mi rallegroquindi che il Consiglio Giustizia e affari interni abbia finalmenteraggiunto un accordo su alcune misure intese a proteggere i datiutilizzati nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria.22.. EEuurrooppooll // EEuurroojjuusstt.. Con Europol ed Eurojust, abbiamo istituitoun regime di cooperazione e coordinamento nei settori rispettiva-mente di polizia e giudiziario. Proprio lo scorso novembre, conl’operazione "Koala", Eurojust ed Europol sono riusciti a smantel-lare una rete di pedofili alla quale partecipavano 2500 "clienti" suscala mondiale.33.. IIll ppaacccchheettttoo ssuullllaa mmiiggrraazziioonnee lleeggaallee.. Se da un lato combattiamol’immigrazione illegale e la tratta di esseri umani, dall’altro inco-raggiamo la migrazione legale. In ottobre ho presentato alcuneidee sulla migrazione legale dei lavoratori altamente qualificati eho proposto di aumentare la tutela dei diritti degli immigrati inposizione regolare.44.. LLaa ccrriimmiinnaalliittàà iinnffoorrmmaattiiccaa.. Prosegue anche l’impegno per pro-teggere i bambini, che costituiscono un terzo della popolazionedell’UE. Su questo punto disponiamo di una strategia globale. Inmaggio ho divulgato una comunicazione sulla criminalità informa-tica, che riguarda, fra l’altro, lo sfruttamento sessuale tramiteInternet.IIll sseettttoorree GGLLSS èè rreellaattiivvaammeennttee nnuuoovvoo.. Potrei fare molti altri esem-pi. Gli sviluppi in materia di Giustizia, libertà e sicurezza sono tantopiù notevoli se si considera che il settore è relativamente nuovo.Il trattato di Lisbona guarda al futuro. Il viaggio europeo non è fini-to. Dobbiamo rispondere alle sfide odierne e offrire qualcosa diimportante agli europei di oggi e di domani. Dobbiamo fare inmodo che abbiano fiducia nel futuro. Il nuovo trattato di Lisbona ci

aiuta a raggiungere questo scopo.Il trattato introdurrà numerosimiglioramenti, malgrado le modi-fiche che sono state necessarieper raggiungere il consenso gene-rale. I punti principali sono:1. i diritti fondamentali;2. la riforma istituzionale;3. il processo decisionale;4. la cooperazione rafforzata;5. la Corte di giustizia;6. le misure di salvaguardia;7. la clausola di "opt-out";8. il periodo di transizione.1. I diritti fondamentali.Prima di tutto, sono lieto che la Carta dei diritti fondamentali diven-ti giuridicamente vincolante. La Carta tutela i diritti individuali, nellafattispecie la dignità, le libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, e I dirit-ti inerenti alla cittadinanza e all’ambito giudiziario. È un risultatoeccellente. Grazie a questo, e alle iniziative prese dall’UE per aderi-re alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ma su questooccorrerà agire rapidamente), il nostro impegno per promuovere eproteggere i diritti fondamentali nell’Unione risulta rafforzato.22.. LLaa rriiffoorrmmaa iissttiittuuzziioonnaallee.. Il trattato di riforma è destinato a creareun sistema istituzionale stabile. Perché questo è importante per icittadini? Perché permetterà di prendere decisioni in modo piùrapido e trasparente e con un miglior controllo democratico. I citta-dini avranno un’idea più chiara di chi sia responsabile, di che cosavenga fatto e perché.CCooooppeerraazziioonnee ddii ppoolliizziiaa ee ggiiuuddiizziiaarriiaa.. A mio parere, quindi, i cambia-menti più importanti sono quelli previsti nel settore della coopera-zione di polizia e giudiziaria, il cosiddetto "terzo pilastro".Attualmente il processo decisionale in questo campo è per lo piùintergovernativo. Le decisioni sono adottate all’unanimità dagliStati membri, con scarso coinvolgimento della Commissione euro-pea, del Parlamento europeo e della Corte di giustizia europea.Questa situazione cambierà. Sono lieto che si sia raggiunto unaccordo per porre fine alla divisione artificiale rispetto alle politichecomunitarie "classiche", abolendo la struttura a pilastri.33.. IIll pprroocceessssoo ddeecciissiioonnaallee:: llaa pprroocceedduurraa ddii ccooddeecciissiioonnee.. Per quantoriguarda il processo decisionale, mi rallegro particolarmente delfatto che la procedura di codecisione sia stata estesa alla coopera-zione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò permetterà unamaggiore efficienza e affidabilità. "Codecisione" significa che ledecisioni sono adottate con votazione a maggioranza qualificata eche il Parlamento europeo ha un ruolo più importante in quantocolegislatore.PPiiùù ddeemmooccrraazziiaa.. Anche nell’attuale sistema di voto all’unanimità, èraro che uno Stato membro si ritrovi isolato su una determinataquestione. Scopo del processo di codecisione è rafforzare la demo-crazia, attribuendo un ruolo più importante al Parlamento. E ciòche interessa ai nostri cittadini è proprio la democrazia, ossia unprocesso decisionale trasparente e affidabile.DDeecciissiioonnii ddii mmiigglliioorree qquuaalliittàà.. Codecisione significa anche offrire aicittadini decisioni di migliore qualità. Per prendere decisioniall’unanimità possono essere necessari anni prima di raggiungereun accordo politico. E il testo definitivo può prevedere eccezioni,

esenzioni e deroghe. Si tratta quindi di leggi di qualità inferiore, piùdifficili da applicare per giudici e operatori della giustizia. Non sono"user-friendly". Penso, ad esempio, al mandato europeo di ricercadelle prove, o alla decisione quadro su razzismo e xenofobia, appro-vata quest’anno dopo ben cinque anni di discussioni. La codecisio-ne ha potenziato la nostra attività legislativa. Nel 2005 è stato este-so il ricorso al voto a maggioranza qualificata. All’epoca si temevache il ruolo accresciuto del Parlamento europeo potesse rallentarei lavori. Credo che sia vero l’opposto: la codecisione ha potenziatola nostra attività legislativa e nella maggior parte dei casi è statopossibile ottenere un testo equilibrato entro termini ragionevoli, giàin prima lettura. Si pensi, ad esempio, al "codice frontiere".44.. LLaa ""ccooooppeerraazziioonnee rraaffffoorrzzaattaa"". Tramite la "cooperazione rafforza-ta" prevista dal trattato di riforma, nei casi in cui sarà impossibileraggiungere un accordo comune, un numero minimo di nove Statimembri potrà procedere e adottare una normativa. Non mi piacel’idea di un’Europa a due velocità, ma mi piace ancor meno vederbloccare iniziative valide per l’opposizione di uno o due Stati mem-bri ai desideri della maggioranza.55.. LLaa CCoorrttee ddii ggiiuussttiizziiaa.. Siamo attualmente in una situazione ecce-zionale, caratterizzata dal fatto che la Corte di giustizia non è com-petente in tutti i settori della legislazione dell’UE. Grazie al trattatodi Lisbona, la Corte avrà finalmente piena competenza in tutte lequestioni di giustizia, libertà e sicurezza, compresa la cooperazio-ne di polizia e giudiziaria. Questo cambiamento introdurrà un con-trollo giurisdizionale in tutti i settori della legislazione, come avvie-ne in ogni società democratica.AAttttuuaazziioonnee iinnccoommpplleettaa.. Alcune misure non sono state ancoraattuate dagli Stati membri, o lo sono state solo parzialmente.Questo crea incertezza e rende difficile la cooperazione tra gli ope-ratori del settore. E, in ultima analisi, limita la nostra capacità di pro-teggere al meglio i cittadini. In quanto "custode dei trattati", laCommissione avrà il potere di avviare dinanzi alla Corte procedured’infrazione contro gli Stati membri inadempienti; l’esistenza stes-sa di questo potere è importante quanto il suo uso effettivo.Purtroppo, a causa di alcune deroghe, ciò sarà possibile solo dopocinque anni dall’entrata in vigore del trattato.66.. MMiissuurree ddii ssaallvvaagguuaarrddiiaa.. UUnnaanniimmiittàà ppeerr llee aazziioonnii ooppeerraattiivvee.. Pergarantire l’accordo di tutti i 27 Stati membri, è stato ovviamenteindispensabile inserire nel nuovo trattato alcune misure di salva-guardia.Ad esempio, l’unanimità per le azioni operative o la clauso-la secondo cui, se uno Stato membro ritiene che una proposta dilegge incida sugli aspetti fondamentali del proprio sistema giudi-ziario penale, esso può utilizzare come "freno di emergenza" l’op-portunità di adire il Consiglio europeo.77.. LLaa ccllaauussoollaa ddii ""oopptt--oouutt"".. Il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarcahanno addirittura scelto di non partecipare all’intero titoloGiustizia, libertà e sicurezza del trattato di Lisbona, il che va al di làdella loro attuale clausola di "opt-out" in relazione alle questioni dimigrazione e di sistema giudiziario civile. Questi Stati membri nonparteciperanno più sistematicamente, come attualmente avviene,alla cooperazione di polizia e giudiziaria.CCoommpplleessssiittàà ggiiuurriiddiiccaa.. Non possiamo negare che questo aumentala complessità giuridica del nostro lavoro. Dovremo considerare leconseguenze della mancata partecipazione di alcuni Stati membri,conseguenze che riguardano loro, ma anche l’Unione intera.Ovviamente sarei favorevole alla partecipazione del Regno Unito,dell’Irlanda e della Danimarca alla politica comune, ma non a detri-mento dei progressi conseguiti dal nuovo trattato.88.. PPrroobblleemmii rreellaattiivvii aall ppeerriiooddoo ddii ttrraannssiizziioonnee.. Mi preoccupa il perio-do di transizione previsto dal nuovo trattato, idea inserita nel dibat-tito solo nella fase finale dei negoziati: la Corte di giustizia europeaavrà competenza per le decisioni assunte nell’ambito del terzo pila-stro solo dopo cinque anni dall'entrata in vigore del trattato. In talmodo si indebolisce e si contrasta il grande successo conseguitocon l’abolizione della struttura a tre pilastri.IIll RReeggnnoo UUnniittoo.. Le sentenze della Corte di giustizia in materia dicooperazione di polizia e giudiziaria emanate prima dell’entrata invigore del trattato di Lisbona non saranno vincolanti per il RegnoUnito.IIrrllaannddaa ee DDaanniimmaarrccaa.. Sono lieto, tuttavia, che su questo puntol’Irlanda abbia assunto una posizione diversa da quella del Regno

Unito. E mi rallegro del fatto che la Danimarca si proponga di emen-dare la sua costituzione nel 2009, per garantire di non escludersidall’intero settore giustizia, libertà e sicurezza.IInn ccoonncclluussiioonnee.. Vi lascio con una riflessione che riguarda la comu-nicazione. Dobbiamo essere sicuri di comunicare e divulgare lebuone notizie in relazione al trattato. Dobbiamo persuadere i citta-dini che le istituzioni europee possono contribuire a risolvere i loroproblemi. Una comunicazione efficace non riguarda soltanto que-sti cambiamenti istituzionali (per quanto importanti), ma in gene-rale l’effetto dell’azione dell’UE sulla vita dei cittadini. Se non garan-tiamo una comunicazione efficace, Internet, la radio, la televisionee i giornali si riempiranno di voci antieuropee. Quella che ci si offreè un’opportunità di migliorare l’Europa e di far comprendere ainostri concittadini che cosa essa fa e perché è importante per loro.Per realizzare questa opportunità, tutti noi abbiamo un ruolo dasvolgere.

FFrraannccoo FFrraattttiinniivicepresidente commissione europea

responsabile per il portafoglio giustizia, libertà e sicurezza.

Giustizia, libertà e sicurezza:la dimensione europea

Così cresce la Ue

“Sfide all’ordine del giorno quali la migrazione, il terrorismo, la criminalità organizzatae il rispetto dei diritti fondamentali richiedono cooperazione. Lavorare su scala comunitaria permette di conseguire un valore aggiunto”

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Franco Frattini

Troppo lunghi i tempi della giustizia

“Pacchetti sicurezza”,palestre del nulla

Governi di varia natura e colore politico s’affannano, periodicamen-te, a varare bidoni denominati “pacchetti sicurezza”, che, in realtà,contengono frutti avvelenati e segnano l’ulteriore resa dello Statoalla criminalità. Quelle norme, però, quand’anche entrano in vigoree non diventano puro terreno di scontro fra componenti diversedella maggioranza governativa, sono la palestra del nulla, perchéda una parte si vogliono offrire pene più severe e certe, dall’altra sialzano le mani e ci si arrende: la giustizia italiana è ufficialmenteincivile. Abituati a ragionar per tifoserie molti non si rendono contodi cosa significhi, ad esempio, l’aumento dei termini di prescrizio-ne. Lasciamo perdere il procedere a fisarmonica, per cui quel chegli uni fanno (poco) gli altri smontano, il fatto è che nell’ultimo pac-chetto, confezionato dal governo Prodi, si accetta l’idea che iltempo minimo per potere concludere un processo sia sei anni. Mala Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già molte volte chiaritoche il massimo accettabile è quattro anni. Siamo fuorilegge, perlegge. Aumentare il tempo a disposizione dei tribunali non significaaffatto perseguire con maggior rigore i delinquenti, ma infliggerepiù lunghe torture agli innocenti, aumentare il numero dei procedi-menti pendenti, quindi rallentare l’intero corso della giustizia edassicurare, infine, l’impunità ai colpevoli. Con tanti bei saluti allacertezza di una pena che neanche si riesce a sentenziare. Le misu-re cautelari, inoltre, inasprite nello stesso testo che prende attodella bancarotta giudiziaria, prefigurano la pericolosissima ideache possa esistere repressione senza giustizia. In teoria possibile,ma incompatibile con lo Stato di diritto. Anziché, dunque, andareverso un sistema civile, che consideri sacra la presunzione d’inno-cenza e non sia tremulo con i condannati, continuiamo il lungocammino in direzione opposta. Il tutto perché non si può metteremano nella macchina della giustizia, impegnati come si è in guerregiudiziarie che del diritto non sono neanche parenti. La bancarottagiudiziaria è un disastro che porta con sé la barbarie del non-dirit-to e la rabbia della sicurezza violata. È uno di quei mali che puòdegenerare infettando l’intero corpo sociale. Ma la politica stenta aprendere le misure delle cose da farsi (separazione delle carriere,tempi certi e perentori, maggiori controlli di produttività, esecutivi-tà delle sentenze e così via) perché ragiona di giustizia pensandoagli interessi dei magistrati e dei cancellieri, talora anche degliavvocati, così come ragiona di scuola pensando ai docenti e nonagli studenti, o di sanità pensando a medici ed infermieri anziché aimalati. Il male è sempre lo stesso: aver smarrito l’idea che si possaessere migliori tutti assieme, scatenando la ricerca del beneficiocorporativo a danno della collettività.

Davide Giacalone direttore dei periodici "la ragione" e "smoking",

già capo della segreteria del presidente del consiglio dei ministri, già consigliere del ministro poste delle telecomunicazioni

www.davidegiacalone.it

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n’ipotesi di lavoro o anche soltantoun’argomentazione teorica, svilup-pata su di un piano dialettico, cheintendano affrontare il tema della

devianza minorile, richiedono un approc-cio multidisciplinare, sia psicodinamicosia sociologico.Pertanto, la lettura dei percorsi di devian-za non può non essere contestualizzataall’interno della matrice culturale domi-nante e dei modelli che impone.L’attuale struttura sociale, connotata dalsovrapporsi di culture e relativi codicisociali differenti, portatori di valori a volteaddirittura antitetici, ha reso tuttavia lalettura del fenomeno ancora più comples-sa. Generalmente, si definisce la devianzaquell'insieme di comportamenti cheinfrangono il complesso dei valori che, inun dato momento storico e in un determi-nato contesto sociale, risultano validi efondanti in base alla cultura del grupposociale dominante.Non esiste, in realtà, un’interpretazioneunivoca del concetto di devianza, cheinfatti ha assunto nel tempo significati evalenze molteplici. Indipendentementedall'orientamento teorico, comunque, sipuò affermare che devianza e delinquenzanon sono comportamenti definibili inassoluto, ma in funzione del contrasto tradeterminati comportamenti e le regolesociali.Dunque, quando si fa riferimento alla que-stione della “devianza minorile”, si tienecomplessivamente conto sia delle condot-te giuridicamente perseguibili sia di queicomportamenti che, pur non integrandogli estremi di una fattispecie giuridica-mente rilevante, possono costituire indi-catori di disadattamento.Dunque, ad un primo significato di devian-za come manifestazione di una inadegua-ta interiorizzazione delle norme interne adun dato sistema sociale di riferimento, vaaggiunta oggi un’altra lettura dell’espres-sione, che si manifesta come sintomo del-l’emersione di nuovi valori e di nuovi biso-gni, che vanno ad innestarsi sulle difficol-tà a filtrare gli input culturali o sottocultu-rali dell’ambiente esterno, che tipicamen-

te caratterizzano, di per sé stessi, quelsegmento evolutivo dell’autoaffermazio-ne, vissuto in adolescenza attraverso laricerca di situazioni relazionali alternativeai modelli di integrazione offerti dal pro-prio nucleo familiare, dove convogliare isentimenti di condivisione delle proprieaspettative di successo e del bisogno didefinizione della propria individualità.La nostra attuale è una società strutturatasulla ponderazione dei ruoli, centrata sullavalenza di un’immagine altamente perfor-mante, vincente: esprimendosi per paros-sismi e stilizzando il concetto, si può facil-mente affermare che oggigiorno, perun’adolescente, si trovi maggiore gratifi-cazione nel dire “sono una velina”, piutto-sto che “sono un’assistente sociale”.Per quanto possa apparire paradossale,ad ogni modo, di fatto la destrutturazionedel modello sociale, in tutte le sue compo-nenti tradizionalmente deputate alla for-mazione dell’identità dei singoli e dei pro-cessi di interazione, quali la famiglia, lascuola e le istituzioni ci impone di recupe-rare il senso, il significato di un percorsoche oggi appare interrotto, in crisi di valo-ri e modelli.Ancor più questa disgregazione dei codicicondivisi, peraltro, può rivelarsi invasiva,se va ad impattare su individui la cui strut-tura di personalità è in fase di formazione,ove le eccessive sollecitazioni culturali,soprattutto mediatiche, che spingono indirezione dell’antagonismo e della compe-tizione tra consociati, in un’accelerazioneestrema, quasi compulsiva nella ricerca dirisposte, fino alla determinazione, nei casiestremi, di comportamenti devianti.Tuttavia, la crisi di per sé non è una iattu-ra. La crisi, anche a guardar bene dentro laterminologia, prescindendo dalle conno-tazioni negative che l’espressione haassunto nell’accezione diffusa, è sempli-cemente la rottura di un equilibrio.E sta a noi, perlomeno anche a noi, ricom-porre i pezzi, nel tentativo di articolare unnuovo percorso da tracciare tutti insieme;e questo recuperare e rimettere insieme ipezzi non può realizzarsi, se non siamodisposti a mettere al centro la persona

con i suoiv a l o r iessenziali,non viven-dola piùc o m er i s o r s astrumen-tale adun’otticadi solaprodutti-vità dels i st e m a ,ma nel rispetto della dignità che ogni per-sona ha e nella sua capacità di contribuireal bene comune. Ecco perché, in un siste-ma sociale in crisi, la devianza può para-dossalmente atteggiarsi, nella sua rappre-sentazione di nuovi disvalori, come recet-tore di nuovi bisogni e, d’altro canto,segnalare le contraddizioni sociali e l’im-patto negativo sui principi organizzatividella comunità.Conseguentemente, il sistema della giu-stizia minorile rappresenta un osservato-rio privilegiato, in quanto consegnatario diun’opportunità elettiva, in ordine all’anali-si dei fenomeni di devianza, dai codici con-divisi, quali manifestazioni di un desideriodi cambiamento del modello sociale, chepassa attraverso le istanze delle fasce piùsensibili, vibratili rispetto ai segnali dimalessere, sia per collocazione anagraficasia per la provenienza da sacche delle sot-toculture nazionali e delle culture alterna-tive delle popolazioni migrate, ed è altresìportatore di una mission in ordine allaricerca delle strategie possibili d’interven-to.La giustizia non si può realizzare, se nonc'è la responsabilità di una condivisionecomune, se non c'è una cultura etica diriferimento, se non c’è il vivere un conte-sto come appartenente a tutti e non aipochi, se non c'è un valore educativo chepassa soprattutto dagli adulti e passa nonattraverso le parole, ma attraverso i com-portamenti e i fatti, attraverso gli agiti.La giustizia minorile ha inevitabilmente lanecessità di ritracciare un proprio percor-

