ME,ME REGORDE SEMPRE

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Giovanni Valsecchi ME, ME REGORDE SEMPRE

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Giovanni Valsecchi

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Giovanni Valsecchi

M E , M EREGORDES E M P R E

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Me, me regorde sempre

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Ha messo in fila i ricordi:Gianfranco Brini

Introduzione e coordinamento:Maria Carla Bolis

Ricerca iconografica e fotografica:Lara Cattaneo

Impaginazione e stampa:Grafiche Cola Srl - LeccoStampato su carta ecologica certificata

In copertina:1942, Gianni davanti al Santuario di Santa Maria del Lavello

© Copyright 2010 Giovanni Valsecchi

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Dedico questo libro alle persone della mia famiglia che

hanno fatto sì che io diventassi quello che sono e che hanno

reso la mia vita ricca e bella:

- a mia moglie Natalina, compagna della mia vita da 63

anni;

- ai miei figli Silvana con Stefano, Ornella con Erminio, Ro-

sella con Roberto e Aldo con Gabriella;

- alle mie sorelle Rosa,Vittoria, Anna, Piera e un’altra Rosa,

a mio fratello Franco;

- a mia cugina Rosetta, che è vissuta con noi nella stessa casa;

- ai miei nipoti Silvia, Marzia, Lara, Gianluca, Massimo e

Giacomo;

- ai miei pronipoti Verena, Federico, Simone, Alessandro.

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Introduzione

Calolzio, 24 giugno 2009, tardo pomeriggio.Incontro Lara, la nipote del signor Giovanni Valsecchi, che midice: “Mio nonno, il lunedì quando vado a trovarlo, mi raccontamolti episodi e avvenimenti della sua vita e, da qualche tempo,su mia richiesta, ha incominciato a scriverli, così come gli vengonoin mente”. “È proprio una bella cosa quello che gli hai propostodi fare - rispondo - certamente questo farà bene a lui, ma sarà an-che un patrimonio per la tua famiglia perché la sua memoria sto-rica vi apparterrà per sempre!”. E Lara incalza: “Sì, è vero, ma oravorrei fare per lui qualcosa di più: vorrei fare in modo che questiricordi, scritti così, man mano che gli episodi gli si affollavano allamente, richiamati l’uno dall’altro, assumessero la forma di un li-bro con un andamento cronologico corretto e una forma esposi-tiva più chiara e comprensibile per tutti”. Mi intenerisce questopensiero di Lara, perciò le rispondo. “Se puoi trascrivere il testo,me lo mandi, così posso leggerlo. Poi vedremo”.Lara mi fa intendere che era questa la sua speranza e non vorreideluderla.Ma, in effetti, non sono esperta nel lavoro di redazione di untesto e un conto è ascoltare dei racconti dalla viva voce del pro-tagonista stesso, un altro è leggerli: serve il contesto.Perciò ho chiesto un suggerimento a Gianfranco Brini, mio co-gnato, medico scrittore, anche lui originario del Lavello e conmigliore conoscenza di luoghi e persone, il quale ha avuto, a mioparere, una splendida idea: ha suddiviso la narrazione del signorGianni in 23 racconti brevi, dando a ciascuno un titolo che ri-

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chiama il contenuto dell’episodio saliente e organizzandone inol-tre l’ordine cronologico. Si tratta di 23 bozzetti, trascritti in modofedele al testo originale; intorno ad ogni episodio è stata costruita,per così dire, la sua cornice, per rendere più comprensibile e piùavvincente la lettura, anche a chi non è addentro alle storie delLavello, non conosce le famiglie, le loro relazioni e i luoghi. Nerisulta così un racconto, a volte divertente, a volte drammatico,a volte addirittura tragico, ma molto vivace e coinvolgente. Intutti i racconti i personaggi si muovono intorno alla figura delnarratore, Giovanni Valsecchi.Ho conosciuto il signor Gianni molto tempo fa, quando da ra-gazzina mi recavo con i miei famigliari al Ristorante del Lavello,in occasione di qualche ricorrenza da festeggiare.Me lo ricordo come un uomo robusto, affabile, molto attento edisponibile con i suoi clienti. Non conoscevo però la sua vita pas-sata, prima di diventare ristoratore, perciò quando Lara mi haproposto di leggere i suoi diari ne sono stata incuriosita e attratta.Sono nata e vissuta a Calolzio e amo molto sentire raccontaredagli anziani le vicende e gli accadimenti del passato: sono storiein cui il vissuto personale del protagonista si intreccia con la sto-ria collettiva del nostro paese in un arco di tempo che, in questocaso, occupa quasi un secolo. È perciò un patrimonio che, ap-pena ci è possibile, è bene conservare e tramandare perché aiutaa comprendere e a riflettere.Per buona parte il racconto segue un ordine cronologico a partiredagli anni ’30, quando il protagonista dice di avere il suo primo

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flash di memoria, a cinque anni, fino ai giorni nostri. Oltre al ri-cordo dei fatti, ci sono pensieri, emozioni, sentimenti e il desi-derio di comunicare per iscritto le sue raccomandazioni aifamigliari, i suoi ringraziamenti alle tante persone che ha incon-trato nella vita e che lo hanno aiutato in vari modi.E come sempre quando si ricorda, le immagini si affollano allamente, una cosa ne richiama un’altra perciò viene raccontata im-mediatamente, prima di dimenticarsene, i volti delle persone carescomparse riappaiono con la forza dell’affetto e del ricordo.Tra gli aspetti più evidenti della narrazione del signor Gianni viè la capacità di ricostruire avvenimenti anche molto lontani neltempo, riportando nel dettaglio date, nomi, sensazioni e valuta-zioni.La sua infanzia è stata segnata da una grande miseria, cosa co-mune a molti in quei tempi difficili, da una difficoltà del viverequotidiano in cui però il valore dei rapporti umani e della soli-darietà era molto sentito.Nella giovinezza ha partecipato come marinaio alla II guerramondiale e dopo l’8 settembre è entrato a far parte delle forzepartigiane. Questa parte del racconto è molto ampia e piena diricordi, di personaggi, di avventure raccontate con molta preci-sione e partecipazione emotiva.L’ultima parte del suo racconto si riferisce allo sviluppo fortunatodella sua attività di ristoratore che, cominciata con la famiglia inuna osteria, “I tre olmi”, che non procurava grandi guadagni, siè trasformata, grazie al lavoro suo e della sua famiglia, in un’atti-

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vità fiorente e molto vantaggiosa che gli ha permesso di raggiun-gere per sé, ma soprattutto per i suoi figli, un benessere di cui daragazzo non aveva mai goduto.Infatti, quando sono stata da lui qualche tempo fa e gli ho chie-sto come mai avesse accettato la proposta di sua nipote e desi-derasse mettere “bene” per iscritto i suoi ricordi, mi ha risposto:“Volevo raccontare che se mio nonno Francesco Primo era dettoCento milioni perché diceva di averli e invece non aveva una lira,io che non l’ho mai detto, l’ho però fatto! E poi ho anche pen-sato che se in futuro i miei nipoti e adesso anche i pronipoti vor-ranno sapere qualcosa di me, della famiglia, del Lavello leggerannoi miei scritti e conosceranno le cose, così come sono andate!”. Cosìil suo racconto, oltre ad essere per lui un modo per tirare le filadella sua vita e raccontarne con orgoglio i successi, risulta ancheessere un regalo che fa ai suoi famigliari, arricchendo il loro ba-gaglio di conoscenza della propria storia e un monito ad “andaresempre d’accordo, a conservare alcune tradizioni ad impegnarsisempre per migliorare”, forti del suo esempio.

Maria Carla Bolis

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Caro nonno,

ho deciso di scrivere insieme a te questo libro spinta dalla

curiosità di sapere aneddoti e particolari della tua vita

e per renderti omaggio, in modo che altre persone possano

conoscerti e prendere esempio da un uomo tenace nel-

l’inseguire i suoi obiettivi, generoso e pronto ad accogliere

tutti con un sorriso e con la sua caramella.

Tua nipote Lara

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Cento milioni

Potevo avere cinque anni. Forse uno in più, forse uno in meno.La “murella” stava sopra il fiume, in fondo al sagrato della chiesa.I vecchi si sedevano lì con una tazzina in mano: una tazzina diNustranel1, un vino che aveva pochi gradi in più dell’acqua. Miononno, che tutti chiamavano Francesco Primo, diceva che avevacento milioni. Per questo lo chiamavano Cento milioni. In veritànon aveva neanche un centesimo. Mia mamma lo sgridava perchéogni tanto dava da bere anche a me un sorso di Nustranel. Centomilioni faceva anche l’accalappiacani per conto del Comune.Anche la casa in cui stavamo era del Comune e dietro la casa c’eraun cortile sempre popolato dai cani randagi accalappiati. Non eracerto un mestiere di grande reddito. Allora, con un po’ di com-pagni, se ne andò in Svizzera a lavorare. Ma anche lì non fece nes-suna fortuna. Mio zio Cente (sta per Innocente) mi raccontavache l’arciprete aveva ricevuto una lettera dalla Svizzera, forse daun parroco di lassù: non avevano i soldi per ritornare dalla confe-derazione. Lo disse dal pulpito in chiesa, durante la messa: fecerouna colletta per il rimpatrio in treno degli emigranti sfortunati.Tempo dopo aprirono un’osteria. C’erano tre olmi. L’osteria era“L’osteria dei tre olmi”. C’era tanta miseria, non solo in casa mia,ma dappertutto. Il vino acquistato da un grossista di Olginateveniva bevuto da tutti sia in famiglia, sia all’osteria. Era come

1. Era un vino fatto con uve di vitigni ibridi di origine americana (Clinton - Jaquez).I vitigni nostrani erano stati distrutti dalla filossera nella seconda metà dell’Otto-cento.

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Il nonno Francesco Primodetto Cento milioni,

proprietario dell’osteriaTre olmi, con l’amico

Angelo Gamba.

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il pane, anzi meglio, era un alimento che scacciava i brutti pen-sieri. Però, così facendo, di soldi ne restavano pochini nel cas-setto, non sufficienti a pagare il fornitore. Dietro la porta c’era ilfallimento e poi il sequestro di quel poco che avevamo.Ho ricordo della visita dell' ufficiale giudiziario, una mattina.Mia mamma aveva ventinove anni, io ne avevo sette, c’eranoanche i miei fratelli, c’era anche lo zio di mia mamma nominatotutore, Pietro Valsecchi, che faceva il tornitore. La sua bottegaera dietro il convento. Era una persona intelligente ed istruita,per questo lo chiamavano “l’avvocato”, anche se non lo era. Maper quei tempi era uno che sapeva occuparsi degli affari suoi. Ri-cordo quella mattina: arrivò l’ufficiale giudiziario, entrò in casa,noi eravamo lì tutti spaventati e impauriti. Incominciò a saggiarela mobilia; aprì la credenza e lo sportello gli cadde per terra; aprìun altro sportello che fece la fine del primo. Erano mobili vecchi,“stavano insieme” con la saliva. Perciò trovarono un accordo e imobili furono lasciati lì. Ma la licenza fu venduta ai signori Lozza,detti Maroc, al Ponte Nuovo.

