L’immigrazione e i media: dalla costruzione del nemico all’immaginario interculturale

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74 L’immigrazione e i media: dalla costruzione del ne- mico all’immaginario interculturale di Marco Binotto 1 La paura è la via per il lato oscuro. La paura con- duce all’odio, l’odio conduce alla sofferenza. Io sento in te molta paura. Yoda, Star Wars Episodio I La minaccia fantasma 1. Introduzione A cosa servono i media? Cosa fanno soprattutto i mass media? All’apparenza quesiti banali, dalla risposta scontata. Oppure difficile, ma inu- tile. Perché porsi questo dubbio? È come chiedersi il significato del tempo prima di domandare buon giorno. Eppure occorre lasciare questa domanda nello sfondo di ogni ragionamento sui mezzi di comunicazione di massa, sul modo in cui questi ci forniscono una percezione del mondo e sul loro rapporto con il resto della realtà sociale. I media forniscono la conoscenza del mondo? Oppure addirittura lo mascherano, ce ne mostrano una visione amplificata o edulcorata a seconda del nostro punto di vista o opinione politica? Sono uno specchio della realtà, anche se spesso questo appare distorto, deformato? Di certo il sistema dei media, soprattutto il sistema di informazione giornali- stica, costruiscono uno spazio. Definiscono dimensioni, limiti e modalità di relazione con i nostri “vicini” 2 , ovvero edificano un ambiente. Conoscere que- sto … è allora indispensabile per intervenire sui confini tra le culture, tra le persone, tra le varietà sociali. Quando un nuovo mezzo di comunicazione si instaura in un luogo ne modifica le dimensioni, le distanze, i confini, i rapporti tra oggetti e persone. Quando la stampa di massa si è affermata nell’Europa continentale ha contribuito a creare le uniformità necessaria alla nascita degli 1 Su richiesta dell’autore questo saggio è coperto da licenza Creative Commons (attribuzione - non com- merciale- Condividi allo stesso modo, v2.0), ovvero con la seguente dizione: «È consentita la riproduzione, parziale o totale dell’opera e la sua diffusione in via telematica purché non sia a scopo commerciale e a condizione che sia riportata la fonte, l’autore e questa nota». 2 Le modalità di rappresentazione e suddivisione della vicinanza e della lontananza, tra noi e gli stranieri rimanda a spazi “metaforici” costruiti intorno a precise dimensioni antropologiche (Binotto 2006). 4 (Anderson 1991, 26)

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Pubblicato nel volume curato da Francesca Colella, Valentina Grassi "Comunicazione interculturale. Immagine e comunicazione in una società multiculturale" (p. 74-95, Franco Angeli, Milano 2007).

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L’immigrazione e i media: dalla costruzione del ne-mico all’immaginario interculturale di Marco Binotto1

La paura è la via per il lato oscuro. La paura con-duce all’odio, l’odio conduce alla sofferenza. Io sento in te molta paura. Yoda, Star Wars Episodio I La minaccia fantasma

1. Introduzione

A cosa servono i media? Cosa fanno soprattutto i mass media? All’apparenza quesiti banali, dalla risposta scontata. Oppure difficile, ma inu-tile. Perché porsi questo dubbio? È come chiedersi il significato del tempo prima di domandare buon giorno. Eppure occorre lasciare questa domanda nello sfondo di ogni ragionamento sui mezzi di comunicazione di massa, sul modo in cui questi ci forniscono una percezione del mondo e sul loro rapporto con il resto della realtà sociale. I media forniscono la conoscenza del mondo? Oppure addirittura lo mascherano, ce ne mostrano una visione amplificata o edulcorata a seconda del nostro punto di vista o opinione politica? Sono uno specchio della realtà, anche se spesso questo appare distorto, deformato? Di certo il sistema dei media, soprattutto il sistema di informazione giornali-stica, costruiscono uno spazio. Definiscono dimensioni, limiti e modalità di relazione con i nostri “vicini”2, ovvero edificano un ambiente. Conoscere que-sto … è allora indispensabile per intervenire sui confini tra le culture, tra le persone, tra le varietà sociali. Quando un nuovo mezzo di comunicazione si instaura in un luogo ne modifica le dimensioni, le distanze, i confini, i rapporti tra oggetti e persone. Quando la stampa di massa si è affermata nell’Europa continentale ha contribuito a creare le uniformità necessaria alla nascita degli

1 Su richiesta dell’autore questo saggio è coperto da licenza Creative Commons (attribuzione - non com-merciale- Condividi allo stesso modo, v2.0), ovvero con la seguente dizione: «È consentita la riproduzione, parziale o totale dell’opera e la sua diffusione in via telematica purché non sia a scopo commerciale e a condizione che sia riportata la fonte, l’autore e questa nota». 2 Le modalità di rappresentazione e suddivisione della vicinanza e della lontananza, tra noi e gli stranieri rimanda a spazi “metaforici” costruiti intorno a precise dimensioni antropologiche (Binotto 2006). 4 (Anderson 1991, 26)

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spazi (stati) nazionali. La stampa d’informazione allora rappresentava l’estraneo a questo spazio omogeneo: lo straniero. Lo spazio mediale contri-buisce a presidiare i confini del nostro spazio simbolico. Come un sistema immunitario il «cane da guardia» giornalistico osserva le frontiere definendo ciò che è estraneo e ciò che è familiare. Da un lato consentono di allargare i nostri confini, conquistare nuovi elementi alla visibilità, accogliere le novità. Dall’altro lato evidenziano le differenti separando il noto da non-noto, ma an-che l’innocuo dal pericoloso.

È su questa duplice dimensione che si gioca il nostro rapporto con i news media: tra curiosità e paura, tra osservazione del nuovo a delimitazione del cattivo, tra conoscenza e diffidenza. Nell’era meccanica della stampa di massa i media presidiano i confini del nostro spazio illustrando l’esterno e i suoi ten-tativi di invasione: il nemico è lì fuori. Nell’era elettrica della televisione e della radio, i media rendono i nostri domicili lo spazio da difendere, illustran-do i pericoli della strada e dei luoghi di passaggio, del trivio: il nemico è or-mai all’interno. I nostri mass media assolvono allora contemporaneamente a queste due funzioni, ci allarmano rispetto a questi due rischi: l’invasione e la contaminazione. Da una parte l’emergenza sbarchi (e clandestinità), dall’altro quella della criminalità (e della confusione multiculturale). I cliché della stampa ci avvertono dell’arrivo di eserciti composti da invasori senza volto né individualità: nemici tutti uguali; gli archetipi elettrici ci allarmano su pericoli che si sono insinuati nelle nostre città, che ci aspettano dietro l’angolo nel vol-to demoniaco e osceno del nemico pubblico: il mostro.

Da una parte abbiamo il presidio del tema immigrazione: il presidio dei confini e il calcolo degli arrivi. La rappresentazione simbolica di questo spa-zio è il gommone colmo di masse di clandestini e la tabella con le statistiche. Dall’altra parte la notizia di cronaca, il caso quotidiano affiancato, di tanto in tanto, dal caso esemplare: l’individuazione di un crimine simbolico, eccezio-nale nella sua normalità.