so, perchè siamo in crisi: nel senso che,lavorando con i giovani, sappiamo chequesti sono sempre la punta avanzata delcambiamento. Il grande sforzo che si starealizzando a Roma nel tentativo di defini-re un ordinamento, finalmente dopo 33anni, a misura di minori, non vuole esseresolo intorno alla regola carceraria. È certa-mente importante rispetto ai permessi,rispetto a delle opportunità, ma vuole pro-prio rimettere in gioco tutto il sistemadella giustizia minorile a partire dai tribu-nali e dai servizi.Noi tutti sappiamo che i ragazzi sonocambiati, si sono diversificati rispetto apochissimi anni fa, che le stesse famiglienon sono più le stesse, che c'è una tra-sversalità complessiva, dove è difficileomologare, dove i tempi sono differenzia-ti, dove ci sono non solo ragazzi immigra-ti, ma ragazzi italiani, all'interno di unastessa regione, con bisogni diversi.Ci sono i ragazzi delle mafie e della camor-ra con caratteristiche diverse, i ragazzidella Sacra Corona. Ci sono i ragazzi delladelinquenza abituale, ci sono i ragazzinuovi assuntori di sostanze, ci sono ragaz-zi al limite del loro benessere psicologicoche non potremmo definire portatori dipsichiatria o di patologia psichiatrica,però sono veramente al limite rispetto acerte situazioni; ci sono i sex offender, cisono i neocomunitari, gli stranieri, maall'interno degli stranieri tanti straniericon diverse culture di appartenenza, etante famiglie, tante culture dietro, tantiterritori, tanti diversi enti locali, tantediverse istituzioni, tanti diversi volontaria-ti. Tuttavia, a voler individuare elementi, agrandi linee, comuni alle differenti formedi devianza, su cui poter innestare leriflessioni e successivamente concretizza-re le direttrici progettuali, sono osservabi-li comportamenti che indicano un’abitudi-ne a far ricorso a risposte di aggressivitàesplosiva o implosiva, come strumento

per “farsi strada” non solo nel gruppo deicoetanei, ma anche tra gli adulti. In taleapproccio, si tratta di tratteggiare conattenzione la linea di confine tra la violen-za situazionale, legata nella sua varietàmultiforme di espressione, a situazionispecifiche nelle quali l’adolescente o ilpre-adolescente possono rispondere inmodo aggressivo, da quella che invece sireitera con sistematicità e che si strutturacome modalità di soluzione di ogni con-fronto. Ed è di chiara evidenza che, in tuttele ipotesi in cui un minore assume condot-te aggressive, in modo spesso non com-misurato alla portata dello stimolo ester-no che gli richiede una risposta di adatta-mento, sia nei diversi contesti di rapportocon i pari sia con gli adulti che entrano inrelazione con lui, in particolare quandorivestono profili educativi, per quel sog-getto la violenza è uno strumento percepi-to come utile a regolare i rapporti inter-personali.È importante segnalare questi aspetti elavorarci, poichè la violenza è un’abitudineche è molto difficile da destrutturare,quando si organizza in maniera forte alivello di preadolescenza e adolescenza.Quindi è importante intervenire, alloscopo di scongiurare il rischio che la vio-lenza finisca con l’essere l’unica rispostadi adattamento all’allarme, in sé fisiologi-co, procurato dai fattori esterni che inter-vengono come elementi di novità, sul per-corso ontologico di crescita dell’individuo,e che si strutturi, alla fine, in un costumeed una modalità di tipo verbale o di con-trasto fisico, impedendo di fatto di svilup-pare competenze prosociali, empatia, tuttiquegli stilemi comportamentali, che ser-vono a conquistare i rapporti.Il paradosso virtuoso, che può tradursi inuna reale opportunità per il sistema dellagiustizia minorile, è rappresentato appun-to dalla possibilità di governare questopanorama complesso di segnali di disagio,

di cui i comportamentidevianti sono portatori, e diricondurre alla centraturasulla persona, sui suoi bisognidi riconduzione ad un percor-so di cittadinanza attiva ogniprogetto di accompagnamen-to educativo e di reinserimen-to occupazionale e sociale. Eciò vale, pur nella diversità distrategie operative necessita-te dalla diversità delle tipolo-gie di utenza, come criteriounitario per ripensare i rap-porti con il territorio e con gliattori istituzionali e produttivicon i quali progettare collabo-razioni.Un modello concettuale chefaccia leva sulla centralità del

singolo, in definitiva, e sulla costruzione diun percorso pensato sulle reali potenziali-tà di inserimento all’interno dell’ambientein cui si contestualizzato gli interventi, èapplicabile sia che si tratti dei ragazzidelle mafie e della camorra con caratteri-stiche diverse, sia che si tratti dei ragazzidella Sacra Corona, così come è applicabi-le a tutte le tipologie di ragazzi già elenca-te e a tutte le situazioni esistenti ambien-tali, culturali e sociali in cui nascono i disa-gi scatenanti le devianze. Tale modelloconcettuale, oltretutto, si mostrerebbesuscettibile di implicazioni interattive ecostruttive con tutte le possibili variantifamiliari, territoriali e istituzionali.Questa stessa diversità, al contrario, senon governata alla luce della centraturasul singolo minore, non è ricchezza, madiviene veicolo di dispersione e frantuma-zione delle risorse.Ecco perché il tentativo che stiamo com-piendo, di governare questo scenariocomposito e dinamico, è irrinunciabile, perquanto complesso e difficile, ed è per que-sto che lo consideriamo certamente unarisorsa: per la potenzialità che contiene diconsentire un cambiamento, in termini dimaggiore qualità e di focus sulla dignitàdella persona. Ecco perché, ancora, èimportante una riforma dell’ordinamentopenitenziario che metta in gioco la giusti-zia minorile, stimoli un ragionamento euna riflessione in capo alla magistraturaminorile ed ai nostri servizi e consentaloro di articolare dei moduli individualizza-ti che non siano per sempre, ma che sianoflessibili, aperti, modificabili e che, quindi,ci imponga una ripensamento continuodei percorsi di risocializzazione per i sin-goli minori e del nostro stesso approcciocritico rispetto alle scelte di riparametrareopportunamente i percorsi stessi. E lenostre scelte devono realizzarsi veramen-te in un’ottica di porre al centro il ragazzo,con i suoi cambiamenti che, in età evoluti-va, sono repentini e a volte contraddittori,con spinte e remissione di crescita,soprattutto se il contesto esterno nonconsente di interrompere alcuni processiper sedersi e fare una riflessione che siafuori dal tempo e dallo spazio della nostramodernità. I ragazzi provengono dal terri-torio ed al territorio ritornano. Noi siamouna parentesi importante, siamo l'ultimaspiaggia, la parentesi che consente lariflessione e l'opportunità di potere diven-tare risorsa umana attiva, non oggettuale,capace di esprimere un valore aggiuntoall’interno di un contesto orientato allosviluppo di una nazione e di un territorio,di un Paese e di una Regione.

Serenella Pesarin direttore generale – dipartimento giustizia minorile

ministero della giustizia

Comportamento antisociale o indicatoredi un modello sociale in crisi?

I perché della delinquenza minorile

La lettura dei percorsi di devianza non può non essere contestualizzata all’interno dellamatrice culturale dominante e dei modelli che impone. L’attuale struttura sociale, connotata dal sovrapporsi di culture e relativi codici sociali differenti, portatori di valoria volte addirittura antitetici, ha reso tuttavia la lettura del fenomeno ancora più complessa

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Serenella Pesarin

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n base soprattutto agli ultimi avvenimenti accaduti nelnostro Paese si è rafforzato nel pensiero che gli immigratisiano fondamentalmente dei delinquenti, nessuno escluso.È probabile che fra chi scappa dal proprio paese per cerca-

re una vita migliore ci siano tante persone per bene e che idelinquenti che vengono da altre nazioni siano solo una picco-la percentuale. Persone che non hanno avuto un’educazioneappropriata, persone alle quali non è stato dato insegnamentoalcuno in merito alle nostre leggi ed alle leggi in generale. Il pro-blema è che questi, provenendo da territori dove il rispetto deidiritti e la democrazia sono spesso solo parole senza senso,pensano di poter continuare a vivere secondo la legge del piùforte anche in Italia. Purtroppo nel nostro paese la possibilitàche questo avvenga è dovuta alla scarsa rigidità che le istitu-zioni applicano nella repressione ai crimini e alla malavita. Ilcarcere è diventato un servizio rieducativo: giusto. Ma è giustoche persone che hanno massacrato, violentato e fatto soffrirefamiglie intere debbano anche pagare per il crimine commes-so, e che spesso questi individui difficilmente possono essererieducati. Questo di certo fa sì che vi sia del malcontento cheserpeggia fra noi cittadini. Un malcontento palpabile, che nontiene conto del fatto che non è possibile colpevolizzare chi nonè stato messo in condizione di non commettere dei crimini.Le leggi devono necessariamente esser fatte rispettare, ma lapolitica deve anche essere in grado di offrire soluzioni valide edapplicabili, cosa che per esempio non è successa a seguito delrecente omicidio avvenuto a Roma per mano di un giovaneRomeno a danno di Giovanna Reggiani. Il drammatico fatto haportato ad un tanto assurdo quanto inutile accanimento neiconfronti dei Rom. Queste persone sono state cacciate dall’og-

gi al domani dal luogo in cuivivevano, hanno pagato tutteper la grave colpa di un singolo.Si tratta di gente che era scap-pata dal proprio paese, di uomi-ni e donne che morivano difame e che qui da noi nonhanno trovato ciò che si aspet-tavano. Persone senza colpa,buttate fuori dai loro alloggi eche oggi sono ritornate nellostesso posto da cui sono statecacciate e che proprio per que-sto vivono ancor più di primanell’illegalità. Al giorno d’oggi abbiamo bisogno di grandi inve-stimenti a livello di riforme in generale. Quando siamo nelgruppo diventiamo tutti egoisti, pensiamo esclusivamente ainostri interessi e ci concentriamo su quello che potremmodefinire il “nostro orticello”. In realtà è proprio questo il verodramma, è proprio questo il nocciolo della questione: partiamotutti dal nostro interesse e siamo poco o per niente disponibilia pensare ad un discorso fatto anche di collettività. Dovremmoinvece darci una mano nel tentare di non essere accaniti neiconfronti del singolo e dovremmo, piuttosto, provare a cercareun dialogo costruttivo e per l’appunto collettivo. Nel miomestiere mi diverto ad interpretare la parte dell’avvocato,quando serve mi prendo delle colpe, ma soprattutto, cosa chefaccio anche nella vita al di fuori dal set, lotto per quelli chesono i miei, i nostri, diritti di cittadini che non possono né devo-no essere mai calpestati. Quando ciò accade, non bisognaavere paura di alzare la voce, non bisogna avere paura nemme-no se ci si confronta con i cosiddetti “potenti” e bisogna trova-re la forza di denunciare i soprusi alla dignità umana. In questopreciso momento, se penso al nostro Paese da qui a dieci anni,non riesco a farlo con tranquillità, con ottimismo. Ritengo chela nostra Italia sia un Paese ormai invecchiato, invecchiatonelle Istituzioni, nella mentalità. C’è però un fatto che mi fa cre-dere che le cose potrebbero assumere una piega diversa e chemi fa presupporre che forse il futuro potrebbe essere piùroseo: noto che nell’animo della gente comincia ad esserci unamaggior presa di coscienza e questo di sicuro è un buon puntodi partenza per iniziare a cambiare le cose. Quel che è certo, èche tutto ciò che facciamo dovrebbe essere condito dall’amo-re, perché nel nostro Paese è forse proprio l’amore che mancae che va coltivato. Manca quell’amore che è indispensabile perarrivare ad un dialogo aperto, ad un’educazione e “pulizia inte-riore” che, per esempio, ho riscontrato al ritorno di un miorecente viaggio ad Istanbul in Turchia, dove le persone che siapprestano ad entrare in Europa dimostrano di avere estremaconsapevolezza di quanto sia importante integrarsi ed accede-re onestamente ad una collettività.

Sebastiano Somma attore di teatro, cinema, televisione e fotoromanzi

Dove c’è l’uomo c’è il crimine” e “L’uomo è l’unico esserevivente che commette crudeltà contro i propri simili”:sono enunciati fondamentali della criminologia, la scienza

interdisciplinare che studia il crimine, i criminali, le motivazionidel crimine, perché i crimini variano nel tempo e nello spazio perquantità e qualità, come combattere e prevenire il crimine,come recuperare i criminali.Il crimine, anche se si presenta sotto innumerevoli aspetti, con-testi, modalità esecutive, moventi, situazioni e vittime, è defini-bile come “l’aggressione a un bene dopo averne superato ilsistema protettivo, aggressione che produce un danno al beneaggredito” e “la violazione di regole sociali ed etiche che produ-ce danno - effetto aggressione - a un bene protetto dalla socie-tà e dalla Legge”. Di fatto, l’equazione del crimine è formata datre elementi interconnessi ma incredibilmente variabili: il beneaggredito, il danno al bene, il superamento del sistema protetti-vo del bene aggredito. Il bene aggredito è qualunque entità -persone, vita, incolumità, proprietà, oggetti, valori, denaro, pro-cessi, informazioni, immagini, quote di mercato, credibilità,posizioni di potere, connessioni, ecc. - che possa essere aggre-dita e che sia considerata danneggiabile. Il bene aggredito puòessere la vita di un bambino, di una donna, di un operaio, di unservitore dello stato, di un padre di famiglia, di un emarginato: intal caso abbiamo il più grave dei crimini, l’omicidio, la soppres-sione di una vita umana. Un crimine prodotto da pulsioni irrefre-nabili, dalla ricerca di gratificazioni psicologiche e materiali,dalla slatentizzazione di istinti mortali e maligni, da interessipuramente economici, da circostanze che vanno da quellebanali a quelle eccezionali; da stati psichici alterati dall’ira, daperversioni sessuali, da egoismi bestiali, dall’avidità, dalla follia.Il danno è ogni effetto che il criminale ha causato al bene aggre-dito: è l'effetto del crimine e dell’aggressione; è la perdita delbene aggredito, la sua modifica o la sua distruzione. Ad esem-pio, distruzione della vita, della incolumità, della proprietà, dioggetti, di valori, di denaro, di processi, di informazioni, diimmagini, di quote di mercato, di credibilità, dell'onore, delleposizioni di potere, di collegamenti di qualunque tipo. Il danno èl’effetto aggressione. Il superamento del sistema difensivo èquell’insieme di azioni, strategie e progetti criminali che il delin-quente mette in atto per oltrepassare le misure di sicurezza, ilcontrollo sociale, le norme giuridiche e le difese naturali chetutelano ogni bene. Basti pensare che molto difficilmente unbambino possa essere aggredito in mezzo alla folla, proprio per-ché scattano nell’immediatezza tutte le regole e i principi di soli-darietà e di controllo quali la madre che si oppone, il passanteche interviene, la folla che si stringe attorno alla vittima. Altroclassico esempio è “L’occasione fa l’uomo ladro”, laddove sisostiene (sarà vero?) che, se vi sono la possibilità esecutive dirubare e la possibilità dell’impunità, l’uomo da onesto divieneladro; ciò significa che l’uomo porterebbe in sé l’istinto predato-rio e criminale. L’elemento essenziale del crimine è il “moventenucleico e malefico”, cioè, la spinta distruttiva, assassina e pri-mordiale del perché l’essere umano aggredisce il proprio similein modo gratuito e crudele, del perché oltrepassa i limiti dellamorale, della ragione e della Legge, del perché si fa dominare edeterminare dalle passioni, dalle debolezze e dalle emozioni.Questo “nucleo malefico” l’ho individuato nella “triade crimino-

gena” o “triade generativa del cri-mine”, una combinazione malignadi tre fattori quali (1) l’aviditàumana distruttiva, (2) la perditadella ragione e della coscienzaumana, (3) la soddisfazione crude-le dei bisogni primari a danno dialtri esseri umani. A tal propositofaccio riferimento a quattro genidell’umanità, anche se i riferimentie i pensatori sono numerosi.Dante Alighieri ci descrisse quellaBestia immonda che è L’AVIDITÀUMANA con i versi immortali “ch’ella fa mi tremar le vene e ipolsi … e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bra-mosa voglia, e dopo il pasto ha più fame che pria”. FranciscoGoya nella sua incisione emblematica e geniale “Il sonno dellaragione genera mostri” facente parte della serie intitolata“Capricci”, rappresenta un uomo addormentato mentre prendo-no forma, attorno a lui, inquietanti e sinistri uccelli notturni,minacciosi ed allucinati volti ghignanti, felini diabolici e famelici,che, come suggerisce il titolo, sono il parto della mente umanache ha abbandonato la Ragione e la Coscienza umana, cosìlasciando ampio spazio agli istinti ed alle parti arcaiche del cer-vello, agli egoismi, alle sopraffazioni ed alle crudeltà.Bertold Brecht in “L’opera da tre soldi” sigilla: “Prima viene lostomaco, poi viene la morale”, mentre F. D. Dostoevskij nei Diariscrive: “… in nessun ordine sociale si sfuggirà al male e l’animaumana non muterà: l’aberrazione e il peccato scaturiscono dalei stessa”. L’insegnamento dei due grandi pensatori è ovvio:nell’essere umano la violenza, l’aggressività, l’egoismo e l’auto-conservazione sono supremi e dominanti; sono essi che decido-no obbiettivi, strategie e vittime; e nessuna norma sociale, eticae giuridica potrà mai debellarle laddove essi perseguano il sod-disfacimento di bisogni primari e personali.Dobbiamo convivere con il male e il crimine, sia con quelli (1)interni, personali e soggettivi, sia con quelli (2) esterni, oggetti-vi e relazionali. Il male e il crimine del primo gruppo sono insitinella natura umana, con essa si ramificano e si aggrovigliano, inessa traggono linfa e giovamento, su di essa mutano ed eserci-tano pulsioni e controlli. Fanno parte del nostro corredo biologi-co, ma possono essere controllati, mediati o filtrati dallaRagione, dall’etica e dalla logica. Il male e il crimine del secondogruppo sono del tipo oggettivo, situazionale, sociale, storico,interrelazionale, politico, umano e giudiziario; dipendono dainnumerevoli fattori e producono innumerevoli scenari ed even-ti, possono essere controllati, inglobati, direzionati, alleviati,frammentati, limitati e disattivati. MALE e CRIMINE bisognaconoscerli, studiarli, non ignorarli, apprezzarli per il loro signifi-cato scientifico e biologico, per il loro peso sociale e distruttivo,per le loro qualità intrinseche e magnetiche, per le loro poten-zialità: solo conoscendo il nemico lo si può battere, neutralizza-re, isolare o integrare, attivando i giusti rimedi a breve, medio elungo termine, con appositi “strategie, competenze, risorse esistemi”.