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Gli anni della miseria

Sono andato a scuola a Foppenico fino alla terza elementare. Eroil più alto dei miei compagni e il più bravo in aritmetica, lo di-ceva sempre la maestra Brandolini di via Vitalba. Non si andavasempre a scuola; se era stagione di castagne, si andava nella selvadegli Stefanoni di Foppenico, chiamati i Livia. Era l’anno dellacresima e “tenermi a cresima” significava farmi da padrino. Io fui“tenuto a cresima” dalla signora Redaelli, detta Pena, e dai signoriQuaccini di Milano che avevano la villa a Corte. Non posso di-menticare quel giorno! Ho mangiato come non mai, anche i dolciche noi non sapevamo neanche ci fossero. Ho proprio mangiatocome un signore. Se me lo ricordo quel giorno! Non lo dimenti-cherò mai più!In quei tempi l’Adda usciva dalle sponde tre volte all’anno: era inpiena a maggio, settembre, novembre e qualche volta l’acqua in-vadeva anche la chiesa per trenta centimetri circa. Mia mammaricordava che il fiume arrivava fino ai prati dove ora c’è il camposportivo. Ho visto mio nonno prendere i pesci fuori dalla portadi casa con i “bavartei”. I pesci trovavano più pastura in mezzo al-l’erba fra le stoppie e le raganelle che il fiume depositava sullesponde.Quell’anno il podestà di Calolzio ci diede lo “scomio”. Lo “sco-mio” è lo sfratto. Si doveva andare via tutti perché volevano fareun albergo tra le mura del convento. Se prima eravamo miseri,ora saremmo diventati miserabili. La piazza del Lavello eraun’erba sola. C’era l’ombra dei platani e tutti con le pance vuotee semivuote venivano lì a sdraiarsi: erano tutti senza lavoro. Tutti

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raccontavano la propria storia e le storie purtroppo erano sempreuguali: la miseria del giorno dopo era peggiore di quella delgiorno prima. Tanti cercavano di farla finita.A Calolzio c’era come medico, il dottor Galanti, che era, oltreche un bravo medico, una grande persona. A qualsiasi ora dellanotte lo si chiamasse lui arrivava sempre. Una mattina in cui miero svegliato con il mal di denti, mio zio Cente mi portò da lui.Levato il dente, mio zio chiese: “Quant’è il suo disturbo, dot-tore?”. Il medico sorrise e rispose: “Andate a casa e dategli damangiare”.Io ora ho ottantasei anni, ma queste sono cose che non si possonodimenticare.

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L’infanzia al Lavello

La nostra casa, all’interno di quello che era il monastero del La-vello, aveva un camino. Intorno al fuoco c’erano due panchine:ci stavano sei persone, tre da una parte e tre dall’altra. Il caminomangiava legna ed eravamo noi bambini dai sei ai dieci anni gliaddetti al suo funzionamento. Tutto andava bene, raccolto in fa-scine: i rami secchi, i tronchi e le ramaglie che il fiume depositavanelle insenature delle rive. Era bello riscaldarsi al fuoco; quandouscivamo da lì le gambe erano gonfie e rosse come dei salami.Alla sera, invece, il riscaldamento lo fornivano le bestie nella stalladei signori Angeli. Lì i vecchi raccontavano delle storie, quasisempre di paura: uno diceva che di notte vedeva dei gatti sullepiante; si faceva un segno di croce e al mattino dopo al loro postotrovava degli uomini. Perciò, nel tornare a casa, mi attaccavo amio padre per la paura. La strada del ritorno era buia, senza luce.La domenica si andava a Messa Prima. La seconda tappa era dalmacellaio: la macelleria era quella dei Rondalli e ci serviva la si-gnora Bianca, una gran bella donna, sorella di Nando, il pro-prietario del bar del Mel. Noi chiedevamo una lira di ossa per ilbrodo. Lei ci lasciava attaccato qualche pezzo di “giunta”: l’ossocon la giunta. Ma cos’era? Erano tendini, legamenti e qualcheframmento di muscolo che insaporiva il brodo e gli dava quellagolosa consistenza gelatinosa. Capitavano dei giorni fortunati incui si mangiava proprio bene: salsicce e patate ricoprivano conparsimonia il piatto; erano però rari quei giorni. Mi ricordo cheuna volta mio padre, stanco della solita pietanza, dopo averaperto la finestra, scaraventò il contenuto del piatto fuori. Era

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I genitori di Gianni:papà Gerolamo emamma Ines

stanco, dopo una giornata di lavoro nelle cavedei Colombo a Maggianico. Tutto il giornocon badile e pala a caricare “vasoni”! E perquel povero cibo!C’erano tempi belli, pochi, e tempi brutti, tanti.Mi ricordo le feste di Santa Apollonia, la festadei “cavagnöi”1 e, a settembre, la festa del La-vello. In questa occasione noi bambini spende-vamo i pochi spiccioli che avevamo messo da

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1. Cesti di vimini intrecciati

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parte per tutto l’anno. Arrivavano gli zingari con le giostre, veni-vano gli “strolech” da tutta la Lombardia con le giostre che allora sifacevano girare con i cavalli con gli occhi bendati. Il loro capo erail signor Pedro che era una brava persona. Una volta hanno portatoanche un orso che tenevano legato in un angolo nascosto di casamia. Con la giostra gli zingari riempivano di monetine sei secchi, maqualcuna, a volte, scivolava tra i fili d’erba. Noi ragazzi lo sapevamoe, finita la festa, andavamo a spulciare e qualcosa si trovava sempre.A quei tempi le tasche erano un po’ vuote, non come ai nostri giorniche siamo tutti vestiti bene ed abbiamo soldi nel borsellino.Il Lavello era sempre stato un porto di mare: era il detto della gente.Infatti venivano gli alpini del capitano Gori di Bergamo a fare il

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campo. Poi vennero gli avanguardisti, anche da lontano, con i ba-lilla che montavano di guardia nelle garitte con il loro moschetto gio-cattolo. Poi c’era anche la colonia elioterapica, per i bagni di sole con-tro la scrofolosi, che era un ingrossamento delle ghiandole del collo;era una malattia allora frequente che in seguito venne chiamata conil nome di linfatismo. Per non sbagliare, i responsabili fascisti dellacolonia all’inizio della cura pesavano i bambini nudi o in mutande;alla fine del soggiorno, poi, li pesavano di nuovo, vestiti con scarpeo zoccoli, così erano sicuri che erano aumentati tutti di peso. Ma ilgrande giro era durante le feste: noi gestivamo l’osteria. Di là dal lago,nei prati, ce n’era un’altra. Arrivavano un sacco di barche anche daBrivio. C’era proprio un bel movimento di soldi.

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La colonia delLavello

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2. “vai a casa che diventa di colore più chiaro, perché allungato con l’acqua”.

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Il grande giorno di festa al Lavello era però il lunedì. Venivanobarbieri e sartori: il loro maestro era il Lino Barber. Un giorno,avevo nove o dieci anni, ho detto a mio padre: “Se fossi stato ioal vostro posto, sarei stato il più ricco di Calolzio, con tutta lagente che girava...”. Invece sono andati in malora: era più quelloche bevevano loro che quello che vendevano! In occasione dellefeste capitava che, passata la mezzanotte, mio padre mi mandassefuori dal monastero con un secchio a prendere l’acqua che finivanella botte e così si annusava il vino e si diceva: “Va a cà che il véciar”2. Nello stesso tempo impallidiva, insieme con la notte,anche il vino.C’erano poi delle belle giornate come il lunedì di Pasqua, quandosi andava tutti al Gerin, dopo il ponte della ferrovia. I prati eranotenuti bene, puliti e tutte le famiglie andavano a mangiare le uovacon il radicchio di campo. Era come essere al mare! Così face-vano anche sull’altra sponda: quelli di Olginate, di Villa SanCarlo e di Valgreghetino. Noi bergamaschi con i baggiani nonandavamo proprio d’accordo e, tra una sponda e l’altra, facevamoa sassate con la fionda. Loro ci guardavano un po’ come ladroni;un po’ lo eravamo davvero: andavamo a rubare loro le ciliege enon solo.

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L’Amerigo suonavala fisarmonica

Nel 1933 l’impresa Gironi iniziò la costruzione del camposportivo. Lo ricordo bene. Dirigeva i lavori il signor Giulio Gi-roni, il papà di Emilio, mio grande amico. Portarono tante fa-scine da mettere sul fondo per il drenaggio e terminarono ilavori nel ‘37. A quei tempi al Lavello vivevano dodici famiglieche facevano vari mestieri: il fruttivendolo, il cavagnin, il cia-battino, lo straccivendolo, il tornitore, il macellaio nella suabeccheria1; tre erano le famiglie contadine. I Bolis avevano casavicino al ponte della ferrovia e da questa famiglia sono uscitiben tre sacerdoti: don Sandro, don Giovanni, don Ugo edanche un vescovo, monsignor Scola, figlio di una sorella deiBolis. A quei tempi, la religiosità non mancava al Lavello; lamiseria era vissuta con grande sopportazione, ma era sempremiseria.Poi venne la guerra d’Africa. Molti diventarono volontari spintidalla fame. Anche da Calolzio ne partì un gruppo e tra loro ri-cordo mio zio Pietro Valsecchi, Angeli di Calolzio e l’Amerigo,suonatore di fisarmonica. La sfilata dei volontari in partenzaera stata organizzata al Lavello. Io ero un ragazzetto di dodicianni, di famiglia povera e avevo già il libretto di lavoro. Andavoa vangare nei campi molto presto al mattino fino alle settequando arrivava il caffè e il latte fresco di mucca. Al mio ri-torno li ho visti sfilare. L’Amerigo era in testa a tutti, la fisar-monica a tracolla. Le note uscivano come di malavoglia; mi

1. Macelleria

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venne la pelle d’oca. La gente agitava le bandierine come un sa-luto, ma non era una festa. Voleva essere una processione, uncorteo, ma a me sembrava un funerale. L’Angeli di Calolzionon è più tornato: anche per lui, in testa a tutti, suonava la fi-sarmonica dell’Amerigo.

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Nel 1937 finirono i lavori al campo sportivo. Subito dopo ven-nero le truppe del genio pontieri per le manovre: facevano e di-sfacevano i ponti proprio davanti a casa mia; il materiale d’uso eratanto e copriva il sagrato, tanto che l’erba non cresceva più. Pernoi ragazzi era una festa: pulivamo le gavette ai soldati, non senzatornaconto: i militari ci davano da mangiare.Ma, nel 1939, molte famiglie dovettero sloggiare dal Lavello perordine del podestà.Tutti i sabati dovevamo fare il pre-militare con i capi fascisti lo-cali che non erano proprio buoni. Io ci andavo, se ci andavo, mal-volentieri. I nomi di quei fascisti ce li ho qui, stampati nella testa,me li ricordo bene, ma non faccio i nomi solo per rispetto alleloro famiglie. Fui preso di punta e chiamato in Comune dove miinterrogò un ufficiale vestito da gerarca, e anche di questo nondico il nome. Finita la guerra, il gerarca di paese tornò a fare ilgeometra, il mio geometra. Anni dopo, avevo già il mio risto-rante e un rospo nel gargarozzo, lo incontrai sul piazzale e glidissi: “Ti ricordi, caro il mio geometra, quando in Comune mihai preso il portafogli e mi hai tolto i pochi soldi che avevo perpagare la tessera dei fascisti?”. Lui divenne bianco, più della neve.Il Nino Paredi, quello che giocava da centromediano in serie Anell’Atalanta: “Sei matto a dire quelle cose?”. “No, gliele dico lostesso perché se le merita!”. Questa però era poca cosa, altri mene hanno fatte di peggio.Nel 1941 io e il Papini del Pascolo, mio coscritto, poiché anda-vamo poco a marciare, siamo finiti in prigione a Bergamo per

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Sta arrivando la guerra

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cinque giorni. Andammo a Bergamo in treno e mi accompagnòla mia fidanzata. Ci portarono in prigione e ci misero in mu-tande, nel senso che avevamo solo quelle. In cella eravamo inquindici, tutti tra i diciotto e i vent’anni; si dormiva come dellebestie su delle assi inclinate, si mangiava poco e come servizioigienico avevamo solo un bidone. Passati cinque giorni, uscimmocon una fame da lupo, andammo tutti in trattoria e con i pochisoldi rimasti mangiammo tre piatti di zuppa a testa.Poi tornammo a Calolzio.

