mensile degli antifascisti di ieri e di oggi · urbani era stata necessaria dall’intensità dei...

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L’editoriale di Antonella Amendola Se penso che il primo direttore è stato Sandro Pertini mi viene un bri- vido e mi sento piccola piccola. Cari lettori, nell’assumere la direzione dell’Antifascista forte è la commo- zione, perché questo giornale ha ac- compagnato la vita della mia famiglia e di tante persone care: lo ricordo nel formato più grande, ben impilato nella severa biblioteca di mio padre Pietro Amendola. Fin da bambina ero curiosa di legger- lo, andavo soprattutto a cercare tra le pagine le fotografie, perché quei volti di persone sobrie, dallo sguar- do leale, sapevano raccontarmi con semplicità e concretezza le mille sto- rie dell’antifascismo italiano, tutte diverse e pur tutte uguali nel comu- ne denominatore di rigore morale e amore per la libertà. L’antifascista è qualcosa di più di una pubblicazione cartacea, è quasi un piccolo organi- smo vivente che racchiude il tesoro inestimabile dell’esperienza vissuta e della memoria: i padri lo consegnano ai figli con trepidazione. Sono passati tanti anni, viviamo in un altro secolo, in un altro millen- nio, eppure quella tragica vicenda di dittatura, violenza, guerra che il no- stro Paese ha vissuto rimane vicina, ancora ci inquieta. Troppo evidente è stata, da parte di certi ambien- ti, in tempi recenti, la tentazione di rovesciare il tavolo delle regole e di oscurare la Costituzione. Troppo smaccata la corsa verso l’illegalità conclamata. Del resto non vivremmo oggi la stagione del governo tecnico se la politica, nel senso più nobile della parola, avesse mantenuto saldo nelle sue mani il governo della diffi- cile situazione. C’è ancora bisogno di antifascisti, cari lettori. Noi siamo sentinelle vi- gili pronte a cogliere i malesseri de- rivanti dal mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze, dai nuovi PORTA S. PAOLO di Mario Tempesta È tra le più imponenti e meglio conservate porte originali dell’intera cerchia muraria di Roma Antica risalente al III secolo d.C., forse sul luogo ov’era la Porta Raudusculana. Ad oriente ed occidente della Piramide Cestia (fatta edificare dal septemviro Caio Cestio Epulone tra il 18 e 12 a.C.) furono costruite due porte che davano il passo alla Via Ostiense, la strada che collega Roma ad Ostia - e quindi al suo antico porto, e ad una sua biforcazione tracciata nell’immediato esterno delle Mura. La duplicazione dell’asse stradale e degli ingressi urbani era stata necessaria dall’intensità dei traffici tra Roma e il Porto di Ostia. E la Piramide, quasi come un immenso spartitraffico, divideva l’ingresso orientale, che dava origine al “Vicus portae Raudusculanae” fino alla sommità dell’Aventino, da quella occidentale che portava alla vera via Ostiense verso gli “horrea”, i granai, della “Marmorata” lungo le sponde del Tevere. Quest’ultima fu edificata come una piccola porta ma venne presto chiusa sia per la crescita d’importanza del porto l’antifascista mensile degli antifascisti di ieri e di oggi Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini anno LIX - n° 1, 2, 3 - Gennaio - Febbraio - Marzo 2012 Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma Attualità Convegno Bufalini a pagina 5 Memorie Renzo Laconi a pagina 16 Cultura Pino Aprile a pagina 8 Noi Garibaldo 100 anni a pagina 18 Lettere ... a Terracciano a pagina 23 Uno storico degno di questo nome non teme di affrontare con coraggio, lucidità, alcun tema, perché egli è mosso, deve essere mosso solo dallo “spirito di verità”, cercando di avvicinarsi con scrupolo di informazione e di metodo, per quanto è possibile (essendo la vicenda storica di una complessità inimmaginabile), sulla 10 febbraio Giorno del ricordo e suoi equivoci Nazionalismi, fascismo, nazismo, comunismo in Venezia Giulia, Istria, Dalamazia di Nicola Terracciano segue a pagina 2 segue a pagina 12 Manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo 2012 I luoghi della storia

Transcript of mensile degli antifascisti di ieri e di oggi · urbani era stata necessaria dall’intensità dei...

L’editorialedi Antonella Amendola

Se penso che il primo direttore è

stato Sandro Pertini mi viene un bri-

vido e mi sento piccola piccola. Cari

lettori, nell’assumere la direzione

dell’Antifascista forte è la commo-

zione, perché questo giornale ha ac-

compagnato la vita della mia famiglia

e di tante persone care: lo ricordo nel

formato più grande, ben impilato

nella severa biblioteca di mio padre

Pietro Amendola.

Fin da bambina ero curiosa di legger-

lo, andavo soprattutto a cercare tra

le pagine le fotografie, perché quei

volti di persone sobrie, dallo sguar-

do leale, sapevano raccontarmi con

semplicità e concretezza le mille sto-

rie dell’antifascismo italiano, tutte

diverse e pur tutte uguali nel comu-

ne denominatore di rigore morale e

amore per la libertà. L’antifascista è

qualcosa di più di una pubblicazione

cartacea, è quasi un piccolo organi-

smo vivente che racchiude il tesoro

inestimabile dell’esperienza vissuta e

della memoria: i padri lo consegnano

ai figli con trepidazione.

Sono passati tanti anni, viviamo in

un altro secolo, in un altro millen-

nio, eppure quella tragica vicenda di

dittatura, violenza, guerra che il no-

stro Paese ha vissuto rimane vicina,

ancora ci inquieta. Troppo evidente

è stata, da parte di certi ambien-

ti, in tempi recenti, la tentazione di

rovesciare il tavolo delle regole e di

oscurare la Costituzione. Troppo

smaccata la corsa verso l’illegalità

conclamata. Del resto non vivremmo

oggi la stagione del governo tecnico

se la politica, nel senso più nobile

della parola, avesse mantenuto saldo

nelle sue mani il governo della diffi-

cile situazione.

C’è ancora bisogno di antifascisti,

cari lettori. Noi siamo sentinelle vi-

gili pronte a cogliere i malesseri de-

rivanti dal mancato riconoscimento

dei diritti delle minoranze, dai nuovi

PORTA S. PAOLOdi Mario Tempesta

È tra le più imponenti e meglio conservate porte originali

dell’intera cerchia muraria di Roma Antica risalente al III

secolo d.C., forse sul luogo ov’era la Porta Raudusculana. Ad

oriente ed occidente della Piramide Cestia (fatta edificare

dal septemviro Caio Cestio Epulone tra il 18 e 12 a.C.) furono

costruite due porte che davano il passo alla Via Ostiense, la

strada che collega Roma ad Ostia - e quindi al suo antico porto,

e ad una sua biforcazione tracciata nell’immediato esterno

delle Mura. La duplicazione dell’asse stradale e degli ingressi

urbani era stata necessaria dall’intensità dei traffici tra Roma

e il Porto di Ostia. E la Piramide, quasi come un immenso

spartitraffico, divideva l’ingresso orientale, che dava origine al

“Vicus portae Raudusculanae” fino alla sommità dell’Aventino,

da quella occidentale che portava alla vera via Ostiense verso

gli “horrea”, i granai, della “Marmorata” lungo le sponde del

Tevere. Quest’ultima fu edificata come una piccola porta ma

venne presto chiusa sia per la crescita d’importanza del porto

l’antifascistamensile degli antifascisti di ieri e di oggi

Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini anno LIX - n° 1, 2, 3 - Gennaio - Febbraio - Marzo 2012

Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma

AttualitàConvegno Bufalinia pagina 5

MemorieRenzo Laconia pagina 16

CulturaPino Aprilea pagina 8

NoiGaribaldo 100 annia pagina 18

Lettere... a Terracciano a pagina 23

Uno storico degno di questo nome non teme di affrontare con coraggio, lucidità, alcun tema, perché egli è mosso, deve essere mosso solo dallo “spirito di verità”, cercando di avvicinarsi con scrupolo di informazione e di metodo, per quanto è possibile (essendo la vicenda storica di una complessità inimmaginabile), sulla

10 febbraio Giorno del ricordo e suoi equivociNazionalismi, fascismo, nazismo, comunismo in Venezia Giulia, Istria, Dalamazia

di Nicola Terracciano

segue a pagina 2

segue a pagina 12

Manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo 2012

I luoghi della storia

2

L’editorialerazzismi, dalle politiche che non

perseguono l’interesse nazionale, la

promozione del lavoro, dei giovani,

delle donne, ma solo i propri miopi

interessi di cassetta, la disgregazione

territoriale.

Troverete un giornale rinnovato e

più ricco di rubriche, più al passo coi

tempi. Ma come sempre il meglio ar-

riverà da voi, con i vostri contributi,

con la testimonianza della vita asso-

ciativa dell’Anppia, il cui presidente

Guido Albertelli voglio oggi ringra-

ziare per la fiducia che mi dà.

Ricordatevi che i grandi protagoni-

sti che hanno qualcosa da insegnare

siete voi.

base di documenti (senza documenti non c’è storia, ma altra cosa), a come sono andati “realmente”, “veramente” i fatti.

Le vicende storiche che hanno toccato le comunità di cultura, di lingua italiane in Venezia Giulia (con epicentro Trieste), l’Istria (con epicentro Pola e Fiume), la Dalmazia (con epicentro Zara e Spalato) sono complesse e intricate ed ancora oggi dividono e arroventano la memoria collettiva.

Quelle aree hanno conosciuto inse-diamenti di origine veneziana, quindi di cultura italiana, dall’epoca medie-vale, legati all’espansione economica, culturale della “Serenissima Repub-blica di Venezia”, che aveva il dominio dell’Adriatico, divenuto per secoli quasi un lago veneziano, contenden-dolo da un lato al mondo musulmano e dall’altro al mondo austriaco, che si era impadronito dell’area di Trie-ste dal 1382 (che conserverà tuttavia una larga autonomia e rivendicherà sempre la sua appartenenza, a partire dalla lingua, alla civiltà italiana) e poi di quasi tutta l’area iugoslava odierna (dalla Slovenia, alla Croazia, alla Serbia).

Nei secoli le comunità di civiltà italiana si sono concentrati nell’area costiera, distinguendosi socialmente ed economicamente dalle aree interne, abitate da comunità slovene, croate, serbe, montenegrine, di diversa cultura, religione (ortodossa, islamica), di diversa economia, contadina, più che cittadina e commerciale.

Questo dualismo, pur implicando uno strisciante stato endemico di tensione, non aveva provocato situa-zioni conflittuali clamorose fino alla crisi dell’impero multietnico austriaco che, di fronte al processo nazionale italiano ottocentesco, per contrastarlo, appoggiò da un lato un sentimento-anti-italiano negli sloveni e nei croati, largamente utilizzati nella repressione dei moti nazionali italiani, sia alimentando un nazio-nalismo serbo, sempre in funzione anti-italiana, secondo la tattica antica del dividere, per continuare a gover-nare quel complesso impero di origine medievale.

Risale quindi all’Austria, nella sua opposizione al processo di unifica-zione italiana, la prima lucida politica di aizzamento degli odi tra italiani e sloveni, croati, serbi, che avrà altri dolorosi capitoli tra Ottocento e Nove-cento.

Si ebbero interventi repressivi contro l’identità italiana delle comu-nità esistenti all’interno dell’impero asburgico, colpendo scuole, tradizioni, ruoli sociali, suscitando per reazione nelle comunità italiane quel fenomeno storico che si chiama “irredentismo”, il desiderio cioè di ricongiungersi alla madrepatria italiana, a quella civiltà italiana, che erano la matrice della loro identità storica.

L’Italia nello slancio ancora risor-gimentale rispose a quell’appello entrando per questo motivo nella I guerra mondiale, accettata e sentita come quarta guerra di indipendenza dall’Austria, per completare il processo di unificazione con il ritorno del Tren-tino, della Venezia Giulia, dell’Istria e delle comunità costiere della Dalma-zia. Questa era la sostanza dell’accordo segreto di Londra, col quale nel 1915 il Regno d’Italia entrò in guerra contro l’Austria, la Germania, la Turchia.

La vittoria con un prezzo inimmagi-nabile di sacrifici e di morti (600.000 morti e 1.200.000 feriti su una popo-lazione intorno ai venti milioni, che provocò una voragine generazio-nale, delle migliori energie giovanili del paese, che fu la causa profonda della crisi del dopoguerra) significò il sostanziale compimento del Risor-gimento con il ricongiungimento di Trento, Trieste, Gorizia, l’Istria, ma con limitazioni nei confronti degli accordi, nel senso che rimasero fuori le comunità dalmate, compensate con

la conquista dell’Alto Adige, del Sud Tirolo austriaco.

Si aprì allora una divisione poli-tica ed ideologica nel paese, con il mito falso della “vittoria muti-lata”, portata avanti da ambienti nazionalisti (si pensi a D’Annun-zio) e del primo fascismo, che arroventò i rapporti tra il Regno d’Italia ed il neonato Regno di Iugo-slavia, che rivendicava secondo lo stesso principio nazionale richia-mato dagli italiani la maggioritaria presenza croata, slava da Fiume in giù, appoggiato dalle altre potenze vincitrici come Francia, Inghilterra, Stati Uniti (col presidente Wilson).

Sarebbe occorso il prevalere della linea della preveggente saggezza di un Gaetano Salvemini, che propo-neva (con accuse isteriche subìte di “disfattista”) di cedere l’Alto Adige, meglio Sud Tirolo, territorio sostan-zialmente austriaco, di lingua e cultura tedesche (come è anche oggi) e richiedere dall’alto di questo comportamento il riconoscimento dei diritti storici delle comunità italiane costiere della Dalmazia.

Invece prevalse un atteggiamento accesamente nazionalista italiano, accortamente utilizzato dal fasci-smo nella sua propaganda e nel suo affermarsi. Mussolini definiva gli slavi barbari, il cui numero non poteva essere titolo di diritti contro gli esponenti minoritari della seco-lare civiltà italiana.

Quando ci fu l’avvento pieno del totalitarismo nero, fu attuata “una italianizzazione forzata e violenta” di tutti i territori conquistati con la I guerra mondiale, dall’Alto Adige, all’Istria, colpendo l’uso della lingua, i sistemi scolastici, le forme organizzative austriache, slovene, croate, slave, suscitando una reazione sorda anti-italiana e antifascista, ponendo le basi delle tragedie successive.

Risale quindi al fascismo in modo massiccio e diretto la principale responsabilità delle sanguinose vicende dei decenni successivi.

Con la conquista della Iugosla-via nel 1941 tra Germania nazista e Italia fascista, ci fu un ulteriore processo di italianizzazione forzata, estesa alla Slovenia, ad aree croate, che non poteva non suscitare, come in altre aree dell’Europa, una “Resi-stenza iugoslava” che ebbe varie

Attualità

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componenti ideologiche e politiche (dagli autonomisti ai comunisti, ai socialisti, ai monarchici).

La repressione fascista fu durissima con crimini di guerra (fucilazioni, distruzioni di villaggi con eccidi di bambini, donne, bambini), per i quali la Iugoslavia ha invano nel dopoguerra richie-sto di processore criminali italiani, come il generale Roatta (già impli-cato nel delitto fascista dei Fratelli Rosselli in Francia).

Il baratro degli odi tra italiani, visti tutti come fascisti assassini direttamente o complici, e l’ele-mento sloveno, croato, serbo si accrebbe, fino a divenire un abisso, che fu alla base degli eccidi degli anni successivi, così come avvenne in tante altre parti dell’Europa orientale.

Sono stati il fascismo, anzi-tutto, soprattutto, e il nazismo, ad essere responsabili di fronte al tribunale della storia e dell’u-manità, perché sono stati essi con i loro comportamenti storici di violenza e prepotenza disumane a creare le condizioni storiche tragi-che e terribili delle rese di conti, delle vendette che da parte slovena, croata, serba, si sono avute negli anni successivi.

Il fascismo si rese ulterior-mente responsabile anche dopo la sua caduta a Roma nel luglio 1943,

quando Mussolini, liberato da Hitler, costituì nel Centro-Nord la nuova versione fascista-nazista della Repub-blica Sociale di Salò, attuando con i nazisti ulteriori crimini, collaborando anche per lo sterminio degli ebrei, per la Shoah, che si svolse anche in territo-rio italiano con il campo di sterminio della Risiera di San Saba a Trieste.