Riprendendo la storia del rapporto della civiltà (mediale) italiana possiamo osservare come nelle sue diverse fasi si alternino queste metafore dominanti: ad ogni momento della trasformazione in una società d’immigrazione corri-sponde una precisa rappresentazione simbolica, un medium e dei generi preva-lenti. Se la fase iniziale dell’arrivo ha visto la stampa e la televisione impe-gnata a sorvegliarne i confini, a questo punto si aggiunge la cronaca a raccon-tarne quotidianamente rischi e pericoli, ma entriamo ora in una nuova era. L’immigrazione è, o deve, diventare normale. Già arrivata. Le comunità non sono più composte da migranti ma, progressivamente, da minoranze.

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Anche in questo caso i news media fungono da avanguardia, da sirena d’allarme della nuova situazione. In maniera semplificata quanto inadeguata, si affannano a rappresentare una realtà sconosciuta e per questo spesso perico-losa, oscura e quindi temibile, inosservata e inosservabile: ovvero ostile. Il ventre molle dell’informazione, o meglio come direbbe McLuhan, il nostro espanso sistema nervoso reagisce istantaneamente e in modo irriflesso, forse irrazionale, a questi mutamenti. Oggi è l’ossessione paranoica della contami-nazione islamista, della corruzione relativista della nostra cultura, a rappresen-tare l’apripista simbolica della nostra nuova realtà sociale. In questo caso la metafora dominante non appare più quella della invasione nello spazio nazio-nale, né quella dell’aggressione del nostro spazio domestico e delle nostre proprietà. Cresce la paura della contaminazione del bene forse più prezioso ma anche più intangibile, la nostra cultura, i nostri “usi e costumi”, ovvero la nostra identità.

Il bene in qualche modo più astratto ma forse per questo meglio rappresen-tabile, più “immaginario”, più “oggetto di comunicazione”. Per questo parti-remo da questa paura, dal timore più recente ma in qualche modo più legato al panorama delle idee e (quindi) dei media. Per farlo occorre affrontare i mec-canismi di costruzione mediale degli spazi, per poi osservare come i diversi linguaggi e tecnologie rendono questi confini spaziali chiusi verso l’esterno.

2. La costruzione mediale delle comunità: costruire confini simbolici

Ho sentito come una perturbazione nella Forza, come se milioni di voci gridassero terrorizzate e a un tratto si fossero zittite. Temo sia accaduta una cosa terribile. È meglio che tu continui i tuoi esercizi. (Ben) Kenobi, Star Wars Episodio IV - Una nuova speranza

Il punto fermo di molte analisi sul concetto di comunità, tradizione cultura-

le e nazione è il dato comune del loro carattere artificiale. Dall’ormai classico lavoro di Eric Hobsbawm sull’«invenzione delle tradizione» fino alla contem-poranea enfasi declino degli stati nazione, le immagini culturali vengono de-mistificate rintracciando in queste edificazioni un dato di artificio e costruzio-ne sociale. In questo ambito il successo del lavoro di Benedict Anderson sulla nazione non sorprende. In quel testo fondamentale la definizione, coniata «con lo spirito da antropologo»4, di nazione rimanda a «una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana» (26-27). Il concetto rimanda quindi, esattamente, alla particolare e storica concezione liberale di nazione. Un’entità intesa come espressione della sovra-nità e dello Stato già nella sua espressione e realizzazione. Ma il concetto di

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«comunità immaginata» rimanda a qualsiasi tipo di aggregato umano in cui l’appartenenza al gruppo è costruita sul piano culturale o simbolico e non gra-zie alla compresenza fisica.

È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità. […] In realtà è immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale in cui tut-ti si conoscono (e forse lo è anch’esso).5

La caratteristica «creativa» di queste (concetti di) comunità è quindi con-diviso da praticamente ogni gruppo sociale complesso. In questi termini non esisterebbe, per Anderson, una comunità possibile od originaria la cui identità collettiva sia costruita “autenticamente”. Lo studio di queste costruzioni sim-boliche dovrebbe quindi avere come base di partenza questa constatazione. «Le comunità devono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui esse sono immaginate»6. La forza di questa argomentazione, come la sua radicalità si spiega con l’intento di non costruire un nuovo fondamento “autentico” su cui edificare nuove comunità ma con l’intento analitico di di-stinguere le varie forme di “costruzione immaginaria”. Questa precisazione nasce in contrapposizione, in questo caso, con un altro autore che ha lavorato, cercando di demistificarli, sui concetti di nazione e nazionalismo: Ernest Gel-lner.

Secondo il giudizio di Anderson, nella sua opera più nota, Nazioni e na-zionalismo, la furia polemica dell’antropologo inglese lo porta ad utilizzare in modo indistinto i concetti di «fabbricazione» e «falsità» rimandando a comu-nità e simboli più «veri». In ogni caso questi, e altri, autori sono accomunati dal concepire lo stato-nazione e il nazionalismo come costrutti sociali stori-camente determinati: per entrambi l’origine è nel capitalismo industriale. L’uniformità suscitata da quel sistema di produzione e la necessaria omoge-neità delle classi manifatturiere e poi dei mercati di consumatori in qualche modo quindi avrebbe “generato” un’identità culturale7. La «forma sociale» industriale si è affermata ad esempio, a parere di Gellner in concorso con la Riforma Protestante. In particolare la sua insistenza sulla

5 (Anderson 1991, 27) 6 (Anderson 1991, 27) 7 Secondo Gellner questa necessità “economica” conduce al nazionalismo. Il nazionalismo sarebbe infatti frutto della produzione nazionale, dell’esistenza e necessità della nazione e non una sua causa: «Non è il nazionalismo […] che imponga l’omogeneità; è piuttosto un omogeneità imposta da un imperativo inevita-bile, oggettivo, che affiora alla fine sotto forma di nazionalismo» (Gellner 1983, 45).

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alfabetizzazione e sullo scritturalismo, il suo violento assalto contro un clero mo-nopolistico […], il suo individualismo e i suoi legami con le popolazioni urbane in movimento, tutto questo rende la Riforma una specie di araldo di caratteristiche e at-teggiamenti sociali che, secondo il nostro modello, producono l’età nazionalistica.8

Sono state le ricerche di Elizabeth Eisenstein ad aver, da un punto di vista storico, associato la riforma protestante alle pratiche della scrittura e dell’alfabetismo, in particolare connettendole all’invenzione della stampa a caratteri mobili. La sua intricata ricostruzione fornisce un quadro articolato delle conseguenze dell’avvento di questa tecnologia nella società del tempo. Le principali influenze, secondo l’autrice, sono da attribuire a modificazioni nell’apparato di riproduzione e diffusione della cultura, al sistema economico costruito intorno a queste, alla diffusione culturale e alla formazione. In so-stanza l’analisi si concentra sulle conseguenze della «rivoluzione della stam-pa» prima sulle culture d’élite alfabetizzate che sulle popolazioni del tempo. L’influsso della disponibilità più ampia e assortita di testi insieme a «catalo-ghi, dizionari, atlanti e altri libri di consultazione»9 produsse modificazioni prima di tutto nei meccanismi di creazione intellettuale oltre che nel mercato librario. L’ampliato pubblico di lettori tendeva a distaccarsi – in virtù dei pro-cessi di frammentazione ed individualizzazione promossi dalle nuove tecno-logie tipografiche10 – dai vincoli religiosi e locali. D’altro canto, le nuove produzioni informative producevano una nuova forma di comunità deterrito-rializzata. Infatti,

mentre diminuiva la solidarietà delle comunità, veniva in compenso esaltata la par-tecipazione ad avvenimenti più lontani; e se si allentavano i vincoli locali, venivano formandosi legami con più ampie unità collettive. I materiali stampati favorirono un’adesione tacita a cause i cui sostenitori potevano non trovarsi in un’unica parroc-chia e che si rivolgevano da lontano a un pubblico invisibile.11

I nuovi mezzi di comunicazione tendevano a sostituire a quegli antichi ca-nali, supplire alla loro interpersonalità. Nuove identità di gruppo consentivano la partecipazione alla vita pubblica e diverse forme celebrative. L’accresciuta diffusione delle conoscenze e le nuove possibilità del loro sviluppo insieme allo svincolarsi individuale dai vecchi monopoli del sapere e dai domini, nel modello proposto, contribuì a tre sviluppi della cultura europea del tempo: a)

8 (Gellner 1983, 47) 9 (Eisenstein 1983, 75) 10 In questo caso il riferimento, richiamato anche dalla Eisenstein, è al lavoro di Walter Ong. 11 (Eisenstein 1983, 107)

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l’avvento del Rinascimento; b) la Riforma protestante; c) l’avvento della scienza moderna12.