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Il Gianni va in marina

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Nel 1942, a diciannove anni, parto per la guerra. In marina pressola caserma “Sanguinetti” a Venezia. Dopo dieci giorni mi man-dano a La Spezia a San Bartolomeo e poi ancora a Migliarini perun mese alla scuola per torpedinieri e siluristi. Al termine del corsoritorno a San Bartolomeo in attesa dell’imbarco. Lì incontro unmarinaio, il Tizzoni di Vercurago, che mi dice: “Stai attento chequi tutti rubano tutto!”. “Cosa faccio adesso?”. “Domani mattinati porto un lucchetto, così stai al sicuro. Stanotte stai in guardia”.Il mattino dopo il Tizzoni non c’era più, l’avevano imbarcato. Neigiorni successivi sarebbe toccato anche a me. Infatti, poco dopo,un ufficiale mi chiama e mi annuncia che devo imbarcarmi sulposamine “Arbe”, destinazione Fiume. Mentre sto per imbarcarmi,sento una voce che mi chiama: era mio cugino Francesco Valsec-chi. Dopo un rapido saluto, parto per Fiume in treno. Arriviamoa Bologna, la prima fermata, con una fame da lupi. La tradotta perTrieste sarebbe partita di lì a quattro ore. Ci sono delle donne chedanno un panino a testa; pensate, un panino per la fame dei di-ciannove anni! La tradotta arriva a Trieste a sbuffi e sbaffi. Devofare ancora tappa al comando dove trovo soldati di tutti i corpi edi tutte le divise. Mi perdo tra di loro, finché l’odore di mine-strone mi orienta in cucina a riempire la gavetta che lascio lustrain un attimo come appena lavata; gli anziani mi sorridono e midanno anche la loro razione, cosa di cui li ringrazio anche ora.Sulla cartolina che ho scritto a casa mi sono dimenticato dei saluti,ma non di una frase: “Mai mangiato così tanto e così bene”. Mache fam che gherem indoss!1

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In cucina, però, rubavano tutti, anche qualche sergente e capi-tano. Bisogna capirli: anche loro tenevano famiglia in terraferma.Un giorno, un giovane marinaio protestò per il cibo perciò i co-mandi superiori furono obbligati ad un’ispezione. Gli ispettorivennero con preavviso e per quel giorno si mangiò il giusto e bene;il giovane marinaio, però, finì in prigione per qualche giorno. Eraquella che chiamavano “giustizia.”I treni non erano diversi dai carri bestiame, anzi erano propriouguali. Mentre aspettavo la tradotta per Fiume, incontrai duecompaesani: un certo Piazzoni di Foppenico ed un Fracassetti diLorentino. Rientravano da Spalato, erano soldati semplici dellacontraerea. Se vi dico che mi hanno salutato con calore, vuol direche vi racconto una bugia; mi hanno salutato così come si salutaun estraneo, neanche fossero stati dei generali. E pensare che era-vamo tutti lontani da casa, in guerra, senza sapere cosa sarebbestato il domani ed era bello avere un po’ di amicizia, costa cosìpoco. Arrivo a Fiume prima della nave e dopo qualche giorno miimbarco. Sulla nave non dovevamo rubare il cibo, si mangiava dare: tutti i giorni pastasciutta, un quarto di vino e la carne; poi ventisigarette di importazione ed in più sette lire al giorno. Certo, c’eraperò la paura di non riuscire più a tornare a terra. Io, marinaio difiume, soffrivo molto il mal di mare. La prima tappa è Pola, percaricare le armi nella Santa Barbara. A Pola trovai due miei co-scritti: il Carletto Gamba di Rossino, morto da poco, e Luigi Bolis

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1. “Quanta fame avevamo”.

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Gianni marinaio

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che era nel battaglione San Marco, cugino di Clemente, ed unmio amico carissimo, l’Emilio Careni.Comincia l’avventura del mare. Sulla nave eravamo ventotto ma-rinai più i comandanti. Facevamo sosta in tutti i porti. Una notte,mentre eravamo in navigazione, il radiotelegrafista si avvicinò edisse: “Valsecchi, è finito il fascismo”.

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Questa è la guerra

Il 25 luglio 1943 rientriamo in porto ad Ancona. È mattino e citrattengono sulla nave. Fuori dal porto c’è una rissa tra la gente:chi le dava chi le prendeva. Se Dio vuole riusciamo a partire indirezione sud. Tra Bari e Brindisi viene avvistata una torpedineinglese e il comandante mi chiama in quanto responsabile deitorpedinieri e più anziano. A dire il vero, in tutto eravamo in due:io avevo vent’anni l’altro, un volontario romano, ne aveva di-ciannove. Ero comunque il più anziano! Il lavoro è molto deli-cato: devo salire sulla scialuppa per mettere i bussolotti disicurezza e se fai uno sbaglio si salta in aria e…addio! La torpe-dine inglese era il doppio di noi, ciononostante riusciamo a por-tarla a bordo e ci dirigiamo verso Taranto. Fuori dal portovediamo la corazzata Cavour mezza affondata dagli inglesi. Al-l’interno del porto parcheggiamo fianco a fianco dell’ammiragliadella flotta italiana, che portava un solo aereo. E si voleva vincerela guerra!? A Taranto mi aspettava una lettera da parte di mia ziadi Vercurago con la triste notizia della morte del mio caro amicoTizzoni, quello che mi doveva acquistare il lucchetto contro ifurti a La Spezia. Era imbarcato su un cacciatorpediniere saltatoin aria mentre faceva la spola tra Bari e la Libia. Il fratello di Ge-rolamo, il Pierino Cattaneo di Foppenico, classe 1922, è a Ta-ranto. Fa la scorta ai convogli che portano le munizioni daTaranto a La Spezia.Intanto gli Alleati sbarcano in Libia e noi riceviamo l’ordine dipartire per la Sicilia. È il finimondo: notte e giorno siamo mas-sacrati dalle fortezze volanti, non abbiamo un momento di tre-

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gua. Un nostro sottufficiale di Pozzallo, già occupata dagli Al-leati, si dispera pensando alla moglie e ai figli. Avevo compas-sione per lui perché era una brava persona e mi voleva bene.Poi l’ordine cambia: si va a Napoli. La giornata è bellissima; ilmio amico ufficiale di plancia mi chiama e indicando il porto diNapoli mi dice: “Valsecchi, guarda cosa ti fa vedere la Marina”.Siccome non capiva il bergamasco gli risposi: “Va' a l’inferno, va’a da’ vea ol cul te e il to mar, me vöre i me muntagn”1. Glielo ri-peto due volte, ma lui non capisce. “Cosa hai detto?”, chiede. Eio, prontamente, rispondo: “Bello, bello!”. E lui: “Pota hi, potauh”, pensando di rispondermi in bergamasco. Che bestia! Me loricordo sempre. Lui però deve avere capito che qualcosa non an-dava nel discorso, si mette a ridere e io con lui. Entriamo nelporto di notte e il Vesuvio buttava fuoco. È proprio l’inferno, hopensato. Faceva paura solo a guardarlo. In più c’erano sempre ibombardamenti e la povera gente scappava sotto il Palazzo Realeperché c’era un tunnel molto lungo e dentro avevano messo deiletti dove dormivano vicino anche agli animali. Qualche volta cisono entrato anch’io: c’era da salvare la pelle!Da Napoli partiamo per Civitavecchia. A bordo abbiamo unabellissima cagnetta che soffriva il mal di mare come me. Appenala nave attracca scendo con la cagnetta, la porto sulla banchina ele dico: “Vai, almeno tu che puoi” e così la libero. La notte suc-cessiva c’è un bombardamento a tappeto e solo alla fine della

1. “Và all’inferno, ... tu e il tuo mare, io voglio le mie montagne”.

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guerra ho saputo che Dino Bonacina, un carissimo mio amico,morì proprio in quella notte sotto le macerie.Da Civitavecchia si va a La Spezia, ma in alto mare siamo attac-cati da aerei nemici e vedo il comandante che chiude a chiave lasala macchine. Spinto dalla curiosità domando: “Perché ha chiusola porta?” e lui mi risponde: “Se, presi dal panico, loro fuggis-sero, chi farebbe andare avanti la nave?” Se fossimo stati colpiti,quei motoristi avrebbero fatto la fine del topo, ciavà dent nelasala machine2; meglio noi che eravamo in coperta…Accompagnato dall’Ottavio Valsecchi, un altro amico incontratoa La Spezia, ho visitato un sommergibile e al termine della visitagli ho detto: “Sto meglio io che sono all’aria aperta e che possobuttarmi in mare!”.Attraccate nel porto di La Spezia c’erano tre belle corazzate: laRoma, l’Italia e la Vittorio Veneto, con molti incrociatori e caccia-torpediniere. I nostri due fuochisti erano sardi, di Sassari: un certoCardia e tale Marrias. Prima erano imbarcati sull’incrociatoreMon-tecuccoli e avevano partecipato alla battaglia di Punta Stile e CapoTeulada contro gli inglesi. Avevano visto l’inferno: marinai che bru-ciavano in mare, navi che affondavano in mezzo al gasolio.Anche noi eravamo stati bombardati a La Spezia la notte del 19aprile 1943; eravamo ormeggiati vicino alla flottiglia MAS e pocolontano, quasi nuovo, c’era il cacciatorpediniere Alpino. Quantimarinai mutilati, arsi vivi, rossi come il fuoco! Avevo già visto

2. “Chiusi dentro la sala macchine”.

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molti marinai morti galleggiare all’entrata dei porti, ma mai cosìtanti, così dilaniati, così tremendamente offesi da non poterli di-menticare. Quel giorno arrivò anche il principe Umberto a vedereil disastro.A quel tempo i tedeschi erano più avanzati nella tecnica e miserosotto la chiglia della nostra nave un apparecchio che sembravaun siluro che, se c’era una mina nel raggio di cinquanta metri, lafaceva scoppiare; c’era un tale rumore che non si poteva più dor-mire. Ogni tanto si vedevano gli U-boot tedeschi con issate dellebandierine: ogni bandierina era una nave affondata.Un sabato, verso l’una e mezza, eravamo al largo di La Spezia econ noi c’erano le tre corazzate, le più belle della Marina italiana.È un attimo: suona l’allarme e in un istante si vedono in cielodue stormi di fortezze volanti: li ho ancora davanti agli occhi; co-mincia il fuoco antiaereo. Succede il finimondo; la corazzataRoma è colpita al fianco, ma in modo non grave. Se Dio vuole,la battaglia finisce, si rientra in porto, mentre l’arsenale sta bru-ciando da otto giorni.