La Resistenza iugoslava, special-mente nella sua componente comunista, che faceva capo a Tito, portò avanti azioni di vendetta in modo maggioritario contro fasci-sti che si erano macchiati di crimini o di attiva complicità con il regime, ma coinvolse anche innocenti, che furono atrocemente massacrati e buttati negli inghiottitoi carsici dell’area, chiamati, “foibe”, o annegandoli con pietra al collo lungo la costa.

Le cifre parlano di 5.000-15.000 vittime tra il 1943-1945, comprendendo anche quelli che furono mandati in campi di concentramento, dove mori-rono per le condizioni drammatiche di quegli ambienti.

Già allora cominciò il primo esodo giuliano-dalmata, quello che si defini-sce “l’esodo nero”, cioè di quei fascisti direttamente o indirettamente respon-sabili di crimini e azioni poco chiare, che scapparono.

Gli aspetti atroci di quelle vendette e del successivo tragico fenomeno dell’esodo di circa 250.000 italiani della Venezia Giulia, dell’Istria, della

Dalmazia dopo il 1945 e fino al 1956 sono da imputare al totalitarismo comunista iugoslavo, che impose un regime unico violento e una slaviz-zazione forzata di quei territori, coinvolgendo nella repressione non solo gli italiani, ma anche gli opposi-tori anti-comunisti.

Quei 250.000 italiani costretti all’e-sodo furono ospitati in 109 campi disseminati in varie parti d’Italia o emigrarono in altri paesi, integrandosi a poco a poco nella Comunità italiana, pur con episodi e momenti infami di settori della componente comunista italiana, che li giudicava con gli occhi ideologici di filo-fascisti o di antico-munisti.

Quindi nella fase finale delle vendette atroci e dell’esodo è stato il terzo tragico totalitarismo del Nove-cento, quello comunista, pur nella versione titoista, non russa, (che portò simpatie occidentali ad esso e quindi tendenza a non chiamarlo al tribunale della storia) ad essere il responsa-bile, accanto al fascismo, al nazismo già richiamati, a provocare la tragedia giuliano-dalmata.

Essa non può assolutamente essere messa a confronto con la Shoah, sia per le dimensioni numeriche (si pensi solo ai 6 milioni di morti ebrei, di cui due milioni di bambini), sia per le forme demoniache di eliminazione, sia perché gli ebrei non si erano macchiati di alcun fenomeno di violenza contro

La scomparsa di Giorgio Bocca

Era un giornalista non comune. Non comune per molti aspetti. Per esempio era sincero, roccioso, presuntuoso. Un po’ il carattere

degli uomini piemontesi di Giustizia e Libertà che frequentò durante la Resistenza, periodo formativo della sua giovinezza.

Di fatto quando incontrava una persona che non gli piaceva, sparava con la penna e così si fece molti nemici. Il suo pregio era la since-

rità, l’amore per la verità e la ricerca della documentazione

Quello che pochi giornalisti hanno, come lui, è l’efficacia dello scritto, la sintesi del pensiero, il destare piacere nella lettura.

Viveva negli ultimi anni in un Paese che non sentiva suo, così lontano

da quello per cui aveva combattuto, così che la denuncia era l’aspetto

più comune nei suoi articoli. Nei suoi libri più recenti predominante

era l’amore per la sua terra, per i posti nei quali aveva fatto il par-

tigiano, le montagne dove d’inverno è freddo, il mitra nella neve e

dove nei casali dei contadini si poteva trovare un po’ di caldo, senza

paura del tradimento.

Noi antifascisti l’abbiamo amato perché lo sentivamo nostro e nostre

sentivamo le sue battaglie giornalistiche contro il sistema senza ide-

ali che ci attanaglia da anni.

Bocca assomigliava molto a Enzo Biagi nella qualità della persona

e nel coraggio rispetto ai potenti. Non per caso entrambi facevano

parte delle formazioni Giustizia e Libertà.

Guido Albertelli

Giorgio Bocca

Attualità

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i tedeschi, gli italiani, gli austriaci, i polacchi o altri popoli che in modo diretto o indiretto collaborarono allo sterminio.

Chiunque compie questo paragone è un infame di fronte alla storia e all’u-manità.

Gli unici che non possono e non devono ricordare la tragedia giuliano-dalamata sono i fascisti e loro eredi, perché sono essi i principali respon-sabili, con i nazisti e i comunisti, di quell’evento. Possono farlo con spirito di umanità e di giustizia storica solo quelli che non sono stati e non sono fascisti-postfascisti, clericali, comuni-sti-postcomunisti.

È giusto il “Giorno del Ricordo”, è giusto che un popolo si pieghi a esplo-rare momenti neri e duri della propria storia, ma non doveva essere scelto il 10 febbraio, sia perché troppo vicino al 27 gennaio, “Giorno della Memo-ria” della Shoah, sia perché contesta sostanzialmente (in modo equivoco e indegno) quel trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e le Potenze Alleate, che è vero segnò la concessione di quelle aree alla Iugosla-via, come avvenne per decine e decine di aree dell’Europa (si pensi al ritorno di aree tedesche alla Polonia), ma non implicò ad esempio la divisione dell’I-talia, come avvenne per la Germania.

L’Italia, pur essendo una delle principali responsabili con il suo tota-litarismo fascista della più devastante e disumana guerra della storia, alleata con il totalitarismo nazista di Hitler e di Auschwitz, del militarismo giappo-nese, non fu punita con la divisione del paese, come avvenne per la Germania, ad esempio, e quindi quel trattato del

10 febbraio non va condannato e colle-gato ad un evento di disumanità. Era il massimo che si poteva concedere ad una nazione responsabile e sconfitta e l’Italia fu salvata da altre punizioni giuste solo per la dignità di popolo espressa dall’antifascismo e dalla Resistenza, come richiamarono solen-nemente i presidenti del consiglio dopo la Liberazione, Ferruccio Parri, uno dei capi della Resistenza, ed Alcide De Gasperi, che firmò a Parigi il trattato.

Il “Giorno del Ricordo”, pur dove-roso, anche per l’ostracismo che veniva e viene dal mondo comunista e post-comunista e dagli ambienti militari, doveva avere altra data, altro richiamo e stare lontano dal 27 gennaio.

Esso è stato volpinamente, machia-vellicamente approvato come legge della Repubblica del 30 marzo 2004 n. 92 con il II Governo Berlusconi, che aveva l’appoggio di forze di deri-vazione fascista o post-fascista (e le doveva quindi assecondare e premiare) e al suo interno anche fascisti espliciti (come Tremaglia) o post-fascisti (come Fini, Alemanno, Gasparri), clericali come Buttiglione, leghisti indegni, nemici dell’Italia, che hanno appog-giato ogni iniziativa che implicava e implica critica all’Italia come nazione, trasformisti e traditori di tutte le risme, incapaci di uno scatto di dignità di fronte alla propria storia e alla storia del proprio paese.

Fascisti, post-fascisti, clericali, leghi-sti si sono impadroniti di un evento, così strumentalizzandolo e offendendolo, che potesse servire ad oscurare o atte-nuare soprattutto, anzitutto l’effetto dirompente annuale del “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, che chiama

continuamente e giustamente e impietosamente al tribunale della memoria e della storia fascisti e cleri-cali, qualunquisti e opportunisti.

Come ulteriore tentativo volpino, machiavellico, di contrapporsi al 27 gennaio, quel governo ha approvato e considerato il 10 febbraio come “solennità civile” (art. 1, comma 3), qualifica e riconoscimento che non ha il “Giorno della Memoria” della Shoah (vedi il testo della legge 20 luglio 2000, n.211).

Il fatto che il 10 febbraio sia solen-nizzato spesso solo da ambienti fascisti, post-fascisti e clericali (che non hanno nessun titolo a farlo, anzi sono i responsabili di quella tragedia), nell’ostracismo, nel disinteresse delle forze comu-niste e post-comuniste, testimonia come su questa vicenda ci sia non un doveroso e solenne impegno di verità e di umanità, ma sostanzial-mente, secondo una considerazione personale, una lotta sorda e infame ideologica, di potere e di memo-ria tra l’egemone potere possente clerical-fascista-postfascista e suoi servi o utilizzatori opportuni-sti (tipo Berlusconi col codazzo di traditori di tutte le risme del suo governo e del suo schieramento, tipo Bossi col suo infame leghismo secessionista), interessati soprat-tutto ad allontanare al massimo da sé il collegamento con la Shoah e ad appiattire antistoricamente fasci-smo, nazismo, comunismo, quando il comunismo è stato dal 1941 al 1945 in prima linea alleato di Stati Uniti, Inghilterra, Francia contro nazismo, fascismo, militarismo giapponese con un costo di milioni e milioni di morti e che il campo di sterminio nazista di Auschwitz fu liberato emblematicamente dall’Armata Rossa, e il mondo comunista-post-comunista, fero-cemente attaccato al suo potere, ancora possente e pervasivo, inca-pace di una doverosa autocritica feroce di tanti aspetti tragici del passato comunista, leninista e stali-nista, nazionale e internazionale.

Resti dalle foibe da: blog.armandoleotta.com

Attualità

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Un convegno di successo nel decennale della scomparsaPaolo Bufalini e la costruzione dell’Italia democraticaNegli interventi ricordato l’antifascista, l’uomo politico, l’umanista

di Jolanda Bufalini

Il 15 dicembre 2011 si è tenuto a palazzo Giustiniani un convegno in ricordo di Paolo Bufalini a 10 anni dalla morte. L’iniziativa si è svolta a palazzo Giustiniani, in una affollata sala Zuccari. La prestigiosa sede del Senato è stata scelta e concessa perché Paolo Bufalini è stato senatore dal 1963 al 1992: trenta anni cruciali della prima repubblica durante

i quali egli ha dato il suo contributo alla costruzione della democrazia e di una maggiore giustizia sociale, in battaglie epocali che vanno dalla difesa dei braccianti agricoli di Avola, contro cui, il 2 dicembre 1968, la polizia aprì il fuoco, all’impegno per il superamento della Guerra Fredda, al lavoro – in collaborazione con il presidente del Consiglio di allora Bettino Craxi, per il nuovo Concordato. Tante erano le persone arrivate da Roma, i tanti che sono stati suoi compagni di partito o anche avversari ma che avevano nei suoi confronti stima e affetto (cito fra gli altri Alfredo Reichlin, Antonio Rubbi, Mario Quattrucci, Gianni Cervetti, Giulio Spallone, Bice e Franca Chiaromonte, Marisa Rodano, sapendo di fare torto ai moltissimi che ci hanno onorato della loro presenza), tanti giovani come l’attuale segretario del Pd romano Marco Miccoli, dalla Sicilia (Mimmi Bacchi, Simona Mafai, Marina Marconi), dall’Abruzzo (dove papà è ricordato in particolare per le lotte nelle terre dei Torlonia, nel Fucino, e dove, ora, mio fratello Marcello svolge principalmente la sua attività di musicista), da Bologna, dove viveva mio fratello Delio e, poiché i nipoti di Paolo sono sparsi a studiare in diversi paesi d’Europa, Alessandro Bufalini e Luca Mazzacuva sono arrivati dalla Spagna e dall’Olanda, Francesco Mazzacuva da Milano.

Giovani e anziani mescolati, in una combinazione che apre il cuore perché tiene insieme, nel ricordo di una persona a molti cara, la storia di generazioni diverse. Tanta era la gente, che era affollata anche una saletta adiacente collegata in video-conferenza.

Il convegno è stato il frutto di una mia proposta a cui hanno risposto con entusiasmo e prontezza Guido Albertelli, presidente dell’Anppia e Giuseppe Vacca, presidente del Gramsci, e si è avvalso della preziosa collaborazione di Giovanni Matteoli, che è stato per molti anni stretto collaboratore di Paolo e ora lavora presso la presidenza della Repubblica nello staff di Giorgio Napoli-tano, di Silvio Pons (direttore della fondazione Gramsci), di Giuseppe Mennella, funzionario alla presidenza del Senato, di Simonetta Carolini dell’Anppia, di Franca Franchi del Gramsci.

In prima fila, su uno scranno al centro della Sala sedeva, ad ascoltare il contributo dei relatori, il capo dello Stato Gior-gio Napolitano, che con Paolo ha condiviso, nel Pci, battaglie e impostazione ideale, entrambi collocati nell’area riformista di quel grande partito che ha organizzato nell’antifascismo e nei primi 50 anni della Repubblica il mondo del lavoro. In sala c’erano anche Clio e il figlio maggiore di Napolitano, Giovanni, coetaneo e amico, soprattutto, di mio fratello Marcello: il rapporto fra le famiglie Napolitano e Bufalini, infatti, è stato non solo politico ma di amicizia e consuetudine di incontri, nelle case o anche, in occasione di festività, di pranzi insieme.

Il mondo di relazioni amicali di mio padre era vastissimo, non solo politico perché egli era persona di grande cultura. Non dico un intellettuale perché Paolo considerava la sua posizione di politico colto come “superiore” a quella dell’intel-lettuale puro, che spesso – secondo la sua idea – con l’impoliticità pecca di schematismo. Fra i suoi amici c’erano poeti, come Michele Parrella e storici (Santo Mazzarino, Paolo Spriano, Giuseppe Boffa), artisti (Renato Guttuso). Nel tempo che io ricordo, le sue frequentazioni più assidue alle quali alla passione politica si combinava l’amicizia che coinvolgeva le famiglie erano queste: Giorgio e Pietro Amendola, Enrico e Letizia Berlinguer, Maurizio e Marcella Ferrara, Franco e Giuliana Ferri, Pietro e Laura Ingrao, Pio e Giuseppina La Torre, Emanuele Macaluso, Giorgio e Clio Napolitano, Anto-nello e Fulvia Trombadori. Un gruppo di romani: Annamaria Ciai e Renzo Trivelli, Claudio Verdini e Giuliana Gioggi. Il medico di Togliatti, Mario Spallone e il compagno di lotte in Abruzzo, Giulio Spallone. Prima del 1968 c’era anche Aldo Natoli, ancora negli album fotografici ci siamo noi ragazzini con i figli dei Natoli. Ma con la scissione del Manife-sto i rapporti si interruppero, tale era la durezza dell’epoca. Prima ancora, a Palermo, i Colajanni, Panzieri, Lombardo Radice. Una grande amicizia ci fu a Roma con Pancrazio De Pasquale che le lotte politiche interne avevano allontanato da Palermo quando mio padre vi arrivò

Al convegno del 15 dicembre 2011 gli oratori che hanno rievocato le diverse fasi della vita di Bufalini sono stati il presi-dente del Senato Renato Schifani, la presidente del gruppo Pd Anna Finocchiaro, Emanuele Macaluso, Albertina Vittoria,

Il presidente Napolitano saluta i relatori prima del convegno dal sito del Quirinale

Attualità

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Nicola Mancino, Ivano Dionigi, Gennaro Acquaviva, Guido Albertelli, Giuseppe Vacca; non mi dilungo sugli interventi perché l’Anppia sta preparando la pubblicazione degli atti.

Il presidente della Repubblica non ha parlato in quella occasione ma ha trovato il modo di ricordare Paolo Bufalini poco dopo, in occasione della cerimonia per la laurea honoris causa tributatagli dalla Università di Bologna. Riportiamo dall’articolo di Ilaria Venturi apparso su Repubblica Bolo-gna il 30 gennaio 2012: “Napolitano ha tenuto a far avere al rettore Ivano Dionigi anche un altro testo, ricordando il comune interesse intellettuale che li lega alla figura del senatore Paolo Bufalini: l’Ode rivolta a Mecenate di Orazio tradotta dallo stesso Bufalini «curando sino alle sfumature». Il Capo dello Stato ha concluso la sua lezione magistrale non a caso ricordando Nino Andreatta e Paolo Bufalini per «la stesura della risoluzione in Senato nell’autunno del 1977 con cui per la prima volta anche il maggior partito della sinistra italiana si riconobbe nell’impegno europeistico e nell’alle-anza Nato». Il Centro studi per la permanenza del classico dell’Ateneo di Bologna, fondato da Dionigi e ora diretto dai suoi allievi, sta pubblicando la nuova edizione delle tradu-zioni di Orazio e i quaderni con gli appunti personali dello stesso Bufalini. Per questo Napolitano ha anche portato una dedica a lui dello stesso Bufalini in latino, elogio a un suo discorso: «Tibi gratulor mihi gaudeo».

