Mauro Bergonzi - Raccolta Di Articoli e Interviste

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Mauro Bergonzi Raccolta di Articoli e interviste Mauro Bergonzi è docente di Religioni e Filosofie dell’India all’Università «L’Orientale» di Napoli e socio analista del Centro Italiano di Psicologia Analitica. A partire dagli anni ’70 ha approfondito i percorsi meditativi di varie tradizioni orientali (buddhismo, vedanta, taoismo).

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Buddhismo, Zen, Advaita Vedanta, Yoga, Meditazione, Spiritualità, Nisargadatta Maharaj, Ramana Maharshi, Ken Wilber, Psicologia Transpersonale, Jung

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Mauro Bergonzi

Raccolta di Articoli e interviste Mauro Bergonzi è docente di Religioni e Filosofie dell’India all’Università «L’Orientale» di Napoli e socio analista del Centro Italiano di Psicologia Analitic a. A partire dagli anni ’70 ha approfondito i percorsi meditativi di varie tradizioni orientali (buddhismo , vedanta, taoismo).

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Il Mistero della ciotola rovesciata di Mauro Bergonzi | Pubblicato in: Squarci |

lunedì 26 dicembre 2005 In un paese lontano c’è un antico tempio. Al centro del tempio c’è un altare di pietra. Al centro dell’altare c’è una vecchia ciotola roves ciata. Nessuno sa che cosa essa nasconda. La memoria del s uo segreto si è persa nel corso dei secoli. La tradizione narra che fu il più sapiente di tutti gli uomini, detto ‘l’Antico’ a posarla su quell’altare: sotto d i essa sarebbe custodito il Mistero dei Misteri, il fulcro stesso dell’Antica Sapienza. Perciò ogni giorno essa è venerata dai monaci con i nni sacri e profondi inchini. Per ogni membro di questa religio ne, sarebbe sacrilegio supremo toccare la ciotola, profanandola con la sozzura di ciò che è mondano. Così il suo segreto resta sigillato nei secoli dei secoli, e col passare del tempo è divenuto l’oggetto principale d i lunghe speculazioni fra i dotti. Una mattina di primavera, mentre il cinguettìo degl i uccelli e una leggera brezza, filtrando da fuori, accarezzano dol cemente la penombra degli oscuri recessi del tempio, due vecch i monaci - amici da tanti anni - sono, come al solito, presi d a una delle loro interminabili diatribe sul mistero della cioto la rovesciata, che se ne sta lì, accessibile al loro sguardo, muta nel suo segreto. Uno dei due monaci dice: - Amico, in tutti questi anni si è fatta sempre più profonda in me la convinzione che sotto quella ciotola sia conserv ato quanto di più prezioso sia dato trovare sulla faccia della te rra. Infatti, se ciò che vi si cela dev’essere un simbolo di quell’incorruttibile essenza spirituale che tutti n oi veneriamo, non può che essere qualcosa di unico, incomparabile , meraviglioso. Forse un diamante perfetto, senza alcuna impurità. Forse una sfera d’oro purissimo. Forse una sacra reliquia del vener abile Antico che fondò la nostra religione. Forse due specchi ch e eternamente, all’infinito, si riflettono l’un l’altro nel sacro buio custodito dalla ciotola. O forse qualcosa di ancor più prezio so, che la mia mente non può neanche immaginare.

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Comunque sia, non solo la ragione, ma il cuore stes so mi dice che là sotto c’è qualcosa, qualcosa di assolutamente pr ezioso -. L’altro monaco scuote il capo in segno di dissenso e replica: - Amico caro, mi meraviglio della tua ingenuità! Pe nsi davvero che sulla faccia della terra esista qualcosa di così pu ro e perfetto che possa anche solo lontanamente rappresentare l’i ncorruttibile essenza spirituale? Guardati intorno: tutto decade, tutto è corrotto dal tempo e dall’imperfezione insita nell’ esistenza stessa. Ti confesso che, col passare degli anni, il corso d ei miei pensieri ha sempre più preso una piega di amarezza. Poco a poco, mi convinco sempre più che sotto quella vecchia cio tola non c’è assolutamente niente e che anche questa cosiddetta ‘essenza spirituale’, meta agognata di tutti i nostri sforzi , in realtà non sia altro che una chimera. Dopo tanti anni di disciplina e di esercizi spiritu ali, chi di noi l’ha mai vista? Chi di noi può dire di essersi avvi cinato anche solo di un passo ad essa? Francamente, credo che quella vecchia ciotola non a bbia alcun valore, che non serva a niente e che sia stata mess a lì affinché gli uomini, illusi dal suo mito, attraverso un’inga nnevole ma utile fede si sforzino di comportarsi un po’ meno b rutalmente del solito. E’ solo per questa sua pietosa utilità che io stesso non ne infrango l’aura sacrale toccandola e mostrando a tutti l’orribile verità del nulla e dell’insensatezza che pervadono la nostra esistenza -. E così i due monaci continuano a discutere sui loro opposti punti di vista, dinanzi alla muta, inesplicabile presenza della ciotola rovesciata. Ma ecco, all’improvviso, echeggiare un boato per le volte del tempio: il pesante portale si è spalancato. Mentre un gran fiotto di luce, di cinguettìi di uccelli e di profumi prim averili inonda i polverosi recessi del sacro luogo, ecco entrare u n viandante, tutto impolverato per il lungo viaggio, ma con una ridente serenità che illumina il suo volto. Chi è costui? Viene da lontano e va lontano. E’ sol o di passaggio. Non sa nulla di templi e di antichi misteri. Ha in mano una manciata di fragranti bacche appena colte. Si guarda intorno, scorge l’altare e vi si accosta, coprendo col suo corpo per un istante la vista della ciotola ai due anziani monaci, talmente sorpresi per questo ingresso impro vviso da restare come pietrificati.

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Il viandante afferra tranquillo la ciotola, la soll eva, guarda sotto e un sorriso gli illumina il volto. Poi, sost enendo la ciotola sul palmo della propria mano, la riempie de lle dolci bacche che teneva nell’altra e, tutto contento, se ne esce fuori, ai colori, ai suoni e ai profumi di quello splendid o pomeriggio primaverile, per proseguire il suo viaggio. I due monaci sono restati annichiliti. Non hanno ne mmeno avuto la forza di gridare allo scandalo quando lo sconosciut o visitatore ha toccato la ciotola e se l’è portata via. Sono anzi rimasti come affascinati dall’enormità del sacrilegio, come inca tenati loro malgrado a guardare con avida curiosità che cosa c’ era sotto la ciotola! E ora l’oggetto delle loro interminabili speculazio ni è finalmente là, davanti ai loro occhi stupefatti e attoniti: su ll’altare di pietra, nella penombra del tempio, poggia silenzios a un’altra ciotola rovesciata, identica alla prima, solo un po ’ più piccola. Commento sapienziale La via dell’affermazione e La via della negazione Non sono che una sola: La Via del Pensiero. Al di là di essa - Molto al di là – Si schiude La Via del Non-Sapere, Dove Vedere è Agire. Per chi vede senza nulla sapere, Tutto accade da sé, Come lo sbocciare dei fiori a primavera.

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Per lui, Anche una ciotola colma di bacche fragranti è Mistero e Meraviglia Ma per chi non vede Credendo di sapere, Fossero anche scoperchiate mille ciotole, Sigillato resta il Segreto Nell’oscurità di un polveroso enigma. Eppure… Quando viene la primavera, Su tutti splende lo stesso sole, Su tutti soffia la stessa brezza. Versione zen del racconto Nella cucina del monastero due giovani monaci stann o pelando patate. Sul tavolo c’è una ciotola rovesciata. D’improvviso, irrompe il maestro e, brandendo il ba stone con aria minacciosa, domanda: - Che cosa c’è sotto la ciotola? Se dite “Qualcosa” vi colpisco! Se dite “Niente” vi colpisco! – Il primo monaco resta immobile, attonito. Il secondo monaco prende la ciotola, la riempie di bacche ed esce in silenzio, mangiando le bacche, mentre sul tavolo è rimasta una seconda ciotola più piccola, sempre capovolta, che si trovava sotto la prima. Il maestro esclama: - Ben fatto, ben fatto! -. Poi, rivolto all’altro monaco, ruggisce:

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- Che cosa c’è sotto la ciotola? Se dici “Qualcosa” ti colpisco. Se dici “Nulla” ti colpisco. Se fai come il tuo com pagno, ti colpisco due volte! –

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Il Monaco e il Pettirosso di Mauro Bergonzi | Pubblicato in: Squarci |

domenica 22 gennaio 2006 Da quando l'avevano nominato aiuto-bibliotecario de l monastero, il Monaco Dotto era al settimo cielo. Finalmente potev a immergersi indisturbato nella lettura dei polverosi manoscritt i in cui gli Antichi avevano indagato i profondi misteri della n atura. Certo, egli non disdegnava la vita del monastero, l a recitazione dei testi sacri che infondeva un'onda di devoti pen sieri nella mente e la meditazione silenziosa, quando lo spirit o riposava in se stesso per sondare i segreti del cuore. Da noviz io aveva anzi praticato con fervore la meditazione silenziosa, tr aendone anche una certa soddisfazione; ma poi altri interessi ave vano prevalso: dopotutto, che senso aveva starsene seduti tutto il tempo senza pensare a nulla? Com'era possibile apprendere qualc osa di nuovo da una testa ‘vuota’, senza pensieri? Col tempo s'era convinto che il sapere degli Antich i, tramandato per secoli e secoli in libri ponderosi grazie all'a ccumularsi di esperienze fatte dalle menti più dotte dell'umanità , contenesse segreti capaci di spalancare le porte della vera co noscenza a chi ne possedesse la chiave. E il Monaco Dotto continua va diligentemente a studiare, bramoso di appagare la p ropria sete di conoscenza. Le condizioni erano tra le più favorevoli, adesso. Come aiuto-bibliotecario, disponeva di molto tempo libero. Inf atti le sue mansioni si limitavano a tenere in ordine i libri e riporre con cura negli scaffali quelli consultati. E siccome no n erano molti, a quei tempi, i monaci che sapessero leggere - e an cor meno quelli interessati ad oziare in biblioteca - gli restava s empre molto tempo libero per i suoi studi. Inoltre, data la sua alta qualifica, era dispensato da parecchie di quelle ma nsioni - come per esempio aiutare in cucina, coltivare l'orto, pr edicare al villaggio, e così via - che di solito occupavano in gran parte la giornata degli altri monaci. C'era un confratello, in particolare, che il Monaco Dotto aveva a volte distrattamente notato proprio perché sembrava il suo opposto. Svolgeva le mansioni più umili e frequenta va solo tre luoghi, in cui il Monaco Dotto non metteva quasi ma i piede: la cucina, l'orto e la sala di meditazione. Non lo inc ontrava mai né ai pranzi importanti, né ai riti svolti in pompa ma gna, e tantomeno in biblioteca. Il suo saio era pulito, ma tutto consunto: evidentemente possedeva solo quello. Le s ue mani forti mostravano i calli dei lavori pesanti, però molto a rmoniosamente si ricomponevano nei periodi di meditazione silenzi osa. Il Monaco Dotto dentro di sé l'aveva soprannominato 'il Monac o Analfabeta', perché - non avendolo mai visto leggere - nulla fac eva supporre che fosse istruito. Per il resto, lavorava sodo in cucina o nell'orto, ma - mistero dei misteri - sembrava semp re molto contento di questa sua umile condizione.

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Il Monaco Dotto, fortunatamente dispensato da occup azioni materiali, poteva invece immergersi per ore ed ore nella lettura dei manoscritti più preziosi e segreti, ricchi di a rcane illustrazioni. L'ambiente della biblioteca era poi ideale: fresco d'estate, caldo d'inverno, sormontato da svettanti volte che garantivano luce sufficiente per leggere, ma non ta lmente intensa da turbare la concentrazione. Al di là delle ampie finestre ad ogiva, un bel panorama di campi e montagne dava spa ziosità alla lettura, e la serena fiammella dei lumi ad olio acc ompagnava le silenziose ore della notte. Unico rumore durante il giorno, oltre al frusciare della brezza fra i rami dei salici, era l'allegro cinguettìo deg li uccelli. Il Monaco Dotto non ne era disturbato. Amava anzi ques ti esseri d'aria, leggeri e variopinti, le cui gaie inflessio ni sembravano quasi parole di un magico testo scritto in cielo, d a leggere e decifrare come i suoi polverosi manoscritti. Tra l'altro, aveva fatto amicizia con un pettirosso , che tutti i giorni era solito affacciarsi timidamente sul limit are della finestra attigua al banco di lettura. Era strano e misterioso, quel pettirosso. Il Monaco Dotto non riusciva mai a sorprenderlo nell'istante in cui giu ngeva. Quando si avvicinava l'ora dell'appuntamento, di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dalla lettura per vedere se arrivava, ma non scorgeva mai nulla. Poi, all'improvviso, alzava di nuovo gli occhi ed eccola lì, sul davanzale, quella tenera pa lletta di piume variopinte, con la testina reclinata e due occhi ac uti come spilli che lo fissavano neri neri. Che cosa pensava? Che t ipo di comunicazione può instaurarsi - si chiedeva il Mona co Dotto - fra due mondi così diversi, che pure ogni giorno, per p ochi istanti, s'incontrano, sfiorandosi appena? I suoi libri non gli davano alcuna risposta. Immancabilmente, il Monaco Dotto a questo punto pog giava sul davanzale un seme di girasole. Uno solo, perché ave va notato che l'uccellino non ne accettava mai di più. Il pettiro sso allora guardava prima lui, poi il seme, poi ancora lui, e infine, con movimento rapidissimo, prendeva il seme. Dopodiché se ne volava via per non tornare più fino all'indomani. "Perché non viene mai due volte?" si chiedeva il Mo naco Dotto, "Come può sfamarsi con un solo seme? Va a cercare c ibo altrove? Tanto varrebbe tornare qui. Ma allora forse non è t anto il seme a interessarlo, quanto lo strano incontro tra due ess eri così estranei e diversi?". Anche su questo non poteva tr ovare risposta nei libri, ai quali comunque il Monaco Dotto ritorn ava con rinnovato gusto dopo questa breve e piacevole divag azione. * * * Un giorno in cui tirava un vento gelido e tagliente , il Monaco Dotto si accinse a leggere uno dei testi più antich i e profondi, preso dagli scaffali chiusi dei libri preziosi e in accessibili. Da lungo tempo pregustava questo momento. Accese il ca mino per

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riscaldarsi, chiuse le finestre da cui entravano sp ifferi glaciali, accese il lume - perché le nuvole nere e compatte avevano oscurato la luce del giorno - e tutto soddi sfatto cominciò a leggere. Il libro trattava delle strane creature che abitano l'aria, le nubi, gli abissi marini, le grotte e le oscure visc ere della terra. Descriveva bizzarri funghi e cristalli che c rescono solo in recessi mai rischiarati dalla luce del sole. Studia va il senso arcano celato nelle variegate venature di certe pie tre nascoste in grotte profonde, passando poi a sondare il mistero dei princìpi ultimi della natura, il linguaggio segreto che ne r egola il corso armonioso. Il Monaco Dotto era talmente affascinato da questi argomenti, talmente assorto nella lettura, che nemmeno fece ca so ai tuoni e ai fulmini dell'immane tempesta che intanto squassa va la campagna intorno al monastero. La grandine cadeva fitta, pic chettando sulle imposte della finestra chiusa. Si sentiva ben protetto, lì al calduccio, con la lu ce del lume ad olio che arrivava giusto fino all'orlo della pagina illustrata da interessanti simboli ed arcane figure, lasciando tu tto il resto sotto un protettivo ombrello di penombra che facili tava la concentrazione. Era talmente assorto nella lettura, da non poter certamente far caso, sotto lo scroscio dei chicchi di grandine sul vetro, a un più tenue, disperato picchiettìo dietro la finestra chiusa... Lesse fino a tardi e poi, ancora tutto infervorato dalle riflessioni suscitate in lui dall'antico manoscritt o, se ne andò subito a dormire. * * * Quella notte fece un sogno: Camminava per l'orto con un libro prezioso sottobra ccio. Man mano che avanzava, però, il libro si faceva sempre più g rosso e pesante, quasi intrasportabile. Troppo gravavano gl i ori e i gioielli che ne fregiavano la preziosa rilegatura. A un certo punto, dovette fermarsi a prender fiato, e lì incontrò il Monaco Analfabeta che lo guardava tutto sorriden te. Questi indicò la terra e disse: - Anche le pietre preziose che adornano il tuo libr o vengono dalla terra, sai?- Il Monaco Dotto voleva replicare che il valore del libro non risiedeva negli ornamenti esteriori, ma nelle parol e. Però, quando lo aprì per mostrarne il contenuto a conferma della propria asserzione, si rese conto che, per quanto si sforza sse, non riusciva a leggervi nulla. Quella scrittura gli era del tutto ignota, i segni e i caratteri non avevano per lui a lcun senso; anzi, più li guardava, e più si facevano confusi, i nstabili, sembravano muoversi da soli, contorcersi, per trasf ormarsi infine in tanti vermi nauseanti, che ora stavano velocemen te divorando tutta quella carta preziosa...

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Con un gesto di ribrezzo, il Monaco Dotto lasciò ca dere il libro al suolo. L'altro rise di cuore. Poi, sempre con qu ella sua aria cordiale e serafica, si accucciò a terra per indica re un punto dell'orto e disse: - Vieni a vedere!- Il Monaco Dotto si accostò un po' titubante e con m eraviglia si accorse che lì c'erano tante cose da scoprire: sass olini di variopinti colori, fiammanti foglie rosse e gialle, un ciuffetto di tenera lattuga accanto ad una pozzanghera d'acqu a, un nero lombrico lustro lustro che s'infilava per un pertug io sotto terra, e uno splendido fiore d'iris, che sbocciava proprio dove marcivano alcune foglie morte. Ed era come se tutto questo av esse un senso profondo per lui, come se fosse il linguaggio dimen ticato di una scrittura antica e sapiente... * * * Il Monaco Dotto si svegliò accarezzato dai primi ra ggi del sole, che nasceva proprio allora in un cielo tersissimo c ome soltanto può esserlo dopo una tempesta. Di buon umore, si recò subito in biblioteca a prose guire la lettura interrotta. Per far circolare un po' d'aria nell'atmosfera polverosa della sala, aprì la finestra e restò impi etrito alla vista di un misero fagottello sul davanzale, ancora zuppo e tutto arruffato: era il suo amico pettirosso che non ce l 'aveva fatta a superare la notte, sotto il freddo e la grandine de lla tempesta. Il cuore gli si serrò in petto in una morsa di ghia ccio. Sentì come se dentro di sé qualcosa - non sapeva dire cos a - si fosse irrimediabilmente spezzato, come se il suo rapporto stesso con la vita fosse in pericolo. Si sentiva solo, senza forz e, arido. Ma perché, poi? Per una semplice bestiolina morta? Eh, si! Doveva ammetterlo, si sentiva anche un po' in colpa, perch é sapeva bene che, se il giorno prima non fosse stato così avido di conoscenza ed assorto nella lettura, si sarebbe ricordato del suo piccolo amico là fuori, tutto solo e indifeso al freddo del la tempesta e avrebbe udito il suo flebile richiamo di aiuto. Inv ece... Ma, dopotutto, lui era impegnato in qualcosa di molto i mportante, stava indagando i misteri più profondi della natura : in confronto a tanta scienza, che cos'è l'effimera vita di un in significante pettirosso, come tanti altri destinato comunque ad una breve esistenza? Eppure...Eppure qualcosa dentro di lui s tava gridando un'altra verità: che persino in un effimero pettiro sso è presente la vita intera, con i suoi misteri più profondi... Il Monaco Dotto rimuginava questi tetri pensieri me ntre teneva in mano quell'ammasso di piume bagnate, ormai quasi in colore. Decise di seppellire il pettirosso in un angolino d ell'orto. Scavò una buchetta nella terra umida e scura e vi depose il suo piccolo, misterioso amico. Dopo averlo ricoperto, stava per andarsene quando sentì qualcosa nella tasca del saio: era l'o rmai inutile seme di girasole che teneva in serbo per i loro inc ontri quotidiani e che aveva dimenticato di dargli il gio rno prima.

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Soprapensiero, lo gettò sul mucchietto di terra app ena smossa e se ne andò, cercando di dimenticare tutta la faccenda. Ma qualcosa dentro di lui non dimenticava. Quando r ientrò nella biblioteca, tutto era immerso nella penombra. I suo i passi eccheggiavano fra le volte. Rabbrividì e per la pri ma volta quel luogo tanto amato gli parve estraneo, freddo, vuoto . Si sentì solo. * * * Da quel giorno qualcosa cambiò in lui. Non riusciva più a concentrarsi nella lettura. Era come se, d'improvvi so, i libri che leggeva non lo interessassero più come prima. Le me raviglie che descrivevano, i misteri che svelavano, gli sembrava no ora tutte cose astratte, superflue, senza spessore, adatte so lo alle polverose sale di ammuffite biblioteche. Ma a che s erve tutta quella scienza, se non è nemmeno capace di capire i l linguaggio e i bisogni di un pettirosso? Svogliatamente, eppure quasi febbrilmente, il Monac o Dotto andava cercando nei libri qualche argomento che lo scuotes se, che riaccendesse in lui l'antica fiamma dell'entusiasmo . Ma invano. Qualcosa era veramente andato perduto. Passarono i mesi, e il Monaco Dotto aveva ormai dim enticato il suo piccolo amico. Preferiva tenere la finestra sempre chiusa adesso, perché i rumori della natura lo disturbavano. Sopra ttutto il cinguettìo degli uccelli gli evocava qualcosa di va gamente spiacevole; a volte aveva come l'impressione che, c on i loro suoni esultanti, quegli esseri felici si prendessero gioc o di lui, al quale era preclusa per sempre la leggerezza del vol o. * * * Un giorno che il Monaco Dotto camminava, come al so lito, con la testa fra le nuvole, tutto assorto in tristi pensie ri, nei paraggi della cucina andò quasi a scontrarsi con il Monaco Analfabeta, sognato (e dimenticato) tanto tempo prima. L'altro lo guardò, sorrise e, senza dir nulla, gli offrì un ravanello. In situazioni normali, il Monaco Dotto non avrebbe mai accettato del cibo dalle mani probabilmente sporche di un umile sguattero; m a questa volta, preso alla sprovvista, senza sapere bene nemmeno lu i perché, accettò. Il ravanello aveva un sapore fresco e frizzante, gl i diede quasi una scossa salutare al naso. Lo svegliò. Anche lui sorrise e disse: - Grazie -. - Prego -, rispose l'altro, porgendogli una tazza d i tè che reggeva con l'altra mano. Il Monaco Dotto bevve tut to d'un fiato: era caldo e corroborante. - Grazie -, ripeté. - Prego -, rispose l'altro, e aggiunse sibillino:

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- La tazza è vuota, e per questo può riempirsi. Il mozzo è cavo, e per questo la ruota gira. Se la mente è vuota come il vasto cielo, che cosa mai non potrà contenere? Quale conoscenza le sarà preclusa? Allora, perché non vieni a meditare con m e?". Meditare? Da quanto tempo il Monaco Dotto non frequ entava più la sala di meditazione! Aveva dimenticato persino la p arola! Star seduto senza far niente e soprattutto senza pensare a niente gli era sembrato una totale perdita di tempo: come trar re conoscenza da una zucca vuota, che non contiene nulla? L'unica via era cercarla nei libri di chi sa. Però, vista la situaz ione quasi disperata in cui si trovava, visto che i libri gli sembravano ormai un mondo chiuso e vuoto, accettò l'invito di buon grado, attratto dal sorriso del compagno e dalla luce rass icurante dei suoi occhi. Il Monaco Dotto sedette per più di un'ora, e fu com e tornare a casa dopo un lungo esilio. Era come se tutte le ore passate da novizio in fervida meditazione fossero state diment icate per un magico incantesimo ed ora tornassero a vivere nel p resente, illuminandolo e prendendone a loro volta luce. Era come se la pace e il silenzio coltivati anni prima non fossero anda ti veramente perduti, ma, dopo un lungo letargo passato in un ca ntuccio, adesso, ancora freschi e delicati come allora, gent ilmente riprendessero vita, aria e spazio nella sua mente. E tutto quello che aveva appreso, ecco che ora lo dimenticava. E t utto quello che aveva dimenticato, ecco che ora lo riscopriva come se fosse nuovo, come se lo incontrasse per la prima volta. Comprese che il libro più meraviglioso, l'unico lib ro che possiamo veramente leggere, è ciò che la vita ci porge di mo mento in momento; che le azioni, gli incontri, i sentimenti, le cose che vediamo, udiamo, tocchiamo, sono parole di un lingu aggio misterioso, che ci è dato di comprendere se solo il nostro cuore sa prestarvi attenzione. Comprese che il fugace incontro quotidiano col pett irosso, l'incrociarsi degli sguardi, l'innocente atto di of frire ed accogliere, svelavano più sul mistero della vita ch e non tutte le parole di quei libri preziosi, capaci solo di indic are ciò che lui già aveva direttamente sotto il proprio sguardo. Comprese che persino il desiderio di conoscere i mi steri della natura, come tutti i desideri, ci chiude alla vita che bussa, ci chiude alla compassione e all'amore. Comprese che la felicità dei giorni passati in bibl ioteca non era dipesa dagli aridi libri, ma proprio da quei piccol i incontri col pettirosso, attraverso cui il soffio della vita bus sava discretamente alla finestra del suo cuore, per rico rdargli che in ogni incontro sono racchiusi tutti gli incontri con gli innumerevoli 'altri' che si specchiano in noi, che soffrono e gioiscono con noi, in un dare e un prendere senza f ine. Quando riaprì gli occhi e si alzò, il Monaco Dotto era un altro. Guardò l'amico accanto a sé e quasi non lo riconobb e: come se gli fosse caduto un velo agli occhi, ora non scorgeva p iù le mani

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callose, gli abiti consunti, l'aria dimessa; vedeva piuttosto gli occhi intensi e profondi, la nobiltà del portamento , la luce del volto calmo e pacifico. Allora ricordò il sogno di tanto tempo prima e finalmente ne comprese il significato. Ringraziò il nuovo amico con un profondo inchino ed uscì. Avvertiva il bisogno di respirare aria fresca, camm inare sentendo la terra sotto i piedi, udire suoni gioiosi, recupe rare il contatto con la vita attraverso le cose semplici e meravigliose di tutti i giorni. Come un bambino. Perché era un bamb ino, adesso. E aveva tante cose da scoprire, da imparare: cose che erano sempre state sotto il suo sguardo, ma che la meccanicità d ei gesti abituali e la cortina dei pensieri gli avevano semp re celato. Si sentiva appena nato, e doveva imparare di nuovo a c amminare su questo vasto mondo sconosciuto. Prese il sentiero che conduceva all'orto. Nuvole ca ndide veleggiavano maestose nel cielo sconfinato, quasi a ccecanti per la luce di quella tersa giornata. Il vento agitava le fronde dei salici e gli uccelli cantavano. Da quanto tempo non gioiva più del loro gaio cinguettìo! E come si sentiva grato di po terlo fare di nuovo! Da quanto tempo non percorreva quel bel sent iero? Come se per qualche ragione lo avesse inconsapevolmente evi tato. Da quanto tempo? Ma si, da quando... Arrivò all'orto col cuore che gli batteva forte - n on sapeva nemmeno lui se di gioia o nostalgia - e guardò vers o un angolo appartato dell'orto. Un altissimo girasole dai colori sgargianti si erge va come un inno di lode alla vita.