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L’otto settembre

Alla fine di agosto siamo a Genova e lì c’era l’incrociatore Gari-baldi dove era imbarcato il mio amico Isidoro Bolis di Lorentinoche mi porta a visitare la nave. Gran bella nave!Il 7 settembre sono di guardia sul ponte, vedo l’incrociatore Ga-ribaldi partire e dietro di lui scivolano via le navi più grosse: “Chestrano!”, mi dico. Ho capito però tutto il mattino dopo: i soldatitedeschi bloccavano tutte le navi nel porto, mentre le navi grosseavevano ricevuto l’ordine di partire per Malta o Alessandriad’Egitto. Era stato firmato l’armistizio. Infatti la mattina stessa loannuncia il comandante che ci dice che nel porto c’è il caos: i te-deschi bloccano tutto, ci raccomanda di non lasciare la nave,mentre lui andrà a prendere ordini. Ma il tempo passa e il co-mandante non ritorna. Intanto si aggirano i soldati tedeschi, maappena l’attenzione si allenta, io prendo la mia decisione: “Io mene vado! Chi vuol venire mi segua appena il tedesco si gira”. Conme vengono un certo Franco di Brembate, anche lui fuochista,Vannucci di Rimini, Bocconi istriano, Ciotti di Ascoli Piceno ealtri. Era il caos: armi abbandonate che era una vergogna solo avederle. I marinai dell’ammiragliato ci informano che l’ammira-glio era fuggito tre giorni prima e che i comandanti scappavanoprima di noi, che il re era già a Brindisi in fuga con la corvettaverso Alessandria d’Egitto. Scappiamo sulle montagne di Genovamentre i tedeschi ci braccano. Noi continuiamo a scappare e le fa-miglie del luogo ci aiutano facendoci vestire in borghese. Cam-miniamo per quattro giorni tra i campi mangiando uva e fichi,finchè decidiamo di scendere ad Arquata Scrivia per prendere il

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treno per Milano. Ma, arrivati ad Alessandria, i tedeschi fermanoil treno e fanno scendere quasi tutti; sappiamo che ad Alessandriasi può partire per il Brennero e quindi in Germania. Noi, vestitiin borghese, non scendiamo, mentre il mio amico scende e ci an-nuncia che se non ci sono armi si parte per Milano. Gli dico:“Quando il treno parte, dammi la mano che ti tiro su, se no Ca-lolzio non lo vedi più”. Il treno parte, il tedesco tenta di pren-derlo, ma non ci riesce. Oltre il Po ci sono soldati italiani chedanno ancora comandi e ci chiedono come mai noi scappavamo,giacchè loro sapevano che sotto Genova tutto era sotto controllodegli alleati con i carri armati venuti dalla Francia. Si raggiungeMilano. La città appare tranquilla, ma il problema era per i mieiamici che non avrei potuto ospitare a casa mia perché eravamo giàdisperati noi. Fortunatamente qualche ora dopo parte un trenoper Bologna e per loro è una fortuna. Dico: “Salite e partite, gra-zie a Dio!”. Con il primo treno per Sondrio arrivo a Calolzio e laprima persona che incontro è mio padre: “Che fai qui?”. Perstrada gli racconto tutta la mia storia.Era cominciata un’altra vita, da sbandato!

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Il partigiano Gianni1

Sbandato, ma a casa. Dovevo stare un po’ nascosto; ai cantonidelle strade c’erano manifesti affissi dal comandante tedesco: pa-role nere su fondo giallo. Per chi non si consegnava c’era la penadi morte. Ma di consegnarmi ai tedeschi non mi è mai passatoper la testa. Bisognava poi anche mangiare e per mangiare biso-gnava lavorare; si andava a pesca, ma qualche lavoro si trovava: hocavato sabbia dal fiume, poi la vendevo ai capimastri; ho fatto ilbocia alla costruzione dello stabilimento Brambilla. Ogni tantobisognava scappare perché i tedeschi erano un po’ dappertutto e,se ci prendevano, era la fine.Sbandato come me era Riccardo Angeli che mi cercò: era unpartigiano. Così nel 1944 diventai partigiano anch’io. Il mionome di battaglia era Pierino; eravamo una quindicina, la piùparte di Sala, quattro del Lavello: tre Valsecchi e un Angeli.Prendevamo ordini da Milano: ci comandava il signor Vaccanidi Lecco. Mi ricordo di Angeli, Austoni, Frassoni, Berto Bolis,Elia Carsana, Eros Bonaiti, Marco Cattaneo, detto Griso e l’av-vocato Torri. Gli inglesi ci portavano le armi con gli aerei dinotte e noi andavamo a prenderle ai Piani d’Erna. L’ordine ar-rivava di notte e le armi venivano poi nascoste nella casa del si-gnor Gritti a Maggianico. Il ritrovo del nostro gruppo era ilGerin, al Vaso Vecchio, sempre di notte. Il nostro compito eradi sabotare la ferrovia.

1. L’assonanza con Il partigiano Johnny, il capolavoro di Beppe Fenoglio, è chiaramentevoluta.

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Un giorno, di pomeriggio, stavo cercando di pescare un po’ dipesce. Mentre rincasavo, ho visto due soldati tedeschi che entra-vano in casa mia. Tornai sui miei passi e mi nascosi nel canneto,dove rimasi fino a notte fonda. Tornato a casa, chiesi ai miei ge-nitori cosa fosse successo ed essi mi dissero che i tedeschi avevanorequisito due barche perché dovevano costruire un ponte. Nonsapevo cosa fare, perciò chiesi disposizioni a Riccardo Angeli, chemi disse di far finta di niente e stare a vedere cosa succedeva. Perla prima volta capivo il concetto del doppio gioco. Il giorno dopovenne un capitano tedesco con un interprete di Cisano. Volevanoeffettivamente costruire un ponte e mi dissero se li potevo por-

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tare con la barca a misurare la profondità. Li accompagnai e, fi-nita la misurazione, il capitano diede all’interprete un pacchettodi sigarette per me. Mentre il capitano, che era austriaco, si al-lontanava, l’interprete rese meno pesante il pacchetto di sigarettetenendone un po’ per sé. Quel capitano, però, era una brava per-sona e lo capii qualche tempo dopo quando salvò mio padre.All’interno del convento si era accampata una compagnia di SSitaliane. Il giorno dopo arrivò il loro comandante per un’ispe-zione e, non contento di come erano alloggiati, chiese ad un sol-dato chi fosse stato a negare loro un accomodamento più decente.Il soldato, con un cenno, indicò mio padre. Lui e mia sorella Rosafurono portati in riva al lago; le intenzioni del capitano delle SSerano fin troppo chiare. Sul greto c’era anche un gruppo di sol-dati anziani di ceppo austriaco; li comandava un sergente. Costuiin un attimo inquadra la situazione e avverte il suo capitano cheaccorre. Arrivato, mette sull’attenti il comandante italiano, lorimprovera aspramente e gli impone di partire subito, lui e i suoi.Mia sorella e mio padre sono salvi. Quel capitano austriaco, comedicevo prima, li ha salvati. Non l’ho mai dimenticato. Ricordoanche lo spavento di mio padre che ho visto prendere la barca, re-mare verso l’altra sponda e tornare solo a tarda sera: era ancorabianco dalla paura.Fortunatamente quel giorno ero a Rossino dalla mia fidanzata, al-trimenti chissà cosa sarebbe successo!

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La Resistenza

Non tirava aria buona a Calolzio. L’arciprete don Achille Bolis, donTommaso del Pascolo, il dottor Zanini, medico condotto, i Rosa,padre e figlio, furono catturati e incarcerati. L’arciprete morì a SanVittore, Don Tommaso ritornò. Nessuno degli altri ebbe buonasorte. A Calolzio circolava una storia: c’era una spia, una donna,di nazionalità polacca. Di lei, però, non si seppe più niente.A notte fonda arrivavano al Lavello soldati italiani allo sbando,francesi e molti ebrei. Quando arrivavano i tedeschi era miocompito portarli sulla sponda di fronte.Mi ricordo che una sera, dopo il rastrellamento ai Piani dei Re-sinelli e dopo aver effettuato non so quanti trasbordi, incontraiun soldato francese che mi regalò una coperta del colore del mu-schio. Alla fine della guerra me ne feci un paltò dal signor Gigo;io un paltò non l’avevo mai posseduto, è stato decisamente unbel regalo.I tedeschi cominciarono la costruzione del ponte e comincia-rono anche i bombardamenti. La mia famiglia si spostò a Ca-lolzio nei locali che ospitavano il cinema Roma. Io rimasi lì soloper poco, perché al Lavello ci si nascondeva meglio. Per tirareavanti aiutavo i contadini. Un giorno eravamo sul portone deicontadini la cui cascina era quella dove adesso è stata aperta damio figlio Aldo l’osteria Marascia. Arrivano gli aeroplani, bom-bardano il ponte della ferrovia, la prima bomba colpisce in pienola casa del soteramort1, il Giacomino Bolis, che faceva il custode

1. Il becchino

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del cimitero. Giacomino, io e il papà di don Ugo restammo lìcome paralizzati. Avevo un amico partigiano di nome Beppe,che era lo zio del mio amico Emilio e abitava a Foppenico. Lìc’erano il comando dei tedeschi e i loro aguzzini. Beppe aveva uncoraggio da leone: una notte disarmò un sergente tedesco, suc-cesse il finimondo: i tedeschi erano dappertutto, volevano bru-ciare tutta Sala. Solo l’intervento del sindaco Galanti e del signorDe Ponti, proprietario della Sali di bario, salvarono il paese dal-l’incendio.Un giorno io e mio cugino Alfredo andammo a Calolzio al-l’edicola. Il Corriere della Sera riportava la notizia della morte diRommel per infarto. Vedemmo arrivare una camionetta tedescacon sopra due incappucciati. Li riconobbi: erano due partigianidi Caprino; mi salutarono e ricambiai il saluto istintivamente.Ma, all’altezza della pompa di benzina del signor Settimo, ve-demmo due tedeschi entrare nello stabilimento Satis per telefo-nare al comando e segnalare la cosa. Dico ad Alfredo: “Nonscappiamo di corsa, perché è peggio!”.Non avevo finito le parole che Alfredo era già scappato più ve-loce di una lepre. Io allungai il passo, ma appena sulla via delLavello, presi anch’io la corsa.Una sera incontrai un giovane partigiano di Calolzio che cercavail Luisin, mio parente e suo grande amico. Aveva la barba lungae non lo riconobbi. Lo portai da lui, ma da quel giorno non lorividi più: era già ricercato dai tedeschi. Più tardi seppi che,quando c’era stata una retata ai Piani dei Resinelli, avevano fu-

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cilato tutti. Sulla strada per Barzio ci sono delle piante e ognipianta ha il nome di un caduto in ricordo di quel tragico epi-sodio: c’è anche il suo. Passando di lì, tanti anni dopo la guerra,ho visto la lapide dedicata a lui. Anche a Calolzio lo ricordanocon la via Attilio Galli: è quella che dalla Gera va alla stazioneferroviaria.