Carmelo Lavorino criminologo criminalista e investigatore criminale

I mille volti del crimineUmanità e distruzione

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Italia, vecchia signora misconosciutaL’importanza dell’integrazione

Ci sono persone che provengono da territori dove il rispetto dei diritti e la democrazia sono spesso solo parole senza senso. Purtroppo nel nostro paesela possibilità che questo avvenga è dovuta alla scarsa rigidità che le istituzioni applicano nella repressione ai crimini e alla malavita

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Sebastiano Somma

Carmelo Lavorino

Elemento essenziale dell’atto criminoso è il “movente nucleico e malefico”, la spintadistruttiva, assassina e primordiale del perché l’essere umano aggredisce il proprio similein modo gratuito e crudele, oltrepassa i limiti della morale, della ragione e della legge,si fa dominare e determinare dalle passioni, dalle debolezze e dalle emozioni

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a presenza dell’estraneità e dell’alterità del nostro mondorappresenta sempre una forma e una fonte d’insicurezza,più spesso “percepita” -per la verità- che effettivamente“reale”. La presenza di ciò che non ci è completamente

comprensibile e che ci pare irriducibile ai nostri schemi abituali(che si alimentano di ciò che appartiene alle nostre tradizioni eradici) produce e induce un senso diffuso di insicurezza. Gli stu-diosi che si occupano di fenomeni migratori parlano a questoproposito di una soglia dell’8 per cento: quando l’8 per cento diuna società appare composto da soggetti non riconducibili aschemi precostituiti, l’insicurezza tende a diventare il sentimentopiù diffuso. E per un particolare fenomeno ben noto in psicologiasociale succede che per ogni atto di violenza commesso da unostraniero si amplifica come per magia la pericolosità sociale ditutta la “categoria”: questo succede perché c’è una maggioredisponibilità di informazione rispetto alle cattive azioni altrui chealle buone. Per una buona notizia che passa al tg, ne passanodieci meno belle: quanti immigrati costruiscono imprese, apronobotteghe, creano ricchezza, si laureano nel nostro Paese senzache ne sappiamo nulla? Invece sappiamo bene chi si è macchia-to di delitti, chi ha guidato ubriaco sterminando una famiglia, chiha violentato e con quali conseguenze. Così spesso ci rappresen-tiamo l’immigrato come un mostro senza sentimenti, capace diqualsivoglia gesto, e lo trasformiamo nel capro espiatorio dellenostre tensioni sociali. In verità l’Istat ci mostra che solo un cri-minale su tre proviene da un paese straniero. È dunque più pro-babile imbatterci in un italiano pronto a delinquere che in unostraniero malintenzionato.D’altro canto questo è un tema classico che appartiene a tutti ipopoli di tutti i tempi: l’orco, il barbaro, il sarracino… Anzi, direiche il tema dell’incontro con l’altro-da-noi è un tema fondante lacondizione umana in senso filosofico, antropologico, psicologico,e anche religioso. Karl Smith lo definisce hostis, colui che vieneda un’altra polis, con il quale esistono rapporti di reciprocità intermini di diritti e doveri, di credenze e di identità. Uno spartanoper un ateniese non era un nemico, ma un hostis: anche se i lororelativi codici culturali erano profondamente diversi, tra loro esi-stevano doveri di reciprocità. Soltanto successivamente, dopo leguerre persiane, nascerà la distinzione tra hostis e hospes. Leparole, pur mantenendo la stessa radice (colui che sta fuori dalleporte) si diversificano: la prima denotando il nemico (da qui lederivazioni ‘ostile’, ‘ostilità’), cioè colui che irrompe dalle frontieree contamina il nostro territorio; e la seconda denotando l’ospite,colui che –pur forestiero- ci predisponiamo ad accogliere in pace.Eppure, in modo sottile e inquietante, la connessione psicologi-co-semantica tra ospite e nemico rimane. E anche per noi, a circa2500 anni dalla formazione dei due vocaboli, questa relazioneresta problematica e irrisolta, a dispetto delle elaborazioni digrandi sociologi, come Georg Simmel, che dipingono il migrante,oggi l’extracomunitario, non più come invasore di identità e terri-torio cui opporci con le armi, ma come pacifico pellegrino, chesilenziosamente scuote con la sua stessa presenza e con la suastessa identità le radici del nostro essere.Quali sono allora le vie percorribili? Due illustri studiosi, Taylor e

Habermas parlano di una “multi-culturalità necessaria” in cui piut-tosto che immaginarci monadiisolate, noi tutti –ispanici, anglo-sassoni, latini, islamici, cinesi oslavi- dovremmo pensarci comeciviltà integrata in cui frammenti,schegge, pezzi d’identità s’incon-trano e si scontrano producendoesiti totalmente nuovi, originandoculture vivacemente inedite.Allora si può essere contempora-neamente un islamico praticante,fisico nucleare, grande appassio-nato d’arte. A nostro avviso questa multiculturalità orizzontale everticale è il vero futuro dell’umanità: che non vuol dire sincreti-smo, non vuol dire rinuncia all’identità, ma significa concepirel’identità per quello che è, ossia un fenomeno inevitabilmentedinamico. Lo ha affermato anche Amartya Sen, premio Nobel perl’Economia, criticando aspramente una suddivisione dei popolidel mondo esclusivamente in base alla civiltà e alla religione. Ciòporterebbe verso un “approccio solitarista” dell’identità umana,che vede gli esseri umani esclusivamente come membri di ungruppo particolare (islamici, statunitensi, ortodossi...), quandonella quotidianità vediamo e sentiamo noi stessi appartenere adiversi gruppi. Così una stessa persona può essere italiana, di ori-gine slava, liberale, vegetariana, tennista e musicista jazz: tutti idiversi gruppi di cui fa simultaneamente parte le conferisconoun’identità particolare, e nessuna di queste collettività può esse-re considerata come la sola identità della persona, o come il suosolo gruppo d’appartenenza. La forzata imposizione di un’identi-tà unica è invece spesso ingrediente necessario dell’arte -tuttamarziale- di fomentare i confronti faziosi. Così la nostra umanitàcondivisa viene pesantemente messa a repentaglio quando lemolteplici divisioni presenti nel mondo vengono unificate in unsistema di classificazione dominante, in termini di religione, cul-tura, nazione o civiltà. Un mondo suddiviso in maniera così univo-ca crea molte più divisioni di quante effettivamente ve ne siano inquel mondo di categorie e pluralità diverse che costituiscono ladimensione in cui viviamo. La speranza di armonia nel mondocontemporaneo risiede in gran parte in una maggiore compren-sione della pluralità dell’identità umana, e del fatto che -operan-do trasversalmente- si possano colmare la divisioni apparente-mente più impenetrabili. “Meticci” lo siamo per forza di cose, ma‘pluralismo’ e ‘relativismo indifferente’ implicano cose ben diver-se. Lo spartiacque è frutto di valori umani irrinunciabili e legati alvalore universale della vita. Cerchiamo sempre quello che uniscee lasciamo perdere quel che ci divide se vogliamo costruire unacomunità, ha affermato Giovani XXIII.

Alessandro Meluzzi psichiatra – psicologo – psicoterapeuta

Rossana Silvia Pecoraradottore di ricerca in scienze cognitive - psicologa

Com’è difficileaccettare il lontano ed

il diverso

Immigrazione e sicurezza

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Alessandro Meluzzi

immigrazione è un fenomeno sociale complesso che investesia le strutture del paese d’accoglienza, sia la storia del sin-golo individuo genera sofferenze psicologiche e problemi diadattamento che difficilmente vengono trattati nel dibattito

pubblico. Infatti attualmente risulta dominante un’impostazionedella questione dell’immigrazione di tipo criminologico, dovuta acome i mass media trattano il tema, – ma anche le università – cheaccompagnano le notizie e le ricerche sull’immigrazione associan-dole spesso a degrado, emarginazione, etc. È assai probabile che ilquadro che ne possa emergere non faccia altro che avvalorare ilbinomio emigrazione-(in)sicurezza. La sicurezza diviene così un ter-mine che sempre più nel dibattito pubblico viene accostato al feno-meno dell’immigrazione. Sembra scontato che ogni qualvolta siaffronti l’uno si finisca per evocare l’altro. La costruzione sociale del-l’immigrato come portatore di insicurezza avviene attraverso i massmedia con la spettacolarizzazione di eventi di cronaca nera e ali-mentando un immaginario dello straniero che invade gli spazi pub-blici e li utilizza in modo improprio. L’insicurezza che gli immigratisono accusati di generare sembra in ultima analisi legata indissolu-bilmente alla loro visibilità pubblica. Si tratta per lo più di giovaniadulti, di volta in volta polacchi, albanesi, marocchini, rumeni ecc…che in pieno giorno se sono sfaccendati, o alla fine della giornatalavorativa se hanno lavorato, affollano piazze, parchi, argini dei fiumiecc… per trasformarli in luoghi di ritrovo, di svago, di passaggio eperché no anche di riposo. È in questo modo che nell’immaginariocollettivo l’immigrato negli ultimi 15 anni ha sostituito tutti quei“capri espiatori” prima rappresentati da tossicodipendenti, emargi-nati e delinquenti nostrani, ecc… Sono cambiati i soggetti del qua-dro, ma non le modalità del dipingere la realtà sociale nelle sue sva-riate forme di esclusione ed emarginazione. In questo contesto: - per i cittadini è assai difficile maturare livelli di consapevolezza chepermettano di avere una visione complessiva del fenomeno immi-grazione. Infatti risulta complesso riconoscere senza pregiudizi l’al-terità, gli eventuali cambiamenti in corso in termini di inserimento edi integrazione, e quindi sostenere tali processi;- sono aumentati gli interventi pubblici, spesso si sommano l’unoall’altro, a volte senza produrre trasformazioni sostanziali nel “qua-dro” e quindi senza determinare un cambiamento nelle “cornici”con cui osservare i vari fenomeni sociali, più che i quadri. La sicurez-za viene così identificata con la necessità di maggiore controllo erepressione. Sembra inevitabile che la maggior sicurezza di alcuni(italiani) si trasformi in insicurezza di altri (stranieri). Tuttavia hasenso discutere di sicurezza solo se questa è intesa come percezio-ne, sentimento, condivisi da tutti senza distinzioni. Essa è costituitada diversi aspetti: la sicurezza urbana, intesa anche come cura deiluoghi e della buona prassi amministrativa, e la sicurezza sociale,intesa come cura delle relazioni. Sono due facce della stessa meda-glia. Una lente mediativa, ossia incentrata sulla lettura dei conflitti,permette in primis di riconoscere e mappare l’entità, il peso dellapresenza di questi, poi di analizzare le modalità secondo cui questivengono percepiti e gestiti dai diversi attori territoriali che, in manie-ra diretta o indiretta, divengono anch’essi descrittori della realtàimmigratoria. In questa ottica il Progetto “Mediazione Sociale”(nato nel luglio 99 e attualmente operativo in 11 contesti territoriali

di 9 Municipi romani), occupandosi della “rimessa in comunicazio-ne” tra cittadini (italiani e di diversa nazionalità), servizi e istituzioni,lavora insieme a questi con l’obiettivo di generare un approccio con-diviso “per una città (che) si-cura”. Anche nei contesti multiculturali(Esquilino e Largo Sperlonga, rispettivamente I e XX Municipio) ilterritorio diviene il primo elemento mediativo su cui incentrare -dopo l’analisi e restituzione ai cittadini delle interviste in profonditàai testimoni privilegiati sui fattori di rischio presenti in esso- la pre-valenza delle azioni in grado di rafforzare le risorse e tutti quei fatto-ri protettivi che permettono di diminuire sensibilmente la percezio-ne dell’insicurezza urbana. Quest’ultima quando viene indagataascoltando “attivamente” anche i cittadini delle diverse nazionalitàche abitano o lavorano in uno specifico territorio, non si discostatroppo da quella che emerge analizzando solo i cittadini italiani. Ladomanda di sicurezza, prevalentemente di carattere sociale, èovviamente maggiore tra gli immigrati, soprattutto tra coloro chevivono ai margini e nella più assoluta precarietà, da cui è assai diffi-cile uscire, così come è arduo fuggire agli schemi mediatici in cuil’attuale condizione li relega. Quando invece questi si trovano nellostato di poter usufruire, oltre che di una condizione alloggiativa, sep-pur modesta, anche di un lavoro più o meno regolare, le problema-tiche e le criticità territoriali che emergono non sono dissimili daquelle degli italiani. Le paure, le ansie e preoccupazioni rispetto alleviolenze, ai furti, alla sopraffazione, al degrado o agli atti di vandali-smo sono vissute e percepite da tutti. Lavorare in maniera condivi-sa sui fattori protettivi significa, quindi, lavorare sull’ascolto attivo,sull’accoglienza e sulla partecipazione. In questa ottica i soggetti delcambiamento sono i cittadini stessi che riscoprono la competenzae la voglia di fare. Un forte tessuto associativo permette di far cre-scere la partecipazione; la sicurezza diventa non un problema daaffrontare ma una risorsa da costruire insieme: il risultato della curadi sé e del territorio. Questo processo virtuoso permette di dare cit-tadinanza a partire dalle esigenze e dai bisogni di molti. La doman-da di sicurezza sociale intesa come la presenza di “servizi socialiuniversali” è un desiderio di tutti i cittadini, ma è maggiore tra gliimmigrati. Per esempio, l’istituzione scolastica che permette aibambini, italiani e non, di accedere ad un’istruzione gratuita e pub-blica e offre ai padri e le madri, di tutte le nazionalità, la possibilità diimparare la lingua italiana, rappresenta un fattore di protezionesociale che aumenta il livello di sicurezza di un territorio. L’esigenzadi spazi urbani vivibili è una richiesta costante da parte dei cittadinidi tutte le nazionalità. Assume maggiore significato per gli immigra-ti poiché a molti di questi luoghi viene dato un forte significato sim-bolico di incontro e di socialità. La progettazione partecipata perriqualificare una piazza, il sostegno organizzativo a momenti di festae/o ricorrenze locali, la costruzione di iniziative comuni per la puliziadi spazi urbani, sono processi che permettono di prendersi cura deiluoghi e delle relazioni poiché in “una città (che) si-cura” non si abi-tano i luoghi ma le relazioni.

Leonardo Carocci responsabile progetto mediazione sociale - comune di roma

Mohamed A. Tailmoun associazione g2 seconde generazioni

Il territorio come elemento mediativo

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Spesso rappresentiamo l’immigrato come un mostro senza sentimenti, capace di qualsivoglia gesto e lo trasformiamo nel capro espiatorio dellenostre tensioni sociali. In verità l’Istat ci mostra che solo un criminale su tre proviene da un paese straniero

Per una città (che) si-curaHa senso discutere di sicurezza solo se questa è intesa come percezione, sentimento,

condivisi da tutti senza distinzioni. Essa è costituita da diversi aspetti:

la sicurezza urbana, intesa anche come cura dei luoghi e della buona prassi

amministrativa, e la sicurezza sociale, intesa come cura delle relazioni.

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na questione rilevante da porsiriguarda il nesso tra un fenomeno ela percezioni di esso. A determinarele modalità di questo nesso con-

corrono diversi fattori: da predisposizionimentali a una certa lettura del fenomeno,a caratteristiche intrinseche del fenome-no stesso, riguardanti ad esempio la mag-giore o minore visibilità di alcune suedimensioni, al modo in cui il fenomenostesso è visto o rappresentato da opinio-nisti, persone con responsabilità politichee istituzionali e, ora in primo luogo, dagliorgani di comunicazione di massa. Va infi-ne considerato anche il contributo che glistudiosi possono dare per la conoscenzamigliore del fenomeno e per contrastare ipregiudizi eventuali che si sono andaticonsolidando attorno ad esso. Ma in que-sto caso la bontà dei risultati della ricercapuò valere quanto, se non meno, della suacapacità di impatto mediatico.Scendendo a un livello di generalizzazio-ne più basso si può portare avanti questoragionamento con riferimento all’immi-grazione e alla convinzione – piuttostodiffusa nella opinione pubblica – dellatendenza degli immigrati, in particolare dialcuni settori di essi, a imboccare percor-si di delinquenza o quanto meno didevianza. I settori ai quali si fa solitamen-te riferimento sono da una parte gli immi-grati in condizione di clandestinità, dal-l’altra gli immigrati appartenenti a unaspecifica nazionalità: attualmente i rume-ni. Ma – come sanno coloro che osserva-no il fenomeno da un po’ di tempo – una

volta ‘la bestia nera’ erano gli albanesi. Laricerca in materia già da tempo ha messoin evidenza come l’allarme sulla presenzae sul ruolo degli albanesi nel nostro paesefosse tutt’altro che giustificato, sia perquel che attiene alla problematica dellapresunta invasione – della quale, per inci-dens, nessuno parla più ora – soprattuttoin Puglia, sia per quanto riguarda la loropresunta tendenza alla delinquenza.Eppure gli articoli e i libri che hanno tesoa dare una corretta rappresentazione delfenomeno e, conseguentemente, a smen-tire il pregiudizio nei confronti degli immi-grati albanesi (e degli immigrati in gene-rale) hanno avuto un impatto positivo benminore di quello che ha avuto un librodivulgativo come quello di Gian AntonioStella, L’orda: quando gli Albanesi erava-mo noi. Si tratta di un libro centrato sullarealtà dell’emigrazione italiana storica,che sottolinea la rappresentazione nega-tiva e la percezione distorta nei paesi diimmigrazione di quella esperienza migra-toria e la diffusione di atteggiamenti simi-li a quelli diffusi nei confronti degli immi-grati albanesi in Italia con la convinzionedi una loro tendenza alla devianza e allacriminalità. L’impatto mediatico di questolibro – e particolarmente del messaggiocontenuto nel titolo – è stato positivo e hadecisamente contribuito a ridurre l’atteg-giamento di prevenzione – proprio perquel che attiene alla problematica dellasicurezza – di una parte dell’opinionepubblica italiana nei confronti dell’immi-grazione. Purtroppo si ha l’impressione

che questo evento rappresenti un’ecce-zione nel panorama della produzionegiornalistica e televisiva in materia. Ingenerale infatti i media tendono a presen-tare gli aspetti più eclatanti del fenomenodell’immigrazione con un effetto di confu-sione sull’opinione pubblica. Questoriguarda l’aumento della insicurezza nonsolo per la sovrarappresentazione dellatematica della devianza, ma anche esoprattutto della tematica dell’invasione.Si pensi ad esempio all’innumerevoleserie di servizi televisivi dedicati agli sbar-chi di clandestini provenienti dalle costedell’Africa. Si tratta ogni anno di migliaiadi persone, mentre la stragrande maggio-ranza degli immigrati – decine e centinaiadi migliaia – arrivano ad esempio a Romaal piazzale della stazione Tiburtina senzache alcuna équipe televisiva stia ad atten-derli.Ma – come si diceva – tra gli aspetti piùsottolineati (spesso in modo eclatante)c’è appunto quello della sicurezza (anzidella insicurezza) collegato all’aumentopresunto della criminalità. E a propositodi criminalità, proprio del nesso tra realtà,percezione e ruolo dei media si è parlatodi recente anche a livello istituzionale, conimplicazioni molto interessanti per quan-to riguarda anche l’autonomia e la libertàdi stampa che comunque è un bene fon-damentale. Il problema che si è posto ilPresidente della Commissione AffariCostituzionali della Camera, on. LucianoViolante, in una riunione con rappresen-tanti istituzionali a diversi livelli, riguardala domanda sul come mai, a fronte di unariduzione del livello di criminalità nelnostro paese, aumenta la percezione diinsicurezza. Evidentemente ci deve esse-re stata una sovrarappresentazione delfenomeno della criminalità che ha incisosulla percezione della gente e conseguen-temente sull’aumento della insicurezza. Edi questo sono vittime soprattutto gliimmigrati. In effetti si può essere d’accor-do con chi denuncia l’esistenza di tre “S”che dominano i notiziari televisivi italiani(sesso soldi e sangue) e notare come duedi queste riguardano la lettura della realtàdell’immigrazione: la prima, il sesso, leimmigrate con la fissazione sulla questio-

ne della prostituzione; la seconda tutti gliuomini, in particolare gli ultimi arrivati (edè il caso appunto dei rumeni).Con questo non si vuole affatto sostenereche il problema della sicurezza “non esi-ste”, solo che l’ossessivo collegamento trala questione della sicurezza e la questionedella immigrazione, oppure lo spaziodedicato con estrema enfasi a fatti di cro-naca – anche gravi – dai media o dallestesse istituzioni (senza considerazionedi quanto il fenomeno sia rappresentativodella realtà della immigrazione delle per-sone appartenenti alla nazionalità inte-ressata) finiscono per aver un effettoestremamente negativo sull’opinionepubblica e sull’atteggiamento nei con-fronti degli immigrati.La principale questione da affrontare,riguardo il rapporto realtà-percezione, èproprio quella della rilevanza di un singo-lo fenomeno criminoso rispetto alla gene-rale realtà della immigrazione. Ed è diquesto ad esempio che parla PaoloFerrero in un interessante libro intervistadal titolo “Fa più rumore l’albero che cadeche la foresta che cresce”. L’albero checade si riferisce a fatti come quello delquale fu vittima nei mesi scorsi unadonna uccisa brutalmente da un disgra-ziato, un immigrato rumeno, poi arrestatograzie alla collaborazione di una donnaanch’essa rumena. La foresta che crescesenza far rumore è invece ad esempio lapresenza crescente di immigrati rumeni(membri dell’Unione Europea come noi)impegnati in una vasta gamma di lavori,contribuendo al benessere proprio edell’Italia. Si tratta di un numero di perso-ne considerevole ed in costante aumento,che ha portato questa nazionalità laborio-sa e flessibile a collocarsi al primo postotra gli immigrati in Italia. Ma non si puònon sottolineare il carattere selettivo del-l’attenzione dei media, degli opinionisti edelle stesse istituzioni. Pochi giorni dopol’assassinio di una persona italiana daparte di un rumeno ebbe luogo un altrofatto di sangue che ha visto vittima unabimba rumena e i carnefici italiani.L’attenzione sul fatto fu minima, pratica-mente inesistente, se non per rare ecce-zioni. Il risultato è che nell’opinione pub-blica italiana è cresciuto un grave senso diinsicurezza legato alla presenza dei rume-ni, mentre non c’è stata alcuna seria con-siderazione per le difficoltà di vita e l’insi-curezza della quale costoro sono vittime.Dopo qualche settimana dall’episodio (edall’allarme creato) la grande stampa e ingenerale i media hanno ridotto la loro insi-stenza sulla questione della criminalità edella devianza di quei nuovi cittadini euro-pei, scoprendo anche le discriminazioninei loro confronti, i loro problemi, le loro

difficoltà, che ora sono accresciute dallaossessione della sicurezza che li vedecome pericolo principale. Per concludere,va ancora detto che, dove i problemi dicriminalità, devianza e conseguente man-canza di sicurezza si pongono effettiva-mente, bisognerebbe agire su un duplicepercorso: quello della repressione (rispet-tando le leggi dello Stato e le convenzioniinternazionali) e quello della prevenzione.Perché quest’ultimo poi sia efficiente ènecessario un serio impegno sul pianodelle politiche sociali che eviti che tra gliimmigrati (soprattutto i giovani) imboc-chino percorsi di devianza. E per far ciò èassolutamente essenziale un interventovolto a favorire al massimo l’inserimento

scolastico dei figli degli immigrati: inseri-mento che nel nostro paese è obbligato-rio per tutti (compresi i figli di immigratiillegali), grazie alle convenzioni interna-zionali sottoscritte dall’Italia. Limitarel’accesso alla scuola di questi bambinisignificherebbe spingerli necessariamen-te nei canali della devianza e operare inprospettiva una riduzione della sicurezzae non solo di quella percepita.