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Oriente e Occidente: un incontro possibile? Mauro Bergonzi

Il Grillo (18/3/1998) Bergonzi: Buongiorno, mi chiamo Mauro Bergonzi e in segno Religioni e Filosofia dell'India all'Istituto Universitario d i Napoli. Oggi ci occupiamo di un tema attuale, che è l'interesse crescente del mondo occidentale contemporaneo per la spiritualità orientale. A questo proposito abbiamo preparato una breve scheda , che ci introduce all'argomento e poi passeremo al dibattit o. -Si visiona la scheda: COMMENTATRICE: Dal positivismo scientifico al mater ialismo marxista, dalla secolarizzazione e demitizzazione d elle chiese al consumismo capitalistico, tutti i principali sistem i di valori predominanti nell'Occidente contemporaneo, hanno ri nforzato una svalutazione dell'esperienza interiore e una massic cia repressione della sensibilità religiosa, al punto che Ronald La ing scriveva negli anni Sessanta: "La nostra civiltà non reprime soltanto gli istinti e la sessualità, ma anche ogni forma di tra scendenza. Il nostro stato normale e ben adattato non è molto spe sso che una rinuncia all'estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità. Molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io per adattarsi a una falsa realtà. Negli ultimi anni però ciò che era stato rimosso da questa cruda ecli ssi del sacro ha cominciato a riemergere sotto forma di una nuova sensibilità religiosa, connotata da esiti spesso ambivalenti. D a un lato la moda dell'occulto, le sette suicide, il fascino del l'esotico e dell'esoterico, la sottomissione a sedicenti guru, le superstizioni millenaristiche. Dall'altro la ricerc a di un'autentica esperienza spirituale, vissuta in prim a persona, senza intermediari attraverso un lavoro interiore c he coniughi insieme contemplazione e azione. In tale prospettiv a l'incontro con la spiritualità orientale rappresenta per alcun i occidentali una preziosa occasione per riscoprire attraverso un terreno religioso vergine, dominato da pregiudizi e da anti che ferite, la dimensione del sacro, celata nell'intimo di ciascun o. Così il viaggio in Oriente diviene un ritorno alle fonti de l proprio spirito, come scrisse Tagore in una bella poesia: " Sono le vie più remote che portano più vicino a te stesso. Il viand ante deve bussare a molte porte straniere per arrivare alla s ua e bisogna viaggiare per tutti i mondi esteriori per giungere infine al sacrario più segreto, all'interno del cuore. -Fine della scheda, inizia la discussione. STUDENTESSA: Questa differenza tra Oriente e Occide nte, che quindi non è tanto a livello geografico, quanto piuttosto culturale, filosofico-religioso, da dove nasce realmente. Perc hé la nostra

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civiltà reprime gli istinti? Da cosa nasce l'oblio dell'essere? Di conseguenza quindi per quale motivo l'uomo occident ale, soprattutto in questi giorni, adesso sente questo b isogno di tornare alle origini, quindi attraverso proprio la filosofia o la religione, che dir si voglia, orientale? Bergonzi: Negare che ci siano delle differenze tra Oriente e Occidente è chiaro che sarebbe assurdo. Nello stess o tempo, quando uno si accosta, comincia ad approfondire questi arg omenti, ci si rende conto che in realtà poi non esiste un Occiden te compatto e un Oriente compatto, ma ci sono tanti Occidenti e t anti Orienti. E sia in Occidente che in Oriente l'uomo si trova cos tantemente a confrontarsi con i grandi temi, il grande mistero d el che significa vivere e di che significa morire. Allora a questo le religioni, le filosofie hanno dato un contributo, s ia in Oriente che in Occidente. Poi, diciamo che poi c'è una tend enza, in Occidente, a rivolgersi a un cambiamento del mondo esterno, attraverso la tecnologia, così, laddove invece in O riente c'è una prevalenza, diciamo, di tecnologia rivolta alla men te, alla parte interna. Ma non bisogna nemmeno esagerare con quest e differenze, perché in Occidente c'è una grandissima tradizione spirituale, che è quella della mistica cristiana, per esempio, c'è una tradizione psicologica, di psicologia, che ha assoldato la men te. E in Oriente anche c'è stata una ricerca di tecnologie e sterne. Basti pensare alle scoperte nel passato che ha fatto la C ina, però c'è questa, questa tendenza. Allora l'Occidente forse è arrivato a un punto critico in cui ha cominciato a capire che il controllo tecnologico sul mondo esterno ha dei limiti e quest i limiti richiamano a cercare dentro di sé. Cioè, per esempi o la fiducia nella scienza, non impedisce che ci siano dei disas tri ecologici. Allora la scienza ha cominciato a fare una riflessi one critica e a vedere che la tecnologia va accoppiata con una espl orazione dell'uso che ne facciamo. E quindi si ritorna dentr o, a esplorare dentro. Allora, in questo momento in cui l'Occident e si sente forse di aver troppo, troppo trascurato il lato int erno, come diceva la scheda - dall'Illuminismo ad oggi si è le vata, si sono tolte una serie di superstizioni che andavano tolte -, però nello stesso tempo forse si è buttato via il bambino con l'acqua sporca, cioè anche questa esplorazione dei mondi interni. A llora, in questo punto l'Occidente capisce forse, comincia a sentire l'esigenza di guardare dentro. E allora da un lato avviene nell'ambito della spiritualità occidentale, cioè ci sono una serie di fermenti, nella chiesa per esempio, e dall'altro avviene per alcuni rivolgendosi invece all'Oriente, che è un te rreno meno, meno inquinato forse da una serie di ferite o di co ndizionamenti, che alcuni di noi sentono di aver ricevuto dall'edu cazione spirituale occidentale. STUDENTE: Allora, salve. Io volevo chiedere fino a che punto l'economia c'entra nella differenza tra la concezio ne religiosa occidentale e quella orientale, ossia, fino a che p unto potrebbe essere fatta un'analisi materialistica, diciamo cos ì, delle

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origini, della differenza sostanziale che noi possi amo vedere tra la religione orientale, che tende più all'astratto, allo spirituale, e la concezione invece occidentale, che noi vediamo tendere più al concreto e al materiale? Beh sicuramente ci sono una serie di realtà storich e, oltre che economiche, eccetera, che influiscono. Cioè, quando noi leggiamo che una civiltà, una religione, degli eventi storic i, è chiaro che bisogna tener conto di tanti livelli insieme. Direi che forse, certamente qui dipende dalla scelta ideologica che uno fa, cioè dalla chiave interpretativa. Io penso che ogni chia ve interpretativa abbia un contributo da dare. Cioè io posso studiare, per esempio, in che modo certe concezioni religiose sono state condizionate dall'economia. Per esempio ci so no delle religioni arcaiche che si basano su popoli allevato ri o nomadi, e avranno una prevalenza di divinità celesti, perché il cielo uno che si sposta ce l'ha sempre sopra la testa. E altr e, altre civiltà invece di tipo agricolo, sedentarie, avrann o una religione, per esempio, che si sviluppa molto sulla venerazione di dee madri, dee della terra, i cicli della vegetazio ne. Quindi, da questo punto di vista c'è un influsso della realtà economica sulla forma che assume una religione, ma nello stesso tem po bisogna dire che le idee religiose determinano e condizionano lo sviluppo storico. Per esempio c'è un vecchio studio, ma anco ra interessante, di Max Weber, in cui mostra come l'et ica protestante dette un enorme impulso alla nascita del capitalism o, della mentalità capitalistica. Quindi non soltanto le rea ltà economiche influenzano una religione, la forma di una religion e, ma anche le idee religiose condizionano gli sviluppi storici e le scelte anche economiche. E bisogna anche chiedersi se certe real tà condizionano la forma di una religione, ma se la tendenza alla r eligiosità e alla spiritualità non sia qualcosa di profondamente radicato in noi e di non riconducibile poi a altre realtà. Seco ndo alcuni autori, per esempio Jung, per esempio William James , che sono stati i pionieri della psicologia della religione, noi avremmo un istinto spirituale, cioè avremmo una naturale tende nza a un'esperienza interiore spirituale. La forma può va riare, può essere condizionata, ma questa tendenza, secondo al cuni autori come questi, è innata, e la repressione di questa s pinta, di questo istinto crea le stesse, gli stessi sintomi, di tipo anche nevrotico, che possono procurare, può procurare la repressione di altri istinti, che fanno parte dei nostri bisogni n aturali, ecco. STUDENTE: Dunque, io avevo pensato anche a un altro nucleo di diversità sostanziali che si può evidenziare tra le due concezioni religiose, occidentale e orientale, ossia il fatto che, per la concezione occidentale, o per lo meno per il cristi anesimo, che, comunque, non è soltanto occidentale, c'è la ricerc a di qualcosa di trascendentale, ossia, alla fin fine, si adora u na verità, esiste una verità assoluta in cui si crede. Invece io vedo nel buddhismo, che supera, sotto certi aspetti, questo limite di porre una verità assoluta, nel buddhismo appunto la ricer ca della via di

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mezzo, la ricerca quindi non di qualcosa che trasce nde, di una verità non assoluta, ma soltanto, per esempio di ca pire la relatività di tutte le cose che ci si presentano ne lla vita. Questa quindi è la diversità essenziale, diciamo. Sì. Diciamo che non solo nel buddhismo, ma anche in altre forme di spiritualità orientale - per esempio mi viene in me nte il vedànta o anche il taoismo -, c'è un po' questo, questo mod o di relativizzare le forme specifiche religiose, in vis ta di una verità, diciamo così, che non può essere imprigiona ta in una qualche formulazione dogmatica, ecco. Il buddhismo è stato forse uno degli aspetti che ha portato più avanti, anche in Oriente, questa concezione, per cui c'è un riconoscimento, i n qualche modo, che l'esperienza interiore, che l'esperienza spirit uale va fatta al di là dei nostri concetti, dei nostri preconcett i, di quello che noi pensiamo, e al di là anche di dogmi. Per cu i seguire una via spirituale significa percorrere un cammino e no n avere un credo, una credenza, espressa in una serie di dogmi e dire: "Io aderisco a questa religione perché credo a questi d ogmi". Nel caso, per esempio, del buddhismo invece si dice: "S eguite questa via perché vi può portare ad essere liberi dalla so fferenza, dal condizionamento". In questo senso voi potete anche lasciare andare tutto questo insegnamento, quando vi ha portati dov e volevate andare. L'esempio della zattera. "La zattera - dice Buddha -, il mio insegnamento è come una zattera, serve per attr aversare il fiume della sofferenza, ma, quando si è arrivati al l'altra sponda, è stolto portarsi sulle spalle la zattera soltanto perché c'è stata utile. Quindi anche il mio insegnamento va pr eso come un metodo per liberarsi, quindi non come una formulazi one cui aderire". Ecco, allora in questo senso, questa, que sta linea è molto seguita un po' da tutte le tradizioni, nel se nso di dire: "Sì, anche se io vedo qualcosa che non nasce e non muore, che è al di là del relativo, però è qualcosa che non posso i mbrigliare in un concetto, in un'immagine, in una formulazione do ttrinaria". Ecco in questo si arriva molto lontano nella spirit ualità orientale. STUDENTE: Scusi, secondo Lei, questo avvicinarsi da parte dell'Occidente alle filosofie orientali è dovuto a un limite della religione cristiana, comunque del pensiero occident ale? Io penso che sia una necessaria, un necessario svil uppo storico, dovuto a quella parola, che oggi va molto di moda, che è la globalizzazione. Cioè nella evoluzione storica dunq ue la chiesa cristiana e cattolica, nel caso dell'Italia quella cattolica, diciamo più in generale le chiese cristiane hanno s viluppato al loro interno delle vie spirituali - penso soprattut to alla contemplazione cristiana - che sono state per secol i una delle maggiori fonti di ricchezza spirituale dell'Occiden te, e lo sono tuttora. Nel caso dello sviluppo storico della chie sa cristiana, mi sembra importante che si è creata una forte istituzionalizzazione della chiesa e una gerarchia, per cui la

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contemplazione a volte è stata vista con sospetto - diciamo le affermazioni dei mistici devono essere sempre vagli ate secondo un certo dogma - e poi è successo che sono state, la v ia dei mistici è stata riservata per molto tempo a poche persone, a degli specialisti, che sceglievano di ritirarsi dal mondo , di andare in un eremo o in un monastero e di praticare questa vi a, mentre ai laici, a coloro che seguivano questa religione, l'u nico modo per accedere al sacro era attraverso intermediari della chiesa e attraverso il rito, cioè la messa, eccetera. Allora quello che è successo ultimi decenni, direi, è successo che attr averso una conflittualità con il mondo laico la chiesa ha attr aversato un processo di secolarizzazione, cioè ha cercato sempr e più di demitizzare i suoi miti, ha cercato di ridurre e ra zionalizzare i suoi riti. Allora ai laici non è rimasto molto, non sono rimasti molti strumenti per avere un'esperienza religiosa f atta in prima persona, nella propria viva esperienza. Naturalment e questa crisi è stata affrontata dalla chiesa e attualmente noi a ssistiamo infatti a un revival di movimenti, anche laici, all 'interno della chiesa in cui si rimette al primo posto l'importanz a della contemplazione, oltre quella dell'azione, altriment i prima c'era stato uno sbilanciamento, anche da parte della chie sa, a favore di un'azione esterna, di un'azione fatta di aiuto, di assistenza del mondo, ma non accompagnata da questa profondità, do vuta alla contemplazione. Mi sembra di ricordare, ad esempio, Madre Teresa di Calcutta, che in qualche lettera diceva che lei faceva un certo numero di ore al giorno di preghiera, di contemplaz ione, e che senza quel ritiro nel profondo non avrebbe avuto l' energia di dedicare tutto il resto del suo tempo ad aiutare le persone, perché sono due cose che vanno insieme. Quindi dici amo che nella chiesa sta avvenendo questo all'interno, però alcun i, alcuni occidentali, nello stesso tempo, si sentono più att ratti da altre forme di religiosità, come quelle orientali, che in qualche modo, di nuovo, cercano di mettere insieme la contemplazi one con l'azione, attraverso degli strumenti molto concreti , dando la precedenza all'esperienza che uno fa e a un rapport o con una guida spirituale. E questo quindi viene trovato molto int eressante da alcuni. Certamente ci sono anche degli incontri, de lle sintesi. Cioè sono degli incontri fra monaci orientali e mon aci occidentali, scambi di esperienze, il famoso dialog o interreligioso, come uno strumento di crescita reci proca fra le due religioni. Ci sono anche, per esempio, dei casi di cattolici che insegnano, insegnano i vangeli, eccetera, usand o però, per esempio, delle meditazioni di tipo orientale o mett endo insieme tutto questo. E questo è tutto un campo, va bene, m olto interessante da esplorare, perché in Occidente c'è questo, proprio: uno dei vantaggi, diciamo, che ha l'occide ntale, una delle doti è quella di cercare l'altro, contattare l'altro e nello stesso tempo adattare continuamente questi incontri verso l'altro. Ne parla anche un po' il Dalai Lama, in una domanda , in un'intervista, in cui appunto gli viene chiesto di parlare un po' di questo incontro tra buddhismo e Occidente contem poraneo e quali sono un po' le caratteristiche dell'occidentale. E appunto il

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Dalai Lama cita un po' questo elemento. Se vogliamo mandarla in onda. -Si visiona un'altra scheda: DALAI LAMA: Una cosa che mi ha colpito molto è che in genere in Occidente, in generale, c'è questa natura creativa, questa tendenza a prendere le iniziative individuali. Ques to è molto bene, ma naturalmente c'è anche il pericolo che se uno usa questa energia, questa natura creativa, se si usa nel modo sbagliato, allora c'è un rischio, Ma in generale, come essere umano, con l'intelligenza umana, la determinazione umana, io p enso che l'iniziativa individuale è essenziale, è il modo pe r avere il progresso. Mentre in Asia io credo che, in generale , particolarmente in India, dove ci sono tante antich e filosofie, diverse pratiche di yoga, queste io credo che tratt ano molto con la mente, lo sviluppo mentale, la calma mentale. Pe r cui penso che è qualcosa di piuttosto importante, per cui io semp re credo che la scienza e la tecnologia occidentale, lo sviluppo ma teriale, lo sviluppo mentale orientale, se queste due cose vann o insieme armonicamente, l'una accanto all'altra, io penso ch e il futuro dell'umanità sarà più positivo e lo sviluppo materi ale allo stesso tempo lo sviluppo spirituale, in modo che lo svilup po materiale può rimanere più bilanciato. Questo io penso, sareb be una risposta migliore per l'umanità, specialmente per le generaz ioni future. -Fine della scheda, riprende la conversazione. STUDENTESSA: La filosofia precedente, in particolar e mi riferisco alla filosofia del XIX secolo, fine del XIX secolo, ha identificato il buddhismo con il nichilismo. Io vol evo proprio sapere, volevo delle chiarificazioni su questo rapp orto tra buddhismo e nichilismo. Bergonzi: Grazie, cercherò di essere sintetico, per ché è un tema molto complesso. E certamente questo è stato un gra nde fraintendimento e si trova, fin dai più antichi dis corsi del Buddha, dove il Buddha dice che lui insegna la via di mezzo fra eternalismo e nichilismo, cioè fra coloro che affer mano l'esistenza, per esempio, di un dio, dell'anima, de ll'assoluto e coloro che negano qualsiasi cosa. E dice che questi due estremi sono ambedue fuorvianti nella ricerca spirituale. A llora a questo punto c'è da chiedersi: ma allora questa via che in segna il Buddha, che cos'è, perché fra è e non è non ci semb ra che ci sia un terzo, un terzo elemento. E allora vediamo di ca pire che cosa significa questa via di mezzo, perché non è solo un a questione buddhista, è una questione che si pone chiunque cer ca di percorrere una via. Immaginate di sognare di trovar vi in un sentiero e questo sentiero è stretto, e c'è una giu ngla, talmente fitta ai lati, che non potete andare né a destra né a sinistra. Potete andare o avanti o dietro. A un certo punto i ntravedete in fondo una tigre affamata che viene avanti. Allora a questo punto

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vi voltate e scappate dall'altra parte. Arrivate a uno stagno, cominciate ad entrare in acqua e quello che vi semb rava un tronco si rivela essere un alligatore con la bocca aperta. Quindi, se andate avanti, trovate l'alligatore, se tornate ind ietro trovate la tigre. Qual'è la via d'uscita? Chi di voi ha la risposta? (i ragazzi propongono varie alternative: volare, ri manere al centro...) Allora, do io la risposta. La soluzione è svegliars i, perché ho detto all'inizio che questo era un sogno e avete vi sto come la storia coinvolge talmente tanto che uno si dimentic a che si tratta di un sogno e sembra che non ci sia alternativa. Ma che cos'hanno in comune la tigre e il coccodrillo, che sembrano d ue alternative opposte? Il fatto che fanno parte di una stessa rea ltà, che è quella del sogno, e l'unica via di uscita è uscire da questa logica del sogno e svegliarsi. Ma noi siamo talment e coinvolti che ce lo scordiamo. E' un po' questa la nostra situazi one. Allora che cos'ha in comune il nichilismo da un lato, l'eterna lismo dall'altro? Sono opposti, ma hanno in comune il fat to che sono delle convinzioni filosofiche, dei concetti. E quin di la via di mezzo è trascendere questo e andare al di là delle convinzioni. "Avere una convinzione - dice il Buddha - di qualsi asi tipo; eternalista, nichilista, eccetera, al di là del fat to che la cosa possa essere vera o no, avere una convinzione signi fica attaccarsi a una cosa e cominciare a contrapporsi agli altri, significa cominciare a dire: "Io ho la verità e gli altri son o nell'errore, e quindi li devo o convertire o eliminare, eccetera ". Allora il Buddha dice: "La verità è una cosa viva che non può essere fermata in una convinzione". E il non attaccamento di cui p arla il Buddha è proprio il lasciare andare tutte le convinzioni e trovarsi quindi di fronte alla vita, alla realtà, al mistero della morte, con una mente che non presume di avere già, di sape re già la risposta. Questo è l'inizio del cammino, e anche la fine, perché, nel momento in cui noi siamo di fronte alla verità senza una qualsiasi opinione, a quel punto forse si manifesta un'altra capacità di conoscere, che chiamano, per esempio, i buddhisti, sapienza, saggezza, che altrimenti non può venire, perché la nostra mente è troppo occupata, affastellata di con vinzioni, di concetti. Allora il nichilismo di cui parla il Budd ha non è nichilismo. Il Buddha, quando esprime, per esempio, la "dimensione liberata", cioè il risveglio - ma questo risveglio significa essere andati anche al di là della morte, della vit a e della morte, aver raggiunto quello che viene chiamato il "senza morte", quindi è qualcosa... - il Buddha preferisce usare t ermini negativi, tipo "nirvana", che vuol dire l'estinguer si di tutte le negatività che noi abbiamo, oppure la "non morte", oppure il "senza morte" oppure "l'incondizionato". Ma questo non significa che quella cosa non esista. Significa che viene esp ressa con un termine negativo. Facciamo un esempio: salute, esse re in uno stato sano nella lingua pali si dice "senza malattia", ma dire "senza malattia" non significa che non esiste questo stato , anzi la

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salute è uno stato molto importante. Anzi si prefer isce usare negazioni per indicare la liberazione semplicemente perché non si vuole ingabbiarla di nuovo in un concetto, se no si ricade in quello che dicevo prima. Allora si preferisce dire quello che non è, ma questo non significa che questo dire ciò che non è non corrisponda a qualcosa. E infatti c'è un passo, per esempio, in cui Buddha lo dice bene, che esiste una dimensione, un non nato, una dimensione dove non esiste né la morte, né l'an dare né il venire. "Se non esistesse - dice il Buddha - non ci sarebbe nessuna possibilità di liberarsi, ma siccome esiste , allora proprio per questo è possibile la liberazione. STUDENTESSA: Che cos'è esattamente ciò che non nasc e e ciò che non muore e che per la filosofia orientale va cercato n el buio? No, non è possibile dire che cos'è, perché appunto dire: "è qualcosa" significa già limitarlo. A seconda dei va ri sistemi vengono dati vari nomi: la liberazione, il risvegli o, il nirvana, l'incondizionato. Ecco l'incondizionato è forse una parola che aiuta molto: "ciò che non è condizionato" da nulla, perché tutto ciò che nasce, causato da qualcosa, necessariamente muore, tutto ciò che può essere fatto può essere disfatto. Quind i se esiste questa dimensione, al di là della vita e della mort e, diciamo, deve per forza essere libera da ogni condizionament o e quindi anche da quello spazio temporale. E quindi non si p uò dire che non è qui e che sarà in un altro luogo, in un altro tem po, ma è sempre qui, è sempre ora, come il sole, che può essere osc urato dalle nubi, ma non è che se ne va, rimane sempre accessib ile. Allora in questo senso la via della meditazione è intesa come - un modo che più che apprendere, accumulare conoscenza, - lascia re andare tutto ciò che crediamo di sapere, e cominciare con una me nte aperta e fresca a vedere quello che c'è, perché, se esiste q uesta dimensione, è sempre davanti ai nostri occhi, anche se non la vediamo. STUDENTESSA: Quest'avvicinamento alle religioni ori entali è legato al fatto che, ad esempio, il buddhismo ha la capaci tà di controllare gli istinti, le emozioni, senza reprime rli, e, ad esempio, la sofferenza ti permette di viverci insie me, di conviverci, di controllarla senza esserne sopraffat ti. Questo è un aspetto molto importante, nel senso che - e di nuovo il buddhismo lo dice in maniera molto chiara, però si trovano anche altri approcci orientali, che parlano di ques to - il lavoro meditativo viene fatto con uno strumento che è la c onsapevolezza, cioè si aumenta la capacità di essere presenti, qui e ora, alla vita, anziché, come spesso ci accade, perderci nei ricordi del passato, nelle anticipazioni del futuro, senza più accorgerci di dove stiamo e di che cosa stiamo facendo e di chi s iamo. Allora la pratica meditativa è proprio la capacità di calmare , calmare la mente - primo punto - al punto che in certi momenti la mente diventa stabile come la fiamma di una candela in un a stanza senza

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vento. Abbiamo messo una candela, appunto, qui, fra gli oggetti, proprio per indicare questa caratteristica meditati va, cioè la calma, quel riposo sveglio che ci permette di guard are. Questo è un aspetto. Ma l'aspetto più importante è guardare attraverso la calma. Cioè, se ho un'acqua agitata che solleva la sabbia, non posso vedere il fondo. Per vedere il fondo devo asp ettare che l'acqua si calmi e si depositi la sabbia. Ma poi de vo guardare. Ecco, questo guardare, che è la consapevolezza, è c onsiderato qualcosa di importantissimo perché ha la capacità d i trasformare l'energia anche delle emozioni negative. Appunto co me diceva lei, per esempio, prendiamo un moto di collera. Allora i o posso fare in genere due cose: se io ho un moto di collera, posso reprimere, rimuovere la collera, cioè far finta che non ci sia , rimetterla nell'inconscio - e questo - la psicoanalisi ci inse gna - è come mettersi dentro una bomba e farla scoppiare sotto t erra, quindi con tutti i disastri psicologici che è un'emozione repressa -; l'altra via che ho spesso e penso che sia l'unica a lternativa è quella di esprimere questa collera prendendomela co n il bersaglio più vicino e quindi scaricare la collera. Invece qu ello di cui non ci rendiamo conto che, quando scarichiamo la coller a, è un altro modo di non vederla, perché quando l'abbiamo scaric ata se n'è andata e così noi non siamo nella situazione spiace vole di doverla guardare. E quindi scaricare la collera e basta è u n altro modo di non vedere, di non sentire questa cosa che è nostra , che ci appartiene. La via meditativa è una terza via: non reprimere e non scaricare, ma lasciare cosciente la collera e senti rla in tutti i modi: sentire di che sa la collera fisicamente, in che punto la sento, sentire che pensieri evoca, sentirla, lascia rla essere. Ecco, allora, questo lasciar essere le cose permett e di creare uno spazio di libertà, per poi esprimermi nella realtà in una maniera non compulsiva, cioè non meccanica, non come una ma rionetta, che basta premere certi bottoni e agisco in un certo mo do, ma in una maniera libera, sentire pienamente chi sono, come s ono, ed essere libero di esprimermi, in maniera da tener conto di tutta la situazione. Questo è anche collegato col non attacc amento di cui si parla molto spesso. Ecco lì, infatti, di nuovo, fra gli oggetti, fra gli oggetti che noi abbiamo, c'è uno s pecchio e una lastra fotografica, proprio per indicare i due tipi di mente, di cui parlano queste spiritualità orientali. Cioè, se la mente è una mente che si attacca, è una mente dove le esperienz e lasciano sempre un residuo, che si accumula. Allora c'è una situazione, io non l'affronto con sicurezza, e mi rimane un residu o di risentimento, un residuo di paura, un residuo di at taccamento. Tutti questi residui si accumulano, fino a che non oscurano la nostra capacità di vedere la realtà. E' come la las tra fotografica. La lastra fotografica può essere espos ta ad una sola immagine, perché la trattiene. Se io comincio a esp orre due, tre, quattro, cinque immagini, la lastra diventa nera, p erché tutte queste immagini la oscurano. Allora una mente su cu i la realtà lascia sempre dei residui non risolti, problemi che non risolviamo perché non vogliamo affrontare, eccetera, è una men te di questo genere, e, mano a mano, non vedrà la realtà, non sa rà capace di

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rifletterla. Invece una mente consapevole è una men te come uno specchio. Lo specchio è capace di riflettere tutto, perché, quando l'oggetto gli è passato davanti se ne va, non lasci a segno, non lascia traccia. E proprio per questo lo specchio è pronto ad accogliere l'immagine successiva. Ecco perché spess o in Oriente si sente parlare paradossalmente di una mente vuota, p erché una mente vuota è capace di accogliere tutto, una mente piena non ha posto per nient'altro. STUDENTE: Buongiorno. Lei pensa che l'applicazione del buddhismo nella società occidentale porterà a delle spaccatur e all'interno della nostra società oppure pensa che potrà nascere un nuovo buddhismo, una nuova grande corrente, appunto? Nessuno può essere profeta, però penso che sia abba stanza improbabile che si creino grosse spaccature, perché il buddhismo ha sempre avuto un'enorme capacità di adattamento. Consideriamo che il buddhismo è l'unica religione indiana che si a stata capace di lasciare l'India, dove è quasi scomparso del tut to, e di diffondersi per tutto il resto dell'Asia, proprio p er il suo ..., - prima parlavamo di dogmatismo - proprio perché no n ritiene di avere una forma, una convinzione religiosa formulat a già. Se uno aderisce è buddhista, se uno non aderisce non è bud dhista. Ritiene che tutte le forme religiose possono essere usate c ome modi per arrivare a una mente vuota, di cui si parlava prima . E allora qualsiasi forma va bene. Così, quando il buddhismo è andato in Tibet, in Cina o altrove, ha preso le forme locali, filosofiche o religiose, e ha saputo indirizzarle mantenendo inta tto quel suo nucleo, quell'intuizione, diciamo, che è la liberaz ione. Però ecco, per esempio, quando il buddhismo è entrato in Cina, che era una civiltà molto ricca, molto matura, ci ha messo secoli prima di esprimere una forma di buddhismo autenticamente cin ese. Il buddhismo si è affacciato in Occidente da poco e st a cercando delle forme di riformulazione, come buddhismo occid entale. Ci vorrà del tempo. Già si intravedono alcuni aspetti, per esempio una sacralizzazione dell'esperienza ordinaria, cioè l'importanza di una pratica contemplativa nell'azione quotidiana , la nascita di centri di meditazione, per esempio, urbani, che si rivolgono a chi vive in città, ha una famiglia, ha un lavoro, non i ntende farsi monaco, ma vuole lo stesso percorrere la via della liberazione. Allora la ricerca di nuove, di nuove aree, dove ese rcitare la consapevolezza, l'importanza del rapporto, come pal estra di spiritualità: vivere insieme con le persone con cui viviamo, come occasione di approfondire le nostre virtù, la nostr a consapevolezza, e anche l'ecologia, perché nel budd hismo abbiamo un principio fondamentale, che è la interdipendenza di tutte le cose. Tutte le cose sono interdipendenti. Non posso muovere uno spillo qui senza creare un riflesso in tutto l'univ erso. Allora l'ecologia, noi sappiamo, in Occidente nasce come r iflessione critica di una scienza che si è resa conto dei dann i che ha una visione in cui l'uomo si pone fuori della natura e cerca di dominare la natura, quando noi siamo parte. Allora

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scientificamente la scienza occidentale ha capito i l principio ecologico della interdipendenza. Ma quello che può offrire il buddhismo è calare nel vissuto personale questa con sapevolezza, cioè vivere quotidianamente questa interdipendenza, vedere bene che noi siamo anche gli altri e che gli altri sono anche noi, e quindi trasformare questo che può essere un riconos cimento solo intellettuale dell'interdipendenza di tutte le cose , in un vissuto, per esempio di amore, verso tutti gli esse ri, in quanto non siamo separati dagli esseri, dagli altri. STUDENTESSA: Bene, abbiamo visto come l'uomo occide ntale, la civiltà occidentale sempre più frequentemente si st iano avvicinando alla filosofia, alla religione oriental e. Volevo sapere se lo stesso discorso può essere fatto per l 'uomo orientale, quindi se l'uomo d'Oriente, la civiltà o rientale si stiano avvicinando, comunque prendano in consideraz ione anche la nostra filosofia di vita, le nostre religioni, e so prattutto, se è vero che questo avviene, come vengano giudicati i n ostri metodi di vita, come vengano vissuti. mentre se la risposta è no, vorrei sapere se non avviene perché forse la filosofia ori entale è superiore alla nostra o per quale altro motivo. Certamente in questa globalizzazione di cui dicevam o io penso che sia molto, anche molto maggiore l'impatto che ha av uto l'Occidente sull'Oriente che non l'Oriente sull'Occidente, nel senso che tutta la tecnologia, tutto questo è stato assorbito dall' Oriente, a volte creando grossi problemi, perché un assorbimen to troppo veloce di elementi tecnologici, che permettono di m anipolare la realtà in maniera estremamente efficace, senza che ci si giunga gradualmente può generare dei grossi problemi all'o rientale come all'occidentale. Quindi direi che, oggi come oggi, un orientale medio ha grossi problemi come noi per quello che ri guarda la gestione della tecnologia, aggiungendoci che c'è ta nta povertà in Oriente, c'è tanta povertà, quindi c'è un insieme d i queste cose. Spesso si parla di questo paradosso dell'India di q ualche anno fa, che aveva una situazione igienica spaventosa, di po vertà, ma aveva la bomba atomica. Ecco, è un po' questo paradosso c he si genera in Oriente. Quindi quello che assorbe dall'Occidente i n gran parte questo. Bisogna dire che chiaramente questo crea pr ospettive e problemi, così come il diffondersi della spirituali tà orientale in Occidente crea problemi da un lato e prospettive. P erò non vedrei una contrapposizione. Per esempio è buffo che molti , molti siti, molti buddhisti sono tecnologici, hanno, usano il c omputer. La tecnologia dal buddhismo viene molto assimilata, co n molta facilità viene riconosciuto l'uso.... Il problema s ta dentro, insomma, quello che accade dentro di noi, penso, no ? STUDENTESSA: Non c'è comunque un rifiuto? Non credo. Penso che il problema può essere appunto , ripeto, l'uso di una tecnologia non assimilata, non metabolizzata , ecco.