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L’assalto alla caserma

Da Milano arriva l’ordine del Comando di Liberazione: occu-pare la caserma dove erano asserragliati i repubblichini. Davantivi era il comando delle SS tedesche. Prima di partire, passo a tro-vare la mia famiglia che, per sfuggire ai bombardamenti, come hodetto, era alloggiata nei locali del cinema Roma. Mio padre miraccomanda di stare attento. Il ritrovo è sulla collina sopra il san-tuario di San Gerolamo. Tra i volontari, oltre a me, ce n’eranoaltri due del Lavello. Ci rechiamo a Maggianico in casa Gritti, arifornirci di armi che erano state portate dagli inglesi. Ci ar-miamo fino ai denti. Al ritorno la gente ci saluta e ci applaude.Restiamo a Somasca fino all’una di notte, poi si scende in co-lonna: davanti a tutti Riccardo Angeli, poi Vito di Lecco, io sonoil quarto, dietro di me gli altri due del Lavello e poi tutti gli altri.Arriviamo vicino alla caserma di Calolzio e due soldati mongolidi guardia ci danno l’alt. Noi rispondiamo: “Spasir”.Questi non si lasciano disarmare e nella colluttazione i due mon-goli cadono uccisi. I repubblichini, sentendo il rumore delle armi,accendono i riflettori. Sono alle feritoie con le mitragliatrici enon si arrendono. Dobbiamo scappare altrimenti ci ammazzanotutti. Correndo, entriamo nel parco delle rimembranze, però c’èun alto muro da scavalcare e non tutti ce la fanno. Gandolfi cadee si rompe una spalla. Rimaniamo in cinque e ci rifugiamo aMaggianico nella villa Bonaiti dove, dopo un’ora, arriva ancheAngeli che aveva trovato rifugio dai frati; aveva con sé un po’ dimarsala e un po’ di pane duro; ma in quel momento andava benetutto. Il problema, però, era come ritornare a Calolzio. Perciò mi

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reco a Pescarenico da mio zio Giovanni. Lui mi porta dai pesca-tori che, in barca, ci traghettano sull’altra sponda del lago. A piediraggiungiamo poi il ponte del Lavello e da lì ci rechiamo a Fop-penico, dove c’erano i nostri capi. Occupiamo tutti i punti stra-tegici e la caserma.Il signor Bonaiti mi mandò al Lavello per prendermi cura deicavalli dei tedeschi e controllare il materiale da guerra che era lì.Arrivarono i cavalli dei tedeschi: erano circa cento e li legai allerecinzioni del campo sportivo con delle corde che mi aveva rega-lato il proprietario dello stabilimento della Gallavesa che le pro-duceva. Inoltre, dentro gli spogliatoi del campo sportivo,avevamo grano e biada per cibarli. C’erano poi tre belle cavallecon il loro puledrino. Le cavalle stavano una nella sacrestia dellachiesa, una a Foppenico presso il signor Doro Bolis e una a Corteda un contadino; tutte le mattine andavo da loro per portare labiada. Una mattina, rientrando al campo sportivo, vidi due si-gnori con due partigiani che erano miei superiori. Questi ultimimi dissero: “Gianni, ti va bene se diamo a loro la custodia delcampo, visto che se ne intendono della cura del bestiame?”. Ionon mi opposi. Tenni però per me il cavallo e il calesse. Qualchegiorno più tardi capii e mi resi conto che il mondo è dei furbi.Avevo solo 22 anni e pensavo che le cose andassero veramentecome ti dicevano. I cavalli poi furono venduti. Qualche giornodopo andai a Rossino dai genitori della mia fidanzata che ave-vano la stalla e le bestie. Ma non c’era posto anche per il mio ca-vallo e allora me ne ritornai a Calolzio. Lungo la strada, incontrai

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delle persone che attaccarono bottone, mi fecero i complimentiper il cavallo e il calesse e mi chiesero il permesso di farci un giro.Ingenuamente accettai, aspettai un bel po’ di tempo che tornas-sero, ma non rividi più né cavallo né calesse. Me ne tornai in ca-serma a piedi; più tardi seppi che se ne erano andati in Franciae io con tutta la fatica che avevo fatto a custodirli e a prendermicura di loro, notte e giorno, col sole e con la pioggia, sono rima-sto a piedi come prima!Intanto i tedeschi erano stati da noi radunati nella piazza del co-mune: erano venuti dal Pascolo, da Foppenico, da Carenno e daErve; con loro c’era anche un gruppo di mongoli. Erano armatifino ai denti con le mitragliatrici posizionate. Noi li controlliamo,non si vogliono arrendere. Il capitano delle SS era mutilato diguerra, privo di un braccio. Insieme al nostro comandante an-diamo a parlare con lui e gli spieghiamo che anche le nostre mi-tragliatrici sono piazzate. Il capitano delle SS è altezzoso: “Noinon ci arrendiamo a voi! Non avete neanche abbastanza da man-giare!”.Ma, quando arrivano i carri armati degli alleati, capiscono che laresa è l’unica soluzione possibile e depongono subito le armi.

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I giorni della liberazione

Andavo tutti i giorni in caserma; sulla strada c’era il panificio Pa-redi. Un giorno vidi un gruppo di persone, due delle quali in ca-micia rossa: erano due scalmanati che predicavano e quando cividero ci dissero di andare ad ammazzare due persone di Calol-zio. Io sono con il mio amico Gandolfi e dico: “Perché non an-date voi che siete già qui?”.Smisero di predicare e se ne andarono. Noi proseguimmo versola Gallavesa dove, alla trattoria di Giustina, incontrammo ancoraquei due che volevano uccidere due soldati mongoli. “Qui adessocomandiamo noi - dissi loro - Qui non si ammazza nessuno!”.I due se ne andarono a gambe levate, loro e la loro camicia rossa.Seppi poi che erano due delinquenti comuni, usciti in quei mo-menti di confusione dal carcere di Bergamo.Adesso avevamo con noi i due mongoli, ma non sapevamo checosa avevano fatto; erano coinvolti in qualche faccenda a Ca-renno, anzi alla località Piazza di Sopracornola. Questi non ave-vano tanta voglia di venirci dietro, anche perché non capivano.Però, mentre andavamo verso la chiesa di Calolzio, trovammo ilgestore dell’albergo Italia con un interprete che spiegò le ragioniai due mongoli, che poi ci seguirono volentieri. Arrivammo a Ca-renno e lì le donne al lavatoio ci dissero che quei due non c’en-travano niente, erano innocenti. Allora noi aspettammo quellidella Piazza. Passò l’avvocato Rosa e ci chiese: -Cosa ne fate diquei due?- e chi aspettassimo. -Quelli della Piazza, per sapere cosavogliano farne loro- rispondemmo.Ribattè: -Ur chi ria quei de la Piaza ghe iscè de specià!1-

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Erano le quattro del pomeriggio e sentii le campane suonare daogni parte. Era finita la guerra con la Germania. Dissi ai mongoli:“Siete salvi, andiamo”.Scendemmo a Rossino dove c’era un parrucchiere e feci loro ta-gliare i capelli. Poi andai a casa della mia fidanzata che ci diedequalcosa da mangiare e, passando per la Cà, scendemmo a Fop-penico. Uno dei due era un artista di teatro e voleva regalarmiun paio di scarpe; ma lui aveva il trentasette e io portavo il qua-rantacinque. Mi chiese allora una fotografia da mostrare alla suamamma: la foto del suo salvatore. Li portammo in caserma e ilmattino seguente vidi Riccardo con la pistola in mano. Li volevauccidere. Gli dico: “Sei matto? Cosa hanno fatto a te?”.-Niente- rispose,-Ed allora?- chiesi.-Niente.--Portiamoli in cucina a lavorare.-Non replicò più e io li portai in cucina. Così finì questa storia.Poi venne il giorno in cui li portammo a Merate dagli Alleati.Tra loro c’era anche il capitano austriaco che aveva salvato miopadre e mia sorella dalla fucilazione. Mi avvicinai, lo salutai e,quando vidi che sbiancava in volto, gli strizzai l’occhio e gli sor-risi. Il doppio gioco era finito.

1. “Avete così da aspettare prima che arrivino quelli della piazza”

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I voltagabbana

Il primo maggio 1945 si fa la sfilata dalla caserma al comune: laliberazione è passata da meno di una settimana. Cinque giorniprima un mio amico partigiano di nome Bepi, da solo, aveva cat-turato cinque mongoli. Era uno che non aveva paura di niente.Mi ricordo che i mongoli erano senza scarpe e li portava in ca-serma da solo, dopo averli disarmati. La sfilata doveva partiredalla caserma e finire nella piazza del comune. Io arrivo con ilmio bel foulard e il moschetto in spalla. Facevano sfilare anchetre donne, tutte e tre rapate a zero con una croce di minio rossain testa. La loro colpa? Se la intendevano con i fascisti e con i te-deschi. Me lo ricordo: una era del Pascolo, una di Lorentino, l’al-tra di Calolzio. Durante la sfilata mi scappa l’occhio e che ti vedo?Tutti i fascisti vestiti con la camicia rossa! Non ci voglio credere.Mi viene un magone...Le camicie nere han cambiato colore? O non è cambiato niente?Mi viene la pelle d’oca: non vado a sfilare! Moschetto in spallaprendo la strada per il Lavello. La rabbia che ho addosso mi fascaricare la cartucciera contro ogni pianta che incontro.Un giorno vedo davanti al sindaco Gamba un giovanotto sui tren-t’anni: di Carenno, mi dicono. Un gran fascista! Chiedeva per-dono e piangeva. Presi a pietà, lo lasciarono andare. Il giorno dopoho saputo che si era impiccato in un bosco di Carenno. Un’altramattina, sempre in caserma, vado a controllare i fascisti prigionierinelle celle. Erano lì tutti smorti, bianchi di paura. Un mio amico,preso dalla rabbia nel ricordo di quello che gli avevano fatto, simette a schiaffeggiarne uno. Questi non stava neanche in piedi.

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-Cosa fai? Non vedi che fa compassione solo a guardarlo-, glidico. L’amico smette. L’uomo era uno di Calolzio di cui solo perrispetto non faccio il nome. Avevo però capito che c’erano i fa-scisti furbi e quelli un po’ meno: questo era della seconda cate-goria. Insieme alla rabbia che avevo dentro si faceva strada anchela compassione.