Enrico Puglieseprofessore ordinario di sociologia,

università di napoli “federico II”direttore irpps-cnr (istituto di ricerche sulla

popolazione e le politiche socialiconsiglio nazionale delle ricerche)

Bestie neredi ieri, oggi

e domani

Sicurezza e percezione della sicurezza

C’è la convinzione che gli immigrati abbianouna tendenza per percorsi di delinquenza edevianza. Da un lato si pensa ai clandestini,dall’altro a persone di specifica nazionalità.Oggi è la volta dei rumeni ma, sino a qualchetempo fa, a far paura erano gli albanesi

USimbologia della malavita

Molta delinquenza, nomade, utilizza delle simbologie poste nella vicinanza di abita-zioni per comunicare ai propri gruppi, informazioni sulla tipologia dell'abitazioni edinformazioni di chi ci abita, in previsione di future visite per furto o altra azione illega-le. Comunemente vengono tracciati nei pressi delle pulsantiere delle abitazioni, conpunte molto sottili, quindi poco visibili.

Ecco le più diffuse ed il loro significato

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Dalla tesi di Palma Battaglia

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a delinquenza è una piaga che dasempre caratterizza la nostra socie-tà, ma che oggi, in particolare, è inpreoccupante aumento. La diffusio-

ne di comportamenti antisociali è semprepiù percepita da parte dei cittadini comeun’emergenza che determina un fortestato di insicurezza. Nel corso degli annisono stati molti gli studi che si sono postil’obiettivo di ricercare le cause di taledisagio, diffuso soprattutto tra i giovani egli adolescenti. La mancanza di valori e dipunti di riferimento, le disfunzioni del-l’ambito domestico, il rifiuto delle regoledella vita collettiva, la disoccupazione,l’emarginazione portano a conflitti fami-liari o, nel peggiore delle ipotesi, a condot-te devianti o più propriamente delinquen-ziali. La famiglia, in primis, la scuola e leistituzioni in generale hanno l’importantecompito di educare alla legalità, ma primadi tutto di educare. Le forze preposte atale compito presenti sul territorio devo-no combattere la resistenza all’educazio-ne, eliminando le cause di tali comporta-menti e non agendo solo a posteriori. Ènecessario esaminare e valutare ogni ini-ziativa utile ad eliminare sul nascere glieventuali focolai di criminalità. Attraversoun’efficace azione di cooperazione, inparticolare tra le forze di polizia, si posso-no, quindi, realizzare concreti interventi dicontrollo e monitoraggio del territorio,con l’obiettivo ultimo di attenuare la per-cezione del rischio da parte dei cittadini.Il sistema carcere è una realtà complessa,di non semplice gestione, affidataria diuna delicata missione. Gli operatori che,quotidianamente, si trovano ad operareall’interno delle strutture penitenziariesono chiamati a svolgere delicati compitiistituzionali, caratterizzati da una notevo-le implicazione sociale. Una formazioneiniziale specifica, unitamente ad aggior-namenti mirati in itinere, rappresentanolo strumento principale per adeguare lecompetenze e garantire, al meglio, la riso-luzione delle criticità in ambito peniten-ziario.L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari èla Scuola Nazionale per la formazione,l’aggiornamento e la specializzazione deidirigenti amministrativi e tecnicidell’Amministrazione Penitenziaria, dei

ruoli direttivi e dirigenziali del Corpo diPolizia Penitenziaria, dei funzionari diarea C.Fulcro dei compiti istituzionali dell’ISSP è,quindi, la funzione formativa alla qualesono strettamente correlate altre attività,quali lo sviluppo di modelli di organizza-zione del trattamento penitenziario deidetenuti e degli internati, la valorizzazio-ne delle migliori esperienze nel settorepenitenziario e l’approfondimento dellacultura giuridica penitenziaria, la ricerca elo studio sulle problematiche penitenzia-rie. Importante, infine, il ruolo svolto daquesto Istituto, anche a livello europeo,nel settore della ricerca, in collaborazionecon le Università e con le agenzie di for-mazione specializzate, sia nell’ambito deltrattamento penitenziario che nello svi-luppo di modelli organizzativi e di gestio-ne coerenti con il processo di innovazionedella Pubblica Amministrazione.Nell’ambito delle competenze dell’ISSPrientra, inoltre, la gestione di progetti-obiettivo con finanziamenti del FondoNazionale per la lotta alla droga. In questoquadro e con riferimento alla formazionein azioni di ricerca-intervento, si colloca il“Progetto Stranieri e droghe”, promossodalle diverse Direzioni Generali del DAP ecoordinato dalla scrivente. Tale iniziativasi può ritenere significativa per la partico-lare attenzione dedicata ad un argomentodi grande attualità e che riflette il conte-sto nel quale la maggior parte degli ope-ratori penitenziari quotidianamente ope-rano. La prima fase del progetto è statacaratterizzata da una attività di ricercasvolta con metodo scientifico, in collabo-razione con la Facoltà di Psicologiadell’Università di Padova, volta a rilevare inumerosi aspetti connessi alla gestionedei soggetti stranieri detenuti. Il contestodi indagine, oltre al territorio italiano, hacoinvolto anche il territorio europeo,muovendo l’analisi in Inghilterra e Galles,Francia, Germania e Belgio, quindi inPaesi caratterizzati per una forte tradizio-ne di immigrazione. Successivamente èstato realizzato, presso questo Istituto, unperiodo di formazione ad hoc che ha pre-visto anche un supporto di consulenzaper la elaborazione e l’implementazionedei progetti locali a favore di detenuti

stranieri da realizzare, con finanziamentia carico del progetto, in 9 istituti peniten-ziari e in 1 Ufficio per l’Esecuzione PenaleEsterna. La diffusione dei risultati è stataottenuta con la pubblicazione del VolumeStranieri e droghe, Armando Ed., Roma,2007, corredato da un CD-ROM conte-nente tutti i dati della ricerca.Un progetto di rilievo riguarda sicuramen-te la realizzazione del piano esecutivod’azione PEA 21/06- “Managerialità delladirigenza penitenziaria”, completato consuccesso nel corso del 2007. La emana-zione della Legge 27 luglio 2005, n. 154(c.d. Legge Meduri) e la successiva produ-zione normativa che ne è derivata hannodefinito il ruolo e gli ambiti della formazio-ne e dell’aggiornamento professionale deidirigenti. In questo contesto normativo èstata, quindi, inserita la predisposizionedel PEA “Managerialità del dirigente peni-tenziario” con l’obiettivo principale dellavalorizzazione e dello sviluppo professio-nale attraverso l’azione della formazionee l’aggiornamento dei dirigenti che opera-no all’interno dell’istituto penitenziario.L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari,in attuazione del PEA, ha operato unaricerca-intervento al fine di individuare lelinee guida per la formazione dei dirigentidell’Amministrazione Penitenziaria e nellostesso tempo per definire i programmiper i primi interventi formativi che saran-no realizzati nell’anno in corso. È stata,quindi, possibile la definizione della iden-tità del dirigente penitenziario e del qua-dro di competenze necessarie per l’eser-cizio della funzione dirigenziale, alla lucedelle nuove esigenze organizzative deter-minate anche dal mutato quadro norma-tivo di riferimento. La realizzazione diquesto progetto ha coinvolto tutti i diri-genti dell’Amministrazione attraverso lasomministrazione di un questionario, i cuirisultati sono stati analizzati mediante larealizzazione di Focus Group ai qualihanno partecipato rappresentanze terri-toriali del suddetto personale.

Luigia Mariotti Culla direttore dell'issp

(istituto superiorie degli studi penitenziari)

Gli operatori delle strutture penitenziarie

L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari è la scuola nazionale per la formazione, l’aggiornamento e la specializzazione dei dirigenti amministrativi e tecnicidell’Amministrazione penitenziaria, dei ruolidirettivi e dirigenziali del Corpo di PoliziaPenitenziaria, dei funzionari di area

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a sicurezza è tra i problemi che preoccupano maggiormenteanche i giovani. Dalla lettura dei quotidiani emerge uno statodi degrado nelle piccole come nelle grandi città. La scuola egli ambienti da loro frequentati non fanno eccezioni. Gli atti

di bullismo e di violenza sulla persona sono sempre più frequentinei luoghi chiusi ed anche per le strade. Le rapine di cellulari, didenaro o di altri beni vedono sempre più spesso come vittime gio-vani adolescenti ad opera di coetanei. Minimizzare i fenomeni nonserve e non aiuta. L’impressione che le istituzioni oggi danno è diaver perso la capacità di affrontare i problemi con scelte di politi-ca legislativa, e di decidere solo in emergenza, a seguito di fattigravissimi. La nostra società non dà più fiducia ai giovani, perchénon riesce ad elaborare risposte coerenti, strutturate e, soprattut-to, coraggiose. Ogni proposta innovativa viene affossata e si perdenelle polemiche di parte. Si passa, quindi, all’emergenza, alla gene-ralizzazione, senza prevedere misure che siano proporzionate eprogrammate. Le proposte che tendono a rendere più efficace lalotta alla criminalità adeguandola ad una società in divenire, ven-gono duramente attaccate, anche quelle che non mettono indiscussione alcuni capisaldi quali la necessità della prevenzione.Per i giovani, la prevenzione, che è educazione, fa parte della pro-grammazione di ogni ente preposto, sia statale che locale, sia delprivato sociale. È patrimonio della normativa del nostro paese. Visono punte di eccellenza in molte aree del paese dove la preven-zione sia primaria che secondaria hanno funzionato, anche grazieal coinvolgimento delle famiglie. Quando si tratta di devianzaminorile occorre agire in fretta, con approcci individuali, e quindi,la famiglia è indispensabile. In particolare l’abbassamento dell’etàdi chi commette reati, anche al di sotto della soglia dei quattordi-ci anni, non può essere un problema da risolvere solamente dalpunto di vista del codice penale. Occorre agire supportando lefamiglie ad assumere pienamente il loro ruolo ed a non allontanar-si dai propri figli, quasi temendo di essere considerati cattivi geni-tori. Il ruolo educativo delle famiglie non è delegabile. Le regoledella nostra società devono essere riaffermate e difese, anchenella scuola. Iniziando dai professori che dovrebbero farsi rispet-tare cominciando dal non permettere l’uso del “tu” confidenziale.Un esempio modesto ma utile per comprendere come occorraripartire da zero. I giovani sono anche le prime vittime della violen-

za, si diceva. A questo proposito la mancanza di fiducia nelle isti-tuzioni crea un primo vulnus nella formazione della coscienza dicittadino. Molte vittime minorenni non denunciano i reati subiti.Quando a commettere il reato è un coetaneo minorenne, anche ilsistema processuale penale minorile non aiuta a far emergere unsenso di giustizia. L’impossibilità di costituirsi parte civile ed ilruolo marginale, dimenticato della parte lesa nel corso del proces-so pongono la vittima ai margini. La vittima assiste all’agire di unaefficace rete di assistenza composta da giudice, avvocati ed assi-stenti sociali, nei confronti del minore autore del reato, rete che è,invece, del tutto assente nei suoi riguardi, dal momento che non viè un soggetto terzo che intervenga per aiutarlo a superare il trau-ma. Senza dimenticare che un frainteso senso di impunità daparte degli autori del reato può ricadere sulla vittima, una voltarientrata nell’ambiente di vita quotidiana frequentato da tulle leparti coinvolte, con la prosecuzione delle violenze, percepite comeconsentite dal sistema giudiziario. Vi sono validi istituti, quali lamessa alla prova, i quali se non gestiti correttamente dal persona-le preposto, rischiano di far sentire la vittima colpevole di non con-sentire il recupero dell’autore del reato. La messa alla prova, checonsente l’estinzione del reato, potrebbe, inoltre, essere ripensatanella sua applicabilità per i reati più gravi di omicidio, violenza ses-suale e 416 bis. Di certo si sta sottovalutando il rischio che i giova-ni figli di immigrati di seconda o terza generazione possano ungiorno reagire con violenza ad una mancata integrazione, come inFrancia o nel Regno Unito. Le periferie urbane non dovrebberodiventare terre di nessuno e l’immigrazione dovrebbe esssereconsentita solo in presenza di garanzie per quanto riguarda il lavo-ro e la casa. Le nuove famiglie di immigrati vivono in molti casi inun mondo separato con proprie abitudini di vita e senza aperturecon la società che li accoglie. Da qui può nascere nei giovani unsentimento di ribellione e di distruzione di un luogo che secondo illoro punto di vista, non li avrebbe accolti. Non possiamo permet-tere che tutto ciò accada e che i giovani perdano definitivamentela fiducia nelle istituzioni alle quali spetta il compito fondamenta-le di garantire la sicurezza dei cittadini di oggi e di domani.

Sonia Vialeavvocato, già vicecapo dipartimento giustizia minorile ministero giustizia

Accogliamo i nostri ragazziPrevenzione ed educazione

Si sta sottovalutando il rischio che i giovani figli di immigrati di seconda o terza generazione possano un giorno reagire con violenza ad una mancata integrazione comein Francia o nel Regno Unito. Le periferie non dovrebbero diventare terre di nessuno e l’immigrazione dovrebbe essere consentita solo in presenza di garanzie su lavoro e la casa

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Le presunte correlazioni tra devianza e origine etnica

Dalla paura al pregiudizio, al razzismoNel nostro Paese il pregiudizio, forse più radicato tra tutti, è quello che gli immigrati siano dei potenziali delinquenti. È vero che le cronache sono sintroppo abituate a riportare fatti drammatici che vedono coinvolti immigrati che recano danno ai nostri cittadini, ma è altrettanto vero che, sebbeneci siano stati molteplici tentativi di provarlo, nessuno è mai stato in grado di riscontrare alcun tipo di correlazione diretta tra quella che può essereuna propensione alla devianza e l’origine etnica o culturale di un individuo. A livello scientifico non esistono quindi comunità di cittadini più “crimi-nali” rispetto ad altre. Tuttavia se si analizzano le più recenti statistiche giudiziarie salta immediatamente all’occhio che nelle carceri italiane la pre-senza di stranieri è rilevante. Nel 2001, stando ai dati riportati nel secondo rapporto dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia dell’as-sociazione Antigone, su un totale di 55.338 detenuti il 29,5% ovverosia 16.330 persone erano straniere. Al 31/05/2004 i dati forniti dal Ministero diGrazia e Giustizia riportavano un ulteriore aumento: su un totale di 56.572 detenuti il 31% di essi pari a 17.788 persone non era italiano. Gli istituti didetenzione documentano che la presenza straniera è costituita per la maggior parte da clandestini (sul totale dei cittadini immigrati risultano esse-re oltre il 70 % quelli senza permesso di soggiorno colpevoli di lesioni volontarie, il 75% coloro che si macchiano di omicidio e addirittura l’85% gliaccusati di furti e rapine) ed è proprio la clandestinità a fornirci una risposta logica del perché di una così numerosa presenza straniera in carcere.Chi si trova a vivere in Italia, in una condizione di irregolarità, per forza di cose è sprovvisto di una residenza fissa e questo particolare, di non pococonto, non gli consente di usufruire di una misura alternativa al carcere piuttosto comune, come lo è quella degli arresti domiciliari. In più, ad aggra-vare la posizione giudiziaria e ad aumentare quindi la durata della pena detentiva da scontare, vi è quasi sempre una iniziale resistenza all’arrestodata dal timore del riscontro da parte delle autorità di documenti dalle false generalità. Altro problema non trascurabile è quello della difesa dell’im-putato, che di certo non ha la possibilità di avvalersi di un avvocato di fiducia e che in più deve fare i conti anche con le ovvie difficoltà date dalla lin-gua che non gli consentono di difendersi allo stesso modo di quanto farebbe nel suo paese d’origine.