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STUDENTESSA: Come si pongono gli studiosi occidenta li davanti all'avanzare comunque di queste filosofie, di quest e religioni orientali, appunto, qui in Occidente? Beh, dipende da quali studiosi. Diciamo che gli ori entalisti le studiano. Le studiano con strumenti filologici, sto rici, cercano di capire il significato dei testi, eccetera. Poi c i sono invece i vari pensatori o filosofi che danno letture, che da nno letture varie, a secondo della loro filosofia. Ecco, quello che a volte io ho riscontrato, essendo uno studioso di queste cose , è a volte la sorprendente approssimazione con cui alcune persone che hanno un rigore in un certo campo, per esempio, alcuni filos ofi, alcuni studiosi di storia della filosofia occidentale, i q uali parlano poi delle dottrine orientali usando appunto dei pre concetti, come quello di cui si parlava prima, del nichilismo, ecc etera, usando dei preconcetti che sono ormai scomparsi dallo stud io di queste cose. E quindi ormai è come se la nostra cultura av esse dei compartimenti stagni: chi studia la filosofia occid entale non sa nulla di quella orientale e a volte si sente magari in diritto di formulare delle interpretazioni o dei giudizi che s ono molto poco scientifiche. Ecco secondo me c'è bisogno di un'osm osi fra gli studiosi. STUDENTESSA: Senta il ricongiungimento tra Oriente e Occidente quale fine si pone, quale scopo si pone? Perché io credo che probabilmente la cultura occidentale non arrivi rea lmente a comprendere quella orientale, però a mio avviso già un passo avanti, o comunque sia, un punto di contatto ci pot rebbe essere già al momento in cui l'occidentale così come anche l'orientale arrivino ad accettarsi l'uno l'altro. Quindi questo ricongiungimento viene inteso a livello proprio di comprensione o già soltanto a livello appunto di accettazione? Diciamo che non è che innanzi tutto c'è un intento. Cioè sta succedendo, per quello che accade nella terra, per l'aumentare della comunicazione, che la terra comincia a sentir si qualcosa di unico e non così divisa. C'era un insegnante buddhi sta ricordo, alcuni anni fa, che diceva: "L'unico aspetto positi vo che ha avuto la nube di Chernobyl è averci fatto capire drammati camente che non esistono divisioni tra nazione e nazione, quando si parla di cielo, e che quello che accade da un parte si trasm ette dall'altra. Questo avviene con l'economia, avviene con le idee. Quindi è un processo storico, che nessuno ha delibe ratamente deciso di attuare, ma che sta accadendo. Allora in questa osmosi, in questo continuo scambio, c'è anche una conoscenz a reciproca. Ma d'altra parte però, io non sarei così assolutista, nel senso: l'Oriente non potrà mai comprendere l'Occidente, l' Occidente non potrà mai comprendere l'Oriente, perché, ripeto, si tratta, si parla dell'uomo, dei problemi dell'uomo. Quando si parla di spiritualità orientale non è che noi ci dobbiamo im maginare, così andare in zone rarefatte dove non si sa niente. Si parla della

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malattia, della vecchiaia, della morte. Sono cose c he ci riguardano tutti e si tratta di cercare dentro di n oi una risposta per vivere questa vita, tenendo conto di tutto ques to ed esplorando questo mistero. E questo l'ha fatto l'Or iente come l'Occidente. Non so se..., io sinceramente, se uno di voi si mette a studiare la filosofia dei presocratici o qualche sistema orientale, io non so, non credo che voi abbiate, tr oviate più difficoltà a studiare un sistema orientale piuttost o che uno occidentale. Se spiegati bene, io penso che siano a mbedue i sistemi difficili o facili, ecco. STUDENTESSA: Sì, però a livello più pratico, ci son o anche delle differenze tra legislazioni, tra mondo orientale e mondo occidentale, differenze anche piuttosto nette. Ades so è chiaro che né l'occidentale né l'orientale vogliano rinunciare . Nel momento in cui vi è uno scontro però tra questi due, tra qu este due realtà, quale può essere il punto di contatto allor a? Legislazioni? STUDENTESSA: Si, anche a livello legislativo, per q uanto riguarda le differenze appunto tra i vari popoli. Ma sono certamente differenze di vario tipo, ci son o. Senz'altro, secondo me, è un sfida, un arricchimento quello di cercare di imparare l'uno dall'altro, fatta salva naturalmente la propria identità. Ma non lo so se è così, se cioè differenz e storiche e di legislazione siano talmente grosse da dire: "Noi no n possiamo comprendere", perché, ripeto, ci sono tanti Orienti , ci sono tanti Occidenti. E quindi quale Oriente cerca di conoscer e quale Occidente e viceversa. No? Forse occorre un pochett ino smembrare questi due blocchi, perché di nuovo è una categoriz zazione utile, ma forse a volte diventa più un ostacolo che un van taggio, ecco, al dialogo. STUDENTESSA: Io volevo sapere quanto può essere dif ficile per un occidentale, che magari è stato deluso dalla religi one, se vogliamo cattolica, avvicinarsi alla filosofia, all a religione orientale, quindi che bene o male ha studiato, come studiamo noi, su un libro, quindi ha studiato in frasi già scritt e, diciamo già racchiuse in dogmi. Beh, penso sia molto una questione personale questo . Cioè, io non so se uno possa a tavolino decidere. Dice: "Adesso - non so - io cerco la..." Io penso - non so se voi siete d'accor do vedendo voi stessi -, io penso che uno si fa delle domande. Si fa delle domande su che senso ha vivere, su quali, su quali basi affrontare la nostra esistenza, che è limitata nel tempo, che è come cercare se c'è e trovare qualcosa appunto che non nasce e n on muore. Allora queste domande, questo istinto spirituale, c he magari preme dentro, uno a un certo punto comincia a sentirlo e a non accontentarsi dei libri o delle cose. Allora cominc ia a cercare,

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che poi trovi, che ne so, un padre barnabita, un ca ttolico, oppure trovi un maestro orientale, oppure trovi un vasaio che nel fare vasi trasmette qualcosa di più. Quello dipende anch e un po' dagli incontri che si fanno nella vita. Consideriamo che è sempre la vita quella che conta. Io da questo punto di vista avevo portato delle figure da mostrarvi appunto. Ci sono dei dise gnini di una scuola buddhista Zen, in cui parla del cammino spir ituale come un cammino di ricerca del bue, viene messa in questo m odo. Volevo mostrare alcune di queste figure alla telecamera. E cco vedete che cioè il bue rappresenta quell'aspetto della mente e lusivo che noi cerchiamo. Sottomettere certi, certi impulsi non è l'esatta lettura. Ma la ricerca del bue, domare il bue è tut to il lavoro che si fa sulla mente. E poi - giro pagina -, vedet e che l'omino torna a casa, suonando il flauto, suonando il flaut o, in groppa al bue. Quindi la mente è entrata in armonia. A un cer to punto l'armonia diventa tale che il bue scompare, cioè no n c'è più bisogno di pensare al bue, perché il bue è diventat o parte del tutto e l'omino contempla. Poi a un certo punto l'o mino dimentica anche se stesso e arriva alla vacuità, a quella men te vuota di cui parlavamo prima. Vedete, ecco qua: si dimentica di se stesso di tutto il mondo e si vive uno stato di armonia. Infa tti la figura ancora successiva è la sorgente della vita, la sorg ente. Si entra cioè in contatto con delle energie profonde. Però, ecco, guardate qual'è l'ultima immagine. Non ci si ferma qua. Come dicevo, non è che poi, in questi tragitti, si arriva a un nulla, dove non si sa più nulla, perché l'ultima, l'ultima figura, è il r itorno al mercato, nel mondo. Quando si è raggiunta una mente così, si può entrare e unire insieme contemplazione e azione. In fatti i versi - ve li leggo - dicono: "A piedi nudi e a petto nudo mi mescolo con la gente del mondo. Ho gli abiti stracciati, e impo lverati e sono sempre pieno di gioia. Non uso magie per allungarmi la vita; ora davanti a me gli alberi morti prendono vita". Ecco questa è l'ultima immagine. STUDENTE: Io volevo chiedere, dunque: alcuni filoso fi presocratici, ma anche, se vediamo, lo stesso Plato ne e tutto il mondo occidentale ha sempre, diciamo così, messo in evidenza il concetto, un certo concetto eternalista o comunque, per esempio, l'anima, in Platone, l'immortalità dell'anima, anch e in Socrate. La stessa conquista da parte di Alessandro di gran parte dell'Oriente, insomma di una vasta area dell'Orient e, ha sicuramente dettato un'influenza molto forte da par te dell'Occidente sull'Oriente, cioè un'interdipendenz a proprio, che evidentemente quindi ha influenzato l'Occidente e l 'Oriente, e l'Oriente l'Occidente. Quindi possiamo sottolineare ..., cioè fino a che punto si possono sottolineare le consimiglian ze dei due mondi e non tanto la diversità? E soprattutto da ch e momento in poi si è venuta creando questa frattura che io sent o, tra Oriente e Occidente, che probabilmente, in passato, durante le conquiste di Alessandro, era molto più attenuata, se è avvenu ta una frattura di questo genere?

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Io non la vedo così, cioè non vedo un'unità che poi si è fratturata. Io vedo tante realtà locali, che hanno una loro storia, una loro geografia, una loro cultura e che hanno espresso una spiritualità, una religiosità in modi propri, p oi, prima o poi, queste realtà sono entrate in contatto e, quan do sono entrate in contatto, hanno dato esiti spesso creativi. Face vo l'esempio prima del buddhismo. Quando il buddhismo indiano è andato in Cina ha dopo secoli espresso una forma di buddhismo cine se, che è proprio quello a cui appartengono quelle figure che ho mostrato prima. Ecco, allora, in questo senso, anche con l'O ccidente, io penso che sia successo la stessa cosa. Cioè Alessan dro arrivò in India giusto nella parte nord-occidentale, e noi no n troviamo quasi riferimenti storici in India ad Alessandro. E ' stata una cosa passata inosservata per loro. Poi sì, ci sono stati, già abbastanza presto degli influssi culturali, sopratt utto dell'arte greca, della filosofia greca, che ha anche formato alcuni dei concetti, per esempio, del buddhismo e viceversa. M a sono influssi poco, poco rilevanti. Direi però che da per tutto q uesti, nel loro modo, hanno affrontato i loro problemi, che, nella nostra vulnerabilità, come esseri umani, è la nostra ricer ca di qualcosa, ripeto, che sta, che non nasce e non muore, o comun que sia è l'esplorazione del mistero della vita. Allora, da q uesto punto di vista, le risposte sono tipiche di ogni cultura e q uindi diverse, ma hanno anche molto in comune. E troviamo spesso g li stessi processi in atto. Quindi è compito anche dello stud ioso, di chi si interessa di queste cose, da un lato comparare ques te cose, per esplorare questo problema da vari punti di vista, e , dall'altra, rispettare le differenze specifiche di questi mondi . STUDENTE: Professore, noi abbiamo fatti una ricerca su Internet, e ho troviamo, diciamo, diversi siti sia a livello in ternazionale che italiano. Ecco io Le volevo porre una domanda. Per esempio, questa frase che noi troviamo qui: "La dimora del g ioiello", cosa significa? Dunque "i tre gioielli" si riferisce - questo, siam o in un contesto buddhista -, quindi "i tre gioielli" si ri feriscono ai tre aspetti che vengono affrontati quando si entra in una via buddhista. E sono: il Buddha, che rappresenta il pr incipio di illuminazione o di risveglio, che è presente potenz ialmente in ciascuno di noi. Tutti noi siamo risvegliati all'in terno, ma non lo sappiamo in qualche modo. E tutto il cammino è t ogliere tutto ciò che oscura questa consapevolezza che è già in n oi. Quindi il Buddha è il principio di risveglio dentro di noi. I l darma è l'ordine cosmico, è la verità e la realtà, la realt à delle cose così come sono e non come normalmente le guardiamo, distolte dalle nostre proiezioni. Quindi il darma è la verità. E i l sanga è la comunità, cioè l'insieme di coloro che percorrono l a via, insieme con me, e che quindi sono compagni di viaggio sui q uali far conto durante il cammino. In genere quando una persona vu ole percorrere il cammino buddhista prende rifugio, cioè entra den tro questi tre gioielli. Quindi penso che la frase si riferisca al fatto che

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questi tre gioielli non si possono limitare a una r eligione, diciamo istituzionalizzata, ma che in realtà é una via che comprende la terra, l'uomo, il cielo, cioè tutto l' universo. STUDENTESSA: Il buddhismo con il fatto che porta al l'annullamento del desiderio, al nirvana, non toglie anche importa nza al nostro essere persone che vivono questa vita terrena. Ecco, questo mi sembra importante da sottolineare. Il buddhismo parla del fatto che il desiderio provoca sofferenza . Io desidero qualcosa quando sento di non averla e allora la cer co. Il desiderio è l'espressione del mio tendere verso que sto qualcosa e quindi anche una forma di sofferenza, se vogliamo. Il problema è che, quando io ottengo quello che desidero, non son o affatto soddisfatto, perché subito dopo desidero un'altra c osa e un'altra cosa ancora. C'è una storia di un saggio folle, il quale venne sorpreso una volta al mercato, a mangiare un mucchi o di peperoncini piccanti, e se ne mangiava uno dopo l'a ltro, ed era tutto rosso, lacrimava. Allora gli dicono: "Ma perc hé, se ti fa stare così male, continui a mangiare questi peperon cini?" . E lui risponde:" Eh, perché ne sto aspettando uno che non sia piccante". Allora è come se noi, inseguendo tanti desideri - n ella visione buddhista -, noi andiamo sempre a sperare che quell a cosa che otterremo, ah, quella sì che ci farà stare in pace, tranquilli! Allora il buddhismo insiste nel fatto che questo gi oco non finisce mai e non ci dà quello che cerchiamo. Se invece noi cominciamo a essere consapevoli della caratteristica insoddisfac ente delle nostre esperienze, allora possiamo aprirci a qualco sa di più grande. Quindi non si tratta di reprimere i desider i. Si tratta, mano a mano che scopriamo il desiderio di qualcosa di più grande, chiamiamo il desiderio di Dio, se vogliamo usare un linguaggio cristiano, allora i piccoli desideri, piano piano, cadono come foglie secche, perché non servono più al cammino e comincio a desiderare molto di più qualcosa appunto che mi dia quella felicità profonda, quella pace profonda che io ho s empre cercato in tutte le cose.

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I tre risvegli del Buddha

MAURO BERGONZI Testo della conferenza tenuta il 2 dicembre 1995 al Piccolo Regio di Torino, nella giornata di studio su ‘Psicologia e Meditazione’ organizzata dall’Associazione alla cultura della Re gione Piemonte e dall’Associazione Italiana di Psicologia Transper sonale. La metafora del risveglio In un famoso brano del Canone pali, il Buddha dice: Come ogni goccia del grande oceano ha un unico sapo re, Quello del sale, Così ogni goccia dell’insegnamento ha un unico sapo re, Quello della liberazione 1. Ogni passo lungo il sentiero della pratica buddhist a — per quanto piccolo, iniziale o insignificante esso sia — conti ene dunque una stilla del sapore della liberazione, una goccia di risveglio. Uno dei termini più ricorrenti per indicare il nirv ana o la liberazione (vimutti) è ‘risveglio’ (bodhi): l’appe llativo ‘Buddha’ significa appunto ‘il risvegliato’. Il ris veglio — come passaggio dalla torpida incoscienza del sonno e dal la illusoria evanescenza dei sogni alla vivida percezione dello stato di veglia — diventa qui metafora efficace di quel dischiuders i stupefatto dell’occhio dello spirito, di quell’aprirsi della c oscienza alla ‘realtà così com’è’ (yathabhutam), che caratterizza l’esperienza della liberazione 2. Se vogliamo allora cogliere il senso profondo della summenzionata affermazione del Buddha, possiamo dire che il cammi no buddhista è disseminato di tanti ‘piccoli’ risvegli, ognuno dei quali contiene una stilla del sapore del ‘grande risveglio’ (sambo dhi) che costituisce la meta ultima del sentiero. E non potr ebbe essere altrimenti: come ci si può accostare di un solo pas so alla liberazione, se non aprendo gli occhi su qualche no stra illusione che ci vela un aspetto della vera realtà? Scrive a questo proposito C. Pensa: Vedere (...) che ogni meditazione, ogni ritiro, ogn i attimo di consapevolezza bene intesa e bene applicata è una p iccola liberazione, è vedere che, in realtà, il cammino è un continuo

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succedersi di tante piccole liberazioni: allora ogn i momento del cammino diventa valore in sé, e non una promessa, u n prima in attesa di un poi 3. Dal racconto delle fonti tradizionali circa l’itine rario spirituale del Buddha stesso — che si fa paradigma atemporale del percorso interiore di chiunque intraprenda il cammi no del Dharma 4 — si evidenziano soprattutto tre cruciali esperienz e di risveglio, esemplificate dai quattro famosi ‘incontri’ di Sidd hartha e dalla ‘meditazione sotto l’albero della bodhi’ 5. Come pi etre miliari lungo il sentiero della liberazione, esse scandisco no il progressivo dischiudersi dell’‘occhio del Dharma’ ( dhammacakkhu) in una sequenza che comprende il risveglio alla sof ferenza, alla via e alla liberazione. Il risveglio della sofferenza Il cammino di ricerca interiore che porterà il Budd ha all’illuminazione inizia con i quattro incontri che aprono gli occhi del giovane Siddhartha alle realtà della vita . I primi tre di questi incontri (con un malato, un v ecchio e un morto) 6 segnano il suo risveglio alla sofferenza. Dopo essere sempre stato tenuto accuratamente all’oscuro della esistenza di malattia, vecchiaia e morte, Siddhartha esce dall’a urea gabbia del palazzo col proprio carro e fa la scoperta conturba nte che queste piaghe sono inevitabili, in quanto inerenti alla co ndizione esistenziale umana stessa. Dopo ogni incontro, egli volge indietro il carro (a tto che, nota C. Pensa, incarna concretamente il significato di ‘ conversione’ come totale mutamento di direzione nella propria vi ta) e comprende che nulla può più essere come prima: che senso ha i nseguire effimeri piaceri, quando resta irrisolta la grande questione della vita e della morte? Occorre fare qualcosa, impegnar e tutte le proprie energie per scoprire se esista una dimensio ne al di là di nascita e morte. La sofferenza (dukkha) cui si risveglia Siddhartha, dunque, è primariamente una forma di radicale insoddisfazione derivante dalla consapevolezza che nessuna esperienza fatta e ntro l’orizzonte della nostra esistenza condizionata può garantirci una felicità assoluta libera da malattia, vecchiaia e m orte. Alla luce di tutto ciò, appare ovvio che le accuse di ‘pessimismo’, spesso rivolte al buddhismo a causa d ella sua insistenza su dukkha, sono inconsistenti: il Buddha non dà valore alla sofferenza di per sé (come un certo ‘dolorismo ’ nato da una cattiva accezione del messaggio cristiano), bensì a lla consapevolezza della sofferenza.

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I primi tre incontri del Buddha segnano dunque simb olicamente un percorso paradigmatico che ognuno è invitato a intr aprendere: risvegliarci progressivamente alla realtà della nos tra intrinseca vulnerabilità in quanto esseri umani. Nella nostra condizione ‘normale’, invece, noi ‘dor miamo’, cioè evitiamo l’angosciosa consapevolezza della nostra f ragilità esistenziale, subendo inconsciamente tale sofferenz a. Scrive a questo proposito A. De Mello: Spiritualità significa risveglio. La maggior parte delle persone, pur non sapendolo, sono addormentate. Sono nate dor mendo, vivono dormendo, si sposano dormendo, allevano i figli dor mendo, muoiono dormendo senza mai svegliarsi. Non arrivano mai a c omprendere la bellezza e lo splendore di quella cosa che chiamiam o esistenza umana. (...) La maggior parte della gente afferma di voler uscir e dall’asilo infantile, ma non bisogna crederle (...). La gente vuole soltanto aggiustare i propri giocattoli rotti: "Ridatemi mia moglie. Ridatemi il mio lavoro. Ridatemi i miei soldi. Rida temi la mia reputazione, il mio successo". È questo che vogliono le persone: avere dei nuovi g iocattoli. Tutto qui. Persino i migliori psicologi potranno di rvi che le persone non vogliono realmente essere curate. Quel che cercano è il sollievo; una cura sarebbe troppo dolorosa 7. Fuggiamo la consapevolezza della nostra vulnerabili tà, l’angoscia del nostro ‘essere-per-la-morte’ nella distrazione- alienazione del coinvolgimento con le piccole preoccupazioni del qu otidiano. Preferiamo soffrire e gioire per la miriade dei pic coli desideri che ci fanno dimenticare ciò che veramente conta, p iuttosto che affrontare la grande questione della vita e della m orte 8. Eppure, che cosa cerchiamo in ciascuno dei tanti ri voli dei tanti piccoli desideri che scandiscono prosaicamente la n ostra esistenza quotidiana, se non quella felicità assoluta che non tramonta mai? Il vero problema non è che desideriamo, ma — come n ota Nisargadatta Maharaj — che desideriamo troppo poco, accontentandoci del meno: Se i tuoi desideri sono personali, per il tuo propr io piacere, l’energia che darai loro è necessariamente limitata ; non può essere più di quanto già hai.(...) Quando desideri il bene universale, il mondo intero desidera con te 9. Ma naturalmente è più comodo perdersi nei meandri d ei tanti piccoli desideri superficiali, illudendosi che prim a o poi l’effimero piacere offerto dal loro esaudimento pos sa magicamente

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incarnare la felicità che cerchiamo: sebbene destin ato alla frustrazione, questo atteggiamento è apparentemente più comodo, perché, in tale distrazione-alienazione, rimuoviamo l’angoscia del nostro ‘essere-per-la-morte’, ossia il necessario c ombustibile per risvegliare il grande desiderio di ciò che non nasc e e non muore. Un uomo scorse Mulla Nasrudin cercare qualcosa per terra, e chiese: "Che cosa hai perduto?". "Le chiavi", rispose il Mulla. Così anche l’uomo si mise con lui in ginocchio a ce rcare. Dopo un certo tempo, domandò: "Ma dove ti sono cadute, esattamente?". "Dentro casa". "Ma allora perché le cerchi qui fuori?". "Perché qui c’è più luce!" 10. Anche noi per comodità, come Mulla Nasrudin, cerchi amo nel luogo sbagliato, dove c’è più luce — ma dove non possiamo che scoprire ciò che già sappiamo — anziché affrontare l’incerte zza del buio e procedere a tentoni fin dentro al cuore del mistero . Rimuovere il velo della alienazione-distrazione sig nifica svegliarci alla sofferenza della nostra vulnerabili tà in quanto esseri umani. Significa svegliarci dalla condizione di bimbi ignari, assorti nel gioco dei propri illusori baloc chi, mentre la casa brucia: Ma che è successo ai miei figli, i miei ragazzi, i miei bambini? In questa casa che va a fuoco, essi giocano, scherz ano, si divertono con ogni tipo di giochi. Essi non sanno c he questa dimora va a fuoco, non lo capiscono, non lo avverto no, non vi prestano attenzione, e così non provano agitazione alcuna (...) non fanno alcuno sforzo per uscirne fuori! 11 La risposta che suscita in noi il risveglio alla so fferenza è un senso di urgenza (samvega) che, con il Buddha, ci f a dire: nulla è più come prima, occorre fare qualcosa! Samvega è il pungolo, il combustibile che ci spinge a cercare una via di uscita al dilemma umano. Scrive C. Pensa a q uesto proposito:

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Samvega (...) significa un insieme complesso di sen timenti: disincanto, disillusione e stanchezza del nostro mo do di essere da un lato e dall’altro lato percezione (...) della fo llia della nostra e dell’altrui mente. È un sentimento più gra nde e qualitativamente diverso dalla semplice frustrazion e, dato che sempre porta con sé una rinnovata motivazione e ape rtura verso la saggezza. Potremmo definire il samvega uno sconfort o particolare, che invece di oscurarci ci illumina, o un’amarezza che invece di toglierci fiducia ce ne dà ancora di più 12. Il risveglio alla via L’ultimo incontro del Buddha 13 — con un samnyasin che, libero da ogni legame, percorre serenamente il sentiero della ricerca spirituale — segna il risveglio alla via: Il figlio del gran re gli chiese: "Di’, chi sei?". E questi a lui rispose: "(...) Io sono un asceta che, terrorizzato da nasci ta e da morte, ha abbandonato il mondo per la liberazione. In un m ondo in cui la distruzione è legge, io, volendo essere libero, cer co lo stato beato e indistruttibile" 14. Il risveglio alla via dischiude la dimensione della fede (sraddha) 15, da intendersi non come mera credenza in un dogm a, ma come quell’oscuro eppure robusto presentimento della lib erazione che suscita in noi un senso di fiducia: esiste la possi bilità di una pacificazione completa e profonda, al di là di nasc ita e morte; esiste nel profondo della mia mente una luce (prabh asvra-citta), il germe della liberazione (tathagata-garbha), la c oscienza del risveglio (bodhicitta). Sambodhi I due risvegli, quello che ci spinge con urgenza a uscire dalle fiamme della sofferenza (samvega) e quello che ci a ttira verso la liberazione (sraddha) in apparenza sembrano diversi : ma è proprio nell’aprirci alla sofferenza che sperimentiamo l’im menso potere della mente luminosa. E il ponte fra i due risvegli è la consapevolezza meditativa. Infatti la consapevolezza della sofferenza implica necessariamente la presenza fin dall’inizio di un seme di pace, alt rimenti saremmo troppo coinvolti per poter osservare il dolore. Oss ervare qualcosa significa già esserne in parte liberi, significa av er trovato un punto di quiete e di equilibrio in mezzo alla tempe sta, situarsi nell’occhio del ciclone, dove tutto è calmo mentre intorno turbina

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la tempesta. Lo Zen sôto parla di ‘illuminazione pr ima dell’illuminazione’ 16. La meditazione è il cammino della consapevolezza ch e ci sveglia alla sofferenza e alla pace della mente luminosa. Allora il terzo risveglio, la liberazione vera e pr opria (sambodhi) — simboleggiata dal Buddha seduto sotto l’albero della bodhi 17 — non è che il coronamento delle prime due , che le unifica in un unico abbraccio. Per usare una metafora cara alle tradizioni spiritu ali: samvega è sentire l’arsura della sete, sraddha è scorgere una fonte d’acqua pura e sambodhi è l’atto effettivo di dissetarsi. La meditazione come solvente La meditazione è dunque una via per svegliarsi attr averso la consapevolezza. La consapevolezza meditativa (smrti-prajña) ha due aspetti o funzioni fondamentali: dissolvere e unificare. Come solvente, essa dissolve il mondo delle distraz ioni, dei desideri, dei timori che ci impediscono di svegliar ci alla sofferenza esistenziale e alla mente luminosa. Attraverso una pratica assidua e sostenuta, tutto c iò che è osservabile come oggetto di consapevolezza viene pr ima o poi ‘dissolto’ nella forma in cui comunemente lo percep iamo. Precorrendo i risultati cui è pervenuta secoli dopo la psicologia occidentale, l’analisi buddhista dei processi menta li insiste sul fatto che la percezione ordinaria (samjña) di cui n ormalmente siamo coscienti, lungi dall’essere immediata e semp lice, risulta costruita in base a complessi schemi mnemonici, lin guistici e concettuali (vikalpa). Per esempio, attraverso l’oc chio una serie di grezzi dati sensoriali (forme, colori) si conver tono in percetti mentali (dharma) per essere poi confrontat i con analoghi schemi mnemonici, finché non viene ad essi sovrappo sto un concetto pertinente: allora quel complesso di sensazioni vis ive viene riconosciuto applicandovi il nome corrispondente (p er esempio ‘albero’). In tal modo una complessa rete concettuale e lingui stica si sovrappone alla realtà, frammentandone e reificando ne i processi vivi e dinamici in entità apparentemente solide, se parate e permanenti. Ciò ha una sua utilità ai fini dell’ada ttamento alla realtà convenzionale, ma rischia di creare una pode rosa illusione: dimenticando che la percezione ordinaria è una cost ruzione concettuale (vikalpa) sovrapposta alla realtà dalla mente discorsiva, tendiamo a scambiare la mappa per il te rritorio e

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finiamo per vivere in un mondo fittizio fatto di pa rti separate, frammentate e statiche, laddove la natura della rea ltà è invece dinamica e non-duale. La consapevolezza meditativa, osservando i fenomeni con attenzione pura (smrti) — libera cioè dalle soggettive proiezi oni concettuali — pone la mente alle porte dell’input sensoriale pr ima che intervengano le distorsioni del pensiero discorsivo : in tal modo è possibile de-reificare la falsa percezione di entit à solide, permanenti e separate, fino a scorgere la ‘realtà c osì com’è’ (yathabhutam), al di là delle etichette. Da questo punto di vista, la consapevolezza meditat iva dissolve l’oggetto osservato, nel senso che, venendo a cader e il concetto attraverso cui l’oggetto veniva percepito e differe nziato, ciò che resta è un osservare sempre più nel profondo una re altà sconfinata, indefinibile e misteriosa. Tale ‘introv abilità’ o ‘trasparenza’ degli ‘oggetti’ è l’essenza della vac uità (sunyata) buddhista, secondo quanto afferma S. Batchelor: Per quanto intensamente osserviamo qualcosa, che si tratti di noi stessi o di una sedia, è impossibile trovare alcunc hé che corrisponda a quella ‘coseità’ o sostanzialità che istintivamente immaginiamo risiedere in essa. La verità ultima delle cose è la ‘trasparenza’. (.. .) La saggezza che si tuffa in questa infinita introvabilità liber a la mente dal suo istintivo attaccamento alle ‘pepite’ di sostanz a nel cuore delle cose, dischiudendo al suo posto il nirvana — non un remoto stato separato dal mondo, ma l’immanente apertura d ell’essere 18. Naturalmente la consapevolezza meditativa esercita la propria funzione di ‘solvente’ con gradualità, per cui fin dalle fasi iniziali della pratica meditativa se ne può avere u n qualche assaggio. Prendiamo come esempio un dolore al ginocchio. Nel momento in cui si comincia a esplorare con nuda attenzione l’area dolente, ciò che prima veniva percepito come una massa compatta, con sopra l’etichetta concettuale ‘dolore’, comincia a rivela rsi un universo di micro-sensazioni estremamente varie (pulsazioni, contrazioni, punture, bruciori, onde) in continua trasformazione , le quali si muovono entro una spaziosità di ‘non-dolore’ che pu ò enormemente decongestionare il senso claustrofobico di compatte zza dolorante. Ci si accorge inoltre di quanto la insopportabilità o meno del dolore stesso dipenda, più che dalla sua intensità, dalla nostra reazione psicologica ad esso, ossia dalla continua rete di pensieri inutili (‘Quanto durerà?’, ‘Aumenterà?’, ‘ Diminuirà?’, ‘Non ne posso più!’, ‘Riuscirò a sopportarlo?’), ch e occludono ogni senso di spaziosità intorno all’area dolente.