Toponomastica “romana”: intitoliamo una strada al fascista e razzista Giorgio Almirante

Il sindaco di Roma, Alemanno, ha riproposto di intitolargli una via

Il segretario de La Destra, France-sco Storace, ha chiesto al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, di mante-nere la promessa fatta ai suoi elettori di intitolare una via della città a Gior-gio Almirante.

Gli antifascisti e i democratici tutti non possono ignorare i trascorsi di Almirante. Questi fu segretario de La difesa della razza, rivista quindici-nale che apparve tra il 1938 e il 1943, espressione del più convinto razzismo del regime fascista. Fu caporedat-tore della rivista Il Tevere - periodico che si distinse per una campagna anti ebraica prima ancora della promul-gazione delle leggi razziali - e tra i firmatari del Manifesto della razza, precursore delle leggi razziali mede-sime.

Dopo l’8 settembre, Almirante aderì alla famigerata Repubblica di Salò - i cui scherani, al fianco dei nazisti, carceravano, fucilavano e deportavano partigiani e patrioti che combatte-vano per la libertà d’Italia - firmando egli stesso gli ordini di fucilazione. Nel

1947 fu infatti condannato per il suo collaborazionismo. In anni più recenti, nel 1973, la Camera dei deputati autorizzò la Procura generale di Milano a procedere contro di lui per “tentata ricostituzione del partito fascista’.

Non si può consentire che Roma, città medaglia d’oro della Resistenza, possa accettare tale proposta. L’intitolazione di una via o di una piazza deve rappre-sentare la storia e l’identità di un Paese per fornire ai cittadini, e ancor più alle nuove generazioni, un esempio di vita e un modello di cittadinanza: che esem-pio sarebbe intitolare una via a un fascista collaborazionista che contribuì in prima persona alla persecuzione antiebraica? E proprio a Roma che ha visto lo scempio dei 1024 deportati ebrei il 16 ottobre 1943?, che ha visto la barbarie delle Fosse Ardeatine?

Roma 1969. Almirante con i giovani fascisti davanti alla facoltà di Giurisprudenza

I partecipanti nella Sala Zuccari del Senato dal sito del Quirinale

Attualità

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L’ attività politica di O. L. Scalfaro, classe 1918, cominciò prestissimo nella sua Novara. Dirigente dell’Azione catto-lica, durante il ventennio aiutò gli antifascisti nella lotta clandestina. Nel 1946 fu eletto deputato alla Costituente e, da allora, fu sempre rieletto nella sua circoscrizione (Torino-Novara-Vercelli). In quella veste fu membro della commissione giustizia e nella giunta delle autorizzazioni a procedere. Magistrato, fu vice presidente della commissione speciale per la Corte costituzionale e ricoprì la carica di segretario e vice presidente del suo gruppo parlamentare. Consigliere nazio-nale della Dc, entrò nella direzione del partito durante la segreteria De Gasperi. Sottosegretario al Lavoro nel primo gabinetto Fanfani, nel governo Scelba fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e anche allo Spettacolo. Promosse in quel periodo la nascita dell’Opera nazionale ciechi civili e si batté attivamente per il ritorno di Trieste all’Italia e per la sistemazione degli esuli della terra istriana. Come sottosegretario allo Spettacolo mise a segno il risanamento degli enti lirici, teatrali e cinematografici dipendenti dallo Stato.

Sottosegretario alla Giustizia nei governi Segni e Zoli, dopo le elezioni del 1958 fu eletto presidente della commissione Interni della Camera; dal ’59 al ’62 fu sottosegretario all’Interno.

Ebbe il primo incarico da ministro, ai Trasporti, nel terzo governo Moro, carica ricoperta anche nel secondo governo Leone. Nuovamente ministro dei Trasporti nel primo governo Andreotti, nel secondo fu nominato alla Pubblica istru-zione e poi eletto alla vice presidenza della Camera. Rieletto deputato il 3 giugno 1979, Scalfaro fece parte della commissione Esteri e riconfermato nel ruolo di vice presidente della Camera.

Nel 1983, rieletto deputato per la decima volta, fu ministro dell’In-terno nel primo e secondo governo Craxi, ultimo incarico di governo da lui svolto. I funzionari che colla-borarono con lui lo ricordano «mattiniero, efficiente, instan-cabile, uomo di grande dirittura morale e correttezza». Craxi, all’e-poca presidente del Consiglio, gli conferì la delega per sottoscrivere accordi bilaterali internazionali in tema di lotta al traffico di stupefa-centi e contro il terrorismo. Scalfaro all’Interno si pose il problema dell’ordine pubblico negli stadi, e costituì il primo comitato nazionale in collaborazione col Coni.

Nel 1987 il Presidente della Repubblica Cossiga gli affidò l’incarico di formare il governo, incarico al quale rinunciò.Come magistrato, Scalfaro fu Pubblico ministero presso le corti d’assise speciali di Novara ed Alessandria e, lo ha ricor-dato più volte, visse un’esperienza di profondo travaglio che segnò la sua vita: sostenne l’accusa in un processo contro un fascista poi condannato a morte pur dichiarandosi, già allora, contrario alla pena capitale.

Nel 1992 ritornò ai vertici delle istituzioni prima con una breve parentesi da presidente della Camera quindi - in una situazione politica assai complessa: si era in piena “tangentopoli” e la pressione della mafia sugli apparati dello Stato culminava nell’assassinio del giudice Falcone a Capaci - con il salto al Quirinale, il 25 maggio. Un settennato complesso e caratterizzato soprattutto dal lungo confronto-scontro con il primo governo Berlusconi. Nel 1999 il passaggio delle consegne a Carlo Azeglio Ciampi e il trasferimento a Palazzo Giustiani come senatore a vita.

Strenuo difensore della Carta costituzionale, al quale spetta di diritto il riconoscimento di Padre della Patria, nel 2006 fu presidente del Comitato “Salviamo la Costituzione”, poi divenuto Associazione e del quale l’Anppia è stata tra i fonda-tori, e capeggiò il Comitato per il NO al referendum sulla riforma costituzionale, composto dai partiti del centro sinistra, dalle principali organizzazioni sindacali, dai Comitati Dossetti e dalle associazioni Libertà e giustizia, Acli, Giovani per la Costituzione ed altri.

Per dieci anni è stato presidente dell’INSMLI (Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia) sostenendo la difesa della memoria e dei valori della Resistenza, partecipando a tutte le iniziative utili alla diffusione e alla conoscenza dei principi e delle regole della democrazia italiana che aveva contribuito a delineare nella sua veste di Costituente. Per questo prediligeva il rapporto coi giovani, con i quali riusciva ad instaurare un rapporto grande empa-tia. Tutta l’Anppia – il nazionale e le federazioni provinciali con le quali ha costantemente collaborato – sente il vuoto lasciato, ancora una volta, da figure come Oscar Luigi Scalfaro nella società civile, nella politica attiva, in tutte quelle forme di espressione che mettono al centro della vita di una nazione moderna la partecipazione responsabile di ogni cittadino, nel nome e nel segno della democrazia attuata e non agognata.

La scomparsa di Oscar Luigi ScalfaroÈ morto nel sonno il 29 gennaio, a 93 anni. Per suo volere le esequie sono state celebrate in forma privata anziché con funerale di Stato, come previsto per i presidenti emeriti della Repubblica

Oscar Luigi Scalfaro Foto di archivio storico

Attualità

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Con il suo primo libro «Terroni», rilettura impietosa della conquista del Sud da parte dei piemontesi, ha venduto 250.000 copie. Un fatto straordi-nario per un libro di storia nel nostro Paese. Ora Pino Aprile, che continua

a definirsi semplicemente giornalista, con «Giù al Sud», quasi un’opera corale ricca di voci e spunti, investiga i tanti fermenti di un Sud che non vuole più essere solo il grande deposito di braccia per lo sviluppo del Nord. In questa intervista esclusiva l’autore torna sul Risorgimento mancato, inficiato dal sangue, esamina la politica nei confronti del Sud dalla prima repubblica a oggi e consiglia al governo Monti di affrontare al più presto il tema bollente.

Secondo lei «Terroni», caso lette-rario strepitoso dello scorso anno, ha provocato qualche scossone nel dibattito degli storici togati? Pino Aprile è riuscito a seminare il dubbio sulla versione più patinata dell’u-nità d’Italia?

«All’inizio, c’è stato il silenzio. Poi, qualcuno, e con particolare riferimento alle stragi, ha detto che si trattava di fantasiose ricostruzioni. Probabilmente, da accademico, trovava fastidioso il raccontare la storia in modo così divul-gativo, sentimenti inclusi. Ma io ero emozionato (avvilito, furioso, deluso, addolorato) mentre scrivevo di quelle pagine buie del Risorgimento e della discriminazione a danno del Sud, ancora dopo 150 anni. E, con una scelta che chiunque può legittimamente criti-care, ho deciso di riportare anche le emozioni che mi agitavano, mentre ne riferivo. Mi è parsa una forma di onestà in più, invece di fingere un distacco e una freddezza che non avevo. E non ho. Quando l’imprevista dimensione del successo di “Terroni” non ha potuto più

giustificare il silenzio, alcuni (quelli di prima, ma non solo) hanno detto che si trat-tava di cose note. Vero, ma non a tantissimi, se la reazione più comune, fra i lettori, è lo stupore, lo sconcerto. Direi che a chiudere questo genere di polemiche è stato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che il 14 agosto 2011, nel cento-cinquantesimo anniversario della strage di Pontelandolfo, tramite Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni dell’Unità, con un suo messaggio ha chie-sto perdono agli abitanti di Pontelandolfo per il massacro compiuto dai bersaglieri guidati dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Da 50 anni i sindaci del paese doman-davano ai diversi presidenti della Repubblica il riconoscimento di paese martire, senza avere risposta. “Lei non è uno storico”, mi ha obiettato un accademico. Vero, mai preteso di esserlo: sono un giornalista, ovvero un divulgatore e uso linguaggio e tecniche proprie della mia professione. La più letta storia d’Italia l’ha scritta un giornalista, Montanelli».

In sintesi che cosa accadde al Sud in quegli anni? Lei ritiene che l’impresa di Garibaldi e il piano strategico dei piemontesi siano assimilabili a una mera guerra di conquista coloniale?

«Di sicuro Garibaldi non voleva quel che poi accadde, ebbe l’onestà di dirlo e di denunciare le sofferenze, l’oppressione alle quali furono sottoposti i meridio-nali. Persino Bixio si lamentò in Parlamento del troppo sangue che si spargeva al

Sud. Detto da lui, fucilatore seriale! Cavour si sarebbe accontentato di un regno del Nord. Ma colse l’occa-sione e governò gli eventi. Nessuno dei “padri della patria” era mai stato al Sud, e molti non ci andarono mai nemmeno dopo: ne sapevano (e il verbo può trarre in inganno) per sentito dire. E dire male. Il Sud non era più povero del Nord, non era arretrato, aveva oltre il doppio degli studenti universitari del resto d’Ita-lia messo insieme. Quanto al regime oppressivo, mentre il Piemonte giustiziava quasi il doppio dei condannati a morte della Francia che era quattro volte più popolosa, il Regno delle Due Sicilie mandava sul patibolo solo Agesilao Milano, che aveva infilato la sua baionetta nella pancia del re! Conquistato il Sud, i massacri furono tali che, a detta di Napoleone III, alleato del Piemonte, i Savoia fecero in un anno quello che i Borbone non avevano fatto in un secolo. Il Sud venne trasformato in colonia interna, e tale è ancora oggi, sulla scorta del sistema inaugurato dalla Gran Bretagna per avviare la rivoluzione industriale. Si pensi che cosa erano Irlanda, Scozia, Galles per la Gran Bretagna. Le aziende meri-dionali, fra le più grandi d’Italia, furono chiuse o fatte fallire. Le colo-nie interne devono fornire clienti e braccia a buon mercato, non merci in concorrenza».

Che giudizio dà dei Borboni? È d’accordo con quanto affermato recentemente da Paolo Mieli e cioè che i Borboni persero il regno perché trascurarono di colti-vare le alleanze internazionali, in particolare il rapporto con gli inglesi?

«Completamente d’accordo. Lo dico ora e vi avevo fatto cenno (con minori argomenti) nel mio libro. Il mondo mutava velocemente in quegli anni. Forse si può fare un paral-lelo con quel che avviene oggi, con il crollo dell’impero sovietico, la comparsa di una forma molto potente e aggressiva di revanscismo islamico, l’irrompere di paesi eufemistica-mente in via di sviluppo nel ruolo di

Pino Aprile foto di Massimo Sestini

Fratelli-coltelli: l’epopea dell’unità vista dal SudIntervista a Pino Aprile, autore del caso letterario dell’anno scorso, Terroni, in cui narra la storia dell’unità d’Italia vista dal Sud

di Antonella Amendola

Cultura

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potenze economiche mondiali, dalla Corea, al Brasile, alla Cina. Chi, come il Regno delle Due Sicilie, non entrò nel gioco grosso, alleandosi ai forti per abbattere i deboli (non necessariamente piccoli: fu disinte-grato l’impero austroungarico, poi quello ottomano), invece di governare il cambiamento lo patì. Mieli lo ha raccontato come meglio non si può».

Ritiene che la politica nei confronti del Sud, nei governi della prima repubblica, dal dopo-guerra, fu male impostata? A che cosa servì la Cassa per il Mezzo-giorno?

«Il Sud fu ed è il bancomat d’Ita-lia. Chi accusa il Sud del “sacco del Nord” trascura la curiosa circo-stanza di un ladro che diventa sempre più povero del derubato! Già nei primi mesi dell’Unità d’Italia ci sono osservatori del Nord e del Sud che raccontano la spoliazione del Mezzogiorno. Inascoltati, dileggiati, costretti a lasciare il Parlamento. Francesco Saverio Nitti poi mostra, con le carte a sua disposizione, in quanto Presidente del Consiglio, come i soldi del Sud vengono rastrel-lati e portati al Nord, con tasse squilibrate, spesa pubblica concen-trata al Nord, commesse statali solo al Nord. La Cassa per il Mezzogiorno nacque con ottime intenzioni, fece molto bene, all’inizio, poi divenne sempre più uno strumento per fornire risorse a potentati e clientele locali, gregari di quello economico setten-trionale, e dirottare la gran parte dei fondi al Nord. Il massimo che si spese, con la Cassa, per fare quello che nel resto d’Italia si faceva di più e meglio e prima (strade, fogne, ponti, bonifiche) fu lo 0,5 per cento del prodotto lordo: un duecentesimo. E il restante 99,5? Oggi non è cambiato niente: andate a vedere, su www.nelMerito.it, la ricerca del professor Gianfranco Viesti, su come sono stati spesi circa 46 miliardi di euro di fondi per le aree sottoutilizzate (Fas: quasi tutti i soldi sono stati sottratti e usati per altro, specie al Nord)».

Il governo Monti per ora non ha parlato di Sud. Ritiene che ci possa essere un nuovo impegno in quella direzione?

«Credo (spero) che Monti si sia reso conto dell’errore fatto nel dimen-ticare il Sud, come fosse un fardello appeso alla sola parte d’Italia di cui

valga la pena occuparsi. Sospetto che il suo ministro per la Coesione nazio-nale, Fabrizio Barca, lo abbia aiutato a comprendere come stanno le cose. E il suo incontro con gli amministratori regionali e comunali del Mezzogiorno può avergli fornito elementi utili: è uno che prende appunti. E poi, per quel che s’è visto finora, persino li rilegge».

Lei è forse il primo scrittore che ha parlato del movimento dei Forconi nel suo secondo libro, “Giù al Sud”. Di che cosa si tratta? Può essere una riedizione del Boia chi molla?