Cinzia Lacalamita -- Responsabile delle relazioni pubbliche del gruppo di ricerca “Body-Image”

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Non carcerierima personalespecializzato

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ll ffeennoommeennoo ddeellll’’iimmmmiiggrraazziioonnee mmiinnoorriillee“Ho incontrato per la prima volta Hassan, per caso, duranteuna visita rituale all’istituto Cesare Beccaria, il carcere mino-rile di Milano….la direttrice dell’istituto ci disse che nessuno

era ancora riuscito a capire esattamente quale fosse stato il per-corso che l’aveva condotto dal Marocco in Italia. Qualche giornoprima, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, esa-minando la questione, di grande rilievo per il mio ufficio, dell’in-gresso in Italia dei minori non accompagnati, avevo dedicato unintero capitolo a descrivere, secondo le informazioni contenutenei fascicoli processuali, il percorso verso l’Italia di gran parte deiragazzi marocchini…”“Il padre di Petru beveva come una spugna…..la moglie lavoravacome operaia, stava fuori di casa tutto il giorno…il fratello mag-giore di Petru era in carcere…il piccolo Petru di undici anni…eraperaltro affascinato dalla carriera criminale del fratello….l’adde-stramento durò alcuni mesi fino a quando il padre non valutò chePetru fosse diventato un vero professionista… la decisione eradunque presa: la sua ditta famigliare del furto si sarebbe trasferi-ta in Italia.”(Livia Pomodoro ed. Melampo “a quattordici anni smetto”;Hassan – meglio a casa pg 79; Petru- rubare stanca pg 97-99)Storie come queste raccontate da Livia Pomodoro, per molti anniPresidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, riempiono lecronache dei giornali come i fascicoli giudiziari dei nostri tribuna-li. Storie, vite, che testimoniano il dilagare di un fenomeno chedesta grande allarme sociale e che stenta a trovare una rispostasoddisfacente sia in termini di repressione che di prevenzione odi recupero. L'attenzione generale sulle connessioni tra immigra-zione e delinquenza è stata catalizzata, alcuni anni or sono, dal-l'esodo innescato dalla crisi albanese e dalle conseguenti proble-matiche sulla sicurezza e sull’ordine pubblico. Parallelamenteagli sbarchi in massa, è proseguito il flusso migratorio clandesti-no dall'area balcanica. L'azione informativa dei servizi di sicurez-za svolta in Italia ed all'estero ha consentito di tracciare un qua-

dro composito dei soggetti implicati nel traffico, risultati spessoinseriti in ramificate reti multinazionali. La presenza, sul territo-rio, di espressioni criminali di diversa nazionalità risulta quindistrettamente correlata ai flussi migratori clandestini. Oggettodell'azione conoscitiva sono state anche altre forme "importate"di criminalità che, seppure ritenute di minore impatto sulla real-tà, non possono essere sottovalutate per il potenziale di violenzadimostrato. Tra queste vanno citate le organizzazioni cinesi, dedi-te all'immigrazione clandestina di connazionali da impiegare nellavoro nero, quelle magrebine impegnate prevalentemente neltraffico degli stupefacenti, quelle Rumene e quelle Slave. L'areamaggiormente interessata è l’Italia centro-settentrionale, dovel'elevato livello di industrializzazione facilita la possibilità dimascherare la movimentazione di denaro di illecita provenienza.LLee cciiffrree ddeellllaa ddeevviiaannzzaa mmiinnoorriillee ttrraa ggllii iimmmmiiggrraattiiSecondo i dati forniti dal servizio statistiche del Dipartimento perla Giustizia Minorile sono oltre 4000 i minori stranieri segnalatiper la presa in carico, nel solo anno 2006, dall’autorità giudiziariaagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni; circa il 20% del tota-le delle segnalazioni. Gli ingressi nei centri di Prima accoglienza -perchè sottoposti alla misura dell’accompagnamento, dell’arre-sto o del fermo - nel primo semestre del 2007 sono stati 997,circa il 55 % del totale. Per lo più si tratta di ragazzi provenientida paesi del Magreb, dalla Romania, dalla Croazia e dalla Serbia;ma sono presenti anche ragazzi Sud Americani ed Asiatici. Peruna esigua percentuale di questi l’autorità giudiziaria ha proce-duto all’applicazione della custodia cautelare in Istituto penaleper minorenni. Malgrado ciò nel primo semestre del 2007 i mino-ri stranieri presenti negli IPM sono stati circa il 51% del totale.Sicuramente le statistiche ufficiali non consentono di ricostruirein maniera scientificamente esatta fenomeni di criminalità mino-rile, tuttavia i dati riscontrati permettono di affermare, senzaombra di smentita, la rilevanza che assume l’immigrazione nelleanalisi sulla devianza minorile in Italia.LLee nnuuoovvee mmaaffiieeCome osservò alcuni anni fa il prof. Gaetano De Leo, alla devian-za minorile sono strettamente interconessi alcuni fenomenicome l’aumento delle denunce a carico di minori non imputabili,l’aumento delle relazioni tra agire criminale ed uso di sostanzepsicotrope, l’emergere di nuove forme di violenza,l’aumento dellacapacità attrattiva delle organizzazioni di criminalità organizzata,l’aumento dell’immigrazione extracomunitaria giovanile. Questiultimi tre aspetti della realtà criminale minorile sono quelli pernoi più interessanti. Ampia bibliografia testimonia come i minoristranieri che delinquono nel nostro paese agiscono in strettaconnessione, dipendenza sarebbe più corretto, con sistemi di cri-minalità organizzata esogeni che operano, quasi in una rigidaripartizione del territorio con i sistemi endogeni, nelle aree delcentro nord del paese. Ha acutamente osservato il dott. Vigna, aitempi in cui rivestiva l’incarico di procuratore generale antimafia,come oggi sul nostro territorio è presente un complesso sistemadi criminalità organizzata in cui è necessario includere vecchie enuove mafie, ricomprendendo nell’accezione mafia tutti queisistemi criminali, appunto, che si caratterizzano per la presenzadi fattori quali la propensione a ricercare il controllo del territorio,il continuo arricchimento degli arsenali, la prosecuzione delleattività intimidatorie. L'escalation di violenza, registrata dalle cro-

nache degli ultimi anni, costituisce l'effetto più eclatante del pro-cesso di ridefinizione degli equilibri tra gruppi criminali che con-trollano buona parte del territorio nazionale; contemporanea-mente si è assistito anche all’affermarsi di una nuova generazio-ne criminale di particolare ferocia, espressione estrema di un tes-suto nel quale fasce giovanili emarginate alimentano microrealtàdelinquenziali. I minori, anche per il sistema di tutele assicuratodal nostro paese, costituiscono manovalanza facile da reclutareed economica. Di contro questi giovani trovano nei sistemi orga-nizzati un riconoscimento, un “codice di valori di riferimento” el’opportunità di ricoprire in tempi rapidi posizioni di “prestigiosociale”, una risposta ai bisogni economici indotti dalla societàconsumistica. Quella del fenomeno migratorio collegato ai diver-si sistemi di criminalità organizzata è una realtà marginale rispet-to ai flussi migratori, che si presenta però di estrema delicatezza,di grande attualità e di cui non appare ancora in tutta la sua peri-colosità l'effettiva potenzialità delinquenziale. È stato accertatoche la criminalità associata immigrata si avvale del traffico illega-le di “schiavi” per introdurre in un determinato territorio persone,anche giovanissimi, consapevoli fin dall'inizio che, per pagare ilviaggio, saranno costretti a commettere reati di ogni tipo perconto di quelle organizzazioni.Il traffico di clandestini sembra essere l'attività principale, sia alfine dell'inserimento degli immigrati in attività illecite che insisto-no sul nostro territorio sia per il loro transito verso l'Europa o ilNord America. Conoscere la realtà migratoria è allora essenzialeper poter adottare "terapie" che riescano a frenare l'avanzatadella parte malsana di una comunità di emigrati da sempre com-posta essenzialmente da lavoratori osservanti della legge.L'analisi sulla fenomenologia delinquenziale immigrata deve con-siderare che laddove si insedia una comunità è alto il rischio chesi inserisca un elemento criminale con caratteristiche tali dasfruttare la maggioranza degli immigrati che lavora onestamen-te in termini di copertura. In questo ambito assume una propriaspecificità il nomadismo slavo ed, oggi, rumeno. Il nomadismoimplica modi di vita, valori, orientamenti, in primo luogo la conce-zione e l'organizzazione stessa del tempo e dello spazio, talmen-te diversi da quelli delle società occidentali industrializzate chespesso ne risultano due linguaggi tra loro incomprensibili, alpunto da ostacolare una piena partecipazione a molte delle atti-vità che costituiscono la vita sociale (frequenza scolastica rego-lare, attività lavorativa stabile, ecc.). Le forme di mobilità pratica-te possono essere diverse e sono determinate dalle circostanzeed assoggettate a cicli stagionali, oltre che alle vicende giudizia-rie. Di devianza si deve parlare ogni volta che il minore pone inessere attività, come il furto in appartamenti, il borseggio, il man-ghel, la vendita delle rose per le strade e il lavaggio dei vetri aisemafori, che sono illegali per l'ordinamento del nostro Stato,sebbene in molti casi non possono essere definite tali alla lucedei registri normativi della loro cultura d’origine.PPrroossppeettttiivvee dd’’iinntteerrvveennttooQuali sono le risposte verso le quali il nostro sistema si muove afronte di questo complesso problema? Il processo penale minorile, nato come sistema con importantifinalità rieducative e di recupero adeguate alla personalità e alleesigenze del minore, e caratterizzano da un'elevata attitudineresponsabilizzante e valenza educativa, si è rivelato nella praticaapplicativa discriminatorio proprio nei confronti dei nomadi edegli immigrati. Nei loro riguardi, come dimostrano i dati statisti-ci, il processo tende ad irrigidirsi in risposte contenitive e sanzio-natorie, secondo logiche di controllo, a scapito di un interventopropositivo e di sostegno del minore. Il minore straniero vienesottoposto a misure cautelari maggiormente restrittive rispettoa quello italiano: in questo modo l’accesso al circuito penale deiminori stranieri assume una incidenza percentuale maggiore. Lacustodia cautelare, in assenza di alternative, viene applicataquasi come una regola, e tutte le misure alternative vengono dif-ficilmente utilizzate. La differenza di trattamento si fa più forte

per alcuni aspetti specifici: istituti come la messa alla prova sonodi difficile applicazione; sotto il profilo delle garanzie difensive èpiù raro che un minore straniero, frequentemente nella condizio-ne di minore non accompagnato, possa fruire dell'assistenzaaffettiva del genitori; tutti gli strumenti alternativi alla detenzioneappaiono di difficoltosa e limitatissima applicazione per soggettiche all'esterno non hanno nè casa nè lavoro. Per questo verso larisposta penale risulta fine a sè stessa ed inefficace in termini direcupero delle ragioni della devianza. Se a ciò si aggiunge ilsostanziale disinteresse delle pubbliche amministrazioni compe-tenti, un problema vasto e complesso quale quello del fenomenodella criminalità minorile straniera rischia di diventare la cartinaal tornasole di un sistema, sociale e giudiziario, incapace di trova-re soluzioni efficaci alle emergenze. La nostra è ormai una socie-tà multietnica che vive con difficoltà l’esperienza dell’integrazio-ne. Il limite delle politiche multiculturali è spesso rinvenuto pro-prio nel fatto che sebbene siano state adottate per fronteggiareil razzismo, nella loro pratica attuazione abbiano spesso portatoad una esacerbazione del sentimento stesso di non accettazionedello straniero. Il superamento del pregiudizio, frutto di ingiustifi-cati allarmismi alimentati da alcune forme superficiali di comuni-cazione di massa, può avvenire solo attraverso processi di inclu-sione che consentano a questi minori di trovare nella società civi-le le risposte adeguate ai loro bisogni di sopravvivenza e di cre-scita. Si agisce così non più per una “integrazione subalterna” maper una “uguaglianza emancipante”, funzionale a riconoscerenello straniero immigrato il valore di persona di cui promuoverele potenzialità e garantire i diritti pretendendo, di contro, l’adesio-ne alle regole sociali. Pensare, sentire ed agire per l’uguaglianzapuò avvenire solo favorendo un impegno quotidiano e costanteper superare ogni ragione di conflitto e di separazione. Occorreintegrare l’eterogeneità delle cittadinanze per raggiungere l’omo-geneità del sentirsi tutti insieme cittadini ed “uguali”.Fondamentale è il coinvolgimento della famiglia nel processo diaccoglienza e di inclusione. Il processo di inclusione del giovaneimmigrato produce, inevitabilmente, dei disequilibri e disorienta-menti nella struttura familiare che sarà costretta a ridefiniremodelli educativi, sistemi culturali e prassi d’azione che dovran-no essere rielaborati alla luce dell’esigenza di integrazione in unanuova, diversa realtà sociale. Per questo l’azione che coinvolge ilminore non può prescindere dal coinvolgimento della rete affetti-va di riferimento. L’intercultura può costituire una prospettiva eduna prassi operativa, oltre che un metodo, funzionale a coglierele dinamiche e gli effetti che possono essere generati dall’incon-tro di codici culturali fra loro, talvolta, non rapportabili. La crea-zione di spazi e tempi di aggregazione su un fare concreto, pos-sono essere occasione in cui attraverso la narrazione della pro-pria specificità culturale e della propria esperienza di vita si puòfavorire la costituzione di una identità condivisa. Così anche lamediazione culturale può essere uno strumento funzionaleall’accoglienza. Attraverso una dinamica di definizione dellediversità e delle possibili conflittualità, si può prevenire l’emargi-nazione ed attivare una relazione riflessiva ed empatica tra cultu-re diverse che, superando le tentazioni per una assimilazione oprevalenza dell’una sull’altra, necessariamente trovino ragioni edoccasioni di incontro nel rispetto delle reciprocità, si rendanodisponibili a conoscersi ed a contaminarsi. In sostanza il supera-mento della devianza tra i giovani immigrati può essere un obiet-tivo raggiungibile solo ponendo in essere un’azione che abbiacome finalità l’effettiva inclusione del minore straniero nel tessu-to sociale, garantendo la possibilità di partecipare alla costruzio-ne della cittadinanza locale e creando un sentimento omogeneodi appartenenza idoneo a favorire la identificazione su un model-lo comune pro sociale funzionale a superare le ragioni dell’appar-tenenza ai sistemi criminali.

Gianluca Guidadirettore dell'istituto penale

per minorenni di nisida

Giovanissimi e nuove mafieImmigrazione e delinquenza minorile

L'escalation di violenza, registrata dalle cronache degli ultimi anni, costituisce l'effettopiù eclatante del processo di ridefinizione degli equilibri tra gruppi criminali che controllano buona parte del territorio nazionale; contemporaneamente si è assistito anche all’affermarsi di una nuova generazione criminale di particolare ferocia

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castello, per salvare la vita ad un detenuto che tenti d’im-piccarsi, o impedirà il tentativo di evasione di uno scaltrodelinquente.Non saranno i ciclisti dei baschi azzurri a trasportare undetenuto da un carcere all’altro, da un tribunale all’altro.Potrei fare mille esempi, ma potrei spingermi a dire coseirripetibili. Mi limiterò pertanto a rientrare nei ranghi,ricordando che molti poliziotti penitenziari sono impegna-ti in compiti amministrativi presso il Dipartimentodell’Amministrazione Penitenziaria: credo che neanche aRoma sappiano quanti sono. Se si ponesse il quesito aiSUPER DIRIGENTI, scommetto il mio stipendio di un mese(di più non posso…) che si avrebbero risposte diverse enumerose quanti gli interrogati.Molti esterni che avessero la ventura di entrare nei santua-ri amministrativi dell’amministrazione penitenziaria non siaccorgerebbero di questa presenza abnorme perché,come ho avuto modo di dire allo stesso capo delDipartimento recentemente, questi agenti non indossanol’uniforme, bensì abiti borghesi… se vestissero l’uniformegli uffici ministeriali sembrerebbero delle caserme suda-mericane, tanta polizia è presente!Le lettere che mi pervengono dai colleghi confermano lamia triste convinzione che ormai vengono dettate normeche si percepiscono di facciata, sapendo bene che sonoinapplicabili in quanto richiederebbero risorse umane estrumentali che non vengono contestualmente concesse.È cose se il marito di un tempo, dell’Italietta povera anchedi emancipazione, ogni giorno ordinasse un pasto riccoalla moglie, precisando anche i sapori che vuole gustare,senza però lasciare sul comodino i “bori”, le banconote fru-scianti, per fare la spesa. Le carceri dovrebbero essereviste da tutti i cittadini interessati, soprattutto di notte,quando più forte è il senso di inquietudine e di solitudineche prende sia i detenuti che gli operatori. In carcere nonsi dorme mai, di giorno infatti sono svegli i detenuti comu-ni, di notte lo sono quelli tossicodipendenti che imploranodosi ulteriori da cavallo di psicofarmaci, oppure quelli conproblemi psichiatrici: bella idea, hanno chiuso i manicomima hanno ingolfato le carceri. Da qualche tempo indico ilcarcere come il mappamondo di ferro, dove le parallele ele meridiane sono fatte di grate, e dove la lingua parlata èl’esperanto penitenziario. Eppure qui dovrebbero lavorarei migliori specialisti del trattamento, educatori, psicologi,h. 24, dovrebbe essere costantemente alimentata edincentivata la motivazione professionale: invece nulla, ipochi agenti devono inventarsi competenze che nonhanno e quanti, come me, credevano che essere direttoridi un istituto penitenziario fosse la migliore espressione diuna cultura giuridica non pietosa ma mite, non muscolosama umana, che non perdona ma neanche maltratta, sisentono presi in giro, ingannati da un sistema che preferi-sce manganellare i cittadini inerti che protestano per leimmondizie nei quartieri popolari napoletani e, nel con-tempo, tirare a lucido le zone belle della città dei potenti,protette da manipoli di poliziotti, semmai anche peniten-ziari.Parole crude le mie? Pensate quello che volete ove nonabbiate la voglia di verificare. La mia giornata, e quella deimiei collaboratori, infatti, non risulterà più leggera opesante seppure quanto ho scritto non vi garbasse.

Enrico Sbrigliasegretario nazionale del si.di.pe.

(sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari)

ccomi qua, a parlare di carcere e di sicurezza, così comechiestomi.Parole le mie “in libertà”, quale migliore contraddizione conil lavoro che faccio!

Attraverso il “Social News”, sprucidamente riprendo quello chevado affermando da qualche tempo, provo a lanciare un grido didolore e di speranza insieme. Profittando di questo osservatorioprivilegiato destinato a chi creda, o perlomeno finga di credereancora, nel sociale; l’assioma è il seguente: gli operatori peni-tenziari si sentono sempre più abbandonati a se stessi e la fun-zione penitenziaria viene sostanzialmente tradotta in attività“contenitiva”.La sensazione per molti direttori penitenziari, sempre più ricor-rente, è che il carcere rappresenti, oramai, il BURKA istituziona-le della Legge penale e del suo ordinamento: sembra, infatti, checi si sia dimenticati che dietro le grate e le mura delle prigionivive e si muove un’umanità che non è costituita soltanto dadetenuti, ma anche da operatori penitenziari, molti dei quali,allorquando fecero tale scelta professionale, la ritennero nobile,alta, apprezzata dalla società civile che da sempre, soprattuttoin Italia, si bea nell’affermare che le pene devono tendere allarieducazione del condannato e che il trattamento penitenziariodeve essere rispettoso della dignità umana (art. 27, comma 3°della Costituzione…).Come per il BURKA delle donne Afgane, che ai tempi deiTalebani dovevano pagare il prezzo sociale e religioso della lorodifferenza di genere con gli uomini, barbuti e disinteressati ailibri che non fossero quelli della Parola, affinché la loro discre-zione fosse tutelata, così le grate oggi assomigliano alle celateche dovrebbero difendere la persona umana, detenuta, dallasua stessa responsabilità, mostrandosi tra l’altro persona“obbediente” verso chi rappresenti l’autorità…; in realtà ilBURKA PENITENZIARIO, come quello al quale sono costrettemolte donne dei paesi musulmani, serve per nascondere l’asso-luta mancanza di sincero interesse sia verso i detenuti cheverso quegli operatori penitenziari, i quali dovrebbero spendere

le loro migliori risorse per fare rieducazione e sicurezza, sicu-rezza duratura.Pensate che lo stato delle carceri è così povero di risorse che,recentemente, sono stato costretto a partecipare a dibattiti econviviali, l’ultimo quello di un Rotary della Provincia di Trieste,chiedendo in cambio, come “service”, il regalo di cessi, non insenso figurato, ma veri e propri, quelli di ceramica, in quantonon abbiamo fondi ricorrenti e sufficienti per acquistarne deinuovi in sostituzione di quelli che vengono demoliti e danneg-giati da detenuti che hanno crisi psichiatriche, o che protestanocontro tutti e tutto demolendo le loro celle per mostrare quantarabbia abbiano in corpo.Come segretario nazionale del SIDIPE-CISL, sindacato mag-giormente rappresentativo dei direttori penitenziari, raccolgo lelamentele arrabbiate dei colleghi di mezz’Italia che denuncianol’assoluta insufficienza delle risorse umane e materiali messe adisposizione; nel primo caso mi riferisco agli educatori, agli psi-cologi, agli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria.In certe ore della giornata, non ci crederete, le carceri sonodesolatamente vuote, deserte di personale penitenziario…Le ragioni sono tante, non ultime quelle di una, per me, cattiva enon comprensibile distribuzione delle risorse umane…, faròdegli esempi.Trovo personalmente scandaloso che vengano distratte risorseumane di polizia penitenziaria perché vengano impegnate nelledecine di bar aziendali presenti in molti istituti di pena, nellenumerose scuole di polizia penitenziaria. Questi ultimi sono deiveri inni all’inutilità, dal momento che poi non si provvedeannualmente ad assumere altri agenti od operatori penitenziarie che anche l’attività di aggiornamento e formazione che vienesvolta, appare residuale rispetto alla portata dell’apparato.Come un vecchio mio amico sacerdote, di quelli di “battaglia”,che aveva girato tutto il medioriente, amava dire: “queste strut-ture di formazione vuote di allievi ma piene di personale, in par-ticolare di polizia ed amministrativo, anche educativo (che cifarà mai un educatore in una scuola di formazione del persona-le dove non ci sono detenuti???) sono come la mitra dei sommisacerdoti, l’estensione del nulla…”.Considero, ad esempio, irragionevole che gli agenti di poliziavengano impegnati negli stabilimenti balneari dell’amministra-zione penitenziaria mentre i detenuti sono abbandonati a sèstessi nelle carceri, con tutti i rischi che ne possono derivare.Trovo comico che invece di spendere risorse per mettere anorma le carceri, i posti di lavoro, fare la manutenzione ordina-ria delle strutture penitenziarie, noi si vada a finanziare le unitàdella polizia penitenziaria a cavallo, partecipando a tornei ippicio altro; non mi interessa, come operatore penitenziario e ancordi più come direttore di un carcere, poter ammirare la plasticafigura del cavaliere della polizia penitenziaria che si fregi di unacoppa vinta ad una competizione equestre…Non mi interessano i tornei di calcio di promozione e le gare divasca corta, alle quali partecipano tante unità di polizia peniten-ziaria che, comunque, fanno numero e consentono poi di affer-mare che il Corpo è ricco e numeroso di risorse umane.Nessun campione di atletica leggera potrà mai intervenire,all’interno di una cella sovraccarica di detenuti stipati in letti a