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D’altra parte, una continua osservazione (al di là dell’etichetta ‘dolore’) delle micro-sensazioni che di momento in momento si intrecciano e si susseguono con estrema velocità e variabilità, tenderà a percepire queste ultime sempre meno come ‘entità’ e sempre più come ‘processi’, fino a dissolverne ogni apparenza di ‘oggetti’, penetrando nel mistero del reale di prof ondità in profondità. Come scrive ancora S. Batchelor: Questa incapacità di trovare una qualsiasi essenza o sostanza ci precipita in una profondità che continua all’infini to nel cuore stesso delle cose, senza mai fermarsi, né a qualcos a né al nulla 19. Analogamente, per fare un secondo esempio, nell’oss ervare un moto di collera si noterà sempre più l’interdipendenza f ra la percezione del fattore scatenante, i correlati fisi ci dell’emozione, i pensieri e le fantasie che la gene rano e l’alimentano, finché non apparirà evidente che, men tre sul palcoscenico della mente si svolge la danza della c ollera, esiste, al di là di tutto ciò, uno spettatore equanime che osserva la collera, senza esserne trascinato via. La meditazione come fattore unificante Quando la consapevolezza meditativa si fa più conti nua e profonda, non dissolve solo gli oggetti singoli, ma anche la tendenza stessa ad oggettivare. E qui abbiamo il trapasso alla seconda funzione, qu ella di unificare ciò che appare scisso: se gli oggetti ven gono sempre più percepiti come processi, e i processi a loro volta rimandano tutti ad una rete di infinite interrelazioni reciproche s candite dalla ‘introvabilità’ delle singole entità, prima o poi i l concetto stesso di ‘interrelazione’ (fra che cosa?) tenderà a dissolversi, sfociando in una percezione dello spazio o campo to tale entro cui si manifesta la realtà fenomenica, il quale viene a identificarsi con la consapevolezza meditativa stessa, dove sogge tto e oggetto svaniscono in un senso di non-dualità. Come afferma Seng tsan: Quando svanisce l’oggetto Svanisce il soggetto. (...) L’oggetto esiste a causa del soggetto. Il soggetto esiste a causa dell’oggetto. Comprendi la relatività di entrambi E la realtà fondamentale: L’unità della vacuità.

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In tale vacuità, i due sono indistinguibili, E ciascuno contiene in sé il mondo intero 20. Mentre all’inizio la pratica della consapevolezza s embrava creare una scissione fra un soggetto-qui (‘io’) che osserv a un oggetto-lì (‘altro’), quando raggiunge un livello di profondit à tale da dissolvere la tendenza ad oggettivare, viene a cade re l’oggetto. Ma senza oggetto non può sussistere nemmeno il sogg etto, trattandosi di due concetti interdipendenti (come l ungo/corto, alto/basso, ecc.). Quella che Christina Feldman chiama la ‘danza dell’ attaccamento’, che tiene avvinti il soggetto e l’oggetto in un abb raccio indissolubile, viene a cadere, e ciò che resta è un a coscienza pura e indivisa: Il contatto è l’incontro fra soggetto e oggetto; il condizionamento che si modella su tale incontro è l ’attaccamento. Quando non esiste più attaccamento, questo mondo di oggetti scompare. Quando non ci si aggrappa più al mondo de gli oggetti, non c’è più un luogo ove il soggetto possa appoggia rsi. Comprendere la vacuità significa vedere e rivedere di continuo questa trasparenza: un vedere che è il cuore stesso della pratica 21. Una volta venuta a cadere la discriminazione concet tuale fra soggetto e oggetto, nel processo meditativo permane un puro osservare privo di divisioni, in cui la consapevole zza rivela la sua natura insondabile e misteriosa. Tale natura è intrinsecamente non-duale, capace di accogliere e unificare ogni as petto della realtà apparentemente contraddittorio, per cui null a può più disturbare lo stato di unificazione vitale che perv ade la mente. Alla luce di questa equanimità (upekkha), non è più rilevante che la mente sia quieta o turbata, immobile o in movime nto: comunque sia, traspare la sua vera natura intrisa di consape volezza, come ben sottolinea Lama Shabkar: Indipendentemente da quante onde possano sorgere, Esse non si discostano di un millimetro dall’oceano . Allo stesso modo, che sia quieta o in movimento, La mente non si discosta mai neanche di un millimet ro Dalla consapevolezza e dalla vacuità. (...) Credere che sia meditazione soltanto quando la ment e riposa quieta E sostenere che non c’è meditazione quando la mente si muove,

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Significa non conoscere l’intima essenza di quiete e movimento, Non saper fondere quiete, movimento e consapevolezz a. Perciò, che si muova o stia ferma, La mente è la continuità della consapevolezza. Una volta compreso appieno quiete, movimento e cons apevolezza, Pratica questi tre stati come un tutt’uno. Ecco la non-dualità di quiete e movimento nella men te 22. L’unificazione realizzata dalla consapevolezza medi tativa avviene attraverso una forma particolare e profonda di comp rensione, dove ‘com-prendere’ (lat. cum+prehendere) significa appu nto ‘prendere insieme’, collegare e unificare ciò che appariva fr ammentato, dissolvendo ogni scissione creata dal pensiero disc orsivo. La consapevolezza unifica perché, una volta dissolt e tutte le distorsioni percettive che limitano e frammentano l a realtà così com’è (yathabhutam), quelli che prima sembravano ‘o ggetti’ ora, visti nella trasparenza della vacuità (sunyata), ri mandano alla mente luminosa dove samsara e nirvana vengono parad ossalmete a coincidere. Un itinerario poeticamente tratteggiato in alcuni v ersi ch’an tratti dal Canto dell’illuminazione: La mente è un organo sensorio. I contenuti mentali sono il suo oggetto. Entrambi sono come polvere su uno specchio. Una volta spazzata via la polvere, La luce comincia ad apparire. Quando sia la mente sia i contenuti sono dimenticat i, Ecco la vera natura. Lo specchio della coscienza riflette senza interfer enze. La sua vastità e chiarezza irradiano innumerevoli m ondi. Tutti i fenomeni più vari si manifestano. Per il perfetto illuminato non c’è più né esterno n é interno.

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Una volta raggiunta la radice, Non preoccuparti dei rami. La luna splende sul fiume. La brezza increspa il pino, Che cosa c’è da fare in una lunga, piacevole notte? Bruma, rugiada e nubi rosate Sono ora il mio ornamento 23. Note 1. Udana, V. 6. 2. Per un approfondimento sui motivi del sonno/risv eglio e dell'oblìo/ricordo nel simbolismo religioso, cfr. M .Eliade, Mitologia del ricordo e dell'oblìo, in Mito e realt à, Torino 1966, pp. 145-170. 3. C. Pensa, La tranquilla passione, Roma 1994, p. 141. 4. Cfr. J. Goldstein & J. Kornfield, Seeking the He art of Wisdom, Boston 1987, pp. 78 sgg. (trad.it. Roma 1988); S. B atchelor, Alone with Others, New York 1983, pp. 34 sg. 5. Cfr. Asvaghosa, Buddhacarita, Canti III, IV, V, XII, XIII e XIV (trad.it. Le Gesta del Buddha, Milano 1979, pp. 38- 74 e 141-184). 6. Ivi, Canto III. 7. A.De Mello, Awareness, New York 1990 (trad.it. C asale Monferrato 1995, pp. 9 sg.). 8. Per una lettura in chiave esistenzialistica dell 'analisi buddhista del samsara, cfr. S. Batchelor, Flight, K andy 1984; ID., Alone with Others, New York 1983. 9. Nisargadatta Maharaj, I Am That, Bombay 1973, Vo l. I, p. 26. 10. Idries Shah, The Exploits of the Incomparable M ulla Nasrudin, London 1973, p. 26. 11. Saddharmapun’arika Sutra, cit. in E. Conze (a c ura di), Buddhist Scriptures, London 1959 (trad. it. Roma 19 73, p. 175). 12. C. PENSA, op. cit. 1994, pp. 84 sg.

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13. Cfr. Asvaghosa, op. cit., canto V, 17-21. 14. Asvaghosa, Le Gesta del Buddha (Buddhacarita), Milano 1979, p. 63 sg. 15. Per un'analisi approfondita della dimensione de lla fede-fiducia nella pratica meditativa buddhista, cfr. C. Pensa, op. cit.., pp. 94-120. 16. Cfr. F. D. Cook, How to Raise an Ox, Los Angele s 1978 (trad.it. Roma 1983), pp. 16 sgg. 17. Cfr. Asvaghosa, op. cit., canti XII-XV. 18. S. Batchelor, The Awakening of the West, London 1994, p. 65 (trad. it. Roma 1995). 19. Ivi, p. 23. 20. Seng Tsan, hsin hsin ming, Buffalo 1973. 21. C. Feldman, Attenzione, insight e vacuità, Sati Vol. VI n. 2 (maggio-agosto 1992), p. 23. 22. Lama Shabkar, Quiete e movimento, Sati, Vol. II I n. 2 (maggio-agosto 1994), pp. 30 sg. 23. Yung Chia Hsuan Chueh, Cheng tao ko, (trad. di Sheng Yen), in The Poetry of Enlightenment, Elmhurst (New York) 19 87, pp. 49 sgg.

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LA CONSAPEVOLEZZA FRA PSICOLOGIA DEL PROFONDO E MEDITAZIONE ORIENTALE

a cura di Mauro Bergonzi GLI ARTICOLI DI ERIDANOSCHOOL - Astrologia e

dintorni IL SERPENTE E LA CORDA Una delle metafore più usate nella spiritualità ind iana per esemplificare la natura illusoria della comune perc ezione condizionata della realtà è quella della corda-serp ente: Un uomo entra in una stanza in penombra. Scorge in terra un serpente ed è colto da paura. Avvicinandosi, si acc orge che non si tratta di un serpente, bensì di una corda, e la pau ra si dissolve istantaneamente. La paura provata dall'uomo è reale, per nulla disti nguibile da quella che avrebbe avuto se il serpente fosse stato vero. D'altra parte, una volta vista la corda, la paura si dissol ve istantaneamente e non può più tornare, neanche se l 'uomo volesse. Tutta la differenza fra il terrore iniziale e la su a scomparsa dipende dall'atto di vedere, ossia da una forma di consapevolezza. Questa metafora suggerisce che la nostra comune per cezione del reale è distorta per il sovrapporsi del 'mentale' a ciò che è, al punto che scambiamo la nostra condizionata e limita ta descrizione della realtà per la realtà stessa: da ciò derivano tutte le reazioni inadeguate (desideri, avversioni, paure) c he producono la sofferenza psichica, a causa dell'attrito fra ciò c he è e ciò che la mente vi proietta sopra. L'unica via per liberarsi da tale sofferenza è vede re oltre i condizionamenti del mentale: allora tutte le reazio ni inadeguate di dissolvono istantaneamente. Lo strumento di tale vedere è la consapevolezza (DESJARDINS 1977). Il ved_nta non-dualitsta considera responsabile di questa distorsione percettiva il velo di m_y_ ('illusione' ) o avidy_ ('nescienza') , che agisce in due modi: 'velando' ( _vara_a) il reale (= la penombra che rende poco visibile la cor da) e 'proiettando' (vik_epa) su di esso un'illusione (= l'immagine del serpente sovrapposta alla corda)(PIANTELLI 1974, 13 8). La metafora della corda-serpente si può applicare a due diversi livelli di distorsione percettiva: quello psicologi co e quello spirituale (BERGONZI 1982b). Tale distinzione, per quanto eccessivamente schematica, ci permette di comprende re meglio differenze e affinità fra la psicologia del profond o e la meditazione orientale . Infatti queste due discipli ne della mente

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operano su livelli diversi e assolvono a compiti ev olutivi diversi. LIVELLO PSICODINAMICO La psicologia del profondo proviene da una matrice clinica, e dunque la sofferenza che si propone di curare è di tipo psicopatologico: lo scopo evolutivo primario è quel lo di favorire l'integrazione di un io sano, ben adattato all'ambi ente esterno e alle proprie pulsioni interne . Chi soffre di una qualsiasi psicopatologia ha incon trato, nella propria storia personale, arresti evolutivi, ferite traumatiche, inibizioni, parti negate, che non hanno potuto pien amente integrarsi nell'io cosciente. Ciò genera conflitti di varia natura, che a loro volta alterano la percezione del la realtà e si rendono responsabili di disarmonie più o meno gravi nell'adattamento della persona da un lato ai propri bisogni istintuali, dall'altro all'ambiente condiviso. Se si applica a questo livello la metafora della co rda-serpente, il parallelismo fra la doppia funzione di avidy_ (v elare e proiettare) e il meccanismo della proiezione in psi coanalisi è puntuale: parti non integrate della psiche (pulsion i, immagini di sé o degli altri, conflitti) vengono rese inconsce e quindi proiettate all'esterno (su situazioni, oggetti, per sone), fino a distorcere la percezione della realtà. Per esempio, si reagisce al capufficio come se fosse il proprio padre, o alla p artner come se fosse la propria madre, generando conflitti fra ciò che è ed il modo soggettivo in cui lo vediamo. Dunque le distorsioni percettive curate dalla psico logia del profondo sono di natura psicopatologica e determina te da meccanismi difensivi (come la proiezione, l'introie zione, la scissione, la negazione, ecc.). Soltanto attraverso una consapevolezza del rimosso, dei bisogni negati, del le ferite ricevute e dei modi in cui tutto ciò distorce una c orretta percezione del reale, è possibile alla fine vedere che il capufficio (= la corda) non è il proprio padre (= i l serpente), ma un essere umano con i suoi pregi e i suoi difetti, relazionandosi adeguatamente a lui come tale. Una volta 'guarito', il paziente non è più preda di soggettive distorsioni percettive e condivide più o meno la st essa visione della realtà delle altre persone 'sane'. Ma, a questo punto, la persona cosiddetta 'normale' si accorge di un'altra forma di disagio e sofferenza, che non è p iù patologica, ma condivisa con tutti gli altri esseri umani: la s offerenza esistenziale , che richiede un diverso livello di c onsapevolezza, di natura appunto meditativa. LIVELLO MEDITATIVO La meditazione proviene da una matrice spirituale: di conseguenza, si rivolge a praticanti già mediamente 'sani' (cioè in possesso di

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un io integrato). La sofferenza che intende guarire è esistenziale (e non, dunque, soggettiva e patologica), ossia con divisa da tutti gli esseri umani non ancora illuminati: essa nasce dall'oscura, negata, ma ineliminabile coscienza della nostra vul nerabilità in quanto esseri umani (soggetti a malattia, vecchiaia e morte) e del fatto che nessuna esperienza, entro l'orizzonte del la nostra esistenza condizionata, può darci quella pace profo nda, quella felicità assoluta che tutti noi cerchiamo (BATCHELO R 1984; BERGONZI 1996, 15-17). Di conseguenza, la 'guarigione' da questo tipo di s offerenza è possibile soltanto col 'risveglio', quando cioè la mente si apre a una dimensione oltre l'io, al di là di nascita e mo rte. Nell'approccio meditativo, la metafora del serpente si applica dunque a un diverso livello: la nostra percezione ' normale' e condivisa della realtà è essa stessa messa in discu ssione e vista come una 'proiezione' collettiva che sovrappone il mentale alla realtà così com'è, distorcendola. Qui, in altri ter mini, il compito evolutivo non è più quello di integrare un io frammentato e diviso, ma di andare oltre l'io, oltre la divisio ne fra sé e l'altro da sé. Infatti comunemente percepiamo la realtà attraverso il filtro del pensiero concettuale e del linguaggio, i quali fram mentano l'indivisa totalità dell'essere (= la corda) in mol teplici 'entità' apparentemente solide, separate e permanen ti (= il serpente): nasce così la 'percezione dualistica' . Subito dopo, la mente rimuove la consapevolezza che tale percezione è soltanto convenzionale, ossia condizionata dalla sovrapposiz ione sul reale di schemi concettuali e linguistici che si trovano solo nella mente e non nelle cose. Finiamo così ben presto per scambiare la mappa per il territorio o per mangiare il menù al p osto del pranzo (WATTS 1994, 99). Come le distorsioni percettive psicopatologiche nas cono da meccanismi difensivi che cercano di evitare la cons apevolezza di esperienze traumatiche e dolorose (creando però in tal modo altra sofferenza), così anche le distorsioni prodotte dal la percezione dualistica, generando l'illusione di un io solido, separato e immune al cambiamento, hanno anch'esse uno scopo di fensivo: evitare l'angoscia che nasce dalla consapevolezza d ella nostra mortalità e vulnerabilità in quanto esseri umani in capaci di sottrarsi alla legge del cambiamento universale. Secondo l'analisi esistenziale buddhista, la percez ione angosciosa che tutto (compresi noi stessi) è in continua trasf ormazione genera un pervicace attaccamento a griglie concettu ali e linguistiche attraverso cui creiamo la falsa vision e di un mondo fatto di entità solide, separate e permanenti. Ma, poiché la consapevolezza del nostro 'essere-per-la-morte' sop ravvive comunque ai margini della nostra coscienza e l'illu soria percezione dualistica crea continui attriti con la realtà così com'è, anche in questo caso (come per le distorsion i

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psicopatologiche) il risultato è una forma di soffe renza, di tipo esistenziale (BATCHELOR 1984; 1998). Scopo della consapevolezza meditativa è dunque mett ere in discussione la normale percezione dualistica della realtà, smascherandone la natura condizionata e convenziona le, e aprire la mente a una visione non frammentata del reale; ment re invece la consapevolezza psicoanalitica si propone di prender e coscienza delle distorsioni percettive di natura patologica e soggettiva, al fine di integrare le parti rimosse nella psiche tot ale e raggiungere un buon grado di adattamento alle pulsi oni interne e alla realtà condivisa (BERGONZI 1982b). IL POLO OSSERVANTE E IL POLO SPERIMENTANTE Sia nella psicologia del profondo sia nella meditaz ione orientale la consapevolezza svolge un ruolo cruciale. Nella psicologia del profondo, essa opera nell'ambi to di una relazione diadica in cui il paziente, attraverso la libera associazione, sperimenta fantasie, immagini, pensie ri, emozini, sensazioni che via via comunica al terapeuta, il qu ale osserva in silenzio il materiale al fine di comprenderlo e res tituire tale comprensione sotto forma di interpretazione. Dunque, all'inizio soprattutto, la funzione osserva nte è prevalentemente delegata al terapeuta, mentre il pa ziente assume maggiormente una funzione sperimentante (GREENSON 1 967, 42-44 e 298-303). Grazie all'interazione analitica, ognuno dei due, m an mano, sviluppa in sé l'altra funzione complementare: il p aziente deve gradualmente imparare a osservarsi e comprendersi (interiorizzazione della funzione terapeutica), ria ppropriandosi così di una capacità che ha dovuto momentaneamente delegare all'analista, perché era troppo coinvolto e identif icato con le proprie dinamiche psicopatologiche per poterle esam inare da un punto di vista più oggettivo e panoramico; il terap euta, dal canto suo, deve sensibilizzare un polo sperimentante dent ro di sé, perché, se non comincia a provare ciò che sente il paziente, gli sarà preclusa quella grande fonte di insight e di c omprensione che è l'empatia (GREENSON 1967, 303-309). Ma all'inizio, come si è detto, il paziente può ess ere più o meno carente nella capacità di osservare da solo il mate riale così coinvolgente della propria patologia (soprattutto n ei casi di un precoce arresto evolutivo dell'io), e perciò delega la funzione osservante al terapeuta, interiorizzandola solo in un secondo tempo. Nella pratica meditativa della consapevolezza, inve ce, fin dall'inizio è richiesta la capacità d'instaurare de ntro di sé un'interazione bipolare fra polo osservante e polo sperimentante (ENGLER 1986, 35; EPSTEIN 1988, 66): ciò esige la p resenza di un io già sufficientemente integrato ad un livello min imo di sanità di base (ENGLER 1986, 34-38).

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Un paziente borderline, per esempio, la cui patolog ia comprende una seria diffusione dell'identità (KERNBERG 1984, 15-66), per molto tempo sarà costretto in terapia a delegare in gran parte all'analista il polo osservante, finché una maggior e integrazione dell'io non gli permetterà di assumerlo su di sé. I n casi come questo, intraprendere un cammino meditativo (che ri chiede, come si è visto, un livello minimo di sanità mentale, capac e di instaurare fin dall'inizio dentro di sé un polo osservante che non sia completamente coinvolto nei meccanismi psicopatolog ici) sarebbe non solo inefficace, ma anche controproducente o ad dirittura pericoloso (ENGLER 1986, 35-36): se manca un punto d'osservazione esterno alla propria patologia, la meditazione non è più tale, ma si trasforma essa stessa in un'espressione patologi ca. Allora un meditante che soffra, per esempio, di una diffusione d'identità accompagnata da difese schizoidi (che gl i conferiscono un fallace senso di impassibilità, freddezza ed est raniazione da ogni legame affettivo, accompagnate talora da esper ienze di spersonalizzazione) s'illuderà di essere molto avan ti sul cammino verso il trascendimento dell'io e verso un male int eso distacco dalle cose del mondo, usando in realtà la meditazio ne per rafforzare la propria patologia. E' dunque di cruciale importanza comprendere che la meditazione non è una psicoterapia. Accade di frequente che per sone sofferenti di ansia o angoscia si rivolgano alla meditazione p er cercare un sollievo al proprio disagio. Ma, se la loro vita è troppo disordinata, se la loro psiche è troppo squilibrata , meditare non li farà stare meglio e in molti casi aumenterà anzi la percezione della propria ansia: la consapevolezza meditativa, infatti, agisce come uno specchio - a volte impietoso - che riflett e la nostra situazione così com'è, senza condanne né assoluzion i. Se ci sono aree della nostra vita e della nostra psiche dove è necessario mettere ordine, lo specchio della meditazione smasc hererà le nostre illusioni e difese a riguardo. Per queste ragioni, in genere chi abbia una situazi one di vita particolarmente problenatica, disarmonica, conflitt uale o squilibrata viene vivamente sconsigliato di parteci pare a lunghi ritiri di meditazione intensiva. Troppo spesso i ri tiri di meditazione vengono usati come alibi per non affron tare i propri problemi e compensarli attraverso l'assunzione di f alse identità. Dunque, l'utilizzo improprio della meditazione come psicoterapia da parte di persone con gravi turbe psichiche e car enze evolutive dell'io non solo è per lo più inefficace, ma può an che risultare controproducente o persino pericoloso per l'equilib rio psichico. LA LIBERA ASSOCIAZIONE Nella psicologia del profondo, la consapevolezza è il cuore stesso dell'atteggiamento psicoterapeutico, il quale, in q uanto orientato verso la guarigione, è presente - anche se in misur a diversa - sia

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nell'analista sia nel paziente: ogni guarigione psi chica è infatti anche un'autoguarigione. Qui ci limiteremo a menzionare due aspetti fondamen tali e strutturanti dell'atteggiamento terapeutico: l'atte nzione non selettiva e non giudicante e il regime di astinenza . Nella libera associazione (FREUD 1913, 55-7; GREENS ON 1967, 31-2; GILL 1994, 85-107), il paziente cerca di osservare e comunicare al terapeuta il materiale emergente di momento in mome nto nella sua psiche (pensieri, immagini, fantasie, emozioni, sen sazioni) senza scegliere, giudicare, selezionare o censurare alcun ché, in modo che possano aver voce anche quelle parti e risorse inconscie usualmente bandite dalla coscienza perché considera te vergognose, paurose, sconvenienti, insignificanti, oppure sempl icemente ignote. Esprimere il flusso dei contenuti mentali senza evi tare nulla significa sospendere i filtri difensivi che stabili scono a priori ciò che per la coscienza unilaterale del paziente è importante oppure no. Se qualcuno arriva al punto di chiedere aiuto psicologico ad un professionista, vuol dire che in precedenza - in base a ciò che conosceva di se stesso - ha fatto il possibile per risolvere da solo i propri problemi psichici, senza tuttavia riuscirci. Ciò significa che la sua conoscenza di s é è insufficiente, e deve dunque poter attingere a font i interne di autoguarigione a lui momentaneamente precluse, cioè inconscie. Se questa persona, una volta iniziata una psicoterapia , continuasse a selezionare il materiale da analizzare, scegliendo solo ciò che ritiene significativo in base alle proprie valutazi oni abituali e scartando tutto il resto, non potrebbe che scoprire quello che già sa e non approderebbe a nulla. Se invece intraprend e un'osservazione non selettiva del materiale psichic o, comunicandolo senza alcuna censura al terapeuta, al lora il suo io cosciente manipolerà sempre meno il flusso dei cont enuti psichici, da cui potranno affiorare tutte quelle parti di sé che per troppo tempo sono rimaste relegate in un limbo inconscio e potranno prender voce anche le fonti inconsce di autoguarigi one finora inascoltate. Sebbene il paziente, come si è detto, incarni preva lentemente la funzione sperimentante, tuttavia, per poter essere analizzabile con i metodi della psicologia del profondo, deve co munque, fin dall'inizio, possedere un embrione di funzione osse rvante, se non altro perché gli viene richiesto di comunicare al t erapeuta verbalmente il materiale psichico che via via si ma nifesta nella sua mente, il che implica una preliminare capacità di osservarlo per poterlo descrivere. Per fare la libera associazione, dunque, il pazient e deve allenarsi ad osservare il materiale psichico attrav erso una sospensione della funzione censoria, giudicante e s elettiva, secondo una modalità estremamente simile alla prati ca della consapevolezza meditativa aperta, chiamata satipa__ h_na nel buddhismo o del 'testimone' (s_k_in) nel ved_nta . Infatti, in questi contesti sapienziali, si sottolinea l'import anza di

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praticare nell'hic et nunc un'attenzione aperta, ac cettante e non giudicante, purificata dai filtri concettuali che d istorcono la percezione diretta della realtà così com'è. L'ATTENZIONE FLUTTUANTE Freud descrive la consapevolezza del terapeuta come attenzione omogeneamente sospesa o attenzione fluttuante (FREU D 1912, 34-5). Attraverso tale pratica, il terapeuta osserva il ma teriale del paziente in atteggiamento ricettivo, senza selezion are, giudicare o censurare alcunché, cercando anzi di purificare l a propria attenzione da aspettative (ossia sovrapporre al pre sente proiezioni sul futuro), inclinazioni (ossia sovrapp orre al presente condizionamenti del passato) e teorie (oss ia sovrapporre al presente filtri concettuali e opinioni preconcet te). BION (1970, 73) ha ulteriormente sviluppato questo punto cruciale, suggerendo che la consapevolezza del terapeuta dev' essere libera da desiderio (= aspettative), memoria (= inclinazio ni) e conoscenza (= teorie): La capacità di dimenticare e l'abiltà di astenersi dal desiderio e dalla comprensione debbono essere considerate come obbiettivi di una disciplina essenziale per l'analista. L'incapac ità di esercitare questa disciplina condurrà ad uno stabil e deteriorarsi dei poteri di osservazione, il cui mantenimento è i nvece essenziale. La vigile sottomissione a tale discipli na accrescerà gradualmente i poteri mentali dell'analista, nella stessa proporzione in cui le manchevolezze in tale discipl ina li debiliteranno. Questa purificazione dell'attenzione, che va resa q uanto più possibile non selettiva e non giudicante, è dunque un processo speculare che riguarda sia il terapeuta sia il pazi ente. Come scrive FREUD (1912, 34-38): La norma di prender nota di ogni cosa in modo unifo rme è il corrispettivo necessario di quanto si pretende dall 'analizzato, e cioè che racconti senza sottoporre a critica e sele zione tutto ciò che gli passa per il capo. (...) Come l'analizzato deve comunicare tutto ciò che rie sce a cogliere mediante l'autosservazione a prescindere da ogni ob biezione logica e affettiva che intendesse indurlo ad operare una s elezione, così il medico deve mettersi in condizione di utilizzare tutto ciò che gli viene comunicato ai fini dell'interpretazione ( ...): egli deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricev ente verso l'inconscio del malato. (...) La riuscita migliore si ha (...) nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombr a e senza preconcetti.