«Non credo. Ho conosciuto alcuni fondatori del Movimento, mentre il Movimento nasceva: dei dispe-rati, non rassegnati. Imprenditori agricoli, zootecnici, che hanno visto le loro aziende, magari attive da gene-razioni, sfiorire o chiudere per debiti con l’Inps (50mila su 200mila, in circa tre anni, mi dissero) svenduti a esat-tori di Equitalia. Aziende alle quali lo Stato chiede il rispetto di norme fiscali, contrattuali e sanitarie. Tutto giusto e costoso; peccato che quello Stato non garantisca, poi, anche il valore del prodotto così ottenuto, che va sul mercato allo stesso prezzo di quelli che giungono da paesi dell’Est o africani, ai quali non si impongono gli stessi obblighi, gli stessi costi. La rivolta dei Forconi è genuina, nasce dal mancato ascolto delle ragioni di gente operosa e trascurata. Il che non esclude che orga-nizzazioni opportunistiche, criminali (la mafia) o politiche cerchino di usarla. Ma almeno finora i Forconi hanno mostrato di sapersi difendere».

Tra le tante realtà meridionali portate alla luce da «Giù al Sud» quali crede che possano fare da volano a un’effettiva ripresa del Mezzogiorno?

«Tutto il Sud si sta muovendo, in modo scoordinato, ma sempre più alla ricerca di progetti, azioni unificanti. Non è detto che riesca a farlo davvero. Ma quello che sta accadendo in Calabria è stupefacente, con i giovani magnifici di “Io resto in Calabria”, di “E adesso ammazzateci tutti” e cooperative e associazioni. Non so dove porterà tutto questo, so che non c’era mai stato».

La secessione invocata dai leghi-sti, nel quadro dell’Europa in crisi, è diventata un vuoto slogan o ancora c’è chi ci crede?

«C’è chi ci crede, minoranze, al Nord e al Sud. Al Nord ne parlano; al Sud, se la disattenzione e l’insulto continueranno,

la tentazione può diventare più seria, diffusa (e persino giustificata) che al Nord».

Tra i pensatori meridionalisti del passato chi ancora oggi è d’attua-lità?

«Tutti, perché ognuno di loro ha portato ricerca, saggezza, conoscenza, cui chiunque voglia occuparsi dell’ar-gomento deve abbeverarsi. E quei meridionalisti sono sempre stati i migliori uomini del loro tempo: Fortu-nato, Nitti, Salvemini, Dorso, Rossi Doria, Zanotti Bianco, Saraceno, Fiore».

Umanamente come si è trovato a dirigere grandi settimanali del Nord?

«Benissimo. Il Nord non è il razzismo dei Borghezio, dei Calderoli, dei sindaci che vogliono usare gli extracomunitari come lepri per allenare i cacciatori. Gli inglesi dicono che è il barattolo vuoto che fa più rumore, e poi non dimenti-chi che io ero il meridionale, ma pure il direttore (o vicedirettore). Per cui potevi sentirti dire: “Sei meridionale, ma sei bravo”. Frase nella quale, nascosto da un doppio complimento, si celava un pregiudizio inconsapevole».

Quale sarà il suo prossimo impe-gno di scrittore?

«Ho ancora qualcosa da dire sul Sud. Abbiamo in troppi taciuto per troppo tempo».

La copertina del nuovo libro di Pino Aprile

Cultura

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per tutto il novarese seguendo gli scioperi e le altre manifestazioni. Nella zona si svilupparono quindi molti racconti, più o meno reali, di scioperanti che aspetta-vano di vedere apparire all’orizzonte la “macchina rossa” che iniziava così ad avere un significato simbolico. Nella battaglia di Lumellogno dell’agosto 1922, in cui si scon-trarono fascisti e proletari antifascisti della zona agricola della bassa Novarese, alcuni contadini racconteranno di aver creduto di vedere proprio l’autovettura di Ramella nella mani degli aggressori in camicia nera. Proprio tale evento avrebbe sancito la sconfitta del movimento del proletariato agricolo in quella sanguinosa battaglia.

In tutta l’Italia il fascismo dal 1940 aveva iniziato a diffondere la voce che gli aeroplani anglo-americani lanciassero sul territorio nazionale “caramelle avvele-nate” insieme a matite o penne esplosive. A supportare la nascita di tale leggenda, esisteva una cospicua diffusione di materiale di propaganda italiana e tedesca. Si trattava quindi di un vero e proprio atto di terrorismo mediatico messo in atto nei confronti dei bambini dal fascismo. Contemporaneamente, si era diffusa anche la leggenda del “Pippo”, un aeroplano antropomorfo, metà uomo e metà macchina, che passava e dispensava morte. Si trat-tava ,diceva la leggenda, di un aviatore solitario che agiva esclusivamente per mitragliare treni, camion e carretti civili. La leggenda serviva per accusare l’esercito avver-sario di essere crudele e di voler uccidere gli italiani. Non a caso a Bologna il mitico aereo veniva anche chiamato il “Pippetto ferroviere”, poiché bombardava vicino alle reti ferrate e ai suoi snodi, mentre al Sud avrebbe preso il nome di “Ciccio ‘o ferroviere”. La leggenda aveva però anche un altro scopo: convincere gli italiani, anche i più piccoli, di spegnere le luci quando, la notte, si temevano i bombardamenti. A dimostrazione di tutto ciò, nasceva persino una filastrocca che veniva cantata ai bambini:

«Sono Pippo,

volo dritto:

Se vedo un lumicino

butto un bombolino

se vedo un lumicione

butto un bombolone».

Anche Giovanni De Luna menziona in “La televisione e la nazionalizzazione della memoria storica”, la leggenda del Pippo che egli definisce come «la voce più inquietante prodotta dall’Italia in guerra» (p.212).

Insomma, “Spegni la luce che passa Pippo” di Cesare Bermani, edito da Odradek nel 1996, è un libro partico-lare, curioso per i suoi contenuti ma attento nel rispettare la più rigorosa ricerca scientifica. Un libro prezioso da conservare e da consultare ogni volta che un mito, una storia o una leggenda si presenta davanti a noi.

Vi sono scoperte che avvengono quasi per caso. Qualche giorno fa, cercando su internet pubblica-zioni e ricerche sulla Grande Guerra, mi sono

imbattuto in un volume curioso dal titolo certamente enig-matico. Ho scoperto così che “Spegni la luce che passa Pippo” di Cesare Bermani è una preziosa ricerca sulle voci, le leggende e i miti della storia contemporanea. È raro pensare al XX secolo come un periodo ricco di tradizioni orali ma a ben vedere queste interessano vari aspetti della nostra quotidianità. La loro natura storica è rimasta però a lungo inesplorata e il volume di Bermani cerca di colmare questa lacuna. Il titolo si riferisce giustappunto ad una delle tradi-zioni più diffuse della Seconda Guerra Mondiale, quella dell’aereo – il “Pippo”- che passava di notte e il cui ronzio era portatore di speranza o di morte. Il libro analizza i prin-

cipali miti sviluppatisi in Italia nel periodo contemporaneo e comprende, tra le altre, la trattazione degli amuleti di prima linea, delle lettere a catena e della storia del carro armato del PCI.

Tra le più interessanti, si può leggere la leggenda sociali-sta della “macchina rossa”. Secondo Ramella era il segretario della Federterra novarese nel 1918-1921, composta all’epoca da cinquantamila lavoratori. Ramella era l’uomo di punta dell’organizzazione socialista e dirigeva le grandi lotte contro il “caporalato” e a favore dell’introduzione delle otto ore per i lavoratori ortofrutticoli. La Camera del Lavoro di Novara gli aveva messo a disposizione una macchina rossa, con dipinte sul retro della carrozzeria “falce, martello e spiga”, e con questa il leggendario segretario si spostava

UNA BELLA SORPRESA

“Spegni la luce che passa Pippo”di Fabio Ecca

Cultura

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La Resistenza a Roma nei quartieri Prati e Trionfale

Il Circolo Giustizia e Libertà, fondato da partigiani attivi nella Resistenza romana, vive da oltre sessant’anni in Via Andrea Doria 79 ed è impegnato

nella trasmissione della memoria storica. Ha tra l’altro già organizzato un ciclo di convegni titolati “Momenti di libertà” nei quali si ricorda agli studenti e ai cittadini residenti la storia del quartiere nel periodo di Roma occupata dai nazisti, dal 10 settembre 1943 al 4 giugno 1944. Negli ultimi anni ha già realizzato quelli relativi ai Municipi XVII, V e XI.

Il successo di questi eventi ha indotto il Circolo ad ideare in collaborazione con la Scuola Romana dei Fumetti un libretto, curato da giovani sceneggiatori e disegnatori, sulla Resistenza nei quartieri Prati, Trion-fale e Valle dell’Inferno (ora Valle Aurelia) che risulti efficace per cogliere l’interesse e la curiosità di altri giovani per un tempo che sembra lontano ma è sempre vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto e dei loro figli e che rappresenta un simbolo dei valori morali e civili della città. Sono stati scelti per essere rappresentati nei fumetti cinque personaggi con storie diverse ma tutti simboli della lotta al fascismo e al nazismo.

Questa pubblicazione, costata un anno di lavoro, è destinata gratuitamente agli studenti della terza media delle scuole pubbliche romane. Il Circolo, assolutamente apartitico, garantisce l’obiettività dei racconti e la verità dei fatti tutti documentati. La speranza che lo anima è quella di riuscire a pubblicare, con il patrocinio del Comune di Roma e dei Municipi, le storie di tutti i quartieri romani coinvolti in avvenimenti dolorosi ma eroici ad un tempo, durante l’occupazione nazista. Il Circolo GL ringrazia la sensi-bilità della consigliera di Roma Capitale Maria Gemma Azuni per il contributo economico assegnato e l’ANPPIA che ha reso possibile la stampa dell’opuscolo.

INVITO ALLA LETTURA

Carlo PisacaneLA RIVOLUZIONEa cura di Aldo Romano, 2a ed. 2011, pag. 432, con foto, 20,00

La parola progresso suona nella bocca degli uomini d’ogni condizione, d’ogni partito, ma è

da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza che, ap-

plicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti,

sono fatti innegabili: noi vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe città; campi

aspri e selvaggi squarciati dall’aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari, superati; rozzi velli

trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte; le tenebre cacciate da fulgidis-

sima luce; il navigar contro i venti; il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze;

finanche il fulmine reso rapido messaggiero dell’uomo; l’immensità dei cieli, le viscere della

terra esplorate; gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati, classificati, misu-

rati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo.

“Edizione integrale dell’opera più famosa e più importante di Pisacane, controllata sul

manoscritto originale, con le correzioni e le cancellature operate dall’autore, preceduta

da un lungo saggio introduttivo sulla vita, sulla spedizione di Sapri e sul pensiero rivolu-

zionario di Carlo Pisacane, un combattente dimenticato del Risorgimento italiano, ma il

cui pensiero è ancora” oggi attuale.

L’opera può essere richiesta direttamente a [email protected] oppure telefonando al n. 0974 62028

Al prezzo di copertina si aggiungono le spese di spedizione: piego di libro ¤ 1,50, raccomandata ¤ 3,60, contrassegno ¤ 5,50.

Chi vuole può anticipare l’importo sul conto corrente postale n. 16551798 intestato a Giuseppe Galzerano.

Cultura

La graphic novel sulla Resistenza a Roma curata dalla Scuola Romana dei Fumetti

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di Fiumicino sia perché i granai del

Tevere erano meglio collegati tramite

la via Portuense; demolita nel 1888

ne resta soltanto una descrizione di

Rodolfo Lanciani: “essa misura m.

3,60 di luce ed ha le spalle murate con

massi di travertino grossi m. 0,67. I

battenti della porta sono formati da

cornici intagliate, poste verticalmente,

la soglia monolite di travertino è lunga

oltre m. 4 e si trova nello stesso piano

della Piramide”. Il nome originale

della porta superstite era “Porta

Ostiensis”, perché da lì iniziava, come

tuttora inizia, la via Ostiense. La

storia di ogni porta, oltre alle proprie

caratteristiche architettoniche, è

fatta anche di aneddoti e curiosità che

restituiscono la “vita quotidiana” delle

varie epoche. È ricordata, fra l’altro,

dallo storico Ammiano Marcellino

perché, nel 357 d.C, “venne trascinato

con somma cura attraverso la porta

Ostiense” l’obelisco che attualmente si

erge in piazza S. Giovanni in Laterano.

Con la perdita d’importanza del porto

di Ostia anche il ruolo preminente della

porta venne meno finché, coinvolta nel

processo di cristianizzazione di tante

altre porte romane, fu ribattezzata

col nome attuale di “Porta S. Paolo”

perché era l’uscita per la Basilica di

S. Paolo “fuori le mura”, che aveva

ormai ereditato l’importanza che

fino a qualche secolo prima era del

porto. Di conseguenza, non era più

necessario mantenere i due fornici,

che, anzi, in caso di pericolo esterno

avrebbero comportato una maggiore

difficoltà difensiva. Infatti, quando

tra il 401 e il 403, l’imperatore Onorio

ristrutturò buona parte delle mura

e delle porte, provvide anche, come

in quasi tutti gli altri interventi, a

ridurre ad uno solo i fornici d’ingresso

(ma non la controporta) demolendo

la parte centrale e ricostruendola con

una sola arcata (ad un livello circa

un metro più alto della precedente)

ed a fornire la facciata di un attico

con una fila di finestre ad arco per

dar luce alla camera di manovra.

Con l’occasione rinforzò le due torri

rialzandole di merli e finestre. La

lapide commemorativa dei lavori che

Onorio ha lasciato su ogni intervento

da lui effettuato sulle mura o sulle

porte, sembra fosse presente almeno

fino al 1430. L’attuale “Porta S. Paolo”

- molto rimaneggiata dai successivi

restauri di Massenzio, del citato

Onorio, di Belisario, forse anche di

Narsete, e dei papi Niccolò V, Pio IV,

Alessandro VII, Benedetto XIV, ecc.

fino ai nostri giorni - è quindi ad un

solo fornice chiusa fra due alte torri,

con un cortiletto che la separa dalla

controporta, sul quale si affaccia un bel

tabernacolo medievale con l’immagine

di S. Pietro.Era in origine unita alla

basilica di S. Paolo da un lungo portico

coperto oggi non più esistente ed

ha vissuto anch’essa la sua parte di

storia romana: nel 549 vide entrare

i Goti di Totila che da qui riuscirono

a penetrare nella città a causa del

tradimento della guarnigione, che

lasciò la porta aperta; nel 1407 accolse

re Ladislao ma tre anni dopo fu teatro

di uno scontro cruento fra lo stesso

Ladislao ed i Romani; nel 1522 vi entrò

in Roma Adriano VI appena eletto

papa, in un alternarsi di avvenimenti

belli e brutti. Per molti secoli, le

porte della città hanno scandito la

vita di Roma con la loro apertura e

chiusura perché, oltre alla funzione

militare di difesa per la quale le Mura

erano state costruite, hanno avuto in

passato altri compiti e destinazioni: di

collegamento con le strade principali,

di controllo di polizia delle persone,

di cordoni sanitari, dell’attività di

dogana.

Già dal V secolo ed almeno fino al

XV, è attestato - come prassi normale

- l’istituto della “concessione in

appalto e della vendita a privato delle

porte cittadine e della riscossione del

pedaggio” per il relativo transito. In

un documento del 1467 è riportato

un bando che specifica le modalità di

vendita all’asta delle porte cittadine

per un periodo di un anno pagabile in

“rata semestrale”. Il prezzo d’appalto

per la porta “S. Paulo” non era molto

alto perché a quell’epoca il traffico

cittadino - per quella porta - non era

intenso come una volta, ancorché

sufficiente ad assicurare un congruo

guadagno al compratore. Guadagno

regolamentato da precise tabelle che

riguardavano la tariffa di ogni tipo di

merce ma che era abbondantemente

arrotondato da abusi di ogni genere

a giudicare dalla quantità di “gride”,

editti e minacce che venivano emessi.

All’interno del “Castelletto” - la

controporta che sembra una piccola

fortificazione – è attualmente ospitato

il “Museo della Via Ostiense”, con

la ricostruzione dei porti di Ostia

e dei monumenti ritrovati lungo la

“via Ostiensis”.