Lo sviluppo della tecnologia e del mercato della stampa si sviluppò paral-lelamente alla diffusione dei vernacoli nazionali. Grande parte dei libri pro-dotti nei primi gloriosi anni dello sviluppo dell’editoria era costituita da tradu-zioni e stampe nelle rispettive lingue locali. Per primi i riformatori religiosi da Martin Luter a Calvin per diffondere la lettura dei testi sacri incoraggiarono le traduzioni in dialetto. E così «i loro oppositori, per contrastarne le posizioni, furono costretti a loro volta ad usarlo»13. L’autorità della lingua scritta, il peso storico e religioso del latino, ritrovava forzatamente un riavvicinamento con la trivialità della lingua parlata. La perfezione immobile della lingua dei mano-scritti ritrovava l’oralità del volgare14.

Il suo lavoro storico ricollega la diffusione della riforma Luterana proprio alla possibilità di distribuire su larga scala ed a basso costo la Bibbia15. La dif-fusione dei testi sacri tradotti nei singoli idiomi locali produsse lo smembra-mento della cultura ecumenica, che oggi si definirebbe transnazionale, prodot-ta in fieri dalla cristianità “latina”. Gli scismi religiosi riprendevano infatti suddivisioni “nazionali” tra diverse letture possibili. Nelle parole di Innis solo pochi accenni rimandano al rapporto della stampa con il nascere del sentimen-to nazionale. Affermazioni che legano semplicemente la stampa al diffondersi di lingue nazionali e quindi alle moderne statualità.

12 Il quadro fornito, senz’altro approfondito e documentato, mostra le vaste condizioni e recipro-che relazioni e dipendenze fornite da un attento studio storico, appare però «più statico» di quel-lo prefigurato dagli autori di quella che è definita la «scuola di Toronto»(Abruzzese e Miconi 1999, 85). Fu infatti Marshall McLuhan, e prima ancora Harold Innis, ad aver approfondito il rap-porto tra l’avvento della stampa, la diffusione del nazionalismo e la costituzione degli stati na-zionali. Operando da un punto di vista incentrato sui media questi autori hanno saputo sintetiz-zare diversi e esaustivi studi storici a riferimenti alla letteratura politica ed economica, insieme ai più compositi rimandi artistici e letterari. D’altro canto l’approccio della Eisenstein è volutamente estraneo alla tradizione di Innis e McLuhan, anche se ne conferma le conclusioni. 13 (Innis 1950, 227) 14 Asa Briggs e Peter Burke propongono una versione anche più articolata di questo processo. La Riforma, in un periodo storico caratterizzato da livelli di alfabetismo molto bassi, si sarebbe costruita attraverso l’azione congiunta di molti media. La comunicazione orale in diverse forme dominava infatti ancora in molti contesti, dalle prediche in chiesa alle lezioni universitarie, «alle voci e alle chiacchiere del mercato e della taverna» (Briggs e Burke 2000, 100). La predicazione rimase parte fondamentale quindi dell’attività di diffusione di quelle nuove inclinazioni religiose. 15 Infatti la presenza in Germania di un mercato di beni librari permetteva una vasta diffusione di idee e scritti critici. La letteratura polemica si espresse principalmente attraverso gli opuscoli, prodotti velocemen-te da piccole presse, venduti con profitto, e divulgati con grande rapidità dai venditori ambulanti (Innis 1950, 225).

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Con l’avvento della stampa, la carta facilitò lo sviluppo effettivo dei vernacoli, e diede espressione dalla loro vitalità nella crescita del nazionalismo. […] Il libro, quale prodotto specializzato della stampa, e successivamente il giornale, rafforzarono la po-sizione della lingua come base del nazionalismo.16

McLuhan esasperò, dipanò, la connessione tra tecnologie di comunicazio-ne e mutamenti sociali rendendola centrale nel suo pensiero: la pratica indu-striale nasce in concomitanza con l’invenzione dei caratteri mobili: la stampa industriale. Ma, se la nascita dei giornali è indissolubilmente legata all’avvento della stampa17, questa non è stata la

condizione sufficiente per lo sviluppo del giornalismo come forma di comunica-zione, [ma] ne è sicuramente una condizione necessaria, unitamente allo sviluppo del-le reti postali nazionali e commerciali internazionali.18

La connessione tra riproduzione tipografica della stampa, stati nazione e sviluppo appare costituire, nelle riflessioni del mediologo canadese un unico insieme di fenomeni19. La copia di caratteri alfabetici in modo uniforme e meccanico nasce dalla medesima esigenza e dà vita al primo esempio di pro-duzione industriale. L’idea di produrre in serie grandi quantità di beni identici trovava nella pagina stampata il primo fulgido prototipo. Inoltre, i cambia-menti epocali richiamati dal lavoro della Eisenstein (Rinascimento, Riforma e sviluppo scientifico) mettono bene in evidenza come questo nuovo ambiente culturale ha generato possibilità e scoperte che modificarono profondamente

16 (Innis 1950, 257) 17 Come accade di solito, il punto di vista degli “appartenenti” alla cosiddetta scuola di Toronto, amplifica un dato di verità per mettere in evidenza, enfatizzandoli, i legami causali. McLuhan stesso metteva in evi-denza il consistente cambiamento nella realizzazione e nella struttura dei primi giornali successivamente all’avvento dei mezzi di trasmissione a distanza: così infatti scriveva nella Galassia Gutemberg: «il giorna-le dell’800 subì una completa trasformazione con l’avvento del telegrafo. La pagina stampata meccanica-mente veniva attraversata da una nuova forma organica che cambiava l’impaginazione allo stesso tempo in cui cambiava la politica e la società» (McLuhan 1962:181). La relativamente semplice riproduzione dell’alfabeto fonetico permise invece in Europa lo svilupparsi di più piccole “imprese” di stampa. Lentamente questa rete di imprese editoriali riuscì a sostituire nei testi ecclesiastici e universitari, ma anche per usi “civili” (legge, medicina o commercio), la corporazione dei copisti. Presto «si istituì un vero e pro-prio commercio del libro, che a sua volta fece ulteriormente nascere degli stabilimenti di stampa» (Innis 1950, 223). La succitata ricerca di Elizabeth Eisenstein vede proprio nei primi stampatori membri dei nuovi ceti mercantili: «Esistono ottimi ragioni per associare gli stampatori ai mercanti e ai capitalisti, nessuna per associarli a professori e frati» (p. 68). In questo modo il compito artigianale della riproduzione tecnica di manoscritti, divenne progressivamente una professione commerciale. I stampatori divennero editori. Anzi, proprio dalla mescolanza di interessi, professioni e competenze tra queste piccole imprese editoriali proto-capitaliste e il mondo intellettuale delle università e dei monasteri si produsse il nuovo fervore economico e scientifico. 18 (Campanini 1999, 47) 19 (McLuhan e Fiore 1967)

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la struttura sociale feudale. Tali cambiamenti in vari modi costruiscono la nuova élite culturale, e quindi il nuovo mercato potenziale: il primo pubblico «di massa» per i prodotti editoriali. Non a caso sono proprio queste classi bor-ghesi a costituire le fondamenta per le rivoluzioni politiche e per le battaglie nazionalistiche.