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Anche qui le affinità con la meditazione orientale sono puntuali (EPSTEIN 1995, 100-116): nella tradizione buddhista del satipa__h_na, per esempio, si coltiva una specifica forma di 'attenzione pura' (sati), aperta cioè a qualsiasi e sperienza emerga nel presente senza alcuna previa selezione, vale a dire senza che l'interferenza del pensiero o dell'emozio ne restringa il campo della consapevolezza soltanto a porzioni limi tate dell'orizzonte esperienziale e filtri la realtà in modo da incasellarla in pattern abituali tendenti a ignorar e ed escludere ciò che non rientra nello schema, in modo tale da r icondurre la freschezza dell'ignoto alla scontata prevedibilità del noto (NYANAPONIKA 1962); nello zen s_t_ si raccomanda la coltivazione di una 'mente di principiante' (shoshin) capace - g razie ad un sostenuto esercizio dell'attenzione cosciente - di aprirsi alle esperienze abituali ogni volta come se fosse la pri ma, senza dare nulla per scontato, con la stessa meraviglia di un bambino (SUZUKI 1970). Scrive a questo proposito THICH NHAT HANH (1 988, 40): Tutt'intorno a noi la vita zampilla di miracoli: un bicchier d'acqua, un raggio di sole, una foglia, un bruco, u n fiore, una risata, una goccia di pioggia. Se vivi nella consap evolezza, vedrai miracoli ovunque. Alcune ricerche di psicologia sperimentale sembrano confermare le descrizioni dei testi meditativi, rilevando la pres enza di una de-automazione percettiva indotta dalla pratica dell'a ttenzione meditativa (KASAMATSU & HIRAI 1966; DEIKMAN 1966; N ARANJO & ORNSTEIN 1971; WEST 1987). Come nota giustamente EPSTEIN (1984), a parte Bion, i successori di Freud hanno per lo più trascurato il tema crucia le dell'attenzione fluttuante e, nei pochi casi in cui se ne sono occupati, lo hanno quasi sempre travisato e banaliz zato. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che diventa pressoché impossibile instaurare e stabilizzare l'attenzione fluttuante s enza un previo e specifico training, su cui né Freud né Bion hanno lasciato alcuna indicazione. Ciò sembra ricollegarsi a un pi ù generale limite di tutta la psicologia occidentale, che ha d ato troppo per scontato lo strumento dell'attenzione (ossia la cap acità di osservare), senza sondarne a sufficienza i possibil i livelli d'intensità e trasparenza raggiungibili attraverso specifiche discipline, come invece hanno fatto gli approcci me ditativi orientali. La pratica della consapevolezza meditativa potrebbe dunque costituire uno strumento prezioso - se non addiritt ura indispensabile - per ogni psicoterapeuta veramente desideroso di sviluppare un'attenzione omogeneamente sospesa che non sia né flebile né discontinua. Infatti la meditazione orientale ha elaborato un ar ticolato e complesso training dell'attenzione che ne increment a l'intensità e la capacità di penetrazione. Una certa quantità min ima di attenzione è sempre presente e necessaria allo stat o di veglia (e

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anche di sogno), ma si trova in una condizione fram mentata e depotenziata, in quanto costantemente trascinata e dispersa in mille rivoli, a causa della sua identificazione con i vari contenuti mentali che l'imprigionano. Di qui l'impo rtanza e la necessità, per i sistemi meditativi orientali, di a llenare l'attenzione per realizzare uno stato di consapevol ezza intensa ed aperta. Nel buddhismo, per esempio, esistono raffinate prat iche che da un lato sviluppano la quiete mentale (_amatha) unifica ndo la coscienza su un solo punto (ek_grata) attraverso la concentrazione (sam_dhi), dall'altro coltivano una consapevolezza non selettiva (sm_ti), aperta a tutti i fenomeni che si manifesta no nell'hic et nunc, al fine di comprendere la natura profonda del la realtà (vipa_yan_) (BERGONZI 1980; KING 1980; SOLÉ-LERIS 1 986). IL REGIME DI ASTINENZA L'esercizio dell'attenzione aperta e non-selettiva in psicoanalisi è profondamente collegato al secondo aspetto dell'a tteggiamento psicoterapeutico, vale a dire il regime di astinenz a (FREUD 1914b; GREENSON 1967, 230-234), vòlto ad evitare fra pazie nte e terapeuta ogni tipo di interazione concreta - non precedentem ente codificata - che sia diversa dall'osservare e dal comprendere. A ben vedere, si tratta fondamentalmente di astener si dall'agire al fine di comprendere, invertendo quel processo di coazione a ripetere per cui ciò che non riusciamo a ricordare (o, meglio, a comprendere), siamo obbligati a ripetere nelle nost re azioni (FREUD 1914a; EPSTEIN 1995, 161-179). Anche qui vige una certa specularità: osservando e verbalizzando il proprio materiale psichico, anziché lasciarsi ma novrare compulsivamente da esso attraverso forme di acting out che ne celano le motivazioni profonde, il paziente si asti ene dall'azione al fine di comprendere; esattamente come, astenendo si dall'agire nei confronti del paziente (attraverso, per esempio , consigli, direttive, contatti fisici, opinioni personali, ecc .), il terapeuta approfondisce ed amplia le proprie capaci tà di empatia e di insight al fine di comprendere e interpretare le dinamiche del paziente senza inutili interferenze. In altri termini, il regime di astinenza garantisce uno spazio terapeutico ottimale perché l'attenzione non selett iva possa funzionare al meglio. A tal fine, diventa essenzial e il mantenimento di un rigoroso setting analitico (LANG S 1973-4; 1985). Anche le sedute formali di meditazione avvengono in un preciso setting (immobilità corporea, silenzio, aderenza a uno specifico supporto meditativo, ecc.) che stabilizza l'attenzi one e le permette di osservare il flusso degli eventi psichi ci senza scaricare questi ultimi in azioni corporee volontar ie, nascondendoli alla coscienza (ENGLER 1986, 35).

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CONVERGENZE E DIVERGENZE Definire l'attenzione fluttuante come libera da inc linazioni (memoria), aspettative (desideri) e teorie (conosce nza) mostra una stupefacente convergenza con la pratica della consa pevolezza meditativa, che in vari testi buddhisti è indicata come una forma di attenzione senza attaccamento al passato (memori a), al futuro (aspettative-desideri) e, per quello che riguarda i l presente, libera da tutti i filtri concettuali che limitano l a nostra percezione della realtà così com'è. D'altra parte, la somiglianza del metodo non cancel la le diverse finalità. Nella psicologia del profondo, la coltivazione dell a consapevolezza è mirata ai contenuti inconsci e fin alizzata alla risoluzione dei conflitti patologici: l'attenzione non selettiva e non giudicante permette di accedere a materiali psi chici usualmente scartati dalla coscienza come sconvenien ti, irrilevanti, inutili o vergognosi, nei quali però è possibile ascoltare le ragioni di tutte le parti psichiche ri mosse, frustrate, negate, accedendo così a una fonte di au toguarigione sconosciuta alla ordinaria coscienza egoica, che pe r sua natura tenderebbe a cercare soltanto ciò che già sa. Nell'approccio psicoterapeutico, il paziente cerca di divenire consapevole dei propri conflitti perché se ne vuole liberare: perciò si sforza di comprendere la propria storia p ersonale, le ferite che ha ricevuto, ciò che è nascosto dentro d i sé, le pulsioni bloccate, il modo in cui vive e filtra la realtà, tutto al fine di dissolvere i conflitti e ottenere un'esi stenza più viva e sana. Ciò che conta, in questo caso, è dunque pre ndere coscienza dei contenuti psichici che riguardano le proprie pr igioni emotive, i blocchi, la storia personale, i traumi passati. Nella meditazione, invece, ciò che più conta non so no i contenuti, ma la consapevolezza stessa, vista come una dimensi one misteriosa e profonda che, resa sempre più viva e intensa dall a pratica meditativa, può diventare la porta verso l'incondiz ionato, verso ciò che si estende al di là di nascita e morte ( PE NSA 1979; BERGONZI 1982a; 1982b; ENGLER 1986, 22). L'attenzione viene dunque coltivata come fine a se stessa, mentre i contenuti specifici servono soltanto ad intensifi care l'attenzione e rivelare lo sfondo accogliente della consapevolezza, che arriva ad acquisire una dimensi one di libertà e una valenza spirituale. I contenuti psichici sono soltanto, per usare una felice metafora di PENSA (1979, 120-121), il 'combustibile' gettato nel braciere dove arde la fi amma della consapevolezza: una fiamma che da semplice funzione mentale diventa l'indicatore di una dimensione transpersona le. Agli albori dell'antica spiritualità indiana, furon o i mistici redattori delle Upani_ad a scoprire che il vero Sé immortale (_tman) celato nell'uomo s'identifica con la coscie nza, poiché la consapevolezza non è che un riflesso, sulla mente i ndividuale, di ciò che - ad un altro livello - è l'Assoluto (brahm an).

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I successivi sviluppi della spiritualità indiana el aborarono queste intuizioni, dando loro coerenza sistematica. Il s_mkhya-yoga vede nella falsa identificazione-confusione fr a la pura coscienza spirituale (puru_a) da un lato e i conten uti psichici (prak_ti) dall'altro l'origine di ogni sofferenza e nella discriminazione fra loro la suprema liberazione. Da l canto suo, il ved_nta non-dualista sottolinea l'importanza della coscienza-testimone (s_k_in) come chiave di volta per compren dere la fondamentale identità fra il proprio Sé (_tman) e l 'Assoluto (brahman). Al di là delle differenze dottrinali, nel buddhismo la consapevolezza viene spesso identificata con l'esse nza della mente, la 'mente luminosa' (pabhassara-citta), la ' mente del risveglio' (bodhicitta), la 'consapevolezza prmordi ale' (rigpa); il ch'an-zen, dal canto suo, ricorre alla metafora dell'oste/ospite per indicare la discriminazione fr a consapevolezza e contenuti mentali: il meditante de ve sempre più identificarsi con l''oste' che non si allontana mai dalla locanda (= la consapevolezza-sfondo sempre presente) discer nendone la differenza dall''ospite', ossia l'avventore che va e viene (= i contenuti mentali che mutano di momento in momento) . LA DECODIFICA DEL LINGUAGGIO INCONSCIO Poiché la consapevolezza psicoterapeutica, rispetto a quella meditativa, è più orientata verso i contenuti psich ici e finalizzata alla risoluzione di una psicopatologia, ha sviluppato un aspetto del tutto sconosciuto alla meditazione o rientale, che rappresenta il suo contributo più originale e signi ficativo allo studio della mente: ha scoperto che l'inconscio si manifesta alla consapevolezza attraverso un linguaggio cifrato che dev'essere de-codificato per garantire l'accesso ai contenuti pro fondi della psiche. Sia l'approccio meditativo orientale sia la psicolo gia del profondo riconoscono l'esistenza di potenti forze i nconscie che condizionano la mente, distorcendone la capacità di percepire e agire correttamente. Tali condizionamenti negativi, che agglutinano e riattivano le impronte inconscie di e sperienze passate (traumi, frustrazioni, paure, blocchi evolu tivi, pulsioni negate) alterando la capacità di vedere e affrontar e il presente, creano un continuo attrito con la realtà, foriero d i molteplici forme di sofferenza psichica. Per l'approccio meditativo orientale, però, non è i mportante decifrare i contenuti dell'inconscio, perché, avend o come fine il risveglio spirituale, i contenuti specifici della p ropria storia personale interessano soltanto come occasioni di ap profondimento della consapevolezza. In altri termini, poiché la m editazione non mira tanto a comprendere la natura dei contenuti pe rsonali, quanto ad intensificare la consapevolezza per comprendere la natura ultima della mente e della realtà, non ha sviluppat o uno studio dei significati mediante i quali le forze inconscie comunicano con la coscienza.

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Invece la psicologia del profondo, a causa delle su e finalità terapeutiche, ha elaborato un'articolata decodifica del linguaggio inconscio attraverso cui i contenuti profondi della psiche si manifestano alla coscienza. In una schematica teorizzazione della psiche, LANGS (1988) parla di un sistema cosciente e di un sistema inconscio, il quale a sua volta comprende due distinti settori: il sotto-sist ema inconscio di 'paura-colpa-punizione' (inclusivo di tutti i tr aumi, le ferite, i condizionamenti che costituiscono la font e di ogni sofferenza psicopatologica); e il sotto-sistema di 'saggezza inconscia', che percepisce la realtà in modo estrem amente più ricco e profondo del nostro angusto io cosciente, l a cui visione è spesso limitata e distorta dai condizionamenti del sotto-sistema inconscio di paura-colpa-punizione. Il fatto, per fare qualche esempio, che ci sentiamo fragili per le umiliazioni e le ferite ricevute in passato, che la nostra sessualità si esprime attraverso fantasie perverse, che siamo rosi dall'invidia, che una persona cara ci tradisce, che nutriamo desideri di morte verso qualcuno, o che certi obbie ttivi ci sono irrimediabilmente preclusi a causa dei nostri limit i, sono tutte verità estremamente scomode e dolorose da riconosce re. L'io cosciente tende perciò a ignorarle, mantenendole in conscie e falsificando la propria percezione della realtà, se nza rendersi conto che, nel far questo, getta i semi di ulterior i conflitti e sofferenze. Il sotto-sistema di saggezza inconscia percepisce i nvece con estrema chiarezza queste verità, ma è costretto a e sprimerle attraverso un linguaggio in codice (sogni, spostame nti associativi, lapsus, atti mancati) che ne impedisce una consapevolezza troppo diretta e traumatica per l'io . La psicologia del profondo ha perciò sviluppato una specifica tecnica di decodifica del linguaggio inconscio - co mpletamente assente nella meditazione - che, partendo dagli ind icatori (sintomi) e dai messaggi in codice (derivati), indi vidua le tematiche e i significati profondi nascosti in ques to materiale, per poi ricollegarli da un lato ai fattori genetici della passata storia personale e dall'altro alle attuali situazio ni di vita che hanno determinato, come eventi scatenanti, le tensi oni psichiche prese in esame, al fine di generare una consapevole zza trasformativa fonte di insight terapeutico (LANGS 1 981; 1988). Questo aspetto particolare e specifico della consap evolezza psicoterapeutica le permette di guarire efficacemen te profonde psicopatologie inconsce del livello personale, cui la consapevolezza meditativa non potrebbe mai accedere direttamente. D'altro canto, la consapevolezza meditativa, attrav erso la disidentificazione dai contenuti mentali, crea uno spazio di libertà da qualunque stato mentale si manifesti all a coscienza, sfociando in una condizione oltre l'io personale. D'altra parte, se sono presenti gravi disturbi dell a personalità o patologie profondamente ramificate e radicate nell' inconscio,

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arriveranno ad intridere di sé e a condizionare ogn i aspetto della vita cosciente, compresa la pratica meditativa stes sa. Ne consegue che la 'disidentificazione' dai contenuti mentali, incoraggiata dalla meditazione orientale, sarà facilmente fraint esa ed usata difensivamente per rafforzare i meccanismi della sc issione o della rimozione: è in questi casi che una buona psicotera pia diventa non solo estremamente utile, ma indispensabile. A tutto ciò va aggiunto che la tecnica di decodific a dei messaggi inconsci non ha soltanto una funzione strettamente clinica e psicoterapeutica (ossia applicabile unicamente a ps icopatologie conclamate), ma costituisce anche la base per un'au toanalisi vòlta a prevenire i normali accumuli di stress della via quotidiana (LANGS 1981): una forma, dunque, di 'igiene mentale ' da attuarsi con regolari sedute giornaliere di autoconsapevolez za psicodinamica che potrebbero proficuamente affianca rsi - fatte salve le specifiche differenze di tecnica - alle se dute quotidiane di meditazione. Si profila cioè la possibilità di una cooperazione sinergica e complementare fra psicologia del profondo e meditaz ione. Ambedue operano infatti, a livelli diversi, una purificazio ne della mente: l'una, sbloccando i profondi conflitti inconsci cui la consapevolezza meditativa non può avere diretto acc esso; l'altra, aprendo sempre più la coscienza a uno sfondo di con sapevolezza transegoica che trascolora nel mistero dell'incondi zionato. TENTATIVI DI SINTESI La complementarità fra consapevolezza psicoterapeut ica e consapevolezza meditativa ha stimolato l'elaborazio ne di diversi tentativi di sintesi, sul piano sia teorico sia pra gmatico, soprattutto nell'ambito di quella corrente di pensi ero che è stata chiamata 'psicologia transpersonale', cui va il mer ito di aver studiato questi temi in modo profondo ed articolato . Sul piano teorico, di fondamentale importanza è sta ta l'elaborazione, da parte di WILBER (1980; 1985; 198 6) e di ENGLER (1983; 1986), di un modello evolutivo della mente g raduato in molteplici stadi di sviluppo (il cosiddetto 'spettr o della coscienza') comprendente - volendo semplificare al massimo - una prima fase (dal pre-egoico all'egoico) il cui compi to evolutivo primario è la maturazione e l'integrazione di un io funzionante e ben adattato e una seconda fase (dall'egoico al tra nsegoico) il cui compito evolutivo primario è la realizzazione s pirituale oltre i limiti dell'io. I disturbi di maturazione specifi ci della prima fase sono di natura psicopatologica e vanno curati con la psicoterapia, mentre quelli specifici della seconda fase sono di natura esistenziale e vanno trattati con la meditaz ione. Questo modello, pur mostrando, sul piano generale, un'innegabile validità nel differenziare vari stadi e due diversi livelli evolutivi, col tempo ha mostrato il limite di un'ec cessiva schematicità nel suddividere il continuum della cos cienza in compartimenti stagni (EPSTEIN 1986).

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Infatti, una scansione temporale troppo rigida e sc hematica dei vari stadi e delle specifiche tecniche da applicare ad essi (psicoterapeutiche prima, meditative poi) non rende conto del fatto che, durante una psicoterapia, possono manife starsi anche esperienze di tipo transpersonale e che, per conver so, durante un percorso meditativo possono anche risolversi alcune forme di psicopatologia. Inoltre, la concezione troppo generica e lineare di un 'io' prima da rafforzare e poi da trascendere ha ceduto via vi a il passo ad una visione più complessa, secondo cui sia la psico terapia sia la meditazione promuovono entrambe - anche se a livell i diversi - una progressiva relativizzazione delle immagini del sé, accompagnata da un corrispondente rafforzamento delle funzioni d ell'io (EPSTEIN 1988; 1995). Sul piano pragmatico, si sono moltiplicati, sopratt utto negli ultimi anni, i tentativi d'introdurre nel bagaglio tecnico della psicoterapia esercizi ispirati a pratiche meditativ e (consapevolezza aperta, concentrazione, visualizzaz ioni, fantasie guidate, ecc.). Senza negare che queste forme di co ntaminatio possano anche avere una propria efficacia terapeuti ca, ci sembra però che spesso gli studi in proposito ne abbiano t roppo unilateralmente evidenziato soltanto gli aspetti po sitivi, senza intraprendere una seria riflessione critica circa i rischi e le controindicazioni di tali procedure, che a nostro a vviso potrebbero di gran lunga superare gli eventuali van taggi. Anzitutto non vanno sottovalutate le critiche che i sostenitori della tecnica analitica radicalmente non-direttiva di stampo freudiano rivolgono alle psicoterapie di tipo più o meno direttivo: il nucleo più profondo e fondamentale di una psicopatologia (sempre carico di sofferenza) può em ergere soltanto in uno spazio terapeutico 'sicuro' (ossia in un set ting accettante, non interferente e non giudicante, libe ro da qualsiasi forzatura o deliberata pressione da parte del terap euta), in cui i contenuti psichici e i conflitti possano affiorare spontaneamente proprio perché l'analista non interferisce con opin ioni personali, consigli, direttive o prescrizioni, ma si limita a favorire un'atmosfera di consapevolezza non selettiva aperta all' insight, che viene poi restituito al paziente sotto forma di interpretazione (LANGS 1973-4; 1985). Se, invece, il terapeuta assume un ruolo direttivo attraverso consigli, prescrizioni, opinioni, spiegazioni teori che o esercizi guidati, finisce per l'interferire con la spontanei tà del processo di guarigione psichica, introducendo implicitamente nel campo terapeutico suggestioni di tipo costrittivo e giudi cante . Tali approcci direttivi possono dunque limitare alq uanto l'efficacia della psicoterapia: il nucleo profondo della psicopatologia non potrà emergere, perché la sponta neità del processo è inibita da interferenze esterne incapaci di garantire uno spazio terapeutico sufficientemente 'sicuro' e accettante. Di conseguenza, la comunicazione terapeutica si svolge rà a un livello più superficiale (LANGS 1985).

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Inoltre le direttive del terapeuta potranno facilme nte essere usate dal paziente a scopi difensivi, per non confr ontarsi con gli aspetti più inquietanti della propria 'ombra'. Per esempio, il paziente sarà ben contento di sottoporsi a una fant asia guidata di tipo sublimatorio, in cui la propria ombra, rappres entata in forma di simboli generali e archetipici (per esempio demo ni, tenebre, erbacce, ecc.), viene trasformata in simboli positi vi altrettanto generali (angeli, luci, fiori, ecc.), perché con qu esta 'fuga verso l'alto' eviterà di affrontare l'imbarazzante confronto con gli aspetti più concreti e personali (desideri di m orte, invidie, perversioni, ecc.) attraverso cui i suoi conflitti psichici si manifestano nella vita quotidiana e nel rapporto tr ansferale; oppure idealizzerà il terapeuta come un guru spirit uale, saggio e buono, per non affrontare l'invidia, la rabbia o l' attrazione erotica che prova per lui (ossia i risvolti più imb arazzanti del transfert); o, ancora, s'illuderà di aver raggiunto , attraverso la consapevolezza meditativa, una malintesa 'disidenti ficazione' spirituale dai propri aspetti sofferenti e conflitt uali, mentre in realtà non ha fatto che alienare e rendere ancora p iù inconscia la propria psicopatologia attraverso meccanismi difens ivi schizoidi basati sulla scissione (ENGLER 1986, 34-38). Un ulteriore motivo che rende assai problematica l' inserzione di tecniche meditative nella psicoterapia è il cumular si su un'unica figura del doppio ruolo di terapeuta e maestro spir ituale, che rende ingestibili i problemi transferali. Anzitutto, come si è visto, il ruolo di guru tende a dare del terapeuta un'immagine iper-idealizzata e onnipotent e, che esaspera nel paziente le manovre difensive per rimuovere gli aspetti negativi o erotici del transfert; in secondo luogo, insegnando la meditazione e supervisionando il paziente attravers o correzioni e consigli, il terapeuta si trasforma in un giudice c he valuta le capacità e le incapacità del 'discepolo', il quale sarà sempre più tentato di mostrarsi 'bravo' e 'maturo', nascondend o le proprie parti più infantili, conflittuali e imbarazzanti di etro la falsa immagine di un devoto e volenteroso seguace; in ter zo luogo, attraverso l'imposizione della pratica meditativa, il terapeuta invade il libero spazio del paziente, trasmettendog li i propri valori, le proprie opinioni, le proprie credenze, i propri interessi, con l'implicito messaggio che il pazient e deve diventare come lui, e non cercare una via autonoma verso se stesso; infine, impartire istruzioni meditative, co nsigli, giudizi e prescrizioni entra in aperto contrasto, come si è visto, con la neutralità terapeutica e col regime di astinenza, c he garantiscono l'ottimale funzionamento della consapevolezza psico dinamica in uno spazio accettante, non interferente e non giudicant e, dove possano spontaneamente affiorare i contenuti profondi della psiche inconscia. Non va trascurato un ultimo elemento di cautela. Pe r insegnare una qualsiasi pratica meditativa, occorre un training s pecifico estremamente lungo ed arduo (assai diverso da quell o

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psicoterapeutico): viene perciò spontaneo domandars i quanti psicoterapeuti, fra quelli che adottano in terapia tecniche meditative, posseggano veramente la qualifica di in segnanti di meditazione e quanti invece si siano soltanto impro vvisati tali, con gravi conseguenze per se stessi e per i propri pazienti. Alla luce di queste considerazioni, sembra che i ri schi di una contaminatio fra tecniche meditative e psicoterapeu tiche superino di gran lunga gli eventuali vantaggi. La complementarità fra psicoterapia e meditazione r isiede proprio nel fatto che agiscono a livelli diversi della ment e. Appare dunque auspicabile che, anche quando vengono pratic ate entrambe contemporaneamente, restino due vie ben distinte ed abbiano come punti di riferimento due diverse persone che rivest ano rispettivamente il ruolo di psicoterapeuta e quello di guida spirituale, senza cumulare su un'unica figura tutte le pesanti dinamiche psicologiche implicate nei due processi. A queste condizioni, la pratica parallela della med itazione e della psicoterapia può generare una potente spinta sinergica e trasformativa a tutti i livelli della psiche: la si ntesi fra meditazone e psicoterapia avviene così, in modo spo ntaneo e non retorico, nel concreto della mente e della vita ste ssa di chi le pratica entrambe, non più in sincretismi superficia li ed artefatti. L'ATTEGGIAMENTO TRANSPERSONALE Distinguere nettamente il livello psicoterapeutico da quello meditativo non significa che una psicoterapia anali tica rigorosamente non direttiva - e dunque priva di ese rcizi meditativi - manchi di una dimensione transpersonal e. Le esperienze oltre l'io possono differenziarsi in base alle modalità con cui vengono indotte, e la psicologia d el profondo possiede una propria specifica forma di transperson alità, diversa da quella meditativa anche se basata su princìpi af fini. Si potrebbe anzi affermare che gli aspetti fondamental i dell'approccio psicodinamico non-direttivo contenga no in sé - in modo più o meno esplicito - il seme di un atteggiam ento transpersonale. In questa prospettiva, l'attenzione non giudicante e non selettiva, nell'osservare con imparziale dedizione ogni aspetto del materiale psichico emergente di momento in mome nto (dal più repellente al più sublime), comunica al paziente ch e nulla di ciò che egli fa, pensa, sente ed è, è indegno di intere sse e di cura. Si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento che le tradizioni religiose orientali ritengono indispensabile all'es ercizio della consapevolezza meditativa, vale a dire la virtù del l'equanimità (upek__, _ama) capace di osservare ed accogliere tu tto ciò che emerge nel presente, piacevole o spiacevole che sia . La consapevolezza terapeutica - nella misura in cui non solo osserva imparzialmente tutto il materiale psichico con l'unico scopo di comprenderlo (anziché assolverlo o condann arlo), ma gli

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conferisce anche dignità e valore in quanto espress ione di una storia individuale che si fa specchio dell'umanità - si apre ad una dimensione transpersonale, in quanto non strett amente legata alla soggettiva reattività egoica. Il regime di astinenza, dal canto suo, ci introduce ad un altro aspetto dell'atteggiamento transpersonale. Asteners i dall'agire in preda a inclinazioni, aspirazioni, desideri o teori e preconcette, limitandosi ad osservare per comprendere, implica u na rinuncia all'idea - radicata in un senso d'infantile onnipot enza - che la coscienza del terapeuta possa fare qualcosa di deli beratamente attivo e volontaristico per influenzare e aiutare i l paziente. Ciò rieccheggia molto da vicino il concetto taoista e c h'an di 'non-azione' (wu-wei) (WATTS 1975). La rinuncia psicoana litica ai metodi direttivi, educativi o suggestivi - in breve la rinuncia a un'azione che sia diversa da quella di osservare, c omprendere e interpretare - presuppone la fiducia in un processo autonomo di autoguarigione che spontaneamente e indefessamente cerca la propria via, se soltanto vengono rimossi gli ostaco li che ne rallentano od occludono la crescita. Tale fiducia nel potere guaritivo di una comprensio ne non manipolativa, che dissolve l'illusoria onnipotenza di una coscienza inflazionata, fallacemente convinta di po ter condizionare direttamente gli altri, apre lo psicot erapeuta ad una dimensione transpersonale: c'è qualcosa di più gran de e potente - al di là di ciò che gli angusti 'io' del paziente e del terapeuta possano dire o fare - che cresce verso la guarigion e. Si tratta, in termini junghiani, del processo di individuazion e. Scrive JUNG (1946/54, 243): Il Sé racchiude in sé infinitamente di più che un I o soltanto, come dimostra da tempo immemorabile la simbologia: esso è l'altro o gli altri esattamente come l'Io. L'individuazione non esclude ma include il mondo. In una certa misura, il terapeuta opera in un regim e di astinenza dai propri bisogni egoici per permettere al materia le psichico del paziente di esprimersi liberamente, indicando la pr opria via verso l'individuazione senza interferenze da parte della ristretta coscienza egoica sia del terapeuta sia del paziente stesso. L'atteggiamento transpersonale implicito in questa astinenza dall'ego (AA.VV. 1994) è lo strumento principe per lasciare spazio alla dinamica del Selbst, che per sua natura - come rileva JUNG (1952, 440) - agisce come un istinto al di là dell' io. Di qui il ridimensionamento di ogni attivismo unilaterale del l'io nel processo terapeutico, processo che s'identifica pri mariamente con la funzione di osservare e comprendere, come scrive JUNG (1951, 134): Il terapeuta può soltanto osservare e cercar di cap ire i tentativi di ristabilimento e di guarigione intrapresi dalla stessa natura. (...) I simboli dell'inconscio devono, per diventar e efficaci,