La struttura della porta è in

travertino ed è fiancheggiata da

due torri a base semicircolare

(a ferro di cavallo). Sul suo lato

interno Massenzio, all’inizio del

IV secolo, ne edificò un’altra con

funzione di controporta (l’unica

controporta delle mura aureliane

interamente conservata), sempre

a due fornici in travertino,

collegata alla precedente da due

muri chiusi a tenaglia a formare

una sorta di piccola fortificazione

chiamata “Castelletto”, all’interno

della quale doveva trovar posto

sia la guarnigione militare che

la stazione dei gabellieri per la

riscossione del pedaggio sulle merci

in entrata e in uscita. Di certo, gli

interventi hanno comunque reso

l’intera struttura asimmetrica,

irregolare e architettonicamente

squilibrata, con il fornice esterno

non in linea con quelli interni, le

torri poco più alte della facciata e,

in generale, dimensioni piuttosto

sproporzionate. All’altezza della

controporta, sul lato orientale, in

corrispondenza dell’attuale via

R. Persichetti, doveva trovarsi

una “posterula”, di cui però non

rimane nulla perché quel punto

1943, granatieri a Porta S. Paolo foto di archivio

I luoghi della storia

segue da pagina 1

13

è stato devastato nel 1943 in

occasione di un bombardamento

aereo. Una strana particolarità

della controporta, unica in tutta

Roma, è che la chiusura era verso la

città anziché, come normalmente

accadeva, verso l’interno della

struttura. Soprattutto in epoca

medievale quando i nemici

esterni rappresentavano un

pericolo paragonabile a quello

delle fazioni armate interne alla

città, la Porta doveva costituire

una sorta di piccola fortezza

per una guarnigione armata che

all’occorrenza avrebbe potuto

rinchiudersi all’interno. La porta

ha infatti subìto diversi attacchi

proprio dall’interno, soprattutto

nel 1410. In quell’anno la città era

in mano al re Ladislao di Napoli

e tre papi – Benedetto XIII,

Alessandro V, Giovanni XXIII

(!) - si combattevano per ottenere

il riconoscimento ufficiale,

spalleggiati dalle più potenti

famiglie romane in lotta fra loro;

il popolo romano, in preda alla più

totale anarchia, al seguito degli

Orsini, sostenitori dell’antipapa

Alessandro V Filargo di Creta

(1409-1410), fu protagonista di

diversi violenti scontri lungo

le mura, culminati nell’attacco

alla guarnigione napoletana

asserragliata proprio nella Porta

S. Paolo e nel bastione predisposto

intorno alla vicina piramide di Caio

Cestio. L’8 gennaio, dopo 3 giorni di

assedio, Porta S. Paolo cadde insieme

alla Porta Appia, seguite a un mese

di distanza dalla Porta Tiburtina e

dalla Porta Prenestina, lasciando via

libera all’ingresso trionfale in Roma

del nuovo papa. Sulla torre orientale

è presente un’iscrizione a memoria

dei lavori che Benedetto XIV effettuò

nel 1749 per il restauro di tutta la

cinta muraria da qui a Porta Flaminia.

Intorno al 1920 la Porta fu isolata

dalle Mura Aureliane per agevolare

il traffico dell’area adiacente sul lato

orientale ed in seguito, a causa del

bombardamento durante la II Guerra

Mondiale, andò distrutto anche il

tratto di mura occidentale che la

collegavano alla Piramide Cestia.

Nel tragico settembre del 1943

proprio sulle mura di Porta S. Paolo

si svolse uno degli avvenimenti più

popolari che dettero inizio alla guerra

civile che dilaniò l’Italia da quel

momento sin’oltre la fine della II Guerra

Mondiale. Tutto incominciò la sera

dell’8 settembre dopo che le stazioni

radio avevano diffuso il messaggio

del Capo del Governo, Maresciallo

Pietro Badoglio, che annunciava

l’armistizio: “… ogni atto di ostilità

contro le forze angloamericane deve

cessare da parte delle forze italiane in

ogni luogo. Esse però reagiranno ad

eventuali attacchi da qualsiasi altra

provenienza”. L’Armistizio era stato

firmato il 3 settembre a Cassibile,

in Sicilia, ma doveva restare segreto

per alcuni giorni per dar modo agli

italiani di sganciarsi dai tedeschi.

Vista però l’eccessiva titubanza del

Governo e degli alti comandi militari

italiani, il Gen. Dwight Eisenhower,

comandante in capo delle forze alleate

anglo-americane, che nel frattempo

aveva avviato le manovre per lo

sbarco di Salerno e “non intendeva

continuare la sanguinosa farsa di

combattere contro truppe di fatto

fuorigioco”, rese pubblico l’Armistizio

mettendo gli italiani di fronte al

fatto compiuto. La dichiarazione

dell’Armistizio (e qualche tempo

dopo anche il capovolgimento

delle alleanze) determinò l’estrema

incertezza dei responsabili politici e

militari nell’adottare le decisioni con

ripercussioni su tutti i fronti nei quali

erano impegnati i reparti italiani.

Lo sconcertante vuoto di direttive

politiche e militari ebbe tremende

conseguenze e provocò la rabbiosa

reazione e repressione da parte delle

truppe tedesche. Infatti, temendo il

cambio di fronte degli Italiani, Hitler

aveva predisposto che le armate di

Rommel a Nord e quelle di Kesserling al

Centro-Sud, impegnate a contrastare

l’avanzata degli anglo-americani,

fossero pronte a neutralizzare gli alti

1943, granatieri a Porta S. Paolo foto di archivio

I luoghi della storia

14

comandi politico-militari italiani

secondo il piano segreto “Alarico”. A

Roma era altissima la concentrazione

di truppe italiane per la presenza di

ben 6 Divisioni. Di queste la Divisione

“Granatieri di Sardegna” composta da

11.000 uomini, già dalla fine di luglio

del ’43, era stata spiegata nella periferia

Sud-Ovest di Roma con apprestamenti

difensivi su 13 capisaldi e 14 posti di

blocco collocati in corrispondenza

delle strade di accesso alla Capitale,

concepiti, però, per contrastare un

eventuale attacco anglo-americano.

Ogni caposaldo aveva un posto di

blocco con sbarramento sulla strada

principale e varie postazioni di tiro di

cannoni. Scattato il piano “Alarico”,

Kesserling, scampato ad un duro

bombardamento alleato su Frascati

ove aveva il suo Quartier Generale,

ordinò al gen. Kurt Student di

muovere su Roma con la 2° Divisione

Paracadutisti, accampata tra Ostia e

Pratica di Mare. Qualche ora dopo,

al caposaldo 5 di Ponte Magliana-

Ostiense, un’autocolonna tedesca

cercò di occupare il posto di blocco.

Qui ebbe inizio l’epopea tragica che si

concluderà con il conosciuto episodio

di “Porta S. Paolo”, dove si svolsero

i combattimenti che, nell’accezione

comune, corrispondono a quella che

viene definita “La Difesa di Roma”. In

effetti, lì, si ebbero gli scontri finali di

una battaglia che durò circa 3 giorni e

si sviluppò lungo un arco virtuale di

circa 28 km. a sud della Capitale, da via

Boccea a via Collatina, con i militari

coadiuvati da numerosi gruppi di

civili. In assenza di ordini coerenti

dallo Stato Maggiore Generale, il

comandante della Divisione Granatieri

di Sardegna, gen. Gioacchino Solinas,

ordinò alla sua batteria di cannoni di

aprire il fuoco dalla collina dell’EUR

contro i tedeschi.

I combattimenti che interessarono

la Divisione Granatieri di Sardegna

ed i reparti ad essa dati di rinforzo

(a seguito della richiesta del Solinas

al gen. Carboni, comandante di tutte

le truppe dislocate in Roma) presero

l’avvio alle ore 21 circa del giorno 8

settembre presso il caposaldo n. 5

dislocato nella zona del Ponte della

Magliana - Ponte della Creta - E

42, ora EUR, e proseguirono fino a

circa le 17.00 del giorno 10 settembre

coinvolgendo in diversa misura i

restanti capisaldi e, dopo il loro

ripiegamento, la zona della Piramide

Cestia e di Porta S. Paolo. L’inaspettata

reazione degli italiani costrinse i

tedeschi ad arretrare ma, poco dopo,

una seconda colonna di 1000

uomini si presentò al caposaldo

6 sulla Laurentina, lanciando

un attacco. I loro corazzati però

stentarono ad avanzare per il fuoco

dei cannoni dei Granatieri.

Il primo episodio della

Resistenza italiana era iniziato;

uomini che - a fronte della fuga

di Vittorio Emanuele III, il “re-

soldato”, dell’erede Umberto,

del Governo, del Capo di Stato

Maggiore Vittorio Ambrosio

e dei Capi di Stato Maggiore

dell’Esercito, Mario Roatta, della

Marina, Raffaele De Courten, e

dell’Aereonautica, Renato Sandalli

con i loro familiari - combatterono

strenuamente contro i tedeschi.

Numerosi scontri a fuoco si ebbero

anche all’interno della città come a

S. Giovanni e al Colosseo, ad opera

di cittadini accorsi a combattere

contro l’ex-alleato. La mattina del

10 una parte dei militari, che aveva

avuto la peggio altrove ed era stata

costretta a ritirarsi, si riunì intorno

a Porta S. Paolo; ad essi si unirono

civili giunti spontaneamente od

organizzati dai partiti antifascisti.

Fino al pomeriggio del 10 settembre

1943 Porta S. Paolo fu teatro di uno

degli scontri legati all’occupazione

tedesca di Roma. Qui ebbero

luogo i furiosi combattimenti tra

i Granatieri di Sardegna, che il

giorno precedente si erano rifiutati

di lasciarsi disarmare dai tedeschi,

e numerosi gruppi di “uomini e

donne di ogni età e condizione”.

“La Difesa di Roma” fu fatta sia

dai militari che dai civili i quali

1943, Porta S. Paolo foto di archivio

1943, Porta S. Paolo foto di archivio

I luoghi della storia

15

poterono combattere anche con

un migliaio di armi corte e lunghe,

cedute dal Servizio Informazioni

Militari (SIM) e prelevate dai

depositi clandestini del SIM di via

Silla 91, dal Museo dei Bersaglieri di

Porta Pia, dall’Officina Scattoni di

via Galvani e dall’officina biciclette

Collalti a Campo dé Fiori. Questo

importante contributo politico-

militare è stato attestato dal

futuro deputato del PCI Antonello

Trombadori, che nel suo “Diario”

racconta: “Mi trovavo a Roma al

Grand Hotel con Longo ed altri per

conferire con l’aiutante di Giacomo

Carboni e col figlio di Carboni,

Guido (capitano). Luigi Longo ed io

eravamo lì perché grazie alla rete di

contatti messa in piedi da Giuseppe

Di Vittorio, dovevamo accordarci

con il SIM (sempre Carboni) per

la consegna di armi in vista di una

sollevazione popolare”.

Nonostante la schiacciante

superiorità numerica e

d’armamento delle truppe

tedesche, il fronte resistenziale

riuscì ad attestarsi lungo le mura di

Porta S. Paolo innalzando barricate

e facendosi scudo con le vetture

dei tram rovesciate. Nel corso

della battaglia, il generale Giacomo

Carboni si prodigò nel tenere alto

il morale dei soldati e mandò i

carabinieri a staccare i manifesti

“disfattisti”, che davano imminenti

le trattative con i tedeschi.

Alle 15,30 del giorno 10, gli

ufficiali dei Granatieri, cui si era

aggiunto il tenente in congedo

assoluto per ferita sul fronte greco-

albanese Raffaele Persichetti,

decisero di ripartire all’attacco

dando ordine ad un plotone del

“Genova Cavalleria” ed a un

gruppo di civili di porsi a guardia

delle alture del quartiere S. Saba,

che dominano la piazza di Porta S.

Paolo. Contemporaneamente alla

stazione Ostiense sul binario 3 c’era

un “commando” di civili e militari

del nascente CNL, capitanati dal

magg. Carlo Benedetti. Alle 16.00, il

gen. Giorgio Carlo Calvi di Bèrgolo,

genero di Vittorio Emanuele III e

comandante di Corpo d’Armata,

comunicò al gen. Solinas l’avvenuta

firma dell’armistizio con i tedeschi

e l’ordine di cessazione delle ostilità. Tra le condizioni dell’armistizio, che dichiarava

“Roma Città Aperta”, c’era la consegna delle armi e lo scioglimento dei reparti; ma nei

dettati segreti di Hitler, “accettati con riluttanza da Kesserling”, c’era la deportazione

in Germania dei soldati italiani.

Nel primo pomeriggio la Resistenza fu travolta dai mezzi corazzati tedeschi e il Capo

di Stato Maggiore della Divisione “Centauro”, colonnello Leandro Giaccone, firmò la

resa a Frascati, presso il Quartier Generale tedesco. La “Difesa di Roma” costò 1167

militari caduti o dispersi e secondo dati “ufficiali” 241 civili, fra cui 43 donne (il dato

“stimato” è di oltre 400 civili). Tra i molti cittadini che pagarono il loro eroismo con la

morte figurano l’operaio diciottenne Maurizio Cecati e il fruttivendolo Ricciotti che,

finito il lavoro ai Mercati Generali, si improvvisò eccezionale tiratore. Morì colpito

da una scheggia il professore di Storia dell’Arte al Liceo classico Visconti, Raffaele

Persichetti, uno degli ultimi caduti a Porta S. Paolo; decorato con Medaglia d’oro al

V.M. - la prima Medaglia d’Oro della Resistenza - il suo nome è divenuto simbolo di

quanti, soldati e civili, si sono sacrificati nella Difesa di Roma.

La “battaglia di Porta S. Paolo” è considerata il vero e proprio esordio della

Resistenza italiana e in essa si può misurare emblematicamente il comportamento dei

vari protagonisti, indifferenti poi alla campagna di terrore seminata dal Maresciallo

Rodolfo Graziani a proposito delle “notti di S. Bartolomeo” che avrebbero atteso

infallibilmente tutti i militari che non avessero ubbidito agli ordini del nuovo “Stato

Nazionale Repubblicano”, più noto come “Repubblica di Salò”.

Quattro lapidi apposte sulle Mura ricordano vicende dolorose che hanno segnato

col sangue la difesa della Libertà e della Democrazia: i fatti del 10 settembre 1943; lo

sbarco di Anzio; i Caduti della Resistenza; i Caduti del Terrorismo.

A circa settanta anni da quegli eventi, la Porta sfrutta una delle sue particolarità:

quella di formare con la Piramide di Caio Cestio ed i cipressi del Cimitero Acattolico

un quadretto di particolare suggestione, riprodotto in innumerevoli dipinti.

Mario Tempesta, Roma, 22 febbraio 2012

Porta S. Paolo oggi foto Maurizio Galli

1943, Porta S. Paolo foto di archivio

I luoghi della storia

16

Al giorno d’oggi capita spesso che illustri protagonisti della nostra storia patria diventino improvvisamente obsoleti e dimenticati. Ahimè!

Questa amara considerazione vale anche per Renzo Laconi, indimenti-cabile protagonista delle vicende politiche e culturali della Sardegna del secondo Novecento.

Il Nostro è stato un intellettuale raffinato e acuto, un oratore “trascinatore di folle” e un appassionato cultore ed estimatore delle lezioni politiche di Antonio Gramsci. Molte sono le riflessioni e gli scritti nei quali Renzo Laconi riprende le argomentazioni gramsciane, elaborandole e collocandole all’interno del mondo culturale sardo e nazionale del suo tempo.

Il Nostro è stato un uomo di cultura giuridica e istituzionale, esponente di una giovane generazione venuta al socialismo e al comunismo attraverso l’esperienza della ferrea dittatura mussoliniana. Egli incentrava il suo pensiero e azione, in Sardegna, sul nesso autonomia regionale, rinascita economico e sociale e una rigorosa e credibile programmazione democratica, nella Costituente e nel Parla-mento, sui rapporti tra democrazia e trasformazione sociale.