Il lavoro di Benedict Anderson rimanda proprio al nascere del print capita-lism come condizione fondamentale del sorgere dei nazionalismi. Infatti una volta saturato il mercato della stampa in latino, la nuova “industria” editoriale iniziò ad esplorare il campo dei mercati (delle lingue) “nazionali”. Questa omogeneità culturale, e soprattutto linguistica, è una delle conseguenze degli strumenti tipografici e dall’alfabetizzazione diffusa dall’apparato educativo statuale. L’intercambiabilità delle funzioni, dei diritti e dei doveri, del cittadi-no (Bauman), la creazione della separazione individuale dei lavoratori e delle persone, forniscono un popolo in cui l’unica identità superiore rimasta è quel-la nazionale.

3. La narrazione dei confini: il medium nazionale

Lo immaginavo. È una storia che i Jedi non raccontano. È una leggenda Sith. Cancelliere Palpatine, Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith

Le condizioni di nascita e conservazione delle comunità nazionali perman-

gono tuttora nelle nostre realtà statuali. I mass media costituiscono ancora il terreno di riconoscibilità comune, l’ambiente condiviso su cui si edificano le immaginazioni nazionali. Un territorio formato dal piano liscio del sistema economico statuale e territoriale20, dal sistema scolastico quanto dall’uniformità burocratica, negli stessi termini dalla sfera delle informazioni formata dai mass media. Ma su questa compresenza mediata, anzi mediatica, si innesca l’ideologia nazionalistica: la (sua) grande narrazione.

L’appartenenza ad una nazione non è solo attribuibile dalla semplice con-divisione di uno stesso spazio culturale o di un simile sistema di idee, segni e lingua. Essa si fonda anche su una simile appartenenza alla stessa identità: «se e soltanto se si riconoscono reciprocamente appartenenti alla stessa nazio-ne»21. Tale riconoscimento reciproco, la comune appartenenza, è costruita grazie ad un opera immaginativa, creativa. Come per le nostre storie personali

20 (Deleuze e Guattari 1980) 21 (Gellner 1983, 10)

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fin da bambini vittime dell’oblio della memoria, la storia, l’identità, delle na-zioni «proprio perché non può essere “ricordata”, va raccontata»22. Se, come ricorda Etienne Balibar, la

storia delle nazioni […] viene sempre presentata sotto forma di un racconto che at-tribuisce a esse la continuità di un soggetto. La formazione della nazione appare così il compimento di un “progetto secolare”, segnato da tappe e prese di coscienza […], ma che comunque sono iscrivibili in uno schema identico: la manifestazione di sé della personalità nazionale.23

In sostanza la storia nazionale, come tutte le narrazioni (mitiche) è teleolo-gica. Descrive un destino naturale, e insieme un’intenzione, un progetto rea-lizzato necessariamente. Il passato viene rievocato retrospettivamente cono-scendone già la fine e rileggendone il corso in funzione di quel risultato. I suoi successi mettono in rilievo le sue ragioni, le sconfitte diventano semplici bat-tute d’arresto nel comune e lineare cammino. Tale narrazione non solo ri-sponde e accompagna la formazione immaginaria della società nazionale-statale, ma contribuisce alla costruzione del suo «popolo». Il modo in cui il popolo produce se stesso in termini di unità è la fonte del potere politico (ibid. 103). Questa istituzione può avvenire solo costruendo un’identità, un sé con-trapposto, o meglio costruito nel contrasto con un “di fuori”, un «altro genera-lizzato» (Mead).

Deve divenire una condizione a priori della comunicazione tra gli individui (i “cit-tadini”) e tra i gruppi sociali – senza sopprimere tutte le differenze, ma relativizzando-le e subordinandole a sé, in modo che la differenza simbolica tra “noi” e gli “stranieri” abbia il sopravvento e sia vissuta come irriducibile.24

In modo da trasformare le frontiere della personalità individuale in «fron-tiere esterne» (Fichte) di una personalità collettiva, così da percepire i luoghi dello stato come «casa propria»25. Negli ultimi anni è il lavoro di Homi K. Bhabha ad aver continuato l’esplorazione dei rapporti tra «nazione e narrazio-ne»26. Partendo dall’importante solco costituito dall’opera citata di Benedict

22 (Anderson 1991, 227) 23 (Balibar e Wallerstein 1988, 96) 24 (Balibar e Wallerstein 1988, 104) 25 Secondo lo studioso francese, i due modi concorrenti attraverso le quali «sono state fabbricate» storica-mente le «etnicità fittizie» che costruiscono le nazioni sono la lingua e la razza. La complessa articolazione di queste rappresentazioni insieme all’influsso di diverse istituzioni quali la scuola e la famiglia concorrono alla costruzione di un modello complesso di spiegazione orientato, come i precedenti, a spiegare la realtà “immaginata” della coscienza nazionale. 26 (Bhabha 1997)

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Anderson si tende a mettere in evidenza ed esplorare il «carattere ambiguo» dell’ideologia nazionale, non semplicemente interpretabile come apparato funzionale a interessi preesitenti.

Secondo questa impostazione se la stampa costituisce la precondizione “strutturale” per l’avvento della nazione, la forma romanzo, permessa dal suo avvento tecnologico ed economico, ne costruisce il modello narrativo. Ri-prendendo un’argomentazione di Walter Benjamin le forme orali, epiche o folkloriche, della comunicazione sociale sono in contrapposizione all’informazione e al romanzo nella costruzione di queste identità. Timothy Brennan27 mette proprio in evidenza come il “realismo magico” prodotto per esempio dalla nuova letteratura latino americana riproduce proprio quegli sti-lemi e quelle esigenze epiche. La costruzione delle ideologie ripercorre pro-prio le tappe della mitopoiesi, della narrazione così simile all’esperienza di un cantastorie o, addirittura, di un giornalista.

4. Il «punto di vista» dell’informazione: dal «mosaico» alla «parata».

Anakin, il Cancelliere Palpatine è il male! ANAKIN: Dal mio punto di vi-sta, i Jedi sono il male! Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith

Se il passato eroico e glorioso di una nazione costituisce la premessa narra-

tiva alla comune appartenenza nazionale, come affermava già nel 1882 Ernest Renan28 essa deve però essere costantemente ribadita e sottoposta a costante consenso. Questo atto di volontà, insieme alla concreta storia europea dei “na-zionalismi reali” divide definitivamente il concetto di nazione da quello di razza. La nazione appare fondata su una comunità etnica ma la costruisce, meglio la immagina, soltanto in questo modo. I vincoli, persino linguistici (Balibar), dell’appartenenza sono nei fatti acquisiti e acquisibili. Al contrario della biologia umana le nazioni hanno una storia.