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essere "compresi" dalla coscienza, essere cioè assi milati e integrati. La coscienza non ha bisogno di 'fare' alcunché, se non ampliare e approfondire se stessa in misura tale da poter acco mpagnare il processo nei suoi modi e tempi, proteggendolo da in terferenze che ne blocchino o rallentino il corso. E qui abbiamo un ulteriore elemento transpersonale, perché, nel comune sforzo di approfondire, ampliare e purificar e la propria coscienza attraverso l'esercizio dell'attenzione no n selettiva e non giudicante, terapeuta e paziente cominciano a s entirsi parte di un 'campo coscienziale' comune (dove anche gli i nconsci comunicano in maniera più diretta), che fa da 'cont enitore più ampio' al materiale psichico emergente, offrendone una visione 'panoramica'. In altri termini, non solo il process o di guarigione psichica e di individuazione si muove spontaneament e e autonomamente al di là del controllo dell'io, ma an che il campo di coscienza che lo accompagna sembra in qualche misur a andare oltre i limiti dell'orizzonte egoico, in uno spazio più a mpio ed imparziale al quale l'io sente di partecipare, ma s enza esserne il primo attore o il padrone incontrastato. Dalle precedenti riflessioni, potremmo dunque trarr e una conclusione dal sapore vagamente paradossale: l'att eggiamento analitico sembra già per sua stessa natura implicar e un atteggiamento transpersonale, al punto che ogni psi coterapia radicalmente orientata verso la sanità non può che essere - più spesso inconsciamente che consciamente - anche tran spersonale, nella misura in cui stimola e lascia agire forze di autoguarigione (e di maturazione spirituale) che operano ben oltre l'io dei singoli partecipanti. A Jung e alla psicologia tran spersonale spetta il merito di aver indagato e teorizzato le c omplesse dinamiche transpersonali naturalmente presenti nell a psicologia del profondo, facilitandone la presa di coscienza d a parte di chi le attivava in modo inconsapevole e massimizzandone in tal modo l'efficacia. Soltanto aprendosi a tale atteggiamento transperson ale, il terapeuta può attingere le risorse necessarie per s candagliare i recessi più scuri e nascosti dell'animo umano con v isione clinica, equanime e non giudicante, comprenderne l'intima co nnessione con l'individuo unico e irripetibile che ha di fronte, e nel contempo onorare, attraverso e al di là di tutto ciò, la ind istruttibile dignità che alberga in ogni manifestazione della ps iche (per oscura o banale che sembri) come il sigillo nascost o di un senso più vasto e sacro, connesso con l'eterno mistero de lla vita e della morte. Una profonda intuizione psicologica di HESSE (1924, 471) sintetizza in modo mirabilmente chiaro il senso del le nostre riflessioni: Come, sotto il microscopio, una cosa altrimenti inv isibile o disgustosa, un grumo di sporcizia, può trasformarsi in un

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meraviglioso cielo stellato, così, sotto il microsc opio di una vera psicologia (che non esiste ancora) ogni più pi ccolo moto di un'anima, foss'anche la più malvagia, sciocca o dem ente, diverrebbe uno spettacolo sacro e venerando, poiché in esso non vedremmo che un esempio, un'immagine simbolica dell a cosa più santa che si conosca: la vita. LA METAFORA DEL CIELO Può essere utile concludere queste riflessioni così come sono iniziate, ricorrendo ad una metafora che ci faccia meglio comprendere - al di là di rozzi schematismi in bian co e nero - affinità e differenze fra psicologia del profondo e meditazione orientale. Immaginiamo, in una bella giornata primaverile, di stenderci su un prato a guardare il cielo. La prima cosa che cattur erà la nostra attenzione, sarà il volo e il canto degli uccelli. Analogamente, guardando il cielo della mente, la prima cosa che n oteremo saranno i suoi contenuti più evidenti: pensieri, percezioni , ricordi, immagini, emozioni, che come uccelli attraversano i l nostro spazio mentale, catturando l'attenzione. Ma, continuando a guardare il cielo, ben presto ci rendiamo conto che i colori, le luci e le ombre dell'intero paesag gio possono variare per via delle nuvole, le quali determinano il tono generale della giornata: in alcuni momenti tutto è luminoso e inondato di sole, in altri l'atmosfera si oscura e si fa cupa. Parallelamente, nell'osservare la mente ci si accor ge che il flusso continuo dei suoi contenuti è, per dir così, 'colorato' da un tono affettivo fondamentale, che - come le nuvol e - incupisce o rasserena il nostro umore. Guardando ancora più attentamente, scopriamo che le nuvole sono mosse da qualcosa di invisibile, ossia il vento, co sì come gli umori della psiche sono mossi da pulsioni inconscie . Si tratta di forze invisibili alla coscienza, ma individuabili i n base ai cambiamenti che operano sulla superficie della ment e conscia, proprio come si può dedurre la direzione del vento, di per sé invisibile, in base agli spostamenti delle nuvole. Infine, osservando con uno sguardo ancora più vasto e profondo, possiamo accorgerci che tutto il fantasmagorico gio co degli uccelli, delle nuvole e del vento avviene nel grand e spazio del cielo, che resta sempre uguale a sé stesso e si tro va sopra, sotto e anche dentro di noi, perché in definitiva viviamo su un pianeta sospeso nello spazio e noi stessi siamo, in qualche modo, fatti di spazio. Allo stesso modo, osservando i mutevoli con tenuti della mente conscia e inconscia, può capitare di scorgere , al di là di essi, il vasto sfondo di consapevolezza vuota ed ap erta che li ospita e li illumina. Alla luce della metafora del cielo, potremmo dunque asserire che la consapevolezza psicoterapeutica e la consapevole zza meditativa prestano attenzione alle stesse cose (uccelli, nuvo le, vento e cielo), perché la mente è il comune campo d'investi gazione per

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entrambe le discipline: però la psicologia del prof ondo è più interessata ai contenuti mentali (= uccelli, nuvole , vento), mentre invece la meditazione è più interessata allo sfondo transpersonale della pura consapevolezza (= il ciel o). Ciò non toglie che, durante il processo meditativo, si possa verificare lo scioglimento di qualche nodo psicopat ologico, o che, nel mezzo di una psicoterapia - nel momento in cui ci s'imbatte nei temi cruciali del destino, della sofferenza, de lla morte, del proprio unico piccolo io che si confronta con i gra ndi misteri dell'esistenza e con gli universali interrogativi c he travagliano l'umanità intera - possano aprirsi sprazzi e barlum i attraverso cui, d'un tratto, s'intravvede la vastità infinita del cielo dietro le nubi (ossia un'apertura al transpersonale ), anche se non è questo lo scopo primario della psicoterapia, così come non lo è della meditazione la guarigione da una psicopatolog ia. BIBLIOGRAFIA Aa.Vv. (S.Costanzo,C.De Gennaro, A.Michelini Tocci, M.Pignatelli di Cerchiara, R.Quartesan)(1994): Atteggiamento rel igioso, astinenza, processo di individuazione del terapeuta . Comunicazione al seminario residenziale A.I.P.A. di Rimini. BATCHELOR S. (1984): Flight. An Existential Concept ion of Buddhism. Kandy: Buddhist Publication Society. BATCHELOR S. (1997): Buddhism without Beliefs.(Trad . it. 1998) Il buddhismo senza fede. Vicenza: Neri Pozza. BERGONZI M. (1980): Osservazioni su samatha e vipas san_ nel buddhismo therav_da. Rivista degli studi orientali, LIV, 1-4, 143-170 e 327-357. BERGONZI M. (1982a): Meditazione e psicoterapia a c onfronto. Paramita, 1, 1, 11-13. BERGONZI M. (1982b): Sentieri verso la realtà. Para mita, 1, 2, 21-22. BERGONZI M. (1996): I tre risvegli del Buddha. In: AA.VV., Atti della giornata di studio su psicologia e meditazion e.Torino: Assessorato alla Cultura Regione Piemonte. BERGONZI M. (1997): Adattamento e istinto spiritual e. Studi Junghiani, 3, 1/2, 89-92. BION W.R. (1970): Attention and Interpretation. (Tr ad. it. 1973) Attenzione e interpretazione. Roma: Armando. DEIKMAN A.J. (1966): Deautomatization and the mysti c experience. Psychiatry, 29, n.4, 324-338. DESJARDINS A. (1977): A la recherche du Soi. (Trad. it. 1992) Alla ricerca del Sé. Roma: Mediterranee. DEUSSEN P. (1883): Das System des Ved_nta. Leipzig. ENGLER J.H. (1983): Vicissitudes of the self accord ing to psychoanalysis and Buddhism: A spectrum model of ob ject relations development. Psychoanalysis and Contemporary Though t, 6, 1, 29-72. ENGLER J.H. (1986): Therapeutic aims in psychothera py and meditation. In: Wilber K., Engler J. & Brown D.P.(a cura di)

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GLI ARTICOLI DI ERIDANOSCHOOL - Astrologia e dintorni

PRASSI PSICOANALITICA E PRASSI MEDITATIVA ORIENTALE: UN CONFRONTO INTERCULTURALE

a cura di Mauro Bergonzi

Il presente lavoro - che nasce dall'ampliamento di una relazione presentata al Convegno su "Crisi del freudismo e pr ospettive della scienza dell'uomo" svoltosi a Napoli nei giorni 8-9 ottobre 1999 - si è anche giovato di materiali e dati raccolti in una ricerca su "Psicologia e meditazione nel buddhismo" (di cui l' autore è titolare) finanziata con i fondi universitari ex-60 % presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli. In qu esto scritto sono state inserite, con leggere modifiche, alcune parti già apparse in una precedente pubblicazione (BERGONZI 1 998). LA PSICOLOGIA NEL DIALOGO TRA ORIENTE E OCCIDENTE Nell'ambito del dialogo interculturale fra Oriente religioso e Occidente contemporaneo, una delle principali aree di riferimento è costituita dalla psicologia . Da un lato, infatti, molti testi appartenenti a sis temi filosofico-religiosi orientali, come per esempio il buddhismo, lo yoga o il ved ānta (per limitarci soltanto all'area del sub-continente indiano), usano di preferenza un linguag gio più di tipo psicologico - formulato cioè in termini di 'mente' (citta) e 'stati mentali' (cetasika) - che non teologico, dog matico, mitologico, liturgico o simbolico; di conseguenza, tali sistemi hanno elaborato un'articolata psicologia della ment e conscia e inconscia che, soprattutto nell'esplorazione degli stati meditativi, ha sviluppato aspetti in qualche modo e stranei e complementari a quelli approfonditi dalla psicologi a dinamica occidentale, più interessata al versante clinico e psicopatologico. Dall'altro lato, diversi approcci psicoterapeutici occidentali hanno progressivamente ampliato l'orizzonte delle p roprie ricerche, dallo studio esclusivo delle manifestazio ni propriamente cliniche e psicopatologiche all'investigazione degl i aspetti più maturi e 'sani' della psiche, come la creatività, l o sviluppo delle potenzialità umane e l'esperienza religiosa, contemplativa o mistica, trovando così un fertile terreno d'incontr o con le soteriologie orientali. Più in generale, tale dialogo è stato favorito dal clima culturale che va sotto il nome di 'post-modernismo': infatti la decostruzione critica di ogni certezza assoluta (in cluso il 'mito dell'oggettività scientifica') ha portato ad una co ncezione dinamica, relativistica, pluricentrica e dialogica della cosiddetta 'verità', vista come un processo in fier i derivante da un continuo scambio interrelazionale fra punti di v ista diversi e

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sempre relativi (PICKERING 1997,pp.VII-XIV; BECKER 1962; RORTY 1980). Di qui l'apertura al dialogo con culture 'altre' , soprattutto quando queste ultime, come per esempio il buddhismo in molte sue forme, condividono alcuni atteggiamenti propri del post-modernismo: fin dalle sue origini (come è ampiament e documentato nei Nik āya ), il buddhismo ha infatti promosso la decostruz ione critica di ogni dogmatico assolutismo filosofico, m etafisico o religioso (di ŃŃhi), de-reificando la visione astrattamente concettuale di una realtà fatta di 'oggetti' solidi , permanenti e separati, a favore di una più diretta esperienza di essa in termini di processi sempre cangianti (anicca) ed in terrelati fra loro (pa Ńicca-samupp āda) (RAHULA 1959; BERGONZI 1994-5). Più specificamente, il crescente interesse per le p sicopatologie dell'identità e per l'investigazione psicodinamica del 'sé' - visto sempre più come un processo di plurime interr elazioni fra flussi psichici diversi anziché come una 'entità' f issa - ha portato alcuni esponenti della psicologia occidenta le a confrontarsi con la concezione buddhista del non-sé (anatt ā) . LA PROBLEMATICA EPISTEMOLOGICA Dal punto di vista epistemologico, il progressivo ridimensionamento del metodo scientifico basato sul l'empirismo logico come indiscussa fonte di immodificabili veri tà 'oggettive' a favore di una validazione soltanto relativistica e probabilistica delle teorie scientifiche ha suscita to, nell'ambito della psicologia, una riflessione critica vòlta a b ilanciare il metodo sperimentale e l'approccio neurofisiologico con il metodo fenomenologico e con una qualche forma di empirismo interiore (intrapsichico e interpersonale), che si trova alla base sia della psicoanalisi sia delle psicologie orientali degli s tati meditativi come lo yoga o il buddhismo . In origine, la psicologia occidentale cercò di fond arsi come scienza su tentativi di autosservazione che si dimo strarono estremamente carenti ed inaffidabili, perché i preg iudizi e le inclinazioni del soggetto osservante condizionavano pesantemente il processo di autosservazione, dando luogo a teori zzazioni contraddittorie, infondate e fallaci . Proprio a tali carenze si devono il fallimento e la successiva cattiva reputazione del 'metodo introspettivo' fond ato da W. Wundt e la conseguente virata della psicologia occidental e verso lo sperimentalismo psicofisiologico e il comportamenti smo, secondo cui soltanto il comportamento osservabile e misurab ile dall'esterno può essere oggetto di scienza, mentre ciò che si prova all'interno della propria mente va totalmente ignorato, secondo il ben noto concetto di 'scatola nera' . Co sì la psicologia divenne l'unica scienza che per definizi one escludeva ogni osservazione diretta del proprio oggetto di st udio, ossia la mente. Come rileva giustamente J. Needleman , per molto te mpo nessuno prese in seria considerazione l'eventualità che lo strumento usato nel metodo introspettivo - ossia l'autosservazione - non fosse

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intrinsecamente fallace, ma soltanto reso inaffidab ile a causa di distorsioni, condizionamenti e pregiudizi del sogge tto, la cui rettifica è in gran parte possibile, a patto che l' esercizio dell'autosservazione venga allenato, intensificato e purificato attraverso una disciplina dell'attenzione che costi tuisce il cardine del training meditativo orientale . Scartare a priori ogni forma di empirismo interiore (ossia di osservazione diretta della mente secondo una prospe ttiva intrapsichica e interpersonale) come strumento di r icerca psicologica, senza prendere in considerazione un me todo per renderlo più affidabile, significa gettar via il ba mbino con l'acqua sporca e impoverire enormemente la scienza della psicologia . Inoltre è apparso sempre più evidente, nel corso de l tempo, che, per quanto 'oggettivi' potessero apparire i risulta ti della psicologia sperimentale e comportamentistica, alla fin fine l'osservazione dei dati e dei comportamenti - come anche la selezione delle variabili sperimentali e l'elaboraz ione teorica dei risultati - sono pur sempre in qualche misura i nfluenzati (e talora falsificati) dai condizionamenti soggettivi dell'osservatore . D'altra parte, queste difficoltà epistemologiche va nno ben oltre il caso della psicologia e coinvolgono alcune delle problematiche più assillanti che hanno attraversato la filosofia della scienza nel XX secolo. A partire dagli anni '30 e con impulso crescente da gli anni'60 in poi, si è infatti acceso un vivace dibattito episte mologico che ha progressivamente ridimensionato e messo in crisi il mito della 'oggettività scientifica', vale a dire la convinzio ne che la scienza possa accedere a un'immutabile e definitiva conoscenza assoluta dell'oggetto in sé, indipendentemente dall 'osservatore . Varie correnti del pensiero scientifico contemporan eo hanno infatti rilevato l'impossibilità di un'osservazione dell'oggetto in sé, poiché il processo di osservazione stesso, n el momento in cui comincia ad operare, entra in una relazione int erattiva col fenomeno osservato, modificandolo. Ne consegue che soggetto osservante, strumento di osservazione e oggetto oss ervato rappresentano un unico continuum nell'ambito di una stessa, indissolubile Gestalt. Poiché, dunque, l'osservazione della realtà risulta sempre, almeno in parte, 'carica di teoria' (theory-laden) e 'cost ruita' anche in base a un ineliminabile residuo di soggettività, il compito della ricerca scientifica diviene duplice: da un lato rid urre al minimo le più grossolane distorsioni introdotte nel proces so di osservazione dal soggetto osservante; dall'altro in cludere, nel quadro complessivo della visione teorica da vagliar e, anche le variabili connesse con l'ineliminabile partecipazio ne di residui soggettivi al processo di osservazione e alla costr uzione dell'esperienza. In tal modo la scienza può rifonda re i propri criteri di validazione nella consapevolezza che esi ste una scala di infinite prospettive e approssimazioni alla veri tà, senza che

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quest'ultima possa mai essere definitivamente raggi unta in senso assoluto . Si è così passati da una scienza 'oggettiva' di sta mpo positivistico ad una scienza che potremmo definire relativa e relazionale, in quanto le sue acquisizioni non hann o più una validità assoluta e universale, ma specifica a un d eterminato contesto relazionale . Tutto ciò ha portato, in molti settori della ricerc a scientifica, ad una forma di relativizzazione epistemologica in base a cui una qualsiasi teoria scientifica non è più considerata vera o falsa in assoluto, bensì più o meno valida a seconda del pro prio potenziale euristico e della propria efficacia pragmatica, val e a dire della gamma di fenomeni che essa arriva a scoprire, spieg are, predire e/o modificare secondo le proprie leggi. In altri termini, una teoria che riesca a inquadrar e in un unico pattern una vasta quantità di fenomeni e possa cont are su una massicia conferma sperimentale ed empirica, viene c onsiderata pragmaticamente valida, finché non ne emerga un'alt ra con un'efficacia pragmatica ancor più cogente . Dunque i criteri per valutare una qualsiasi teoria scientifica ruotano non più tanto intorno alle categorie 'ogget tive' di vero/falso, quanto intorno ai concetti di relazione e di efficacia pragmatica. L''EMPIRISMO INTERIORE' Se questa impostazione epistemologica viene ritenut a valida in molti settori delle scienze naturali, ancor di più lo sarà per le scienze umane e in particolare per la psicoanalisi, in cui il metodo strettamente sperimentale risulta inapplicab ile e il contesto relazionale implica di necessità una maggi ore interdipendenza fra soggetto osservante e oggetto o sservato. Nonostante tutti i fallimentari tentativi fatti da Freud per agganciare la psicoanalisi al pensiero positivista, alla neurofisiologia e alle scienze naturali, le sue teo rie poggiano di fatto, come si è detto, su una forma di 'empirismo interiore', ossia su osservazioni dirette dell'attività mentale secondo una prospettiva intrapsichica e interpersonale, nonché su ipotesi e verifiche di natura relazionale , i cui criteri di validazione sono appunto la fecondità euristica e l'efficacia p ragmatica (che in questo caso viene a coincidere con l'efficacia t erapeutica). Se infatti applichiamo alla psicoanalisi il punto d i vista epistemologico della scienza 'relazionale', la ques tione fondamentale non verterà più sulla verità o falsità 'oggettiva' della teoria freudiana. Una volta accertato che tal e teoria può spiegare una grande quantità di eventi psichici ent ro uno schema unitario, occorrerà porsi il seguente interrogativo : se si opera nel contesto clinico e relazionale del processo ana litico adottando il punto di vista della teoria freudiana, quale potenziale euristico si produce e quale efficacia p ragmatica si ottiene nei termini della guarigine psichica ? Soltanto da un'accurata disamina delle risposte a q uesta domanda è possibile determinare una convalida epistemologicam ente

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attendibile di tale teoria nei termini della scienz a 'relazionale'. Ciò implica inoltre che la teoria fr eudiana, pur ammettendo anche una lettura in chiave unicamente i ntrapsichica, è suscettibile di una validazione scientifica solo ne l contesto della relazione paziente/terapeuta nella prassi ana litica. Come hanno rilevato alcuni autori (PICKERING 1997; EPSTEIN 1995), questa forma di empirismo interiore propria della p sicoanalisi (basata su osservazione intrapsichica e interperson ale, ipotesi e convalida tramite esperienza), presenta interessant i consonanze con l'atteggiamento pragmatico ed empirico, basato sull'autosservazione, proprio del buddhismo, quale traspare, per esempio, nel K āl āmasutta , in cui il Buddha esorta i propri interlocutori all'esercizio costante di un dubbio c ritico nei confronti di qualsivoglia apparente certezza che no n sia stata vagliata attraverso la propria diretta esperienza e una prassi adeguata. Sebbene le finalità siano differenti (la liberazion e nel caso del buddhismo, la guarigione psichica e la ricerca scie ntifica nel campo della psicoanalisi), il buddhismo investiga l e dinamiche della mente condizionata e degli stati meditativi d i coscienza attraverso un metodo empirico-fenomenologico non mo lto dissimile da quello della psicoanalisi. PROBLEMATICHE DELL'OSSERVAZIONE EMPIRICA Naturalmente, le difficoltà maggiori di questo appr occio epistemologico sono connesse con l'inaffidabilità d el processo di osservazione (e autosservazione) empirica al livell o intrapsichico e interpersonale, come ben dimostra il fallimento d el summenzionato metodo introspettivo di W. Wundt. Infatti, anche un'epistemologia che escluda la poss ibilità di una scienza totalmente 'oggettiva' (a causa dell'inelim inabile interconnessione fra soggetto e oggetto nel process o di osservazione) non è esente dal compito primario di ridurre quanto più possibile le grossolane distorsioni soggettive introdotte dai pregiudizi dell'osservatore e di tenere nel contemp o costantemente in considerazione le variabili connesse con la part ecipazione delle componenti soggettive alla costruzione dell'e sperienza dell''oggetto'. I problemi inerenti all'osservazione in genere (e all'autosservazione in particolare) sono dunque pri ncipalmente due: a) L'osservatore è influenzato da soggettivi condiz ionamenti concettuali ed emotivi che ne falsano l'imparzialit à di osservazione. b) L'osservatore è inestricabilmente interconnesso con l'oggetto osservato, che viene modificato dal processo stesso di osservazione. Nel confrontarsi con tali ineludibili problematiche , Freud cercò un correttivo nell'ambito della prassi psicoanaliti ca stessa.

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Per quanto concerne il primo punto (a), egli sottol ineò l'importanza di purificare il processo di osservazi one analitica dalle scorie del pregiudizio soggettivo attraverso una sospensione della funzione critica e censoria (EPSTEIN 1995, pp .104-105), funzione che usualmente restringe il campo dell'att enzione attraverso una drastica selezione dei dati disponib ili alla coscienza, distorcendo pesantemente la percezione d i se stessi e della realtà. Per Freud l'osservatore - sia egli il paziente o l'analista - è tenuto a seguire una ferrea discipli na mentale vòlta a purificare l'attenzione dall'influsso condi zionante di inclinazioni, aspettative e pregiudizi, attraverso la coltivazione di una consapevolezza ricettiva, non giudicante e n on selettiva . Per quanto concerne il secondo punto (b), il doloro so crollo del mito di un 'osservatore-specchio' (il medico) perfe ttamente neutro, imparziale e distaccato rispetto al proprio oggetto di studio (il paziente) condusse Freud alla scoperta c onturbante del transfert e del controtransfert, vale a dire dell'i nestricabile interrelazione fra soggetto osservante e oggetto os servato. Egli vide dapprincipio questi fenomeni come incresc iosi incidenti di percorso nel trattamento analitico, da eliminare prontamente quanto prima. Ma ben presto fu costretto a fare di necessità virtù, riconoscendo non solo l'onnipervasiva e prof onda portata dei processi transferali e controtransferali, ma an che la loro enorme potenzialità euristica e terapeutica come ev ocatori di dinamiche inconscie e come fonti di insight . L'utilizzazione terapeutica di questi apparenti 'os tacoli', intuita da Freud, si è poi ulteriormente potenziata nel corso dei successivi sviluppi del pensiero psicoanalitico, ch e ha messo sempre più a fuoco l'hic et nunc del rapporto anali tico, a cominciare dai pionieristici studi di C.G. Jung e H . Racker fino all'approccio interpersonale di R. Langs (MITCHELL 1988; ALBARELLA & DONADIO 1986; EPSTEIN & FEINER 1982; ESMAN 1990). Tutto ciò, fatte salve le dovute differenze, consuo na grandemente con le discipline meditative orientali. In riferimento al primo punto (a), esse hanno svilu ppato complesse ed articolate pratiche meditative vòlte a purificar e la consapevolezza attraverso un progressivo acquietame nto delle attività mentali che usualmente condizionano, inqui nano e distorcono il processo di osservazione della realtà e attraverso la coltivazione di un'attenzione accettante, non se lettiva e non giudicante . In riferimento al secondo punto (b), gli approcci m editativi orientali tendono a promuovere una percezione non-d ualistica di totale interdipendenza fra i fenomeni apparentement e separati della realtà, in cui il soggetto e l'oggetto sono v isti come i due poli interconnessi di un'unico processo inscindibil e, al di là della divisione illusoria fra osservatore ed osserv ato . PSICOANALISI E MEDITAZIONE ORIENTALE: UN INCONTRO M ANCATO Queste ed altre convergenze con l'Oriente religioso sono state riconosciute e studiate, nel corso del nostro secol o, da molti approcci psicoterapeutici occidentali, a partire da i precursori

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W.James, C.G.Jung e A.Maslow, attraverso la psicolo gia umanistica (psicoterapia della Gestalt, esistenziale, ecc.), f ino all'odierna psicologia transpersonale (BERGONZI 1980a, pp.24-32 ). Anche esponenti di approcci non psicodinamici, come il co gnitivismo, il costruttivismo e il comportamentismo stanno esplora ndo interessanti spunti di dialogo con la meditazione o rientale (WEST 1987; PICKERING 1997, pp.152-202). Al contrario, salvo alcune illustri eccezioni (come Fromm, Horney, Kellman, e pochi altri) la psicoanalisi classica si è matenuta prevalentemente estranea all'incontro con le discip line meditative orientali e soltanto in anni recenti si assiste ad una lenta controtendenza, soprattutto per merito di autori co me J. Engler, M.Epstein, A. Molino, M. Finn, A. Phillips, P.C. Co oper e J.Bobrow . I motivi di questa chiusura sono molteplici, e di v aria natura. Occorre anzitutto tener conto della spiccata autore ferenzialità della cultura psicoanalitica, dovuta a quello che p otremmo definire il 'monoteismo ideologico' di Freud, secon do cui chi troppo si allontanava dai dogmi fondamentali della psicoanalisi (come per esempio quello che concepisce la libido u nicamente in chiave sessuale) - dogmi che andavano costantemente protetti dall'assedio dei detrattori esterni - veniva bandit o non solo dalla comunità psicoanalitica, ma anche dal suo ori zzonte bibliografico . Questa autoreferenzialità ha fatto sì che, nel camp o della psicoanalisi, il dibattito culturale e il conseguen te processo euristico si siano svolti quasi esclusivamente all' interno del suo orizzonte linguistico e concettuale, anziché attrav erso un dialogo con culture 'altre', col risultato che a volte solt anto dopo molto tempo e con lungo travaglio euristico si sono scope rte verità già formulate o elaborate parecchi anni prima in contes ti culturali diversi. Un secondo fattore che rende conto della prolungata chiusura alle discipline meditative orientali da parte della psic oanalisi è la sua fedeltà alle proprie radici cliniche e alle pro prie finalità terapeutiche. La psicologia dinamica si è sempre co ncentrata sulla cura delle psicopatologie conclamate, evitando di d isperdere le proprie energie nello studio di fenomeni psichici c he esulassero dagli interessi più strettamente clinici, come è ap punto il caso della psicologia della meditazione. Inoltre la riduttivistica interpretazione freudiana in chiave unicamente regressiva e psicopatologica dei fenomen i mistici, visti come ritorno al 'sentimento oceanico' e all'o nnipotenza infantile del 'narcisismo primario', ha pesantement e condizionato i successivi studi psicoanalitici sulla meditazione orientale, erroneamente omologata tout court all'esperienza mi stica, anche a causa di una scarsa documentazione specialistica in materia . In realtà, le psicologie orientali offrono un quadr o molto diversificato dell'esperienza meditativa. Per esemp io, la meditazione di consapevolezza rivolta all'hic et nu nc della vita quotidiana - quale per esempio è attestata nella pr atica del satipa ŃŃhāna buddhista o del s ākśin ved āntico - non ha nulla a che

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fare con gli stati estatici del misticismo e mostra invece sorprendenti parallelismi con l''attenzione omogene amente sospesa' prescritta da Freud come indispensabile viatico per lo psicoanalista . D'altra parte, le pratiche meditative di quiete men tale basate sulla concentrazione - come la via samatha buddhist a o il sam ādhi yogico - comprendono una vasta fenomenologia di esp erienze, alcune delle quali potrebbero anche essere definite - fors e impropriamente - 'mistiche' ed 'estatiche' , ma le tradizioni orientali stesse mettono in guardia contro i perico li di restare intrappolati in questi stati non ordinari di coscie nza estremamente piacevoli ed ammalianti, anziché usarl i come strumenti di purificazione mentale (cittavisuddhi) al fine di investigare la natura profonda della realtà . Soltanto in anni recenti, come si è detto, alcuni e sponenti del mondo psicoanalitico hanno cominciato ad accorgersi delle potenzialità implicite nel dialogo interculturale f ra le discipline meditative orientali e la psicologia din amica di Freud. Tale dialogo risulta particolarmente proficuo sul v ersante della prassi, dove le affinità appaiono più evidenti. PRINCIPI DI COMPARAZIONE In una prospettiva di comparazione interculturale, la psicoanalisi e la meditazione orientale convergono su alcuni pri ncìpi fondamentali che occorre limitarsi a definire 'isom orfici' anziché identici, perché inseriti in contesti differenti, i n cui i mezzi e i fini divergono profondamente. Tali princìpi comuni alle due discipline, che delin eano una vasta area di affinità nell'ambito della quale è poi poss ibile enucleare le differenze specifiche, si possono riassumere nel modo seguente: 1. La sofferenza mentale deriva dal conflitto o att rito fra una distorta percezione della realtà e la realtà stessa , che dà luogo a schemi di comportamento ripetitivi, compulsivi e disadattati. 2. Le distorsioni percettive e comportamentali sono condizionate da pulsioni, conflitti e dinamiche di natura incons cia, che la stessa inconsapevolezza continuamente rinforza. 3. Pertanto la radice della sofferenza mentale cons iste in uno stato di inconsapevolezza, ignoranza o nescienza, i n cui il concetto di 'errore' sostituisce quello di 'peccato ' e di 'male'. 4. Di conseguenza, la chiave per liberare la mente dalla sofferenza consiste nello sviluppo, intensificazion e e approfondimento della consapevolezza, sotto forma d i un'attenzione non selettiva e non giudicante. Nell'ambito di queste convergenze, possono ora appa rire più chiaramente le differenze specifiche fra i due appr occi. LA PROSPETTIVA PSICOANALITICA Storicamente e culturalmente, la psicoanalisi provi ene da una matrice clinica e mira alla guarigione da una soffe renza mentale di tipo psicopatologico. In altri termini, si occup a dei disturbi