Renzo Laconi è stato un valente dirigente politico nazionale del Pci, apprezzato e fidato collaboratore di Palmiro Togliatti. Fu uno dei maggiori e brillanti prota-gonisti dell’elaborazione della Carta Costituzionale, cui apportò un contributo fondamentale sulle tematiche autonomiste. A tale scopo scrive Eugenio Orrù, direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna, nella sua recente pubblicazione, La caverna di Platone, Ed. Tema, 2010:

“(…) La sua concezione autonomistica non consente banalizzazioni, che non sono mancate. Egli si propone e si presenta come uno degli artefici principali della Costi-tuzione regionalista, uno degli uomini più aperti, certo nella specificità culturali e politiche del suo tempo, agli approdi costituzionali più moderni e alle tematiche oggi più attuali. Non è perciò retorica richiamare, nell’era della globalizzazione, l’at-tualità del pensiero di Renzo Laconi, di colui che ha svolto un ruolo essenziale nella costruzione del dettato costituzionale, di colui che è stato il più lucido assertore della specialità artefice e protagonista indiscusso della battaglia per la Rinascita (…)”.

Renzo Laconi fu ininterrottamente per quattro legislature deputato al Parla-mento della Repubblica (1948-1967), membro del Comitato Centrale del Pci e Segretario regionale dal 1957 al 1962 e vicepresidente del Gruppo Parlamentare del Partito comunista. Ruoli politici e istituzionali che Laconi portò avanti con coerenza e rettitudine, con passione e orgoglio in senso comunista e antifasci-sta. Laconi pensava e rifletteva che se la “sua Sardegna” voleva uscire dall’atavico sottosviluppo (che ancora oggi permane assoluto) l’autonomia regionale poteva essere la migliore panacea ai tanti mali che affliggevano le genti sarde, ovvero delineare una forma di autogoverno democratico, attraverso l’ascesa delle masse popolari a responsabilità di governo.

A tale riguardo, scrive Maria Luisa Di Felice nel suo saggio introduttivo, Renzo Laconi. Per la Costituzione, scritti e discorsi, Ed. Carocci, 2010:

“(…) Il pensiero di Laconi conosceva ulteriori, fondamentali sviluppi quando indi-viduava nell’autonomia uno strumento basilare per la crescita democratica e civile, per la trasformazione sociale ed economica della Sardegna. Laconi fu tra i prota-gonisti nel processo che portò i comunisti sardi a guardare con convinzione verso l’autonomia. Era Togliatti a ribadire la necessità che i compagni sardi si uniformas-sero maggiormente alla linea del partito, e nel II Consiglio Nazionale (aprile 1945) li invitava a non temere di essere autonomisti, poiché l’autonomia era una “rivendica-zione democratica rispondente agli interessi del popolo sardo”.

Ancora oggi, viene ricordato nella memoria collettiva dei sardi, e non solo, per la sua oratoria brillante ed estremamente rigorosa.

Scrive Enrico Berlinguer, indimenticato segretario nazionale del PCI: “(…) Egli fu, come tutti ben sappiamo, fra i nostri oratori più efficaci e bril-

lanti, tanto nelle aule parlamentari quanto sulle piazze: La sua oratoria era sottile e insieme appassionata fino alla veemenza polemica più spietata, logica e rigo-rosa e insieme semplice e prontamente umana, e raggiungeva a volte, soprattutto

quando si rivolgeva ai lavoratori più poveri della sua terra, quasi gli accenti dell’apostolato. Credo che i suoi comizi saranno a lungo ricordati e rimpianti dalle decine di migliaia di lavoratori, non solo sardi, che hanno avuto anche una sola volta occasione di ascoltarlo (dal discorso commemo-rativo al Comitato centrale del PCI, 10 luglio 1967).”

Renzo Laconi con la sua poderosa personalità politica e culturale non può e non deve essere rimosso dalla Storia sarda e nazionale; è neces-sario approfondire il suo pensiero e le sue riflessioni. È necessario ripensare a quest’uomo per meglio interpretare il presente evanescente e un futuro denso di incognite.

Renzo Laconi, un politico da riscopriredi Maurizio Orrù

Memorie

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La Circolare Ministeriale n. 600/158 del 9 aprile 1935 conosciuta come la “Circolare Buffarini-Guidi” (dal nome del Sottosegretario all’Interno che la firmò) era rivolta ai Prefetti del territorio nazionale per proibire il culto pentecostale in tutto il Regno perché esso “si estrin-seca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza”. Di conseguenza fu messo al bando il movimento pentecostale, furono chiusi tutti i luoghi di culto e avvennero molti arresti, ammoni-zioni, invii al confino sia di semplici credenti che di pastori pentecostali.

Nonostante la persecuzione reli-giosa posta in atto dal regime i pentecostali continuavano a riunirsi in località campestri e remote o in casa di qualcuno di essi ma sempre con il timore di essere scoperti e perseguitati.

Nelle maglie del regime fasci-sta nel 1942, in quanto adepto della Chiesa Cristiana Penteco-stale, incappò anche il sardo Serra Rafaele Pietro, residente a Roma in Via Frontino 33, ma origina-rio di Serramanna. Egli nacque

nel centro agricolo campidanese il 27 luglio 1901 alle ore 13 da Antonio e fu Collu Maria. Il Serra fu sorpreso il 19 febbraio 1942 in una casa di Via Muzio Attendolo “assieme a numerosi pentecostieri all’atto di svolgere il loro culto” e per tale motivo fu denunziato alla Commissione Provinciale per l’Ammonizione, così recita un verbale stilato dalla Questura di Roma in data 28 marzo ’42 conservato nel fascicolo n. 106943 del Fondo Casellario Politico Centrale presso l’Archivio Centrale dello Stato. In una lettera del 16 marzo 1942 - indirizzata all’Ufficio Confino e al Casellario Politico Centrale - a firma del Capo della Polizia Carmine Senise, riportante tutto un elenco di persone da sottoporre al provvedimento del confino o della ammonizione, appare anche quello di Pietro Serra. E quest’ultimo fu sottoposto ai vincoli dell’Ammonizione dalla Commissione Provinciale riunitasi il 17 marzo 1942 nei locali della Regia Prefettura di Roma sotto la direzione del Prefetto Fusco Comm. Umberto. Alla riunione inoltre parteciparono il Questore Petrunti Comm. Nicola, il Procu-ratore del Re Gatta Comm. Enrico, il Colonnello dei Reali Carabinieri

Serra Pietro di Serramanna, ammonito perché Pentecostaledi Lorenzo Di Biase

Frignani Cav. Uff. Ercole, il Console della M.V.S.N. Guglielmi Cav. Nicola e il Commissario Aggiunto in veste di Segretario della Commissione Santini Dott. Arnaldo. Il provvedimento consi-steva in una serie di limitazioni tra le quali spiccava quella di non ritirarsi la sera più tardi “dell’Avemaria” né uscire al mattino più presto dell’alba. Inoltre fu inserito in un elenco di persone da arrestarsi in determinate circostanze (inserito nell’elenco 5° - pregiudicati per delitti comuni). Poi, in seguito al ventennale della marcia su Roma Serra Pietro fu prosciolto dai vincoli dell’am-monizione con atto di clemenza del Duce. Per disposizione del Questore di Roma fu sottoposto a vigilanza da parte della polizia politica del regime.

Serra Rafaele Pietro morì in Roma il 28 luglio 1973. La Circolare Buffa-rini-Guidi che diede la stura alla persecuzione religiosa venne abolita il 16 aprile 1955, dopo vent’anni dalla sua emanazione e dopo ben sette anni dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Fatto appa-rentemente inspiegabile!

La Cattiva Reputazione

La storia non è come una macchina, che quando si fa vecchia deve essere per forza revisionata. Eppure sembra che per alcuni

sia così. Hanno iniziato i finti storici, gli pseudo-storici, ora anche gli storici veri e propri. Riscoprire un documento, osservare,

studiare con il distacco del tempo e la mente fredda, a dire il vero, ha aiutato a comprendere e scoprire molti fatti scomparsi

dalla memoria comune, evidenziando talvolta situazioni molto più importanti di quanto pensassimo. Ma troppo forte è la ten-

tazione di farsi portatori di nuove verità a distanza di decenni, soprattutto se le verità che si vuole riportare a galla sono consi-

derate più vere di quelle vecchie, perché necessarie a nuove teorie, ad un nuovo mondo. La storia la scrivono i vincitori si dice,

e se in parte è vero, è vero anche che i figli, i nipoti dei perdenti hanno molto spesso la tentazione di riscriverla. Ecco spuntare

quindi i Petacco, i Pansa, pure i Bruno Vespa, pronti a presentare volumoni di centinaia di pagine, con il nulla dentro dal punto

di vista scientifico e bibliografico, ma che con l’aiuto del marketing, con la polemica costruita ad arte, con l’uso della televisione,

riescono a farsi passare da storici, quelli veri dico, e le loro teorie diventano nuove teorie, per molta gente, purtroppo.

Dario Biocca non è uno storico di quel tipo, è uno storico veramente. Cosa l’avrà portato a scrivere di Gramsci e del “ravvedi-

mento” di quest’ultimo a distanza di ottant’anni? Che tornaconto ne poteva avere, visto che per addurre elementi inconfutabili

alle sue teorie non ha esitato ad appoggiarsi all’art. 176 del Codice penale, per lui in uso già dal 1934, ma che invece il professor

Joseph A. Buttigieg ha dimostrato essere del 1962?. Malafede? Errore filologico? Qui non si sta parlando di una persona qual-

siasi, ma di Antonio Gramsci, di un uomo morto in carcere per difendere le sue idee. Eppure Biocca non ha esitato a mettere in

piazza le sue teorie sul fatto che Gramsci avesse chiesto i domiciliari, perché ravveduto, come obbligava l’art. 176. Nella risposta

a Buttigieg, su “La Repubblica” del 19 marzo 2012, Biocca - dopo avere incassato il colpo - conclude sostenendo che comunque

Gramsci, negli ultimi due anni di carcere si chiuse in un silenzio che si protrasse fino alla morte, insinuando senza troppi veli

che la teoria sul ravvedimento del politico qualche appiglio lo potrebbe comunque avere.

Biocca, il silenzio di Gramsci è stato un grande esempio, anche per lei. A star zitti alle volte si guadagna in stima, in autorevo-

lezza e successo. Invece no, meglio parlare, anzi, sparlare.

cattivareputazione.blogspot.it

Memorie

1818

I 100 anni di Garibaldo, una vita per la democrazia

Livorno, 31 gennaio 2011. Benifei accompagnato dall’inseparabile Osmana arriva al Teatro Civico

poco dopo le 17. L’atrio è già stracolmo di persone che vogliono festeggiare Gari-baldo. Entra, guarda con stupore prima e con emozione poi (gli avevano nascosto i festeggiamenti, tanto che era un po’ stupito del fatto che nessuno si ricordasse di un anniversario così importante) le tantissime persone che lo vogliono salutare, stringergli la mano.

Garibaldo e sua moglie Osmana vengono accompagnati verso due grandi e comode poltrone, ed il primo saluto è quello delle loro nipoti che eseguono dei pezzi di musica classica.

Arrivano poi i saluti del coordinatore della Società Volontaria di Soccorso del comune di Livorno, dell’Ammiraglio del Porto di Livorno, del Presidente Nazio-nale dell’ANPPIA, del Sindaco della Città Alessandro Cosimi, del Presidente della Provincia e dei rappresentanti di tutte le organizzazioni nate a Livorno per volontà di Garibaldo. Vengono letti i telegrammi augurali del Vescovo di Livorno e dell’ex Questore e vengono consegnate a Benifei delle pergamene di ringraziamento per l’impegno sociale, culturale e politico profuso da sempre per la difesa della democrazia.

Nel teatro segue una lunga intervi-sta a Garibaldo, e alle domande che gli sono poste, risponde con la solita ironia e simpatia.

Un abbondante buffet, organizzato da varie associazioni tra cui la Coopera-tiva 8 Marzo, accoglie i numerosissimi intervenuti. Ma Garibaldo e Osmana mangiano ben poco, impegnati come sono a stringere mani e a fare foto. Tutti vogliono farsi ritrarre con loro. L’atrio del teatro è addobbato con le foto di Garibaldo e su uno schermo si susse-guono le immagini più significative di Garibaldo e Osmana, nei momenti d’im-pegno sociale e politico.

Si suonano le chitarre, s’intonano i canti della Resistenza, tutto in un clima gioioso, tutti vogliono ringraziare questo piccolo grande uomo, che ha dato veramente tanto alla città di Livorno.

Da Campiglia a Livorno, gli anni della formazione

Garibaldo Benifei nasce, ultimo di dodici figli, il 31 gennaio 1912 a Campi-glia marittima. Il padre, Garibaldo,

Operaio.Negli anni successivi l’impegno

politico clandestino di Garibaldo si fa più vico e attivo. È anche tra i dirigenti della Federazione giova-nile del partito che, in occasione dei funerali del comunista Mario Camici nel luglio 1933, ricevono il compito di coinvolgere e far scen-dere in piazza il maggior numero possibile di giovani.

La partecipazione dei livornesi è massiccia e la polizia fascista non interviene.

Garibaldo viene arrestato la prima volta nel luglio del 1933; in Questura è picchiato selvaggia-mente. Trasferito a Roma, viene condannato dal Tribunale speciale a un anno di reclusione per il reato di propaganda comunista. In carcere prima a Regina Coeli, poi a Livorno, in regime d’isolamento, ai Dome-nicani, conosce Sandro Pertini, il futuro Presidente della Camera e dell’Assemblea Costituente. Uscito nell’estate del 1934, viene assunto in una fabbrica di radiatori e riprende l’attività politica di opposizione al regime, come molti altri giovani livornesi negli anni tra il 1936 e il 1939, sull’onda dell’entusiasmo per gli avvenimenti di Spagna, con le vittorie del fronte repubblicano. Ed è solo per un caso fortuito che, una sera alla fine del 1937 sfugge all’ar-resto e al confino, mentre insieme ad altri compagni sta per imbar-carsi su un grosso motoscafo che dal Calambrone doveva raggiun-gere, appunto, la Spagna.

Alla fine di agosto del 1939 il gruppo dirigente livornese del partito decide di mandare in stampa ben diecimila volantini contro la guerra, sentita ormai come immi-nente, e contro le violenze del nazi-fascismo. Alla diffusione dei volantini, la reazione della milizia fascista è durissima e Garibaldo, che si occupava delle sottoscrizioni per il Soccorso rosso e del mate-riale di propaganda a stampa, è nuovamente arrestato. Nel marzo del 1940 è a Roma, processato dal Tribunale speciale e condannato a 7 anni per attività sovversiva. Nei primi di giugno del 1940 è trasferito nel carcere di Castel franco Emilia

iscritto al Partito repubblicano, muore tre mesi prima della sua nascita. La madre si chiama Maria Mariani. La famiglia Benifei si trova da subito a vivere in difficilissime condizioni economiche: la bottega del calzolaio del padre passa in gestione al figlio maggiore, Antonio; il secondogenito, Rito, lavora come muratore. L’uno socialista, l’altro anarchico, nell’im-mediato dopoguerra i due fratelli si impegnano nella lotta politica. Anto-nio viene eletto consigliere comunale nel 1919.

Dal 1920 le squadracce fasciste cominciano a fare irruzione nelle case, distruggono le sedi di partito, aggrediscono i rappresentanti delle associazioni dei lavoratori. La casa di via Cavour della famiglia Benifei viene incendiata e devastata nel giugno del 1921 e nel luglio 1922, in cerca di Anto-nio e Rito, i quali però erano già fuggiti da Livorno. Al resto della famiglia (Garibaldo, la madre, il fratello Eros e le altre sorelle) viene intimato di lasciare il paese entro poche ore. Così dalla stazione di Campiglia, una sera di luglio del 1922, Garibaldo raggiunge per la prima volta Livorno, dove si stabilisce definitivamente nel 1923. A 12 anni lascia la scuola e comincia a lavorare come “portantino” presso la Vetreria Rinaldi insieme al fratello Eros: vi rimane tre anni, durante i quali partecipa alla sua prima riunione sindacale e allo sciopero indetto dagli operai anziani organizzatisi per prote-stare contro le difficili condizioni di lavoro nella fabbrica. Fa poi il garzone, prima al bar Bizzi in via Solferino (luogo di ritrovo degli antifascisti livornesi), poi al caffè Bristol, all’an-golo di piazza Cavour (frequentato invece da molti dirigenti fascisti).

Nel 1923 entra nella sezione giova-nile della Pubblica Assistenza (SVS).