Dimenticati dietro le grateIl ruolo di chi in prigione lavora

La sensazione sempre più ricorrente per molti direttori di penitenziario è che il carcererappresenti, ormai, il burka istituzionale della Legge penale e del suo ordinamento.Sembra che ci si sia scordati che oltre le sbarre e le mura delle galere vive e si muoveun’umanità che non è costituita soltanto da detenuti, ma anche da operatori penitenziari

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Provveditorati Regionalidell'Amministrazione Penitenziaria

I Provveditorati Regionali esercitano, ai sensi del Decreto del Ministro dellaGiustizia 22 gennaio 2002, le competenze relative ad affari di rilevanza circo-scrizionale, secondo i programmi, gli indirizzi e le direttive disposti dalDipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, anche al fine di assicurarel'uniformità dell'azione penitenziaria sul territorio nazionale. I ProvveditoratiRegionali sono articolati nelle seguenti aree:Area segreteria ed affari generali con compiti di:• gestire l'uso dei mezzi di servizio dell'Amministrazione penitenziaria; • curare i rapporti con le organizzazioni sindacali per la contrattazione decen-trata; • coordinare le attività in materia di informatica ed automazione; • vigilare sugli archivi degli istituti e servizi penitenziari.Area del personale e della formazione con compiti di:• individuare le esigenze quantitative e qualitative del personale occorrente peril funzionamento degli istituti e servizi; • curare i rapporti informativi e i giudizi complessivi per i direttori degli istitutie servizi penitenziari e per gli impiegati in servizio presso il provveditorato; • coordinare i piani per la sicurezza degli istituti e servizi penitenziari del perso-nale; • istruire e definire i procedimenti disciplinari attraverso il consiglio regionale didisciplina del personale del Corpo di polizia penitenziaria; • programmare e gestire le missioni nell'ambito della circoscrizione; • disporre incarichi di reggenza e altri incarichi a tempo determinato; • proporre la concessione di onorificenze e curare la relativa istruttoria; • accertare l'idoneità e valutare i titoli preferenziali ai fini dell'iscrizione dei pro-fessionisti esperti e coordinare gli incarichi degli stessi nell'ambito degli istitu-ti e servizi; • coordinare e verificare le attività amministrative riguardanti il personale sani-tario, conferire incarichi per prestazioni sanitarie specialistiche e paramediche; • istruire ed assegnare gli alloggi demaniali; • assicurare la sicurezza del personale;• organizzare le attività di formazione e di aggiornamento in ambito regionale,secondo i programmi, gli indirizzi e le direttive del Dipartimento.Area della sicurezza e delle traduzioni con compiti di:• coordinare e verificare l'attuazione dei programmi, indirizzi e direttive delDipartimento, da parte degli istituti e servizi; • proporre ed esprimere pareri per la costituzione, trasformazione e soppres-sione degli istituti penitenziari e delle sezioni e delle sedi di servizio dei centridi servizio sociale; • coordinare i piani per la sicurezza degli istituti e servizi penitenziari; • coordinare i servizi di traduzione dei detenuti ed internati, nonché del servi-zio di piantonamento dei medesimi quando sono ricoverati in luoghi esterni dicura.Area del trattamento intramurale con compiti di:• progettare, programmare e raccordare le iniziative e le esperienze nel campodel trattamento intramurale e delle misure alternative alla detenzione, anchecon l'apporto di un gruppo consultivo interprofessionale; • esprimere pareri per la nomina degli assistenti volontari; • coordinare le attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive organizzatedalle direzioni degli istituti penitenziari per i detenuti e gli internati; • coordinare le attività e le risorse per i detenuti e gli internati in materia di lavo-ro e di addestramento professionale; Area dell'esecuzione penale esterna con compiti di:• individuare modelli di trattamento dei soggetti in esecuzione penale esternanei due profili, integrazione e controllo, appropriati alla realtà istituzionale esociologica del distretto; • svolgere funzioni di coordinamento e controllo sull'esecuzione delle direttivedi uniformità emanate dalla Sede dipartimentale o dal Provveditorato stesso; • indirizzo e verifica dei risultati e delle attività; • raccordarsi con la Magistratura di Sorveglianza per casi di particolare difficol-tà.Area amministrativo-contabile con compiti di:• coordinare la programmazione finanziaria e del bilancio degli istituti e servizipenitenziari; • controllare l'esecuzione delle direttive in materia di acquisto di prodotti far-maceutici; • istruire la assegnazione dell'armamento individuale e di reparto e delle appa-recchiature di sicurezza; • stipulare contratti per il mantenimento dei detenuti ed internati e gestire irelativi depositi cauzionali; • esprimere pareri e proposte per l'acquisizione e locazione di immobili; • coordinare e controllare la manutenzione ordinaria e straordinaria dei fabbri-cati; • curare i rapporti con gli organi periferici del Ministero dei lavori pubblici; • verificare e controllare l'attività amministrativo-contabile svolta negli istitutie servizi della circoscrizione.Presso ogni Provveditorato, per le spese in economia necessarie al suo funzio-namento, è istituito un servizio economato.I Provveditori Regionali esercitano, altresì, le attribuzioni precedentementedemandate dall'ordinamento penitenziario e dalle altre norme vigenti all'ispet-tore distrettuale degli istituti di prevenzione e pena per adulti, ivi compresequelle ispettive, di vigilanza e di controllo.

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fuor di dubbio che le cause che di solito spingono una per-sona a compiere un crimine possano essere molteplici.Tuttavia, non escludendo la possibilità di scelte individuali“professionali” nel campo della delinquenza, ritengo siano

predominanti fattori socio-economici quali la povertà, la man-canza di lavoro, il basso livello di istruzione, la tossicodipenden-za e, non da ultimo, il contesto di provenienza, spesso caratteriz-zato da notevole multi problematicità. Abbandono o perdita dialmeno un genitore in età infantile, alcolismo e violenze in ambi-to familiare, possono tutte essere esperienze a tal punto trauma-tiche da incidere pesantemente in quelle scelte di vita che allafine si rivelano sbagliate, deleterie per chi le attua.La delinquenza ha quindi una serie di motivazioni diverse allespalle, e proprio per questo motivo diversi sono gli interventi chepotrebbero contribuire a prevenirla o perlomeno a limitarla.Innanzi tutto si dovrebbe far leva su una maggiore preparazionescolastica o professionale affinché sia possibile consentire unmigliore accesso al mondo del lavoro, anche attraverso il rac-cordo fra le Istituzioni scolastiche e formative e l’imprenditoria.Seconda cosa andrebbero contrastate le cause che molto spes-so portano i giovani ad abusare di sostanze stupefacenti come,d’altro canto, andrebbero contrastate pure le cause che porta-no ad una sempre più crescente povertà. Un’opera preventivaadeguata dovrebbe tener conto anche, e forse soprattutto, delladiffusione di sani valori morali per cui il grado di appagamentoindividuale non discenda dal possesso di beni materiali, ma daun apprezzato inserimento nel contesto sociale. Proprio inmerito al contesto sociale, altro punto assolutamente non tra-scurabile ai fini preventivi riguarda l’inserimento sociale degliimmigrati ed il loro contenimento numerico entro i limiti in cuil’inserimento stesso sia realizzabile. Gli stranieri sono una real-tà del nostro Paese alla quale non si può non fare attenzione.Una realtà che spesso si confronta con il carcere. Al momentosono 26 su un totale di 251 elementi, i detenuti extracomunitaridi diversa provenienza geografica che stanno scontando la loropena presso la Casa di reclusione di Rebibbia. Sebbene vi siaanche qualche cittadino dell’Unione Europea, perlopiù si trattadi persone originarie dei Paesi del Magreb e Africa equatoriale,Europa dell’Est e Sud America. Al contrario di quanto si potreb-be essere portati a pensare, tra i detenuti italiani e quelli immi-grati non si riscontrano particolari problemi di convivenza. Se legiornate scorrono senza grosse scosse, ciò è con una certa pro-babilità da attribuirsi al fatto che le camere di detenzione sonoquasi tutte singole, il che consente a ciascuno dei presenti dimantenere le proprie abitudini comportamentali, alimentari ereligiose senza suscitare disappunto reciproco. In ogni caso, ècorretto precisare che non si registrano intolleranze nemmenodurante le attività in comune, attività che coprono una fasciaoraria piuttosto ampia che va dalle ore 8 alle ore 22.30. Tuttavia,al di là del fatto che non si manifestano conflitti interni, la vita incarcere, ne sono consapevole, comporta delle ovvie difficoltà.Proprio per questo motivo sono solito esporre sempre ai dete-nuti la mia sollecitazione per cui la detenzione, breve o lungache sia stata, deve rappresentare solo una parentesi nella vitadell’individuo. Una parentesi da chiudere definitivamente con lascarcerazione, evitando di incorrere in ulteriori comportamentidevianti che, qualora non restino impuniti, conducono inesora-bilmente un’altra volta in carcere. A tal proposito va comunque

sottolineato che per coloro che hanno subito e scontato unacondanna risulta cosa tutt’altro che semplice reintegrarsi nellaSocietà. In effetti sono pochi quei soggetti che terminata la penapossono contare su percorsi di reinserimento sociale. Percorsiche, precisiamolo, vengono prevalentemente offerti dal mondodelle cooperative e dal no-profit. La gran parte degli ex carceratirientra, purtroppo, nel contesto di provenienza senza concreteopportunità, in primis lavorative, che possano favorire il cambia-mento dello stile di vita e va da sé che proprio a causa delle dif-ficoltà che incontrano, corrono il rischio di trovarsi di nuovo inuna situazione in cui la via della delinquenza pare essere la piùsemplice o perlomeno l’unica possibile.

Stefano Ricca direttore della casa di reclusione roma rebibbia

Le radici della delinquenzaPrevenire la criminalità

Le esperienze traumatiche possono incidere pesantemente in quelle scelte di vita che alla fine si rivelano sbagliate, deleterie per chi le attua. La prevenzione andrebbe fatta attraverso una maggiore preparazione scolastica o professionale per migliorare l’accesso al mondo del lavoro, contrastando le cause dell’abuso di stupefacenti e quelle di una crescente povertà

È

e si vuole combattere la delinquenza che arriva dai paesidell’Est, bisogna tenere sempre in mente che quelle perso-ne, se non vedranno cambiare le condizioni in cui vivono,continueranno a scappare dal proprio paese e venire in

Italia, anche vivendo da clandestini. Io sono albanese come ilragazzo che si è appena ucciso nella Casa circondariale di Padova,schiacciato dal peso di un reato feroce. Nel 1995, a diciannove anni,sono emigrato in Italia seguendo alcuni miei coetanei che scappa-vano non solo perché convinti che qui ci fosse una gigantescaHollywood, ma soprattutto perché, in quei primi anni di transizioneda un regime comunista a un sistema liberista, la rapida privatizza-zione aveva portato al licenziamento dei nostri genitori, che nonriuscivano più a garantirci nemmeno i pasti quotidiani. Ma oggi lasituazione non è tanto diversa nel mio Paese. Io non credo che lacriminalità straniera sia più crudele di quella italiana, però ho sem-pre saputo che è capace di fare più danni, perché il delinquente ita-liano è un cacciatore molto attento, nel senso che quando ha sva-ligiato un appartamento, o fatto una rapina, poi torna a casa erimane con i propri figli. In questi anni ho conosciuto parecchi cri-minali italiani e dai loro racconti di malavita ho capito che lorospesso hanno una vita da criminali, ma poi conducono anche unaseconda vita “regolare”, senza mai eccedere. Mentre gli stranierinella maggior parte dei casi non hanno un ambito famigliare che litenga sotto controllo, obbligando ad una facciata di normalitàanche il più grande delinquente, e hanno invece una specie di vora-cità che ha origine anche nella storia dei loro Paesi. Il modello eco-nomico assunto oggi dall’Albania, nell’illusione di una rapidissimatransizione all’economia di mercato, ha portato al disfacimentodell’apparato statale, alla distruzione della coesione sociale, allaperdita di ogni senso di legalità da parte di molti cittadini, cheall’improvviso hanno perso anche i diritti precedentemente garan-titi. E l’occidente ha le sue responsabilità per questo disastro, e seoggi deve affrontare la pazzia della criminalità dell’Est, non stafacendo altro che raccogliere i frutti dell’albero delle menzogneche ha piantato per convincere chi viveva nei paesi socialisti chesolo il liberismo portava benessere. Invece la democrazia e il liberi-smo imposti a tappe forzate hanno causato una massiccia disoc-cupazione e una emigrazione di massa. E oggi nessuno sa più cosadire alle persone che vengono qui sicure di trovare il paradiso pro-iettato nel loro immaginario dalla televisione.

Elton Kalicadetenuto; redattore di ristretti

nche noi italiani siamo bravi a fare ed esportare violenza.- Si parla tanto di criminalità straniera, e quando ci sonoepisodi gravissimi di omicidi come quello recente diTreviso, alcuni cittadini, e anche dei giornalisti si lascia-

no andare a considerazioni pesanti sugli immigrati, sostenen-do che questi crimini rappresentano intere popolazioni erazze, diverse dalla nostra. Io sono italiano, ma siccome nellamia vita ho conosciuto sia italiani bravi che cattivi sono sicuroche nessuno potrebbe venire a farmi un discorso generale suqualche collegamento genetico tra italiani e il crimine. E que-sto vale anche per gli stranieri. Però purtroppo noi italianiabbiamo la memoria corta e ci dimentichiamo delle stragi chehanno commesso nel passato e commettono ancora i nostriconnazionali in Italia e nel mondo. A me invece basta ritorna-re con la memoria indietro per ricordare alcuni episodi che percrudeltà non hanno nulla da invidiare alla strage di Treviso.Sono entrato per la prima volta nel carcere di San Vittore neglianni settanta, e di persone davvero sanguinarie ne ho cono-sciute parecchie. Soprattutto killer della mafia che avevanofatto massacri fuori, e continuavano a farli anche in carcereappena ricevevano l’ordine. Erano i tempi di Vallanzasca, deimarsigliesi e dei corleonesi di Luciano Liggio sui quali si sonoscritti romanzi e girati film, ma che poi, alla fine sono cadutinell’oblio. Oggi anche i più giovani sanno che Vallanzasca eraun famoso bandito, nel film che stanno per fare su di lui saràScamarcio a impersonarlo, ma pochi sanno che sta scontandouna condanna di quattro ergastoli e 260 anni di galera. E cosìoggi vedo intorno a me tanti stranieri che accumulano decinedi anni di galera e so per certo che se ne faranno tanti, comene abbiamo fatti noi. Un’altra cosa che mi infastidisce è chemolti, sentendo parlare di criminali stranieri, sono convintiche le nuove bande provenienti dai paesi dell’est e dai paesiextraeuropei siano più sanguinarie di come eravamo noi unavolta. Mentre io, nei crimini commessi dagli stranieri vedo unripetersi di delitti che noi italiani abbiamo fatto da sempre eche continuiamo a fare. Di una cosa sono certo, la violenzanon ha etnia o razza, e purtroppo abbiamo sempre dimostra-to anche noi italiani di essere abbastanza “bravi” a farla e“esportarla”.

Ernesto Donidetenuto; redattore di ristretti

La violenza non ha etnia o razzaLa testimonianza di un detenuto albanese e… quella di uno italiano

S A

La reazione all’oppressione carceraria

Gesti insani dietro le sbarrePer chi oggi in Italia sconta una condanna presso un istituto peni-tenziario le condizioni di vita sono migliori se paragonate a quellepassate. Le possibilità di ottenere visite e permessi premio perbuona condotta sono maggiori e la censura sulle lettere è piuttostocontenuta. Ciononostante si verificano un certo numero di casi didetenuti che sotto il peso dell’oppressione carceraria tentano il sui-cidio (quasi sempre per impiccagione). La fascia d’età maggior-mente a rischio è quella dei giovani tra i 24 ed i 35 anni. Nel nontroppo lontano 2001, per esempio, furono “soltanto” 3 gli uominiultra sessantacinquenni che si tolsero la vita contro i 48 giovanidella sopracitata categoria di rischio. In quell’anno, 36 delle 139persone suicidatesi, si trovava in custodia cautelare, in attesa dirinvio a giudizio; 12 erano già stati rinviati a giudizio ed erano per-tanto in attesa di sentenza di primo grado; 24 erano già stati con-dannati in primo grado ed erano in attesa di appello; 6 erano inricorso di cassazione; 57 erano condannati con sentenza definitivapassata in giudicato; 4 internati in casa di cura e custodia, casa dilavoro, ospedali psichiatrici giudiziari ed infine soltanto 10, erano leposizioni giuridiche ancora non rilevate.Per quanto riguarda il 2002, laddove nelle carceri non affollate siregistravano 6,2 suicidi ogni 10.000 abitanti reclusi, in quelle affol-late se ne registravano 10,8, ovverosia 4,6 suicidi in più ogni 10.000detenuti. In effetti, l’affollamento può essere considerato un impor-tante fattore di rischio in quanto direttamente correlato con quellache è una carenza numerica di psicologi, educatori e personalemedico-sanitario che non può far fronte alle necessità dei troppidetenuti. Ai fini della prevenzione, si potrebbe incominciare colporre rimedio alla disparità numerica tra detenuti ed operatori delsettore concentrando le energie sul tipo di attività da far svolgereai reclusi. In tal senso si potrebbe puntare su quella che è l’azionepositiva del volontariato. Parlare di volontariato nel senso “comunedel termine”, ad un detenuto che ha davanti a sé ancora quattro,cinque anni da scontare, è illogico. Per volontariato però s’intendequella forma d’aiuto che può essere data a chiunque si trovi in unacondizione di difficoltà. Ciò significa che i detenuti che vivono incarcere da più tempo potrebbero avvicinarsi ai nuovi reclusi perstabilire un rapporto d’interazione che sia di supporto a questi ulti-mi e che faccia diminuire il rischio di comportamenti autolesionisti-ci tipici della fase iniziale dello sconto di pena.

Emanuel Mianpsicologo, presidente dell'istituto internazionale sul disagio e la salute

nell'adolescenza. giudice onorario minorile corte d’appello tribunale di trieste

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L'INDULTOCon la legge 31 luglio 2006 è stato concesso provvedimento di indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006 puniti entroi tre anni di pena detentiva e con pene pecuniarie non superiori a 10.000 euro, sole o congiunte a pene detentive. Il provvedimentoprevede anche uno sconto di tre anni per coloro che sono stati condannati a una pena detentiva di maggiore durata e abbiano com-messo il fatto precedentemente alla data sopraindicata. Sono esclusi dalla concessione dell’atto di clemenza i colpevoli di alcunireati previsti dal codice penale. L’indulto, infatti, non si applica ai colpevoli di diversi delitti, tra i principali quelli concernenti: asso-ciazione sovversiva, reati di terrorismo, strage, sequestro di persona, banda armata, associazione per delinquere finalizzata allacommissione dei delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale, associazione di tipo mafioso, riduzione in schiavitù, pro-stituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, usura, riciclaggio, produzione, traffico e detenzione illecita di sostanzestupefacenti. Il beneficio dell’indulto è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data della suaentrata in vigore, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni.

tratto da: Giovanni Jocteau, Giovanni Torrente

tratto da:Giovanni Jocteau,Giovanni Torrente

Page 14: Mensile di promozione sociale SICUREZZA E … · 2015-10-28 · Le grandi paure degli italiani di Giorgia Meloni La riforma della legge “contro” l’immigrazione di Sandro Gozi

Istituti PenitenziariAi sensi dell'art.59 della legge 26 luglio 1975 n. 354 'Normesull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misureprivative e limitative della libertà' (O.P.), gli istituti penitenziariper adulti si distinguono in:1. Istituti di custodia cautelare; 2. Istituti per l'esecuzione delle pene; 3. Istituti per l'esecuzione delle misure di sicurezza; 4. Centri di Osservazione.GLI ISTITUTI DI CUSTODIA CAUTELARE, ai sensi dell'art.60O.P., sono le case mandamentali e le case circondariali.Entrambe, a seguito della istituzione del giudice unico in primogrado e della abolizione delle funzioni pretoriali e della conse-guente soppressione del concetto di mandamento, sono desti-nate alla custodia degli imputati a disposizione dell'autoritàgiudiziaria ed assicurano la custodia delle persone fermate oarrestate dagli organi di polizia giudiziaria e quella dei detenu-ti in transito.Nelle case circondariali sono altresì istituite sezioni per l'espia-zione della pena.GLI ISTITUTI PER L'ESECUZIONE DELLE PENE, ai sensi del-l'art.61 O.P., sono le case di arresto (mai istituite) e le case direclusione, destinate all'espiazione della pena.GLI ISTITUTI PER L'ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZ-ZA sono, ai sensi dell'art. 62 O.P. le colonie agricole, le case dilavoro, le case di cura e custodia e gli Ospedali PsichiatriciGiudiziari.I CENTRI DI OSSERVAZIONE, ai sensi dell'art. 63 O.P., sonoistituti autonomi o sezioni di altri istituti dove vengono attuatele attività di osservazione scientifica della personalità deidetenuti e possono essere utilizzati per effettuare periziemedico-legali nei confronti degli imputati.