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Il Capitano

Era questi un signore piccolino, tutto azzimato, che veniva a pe-scare il pesce nell’Adda, nella corrente, perlopiù sotto la murelladel Lavello. Pescava in maniera diversa da noi.Usava una canna lunga e leggera con degli anelli. La mulagnapassava tra quegli anelli e si arrotolava su un quadrato di filo diferro. Durante il lancio si srotolava e funzionava come un muli-nello. In fondo alla lenza c’era un codino e ogni venti centimetrivi erano delle mosche artificiali che si fabbricava lui: le portava in-filate nel nastro del cappello. Lui scendeva sulla riva, osservavaquali erano gli insetti a pelo d’acqua e sceglieva le mosche piùadatte, quasi di nascosto, togliendole dal cappello. Doveva esseremolto bravo a imitare le mosche vere perché di pesci ne prendevatanti: trote, temoli e barbi. Il pesce, poi, lo dava a noi che glieloportavamo in stazione a Calolzio perché lui andava e veniva intreno. Dal comportamento si capiva che era stato un militare. Lamoglie era una tedesca. Dopo l’8 settembre ero rientrato a casa.Appena mi vedeva mi diceva: “Gianni, consegnati che vinciamola guerra!”.Io non gli davo retta, però avevo una gran paura che mi denun-ciasse. Allora ero già partigiano. Nei giorni dopo la liberazione ioandavo e venivo dalla caserma. Un giorno nella stanza in cui sitrovava il nuovo sindaco, il signor Gamba, c’era anche il capi-tano. Sento fare il mio nome: il capitano stava raccontando alsindaco che ero un “bombardiere” del lago. A dire il vero, dasbandati, presi dalla fame qualche bomba l’avevamo buttata perpigliare il pesce! Entrai all’improvviso e il capitano mi disse che

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stava raccontando al sindaco che ero un bravo ragazzo. Risposi:-Ah, proprio tu che volevi che mi consegnassi e che vincevamo laguerra?-Il sindaco si mise a ridere e se ne andò. Da quel giorno il capitanonon venne più a pescare al Lavello, anche se era venuto ad abitarea Calolzio con la moglie tedesca.Per un po’ di tempo circolò tra i pescatori la storia che le sue mo-sche artificiali le vendeva solo a Churchill che veniva a dipingeree a pescare sul lago di Como.Penso però che sia solo una leggenda.

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Un garibaldino al Lavello

Fra le tante persone che c’erano al Lavello, c’era anche un gari-baldino; abitava poco distante da noi; pescatore e cacciatore, erauna bella figura e si chiamava Beretta. Magro, dritto, aveva unagran bella barba bianca. Era molto amico di mio padre e della fa-miglia, era anche un nostro lontano parente. Faceva il vino no-strano, non tantissimo; serviva il suo vino in una scodellina. Unaa mio padre non bastava e non si faceva scrupolo di chiederneun’altra. All’epoca del fascio una sera si trovava al ristorante.C’erano anche quattro o cinque fascisti che io conoscevo. Perscherno o per gioco, gli tagliarono dieci centimetri della bellabarba. Lui non disse niente e tornò a casa. Passano gli anni, pas-sano il fascio e i fascisti. Io avevo aperto l’osteria di cui Beretta eraun habitué. Come tutti i giorni gli stavo servendo un calice divino. Seduti a un tavolo stavano mangiando i cinque fascisti deiquali ho parlato, quelli che gli avevano tagliato la barba. Berettasi alzò in piedi: “Vado a prendere il fucile!”.La sua intenzione era chiara e decisa. Tra me penso: “Adess l’èbela! Cosa succederà qui?”.Lo vedo andare e da lontano tornare, fucile in spalla. Gli vado in-contro. All’inizio non vuol sentire ragioni, poi, con le buone ma-niere, lo convinco a consegnarmi il fucile. Quindi lo accompagnoa casa. Secondo me andò bene per tutti; al ritorno informai i cin-que della vicenda: gli rimase il boccone di traverso, ma mi rin-graziarono. Il Beretta era conosciuto come uno che nonscherzava.

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Il primo dopoguerra

La guerra era finita: si potevano vedere e contare i disastri. Ilcomune cercò di trovarci lavoro nei vari stabilimenti di Calol-zio; a me toccò la Gavazzi che aveva come direttore Formen-tini, il cui fratello aveva sposato una mia zia. Gli chiesi che cosadovevo fare; l’unico lavoro possibile era quello di spaccare legnacon la scure. Io ero stanco di spaccare legna, ne avevo già spac-cata tanta! Allora andai a Lecco da un mio comandante parti-giano, il signor Garzaniga, che faceva reti metalliche e lui miprese subito a lavorare. Avevo un piede che si era infettato per-ché, nei giorni della liberazione, non si aveva neanche il tempodi togliersi le scarpe e mi si era formata una piaga. Il dottor Ga-limberti mi curò molto bene, con tanta pazienza nelle medi-cazioni e quando a fine cura, anche se di soldi non ne avevo,chiesi quale fosse il suo compenso, sorrise e non volle niente.Quando aprii il ristorante, fu un mio cliente assiduo: lui, la suasignora e tutta la sua famiglia, sempre gentilissimi e di grandeumanità.Lo Stato allora mi doveva dei soldi per gli anni da marinaio eda partigiano. Davano il congedo al comando di Milano in-sieme con i soldi; c’erano ufficiali alleati e italiani. Mi chieseroil numero di matricola: era l’118983. Vidi che si guardavano infaccia; secondo loro dovevo presentarmi a Taranto, ma intantopotevo ritirare l’acconto in un altro ufficio e la razione di cibo.Chi lo distribuiva era un mio amico di Foppenico, si chiamavaCattaneo, ma li chiamavamo i Pincierlin, come noi ci chiama-vano i Marascia: ci si conosceva tutti per soprannome. Dissi al

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mio amico: ‹‹Vedi questa roba? Con la fame che ho prima di ar-rivare a Calolzio l’ho già divorata tutta!››.‹‹Non sarai mica così pazzo da non consegnarti!››, disse.

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Gli risposi: ‹‹Sono scappato dai fascisti, sono scappato dai te-deschi, adesso devo scappare da voi? Proprio adesso che c’è lapace?››.Avevo fatto un anno di guerra e più o meno tre da partigiano;mi avevano dato duemila lire. Conclusi: ‹‹Ormai non mi fuci-late più!››.Arrivai il giorno dopo a Calolzio e del cibo non era rimastoniente! So che invece altri marinai partirono: l’Angelo Testa,mio amico carissimo, e un altro marinaio mio amico di Pre-sezzo fu mandato a Napoli. Mi disse: ‹‹Ero seduto al porto,quando sento una mano sulla testa: sai chi era? Era il nostro co-mandante››.‹‹Sono molto contento che si sia salvato anche lui››, risposi.Per tutto il ’45 e i primi mesi del ’46 erano in molti quelli cheavevano armi in casa, soprattutto bombe a mano italiane chia-mate “balilla” che si lanciavano dopo aver strappato una lin-guetta e altre tedesche che avevano un manico per il lancio. Conle bombe si pescava nell’Adda, dal ponte di Olginate fino aquello del Lavello; i pesci venivano a galla subito dopo lo scop-pio e ce n’era una grande quantità che galleggiava. Ne prende-vano tutti, ma io che avevo la barca ne prendevo più degli altri.Uno di Calolzio che conoscevo, un bombarolo, un giorno midisse: ‹‹Guarda, Gianni, se ne prendi ancora, ti butto unabomba nella barca!››.Quello era un tipo non troppo sano di mente; non c’era da fi-darsi, perciò ho fatto come diceva lui.

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Nel ’47 sono stato in Svizzera per un incontro con i partigianisvizzeri. Di Calolzio c’erano: Austoni, Gandolfi ed io, oltre al si-gnor Garzaniga di Lecco. A Locarno ci aspettava il generale Ca-dorna che, sapendoci di Calolzio, ci chiese notizie del fratello didon Giacinto che era stato un partigiano importante, uno cheteneva i contatti decisivi. E così si chiuse la mia parentesi di par-tigiano.

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Le tombe sottoil Monastero del Lavello

Tra il 1949 e il 1950 il Comune fece restaurare il monastero e lachiesa del Lavello. Prima c’erano un castello e un ponte e ioavevo visto i resti di un pilone, così come si vedono ad Olginate.Sapevamo anche che, sotto il pavimento della chiesa, c’eranodelle tombe dove erano sepolti i frati.Con una sbarra di ferro io e il Battista Angeli abbiamo sollevatoun coperchio: c’erano teschi e ossa; niente di particolare valore.Ne aprimmo un’altra sotto l’altare, ma anche qui solo teste dimorto, un po’ più grosse. Mettemmo le pietre a posto. Nessunoall’epoca sapeva che al di sotto c’era una cripta ancora più vec-chia.Un giorno ero dal mio dentista; esercitava a Calolzio, ma era na-tivo di Milano. Gli parlai delle teste di morto e lui mi disse:‹‹Portamene una!››.Gli risposi: ‹‹Se vuoi, vieni tu a prendertela!››.Infatti un giorno venne al Lavello poiché aveva la passione perla pesca. Mi chiese un giornale e si portò via un cranio. Dor-mivo al piano terra, a dieci metri dalla chiesa e ho un ricordopreciso di un sogno fatto la notte seguente: sento bussare alla fi-nestra, era un frate. Ho ancora la pelle d’oca; il frate mi dice:‹‹Dì a quello là di portare indietro la testa!››.La cosa mi impressiona e non riesco a togliermela dalla mente.Riferisco il sogno al dentista, ma quello la testa non l’ha volutariportare. Un giorno, mentre in moto andava a Bergamo, ebbeun incidente in Bisone e cadde a terra: l’amico restò illeso, luimorì sul colpo. Era destino?

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I due santi: S. Giovannie S. Marco. Santuario diSanta Maria del Lavello

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Intanto i restauri al Lavello andavano avanti. C’erano due pittoridi Bergamo, suocero e genero, molto bravi: i signori Galizzi.Erano impegnati nel dipingere il grande affresco della Madonnadietro l’altare. Venivano a mangiare da noi come tutti quelli chelavoravano per la chiesa e a cui noi offrivamo il pasto. Un giorno,terminato il dipinto della Madonna con i due santi, chiesi loro:‹‹Ma quei due santi che avete dipinto siete voi?››.Mi risposero di sì e aggiunsero: ‹‹Così la gente si ricorderà sem-pre di noi!››.Da allora, dopo la festa del Lavello, il lunedì è tradizione del no-stro ristorante offrire un pranzo agli anziani. Anzi, raccomandoai miei figli di mantenerla sempre.

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1. Il tirante per la guida dei cavalli.

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La Madonna del Lavellofa i miracoli

Può darsi che qualcuno non creda ai miracoli, ma quel qualcunonon sono certo io; ne ho ricevuti due dalla Madonna del La-vello. Il primo proprio nei giorni dell’insurrezione. Il colonnellodelle SS si muoveva con una carrozza e un tiro di due cavallineri; l’avevamo requisita e con quella partii per andare al La-vello. Arrivato a Corte, dove c’era la cappella delle anime delpurgatorio che pregano tra le fiamme, mi si ruppe il balantin1.Davanti al cimitero, dove c’era la cabina elettrica, i due cavalli simisero a correre all’impazzata. Sulla strada c’era la CostantinaGamba, che vive ancora e può testimoniare. Lei, presa dallapaura, per salvarsi si buttò nella scarpata e finì nel campo sotto-stante. Io, in balìa dei cavalli, arrivai alla chiesa in pochi istanti.Dovevo prendere una decisione. Non avevo molte alternative:davanti avevo il lago, di fianco le putrelle di ferro che servivanoai tedeschi per fare il ponte, dall’altro lato il portico e la chiesa.Saltai in questa direzione con il moschetto in spalla. La Ma-donna in quel momento non era distratta e aveva visto tutto;aveva deciso di proteggermi: non mi feci quasi niente, mentre lacarrozza finì nel fiume e i cavalli dall’altra parte rompendosi tuttie due le gambe posteriori. Li portarono via e io fui medicato. Icavalli poi li abbiamo mangiati.Il secondo miracolo avvenne qualche tempo dopo, nel 1952. Erail giorno della Madonna del Bosco e, con la mia Guzzi 250, tor-navo dal lavoro. Avevo già aperto l’osteria ed ero andato a Pe-

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scarenico a comprare le alborelle dai pescatori di là. Al ritorno,alla Gallavesa, all’incrocio nei pressi del negozio del fotografoMarenzi, un camion non rispettò lo stop. Frenai, le alborelle an-darono dappertutto e non potei evitare la caduta e una granbotta alla testa sopra l’occhio. L’autista del camion mi portò amedicare dal dottor Lozza, che abitava lì vicino. Quel giorno laMadonna mi salvò per la seconda volta e mi mandò anche un se-gnale: quello di smettere di lavorare in stabilimento, perché lamia strada futura era un’altra: quella dell’oste a tempo pieno.