L’antifascismo militante e il carcere

Il suo impegno diretto nella politica attiva e nelle file del Partito comunista si ha nel 1931, quando il fratello Eros, entrato nel 1928 nell’organizzazione clandestina del partito, gli chiede di recapitare a Roberto Vivaldi del mate-riale di propaganda fatto entrare di nascosto dalla Francia: volantini, manifesti, copie dell’Unità, di Stato

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(Modena). La scarcerazione avviene il 26 agosto del 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini.

La lotta partigiana e la liberazione

Rientrato a Livorno, devastata dai bombardamenti, partecipa da subito

alle prime riunioni della Concentra-zione antifascista. Tra il settembre e l’ottobre del 1943 nasce ufficial-mente, seguendo le indicazioni dei dirigenti nazionali, il Comitato di Liberazione Nazionale livornese: Garibaldo è incaricato di mante-nere i collegamenti tra il Comitato di Liberazione dell’area di Livorno e quelli degli altri paesi della provin-cia e anche dell’area pisana. Fino all’estate del 1944mprtende parte attivamente alla guerra di libera-zione nelle file partigiane. Il CLN comincia ad assumere una dimen-sione sempre più interprovinciale e Garibaldo coordina le azioni e le attività dei distaccamenti tra Livorno e Grosseto, in partico-lare operando tra Castagneto e San

Vincenzo.Alla fine di giugno il Comando

militare alleato comunica che le formazioni partigiane dovevano essere sciolte e disarmate. Garibaldo, insieme ad altri, chiede con insistenza che si lasci proseguire ai partigiani la lotta

al fianco dell’esercito alleato, ma non ottenendo l’approvazione considera terminata la sua esperienza nella Resi-stenza. Così fa ritorno prima a Vada, dove prende contatti con il Comi-tato federale del Pci, e poi a Livorno, proprio il giorno dopo la liberazione della città dai tedeschi (19 luglio 1944).

Osmana

In quella stessa estate del 1944 comincia frequentare Osmana Benetti, tuttora compagna della sua vita. Anche lei militante nel Pci, aveva preso parte alle lotte partigiane con funzioni di collegamento e di diffusione del mate-riale di propaganda, organizzatrice e protagonista dei Gruppi di difesa della donna. Garibaldo e Osmana si fidan-zano; il matrimonio è celebrato il 24

gennaio 1945 dal sindaco Furio Diaz, nella casa comunale del Villaggio di Ardenza. Nel febbraio del 1945 Gari-baldo e Osmana vengono inviati dal partito, per risolvere alcune questioni delle locali sezioni, prima all’I-sola d’Elba e poi a Piombino, dove li raggiunge la notizia della fine della guerra e della liberazione del Paese. Inizia così un sodalizio di vita nutrito non solo dall’amore reciproco, ma anche dalla condivisione dei valori di libertà e giustizia sociale.

L’impegno nella cooperazione e nella solidarietà

A Piombino gioca un ruolo fonda-mentale nella ricostruzione, il movimento cooperativo (in particolare la cooperativa “La Proletaria”), che si diffonde via via nei paesi vicini. Gran parte del ruolo di Garibaldo all’interno del partito, in quegli anni, è proprio verso il rafforzamento di questa realtà, che conosce un rapidissimo sviluppo a Livorno e provincia. Nel 1946 è eletto presidente provinciale della Lega delle Cooperative e in seguito entra anche nel consiglio nazionale: compito questo che svolge con grande passione, perché da sempre convinto che la pratica della cooperativa sia la realiz-zazione concreta di molti degli ideali di unità e fratellanza che avevano animato le lotte antifasciste e la Resi-stenza. Nel 1948, a causa del mutato clima politico, nel pieno della “guerra fredda”, Garibaldo è accusato insieme a molti altri responsabili di organismi cooperativi di violazione delle leggi sui dazi doganali (per una questione di “pacchi dono” inviati dagli Stati Uniti). Si trova così nuovamente, dopo gli anni del regime, a vivere in clandestinità per circa un anno; arrestato e condan-nato a tre mesi di reclusione, trascorre tre giorni nel carcere dei Domenicani. In appello la pena gli viene cancel-lata e può riprendere i suoi incarichi ai vertici del movimento e all’interno del partito.

Nel 1957 Garibaldo è uno dei soci fondatori dell’ARCI, di cui firma personalmente l’atto costitutivo a Firenze. Da sempre impegnato nelle attività di assistenza ai più deboli e nel volontariato, ricopre negli anni succes-sivi a Livorno veri incarichi direttivi: principalmente nell’ECA (Ente comu-nale di Assistenza) e nella Società Volontaria di Soccorso.

Dell’Eca di Livorno è nominato

Il depliant pubblicato da Comune di Livorno e Istoreco per i cento anni di Benifei

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presidente verso la metà degli anni Settanta, succedendo a Ernesto Santo-padre. È sua l’iniziativa di far nascere, nei locali di fianco alla sede dell’as-sociazione, un asilo per i bambini intitolato a Primetta Marrucci.

Nella SVS di Livorno rimane volon-tario in servizio attivo per un lungo periodo. Partecipa, già dagli anni Sessanta, allo sviluppo del movimento regionale e nazionale delle Pubbliche Assistenza, in cui ricopre anche incari-chi dirigenziali. Dal 1981 al 1987 viene nominato presidente: in questi anni fa ristrutturare la vecchia sede dell’as-sociazione, ancora danneggiata dai bombardamenti, provvede all’aper-tura di nuovi ambulatori tuttora attivi, istituisce il primo servizio con medico a bordo in ambulanza. Al termine del mandato continua la sua partecipa-zione alla vita dell’associazione anche nel ruolo attivo di presidente del colle-gio dei Probiviri, che mantiene ancora oggi.

Verso il futuro: i giovani nel villaggio globale

Garibaldo, credendo fermamente nei valori della pace, dei diritti umani, della solidarietà internazionale e del rispetto tra i popoli, convinto che “una società dove molti sono gli esclusi è una società senza futuro”, è anche uno dei fondatori, ancora oggi nell’esecu-tivo, dell’Associazione Livornese di solidarietà con il Popolo Saharawi. Dal 1993 l’associazione promuove scambi interculturali tra bambini e fami-glie, gemellaggi, adozioni a distanza e molteplici iniziative finalizzate a costruire una solidarietà concreta tra il popolo saharawi e quello livornese, nell’ottica di una sempre più ricca inte-razione tra queste due culture così differenti.

Nel 2002 riceve una targa d’argento dal comune di Livorno come rico-noscimento per l’impegno civile e la continua testimonianza ai giovani dei valori di libertà e giustizia. Nel 2007 è presidente onorario dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.

Ma l’impegno più appassionato di Garibaldo dal dopoguerra ad oggi è quello all’interno dell’Anppia, di cui è fondatore a livello nazionale con Umberto Terracini, e presidente, a Livorno, fino ai giorni nostri. Un impegno assiduo il suo nel portare

testimonianza di storia e di vita nelle scuole (interviste, progetti, viaggi con le classi sui luoghi degli eccidi fascisti e nazisti) affinché i giovani compren-dano i valori della democrazia, della giustizia, della libertà.

DA PARMA

Non si cancellano la storia e il valore della Resistenza jugoslava

Fascisti, leghisti e destre antico-muniste vorrebbero fosse eliminata l’intitolazione a Tito della piccola strada di Parma esistente dagli anni ’80, e in alternativa introdotta “via martiri delle foibe”.

È una richiesta grave e assoluta-mente inaccettabile, espressione di quel “revisionismo storico” mirante a sminuire il valore della Resistenza antifascista, oscurare i crimini fascisti e nazisti, e rivalutare in qualche modo il fascismo.

Morti delle foibe, nel settembre-ottobre ’43 e nel maggio ’45, furono alcune centinaia di italiani (migliaia aggiungendo dispersi e fucilati in guerra, deportati e morti in campi di concentramento jugoslavi, ecc.) in gran parte militari, capi fascisti, dirigenti e funzionari dell’amministrazione italiana occupante la Jugoslavia, colla-borazionisti. Morti per atti di giustizia sommaria, vendette ed eccessi, da parte di partigiani jugoslavi, derivanti dall’odio popolare e dalla rivolta nei confronti dell’Italia fascista. Consi-derare questi morti indistintamente, accomunarli tutti insieme, non rende giustizia a quella parte di loro che furono vittime innocenti. Vittime, non martiri. La stessa legge statale del 2004 istitutiva del “giorno del ricordo delle vittime delle foibe” non usa mai la parola “martiri”.

Violenza di proporzioni di gran lunga superiori, sistematica e piani-ficata, e precedente, è stata quella del fascismo a partire dal 1920. Azioni delle squadracce contro centri cultu-rali, sedi sindacali, cooperative agricole, giornali operai, politici e cittadini di “razza slava”, poi, nel ventennio, la chiusura delle scuole slovene e croate, il cambiamento della lingua e dei nomi, l’italianizzazione forzata, infine, nell’aprile del ’41, l’ag-gressione militare, l’invasione della

Jugoslavia da parte dell’esercito del re e di Mussolini, pochi giorni dopo quella da parte della Germa-nia nazista. L’Italia si annesse direttamente alcuni territori (come Lubiana e parte della Slove-nia), altri tenne sotto controllo, in condizioni di occupazione partico-larmente dure e crudeli, non meno di quelle naziste. Distruzione di interi villaggi sloveni e croati, dati alla fiamme, massacro di decine di migliaia di civili, campi di concen-tramento.

Di qui la rivolta contro l’Italia fascista, lo sviluppo impetuoso del movimento partigiano delle forma-zioni repubblicane e comuniste guidate da Tito, la grande lotta anti-fascista e antinazista nei Balcani.

Enorme è stato il tributo jugoslavo alla guerra contro il nazi-fascismo: su una popolazione di 18 milioni di abitanti dell’intero Paese, furono al comando di Tito 300.000 combattenti alla fine del ’43 e 800.000 al momento finale della liberazione, 1.700.000 furono i morti in totale, sul campo 350.000 i partigiani morti e 400.000 i feriti e dispersi. Da 400.000 a 800.000, ovvero da 34 a 60 divisioni, furono i militari tedeschi e italiani tenuti impegnati nella lotta, con rilevanti perdite inflitte ai nazifa-scisti. Una lotta partigiana su vasta scala, che paralizzò l’avversario e passò progressivamente all’offen-siva, un’autentica guerra, condotta da quello che divenne un vero e proprio esercito popolare e che fece di Tito più di un capo partigiano, un belligerante vero e proprio, rico-nosciuto e considerato a livello internazionale.

La Resistenza della Jugosla-via è stata di primaria grandezza in Europa e da quella esperienza la Jugoslavia è uscita come il paese più provato e al tempo stesso più trasformato. La Resistenza jugo-slava ancor più di altre è stata più di una guerriglia per la liberazione del proprio territorio, è stata empito universale di una nuova società, ansia di superamento delle barriere nazionali, anelito di pace, libertà e giustizia sociale, da parte di tanti uomini e tante donne del secolo scorso.

Ai partigiani jugoslavi si unirono, l’indomani dell’8 settembre ’43,

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quarantamila soldati italiani, la metà dei quali diedero la vita in quell’epica lotta nei Balcani; essi, col loro sacrificio, riscattarono l’Ita-lia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata. A questi italiani devono andare il ricordo e la riconoscenza della Repubblica democratica nata dalla Resistenza.

Comitato Antifascista e per la Memoria

Storica – PARMA

DA VERONA

Riprendono nel 2012 le nume-rose iniziative scaligere. L’Istituto veronese per la

storia della Resistenza e dell’età contemporanea, l’ANPI, l’ANPPIA e l’ANED, per ricordare il GIORNO DELLA MEMORIA, hanno orga-nizzato una serie di iniziative di cui diamo conto qui di seguito.

14 gennaio

Presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR, è stato presentato il libro Quella del Vajont Tina Merlin, una donna contro di Adriana Lotto (Cierre 2011).

Ha presentato il volume Lorenza Costantino alla presenza dell’Au-trice.

“Il nome di Tina Merlin resta legato alla tragedia del Vajont. Fu infatti la prima giornalista, e unica fino alla catastrofe, a denun-ciare l’operato della Sade (Società Adriatica di Elettricità) di voler realizzare la diga che, con la nazio-nalizzazione dell’energia elettrica, sarà ceduta all’Enel. Tina Merlin era una cronista di vaglia, una voce libera che dalle colonne de “l’Unità” dava spazio ai timori dei montanari sui pericoli incom-benti per le popolazioni della valle. Aveva partecipato alla Resistenza e per ricordare il contributo delle donne alla lotta di liberazione scrisse un libro di racconti parti-giani Menica e le altre. Animata da grande passione per il suo mestiere, viveva il lavoro come una missione occupandosi fra l’altro di emigrati, di territorio ferito, di montagna abbandonata, di sviluppo sosteni-bile e di ecologia. Si occupò sempre di emancipazione femminile che secondo lei, moglie e madre, era

adolescenti al centro: sia come oggetti di ricerca che come soggetti attivi nella trasmissione delle conoscenze sul passato. Un passato, quello compreso tra il 1938 e il 1945, di cui si parla e sul quale ci si «emoziona» ma sul quale troppo poco ancora si riflette e si studia. Chi l’ha vissuto direttamente ed è in grado ricordarlo ora è anziano e a quel tempo aveva l’età delle ragazze e dei ragazzi a cui ci rivolgiamo oggi; si tratta di difficili ricordi d’infanzia”.

Il violino di Andrea Testa ha accom-pagnato alcuni momenti dell’incontro.

11 febbraio

Si è tenuta la conferenza dal titolo: Prima della Shoha, relatore Carlo Saletti, introdotta da Roberto Buttura.

Carlo Saletti è curatore con Erne-sto De Cristofaro del libro Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’o-rigine dell’eutanasia dei malati di mente nella Germania nazista, edito nel 2012 dalla casa editrice ombre corte di Verona.

“Tra i primi sostenitori della neces-sità di procedere a eliminazioni programmate di vite umane erano stati, agli inizi degli anni Venti, il giurista Karl Binding e lo psichia-tra Alfred Hoche. Nell’abiura dei più elementari principi umanitari, questi precursori dello sterminio, che predi-cavano la soppressione di tutti quei malati giudicati dalla scienza medica inguaribili, affidarono il loro messag-gio a un breve libro destinato a fare scuola’.

18 febbraio

Nella sede dell’ANPPIA, ANPI e IVrR, sala “Berto Perotti” è stata indetta la Giornata del tesseramento

inscindibile dal lavoro. Per le sue denunce sui pericoli della costruzione della diga del Vajont fu denunciata per turbativa dell’ordine pubblico, proces-sata e infine assolta. Rimase ai margini della grande stampa, quasi fosse stato attuato nei suoi confronti una sorta di ostracismo. Morirà a Belluno il 22 dicembre 1991 a 65 anni”.

21 gennaio

Presso la sala “Berto Perotti” dell’I-VrR, il 21 gennaio è stato proiettato il documentario E come potevamo noi cantare. Milano 1943 – 1945. Le deportazioni. Un film di Vera Paggi, Dario Venegoni, Leonardo Visco Gilardi. Regia di Massimo Buda. Era presente Dario Venegoni.

E come potevamo noi cantare con

il piede straniero sopra il cuore tra

i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al

figlio crocifisso al palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento’.

(Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei

salici – 1945)

4 febbraio

Presso la sala “Berto Perotti” dell’I-VrR ha avuto luogo l’incontro: Storia di Luisa. Una bambina ebrea di Mantova, conversazione di Dona-tella Levi con Maria Bacchi e Fernanda Goffetti, curatrici della ricerca che è stata pubblicata nel 2011 dall’editore Gianluigi Arcari di Mantova. Ha intro-dotto l’incontro Roberto Bonente

“Storia di Luisa, mette bambini e

Adriana Lotto autrice del libro su Tina Merlin

Noi

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ANPPIA 2012. L’incontro ha avuto come tema: Fare oggi la storia dell’antifascismo.

L’esperienza modenese, Tema trat-tato da Claudio Silingardi, direttore dell’Istituto storico di Modena. Ha introdotto Roberto Bonente, consi-gliere nazionale ANPPIA.