Simile a quest’opinione il pensiero di Benedict Anderson: il nazionalismo è primariamente un impulso di affiliazione positiva, l’amore per la Patria, il riconoscimento di una situazione naturale, la spinta al possibile sacrificio per-sonale più che al disprezzo dell’Altro, disprezzato proprio perché non gli si riconosce la comune origine nazionale e nazionalista, oppure riconosciuto come fratello di una comune «società di nazioni» (Anderson 1991, 173), di una differenza tra simili. Perciò il razzismo non appare frutto del nazionali-

27 (Brennan 1997, 111-113) 28 (Renan 1882p. 59)

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smo. Almeno se si intende per razzismo l’ostilità, la distinzione “di classe”, il contrassegno di potere e dominazione29. Lo sguardo costituito dal nazionali-smo, dalla comunità nazionale, si riduce ad un pregiudizio, la percezione della componente di un altro “ambiente”: uno stereotipo30. Il nazionalismo ragiona in termini di differenze tra territori e genti, il razzismo tra stirpi e strati. La nazione può essere solo invasa, la razza può essere contaminata. In questi termini la differenza tra nazioni non produce ostilità razziale o etnica, ma semplicemente un punto di vista.

Uno dei due aspetti della raffigurazione mediale della presenza straniera è correlato a questa dimensione costitutiva dell’effetto della comunicazione sul-la società. Se, come vedremo, il più diffuso e inavvertibile vede proprio lo straniero, il migrante come protagonista quello più rilevante nella relazione tra le culture è quello che lo ritrae come agente collettivo: come collettività «etni-ca» o come «fenomeno» (migratorio).

Immigrato come persona Immigrazione come tema Etichette Status giuridico, nazionalità Gruppi nazionali o “etnici”, «clande-

stino» Paura Infezione Invasione, contaminazione Frame Devianza Sbarchi, immigrazione-come-

problema Notizia tipica Fatto di cronaca nera o giudiziaria Sbarchi, pubblicazione dati statistici,

decisioni legislative o amministrative Tema ricorrente Criminalità, degrado Irregolarità, controllo delle frontiere,

convivenza, conflitti “etnici” Territorio mediale Città Nazione

La prima racconta il mondo come città, il secondo ripropone la divisione

tra masse e gruppi omogenei. Sul primo influiscono le regole usuali della nar-razione giornalistica nel secondo è determinante il ruolo del sistema dei media nel costruire il racconto delle collettività. I mezzi di comunicazione di massa come formatrici di identità.

In concreto la narrazione nazionalistica produce e descrive differenze – grazie a quel «punto di vista fisso» per McLuhan provocato dalle tecnologie alfabetiche e tipografiche – costituisce confini e separazioni stabili, iscrive let-

29 A differenza del punto di vista di Anderson la nazione sopravvissuta appare qui, invece, la causa del nuo-vo razzismo, differenzialista e culturale. All’incompatibilità tra le stirpi si sostituisce l’incomunicabilità tra le culture e i linguaggi, ovvero tra le nazioni. 30 «Una espressione come “occhi a mandorla”, ad esempio, non esprime una semplice ostilità politica; ridu-ce l’avversario alla sua fisionomia biologica, mira a sradicare il sentimento nazionale. Cancella, sostituen-dolo, la parola “vietnamita”, così come ration cancella, sostituendolo, algerino. Contemporaneamente, getta “vietnamita” nello stesso calderone senza nome in cui sono stati buttati “coreano”, “cinese”, “filippino”, e così via (Anderson 1991, 173).

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teralmente le distanze tra il vicino e il lontano, tra il prima e il dopo. Le mi-cronarrazioni esibite dal sistema dell’informazione costituiscono allora solo una mappa del mondo, delle distanze e delle posizioni. Il cui fine è ri-costruire un «immaginario Civile»31, la conoscenza di un preciso ambito sociale32. Una mappa costruita in passato sui paradigmi visivi della scrittura, quindi della storia, ora con quelli «audio-tattili» della composizione spaziale del mondo. Soprattutto ora, nel momento del superamento dei paradigmi della Galassia Gutenberg, il punto di vista prospettico deve fare i conti con la sua moltiplica-zione cubista. Quella simultaneità prodotta dall’elettronica, dal mosaico dell’informazione planetaria.

Furio Colombo, come del resto molti altri, scrivendo dei «limiti» del con-cetto mcluhaniano di Villaggio Globale, e della sua fortunata diffusione, lo vede come «il punto più debole e fallace» della sua teoria. La profezia di un’unica circolazione mondiale di immagini non si sarebbe realizzata. La te-levisione è sì accesa ovunque, ma lo

sviluppo del mezzo ha dimostrato che la televisione è globale soltanto se intesa come strumento di facile distribuzione di materiale del tempo libero. Si vedono gli stessi film e telefilm a Manila, a Tokyo e a Stoccolma. […] Ma non passano le notizie. È dimostrato che i migliori telegiornali del mondo dedicato alle notizie non nazionali uno spazio infinitamente minore dei rispettivi giornali quotidiani.33

Di nuovo la coscienza del mondo globalizzato è, dovrebbe essere, comuni-cata dall’informazione. Il villaggio globale rappresenterebbe quindi l’ideale di un arena democratica mondiale dell’informazione. Il luogo omogeneo della conoscenza condivisa, «supposto territorio di democratica equivalenza»34, non è che il sogno della comunicazione, dell’illuminismo, del globalismo. Non quello inteso da McLuhan. Almeno così pare. L’abbattimento puro delle fron-tiere è un utopia. Un luogo che non c’è, non è mai esistito. Come utopico era il concetto elaborato da McLuhan, una speranza più di una realtà. L’intenzione più della constatazione. Eppure quell’immagine si è realizzata. Parlando di Villaggio Globale però non immaginava certo nessuna sfera ra-zionale globalizzata, ma semplicemente una coscienza del mondo.

31 (During 1997, 243-245) 32 Ovviamente nello stesso modo in cui la nazione è immaginata e in alcuni termini «inventata», la mappa giornalistica del mondo non rappresenta affatto una finestra sulla realtà, ma ne costruisce una immagine simulata (Baudrillard) utile all’interno dei fini per cui è stata creata. È in questo slegamento tra la narrazio-ne e il referente che si cela la possibilità di “immaginare” (Bhabha 1997:293-495). 33 (Colombo 1997, 309) 34 (Colombo 1997, 310)

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Del tutto indipendentemente da una politica editoriale, positiva o negative che sia, l’uomo medio è ora abituato a notizie di cronaca provenienti da ogni parte del globo. La pura e semplice tecnica di raccolta di notizie da tutto il mondo ha creato un nuovo atteggiamento mentale che ha poco a che vedere con l’opinione politica locale o na-zionale.35 Tale effetto non è intenzionale, ma è piuttosto una conseguenza secondaria delle pure e semplici tecniche di raccolta delle notizie e dalla loro presentazione36

Il punto di vista del mediologo canadese è chiaro. La forma della comuni-cazione giornalistica, la stessa disposizione della pagina, la stessa raccolta in-ternazionale di news costruisce una realtà dall’aspetto globale. Ancor prima dell’opinione espressa dall’articolista, ancor prima della “manipolazione” o-perata, l’uso di queste tecniche giornalistiche “comunica” un atteggiamento mentale. La compresenza «cubista o picassiana» (ibid.) delle realtà e delle culture. Naturalmente tale realtà non può che essere stereotipata: sommaria, condizionata dal mezzo, ristretta in una pagina. La sensazione di acquistare il mondo in edicola, possedere le conoscenze giornaliere, i fatti accaduti nel globo non può che restringerli in quelle dimensioni. E, come si vedrà più a-vanti, selezionarli con apposite tecniche e regimi, attraverso congrui apparati.