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La sorella Rosa

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Il 1950

Il 1950, per la mia famiglia, è stato un anno maledetto. Lavo-ravo ancora a Lecco e un lunedì, alle tredici, avevo preso un po’di pesce. Eravamo tutti lì in piazza a bere prima di andare al la-voro. C’era anche la zia di mio padre, Carmela Brini, che sgridavasuo nipote, mio padre, perché la notte aveva straparlato di con-tinuo: era andato a letto un po’ brillo. Quel giorno facevo il turnodalle quattordici alle ventidue; avvisai mio padre che il pesce eranella rete, pronto per essere cotto. Lui mi sorrise. Alla sera, sullavia del ritorno, mi venne incontro mio zio Gino che mi avvisòche mio padre era morto: aveva giocato alle carte, aveva fatto cuo-cere il pesce, aveva bevuto un po’ e poi era andato a letto. Si eraaddormentato ed era morto nel sonno; aveva solo 54 anni.Non passano che quattro mesi, quando un giorno a mia sorellaRosa faceva molto male la pancia. Mia mamma chiamò il me-dico di famiglia che entrò in camera. Siccome noi avevamo ap-pena ucciso il maiale, dal soffitto pendevano i salami e le salsiccee il dottore sentenziò: ‹‹Avrà mangiato troppo di quella roba lì,datele un bel bicchiere di olio di ricino››.Due giorni dopo la Rosa stava peggio: il mal di pancia era piùforte. Decidemmo di chiamare il dottor Galimberti, quel buonmedico che già mi aveva guarito la piaga del piede nei giorni dellaliberazione. Venne subito e la visitò. Diagnosticò una peritonitee la fece ricoverare d’urgenza all’ospedale di Lecco. Il professor

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Previtera confermò la diagnosi e aggiunse che non c’erano spe-ranze, quindi ci disse di portarla a casa. Stetti accanto a lei finoalla fine: il suo respiro divenne sempre più debole, finchè morì.Era una ragazza di soli quindici anni, tanto brava! Mi sembravadi impazzire: in quattro mesi avevo perso il papà e una sorellacara.

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Il Lavello: il lungo fiume

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L’osteria

Finita la guerra, è incominciata un’altra vita.Un giorno come tanti altri sono sulla piazza del Lavello e arri-vano mio cugino Angeli e un altro amico che mi dicono: ‹‹C’èun affare da fare››.Mio cugino Angeli era anche lui nipote di mio nonno Centomilioni, il signore appunto, dei cento milioni che però non avevaneanche un soldo e che aveva gestito L’osteria dei tre olmi facen-dola fallire.

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Gianni con le sorelle, il fratello Franco,la cognata Letizia e due amicidavanti al camino dell’osteria Tre olmi

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L’affare consisteva nell’acquisto in Calolzio della licenza di unaosteria: il Gigo chiudeva e si poteva, oltre alla licenza, comperareanche quel poco che c’era dentro. Io lavoravo già a Lecco, ma dapoco. Di mio avevo cinquemila lire tenute da parte per sposarmi;con quelle andai da loro e dissi: ‹‹Se vi accontentate, questo èquello che ho››.Si accontentarono, ma oltre alle 5.000 lire dovetti aggiungereanche la camera che avevo fatto fare per il mio matrimonio.Quando lo seppe la mia fidanzata, ci rimase male, molto maledirei; pensò che non l’avrei più sposata. Portai tutti i documential signor Patelli per poter aprire l’osteria; intanto il falegnameAristide Valsecchi mi aggiustò le finestre e i muratori Carsana,a tempo perso, mi aggiustarono i muri. Però non c’erano néacqua potabile, né telefono, né servizi igienici. Per questi ultimiandai in comune. Il sindaco di allora, il signor Galanti, era unpo’ brusco, ma galantuomo e, ridendo, mi disse: ‹‹I servizi sonopiù igienici in mezzo al prato!››.Mi diede però il permesso, fuori dal campo sportivo; l’acqual’avevo già portata, più tardi portai anche il telefono. Il problemaerano il vino e le bibite da pagare. Per il vino mi venne incontroil signor Comi, grazie all’interessamento di mio cugino Angeliche garantì per me. Per le bibite, invece, andai dall’Alessio in

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piazza Regazzoni. Lui non c’era, ma la moglie sì e mi fece capireche, senza soldi, non mi dava niente e che voleva anche un de-posito per i vetri.Il signor Antonio Perego faceva il trasportatore per i fratelliScola, che vendevano di tutto; mi riferì: ‹‹I fratelli Scola mihanno detto che se vuoi un carro di acqua e di bibite te lo dannosenza un soldo››.Ma io dovevo una risposta alla moglie dell’Alessio e, per educa-zione, dovevo ritornare. Questa non si era mossa di un millime-tro dalla sua posizione; così andai dal signor Perego: ‹‹Va bene, glidissi, ed ebbi il mio primo carro di acqua e di bibite››.Lavoravo a Lecco di notte e, di giorno, lavoravo alla preparazionedell’osteria; da un sentiero ho ricavato un campo di bocce. Poi,spianando un po’ di spazio a badilate, arrivai a costruire cinquecampi di bocce. Durante il periodo dei lavori, durati circa treanni, mi capitò anche di salvare ben tre persone che si erano tuf-fate nel fiume e stavano per essere travolte dalla corrente. Senzapensarci due volte, mi buttai in acqua e li riportai a riva sani esalvi. Anni dopo, un giorno nel mio ristorante venne il sindacodott. Autelitano che mi disse: “Hai visto, ti abbiamo fatto il lun-golago!”. Gli risposi: “Sì, ma l’ho incominciato io con la pala e ilpiccone!”. La domenica tutta Calolzio veniva al Lavello; lavora-vamo tanto, ma ero abituato fin da piccolo a lavorare insieme aimiei fratelli; pescavo il pesce e mio padre lo faceva cuocere.Nel 1947 mi sposai, a Rossino. Il viaggio di nozze fu da Ros-sino al Lavello; pioveva e nevicava: eravamo tutti bagnati. Da

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Natalina e Gianni sposi a Rossino nel ‘46

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quel giorno sono passati quasi sessantatrè anni: mia moglie do-vrebbe darmi una medaglia al valore per la fedeltà, io a lei unaper i quattro figli che mi ha dato e per tutto il lavoro fatto in-sieme a me.Un giorno, mio zio Innocente mi disse che alla radio aveva sen-tito una notizia: se uno aveva due milioni in banca come garan-zia, gliene prestavano sette. Io andai alla Cariplo di Olginate,

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perché ero amico del direttore, il signor Gaffuri. Purtroppo lacosa era al contrario: te ne davano due se ne avevi sette per ga-ranzia! Mi consigliò allora di fare un mutuo e io chiesi tre mi-lioni. Me ne concessero due e mezzo, ma in buoni fruttiferi.Scesi di sotto e li cambiai: diventarono due milioni e due e, inpiù, mi trattennero cinquantamila lire per l’assicurazione. Ilmutuo durò quindici anni e, fra interessi e capitale, mi costòquindici milioni. Forse non è stato un grande affare!Venivano sempre a pranzare da noi tre signori di Bergamo cheavevano un ristorante sopra a Città Alta, a San Vigilio. Ungiorno mi dissero che erano intenzionati a cessare l’attività e che,se volevo, mi vendevano a poco prezzo tutta l’attrezzatura. Ac-cettai. Con un furgone prestato da un mio amico andammo ioe Andrea detto Piturel, anche lui un partigiano. C’erano dei beitavoli in granito, ma ci accorgemmo che il furgone non potevaarrivare fino in cima; perciò, con tutto il loro peso, traspor-tammo i tavoli a mano e poi li misi in piazza e, quando costruiiil ristorante, li portai nel giardino dove si trovano tuttora. Ladomenica la piazza era piena di tavoli e sedie che, a mezzanotte,dovevo portare dentro un convento, allora monastero. Facevotutti i mestieri: lavapiatti, manovale, cameriere e barcaiolo pertrasportare la gente. Ricordo un mio carissimo cliente che eraun bravo cameriere di Lecco. Veniva tutti i lunedì con una miacugina, l’Adele Civillini, che poi ha sposato. Mi pare ancora divederli, a più di cinquant’anni di distanza, seduti a quel tavo-lino per due; prendevano doppia porzione di pesce: bandiröi e al-

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borelle. Quanto pesce c’era allora! Si andava giù con il cavagneul1

e lo si trascinava in mezzo all’erba, perché allora il lungolago eraun prato; in poco tempo ne prendevo anche due chili; l’acqua eradappertutto, il pesce era in mezzo all’erba e c’erano alcune spe-cie ormai scomparse: i sanguanin, tutti colorati, le ghisöle,moltosaporite e tanti altri. I pescatori sono diventati miei fornitori: ilGiossi di Corte, il Celestin, anche lui di Corte, il Greppi, dettoPulai. Il pesce più pregiato lo portava il Bolis che abitava vicinoal ponte della ferrovia. Utilizzava le cuette2 che metteva in cor-rente dove, con i sassi, aveva creato dei piccoli sentieri sott’acqua.Quando ne aveva tanto, mandava i suoi amici a venderlo neipaesi di montagna. Ci andavo anch’io, con il “Guzzino 65”, aMonte Marenzo dal signor Venuto; era una brutta strada, nonasfaltata, assai pericolosa.La clientela era diventata molto vasta: brianzoli, milanesi, ber-gamaschi, lecchesi. Molte volte, la domenica, era tanta la genteche il pesce scarseggiava. Tanto pesce lo forniva il Trebuzzi, unpescatore che è morto quasi centenario. Me ne portavano anchei due fratelli Brini del Lavello, Giacomino e Mario; il primoprendeva perlopiù anguille con le spaderne, il secondo, pesce dialtre varietà con la canna tradizionale. Venivano in molti a man-giare le anguille con i funghi; erano le specialità di mia moglie.Ne ha cucinate talmente tante che, quando le parlo di anguille,

1. Cesti di vimini intrecciati.2. Ceste di giunco o rete con imboccatura ad imbuto attraverso la quale entra il pesce,

senza poterne poi uscire.

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si sente male. Da dieci anni circa i clienti hanno smesso di man-giarle perché dicono che sono troppo grasse e che ci sono tantealtre cose. Non ci si ricorda più dei tempi magri…!Io avevo due vasche di acqua corrente: una per le trote di alle-vamento e una per le anguille. Quest’ultima l’ho dovuta svuotaree portare le anguille a Lecco all’Ittimport.Col tempo sono spariti tutti i pescatori: sono andati... in para-diso.