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comportamentali e delle distorsioni percettive di t ipo soggettivo, ossia condizionati da dinamiche inconscie personali (BERGONZI 1998). La sofferenza psicopatologica comprende due diversi livelli: (a) una profonda angoscia inconscia proveniente dalle t racce nascoste di traumi, conflitti o arresti evolutivi del passat o, la cui rimozione genera (b) una forma più superficiale e s intomatica di sofferenza conscia. Investigando la seconda come un a copertura della prima (ossia risalendo dal sintomo superficia le alla sua profonda radice inconscia), la psicologia dinamica smaschera i meccanismi di difesa che cercano di evitare un cont atto diretto della coscienza con l'angoscia repressa e le sue ca use inconscie. Soltanto attraverso una profonda consapevolezza del rimosso, dei traumi passati, dei bisogni negati, delle pulsioni represse, dei conflitti e delle dinamiche incoscie, è possibile r ettificare le distorsioni percettive e comportamentali di tipo ps icopatologico. Dunque lo scopo evolutivo primario della psicologia dinamica è quello di favorire l'integrazione di un Io sano, be n adattato all'ambiente esterno e alle proprie pulsioni intern e . Una volta 'guarito', il paziente non è più preda di soggettive distorsioni della percezione e diviene partecipe de lla stessa visione della realtà condivisa dalle persone cosidd ette 'normali'. La sparizione della soggettiva sofferenza psicopato logica cede il passo a quella che Freud ha definito la 'normale in felicità' di chi è 'sano'. Con l'adempimento del proprio compito, dunque, la p sicologia dinamica ha eliminato soltanto la sofferenza psicop atologica soggettiva. Ciò che resta è un'altra forma di disag io e sofferenza, non più patologica, ma condivisa da tut ti gli esseri umani: la sofferenza esistenziale , che richiede un diverso livello di consapevolezza, di natura appunto medita tiva. LA PROSPETTIVA DELLA MEDITAZIONE ORIENTALE La meditazione orientale proviene da una matrice sp irituale: di conseguenza, si rivolge a praticanti già mediamente 'sani' (cioè in possesso di un Io integrato). La sofferenza che intende guarire è esistenziale (e non, dunque, soggettiva e patolog ica), ossia condivisa da tutti gli esseri umani non ancora illu minati: essa nasce dall'oscura, negata, ma ineliminabile coscien za della nostra vulnerabilità in quanto esseri umani (soggetti a ma lattia, vecchiaia e morte) e del fatto che nessuna esperien za, entro l'orizzonte della nostra esistenza condizionata, pu ò darci quella pace profonda, quella felicità assoluta che tutti n oi cerchiamo (BATCHELOR 1984; BERGONZI 1996, pp.15-17; 1998). Di conseguenza, la 'guarigione' da questo tipo di s offerenza è possibile soltanto col 'risveglio', quando cioè la mente si apre a una dimensione oltre l'Io, al di là di nascita e mo rte. Nell'analisi buddhista della sofferenza esistenzial e (dukkha), per esempio - come nell'analisi della sofferenza psicop atologica secondo la prospettiva psicoanalitica - esistono du e livelli di sofferenza mentale: (a) un'angoscia profonda sotter ranea (la rimossa consapevolezza della nostra vulnerabilità i n quanto esseri

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umani) e (b) un'ansia conscia più superficiale (dis trazioni, preocupazioni, desideri, speranze e paure concernen ti la nostra vita quotidiana) che svia la nostra attenzione dall 'inquietante impatto col grande mistero della vita e della morte . Con la pratica meditativa della consapevolezza, app licata alla superficiale insoddisfazione quotidiana, prima o po i il meditante giunge a confrontarsi con la più profonda e rimossa angoscia esistenziale . Nella meditazione la pratica della consapevolezza s i rivolge dunque alle distorsioni collettive e convenzionali della cosiddetta percezione 'normale' della realtà, che g enera la sofferenza esistenziale attraverso l'illusoria rapp resentazione concettuale di 'entità' apparentemente individuali, separate e soggette a nascita e morte (BERGONZI 1998). In altr i termini, secondo gli approcci meditativi orientali tutti gli esseri umani non risvegliati condividono una descrizione convenz ionale della realtà che scambiano per la realtà stessa: tale ill usione collettiva è chiamata percezione dualistica. Infatti comunemente percepiamo la realtà attraverso i filtri del pensiero concettuale e del linguaggio, i quali fram mentano l'indivisa totalità del reale in sequenze lineari e diacroniche di molteplici 'entità' apparentemente solide, separate e permanenti. Subito dopo, la mente rimuove la consapevolezza che tale percezione è soltanto convenzionale, ossia condizio nata dalla sovrapposizione sul reale di schemi concettuali e l inguistici che si trovano solo nella mente e non nelle cose. Finia mo così per confondere la mappa con il territorio o per mangiar e il menù al posto del pranzo (WATTS 1994, p.99): vale a dire, s cambiamo le griglie concettuali, attraverso cui percepiamo la r ealtà, per la realtà stessa . Come le distorsioni percettive psicopatologiche nas cono da meccanismi difensivi che cercano di evitare la cons apevolezza di esperienze traumatiche e dolorose (creando però in tal modo altra sofferenza), così le distorsioni prodotte dalla per cezione dualistica, generando l'illusione di un 'io' solido , separato e immune al cambiamento, hanno anch'esse uno scopo di fensivo: evitare l'angoscia che nasce dalla consapevolezza d ella nostra mortalità e vulnerabilità in quanto esseri umani in capaci di sottrarci alla legge del cambiamento universale. Secondo l'analisi esistenziale buddhista, la percez ione angosciosa che tutto (compresi noi stessi) è in continua trasf ormazione genera un pervicace attaccamento a griglie concettu ali e linguistiche attraverso cui creiamo la falsa vision e di un mondo fatto di entità solide, separate e permanenti. Ma, poiché la consapevolezza del nostro 'essere-per-la-morte' sop ravvive comunque ai margini della nostra coscienza e l'illu soria percezione dualistica crea continui attriti con la realtà così com'è, anche in questo caso (come per le distorsion i psicopatologiche) il risultato è una forma di soffe renza, di tipo esistenziale (BATCHELOR 1984; 1997). Scopo della consapevolezza meditativa è dunque mett ere in discussione la normale percezione dualistica della realtà,

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smascherandone la natura condizionata e convenziona le, e aprire la mente a una visione non frammentata del reale; ment re invece la consapevolezza psicoanalitica si propone di prender e coscienza delle distorsioni percettive di natura patologica e soggettiva, al fine di integrare le parti rimosse nella psiche tot ale e raggiungere un buon grado di adattamento alle pulsi oni interne e alla realtà condivisa (BERGONZI 1982b; 1998). In altri termini, il compito evolutivo dell'approcc io meditativo non è più - come nella psicologia dinamica - quello di integrare un Io frammentato e diviso (la cui coesione e sanit à sono qui date per scontate fin dall'inizio), ma di andare oltre l 'Io, oltre la divisione fra sé e l'altro da sé. IL POLO OSSERVANTE E IL POLO SPERIMENTANTE Le differenze rilevate in precedenza rendono conto della diversità nei metodi impiegati dalla psicologia dinamica e da lla meditazione orientale nello sviluppo della consapevolezza. Nella psicologia del profondo, la consapevolezza op era nell'ambito di una relazione diadica in cui il paziente, attrav erso la libera associazione, sperimenta fantasie, immagini, pensie ri, emozioni, sensazioni che via via comunica al terapeuta, il qu ale osserva in silenzio il materiale al fine di comprenderlo e res tituire poi tale comprensione sotto forma di interpretazione. Dunque, all'inizio soprattutto, la funzione osserva nte è prevalentemente delegata al terapeuta, mentre il pa ziente assume maggiormente una funzione sperimentante (GREENSON 1 967, pp.42-44 e 298-303). Grazie all'interazione analitica, ognuno dei due, m an mano, sviluppa in sé l'altra funzione complementare: il p aziente deve gradualmente imparare a osservarsi e comprendersi ( = interiorizzazione della funzione terapeutica), riap propriandosi così di una capacità che ha dovuto momentaneamente delegare all'analista, perché era troppo coinvolto e identif icato con le proprie dinamiche psicopatologiche per poterle esam inare da un punto di vista più oggettivo e panoramico; il terap euta, dal canto suo, deve sensibilizzare un polo sperimentante dent ro di sé, perché, se non comincia a provare ciò che sente il paziente, gli sarà preclusa quella grande fonte di insight e di c omprensione che è l'empatia (GREENSON 1967, pp.303-309). Ma all'inizio, come si è detto, il paziente può ess ere più o meno carente nella capacità di osservare da solo il mate riale così coinvolgente della propria patologia (soprattutto n ei casi di un precoce arresto evolutivo dell'Io), e perciò delega la funzione osservante al terapeuta, interiorizzandola solo in un secondo tempo. Nella pratica meditativa della consapevolezza, inve ce, fin dall'inizio è richiesta la capacità d'instaurare de ntro di sé un'interazione bipolare fra polo osservante e polo sperimentante : ciò esige la presenza di un Io già sufficientemente integrato ad un livello minimo di sanità di base . Un paziente con struttura di personalità borderline , per esempio, la cui patologia comprende una seria dispersione de ll'identità

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(KERNBERG 1984, pp.15-66), per molto tempo sarà cos tretto in terapia a delegare in gran parte all'analista il po lo osservante, finché una maggiore integrazione dell'Io non gli pe rmetterà di assumerlo su di sé. In casi come questo, intraprendere un cammino medit ativo (che richiede, come si è visto, un livello minimo di san ità mentale, capace di instaurare fin dall'inizio dentro di sé u n polo osservante che non sia completamente coinvolto nei meccanismi psicopatologici) sarebbe non solo inefficace, ma an che controproducente o addirittura pericoloso : se manc a un punto d'osservazione esterno alla propria patologia, la m editazione non è più tale, ma si trasforma essa stessa in un'espre ssione patologica. Allora un meditante che soffra, per esempio, di una dispersione d'identità accompagnata da difese schizoidi (che gl i conferiscono un fallace senso di impassibilità, freddezza ed est raniazione da ogni legame affettivo, accompagnate talora da esper ienze di de-personalizzazione) s'illuderà di essere molto avant i sul cammino verso il trascendimento dell'Io e verso un male int eso distacco dalle cose del mondo, usando in realtà la meditazio ne per rafforzare la propria patologia . E' dunque di cruciale importanza comprendere che la meditazione non è una psicoterapia. Accade di frequente che persone sofferenti di ansia , fobia o depressione si rivolgano alla meditazione per cerca re un sollievo al proprio disagio. Ma, se la loro vita è troppo di sordinata, se la loro psiche è troppo squilibrata, meditare non l i farà stare meglio e in molti casi aumenterà anzi la percezione della propria ansia: la consapevolezza meditativa, infatti, agisc e spesso come uno specchio - a volte impietoso - che riflette la nostra situazione così com'è, senza condanne né assoluzion i. Se ci sono aree della nostra vita e della nostra psiche dove è necessario mettere ordine, lo specchio della meditazione potrà solo rifletterne il disordine, smascherando le nostre ir realistiche illusioni, ambizioni spirituali e difese a riguardo . Per queste ragioni, in genere chi abbia una situazi one di vita particolarmente problenatica, disarmonica, conflitt uale o squilibrata viene vivamente sconsigliato di parteci pare a lunghi ritiri di meditazione intensiva . Troppo spesso i r itiri di meditazione vengono usati come alibi per non affron tare i propri problemi e compensarli attraverso l'assunzione di f alse identità . Dunque, l'utilizzo improprio della meditazione come psicoterapia da parte di persone con gravi turbe psichiche e car enze evolutive dell'Io non solo è per lo più inefficace, ma può an che risultare controproducente o persino pericoloso per l'equilib rio psichico. LA LIBERA ASSOCIAZIONE Nella psicologia del profondo, la consapevolezza è il cuore stesso dell'atteggiamento psicoterapeutico, il quale, in q uanto orientato verso la guarigione, è presente - anche se in misur a diversa - sia nell'analista sia nel paziente: ogni guarigione psi chica è infatti anche un'autoguarigione.

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Nella libera associazione (FREUD 1913, pp.55-57; GR EENSON 1967, pp.31-32; GILL 1994, pp.85-107), il paziente cerca di osservare e comunicare al terapeuta il materiale emergente di m omento in momento nella sua psiche (pensieri, immagini, fanta sie, emozioni, sensazioni) senza scegliere, giudicare, selezionare o censurare alcunché, in modo che possano aver voce anche quell e parti e risorse inconscie usualmente bandite dalla coscienz a perché considerate vergognose, paurose, sconvenienti, insi gnificanti, oppure semplicemente ignote . Esprimere il flusso dei contenuti mentali senza evi tare nulla significa sospendere i filtri difensivi che stabili scono a priori ciò che per la coscienza unilaterale del paziente è importante oppure no. Se il paziente intraprende un'osservazio ne non selettiva del materiale psichico, comunicandolo sen za alcuna censura al terapeuta, allora il suo Io cosciente ma nipolerà sempre meno il flusso dei contenuti psichici, da cui potra nno affiorare tutte quelle parti di sé che per troppo tempo sono rimaste relegate in un limbo inconscio e potranno così pren der voce anche le fonti inconsce di autoguarigione finora inascolt ate. Paradossalmente, dunque, il rafforzamento dell'atte nzione cosciente, a patto che sia non selettiva e non giud icante, favorisce l'emersione dei contenuti inconsci, insta urando un proficuo dialogo con essi (JUNG 1958). Nella libera associazione, dunque, il paziente - no nostante il suo coinvolgimento con la funzione sperimentante - deve allenarsi ad osservare il materiale psichico con atteggiamento r icettivo, attraverso una sospensione della funzione censoria, giudicante e selettiva che rieccheggia da vicino la pratica dell a consapevolezza meditativa aperta, chiamata satipa ŃŃhāna nel buddhismo o del 'testimone' (s ākśin) nel ved ānta . In questi contesti sapienziali si sottolinea infatti l'import anza di praticare nell'hic et nunc un'attenzione aperta, ac cettante e non giudicante, purificata dai filtri concettuali che d istorcono la percezione diretta della realtà così com'è . L'ATTENZIONE OMOGNEAMENTE SOSPESA Dal canto suo, il terapeuta adotta una forma di con sapevolezza descritta da Freud come attenzione omogeneamente so spesa o attenzione fluttuante (FREUD 1912, pp.34-5), vale a dire osservare il materiale del paziente in atteggiamento ricettiv o, senza selezionare, giudicare o censurare alcunché e senza le interferenze dei propri pregiudizi ideologici o del le proprie tendenze emotive. Freud chiarisce che il terapeuta deve astenersi dal dirigere deliberatamente la propria attenzione verso specifi ci contenuti, mantenendo invece un atteggiamento di aperta ricett ività senza scelta e cercando di purificare la propria attenzio ne da aspettative (proiezioni sul futuro), inclinazioni ( condizionamenti del passato) e riflessioni (filtri concettuali e op inioni preconcette):

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Questa tecnica è (...) molto semplice. Essa (...) c onsiste semplicemente nel non voler prendere nota di nulla in particolare e nel porgere a tutto ciò che ci capita di ascoltar e la medesima 'attenzione fluttuante'. (FREUD 1912, p.34) L'esperienza ha ben presto mostrato che l'atteggiam ento più vantaggioso da adottare da parte dell''analista era quello di lasciarsi andare alla propria inconscia attività ps ichica, in uno stato di attenzione omogeneamente sospesa, di evita re quanto più possibile la riflessione e la costruzione di aspett ative conscie, e di non cercare di fissare nella memoria alcunché di particolare che egli abbia udito. (FREUD 1937) Altrove Freud specifica che tale purificazione dell 'attenzione, che va resa quanto più possibile non selettiva e no n giudicante, è un processo speculare che riguarda sia il terapeuta sia il paziente: La norma di prender nota di ogni cosa in modo unifo rme è il corrispettivo necessario di quanto si pretende dall 'analizzato, e cioè che racconti senza sottoporre a critica e sele zione tutto ciò che gli passa per il capo. (...) Come l'analizzato deve comunicare tutto ciò che rie sce a cogliere mediante l'autosservazione a prescindere da ogni ob biezione logica e affettiva che intendesse indurlo ad operare una s elezione, così il medico deve mettersi in condizione di utilizzare tutto ciò che gli viene comunicato ai fini dell'interpretazione ( ...): egli deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricev ente verso l'inconscio del malato. (...) La riuscita migliore si ha (...) nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombr a e senza preconcetti (FREUD 1912, 34-38). W. Bion ha ulteriormente sviluppato questo punto cr uciale, suggerendo che la consapevolezza del terapeuta dev' essere libera da desiderio (= aspettative), memoria (= inclinazio ni) e attività mentale (= riflessioni), per rendersi totalmente ri cettiva a quell'ignota, inconoscibile sorgente di ogni esperi enza che è il momento presente (il cosiddetto 'punto 0'), il che implica un atteggiamento da conquistare con una ferrea discipl ina mentale: E' importante che l'analista eviti l'attività menta le, la memoria e il desiderio, i quali sono tanto dannosi alle sue condizioni mentali di forma quanto alcuni tipi di attività fis ica sono dannosi a una condizione fisica di forma. La capacità di dimenticare e l'abiltà di astenersi dal desiderio e dalla comprensione debbono essere considerate come obbiettivi di una disciplina essenziale per l'analista. L'incapac ità di esercitare questa disciplina condurrà ad uno stabil e deteriorarsi dei poteri di osservazione, il cui mantenimento è i nvece essenziale. La vigile sottomissione a tale discipli na accrescerà gradualmente i poteri mentali dell'analista, nella stessa

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proporzione in cui le manchevolezze in tale discipl ina li debiliteranno (BION 1970, pp. 60 e 73). Anche qui le affinità con la meditazione orientale sono puntuali (EPSTEIN 1995, pp.100-116). Nella tradizione buddhista del satipa ŃŃhāna, per esempio, si coltiva una specifica forma di 'attenzione pura' (s ati), aperta cioè a qualsiasi esperienza emerga nel presente sen za alcuna previa selezione, vale a dire senza che l'interfere nza del pensiero o dell'emozione restringa il campo della c onsapevolezza soltanto a porzioni limitate del proprio orizzonte esperienziale. In tal modo vengono neutralizzati i filtri condizio nati che incasellano la realtà in pattern abituali tendenti a ignorare ed escludere ciò che non rientra nello schema e a rico ndurre la freschezza dell'ignoto alla scontata prevedibilità del noto (NYANAPONIKA 1962). Nello zen s ōt ō si raccomanda la coltivazione di una 'mente di principiante' (shoshin) capace - grazie ad un soste nuto esercizio dell'attenzione cosciente - di aprirsi alle esperie nze abituali ogni volta come se fosse la prima, senza dare nulla per scontato, con la stessa meraviglia di un bambino . A parte Bion, i successori di Freud hanno per lo pi ù trascurato il tema cruciale dell'attenzione fluttuante e, nei poc hi casi in cui se ne sono occupati, lo hanno quasi sempre travisat o e banalizzato . Ciò è probabilmente dovuto al fatto che diventa p ressoché impossibile instaurare e stabilizzare l'attenzione fluttuante senza un previo e specifico training, su cui né Fre ud né Bion (a differenza degli approcci meditativi orientali) han no lasciato esaurienti istruzioni . Ciò sembra ricollegarsi ad una più generale carenza di tutto il pensiero scientifico occidentale, che ha dato tropp o per scontato lo strumento dell'attenzione (ossia la capacità di osservare), senza sondarne a sufficienza i possibili livelli d' intensità, trasparenza e profondità raggiungibili attraverso s pecifiche discipline, come quelle meditative orientali. L'ide a di 'praticare' l'attenzione è pressoché estranea a gra n parte della psicologia occidentale (NEEDLEMAN 1975, p.98). La meditazione di consapevozza potrebbe dunque cost ituire uno strumento prezioso - se non addirittura indispensab ile - per ogni psicoterapeuta veramente desideroso di sviluppare u n'attenzione omogeneamente sospesa che non sia né flebile né dis continua (EPSTEIN 1995, pp.163-164). IL SETTING E IL REGIME DI ASTINENZA Come un seme ha bisogno di terreno fertile per cres cere, così la consapevolezza analitica necessita di un 'campo ter apeutico' fatto da regole che evitino ogni dispersione dell'energia psichica: il setting analitico e il regime di astinenza. Secondo il concetto freudiano di 'coazione nevrotic a a ripetere' (FREUD 1914a; EPSTEIN 1995, pp.161-179) - che mostr a sorprendenti affinità con le dinamiche del meccanismo karmico de scritte dallo yoga e dal buddhismo - ciò che non riusciamo a rico rdare (o,

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meglio, a integrare nella coscienza), siamo costret ti a ripetere compulsivamente nelle nostre azioni. Infatti ciò ch e la mente nevrotica ha rimosso e reso inconscio esercita una continua pressione psichica verso lo scarico attraverso agìt i ripetitivi che lo mantengono nascosto alla coscienza. In altri termini, le forme di gratificazione nevrot ica sono tentativi di scaricare nell'azione e mantenere inco nsci i conflitti rimossi (troppo dolorosi da riconoscere e accettare coscientemente) al fine di ottenere un sollievo mom entaneo dalla loro insopportabile pressione. Il setting analitico e il regime di astinenza miran o a invertire questo processo: impedendo ogni impropria gratifica zione nevrotica, obbligano la pressione conflittuale inco nscia a venire allo scoperto nella sua vera forma senza più celars i in azioni di scarico, in modo da rendersi così disponibile alla consapevolezza analitica. In altri termini, la compulsiva e ripeti tiva azione di scarico nevrotica viene riconvertita in una conscia esperienza cognitiva ed emotiva. Come, nel simbolismo alchemico, il vas hermeticum è un contenitore sigillato dove l'opus alchemicum può realizzare una trasformazione dell'energia senza alcuna dispersione della pressio ne necessaria, così il setting analitico rende la pressione nevrot ica di nuovo disponibile alla coscienza, in modo che la sua ener gia possa essere utilizzata a fini terapeutici (JUNG 1943; 19 46). Freud formula chiaramente il regime di astinenza ne l modo seguente: Il trattamento analitico deve essere condotto, per quanto possibile, in stato di privazione, di astinenza. (. ..) Per quanto possa suonare crudele, dobbiamo fare in modo che la sofferenza del paziente raggiunga un grado tale da essere in un mo do o nell'altro efficace, e che non cessi prematuramente (FREUD 191 9, pp. 22-23) . Il regime di astinenza (FREUD 1914b, 1919; GREENSON 1967, pp.230-234) mira dunque ad evitare fra paziente e terapeut a ogni forma di impropria gratificazione nevrotica e di interazione concreta (non precedentemente codificata) che sia diversa dall'os servare e dal comprendere. Si tratta fondamentalmente di astenersi dall'agire al fine di comprendere, invertendo quel processo di coazione a ripetere per cui siamo obbligati a ripetere nelle nostre azioni ciò che non riusciamo a ricordare. Anche qui vige una certa specularità: osservando e verbalizzando il proprio materiale psichico, anziché lasciarsi ma novrare compulsivamente da esso attraverso azioni di scaric o (acting out) che ne celano le motivazioni profonde, il paziente si astiene dall'azione al fine di comprendere; esattamente com e, astenendosi dall'agire nei confronti del paziente (attraverso, per esempio, consigli, direttive, contatti fisici, opinioni pers onali, ecc.), il terapeuta approfondisce ed amplia le proprie cap acità di empatia e di insight al fine di comprendere e inter pretare le dinamiche del paziente senza dannose interferenze. In altri

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termini, il regime di astinenza garantisce uno spaz io terapeutico ottimale perché l'attenzione non selettiva possa fu nzionare al meglio, nell'ambito di un rigoroso setting analitic o (LANGS 1973-4; 1985). Da questo punto di vista, le somiglianze con gli ap procci meditativi orientali appaiono evidenti. Anche le se dute formali di meditazione comportano un preciso setting (immobili tà corporea, silenzio, aderenza a uno specifico supporto meditat ivo, ecc.) che stabilizza l'attenzione senza sprechi di energia e le permette di osservare il flusso degli eventi psichici senza sca ricare questi ultimi in azioni corporee volontarie che li nascond erebbero alla coscienza . Sia per la psicoanalisi sia per la meditazione orie ntale, dunque, le dinamiche psichiche disturbanti possono celarsi alla coscienza in due modi diversi e interdipendenti: tramite la r imozione e/o tramite azioni di scarico (coazione a ripetere). In entrambi i casi, esse non sono più visibili alla coscienza, si cché, al fine di percepirle, la consapevolezza deve operare entro un setting appropriato, la cui funzione è riconvertire l'energ ia psichica dall'agire al comprendere. In questa prospettiva, astenersi dall'agire in pred a a inclinazioni, aspirazioni, desideri o teorie precon cette, limitandosi a osservare per comprendere, implica un a rinuncia all'idea (radicata in un senso di infantile onnipot enza) che la coscienza del terapeuta possa fare qualcosa di deli beratamente attivo e volontaristico per influenzare e aiutare i l paziente. Ciò rieccheggia molto da vicino il concetto taoista e ch'an di 'non azione' (wu-wei) (WATTS 1975). La rinuncia psi coanalitica ai metodi direttivi, educativi o suggestivi - in breve la rinuncia a un'azione che sia diversa da quella di osservare, c omprendere e interpretare - presuppone la fiducia in un processo autonomo di autoguarigione che spontaneamente, indefessamente e quasi impersonalmente cerca la propria via, se soltanto v engono rimossi gli ostacoli che ne rallentano od occludono la cres cita . In altri termini, la coscienza non ha bisogno di 'fare' alcu nché, se non ampliare e approfondire se stessa in misura tale da poter accompagnare il processo nei suoi modi e tempi, pro teggendolo da interferenze che ne blocchino o rallentino il corso . CONSAPEVOLEZZA ANALITICA E MEDITATIVA Come si è visto, esistono rilevanti convergenze fra l'approccio psicoanalitico e l'approccio meditativo orientale n ella descrizione della consapevolezza trasformativa. L'attenzione omogeneamente sospesa, concepita dalla psicologia dinamica come un'osservazione non selettiva e non g iudicante del momento presente , libera da inclinazioni (Freud) o memoria (Bion) (ossia sovrapporre al presente condizionamenti del passato), da aspettative (Freud) o desideri (Bion) (ossia sovrap porre al presente proiezioni sul futuro) e da riflessioni (F reud) o attività mentale (Bion) (ossia sovrapporre al prese nte filtri concettuali e opinioni preconcette) mostra sorprend enti affinità con la pratica della consapevolezza meditativa, che per esempio in

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vari testi buddhisti è indicata come una forma di a ttenzione capace di osservare in profondità l'hic et nunc sen za attaccamento né al passato (inclinazioni/memoria) né al futuro (aspettative/desideri) e, per quello che riguarda i l presente, libera da tutti i filtri concettuali e linguistici (riflessioni/attività mentale) attaverso cui si cos truisce una percezione condizionata della realtà. D'altra parte, la somiglianza del metodo non cancel la le diverse finalità dei due approcci. Nella psicologia del profondo, la coltivazione dell a consapevolezza è mirata ai contenuti inconsci e fin alizzata alla risoluzione dei conflitti patologici: l'attenzione non selettiva e non giudicante permette di accedere a materiali psi chici usualmente scartati dalla coscienza come sconvenien ti, irrilevanti, inutili o vergognosi, nei quali però è possibile ascoltare le ragioni di tutte le parti psichiche ri mosse, frustrate, negate, accedendo così a una fonte di au toguarigione sconosciuta all'ordinaria coscienza egoica, che per sua natura tenderebbe a scoprire soltanto ciò che già sa. Nell'approccio psicoterapeutico, dunque, il pazient e cerca di divenire consapevole dei propri conflitti perché se ne vuole liberare: perciò si sforza di comprendere la propri a storia personale, le ferite che ha ricevuto, ciò che è nas costo dentro di sé, le pulsioni bloccate, il modo in cui vive e fil tra la realtà, tutto al fine di dissolvere i conflitti e ottenere un'esistenza più viva e sana. Ciò che conta, in questo caso, è d unque prendere coscienza dei contenuti psichici che riguardano le proprie prigioni emotive, i blocchi, la storia personale, i traumi passati. Nella meditazione, invece, ciò che più conta non so no i contenuti, ma la consapevolezza stessa, vista come una dimensi one misteriosa e profonda che, resa sempre più viva e intensa dall a pratica meditativa, può diventare la porta verso l'incondiz ionato, verso ciò che si estende al di là di nascita e morte (PEN SA 1979; BERGONZI 1982a; 1982b; 1998; ENGLER 1986, p.22). Qui l'attenzione viene pertanto coltivata come fine a se stessa, mentre i mutevoli contenuti specifici servono solta nto ad intensificare l'attenzione e rivelare lo sfondo acc ogliente della consapevolezza, che arriva ad acquisire una valenza spirituale di libertà incondizionata. I contenuti psichici sono s oltanto, per usare una felice metafora di C. Pensa, il 'combusti bile' gettato nel braciere dove arde la fiamma della consapevolez za: una fiamma che da semplice funzione mentale diventa l'indicato re di una dimensione transpersonale (PENSA 1979, pp.120-121). Per riassumere, la consapevolezza analitica è preva lentemente diretta ai contenuti mentali soggettivi collegati a lla psicopatologia, senza alcun interesse per la qualit à o l'intensità dell'attenzione, mentre la consapevolezza meditativ a è prevalentemente interessata alla consapevolezza ste ssa come indicatore dell'incondizionato, mentre i contenuti diventano irrilevanti.