Questo punto di vista è già anticipato nel suo primo testo, più vicino al pamphlet “apocalittico” che alle successive dissertazioni apparentemente così “integrate”. È la fortuna dei sociologi delle comunicazioni di massa residenti nel America del Nord, vedere gli apparati dell’industria culturale già nel loro massimo sviluppo. La ventura di assistere fin da allora alle estreme conse-guenze dell’industrializzazione mercantile della merce-attualità rende i rischi evidenti a McLuhan già nel 1951. Pericoli volti in ottimismo grazie alle sue osservazioni circa i possibili effetti sociali delle tecnologie orali della forma giornale e della futura “immersione elettrica” insieme alla tipica fiducia dell’autore.

Di conseguenza perfino la frequente assurdità sensazionalistica e la non attendibi-lità delle notizie non possono annullare l’effetto totale, che è di indurre un senso pro-fondo di solidarietà umana.37

La nostra cinica esperienza successiva dimostra anche un effetto contrario. Dall’immersione cubista nell’«irrazionale e disorganizzato» mondo delle no-tizie dal globo i lettori pare abbiano tratto di certo quella consapevolezza glo-bale – ossia «partecipare ad armonie cosmiche di un ordine molto alto» – ma

35 (McLuhan 1951, 17) 36 (McLuhan 1951, 28) 37 (McLuhan 1951, 17-8)

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anche i timori per questa vicinanza coatta. Vedere la propria attualità locale e nazionale assediata dall’attualità globale, il vicino di casa vicino al migrante meridionale, ancora più vicino al migrante internazionale. La «coscienza si-multanea indotta dal giornale» diventa assedio e invasione. La provincia più che il villaggio.

Questa inattesa possibilità è avvertita, con lieve disappunto, dallo stesso McLuhan nei testi successivi. L’invocazione di tutto il suo lavoro è quella di riconosce gli effetti delle tecnologie sulla struttura sociale e cognitiva. In Un-derstanding Media (Gli strumenti del comunicare) paragonava quest’attività al lavoro di un microbiologo come Pasteur alle prese con una minaccia invisi-bile e non compresa.

Così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo im-provvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata ad un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto. […] Il terrore è lo stato di normalità di ogni società orale, poiché in essa ogni cosa in-fluenza ogni altra senza soluzione di continuità.38

È questo l’aspetto delle teorizzazioni dell’autore canadese che pare più op-portuno, in questa sede, sviluppare o meglio applicare. Mentre come si legge in un altro brano del suo primo libro, la

vera tendenza delle notizie raccolte da ogni parte del mondo e poste una di fianco all’altra fosse di evocare l‘immagine di una società mondiale […] La stampa del gruppo editoriale Hearst, e come vedremo, “Life” e “Time” cercano di resistere a que-sta tendenza sommergendo con una marea di emozioni sovra-imposte l’immagine e-mergente del mondo come un’unica grande città39

Da queste righe emerge una personalità certo più temperata: meno ottimi-sta, meno indubbiamente certa delle determinazioni dei media. Il risultato dell’effetto dei media più condizionato da diverse forze, dalla lotta tra tenden-ze, tra forme mediali. Quella immersiva e simultanea dei grandi quotidiani e quella emotiva e personalizzata della «storia continuata». Tra la «visione mul-tipla e simultanea della prima pagina che fornisce una panoramica delle noti-zie»40 e gli avvenimenti raccontati «come se fossero tutti visti dalla stessa per-sona»:

38 (McLuhan 1962:60) 39 (McLuhan 1951, 22) 40 (ibid. 29)

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Invece di assomigliare a una folla cenciosa […] la marcia degli avvenimenti di-venne una parata fantasmagorica, con gli stendardi al vento, la musica della banda e i ranghi che procedevano al passo.41

Questa differenza vedremo essere fondamentale per distinguere tra le de-formazioni volontarie e inconsapevoli prodotte del sistema dei media. Le pri-me rimandano al giustapporsi di piccole notizie, spesso di cronaca. Nelle se-conde il ruolo della linea editoriale delle testate o del singolo redattore appare più determinante. Infatti, le ricerche europee sul rapporto media-immigrazione da anni confermano l’importanza della dimensione (loca-le/nazionale) e la tipologia di testata come fondamentali nel orientare il ritrat-to fornito. Una tendenza che supera un’attenzione “casuale” o non voluta.

La stampa – ed in particolare i giornali popolari, locali e conservatori – mostrano un’attenzione superiore alla media alla cronaca di crimini legati alle minoranze, supe-riore a quella della Tv. [...] L’attenzione dovrebbe inoltre essere maggiormente rivolta alla tendenza da parte della carta stampata ad evidenziare in prima pagina le notizie più negative o sensazionali, e alle implicazioni di tale scelta nel definire l’immagine che è fornita delle minoranze, dal momento che queste appaiono più frequentemente quando si affrontano argomenti potenzialmente conflittuali o controversi.42

In passato questa «parata di notizie» è servita – secondo McLuhan – a co-struire le mobilitazioni emotive per le guerre. A trasformare in odio la distac-cata e simultanea coscienza di essere concittadini di una stessa piccola città. La vicinanza in pericolo, in ostilità di un fronte (quartiere) verso un altro. La situazione continua a riprodursi, spesso anche come semplice raffigurazione agonistica, come nel gioco o nello sport. Con le ambiguità tipiche dell’epoca della globalizzazione che, per questo tema, possono diventare possibilità in positivo.

41 La citazione è tratta dall’autobiografia del co-fondatore della rivista Time scritta da Noel Bush. (in McLuhan 1951, 29). 42 (ter-Wal 2004, 37-38)

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5. Il racconto nazionale: tifare per “noi”

OBI-WAN: Anakin, la mia devozione va alla Repubblica, alla democrazia! ANAKIN: Se non sei con me, sei mio nemico. OBI-WAN: Soltanto un Sith vive di assoluti. Farò ciò che devo. Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith

Continuando a ripercorrere le tesi di McLuhan possiamo continuare a cre-

dere in quell’effetto inconsapevole di immersione e costruzione di visioni globali. I media, per la loro stesa presenza, rappresentano spesso un mondo imploso, in cui le distanze sono ridotte. Presentano simultaneamente eventi e personaggi di luoghi e spazi distanti. Tale compresenza simbolica è uno dei fattori della globalizzazione. Raramente oramai viene messa in dubbio questa conclusione. Questa conseguenza appare infatti determinata dagli stessi mec-canismi spettacolari e produttivi dell’industria culturale, più che dell’industria dell’informazione.

Da una parte l’uso di stereotipi è connaturato al tipo di linguaggio “neo-orale” e narrativo dei nostri mezzi di informazione43, dall’altro il verso di que-sti stereotipi è connaturato ai mezzi tipografici ovvero al concetto di nazione. I linguaggi spettacolari riproducono animando continuamente gli stereotipi ai fini della loro efficacia fantasmatica, della loro efficienza comunicativa. Men-tre il punto di vista partigiano, quasi patriottico si fonda, anzi si è fondato sto-ricamente, sulla stabilità argomentativa della linearità alfabetica, sulla teleolo-gia della narrazione. Queste differenze possono combinarsi o entrare in con-traddizione.