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Gli anni del benessere

A un certo punto l’osteria va troppo stretta sia a me, sia alla miaclientela: l’idea è di allargarsi e allargarsi vuol dire avere un risto-rante. Intanto occorreva comprare il terreno, almeno mille metri.Era il 1951. Parlo con i signori Cola che ci stanno e mi vendonoi primi mille metri.Il lavoro era così tanto che molte volte, alla sera, alle sette dovevochiudere la porta perché il locale era troppo pieno. Quelli fuoricontinuavano a bussare alla serranda per entrare.Nel 1953 il ristorante era in piedi, venivano da tutte le parti,il salone conteneva duecento persone. Incominciai a fare moltiricevimenti per matrimoni, per cui acquistai ancora mille metrie costruii altri due saloni. Un sabato abbiamo provato a farecinque pranzi di matrimonio. Un mese di maggio ne abbiamofatti addirittura trenta. Tutta la mia famiglia era impegnata, silavorava sodo, alla sera si era stanchi, ma si guadagnava bene esi era contenti. La domenica arrivavano in aiuto anche gli stu-denti: qualche “palanca” in più non guastava. Il benessere lo sisentiva addosso. Il ristorante era come una catena di montag-gio: ognuno aveva il suo compito, la sua specializzazione. Pu-lire quella montagna di pesce piccolo con un taglio di forbiceera una tragedia quotidiana, finchè l’Aldo Brini ebbe un’ideasemplice e rapida per risolvere il problema: due dita che schiac-ciano la pancia e tutto si puliva. Meritava il titolo di budrié1.Poi comperai tutto il terreno fino alla ferrovia, dove facemmo un

1. Termine che indica l'abilità di ripulire le interiora del pesce

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Gita in barca sull’Adda con la famiglia

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orto curato da mio cognato Torri; era una meraviglia! Cresceva ditutto. Il raccolto di verdura e frutta passava dall’orto alla mensa;c’erano anche due serre. Abbiamo provato a raccogliere trentaquintali di kiwi! Poi il Comune ha bloccato la piazza e abbiamodovuto trasformare l’orto in parcheggio. In seguito comperaianche le cascine dei contadini: ero benestante, avevo fatto for-tuna! Allora molte persone venivano a chiedermi soldi in prestito.Il bello era che i soldi, una volta prestati, stentavano a tornare in-dietro; nonostante non avessi chiesto interessi, succedeva che lepersone a cui avevo prestato denaro, quando li incontravo gira-vano la faccia fingendo di non conoscermi e li perdevo anchecome clienti. A questo riguardo, mi viene in mente un fatto ca-

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pitatomi nel ’49. Un mio cliente mi disse: ‹‹Gianni, se vuoi deisoldi te li do io›› e mi diede un milione; gli versai subito gli inte-ressi, che erano una quota onesta rispetto a quella praticata dallebanche. Poi, appena ho potuto, gli ho restituito i soldi e l’ho rin-graziato. Una volta ho prestato un milione a un piccolo indu-striale; passò un anno e non succedeva nulla. Un giorno incontraiun banchiere che sapeva del prestito e della mancata restituzionee mi disse: ‹‹Quando arriva qualcuno a chiederti i soldi, è megliodiventare rossi subito che smorti dopo!››.Va anche detto, però, che, a poco a poco, quei soldi son tornatia casa quasi tutti. Piero Paredi, un mio amico morto qualcheanno fa, mi raccontava che, se qualcuno andava in banca a chie-dere un prestito, i banchieri lo mandavano da lui dicendo: ‹‹An-date da Piero, se lui vi fa la firma, vi diamo quel che volete››.Questi andavano da Piero che rispondeva: ‹‹Dite al banchiere difarla lui la firma, che è già lì››.Proprio una bella risposta!

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Il consiglio comunale

È il 1965. I socialisti di Calolzio mi chiamano: sono convintiche mi devo candidare per il consiglio comunale. Risultiamoeletti in quattro. I consigli si tenevano di sabato e, di solito, du-ravano fino alle prime ore della domenica; io non ho mai dettouna parola perché non ero un politicante. Spesso mancava il nu-mero legale, ma sapevano dove trovarmi. Veniva al Lavello il vi-gile Cerrato, il comandante, e tutte le volte ci sono andatoperché era mio dovere. Con me c’era Colombo, il capostazione,che sarebbe diventato, anni dopo, sindaco di Calolzio, il maestroAngeli e uno di Rossino, di cui non ricordo il cognome. Ognitanto venivano a Calolzio degli onorevoli per delle inaugura-zioni, ma io non ci andavo mai, preso com’ero dal lavoro. Unavolta mi venne a trovare il sindaco Autelitano; io ero al banco,anzi alla cassa. Mi disse: «Valsecchi, tu non vieni mai quando cisono gli onorevoli per le inaugurazioni».Gli risposi: «Caro signor sindaco, io sono stato molto amico delsignor Roncelli e ho un caro ricordo della sua famiglia. Faceval’oste ad Almenno San Bartolomeo; lo chiamavano il Palanca.Sa cosa mi ha detto in bergamasco?».«No».«Gianni, regordes che ol caset l’è de legn, né parla né fa segn!1» ecioè, se il padrone non sta lì a controllare, chiunque può appro-fittare della sua assenza e mettere mano al cassetto che tanto èmuto.

1. “Gianni, ricordati che il cassetto è di legno, non parla né fa cenni”.

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Queste parole le ho sempre tenute a mente, perché il mio amicoPalanca aveva tanto buon senso.Una sera, in consiglio, bisognava votare per costruire l’asilo a So-pracornola. I socialisti e i comunisti avevano deciso di votare con-tro; avrei dovuto farlo anch’io per disciplina di partito, ma il votoera segreto e io votai a favore. Il giorno dopo incontrai un com-pagno socialista che mi chiese: «Perché hai votato a favore?».Non ci pensai un attimo e risposi: «Perché l’asilo ci voleva».Passati quattro anni, il futuro sindaco Colombo mi comunicòche aveva in mente per me un incarico, ma io gli risposi: «Io, qua,non vengo più neanche per fare la carta d’identità! Ti mando miogenero».E così fu.

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Epilogo

Ho ottantasei anni e ho visto ben sette generazioni. A causa del-l’età, di notte dormo poco e penso spesso al passato.Il Lavello era un piccolo mondo, le parentele erano una ragnatela,il posto è il più antico di Calolzio e, forse, il più bello.Le famiglie me le ricordo tutte: i Brini: Carmela la sorella diCento milioni, mio nonno, zia di mio padre. Aveva la delicatezza,in quegli anni di miseria, di preparare per tutti la calza dei donia Natale; il Gesù bambino anche per me. Ebbe otto figli, sei ma-schi e due femmine: Annetta, la prima, sposò un Marsetti, Maria,l’ultima, era la più bella della famiglia, sposò un Celli, ma pur-troppo se ne andò presto. Poi, in fila: Peppino, Ceschino, Al-fredo, Vincenzino, Giacomino e Mario. Gli ultimi due eranomiei fornitori di pesce. Vincenzino mi chiamava “il volpone” per-ché ero rapido a catturare il pesce. Era un grande sportivo, si se-deva sulla murella, dopo aver appoggiato la bicicletta da corsa, laGazzetta dello Sport in mano. Ebbe anche la fortuna di vederedue figli laurearsi in medicina.Gli Angeli: iMasser nöeuf, i nuovi massari dei signori Cola, nuovinell’Ottocento. Anche mia madre era una Valsecchi del Lavello,ma di un altro ramo: i Pulenta. Vi è stata una bella combinazione:un nipote di discendenza Pulenta ha sposato Silvia, mia nipote,e hanno un figlio che si chiama, come me, Giovanni Valsecchi.Giuanin chel birichin.Mio figlio Aldo non ha avuto figli e ha donato al Birichin la casapaterna; è un regalo per me. Sul cancello resterà ancora il nomedi Giovanni Valsecchi, il mio nome.

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Le donne delle famiglie del Lavello:le sorelle del nonno,zia Carmela, zia Santina, zia Pina, Cesarina

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Noi siamo i Marascia. Questo mio figlio Aldo ha nel sangue lastoffa dell’oste, come un antico richiamo. Ha aperto, insieme alcognato Roberto e al nipote Massimo, l’Osteria del Marascia nellecascine dei contadini dei signori Cola, un tempo foresteria deifrati e con il restauro ne ha ricavato un locale raffinato e moltoaccogliente.All’ingresso, il ritratto del nonno Cento milioni sprigiona tuttala sua bonomia.

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Molte persone hanno lavorato con me e per me al ristorante. Vorrei

poterli ringraziare tutti nominandoli uno per uno; purtroppo però

alla mia età la memoria fa a volte degli scherzi e non vorrei proprio

dimenticarne qualcuno. Tutti sono stati importanti e mi hanno aiu-tato nella gestione della mia attività che, anche grazie a loro, è stata

fiorente e piena di soddisfazioni. A tutti costoro, ai miei famigliari,

ai dipendenti, ai collaboratori va il mio sentito grazie. Li ho vera-

mente cari e hanno un posto privilegiato nel mio cuore.

Penso spesso con nostalgia e grande affetto anche agli amici che

hanno condiviso con me periodi significativi della mia vita che è statalunga, piena di soddisfazioni, anche se non sono mancate le difficoltà

e i periodi bui. Di certo, però, la mia più grande ricchezza sono stati

la mia grande famiglia e l’affetto e la stima di tutte le persone che ho

incontrato sulla mia strada.

Vorrei ringraziare...

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Indice

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Introduzione ............................................................................................................. pag. 9

Cento milioni .......................................................................................................... » 17Gli anni della miseria ....................................................................................... » 20L’infanzia al Lavello ............................................................................................ » 22L’Amerigo suonava la fisarmonica ......................................................... » 27Sta arrivando la guerra ..................................................................................... » 29Il Gianni va in marina ...................................................................................... » 31Questa è la guerra ................................................................................................. » 35L’otto settembre ..................................................................................................... » 39Il partigiano Gianni ............................................................................................ » 41La Resistenza ............................................................................................................. » 44L’assalto alla caserma ......................................................................................... » 47I giorni della liberazione ................................................................................ » 50I voltagabbana ......................................................................................................... » 52Il Capitano .................................................................................................................. » 54Un garibaldino al Lavello .............................................................................. » 56Il primo dopoguerra ........................................................................................... » 57Le tombe sotto il Monastero del Lavello ......................................... » 61La Madonna del Lavello fa i miracoli ................................................ » 64Il 1950 ............................................................................................................................ » 66L’osteria .......................................................................................................................... » 69Gli anni del benessere ....................................................................................... » 77Il consiglio comunale ........................................................................................ » 80Epilogo ........................................................................................................................... » 82

Vorrei ringraziare... ............................................................................................ » 85

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GIOVANNI VALSECCHI, 86 anni, a fianco del ritratto delnonno Cento milioni nell’Osteria Marascia.Marinaio di fiume e di mare, partigiano.Oste e cuoco per tradizione di famiglia.Bravo in aritmetica!È stato insignito del premio “San Martino” dall’amministra-zione comunale di Calolziocorte e dalle parrocchie della Valle;del premio “Maestro per il commercio” dall’associazionecommercianti di Lecco; della medaglia della giunta regionaledella Lombardia per lo sviluppo del territorio; del “premioper l’accoglienza e la bontà” del Comune di Milano.