Uffici di esecuzione penale esternaGli Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) sono stati isti-tuiti dalla legge 27 luglio 2005, n. 154 che ha modificato l'art.72 della legge 26 luglio 1975 n. 354 che costituiva i Centri diservizio sociale per adulti dell'amministrazione penitenziaria.Il loro coordinamento è affidato agli Uffici dell'esecuzionepenale esterna presso i Provveditorati regionalidell'Amministrazione Penitenziaria. Gli Uffici provvedono adeseguire, su richiesta del magistrato di sorveglianza, le inchie-ste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l'applicazione, lamodificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezzae per il trattamento dei condannati e degli internati. Prestanola loro opera per assicurare il reinserimento nella vita libera deisottoposti a misure di sicurezza non detentive. Inoltre, surichiesta delle direzioni degli istituti penitenziari, prestanoopera di consulenza per favorire il buon esito del trattamentopenitenziario.Gli assistenti sociali in sevizio negli UEPE svolgono le attivitàindicate dall'art. 72 della legge: compiti di vigilanza e/o di assi-stenza nei confronti dei soggetti ammessi alle misure alterna-tive alla detenzione nonché compiti di sostegno e di assisten-za nei confronti dei sottoposti alla libertà vigilata.Nell'attuare gli interventi di osservazione e di trattamento inambiente esterno (applicazione ed esecuzione delle misurealternative, delle sanzioni sostitutive e delle misure di sicurez-za) l'Ufficio si coordina con le istituzioni e i servizi sociali cheoperano sul territorio.Le intese operative con i servizi degli enti locali sono definite inuna visione globale delle dinamiche sociali che investono lavicenda personale e familiare dei soggetti e in una prospettivaintegrata d'intervento.Gli indirizzi generali e il coordinamento in materia sono detta-ti dalla Direzione Generale dell'esecuzione penale esternapresso il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria.

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l comitato che io presiedo ha un nome lungo, “Comitato perla prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle peneinumani e degradanti”, che riprende così la lettera dell’arti-colo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei

diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, che reci-ta appunto: “Nessuno sarà sottoposto a tortura o a trattamentie pene inumani o degradanti”.Ma mentre è relativamente semplice accordarsi su una defini-zione di tortura, è assai più complesso stabilire quando un trat-tamento o una situazione detentiva è contraria al senso di uma-nità, è un trattamento definibile, appunto, come “inumano odegradante”. Un aiuto in questa direzione viene da due senten-ze della Corte europea di Strasburgo (che ben si possono riferi-re anche alla situazione italiana) che vigila sull’adempimentodegli Stati agli obblighi derivanti dalla Convenzione del 1950.La prima è del 2003, relativa al ricorso di un ex detenuto controla Russia, ed è una sentenza da cui emerge che un trattamentopuò essere definito come inumano e degradante anche inassenza di una esplicita volontà di infliggere sofferenza. Nelcaso specifico il trattamento così definito era il risultato dellastessa situazione detentiva, delle sue carenze e delle condizionimateriali in cui il detenuto era stato tenuto, per sovraffollamen-to, mancanza di igiene, esposizione a possibili malattie: era lasituazione detentiva offerta che era di per sé un trattamento inviolazione dell’articolo 3 della Convenzione. Le autorità peniten-ziarie non avevano esercitato alcuna violenza diretta, al contra-rio avevano cercato di alleviare la condizione del detenuto; tut-tavia la situazione da esse gestita è stata definita inumana edegradante come frutto di una mancata politica penitenziariavolta a garantire i diritti fondamentali della persona, in primoluogo il diritto ad essere posto in una situazione rispettosa delladignità personale e ad essere tutelato nella propria salute. Lecondizioni materiali, dallo spazio ristretto all’assenza di letto, lecondizioni igienicosanitarie, il regime offerto sono state giudica-

te inaccettabili. L’elemento centrale di questa sentenza è, quin-di, proprio nel fatto che il sovraffollamento, l’assenza di tuteladella salute, l’alloggiamento in situazione insalubre, promiscuae con mancanza di accesso all’aria, sono tutti fattori che consi-derati insieme determinano un trattamento inaccettabile. Essinon sono il risultato, come ho detto, di una volontà esplicita diinfliggere sofferenza, bensì il risultato di politiche omissive, diassenza di prevenzione, di incapacità di risolvere problemi, dianteposizione della necessità securitaria a quella di noncostringere comunque alcuna persona a vivere in condizioninon rispettose della sua dignità.La seconda sentenza, dello stesso anno, riguardava il ricorso diun detenuto sottoposto a regime di alta sicurezza nei PaesiBassi. I suoi colloqui con la famiglia avvenivano attraverso unvetro separatore, senza alcuna possibilità di contatto fisico tra ildetenuto e i familiari. Ciononostante il detenuto era sottopostoa perquisizione corporale, intima, dopo i colloqui. La Corte haritenuto che, non essendo possibile alcun contatto tra detenutoe familiari, il fatto che egli venisse sottoposto di routine a que-sto tipo di perquisizione, configurava un trattamento inumano edegradante, una diminuzione della sua dignità in assenza peral-tro di alcuna motivazione fattuale.Il significato di questa seconda sentenza risiede nell’affermareche le misure adottate per interrompere la comunicazione tral’interno e le organizzazioni criminali di appartenenza non pos-sono tradursi invece in misure vessatorie verso la persona chene è soggetta, non possono essere misure di improprio inaspri-mento della detenzione, non giustificate da altre finalità e, quin-di, di fatto volte ad aggredire la sua dignità personale.Ho citato due sentenze, riferite a casi molto diversi: ne emergeun quadro complesso che pone sempre nuovi problemi nel cer-care di definire quando un trattamento è da considerarsi “inu-mano o degradante”.A monte di tale complessità vi è il principio che stabilisce che

l’articolo 3 della Convenzione indica un divieto inderoga-bile: al contrario degli obblighi stabiliti in altri articoli,rispetto ai quali è possibile derogare in caso, per esempio,di guerra, di situazione di pericolo per la nazione, per l’ar-ticolo 3 - come del resto per altri articoli, quali quello sullatutela della vita, sul divieto di schiavitù e simili - nessunaderoga è possibile. Nessuna condizione “speciale” puògiustificare il ricorso da parte di uno stato alla tortura o aun trattamento contrario al senso di umanità.Questo principio è particolarmente importante nel conte-sto attuale di “guerra al terrorismo internazionale”,soprattutto nel dibattito che si è stabilito anche inEuropa, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 e la conse-guente legislazione adottata negli Stati Uniti. Nello scos-sone incredulo che ha seguito quella data, molti paesieuropei sono ricorsi all’adozione di misure antiterrorismoche hanno spesso messo a duro rischio i principi stabilitinelle Convenzioni adottate negli anni Cinquanta, dopo lacatastrofe del secondo conflitto mondiale. Stati con gran-de tradizione democratica hanno richiesto di poter dete-nere le persone per lunghi periodi, a volte anche per un

periodo indeterminato, senza che queste venissero portatedavanti al magistrato per la convalida della loro privazione dellalibertà, e senza alcuna imputazione formale. Quasi ovunque sisono chieste “mani libere” nel detenere persone, alcuni hannoproposto che il principio dell’intangibilità dei diritti fondamenta-li delle persone venisse bilanciato con la necessità di garantirela sicurezza della nazione e non fosse, quindi, più consideratocome assoluto; altri ancora hanno avviato un ambiguo dibattitosulla possibilità di utilizzare “metodi forti”, coercizione fisica,durante gli interrogatori dei sospettati. In questo panorama - sucui non voglio qui dilungarmi - l’esistenza di una Convenzione edi organi di controllo sugli adempimenti degli Stati è stato unpatrimonio forte, che ha permesso di fronteggiare i tentenna-menti e di tenere saldi alcuni principi nel territorio europeo.L’attuale tendenza a un “pensiero reclusorio”, alla crescenterichiesta di carcere, non riguarda solo l’Italia: riguardaquell’Europa, ormai spesso definita come “fortezza”, soprattut-to per la sua chiusura ai flussi migratori che verso di lei accedo-no e a cui sempre più risponde con situazioni non socialmenteinclusive, ma di mero respingimento e privazione della libertà.Oggi accanto al carcere si moltiplicano luoghi dove le personesono, appunto, private della libertà, spesso senza aver commes-so alcun reato, ma solo un illecito amministrativo, quello diessere irregolarmente presenti nel territorio.L’Europa vive attualmente grandi contraddizioni: ne celebriamola capacità di dotarsi di organismi che vigilano sul rispetto deidiritti delle persone recluse e al contempo ne vediamo la debo-lezza e la subalternità nel consentire che sopra i propri cieli e neipropri aeroporti viaggino o atterrino aerei sospettati di traspor-tare persone in totale violazione di tali principi. Recentemente sisono conclusi nel Consiglio d’Europa i lavori della commissioneche ha indagato sui voli segreti della C.I.A. e nel rapporto finaleviene indicato un numero molto elevato di voli sospettati, quan-to meno, di trasportare illegalmente all’interno degli aerei deiprigionieri, senza alcuna notifica o dichiarazione alle autoritàaeroportuali dove tali aerei atterravano, per poi ripartire, del loroeffettivo carico.Molti Stati europei hanno spesso chiuso i propri occhi di frontea tale realtà, non hanno indagato le denunce che pure hannoricevuto, e hanno finito col dimostrare grande subalternità escarsa volontà di garantire nei fatti, ciò che a parole dichiaranoessere propri valori costitutivi.Anche a fronte dei primi risultati della commissione, delle indi-cazioni contenute nel suo rapporto e delle richieste di indagine,la risposta è stata tiepida, non centrata sulla effettiva volontà difare chiarezza, né sulla consapevolezza di quanto della propriaidentità si andava perdendo dietro tale timidezza e tale accon-discendenza verso le richieste statunitensi: l’Europa sembra avolte più interessata a perseguire la contraffazione dei prodotti,a perseguire i falsificatori di CD che ad indagare i voli illegaliavvenuti nel proprio territorio e a perseguire chi, almeno peromissione, li ha consentiti.Questo elemento rimanda a una domanda fondamentale pro-prio sul senso della pena, rimanda alla scala dei valori e beni giu-ridici tutelati, alle priorità da definire nell’utilizzo di quello stru-mento importante e costoso che è lo strumento penale e, con-seguentemente, al come punire, ovvero a quali reati riservarequella punizione grave e dura che è la detenzione.

Atti della Giornata di Studi Nazionale, Persone, non reati checamminano. Ripensare la penaVenerdì 25 maggio 2007 - Casa di Reclusione di Padova(www.ristretti.it/)

Mauro Palmapresidente del comitato per la prevenzione della tortura,

dei trattamenti e delle pene inumani e degradanti

Le colpe della degradazioneQuando il carcere diventa inumano

Sovraffollamento, assenza di tutela della salute, alloggiamento in situazione insalubre,promiscua e con mancanza di accesso all’aria, sono fattori che, considerati insieme, determinano un trattamento inaccettabile. Essi non sono il risultato di una volontà esplicita di infliggere sofferenza, bensì il risultato di politiche omissive, di assenza di prevenzione, di incapacità di risolvere problemi

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Tipologie di reato ascritte ai beneficiari del provvedimento dell’indulto.Periodo agosto 2006 - gennaio 2007 . Tratto da: Giovanni Jocteau, - Giovanni Torrente

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venti sia in chiave di reinserimento socialedei condannati, sia a livello di tutela da pos-sibili e, purtroppo, frequenti forme di recidi-va. Credo possa essere utile presentare uncaso concreto, relativo ad una personaattualmente detenuta in un istituto detenti-vo a Roma, per verificare il livello di funzio-nalità degli interventi messi in atto nei suoiconfronti e valutare, poi, se la riforma delCodice penale con i suoi contenuti sanzio-natori, prevalentemente prescrittivi e nondetentivi, sia in grado di produrre miglioririsultati in termini di reinserimento sociale.Si tratta di una persona detenuta perché, inun lungo arco di tempo, ha commesso oltredieci reati ed ha subito perciò una serie dicondanne che nel corso degli anni (10 anni)non lo ha mai costretto ad un periodo dicarcerazione di durata significativa. Dopoaver subito dei brevissimi periodi di carce-razione preventiva (quasi mai superiori atre o quattro giorni), riusciva, infatti, abeneficiare della misura della sospensionecondizionale della pena, che gli è stata con-cessa per ben sei volte. Continuando acommettere reati (prevalentemente controil patrimonio, ma anche relativi alla deten-zione al fine di spaccio di stupefacenti)senza che nessun servizio o istituzionepubblica l’abbia mai preso in carico, si è tro-vato nel 2005 a commettere un ultimofurto, un furto banale, di entità modesta,per il quale è stato condannato ad una penadetentiva di breve durata.Approfittando delsuo stato detentivo, la competente Procuradella Repubblica ha inteso verificare lacomplessiva situazione giudiziaria e penaledi tale persona, provvedendo alla emana-zione di un cumulo che ha portato la penacomplessiva ad oltre 9 anni di carcere.L’aspetto più sorprendente di tale vicendanon è tanto il numero di anni che si sonosommati arrivando fino a nove, quanto ilverificare che, a fronte di una serie di reatiripetuti nel tempo a breve distanza l’unodall’altro, questa persona aveva scontatosolo tre anni circa di carcerazione preventi-va, trovandosi, quindi, a dovere espiare, unavolta formato il cumulo, una pena detentivaresidua di oltre 6 anni di carcere. L’entitàdella pena residua rendeva, pertanto,impossibile qualunque ipotesi di misuraalternativa, senza considerare che le pro-spettive di recupero del giovane (già tossi-codipendente da molti anni) si erano nelfrattempo assai complicate, a causa delprogressivo deterioramento delle condizio-ni personali, anche rispetto all’abuso dellesostanze, ed alla perdita quasi totale di rife-rimenti affettivi e familiari in grado di sup-portare un eventuale percorso terapeutico.Solo il recente provvedimento di indulto delluglio scorso ha riportato la situazione inlimiti accettabili, con la rideterminazione diuna pena detentiva inferiore ai quattroanni, dalla quale ripartire verso possibiliforme di cura e riabilitazione. Il punto criti-co della situazione (che è assolutamentefrequente negli istituti penitenziari) si scor-ge ove si consideri che questa persona, tos-sicodipendente nel 1991 e che commetteva

reati per procurarsi la dose di sostanzanecessaria, per oltre un decennio non èstata presa in carico da nessuno. Mi chiedo,cos’è che ha spinto l’ordinamento (lo Statonel suo insieme) a mostrare questa facciacosì clemente, così indulgente nei confron-ti del condannato tanto da fargli scontare, afronte di nove anni di pena complessiva,solo tre anni di pena? L’idea riabilitativa orisocializzante della sanzione? Non credo sipossa sostenere che la concessione per seivolte della sospensione condizionale dellapena (con implicito invito a proseguire nellapropria condotta deviante, vista l’assenzadi reazione da parte dell’ordinamento) fac-cia parte di un programma di interventorazionale volto a favorire il superamentodelle problematiche evidenziate dal giova-ne. Piuttosto, mi sembra di scorgere nell’at-teggiamento dell’ordinamento una paleseindifferenza verso le sorti del condannato,che si è consumata attraverso una forma ditotale disinteresse nei confronti di chi si erareso responsabile di reati che trovavano laloro origine in una forma di disagio socialeaggravata dall’abuso di sostanze stupefa-centi. Con quale autorevolezza lo Stato,finora assente, si presenta oggi al condan-nato ricordandogli che il debito contrattocon l’amministrazione della giustizia è, percosì dire, lievitato nel tempo a causa di unamancata tempestiva risposta degli organicompetenti? La fallimentare politica penaledella mera sospensione condizionale dellapena, ripetuta illegittimamente nel tempo,senza il contestuale avvio di un progetto direcupero in favore del giovane autore direati, ha prodotto solo un incremento direati e di conseguente carcerazione, tantopiù grave perché la privazione della libertàpersonale si concretizza, per un periodo ditempo medio lungo, a distanza di oltre diecianni dall’inizio della devianza, in presenzadi una situazione particolarmente aggrava-ta sul piano personale, rispetto a 10 anni fa,e complicata dall’insorgere di gravi proble-mi psichici. Occorre domandarsi, in propo-sito, se le soluzioni normative ipotizzatedalla Commissione di riforma del Codicepenale, ove applicate al caso in esame,avrebbero determinato un risultato diversoe più attento alle istanze risocializzanti delcondannato. La tipologia degli interventiauspicati con il ricorso a sanzioni principalidiverse da quella detentiva avrebbe potutomutare sensibilmente il quadro di riferi-menti del condannato ed avviarlo verso unprogetto di recupero già durante la fase diuno dei tanti processi conclusi con lasospensione condizionale della pena?Credo che una risposta positiva possaessere data solo ove si immagini che lepene alternative irrogate con la sentenza dicondanna siano accompagnate da una pre-visione di immediata operatività, nel sensoche le misure di sostegno e di controllo chele caratterizzano possano essere attivatefin dal momento della emissione della sen-tenza di condanna di primo grado.Tale precisazione si rende indispensabile, inquanto le sanzioni irrogate in sostituzione

della pena detentiva, per risultare efficaci,non possono attendere i tempi necessariper la definitività della sentenza, in quantodel tutto imprevedibili e, soprattutto, noncoordinati con le reali necessità di recuperodel soggetto.Occorre sottolineare con forza, in questasede, come la presa in carico di una perso-na da parte di servizi o istituzioni pubblicheo private (gli U.E.P.E., i Ser.T., le Comunitàterapeutiche…), ai fini dello svolgimento diuna prova o di una misura prescrittiva, nonpossa essere rinviata nel tempo in attesadella irrevocabilità della sentenza, pena ilsuo sostanziale fallimento. Ritengo che gliapprofondimenti ancora in corso nell’ambi-to dei lavori della Commissione per la rifor-ma del Codice penale debbano farsi caricodi questa problematica, perché si dovràrealizzare un sistema che consenta al giudi-ce del processo di disporre, prima della irro-gazione della pena non detentiva, di tuttauna serie di informazioni (acquisibili ancheattraverso l’indagine affidata agli U.E.P.E.)che potranno supportare la decisione cosìda costruire un percorso che vada concre-tamente nella direzione di un tentativo dipossibile risocializzazione del condannato.In tale prospettiva, si dovrebbe partirericercando la condivisione, da parte dellapersona sottoposta a processo, di un mec-canismo di anticipazione della presa in cari-co, funzionale al raggiungimento degliobiettivi perseguiti, che potrebbe trovare lasua sede naturale in una sorta di accordotra le parti, reso ufficiale dall’intervento delgiudice, per l’applicazione di una pena pre-scrittiva, di tipo non detentivo, che nonintervenga sul quantum di pena, ma sullamodalità di applicazione della pena stessa.Per quanto concerne, infine, l’istituto dellasospensione del processo con messa allaprova, pure previsto nell’ipotesi di riformadel Codice penale, ritengo che la misurapossa e debba trovare ingresso nel dirittopenale degli adulti, con le stesse modalitàgià previste per i minori autori di reato e,quindi, senza limiti di pena o esclusioni col-legate alla tipologia del reato commesso oalla personalità del condannato.Immaginare che questa particolare misuradi probation possa, nel mondo degli adulti,essere applicata con ristretti limiti di pena(si parla di reati puniti, in astratto, con penenon superiori a tre anni), dimostra unamancata consapevolezza dei meccanismiche presiedono l’applicazione del sistemapenale nel suo complesso ed apre la stradaad una prevedibile impossibilità di applica-zione dell’istituto, senza contribuire a risol-vere alcuna delle esigenze prospettateall’inizio.