Combinarsi perché il carattere epico e narrativo del linguaggio giornalisti-co è lo stesso che storicamente ha prodotto tali narrazioni, costituisce lo stesso tipo di mitologia. D’altro canto l’attuale sistema d’informazione produce un immaginario necessariamente frammentario e transnazionale, infatti la sua ba-se produttiva si è definitivamente allontanata da basi strettamente locali o ter-ritoriali. Gli automatismi della performance giornalistica appaiono prediligere la frammentarietà piuttosto che l’omogeneità, l’animazione degli stereotipi piuttosto che la loro ferma ripetizione, l’impersonalità più che il punto di vi-sta, l’automatismo alla vocazione.

Infatti. Il ruolo intenzionale delle testate informative appare diverso. Quando le

pratica professionale supera la routine, diventa consapevole – o almeno con-

43 (Binotto 2005; 2007)

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sapevolmente – modifica le pratiche quotidiane, la comune immagine di un luogo globale diventa allora nazionalista, sciovinista, territoriale. Il mondo viene diviso in «Interni» ed «esteri» come lo sport in tifo nazionale e interesse “dilettante”. Più o meno di frequente, con maggiore o minore influsso dell’orientamento della singola testata i mezzi di informazione costruiscono vicinanza e località fittizie. Riproducono appartenenze nazionali, costruendo quelle divisioni che i meccanismi della riproduzione capitalista e mercantile tende a superare. La globalizzazione dei mercati, prima che delle culture e della politica, tenderebbe a ravvicinare le conseguenze delle notizie, a unifor-mare le fonti in agenzie planetarie, le audience in canali satellitari e format transnazionali, come il pubblico dello sport in rivalità di club o di campioni.

Tradizionalmente il ruolo del «sistema sportivo» è quello di creare le con-dizioni del nazionalismo almeno quanto è figlio dell’integrazione nazional-statuale e delle sue politiche pubbliche.

Intanto perché favorisce l’integrazione simbolica della comunità nazionale e poi perché la stessa articolazione organizzativa del sistema sportivo costituisce parte del nuovo ordine politico, definito dall’esistenza di uno stato nazione. Da un lato, perciò, lo sport concorre sul versante simbolico a produrre l’identificazione collettiva nella Nazione.44

D’altra parte, nella tesi del sociologo Nicola Porro, rappresenta la possibi-lità di pratiche attive e partecipative di cittadinanza. Entrambe queste sfere, la struttura, dello sport organizzato mutano funzione negli ultimi anni, quando alle tradizionali finalità di coesione sociale, nazionalizzazione autoritaria, in-tegrazione, socializzazione, legittimazione internazionale competitiva si asso-cia la vocazione aziendalistica45.

Le pressioni e i flussi commerciali spingono verso una forte globalizzazio-ne dello sport mentre alcune tradizioni e legami organizzativi spingono e con-fermano le suddivisioni nazionali. Il conflitto costante tra gli obblighi nazio-nali e le competizioni tra club, le dissonanze cognitive dei campioni combat-tuti tra obblighi campalinistici della maglia e contratto miliardario, tra la «le-altà verso la squadra» e le aspirazioni professionali: scegliere tra il disputare

44 (Porro 1995, 28) 45 (Porro 1995, 173-216). Il mondo dello sport spettacolare e mediato ci sembra rappresentare con tutta evi-denza e con meccanismi più semplici quanto enfatizzati. Lo sport è semplicemente estremo. Narra i conflitti del mondo, li esaspera teatralizzandoli, mettendoli in luce senza sovrastrutture o schermi ideologici. Nella loro apparente innocenza gli interessi, i conflitti, i meccanismi vengono continuamente illustrati e confer-mati. È solo un gioco. L’esempio sportivo lo si assicura non è collegato a (troppo) italiche passioni perso-nali di chi scrive, verso cui vi assicuriamo c’è invece un completo disinteresse. 47 (Bauman 1992; Abruzzese 1996)

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la partita di Coppa Uefa con la squadra di club o il torneo di qualificazione agli europei rappresentano questi conflitti in maniera egregia. Allo stesso mo-do le squadre sono spesso costrette a dover cedere la “bandiera” per obblighi di bilancio o per esigenze tecniche. Il rituale dell’inno nazionale versus gli sponsor transazionali. Il club versus la nazionale. Il prestigio versus il denaro. L’appartenenza versus il successo.

Spesso le questioni sono ancora più complesse. I piani su cui si giocano gli interessi e le scelte sono molteplici, includono interessi commerciali delle compagini nazionali, preferenze personali, obblighi familiari, incompatibilità ideosincratiche, motivi indicibili. Queste contraddizioni producono effetti stranianti, a volte persino comici: il bambino appassionato di Ronaldo che quindi tiferà Brasile e non Italia ai mondiali, il lutto sportivo nazionale per la tragica morte del pilota di Formula 1 Ayrton Senna (brasiliano in corsa per una scuderia inglese), le bandiere brasiliane o giapponesi esposte a Roma du-rante i campionati mondiali in appoggio agli “stranieri” della squadra della propria città. Si produce allora una disgiunzione tra la figura del cittadino e quella del consumatore, tra gli interessi e le identità nazionali del primo e quelle transnazionali del secondo47. Il cittadino risponde all’ordine delle isti-tuzioni statuali, all’organizzazione verticale e all’individualità organizzata e stabile, il consumatore risponde alle sollecitazioni spettacolari e edonistiche dei flussi di consumo, di appartenenze multiple e «tribali»48. È forse nel corto

48 (Maffesoli 2000). Arjun Appadurai ha fornito un nodo concettuale molto efficace per rappresen-tare queste contraddizioni, queste discrasie tra processi, tra «flussi globali» disgiunti. Infatti tali dimensioni, «panorami», del flusso culturale della globalizzazione non viaggiano più necessa-riamente in modo parallelo, nelle stesse direzioni. Le appartenenze diventano molteplici e spesso in contraddizione se non in conflitto. I diversi interessi entrano in conflitto. Il potente motore mo-derno della deterritorializzazione non produce quindi le stesse conseguenze in tutti i luoghi e per tutte queste dimensioni dell’esperienza. Se la deterritorializzazione dell’economia e delle tecno-logie (finanscape e technospapes) produce il superamento delle «comunità immaginate» nazionali, dove ad esempio delle ricostruzioni comunitarie diasporiche possono ricomporre tali identità a distanza (Appadurai 1996). Allo stesso modo i «mondi immaginati» costruiti intorno alle comme-ricalizzazione di beni di consumo globalizzati, o dalla produzione diffusa internazionalmente di beni immateriali, rappresentazioni, racconti prodotti dalle industrie culturali, dall’informazione o dalla pubblicità (Mediascapes) può entrare in conflitto con gli apparati statuali, o con le ideologie politiche “locali” (Ideoscapes). Vincoli e limiti alle deterritorializzazione possono essere stringenti per un tipo di flusso, quello delle persone rappresentato dal turismo o principalmente dalle mi-grazioni, ma essere contemporaneamente debole per quanto riguarda le rappresentazioni collettive o le merci. A loro volta le popolazioni migrate, ricostruite “a distanza” da queste diaspore, pos-sono ricostruire origini e rappresentazioni ricostruite o immaginate tramite idee «messe in scena» sui mediascapes (Beck 1994, 46) – quelle che Rushdie chiama le «Indie della mente». Tali complesso di raffigurazioni può diventare a sua volta un arma politica e costituirsi come ideoscapes in oppo-sizione ai fondamenti nazionali dei paesi ospitanti.