Claudio Silingardi è uno dei curatori del Dizionario storico dell’antifasci-smo modenese realizzato dall’istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Modena. L’obiettivo fondamentale del Dizionario è quello di restituire volti e voci, per quanto possibile, ai molte-plici fenomeni e casi di opposizione al fascismo dall’inizio degli anni Venti fino alla svolta dell’8 settembre 1943, adottando come contesto spaziale di riferimento l’intera provincia mode-nese.

25 febbraio

Organizzato un incontro-conver-sazione con Roberto Bonente, tenuto presso la sala “Berto Perotti” dell’IVrR dal titolo: In memoria dei veronesi caduti nei campi di deportazione.

Nel 1966, per celebrare il XX anni-versario della Liberazione, la sezione veronese dell’Associazione nazionale ex deportati pubblicò un piccolo ma prezioso libretto: In memoria dei vero-nesi caduti nei campi di deportazione.

Scritto da Alfredo Molin, deportato a Mauthausen e che sarà in seguito presidente dell’Aned di Verona, con una presentazione di Augusto Tebaldi, deportato a Flossenburg, voleva essere

DA MILANO

Il Coordinamento ANPI Milano e il Comitato Antifascista per la difesa della Democrazia zona Sei di Milano ci inviano il comunicato stampa sull’ennesima provocazione fascista di Forza Nuova

Oggi 10 febbraio 2012 “Giorno del Ricordo” ore 17.00 presso la Sala Polifunzionale del

Comune di Milano “SEICENTRO” in Via Savona 99 a Milano (Zona sei) alle ore 17.00 circa, una quindicina di persone con viso coperto da maschere e passamontagna hanno fatto irru-zione nella sala Teseo dove è in esposi-zione, a cura della Fondazione Memoria della Deportazione con il Patrocinio del Consiglio di zona sei la Mostra: FASCISMO FOIBE ESODO

DA TORINO

Lutto a Torino

CARMELA MAyO CI hA LASCIATI

Il 18 gennaio è deceduta a Torino Carmela Mayo vedova Levi che faceva parte del Comi-

tato Direttivo della Federazione Anppia di Torino. Aveva appena compiuto 97 anni era nata il 14 gennaio 1914).

Nata a Gradisca d’Isonzo (Gori-zia), la sua famiglia giunse profuga a Torino nel 1915. Dopo una iniziale adesione al fascismo, che la vide protagonista delle attività delle “Giovani italiane”, Carmela inizia un percorso di ribellione alle ingiustizie e alla propaganda anti semita. Le leggi razziali segnano il suo definitivo distacco dal fasci-smo e l’inizio di un percorso che la porterà alla militanza antifascista. Nel novembre 1943 aveva sposato

Verona, 25 febbraio il relatore Roberto Bonente

Noi

“La tragedia del confine orientale”.Imbrattare i cartelloni, lanciare

volantini firmati Forza Nuova, urlare contro la commessa e i citta-dini in sala, ecco l’azione vile dei “visitatori”. Al contrasto deciso dei presenti, i quindici lasciavano la sala senza potere continuare l’opera di danneggiamento dei cartelloni.

Sdegno e piena condanna dalle forze Democratiche della zona, l’ANPI di Zona e Il Comitato Antifascista per la difesa della Democrazia zona sei Milano INVI-TANO tutti i cittadini a visitare la mostra domani… proprio per capire che la verità dà sempre fasti-dio ai “fascisti” e proprio la verità particolare del Giorno del Ricordo ancor più infastidisce chi da sempre confonde, infanga, inquina, revi-siona, fatti e azioni che sono la nostra storia.

Milano città medaglia d’Oro della Resistenza, non può accet-tare questa forma di violenza fisica e di pensiero, ancora una volta la nostra risposta democratica, civile e di presidio antifascista si muoverà sul territorio raccontando verità portando cultura e chiedendo alle Istituzioni e cittadini tutti, vigi-lanza e negazione di qualsiasi spazio al fascismo, al razzismo.

«uno scarno tremendo rendiconto finale di una inumana operazione, la cui impressionante vastità è rispec-chiata anche per questo angolo d’Europa da nomi e cifre: una pagina indimenticabile di dolore e di sacri-ficio, troppo spesso dimenticata e misconosciuta».

Nella guerra che si combat-

te nel mondo tra il bene e il male,

dovete dare il vostro nome

alla bandiera del bene

e avversare senza tregua il male.

(Giuseppe Mazzini)

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Mario Levi, noto ebreo antifascista, membro del PCI, condannato a 3 anni di reclusione perché, ufficiale dell’esercito, aveva fornito armi ai “sovversivi” durante l’occupazione delle fabbriche ed era stato difeso dall’on. Terracini dinanzi al Tribu-nale Militare. A inizio guerra era stato poi internato, con altri ebrei, ad Ateleta, in Abruzzo. Per sfuggire alle ricerche dei tedeschi, durante la Resistenza la coppia si rifugia nelle Valli Valdesi sotto falso nome (Olaro). Qui Carmela si unisce alla 105a Brigata partigiana Garibaldi “Carlo Pisacane” e opera quale staf-fetta portaordini tra la brigata e il

Sottoscrizioni

Anna Canitano (Morlupo) 25,00

Bruno Bevilacqua (Mi): 15,00

Eolo Passalacqua (Vi) in memoria

del padre Luigi: 130,00

Maria Rosa Militano (Mi) in me-

moria del marito perseguitato politi-

co Pasquale Melara: 60,00

Mirella Bertolino (To) in memoria

del padre Guglielmo: 170,00

Neviana Dusi (Cesenatico) in me-

moria del padre Luigi Dusi e della

madre Ada Pagan: 30,00

Pina Specchio Quagliotti (Ao):

10,00

Valentina Lucchi (Bo) in ricordo del

marito Medardo Anderlini: 100,00

Sollecitati a replicare allo “sfogo” pubblicato nel numero scorso, i lettori rispondono

Due Risposte a Terracciano

La lettera di Nicola Terracciano

pubblicata sul mensile L’antifascista

dell’ottobre - dicembre 2011 (p.

2) dipinge dell’Italia attuale un

quadro a nero di pece, dove tutto è

buio e non si distinguono forme.

Mentre si legge, in certo modo vi si

ritrova se stessi, perché ognuno di noi

(intendo noi democratici e antifascisti)

soffre nelle proprie viscere la bruttura

del mondo quale si è andato delineando

da qualche decennio a questa parte.

Per noi italiani in particolare si

aggiunge l’umiliazione di un paese

in preda all’illegalità e alla rapina.

Eppure, proseguendo nella lettura

delle due “colonne infami” si ricevono

stilettate ulteriori, non più ascrivibili

all’oggetto rappresentato, ma inerenti

alla rappresentazione stessa. Insieme al

presente, viene coperto di fango anche il

passato, anche quello più nobile, quello

che dovrebbe e forse potrebbe segnare la

via del riscatto. Giudizi gettati qua e là,

così perentori e ingiusti che non possono

essere lasciati senza risposta puntuale.

“… imperversano partiti e loro

cinghie di trasmissione che sono i

sindacati di cosiddetto centro-destra

e di cosiddetto centro-sinistra…”.

Anche la CGIL, anche la FIOM,

che si stanno battendo contro, che

continuano a lottare, che sono ancora

l’unica organizzazione di massa contro

l’arbitrio finanziario? Un po’ di solidarietà

non stonerebbe. Già, ma a rileggere

daccapo l’articolo, si scopre che aveva

preso le mosse proprio dall’arbitrio

finanziario, assunto però come “mercato”

e “fiducia” (sfiducia) degli altri paesi

nei confronti di un’Italia peccatrice.

Terracciano assume la finanza nazionale

e internazionale come termometro,

laddove sappiamo tutti che è il cancro.

“… la cara miracolosa democrazia

repubblicana conquistate [sic!] con lacrime e

sangue dall’Antifascismo e dalla Resistenza,

specialmente non comunisti [sic!]……”.

Palesemente la foga rabbiosa fa smarrire

all’autore il rispetto, oltre che della verità,

delle concordanze grammaticali. A parte

questo, ognuno ha il diritto giuridico

di essere anticomunista nella maniera

e nella misura che crede, ma affermare

che la democrazia e la repubblica furono

riconquistate in Italia grazie alla Resistenza

soprattutto non comunista è un falso

storico, una pura e semplice menzogna!

E, tra l’altro, vogliamo ricordarci, se

non altro un pochino, l’oscuro lavorio

nell’ombra di certi “resistenti non

comunisti”, come ad esempio Pacciardi e

Sogno, golpisti in futuro, ma all’opera già

allora per una democrazia imbrigliata?

Ma vediamo il seguito della frase:

“… non comunisti (cioè non bacati,

contorti, capovolti, ridimensionati dal mito

totalitario stalinista)…”. Personalmente,

sono nato alla politica come socialista; mi

iscrissi al PSI nel 1963 all’età di 23 anni; vi

militai fino al 1976 quando, disgustato dalle

prime avvisaglie del craxismo, passai con

convinzione e passione al PCI, del quale

era allora segretario e guida Berlinguer.

Noi

Lettere

comando di Torino e come redattrice di un giornale clandestino. È signifi-cativa la sua partecipazione ai Gruppi di difesa della donna, che dà inizio alla sua attività politica dedicata al mondo femminile.

Dopo la Liberazione Carmela si adopera nel settore sociale riunendo l’Associazione Pionieri d’Italia (ragazzi fino ai 15 anni) e difendendo i diritti delle donne. Nell’Anppia, da vedova, ha dato un valido contributo di idee e di attività insieme a Rita Como-glio ved. Bazzanini, tuttora viva e quasi coetanea.

Carmela Mayo in una rara foto giovanile

Non ho mai cambiato le mie idee e i miei

valori di fondo, salvo che su questioni

di analisi contingente, ad esempio sul

grado di snaturamento raggiunto prima

dal PSI (negli anni del centro-sinistra),

poi dal PCI (negli anni Ottanta). Non

posso perciò che essere d’accordo che

lo stalinismo sia stato una tragedia per il

comunismo internazionale e anche per il

comunismo italiano: nel suo sbandamento

totale dopo la Bolognina ha certo avuto

parte non secondaria il crollo del mito

sovietico, che nei cuori di troppi comunisti

si legava troppo inestricabilmente con

l’ideale comunista. Ma come negare che,

nonostante quest’ipoteca, e in parte anche

grazie ad essa, il PCI, dal ’45 all’84, fece

molte grandi cose? Vogliamo elencarle?

Sarebbe troppo lungo! Facciamo a capirci!

“… il sostanziale “colpo di stato” del

novembre-dicembre 1945 ordito dal

Vaticano, dai democristiani di De

Gasperi, dai comunisti di Togliatti, dai

socialisti proletari di Nenni, dai liberali

di Croce e di altri contro il governo del

rinnovamento radicale democratico

dell’azionista liberal-socialista Parri…”.

Si salvi chi può! Ma si salva solo Parri. La

carta costituzionale, un capolavoro politico

e giuridico riconosciuto come tale da

tutto il mondo, compresi storici e giuristi,

viene declassato a colpo di stato! Data

l’ammucchiata dei personaggi elencati non

sembra trattarsi solo della questione della

costituzionalizzazione del Concordato

con la Chiesa cattolica, ma anche di altro:

di che cosa? Terracciano avrebbe fatto

bene a spiegare. A questo punto viene il

dubbio che, nonostante le sue precedenti

professioni mercatiste e anticomuniste,

egli avrebbe vagheggiato, dopo la caduta

del fascismo, la rivoluzione socialista

immediata e una sorta di repubblica

sovietica (fatalmente, gli piaccia o no,

egemonizzata da Stalin). Questo avrebbero

dovuto fare nel ’45-’48 Togliatti, Nenni e i

loro “antagonisti-complici”? Saggiamente,

non vollero farlo. Ma, se anche avessero

voluto, non avrebbero potuto, dati i vincoli

internazionali oggettivi. La storia non

è così semplice, e non la si capisce con

la rabbia e il disprezzo generalizzato.

“Maggioranze eroiche politiche e

intellettuali con il “vero popolo lavoratore”

[la maggioranza silenziosa?] hanno

compiuto il miracolo della “ricostruzione’,

con l’aiuto degli Alleati e in particolare

degli Stati Uniti d’America…”.

Viva la DC! Viva Saragat! Viva la CIA!

Non ne verrà nulla di buono, se all’attuale

sfascio aggiungiamo lo smarrimento della

memoria, l’oblio di quanto fece la classe

l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati

Politici Italiani Antifascisti

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Antonella Amendola

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Chiuso in redazione il: 5 aprile 2012

finito di stampare il: 16 Aprile 2012

Registrazione al Tribunale di

Roma n. 3925 del 13.05.1954

lavoratrice che, con l’aiuto determinante

delle sue organizzazioni sindacali e

politiche, sognò un mondo migliore

e, mentre sognava, trasformò davvero

l’Italia e tante altre nazioni in paesi

civili, o anche soltanto meno incivili.

Giovanni Cerri (Roma)

Sull’ultimo numero della nostra rivista

ho letto l’articolo del signor Nicola

Terracciano. Sono rimasta esterrefatta

ed ho pensato ad un uomo molto

infelice e, soprattutto, inutile a se stesso

e pericoloso per la società nella quale

vive; dirò brevemente il perché, anche

se il nostro “amico” è di quel genere

di persone che non si convince.

Ho partecipato – come modesta

staffetta – alla lotta di Liberazione

nel bolognese in una Brigata gloriosa

– la “Bolero’. Io ero – e sono rimasta

– COMUNISTA anche se mi adeguo

alle ginnastiche politiche attuali. Nella

Brigata i comunisti erano la maggioranza

(ed anche i Caduti), ma anche altre

ideologie – o assenza di ideologie – erano

presenti ed attive: lo scopo era unitario,

cacciare i nazi-fascisti e conquistare

la LIBERTÁ e la DEMOCRAZIA.

Finita la guerra ci siamo dedicati

TUTTI (cioè tutto il popolo e non solo

una minoranza americaneggiante)

alla ricostruzione materiale e morale.

Partiti, Sindacati, Istituzioni tutti per un

unico scopo. E sono stati anni lunghi e

colmi di battaglie politiche e sindacali.

Occorrerebbero libri molto grossi per

descriverle anche per sommi capi.

Io ho fatto a lungo parte di queste battaglie,

all’interno delle Istituzioni. Oggi ho quasi

86 anni, ne ho lavorati 47 e vivo della

mia pensione in un appartamento che

non è mio. Non ho mai preso nulla che

non fosse frutto del mio lavoro, neppure

quando ho fatto parte di organi dirigenti.

Ma non soltanto io ho vissuto in modo

onesto e pulito: come me milioni di

italiani ed anche sindaci, politici,

sindacalisti, giudici, poliziotti ecc. ecc.

Certo la corruzione esiste, la mafia,

la ‘ndrangheta ecc. sono realtà

vere e pericolose. La corruzione ci

opprime, specie dopo la triste epopea

berlusconiana che tutto copriva (e copre).

La maggioranza degli italiani è convinta

che è necessario lottare “contro” e lo fa,

anche se spesso il prezzo è molto alto.

Pensa di mettere nel “mucchio” dei

corrotti anche i tanti giudici, poliziotti,

sindacalisti, intellettuali, politici abbattuti

vigliaccamente? E studenti, e popolo?

Inoltre, le sembrano “corrotti” milioni

di persone (lavoratori, donne, studenti,

pensionati, disoccupati ecc.) che lottano

nelle piazze? O sono la maggioranza del

Paese convinta ed unita dei propri diritti

e nel nome di chi tutto ha sacrificato?

Sono d’accordo soltanto su una citazione

della lettera del signor Terracciano:

la nobiltà della figura di Parri. Ma era

a capo di un partito molto piccolo

(anche se intellettualmente di livello

alto) e da solo non avrebbe potuto

fare molto. Ma Lui lavorava assieme

agli altri Partiti del CLN nati dalla

Resistenza e composti da persone

oneste e decise. Anche i Comunisti.

Per quanto riguarda il “colpo di

stato” del novembre-dicembre 1945,

provi ad indagare sui suoi amici

americani e sul Convegno di Yalta…

Lei, signor Terracciano, che cosa ha

fatto o fa per cambiare la situazione?

Dalla sua lettera emerge una persona

pericolosa per la società italiana:

rabbiosa, astinente e comodamente

inutile, per poter dire “l’avevo detto”…

Gabriella Zocca (Bologna)

Lettere