Atti della Giornata di Studi Nazionale,Persone, non reati che camminano.Ripensare la pena.Venerdì 25 maggio 2007 - Casa diReclusione di Padova (www.ristretti.it/)

Paolo Canevellimagistrato di sorveglianza di roma

el dibattito sulla pena nel nostroPaese si fa strada l’idea che la car-cerazione rappresenti oggi la rispo-sta più facile ed al tempo stesso

meno adeguata per fronteggiare le forme didevianza sociale. Tale affermazione è spes-so accompagnata da una diretta critica alsistema delle misure alternative sia quantoalle previsioni normative che ne limitano laconcreta operatività, sia per quanto con-cerne l’applicazione delle stesse da partedella magistratura di sorveglianza. È statoespresso di recente, da parte della massi-ma carica dello Stato, l’auspicio che, attra-verso opportuni interventi di riforma delsistema penale e penitenziario, si giunga aconsiderare la pena detentiva come extre-ma ratio, come sanzione da applicare solorelativamente ai reati che producono mag-giore allarme sociale. Per ridurre drastica-mente il ricorso alla pena detentiva, sono infase di elaborazione e di studio due diversipercorsi di riforma. Il primo, che si svolgenell’ambito dei lavori della Commissione diriforma del Codice penale (CommissionePisapia), persegue l’obiettivo di ampliare ilventaglio delle sanzioni principali, affian-cando alla tradizionale pena detentiva(unica in concreto applicata) un nuovocatalogo di sanzioni non detentive, irrogatedirettamente dal giudice del processo, dagestire all’interno della comunità socialecosì da evitare gli effetti desocializzanti tipi-ci del carcere. Una seconda linea di tenden-za si propone di estendere l’area di operati-vità delle attuali misure alternative alla

detenzione, già previste dall’Ordinamentopenitenziario, per dotare la magistratura disorveglianza di strumenti sempre più effi-caci per favorire il reinserimento sociale deicondannati (proposta di riformadell’Ordinamento penitenziario redatta dalPresidente Margara). L’eccessivo ricorsoalla carcerazione nel nostro sistema penaleè il dato di partenza di ogni riflessione. E,tuttavia, l’osservazione della realtà degliistituti penitenziari e delle presenze che siregistrano al loro interno evidenzia cometale affermazione trovi ampio e positivoriscontro, in particolare, durante la fasedelle indagini preliminari e del successivoaccertamento delle responsabilità (primo esecondo grado del processo di merito),potendosi constatare un consistente ricor-so da parte dei giudici alla misura dellacustodia cautelare in carcere. Le statistichedei detenuti presenti alla data del 31 dicem-bre 2006 negli istituti penitenziari dellaRegione Lazio informano che su un totale di3.900 detenuti, circa il 60% è in attesadella condanna definitiva e, quindi, ancorain stato di custodia cautelare.Non può sfuggire che il basso dato percen-tuale concernente i condannati definitivitrae origine da una stratificazione normati-va disordinata e spesso schizofrenica degliinterventi di riforma predisposti per la faseesecutiva, a volte caratterizzati da una esa-sperata tendenza a rinviare il momentodella esecuzione (attraverso forme disospensione più o meno automatica),ovvero, da improvvisi inasprimenti solleci-tati da campagne di stampa che produconoallarme nella opinione pubblica (dalle pre-clusioni previste per i reati di cui all’art. 4bis Ordinamento penitenziario, alla nuovadisciplina della recidiva).Nella fase esecutiva, dunque, la carcerazio-ne, pur rappresentando l’unica rispostasanzionatoria, risente di una serie di impul-si (legati anche alla eccessiva dilatazionedei tempi del processo) che la rendono inqualche modo inevitabile, ma che spessone comportano una concreta applicazionea distanza di molti anni dal reato commes-so. Una carcerazione che intervenga a san-zionare con la privazione della libertà per-sonale un individuo per un reato commessodieci o anche quindici anni prima non èdegna di un Paese civile, in quanto si poneessa stessa di ostacolo a processi di riso-cializzazione eventualmente già avviati. Seil carcere rappresenta, quindi, l’unica rispo-

sta che l’ordinamento è in grado di offrire aiproblemi della devianza, si deve sottolinea-re, d’altra parte, come per chi sia entratonel circuito carcerario risulti sempre più dif-ficile accedere alle misure alternative previ-ste dall’Ordinamento penitenziario. Gliostacoli sono molteplici, ma per lo piùriconducibili alle seguenti situazioni.Spesso le pene detentive di breve durata(entro un anno) vengono espiate integral-mente in carcere da chi sia sottoposto acustodia cautelare, a causa della insuffi-cienza dei tempi per avviare una effettivaosservazione penitenziaria e predisporre,quindi, un programma di trattamento ade-guato alle caratteristiche individuali dellapersona condannata. In molti casi, personeche hanno alle spalle una devianza nonmarginale e che hanno riportato negli annidiverse condanne, si trovano, in occasionedel più recente episodio criminoso, a doversubire l’adozione da parte del pubblicoministero di un provvedimento di cumulo(con frequente revoca di benefici in prece-denza concessi) che finisce per determina-re una quota di pena incompatibile conalcuno dei benefici penitenziari previsti. Ladifficoltà di accesso alle misure alternativeè normativamente imposta, per altro verso,nei confronti delle persone condannate perreati ricompresi nella previsione dell’art. 4bis Ordinamento penitenziario, per unaparte dei quali ogni misura esterna è pre-clusa per legge, salvo che non sussista unaattività di collaborazione con la giustizia.Vengono prese in considerazione per ulti-me (ma rappresentano un numero semprepiù rilevante) le persone condannate che siinquadrano nella cosiddetta marginalitàsociale (extracomunitari, tossicodipenden-ti di lunga data, disagiati psichici e psichia-trici), nei confronti delle quali il ricorso allemisure esterne è reso particolarmente diffi-coltoso dalla assenza di idonei riferimenti ingrado di sostenere praticabili percorsi diinclusione sociale. L’incremento che negliultimi anni si è registrato nella applicazionedi misure alternative alla detenzione riguar-da soprattutto il settore degli interventi rea-lizzati nei confronti di condannati liberi chesi sono presentati davanti ai vari Tribunali disorveglianza dopo i provvedimenti sospen-sivi previsti dalla legge Simeone (legge n.165 del 1998).Il sistema descritto in questa breve pre-messa non si dimostra, tuttavia, sempre ingrado di assicurare l’efficacia degli inter-

Detenzione, extrema ratio Le alternative al carcere

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Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e distudio due diversi percorsi di riforma. Il primo persegue l’obiettivo di ampliare il ventagliodelle sanzioni principali, anche attraverso un catalogo di sanzioni non detentive, irrogatedirettamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così daevitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si proponedi estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione

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redo sia necessario riflettere su checosa vuol dire fare prevenzione. Senon parliamo mai della strategiapreventiva, di quale modello di giu-

stizia intendiamo accogliere, viene a man-care il fondamento per effettuare propo-ste innovative. La prevenzione esige chevi sia interesse a cosa fare prima dellacommissione dei reati e, dunque, che siintervenga sui fattori che offrono oppor-tunità, sul piano economico come suquello culturale, alle attività illegali.L’intervento su questi fattori costa qual-cosa a tutti. Ma solo una società che siautocomprenda almeno in parte corre-sponsabile dei fattori che favorisconodeterminate scelte criminali potrà fareuna buona prevenzione. La prevenzionedei reati, prima che dal diritto penale, èfatta dal diritto commerciale, dal dirittosocietario, dal diritto tributario, da tutti glialtri settori dell’ordinamento giuridico. Sevogliamo sbarrare la strada alle grosseorganizzazioni criminali sono importan-tissime, per esempio, delle buone legisla-zioni bancarie e fiscali. Le carenze in que-sto settore hanno avuto molto spesso peralibi proprio l’affidamento dell’azione pre-ventiva al solo diritto penale, che tuttaviainterviene quando già il reato è statocommesso. Si dovrà dunque evitare che ildiritto penale continui a fare da pretestoperché non siano adottati quegli interven-ti che limitano le possibilità di accessoalle condotte criminose, non solo comuni,ma anche di ambito economico. Ancor piùa monte, si deve riconoscere che il primolivello della prevenzione è sempre di

carattere educativo-culturale e politico-sociale. E pertanto, se vogliamo unabuona prevenzione, non possiamodismettere l’intervento sociale o trascu-rare la presenza credibile dello Stato sulterritorio, in tutte le sue dimensioni. Manon possiamo nemmeno teorizzare che lasocietà democratica e pluralistica nonabbia nulla da condividere sul piano deivalori, in tal modo rinunciando a un fon-damentale impegno di formazione civile.Che cosa fare, invece, quando un reato ègià stato commesso? È risaputo che dapiù di un secolo non si afferma più che sipunisce perché sarebbe giusto ripagare ilmale con il male, ma per fare prevenzione.Tuttavia il modo concreto in cui si perse-gue il fine preventivo è rimasto legatoall’inflizione e all’esecuzione di una penache non è pensata - nel momento in cuiviene inflitta - come un progetto per chi ladovrà scontare, bensì come una realtànegativa che corrisponde alla negativitàdel reato (solo dopo la sua inflizione, inquest’ottica, la pena dovrebbe essere pie-gata a intenti risocializzativi).In base al concetto corrente di giustizia, lapena non tiene conto della persona, maha il compito di esprimere attraverso unacerta durata della detenzione la gravitàdel reato commesso. E la persona, di con-seguenza, deve ritornare al centro.Nessuno può pensare di sostituire il dirit-to penale «del fatto» con un diritto penaledell’«autore». Vorrebbe dire affossare iprincipi garantistici: non si può attuare unintervento sanzionatorio perché una per-sona è fatta in un certo modo, perché ha

certe tendenze o un certo carattereche non piace, ma soltanto se c’èstata la commissione di un reato.Questo, però, non vuol dire che unavolta che sia stata accertata la com-missione del reato, la risposta a quelreato non possa essere concepitacome un percorso che riguardi il suoautore (ma anche il rapporto con lavittima e il ristabilimento di relazioniproficue con l’intera società).Troppo spesso si dà per scontatoche ciò che fa prevenzione generalee speciale sono l’inflizione e l’esecu-zione di una conseguenza negativa(la pena) proposta come corrispon-dente alla gravità del fatto illecito.

Ma qual è il modello di interazione traordinamento giuridico e cittadino sottesoa un simile assunto? Si tratta di un model-lo motivazionale che si fonda solo sul-l’aspetto coercitivo: che riconduce la pre-venzione generale al timore e la preven-zione speciale alla neutralizzazione.Eppure la ricerca criminologica lasciaemergere che quanto fa davvero preven-zione nella società non è il fattore timore,ma è il fattore consenso: lo Stato che fapiù prevenzione è quello che riesce atenere elevati i livelli di rispetto dellenorme non per timore, ma per libera scel-ta, per convinzione. Non è un caso, peresempio, che tutti gli studi seri sulla penadi morte evidenzino come questa formabarbarica di punizione non produca affat-to un’automatica e stabile diminuzionedella criminalità di sangue. Ma ciò è ovvio,e già lo spiegava Cesare Beccaria: secompito del diritto è tenere elevato il livel-lo di consenso ai valori fondamentali,l’esempio della pena di morte fa decade-re, automaticamente, nella coscienzasociale la centralità del rispetto della vita.Tutto questo si rende per noi ancor piùsignificativo con riguardo alla prevenzio-ne speciale: che cosa si deve fare rispettoalla persona che ha già commesso unreato? Molti ritengono che si tratti soltan-to di neutralizzarla per un certo numero dimesi o di anni, in modo tale che ciò servaper lui di ammonimento e di esempio aglialtri. Ben diversamente da simile prospet-tiva, deve piuttosto constatarsi che nullarafforza di più l’autorevolezza delle normedi quanto non avvenga attraverso l’esem-pio di una persona che rielabora la suaesperienza criminosa, prende le distanzedal reato e si attiva, per esempio, in unacondotta riparativa. Non è un lusso dellasocietà lavorare per il recupero e per l’in-tegrazione sociale del condannato: nullarafforza l’autorevolezza della norma più diun percorso che abbia condotto colui chel’abbia trasgredita a compiere scelte libe-re diverse da quelle del suo passato, rista-bilendo rapporti positivi con la società.Se noi partiamo da queste pur sempliciconsiderazioni avvertiamo che la preven-zione non è un semplice «meccanismo»,secondo il quale basterebbe il timore diuna pena per far diminuire i reati.La prevenzione è sempre qualcosa di

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dinamico, ha a che fare con la capacitàdello Stato di tenere elevata la sua capaci-tà di dialogo con i cittadini, perfino con icittadini che hanno commesso un reato, inmodo da motivare scelte per convinzionee, pertanto, un’adesione spontanea alleesigenze di rispetto delle norme fonda-mentali. Ciò considerato, ritengo che sidebba arrivare a diversificare l’apparatodelle sanzioni penali. In Italia, infatti, lapena applicata in sentenza è pressochésempre detentiva, salvo presso il giudicedi pace e nei pochi casi in cui è applicabilela sola pena pecuniaria.Superare la centralità del ricorso al carce-re significa, in quest’ottica, superare loschema secondo cui la pena costituirebbel’equivalente negativo rispetto alla gravitàdel reato commesso e accogliere la logicadi una pena che inizi ad autocomprendersicome un percorso razionalmente motivatoe magari impegnativo, ma tale da non con-figurarla a priori come pura e semplicerealtà negativa. Nessuno ha mai messo indubbio che un percorso di ristabilimentodei rapporti umani e sociali dopo che siastato commesso un fatto illecito significa-tivo possa essere difficile: ma deve trattar-si di un percorso che abbia un senso, nondi un percorso sempre e comunque segna-to da un imprinting negativo.La bozza di riforma del codice penalerecentemente presentata al ministro (perla sola parte generale) compie in effettialcuni passi importanti nella direzioneindicata, prevedendo in particolare, quan-to al sistema sanzionatorio, molte novitàsignificative. Nessuno dei membri dellaCommissione di riforma, peraltro, si senti-rà padre di questa bozza, perché essa rap-presenta un compromesso tra molti puntidi vista. La Commissione, infatti, non è deltutto omogenea nelle sue sensibilità. Anzi,è stato più facile trovare delle convergenzesu certe soluzioni concrete che non condi-videre una visione di fondo rispetto al pro-blema complessivo della prevenzione. Maalcuni strumenti nuovi nella bozza ci sono.Per la prima volta nel nostro Paese venia-mo ad avere, soprattutto, pene applicabiliin sentenza di tipo fra loro diverso (con eli-minazione delle attuali pene accessorie).- Viene prevista, innanzitutto, la rivaluta-zione della pena pecuniaria, applicata non

solo per entità determinata (come già oggila conosciamo), ma anche «per tassi».Quest’ultima modalità comporta che sia ilpovero che il ricco siano condannati a unmedesimo numero di tassi di pena pecu-niaria, salvo poi rapportare l’entità deltasso al reddito, al patrimonio e ai carichifamiliari di ciascuna persona (in Germaniai tre quarti delle condanne penali sono apena pecuniaria per tassi). La pena pecu-niaria può consentire di agire in manieraconsistente soprattutto nel contesto dellacriminalità motivata da lucro, anche conriguardo a delicati settori dell’attività eco-nomica. È una pena che non sconvolge lavita di una persona e che può assumere,ove venga espressamente utilizzata perdeterminate finalità sociali, un significati-vo orientamento solidaristico. Sono con-template, poi, pene di carattere prescritti-vo, il che risulta assai importante. Si trattainfatti di pene che non consistono sempli-cemente in un «subire» passivamente, main un percorso che può anche assumere icontorni del «fare» (che esige il consensodel condannato). Sulle pene prescrittive sigioca una partita culturale delicata, per-ché (come si evince dalla stessa bozza didelega) esse possono privilegiare ladimensione della sorveglianza - il condan-nato resta in libertà, ma con tutta unaserie di prescrizioni e di obblighi, a fini dimero controllo - oppure possono essereorientate nell’ottica del sostegno all’inte-grazione sociale, anche attraverso il sup-porto degli Uffici dell’esecuzione penaleesterna. Non può non riconoscersi, d’altraparte, come vi siano molte situazioniumane che si possono accostare positiva-mente solo attraverso seri interventi diaiuto, il che non si renderebbe praticabileove prevalesse l’ottica del mero controlloextradetentivo. Ancora una volta, la sceltadipenderà anche dalla nostra presenzaculturale, come pure dalla sensibilizzazio-ne dell’opinione pubblica, per esempiospiegando che un percorso di aiuto extra-detentivo validamente seguito costamolto meno della permanenza in carcereper il medesimo periodo di tempo e haesiti statistici, dal punto di vista della reci-diva, nettamente migliori.- Un ulteriore elemento di sicuro interesseè dato dal fatto che la bozza prevede, non

solo nell’ambito dellasospensione condizio-nale della pena, maanche come provvedi-mento autonomo (perpene detentive fino atre anni) la possibilità diun percorso di «messaalla prova». Non si men-zionano esplicitamen-te, invece, le proceduredi mediazione penale:ma nulla vieta che essepossano trovare spazio

proprio nell’ambito della «messa allaprova», com’è proficuamente accadutofinora presso alcuni tribunali per i mino-renni.- Oltre alle pene pecuniarie e alle peneprescrittive diverrebbero pene principali,secondo la bozza, anche le pene interditti-ve, che senza dubbio sono molto delicate.Esse infatti possono incidere pesante-mente nella vita di una persona ove impe-discano l’unica attività professionale reali-sticamente praticabile dalla medesima, ilche, è ovvio, non deve avvenire. Pertanto illoro uso deve essere oculato e a mio avvi-so, anche rispetto ad esse dovrebbe rima-nere applicabile la sospensione condizio-nale. Nondimeno, la pena interdittiva puòavere, soprattutto in ambito amministrati-vo od economico, un significato concretoestremamente rilevante (si pensi al divie-to di ricoprire determinati ruoli concer-nenti l’amministrazione di imprese o latitolarità di uffici politici).- L’ambito stesso delle pene incidenti sullalibertà personale verrebbe differenziato,prevedendosi non soltanto la tradizionaledetenzione in carcere, ma anche la deten-zione domiciliare sia per fasce orarie siaper giorni della settimana. È bene sottoli-neare, tuttavia, che il ricorso alla detenzio-ne domiciliare, quale valvola di sfogo delcarcere a potenziale costo zero, non deveesonerare lo Stato dall’impegno teso adelineare per i casi in cui ciò risulti neces-sario, come già si evidenziava, adeguatipercorsi di aiuto. Si tratta di un temamolto importante, in quanto attiene anco-ra una volta all’esigenza che qualsiasimodalità sanzionatoria persegua, nonsolo formalmente, obiettivi di integrazionesociale. Per quanto concerne specifica-mente la pena detentiva tradizionale, sitratterà innanzitutto di verificare se dav-vero alla diversificazione dell’apparatosanzionatorio si accompagnerà l’intentodi ridurre effettivamente e in modo stabilel’ambito di utilizzazione in concreto delcarcere. Su questo punto si gioca la credi-bilità dell’intera proposta di riforma. Ovela diversificazione dell’apparato sanziona-torio aggiungesse nuova penalità senzaridurre la popolazione penitenziaria o pro-vocando disinteresse verso il destino dichi, nondimeno, dovrà affrontate unapena detentiva, la riforma risulterebbesolo apparente. Molto dipenderà dallanostra capacità di presenza culturale.

Atti della Giornata di Studi Nazionale,Persone, non reati che camminano.Ripensare la penaVenerdì 25 maggio 2007 - Casa diReclusione di Padova (www.ristretti.it/)

Luciano Eusebi professore ordinario di diritto penale

dell’università cattolica di piacenza,

membro della commissione ministeriale per la

riforma del codice penale

Condannare non bastaLa prevenzione dei reati

Tutti gli studi seri sulla pena di morte evidenziano che questa forma barbarica dipunizione non produce affatto un’automatica e stabile diminuzione della criminalità di sangue. Ma ciò è ovvio, e già lo spiegava Cesare Beccaria: se compito del diritto è tenere elevato il livello di consenso ai valori fondamentali, l’esempio della pena di morte fa decadere automaticamente, nella coscienza sociale, la centralità del rispetto della vita

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da: vittime del criminediritti ed esperienze disupporto in europa

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