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circuito tra questi due meccanismi di produzione spettacolare che una comu-nicazione interculturale ha le maggiori possibilità di riuscita evitando di foca-lizzarsi solo su di una dimensione informativa e razionale del confronto tra culture e, soprattutto, del funzionamento dei media.

6. La contaminazione delle identità: la paura di non essere quello che si dovrebbe

Mi sta accadendo qualcosa. Non sono il Jedi che dovrei essere. Voglio di più. E so che non dovrei. Il giovane Anakin Skywalker, Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith

L’analisi della costruzione di tali immaginari non può quindi prescindere

dalla ricognizione di questi apparati nazionali, dalla composizione della sua manodopera, della provenienza delle sue materie prime alla prefigurazione del suo pubblico, dall’influenza della sua direzione fino alla quotidiana banalità delle sue abitudini. In sostanza la spiegazione degli etnocentrismi, o dei sem-plici stereotipi, costruiti dai media non può che passare per la ricognizione delle modalità della loro costruzione. Come abbiamo visto queste possono ar-ticolarsi lungo due direttrici: a) l’uso dei cliché adoperati dall’informazione per raccontare qualsiasi avvenimento; b) l’adozione consapevole di retoriche nazionali o etichette linguistiche per connotare in modo più marcato gli avve-nimenti.

Nel primo caso il comportamento giornalistico risponde semplicemente al-le “regole” del linguaggio giornalistico e alla strutturazione del suo sistema. Nella narrazione prevale allora una sorta di «deformazione inconsapevole» (Altheide) di fatti trattati in modo routinario dove tematizzazioni, formule lin-guistiche e un consolidato «magazzino degli stereotipi» domina la trattazione. Nel secondo, la consapevolezza può condurre sia ad una appropriata attenzio-ne alla correttezza nel linguaggio, sia alla deformazione intenzionale dove,

Come ribadisce John Tomplinson «i fenomeni globalizzanti sono, essenzialmente, complessi e

pluridimensionali» (1999:27). Eppure il giornalismo, almeno italiano, mantiene una ferrea appar-tenenza territoriale. Tanto da chiedersi il perché. Molte sarebbero le ipotesi (Boni 2005). Seguen-do, ad esempio, gli studi italiani di Milly Buonanno (1988) sul carattere di élite maschile della composizione del campo giornalistico oppure quelli noti di Teun van Dijk (1991) proprio sugli atteggiamenti discriminatori verso migranti e minoranze etniche indicano queste variabili. 50 «In modo del tutto semplificato è possibile riassumere i risultati di oltre quindici anni di ricerche sul rap-porto media e immigrazione dividendo la rappresentazione dell’immigrazione come tema, come fenomeno, e delle immigrate e degli immigrati come persone, come protagonisti delle notizie. Da una parte abbiamo la cornice simbolica attraverso cui «il fenomeno migratorio» è definito, dall’altra le modalità attraverso cui “lo straniero” è raffigurato». (Binotto 2006, 16-17)

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come si è visto, la costruzione di immaginari nazionali, ma anche il posizio-namento della testata, possono indurre ad accentuare paure e pregiudizi. Sarà ormai chiaro, dalla descrizione delle pagine precedenti, come la scelta di una delle due non garantisce la soluzione del problema. Ad ognuna corrisponde una serie di modelli dominanti di trattazione ma anche alcune possibili affermative action.

La prima costruisce nello stesso tempo la consapevolezza cosmopolita del cittadino occidentale ma anche i «timori panici» che lo attanagliano: la sensa-zione, globale, di essere assediato da notizie e pericoli. La rappresentazione di un mondo unito, ma rischioso. La seconda costruisce una «parata di noti-zie» che fonda le differenze tra un etnia ed un’altra, tra una religione ed u-n’altra, tra le civiltà “in gioco”. Il primo è quello che costituisce lo sfondo quotidiano della cronaca su cui si fondano i casi eccezionali. Lo sfondo si co-struisce sul timore dell’aggressione, il secondo ne costruisce sia le effigi sim-boliche che il passaggio alla paura dell’invasione.

La rappresentazione mediale delle persone immigrate in Italia50, secondo una consolidata tradizione di ricerca comune a molti paesi europei, è tuttora costruita intorno a stereotipi, che costruiscono un’immagine,

oggi più che prima, distorta e parziale, relegata quasi totalmente nella cronaca e quasi sempre nella vicenda negativa. La nazionalità diventa l’elemento principale che qualifica l’immigrato raccontato dalla TV, seguito poi dalla sua condizione di regola-rità o meno di soggiorno sul territorio.51

La nazionalità, l’«origine etnica» o lo status giuridico essendo spesso le uniche informazioni disponibili sui protagonisti delle vicende diventano la trama che collega ogni singolo episodio trasformando le pagine dei giornali, spesso locali, in inventari della «criminalità immigrata».

Basta fare una piccola rassegna stampa su Internet, in un giorno qualunque (per esempio martedì 7 ottobre) per scoprire un arcipelago di notizie che, a ben vedere, no-tizie non sono. Articoli, brevi, cronache varie in poche righe, in cui la “notizia” vera e sola, l’unico – per così dire – spunto giornalistico è la provenienza dei protagonisti della vicenda. “Senegalese sorpreso con dvd contraffatti”; “Ladro di polli ucraino ar-restato dai carabinieri”; “Scopre un immigrato con la bici rubata alla madre tre giorni

51 (Caritas, OIM et al. 2005, 42)

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prima”; “Un camionista preso a sprangate da immigrato”; “Croato in cella”; “Cd e borse contraffatte, senegalese denunciato”.52

La cronaca quotidiana, i piccoli e grandi fatti di criminalità riportati dalla stampa e dalla televisione costituiscono in questo modo quello che abbiamo chiamato un «rumore di fondo», una «cornice di senso» «distorta e parziale», «sedimentata lentamente e quotidianamente [e] capace di costruire un para-digma, che associa la condizione di straniero - fisiologicamente, potremmo dire – a una minaccia sociale» (ibid.). Averne delineato alcune cause – insite nelle procedure stesse della costruzione delle notizie e nella rete delle fonti – può aiutare nell’indicare le possibili contromisure: - un investimento forte nella formazione degli operatori dell’informazione e

della comunicazione intanto nella direzione della conoscenza e del rispet-to dei codici etico-deontologici e in quelli di autoregolamentazione, ma anche di una conoscenza più circostanziata delle questioni;

- un intervento consapevole e continuo per influenzare l’agenda dei media da parte di istituzioni, comunità e società civile organizzata sia come fon-te che come editore di informazione.

Questo secondo tipo di intervento appare ancor più urgente quando queste notizie passano dalle pagine di cronaca alla prima pagina, quando lo sfondo quasi inavvertito diventa emergenza. Quando l’immigrazione quotidiana di-venta evento. Situazioni in cui la nazionalità del protagonista della vicenda diventa o la scusa per una reazione sopra le righe – è il caso del «Pirata alba-nese» Bita Panajot – o un solito sospetto da incolpare – è il caso ormai storico di Novi Ligure o quello recente della «Strage di Erba». In queste circostanze la grammatica della cronaca e l’imprenditoria, giornalistica o politica, della paura si intrecciano producendo letteralmente mostri.

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52 «L’elenco potrebbe proseguire: qui ci limitiamo a segnalare solo poche tra le notizie nelle quali il titolo stesso segnala la funzione dell’articolo» (Manconi 2003).

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