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Di conseguenza, i due diversi approcci hanno svilup pato specifiche competenze: da un lato, la meditazione orientale ha elaborato un articolato training dell'attenzione per pacificare, purificare e intensificare la consapevolezza, che ritorna alla p ropria intrinseca sorgente al fine di vedere in profondità la vera natura della mente e della realtà; dall'altro, la psicolog ia dinamica ha escogitato un metodo per decodificare i messaggi ci frati delle dinamiche inconscie al fine di comprendere aspetti sconosciuti della psiche individuale. FENOMENOLOGIA DELLA CONSAPEVOLEZZA MEDITATIVA L'interesse per la consapevolezza in se stessa anzi ché per i suoi contenuti ha portato gli approcci meditativi orient ali a coltivare e investigare una vasta gamma di stati di coscienza la cui profondità e varietà è sconosciuta alla psicologia occidentale. Infatti la meditazione orientale ha elaborato un ar ticolato e complesso training dell'attenzione che ne increment a l'intensità e la capacità di penetrazione. Una certa quantità minima di attenzione è sempre pr esente e necessaria allo stato di veglia (e anche di sogno), ma si trova in una condizione frammentata e depotenziata (in termi ni buddhisti: ayoniso-manasik āra), in quanto costantemente trascinata e dispersa in tanti rivoli diversi, a causa della sua identifi cazione con l'incessante flusso dei mutevoli contenuti mentali che l'imprigionano. Di qui la necessità di allenare l'a ttenzione attraverso una diciplina meditativa vòlta a realizz are uno stato di consapevolezza intensa, stabile ed aperta (in te rmini buddhisti: yoniso-manasik āra) . Nel buddhismo, per esempio, differenti tecniche med itative vengono variamente combinate insieme: da un lato l'attenzio ne è focalizzata su un solo punto (ekaggat ā), in modo da unificare la coscienza attraverso la concentrazione (sam ādhi), finché non viene realizzata la quiete mentale (samatha); dall'altro, l'attenzione si apre per esplorare in modo non giudicante e non selettivo, di momento in momento, qualsiasi processo psico-fisico si manifesti nel presente (satipa ŃŃhāna), finché non si instaura una consapevolezza spontanea e senza sforzo, diretta al raggiungimento di una profonda visione-comprensione (vipassan ā) della vera natura della realtà (BERGONZI 1980b; KING 1980; SOLÉ-LERIS 1986). La consapevolezza diventa dunque, per gli approcci meditativi orientali, il fulcro dell'esperienza spirituale, in cui la via, la soglia e la mèta del cammino interiore vengono para dossalmente a coincidere. Agli albori dell'antica spiritualità indiana, furon o i mistici redattori delle Upani şad a scoprire che il vero Sé immortale ( ātman) celato nell'uomo s'identifica con la coscienz a, poiché la consapevolezza non è che un riflesso, sulla mente i ndividuale, di ciò che - ad un altro livello - è l'Assoluto (brahm an) (DELLA CASA 1976). I successivi sviluppi della spiritualità indiana el aborarono queste intuizioni, dando loro coerenza sistematica. Il s āmkhya-yoga vede nella falsa identificazione-confusione fr a la pura

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coscienza spirituale (puru şa) da un lato e i contenuti psichici (prak ķti) dall'altro l'origine di ogni sofferenza e nella discriminazione (viveka) fra loro la suprema libera zione (PENSA 1960, 1962; ELIADE 1954). Dal canto suo, il ved ānta non-dualista sottolinea l'importanza della coscienza-testimone ( sākśin) come chiave di volta per comprendere la fondamentale ide ntità fra il proprio Sé ( ātman) e l'Assoluto (brahman) (DEUSSEN 1883; PIANTEL LI 1974). Al di là delle differenze dottrinali, nel buddhismo la consapevolezza viene spesso identificata con l'esse nza della mente, la 'mente luminosa' (pabhassara-citta), la ' mente del risveglio' (bodhicitta), la 'consapevolezza primord iale' (rigpa). Il ch'an-zen ricorre alla metafora dell'oste/ospite per indicare la discriminazione fra consapevolezza e contenuti m entali: il meditante deve sempre più identificarsi con l''oste ' che non si allontana mai dalla locanda (= la consapevolezza-sf ondo sempre presente) discernendone la differenza dall''ospite' , ossia dall'avventore che va e viene (= i contenuti mental i che mutano di momento in momento) (LUK 1960, pp.44-45). LA DECODIFICA DEL LINGUAGGIO INCONSCIO Sia l'approccio meditativo orientale sia la psicolo gia dinamica riconoscono l'esistenza di potenti forze inconscie che condizionano la mente, distorcendone la capacità di percepire e agire correttamente . Tali condizionamenti negativi , che agglutinano e riattivano le impronte inconscie di e sperienze passate (traumi, frustrazioni, paure, blocchi evolu tivi, pulsioni negate), alterando la capacità di vedere e affronta re il presente, creano un continuo attrito con la realtà, foriero d i molteplici forme di sofferenza psichica. D'altra parte, dato che gli approcci meditativi ori entali mirano non tanto a comprendere la natura dei contenuti psi chici personali e individuali, quanto a intensificare la consapevol ezza per comprendere la natura ultima della mente e della re altà, essi non hanno sviluppato alcuna tecnica per investigare i s ignificati specifici attraverso cui la mente inconscia comunic a con la coscienza. L'attenzione meditativa si limita ad oss ervare ciò che affiora alla superficie della coscienza, senza deli beratamente esplorarne le radici sommerse . Poiché invece la psicologia dinamica, a differenza della meditazione orientale, sviluppa la consapevolezza n on come fine a se stessa, ma piuttosto come un mezzo per eliminare i disturbi psicopatologici, focalizzandosi soprattutto sui con tenuti psichici inerenti alla storia e all'esperienza personale del paziente, ha sviluppato un aspetto del tutto sconosciuto alla me ditazione orientale, che rappresenta il suo contributo più or iginale e significativo allo studio della mente: grazie alla scoperta che le dinamiche inconscie si manifestano alla consapevole zza attraverso un linguaggio cifrato che dev'essere decodificato p er garantire l'accesso ai contenuti profondi della psiche, la ps icologia dinamica ha escogitato un'articolato sistema di dec odifica del

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linguaggio inconscio, completamente assente nella m editazione orientale. Partendo dagli indicatori sintomatici e dai messagg i in codice dell'inconscio o derivati (sogni, spostamenti assoc iativi, lapsus, atti mancati, comportamenti inadeguati, ecc.), tale sistema ne individua i profondi significati nascosti e le radi ci inconscie, per poi ricollegarli da un lato ai fattori genetici della passata storia personale e dall'altro alle attuali situazio ni di vita o contesti adattivi (incluso il rapporto paziente/ana lista) che hanno suscitato, come eventi scatenanti, le tension i psichiche prese in esame. Il riconoscimento e la presa di cos cienza, da parte del paziente, di tali significati e connessio ni genera infine una comprensione trasformativa fonte di insi ght terapeutico (LANGS 1981; 1988). Questo aspetto particolare e specifico della consap evolezza psicoterapeutica le permette di guarire efficacemen te profonde psicopatologie inconsce del livello personale, cui la consapevolezza meditativa non potrebbe mai accedere direttamente. Dal canto suo, la consapevolezza meditativa, attrav erso la disidentificazione dai contenuti psichici, crea uno spazio di totale libertà da qualunque stato mentale si manife sti alla coscienza, sfociando in una condizione oltre l'Io p ersonale . D'altra parte, se sono presenti gravi disturbi dell a personalità o patologie profondamente ramificate e radicate nell' inconscio, arriveranno a pervadere e condizionare ogni aspetto della vita cosciente, compresa la pratica meditativa stessa. N e consegue che la 'disidentificazione' dai contenuti mentali incor aggiata dalla meditazione orientale, lungi dall'essere veramente realizzata, sarà facilmente fraintesa ed usata difensivamente p er rafforzare i meccanismi della scissione o della rimozione: è in questi casi che una buona psicoterapia diventa non solo estremament e utile, ma indispensabile . A tutto ciò va aggiunto che la tecnica di decodific a dei messaggi inconsci non ha soltanto una funzione strettamente clinica e psicoterapeutica (ossia applicabile unicamente a ps icopatologie conclamate), ma costituisce anche la base per un'au toanalisi vòlta a prevenire i normali accumuli di stress della via quotidiana (LANGS 1981): una forma, dunque, di 'igiene mentale ' da attuarsi con regolari sedute giornaliere di autoconsapevolez za psicodinamica che potrebbero proficuamente affianca rsi - fatte salve le specifiche differenze di tecnica - alle se dute quotidiane di meditazione. Si profila cioè la possibilità di una cooperazione sinergica e complementare fra psicologia dinamica e meditazione . Ambedue operano infatti, a livelli diversi, una purificazio ne della mente: l'una, sbloccando i profondi conflitti inconsci cui la consapevolezza meditativa non può avere diretto acc esso; l'altra, aprendo sempre più la coscienza a uno sfondo sconfi nato di consapevolezza transpersonale che trascolora nel mi stero dell'incondizionato.

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VERSO UNA SINTESI TEORICA La complementarità fra consapevolezza analitica e c onsapevolezza meditativa ha stimolato l'elaborazione di diversi t entativi di sintesi teorica, soprattutto nell'ambito della 'psi cologia transpersonale', il cui contributo in questo campo di studi è stato rilevante. In questa prospettiva, il cosiddetto 'paradigma tra nspersonale' (WILBER 1977, 1980a,1980b, 1981, 1986; ENGLER 1983, 1986) costituisce un elaborato tentativo di articolare un completo 'spettro della coscienza' capace di graduare gerarc hicamente i diversi stadi evolutivi psicodinamici e meditativi in un unico quadro teorico integrato. Tale paradigma interculturale comprende tre ampie a ree di sviluppo della coscienza (prepersonale, personale e transper sonale) entro cui si delineano due vasti archi evolutivi (ciascun o a sua volta graduato in molteplici stadi e sub-stadi di svilupp o): la mèta evolutiva del primo arco (dal livello prepersonale a quello personale) è la maturazione e l'integrazione di un Io funzionante e ben adattato, ossia di una sana identità personal e; la mèta evolutiva del secondo arco (dal personale al transp ersonale) è un'ulteriore maturazione di tipo spirituale oltre i confini dell'Io. Per semplificare, potremmo dire che gli arresti evo lutivi e i disturbi di maturazione specifici della prima fase danno luogo a turbe di natura psicopatologica che vanno trattate con la psicoterapia, mentre quelli specifici della seconda fase causano disturbi di natura esistenziale o spirituale e vann o trattati con la meditazione. Per quanto valido e ben fondato questo paradigma po ssa apparire a un livello generale, tuttavia la sua schematica ger archia di stadi evolutivi, se interpretata troppo rigidamente, corr e il rischio di frammentare in astratti compartimenti stagni la mis teriosa fluidità della vita psichica, in cui i vari livelli continuamente interagiscono e si mescolano tra loro, in modi spes so imprevedibili . Infatti, una scansione temporale troppo rigida e sc hematica delle varie fasi evolutive e degli specifici trattamenti da applicare ad esse (psicoterapeutici prima, meditativi poi) non r ende conto delle esperienze di tipo transpersonale che possono talvolta emergere nel corso di una psicoterapia; o, per conv erso, della guarigione da alcune forme di psicopatologia che pu ò a volte avvenire come effetto collaterale di un percorso me ditativo; o, ancora, di quei casi - infrequenti, ma ben attestat i - di persone che, pur soffrendo di consistenti turbe psichiche, hanno tuttavia vissuto esperienze d'indubbio spessore spirituale. IL PROBLEMA DELL'IDENTITA' Inoltre, la concezione troppo generica e lineare di un 'Io' prima da rafforzare con la psicoterapia e poi da trascend ere con la meditazione ha gradualmente rivelato i propri limit i, cedendo il passo ad una prospettiva meno superficiale e sempli cistica(EPSTEIN 1988; 1995).

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In altri termini, anziché accontentarsi della gener ica teorizzazione (che può essere convalidata soltanto a un livello grossolano e approssimativo) secondo cui la psicote rapia deve preventivamente rafforzare e integrare un'Io che va successivamente dissolto o trasceso attraverso la p ratica meditativa, occorre investigare più in profondità c he cosa s'intenda per 'Io'. Infatti il termine 'Io' viene spesso usato per indi care due ben distinte realtà psichiche: le funzioni dell'Io e le immagini del sé . Le funzioni dell'io operano come interfaccia fra mo ndo esterno e mondo interno, organizzando i dati sensoriali in co strutti percettivi, gestendo il sistema linguistico, concet tuale, simbolico, emotivo e mnemonico, mediando lo scarico delle pulsioni interne con le esigenze delle situazioni esterne, r egolando le azioni motorie, e così via. Le immagini del sé sono invece le molteplici e cang ianti rappresentazioni di sé stessi con cui costruiamo co ntinuamente la nostra identità. A differenza delle funzioni dell'i o, dunque, le immagini del sé non sono funzioni psichiche, ma con tenuti convenzionali della mente che appartengono al siste ma cognitivo: la loro funzione adattiva è quella di integrare un sano senso di identità personale per armonizzare la mente con le esigenze interne ed esterne, attraverso la comunicazione con venzionale. Ma la loro funzione adattiva, integrativa e comunic ativa dura soltanto finché le immagini del sé rimangono abbast anza flessibili da mantenere una fluida ed elastica aderenza alle s ituazioni della vita. Molto facilmente, però, s'irrigidiscono a sco pi difensivi, reificandosi in ruoli fissi e inadeguati, responsab ili di continui attriti col processo della realtà. Dal punto di vista psicodinamico, le immagini del s é hanno una stretta connessione con le relazioni oggettuali int eriorizzate e comprendono una vasta gamma di manifestazioni patol ogiche: possono essere grandiose, onnipotenti, impotenti, inferiori , parziali, legate a derminati ruoli filiali o parentali, ecc. Compito della psicoterapia è eliminare le interferenze che queste autorappresentazioni patologiche esercitano sul nor male svolgersi delle funzioni dell'Io. Dal punto di vista meditativo, la reificata autorap presentazione di se stessi come un 'Io' individuale, permanente e separato (responsabile di ogni limitazione egocentrica forie ra di sofferenza) è considerata la principale immagine di sé su cui va focalizzata l'investigazione meditativa, al fine di dissolverla (EPSTEIN 1988, p.65). Infatti, soltanto quando c'è la rappresentazione dualistica di un soggetto contrapp osto a un oggetto, di un 'io' contrapposto a un 'altro' (appe tibile o minaccioso che sia) possono sussistere desiderio e paura, ossia i principali artefici della sofferenza mentale. Vedendo l'interconnessione e l'unità di ogni fenome no (compresi il soggetto e l'oggetto), la consapevolezza meditativa dissolve i confini psicologici dell'Io, disidentificandosi dal la prigione ristretta in cui si era autoincapsulata (compreso l 'avvicendarsi

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di nascita e morte) e aprendosi alla vastità del re ale, che non nasce e non muore. Un'efficace metafora usata nella letteratura spirit uale dell'India per indicare il passaggio dall'illusorio autoincaps ulamento egocentrico all'intrinseca apertura dell'essere è l a ben nota immagine dell'onda e dell'oceano : chi vive sotto l 'incantesimo dell'illusione egoica, soggetto a nascita e morte, è identificato soltanto con l'onda, che sorge e sparisce; il risve gliato, pur vedendo se stesso anche come onda, sa che essa è fa tta della stessa acqua dell'oceano che non nasce e non muore, sicché non c'è alcuna separazione fra loro. La distinzione fra funzioni dell'Io e immagini del sé, elaborata dalla psicologia occidentale, trova un interessante parallelo nella psicologia spirituale indiana (ROSS REAT 1990 ): qui viene tracciata una netta distinzione fra il manas (assim ilabile alle funzioni dell'Io) - che organizza e coordina i cinq ue sensi di percezione o jñ āĦendriya (vista, tatto, udito, olfatto, gusto) e le cinque facoltà d'azione o karmendriya (deambular e, afferrare, parlare, generare, evacuare), fungendo da interfacc ia fra interno ed esterno - e l'ahamk āra o 'senso dell'Io' (assimilabile alle immagini del sé), l'illusorio autoincapsulamento ne lla falsa realtà di un 'Io' separato. Analogamente, anche la letteratura abhidharmica bud dhista (JAYASURIYA 1963; NYANAPONIKA 1965; NYANATILOKA 197 1; GOVINDA 1969) ha elaborato una dettagliata analisi dei proc essi psichici collegati all'Io nei termini di impersonali fattori dinamici più o meno equivalenti alle funzioni dell'Io, dalla cui i nterrelazione scaturisce l'illusione di una solida ed omogenea id entità egoica, mentre l'ingannevole senso dell''Io' (ahank āra) e del 'mio' (mamankāra) (BUDDHADASA 1989, p.111), equivalente alle imma gini del sé, non è che un concetto, un mero contenuto de lla mente, un'etichetta sovrapposta a impersonali funzioni psi chiche. Secondo gli approcci meditativi orientali, nel 'lib erato in vita' (j īvanmukta) il miraggio egoico (asmit ā) - vale a dire l'illusorio autoincapsulamento nella falsa realtà di un Io sepa rato - si dissolve in una comunione con l'intero universo, me ntre il citta o manas (ossia l'insieme dei fattori mentali preceden temente ascritti all'Io), purificato dall'autoriferimento e gocentrico, continua a funzionare in una 'impersonale' ed armon ica interconnessione con l'unità di tutte le cose. Quindi, in realtà, la pratica meditativa non dissol ve l''Io', ma semplicemente lascia andare le reificate immagini d el sé che producono sofferenza, intralciando lo spontaneo ope rare delle funzioni psichiche attribuite all'Io . In altri ter mini, la mente continua a funzionare in modo ottimale e naturale, senza il bisogno di ribadire ad ogni momento che sono 'Io' a fare le cose. Infatti, la sensazione soggettiva del liberato in v ita è che tutto, nella mente e nel corpo, accade 'spontaneame nte' (sah āja), senza sforzo, in modo naturale, impersonale e in di retto contatto con qualsiasi situazione (NISARGADATTA 1973). Alla luce di queste considerazioni, la semplicistic a e superficiale concezione di un Io prima da rafforzar e e integrare

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con la psicoterapia e poi da dissolvere con la medi tazione cede il passo ad una prospettiva più complessa e pregnante, secondo cui sia la psicologia dinamica sia la meditazione orien tale esercitano un'azione analoga nel campo dell'identità personale , anche se a livelli diversi: ambedue infatti promuovono una gra duale relativizzazione (o persino dissoluzione) delle rei ficate immagini del sé insieme con un corrispondente rafforzamento e coordinamento delle funzioni dell'Io . SINCRETISMO PRAGMATICO: UNA RIFLESSIONE CRITICA In anni recenti, da parte degli 'psicoterapeuti tra nspersonali' si sono moltiplicati i tentativi pragmatici d'introdur re nel bagaglio tecnico della psicoanalisi esercizi ispirati a prat iche meditative orientali (consapevolezza aperta, concentrazione, v isualizzazioni, fantasie guidate, ecc.). Senza negare che queste forme di contaminatio possa no anche avere una propria efficacia terapeutica, spesso gli studi in proposito sembrano però aver troppo unilateralmente sopravval utato soltanto gli aspetti positivi a scapito di quelli negativi, senza intraprendere una seria riflessione critica circa i rischi e le controindicazioni di tali procedure, che, a mio avv iso, potrebbero di gran lunga superare gli eventuali vantaggi. Da questo punto di vista non va dimenticato che l'e ssenza della tecnica psicoanalitica è rappresentata da un attegg iamento non-direttivo, che viene completamente stravolto se il terapeuta comincia ad imporre esercizi ispirati alla meditazi one. Secondo il punto di vista psicoanalitico, il nucleo inconscio più profondo di una psicopatologia (sempre carico di so fferenza) può emergere soltanto in uno spazio terapeutico 'sicuro ', ossia in un setting analitico accettante, non interferente e no n giudicante, libero da qualsiasi forzatura o deliberata pression e da parte del terapeuta. I contenuti psichici, i conflitti e le d inamiche dell'inconscio profondo possono infatti affiorare s pontaneamente alla coscienza proprio perché l'analista non interf erisce con opinioni personali, consigli, suggestioni, direttiv e o prescrizioni, ma si limita a favorire un'atmosfera di consapevolezza non selettiva orientata all' insight , che viene poi restituito al paziente sotto forma di interpretazio ne (LANGS 1973-4; 1985). Se, invece, il terapeuta assume un ruolo direttivo attraverso consigli, prescrizioni, opinioni, spiegazioni teori che o esercizi guidati, finirà per interferire con la spontaneità del processo di guarigione psichica, introducendo implicitamente ne l campo terapeutico suggestioni di tipo costrittivo e giudi cante . Gli approcci direttivi derivanti da un sincretismo fra psicologia dinamica e meditazione orientale possono dunque lim itare alquanto l'efficacia della psicoterapia analitica: infatti i l nucleo profondo della psicopatologia non potrà emergere se la spontaneità del processo di guarigione è inibita da iterferenze esterne, incapaci di garantire uno spazio terapeutico suffic ientemente 'sicuro' e accettante. Di conseguenza, la comunicaz ione analitica si svolgerà a un livello più superficiale (LANGS 19 85).

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Inoltre le direttive del terapeuta potranno facilme nte essere usate dal paziente a scopi difensivi, per evitare d i confrontarsi con gli aspetti più inquietanti della propria 'ombr a'. Per esempio, il paziente sarà ben contento di sottopors i a fantasie guidate di tipo sublimatorio, in cui la propria omb ra, rappresentata in forma di simboli generali e archet ipici (demoni, tenebre, erbacce, ecc.), viene trasformata in simbo li positivi altrettanto generali (angeli, luci, fiori, ecc.), p erché con questa 'fuga verso l'alto' eviterà di affrontare l' imbarazzante confronto con gli aspetti più concreti e personali (desideri di morte, invidie, perversioni, ecc.) attraverso cui i suoi conflitti psichici si manifestano nella vita quotidiana e nel rapporto transferale; oppure idealizzerà il terapeuta come u n guru spirituale saggio e buono da venerare e rispettare, per non affrontare i risvolti più imbarazzanti del transfer t, come l'invidia, la rabbia o l'attrazione erotica che pro va per lui; o, ancora, potrà cadere vittima di pericolosi autoinga nni, illudendosi di aver raggiunto, attraverso la consap evolezza meditativa, una malintesa 'disidentificazione' spir ituale dai propri aspetti sofferenti e conflittuali, mentre in realtà non ha fatto che alienare e rendere ancora più inconscia l a propria psicopatologia attraverso meccanismi difensivi schi zoidi basati sulla scissione (ENGLER 1986, pp.34-38). Un ulteriore motivo che rende assai problematico l' inserimento di tecniche meditative orientali nel trattamento anali tico è il confusivo cumularsi in un'unica figura del doppio r uolo di terapeuta e guida spirituale, il che, ignorando i d iversi metodi e scopi dei due approcci, rende ingestibili i problem i transferali. Anzitutto, come si è visto, il ruolo di guru tende a dare del terapeuta un'immagine iper-idealizzata e onnipotent e, che esaspera nel paziente le manovre difensive per rimuovere gli aspetti negativi o erotici del transfert. In secondo luogo, insegnando la meditazione e super visionando il paziente attraverso correzioni e consigli, il terap euta si trasforma in un giudice che valuta le capacità e le incapacità del 'discepolo', il quale sarà sempre più tentato di mo strarsi 'bravo' e 'maturo', nascondendo le proprie parti più infant ili, conflittuali e imbarazzanti dietro la falsa immagin e di un devoto e volenteroso seguace. In terzo luogo, attraverso la intrusiva prescrizion e della pratica meditativa, il terapeuta invade il libero spazio ps ichico del paziente, trasmettendogli i propri valori, le propr ie opinioni, le proprie credenze, i propri interessi, con l'implici to messaggio che il paziente deve diventare come lui anziché cer care una via autonoma verso se stesso . Infine, impartire istruzioni meditative, consigli, giudizi e prescrizioni entra in aperto contrasto con la neutr alità analitica e col regime di astinenza, che garantiscono l'ottim ale funzionamento della consapevolezza psicodinamica en tro uno spazio accettante, non interferente e non giudicante, dove possano spontaneamente affiorare i contenuti profondi della psiche inconscia.

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Un ulteriore elemento di perplessità deriva dalla d imestichezza soltanto rudimentale che molti terapeuti hanno con la meditazione. Per insegnare una qualsiasi pratica meditativa, occ orre un training specifico estremamente lungo, arduo e assa i diverso da quello psicoterapeutico: viene perciò spontaneo dom andarsi quanti psicoterapeuti, fra quelli che adottano in terapia tecniche meditative, posseggano veramente la necessaria qual ifica di insegnanti di meditazione e quanti invece si siano soltanto improvvisati tali, con gravi conseguenze per se ste ssi e per i propri pazienti. Alla luce di queste considerazioni, sembra che i ri schi di una contaminatio fra tecniche meditative e psicoanaliti che superino di gran lunga gli eventuali vantaggi. La complementarità fra psicoterapia e meditazione r isiede proprio nel fatto che agiscono a livelli diversi della ment e. Appare dunque auspicabile che, anche quando vengono pratic ate entrambe contemporaneamente, restino due vie ben distinte ed abbiano come punti di riferimento due separate figure di riferim ento che rivestano rispettivamente il ruolo di psicoterapeut a e di guida spirituale, senza cumulare su un'unica figura tutte le pesanti dinamiche psichiche implicate nei due diversi tipi di relazione . Se i rischi di un superficiale sincretismo vengono evitati, la pratica parallela della meditazione e della psicoan alisi può generare una potente spinta sinergica e trasformati va verso la salute mentale, la purificazione della coscienza e il risveglio spirituale a tutti i livelli della psiche, a patto che ciascun approccio sia praticato in modo autonomo ed appropr iato. Allora un'autentica sintesi pragmatica fra meditazo ne e psicoanalisi può realizzarsi, in modo spontaneo e n on retorico, nel concreto della mente e della vita stessa di chi le pratica entrambe, e non più in sincretismi superficiali ed artefatti . LA METAFORA DEL CIELO Può essere utile concludere queste riflessioni rico rrendo ad una metafora che ci faccia meglio comprendere - al di l à di rozzi schematismi in bianco e nero - affinità e differenz e fra psicologia del profondo e meditazione orientale. Immaginiamo, in una bella giornata primaverile, di stenderci su un prato a guardare il cielo. La prima cosa che cattur erà la nostra attenzione sarà il volo e il canto degli uccelli. A nalogamente, guardando il cielo della mente, la prima cosa che n oteremo saranno i suoi contenuti più evidenti: pensieri, percezioni , ricordi, immagini, emozioni, che come uccelli attraversano i l nostro spazio mentale, catturando l'attenzione. Ma, continuando a guardare il cielo, ben presto ci rendiamo conto che i colori, le luci e le ombre dell'intero paesag gio possono variare per via delle nuvole, le quali determinano il tono generale della giornata: in alcuni momenti tutto è luminoso e inondato di sole, in altri l'atmosfera si oscura e si fa cupa. Parallelamente, nell'osservare la mente ci si accor ge che il flusso continuo dei suoi contenuti è, per dir così, 'colorato' da

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un tono affettivo fondamentale, che - come le nuvol e - incupisce o rasserena il nostro umore. Guardando ancora più attentamente, scopriamo che le nuvole sono mosse da qualcosa di invisibile, ossia il vento, co sì come gli umori della psiche sono mossi da pulsioni inconscie . Si tratta di forze invisibili alla coscienza, ma individuabili i n base ai cambiamenti che operano sulla superficie della ment e conscia, proprio come si può dedurre la direzione del vento, di per sé invisibile, in base agli spostamenti delle nuvole. Infine, osservando con uno sguardo ancora più vasto e profondo, possiamo accorgerci che tutto il fantasmagorico gio co degli uccelli, delle nuvole e del vento avviene nel grand e spazio del cielo, che resta sempre uguale a sé stesso e si tro va sopra, sotto e anche dentro di noi, perché in definitiva viviamo su un pianeta sospeso nello spazio e noi stessi siamo, in qualche modo, fatti di spazio. Allo stesso modo, osservando i mutevoli con tenuti della mente conscia e inconscia, può capitare di scorgere , al di là di essi, il vasto sfondo di consapevolezza vuota ed ap erta che li ospita e li illumina. Alla luce della metafora del cielo, potremmo dunque asserire che la consapevolezza psicoanalitica e la consapevolezz a meditativa prestano attenzione alle stesse cose (uccelli, nuvo le, vento e cielo), perché la mente è il comune campo d'investi gazione per entrambe le discipline: però la psicologia del prof ondo è più interessata ai contenuti mentali (= uccelli, nuvole , vento), mentre invece la meditazione è più interessata allo sfondo transpersonale della pura consapevolezza (= il ciel o). Ciò non toglie che, durante il processo meditativo, si possa verificare lo scioglimento di qualche nodo psicopat ologico, o che, nel mezzo di un trattamento analitico - nel momento in cui ci s'imbatte nei temi cruciali del destino, della soff erenza, della morte, del proprio unico piccolo io che si confront a con i grandi misteri dell'esistenza e con gli universali interro gativi che travagliano l'umanità intera - possano aprirsi spra zzi e barlumi attraverso cui, d'un tratto, s'intravvede la vastit à infinita del cielo dietro le nubi (ossia un'apertura al transper sonale), anche se non è questo lo scopo primario della psicoterapi a, così come non lo è della meditazione la guarigione da una psi copatologia.

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L’occidente incontra l’oriente Tutto il testo riportato in corsivo è tratto da un’ intervista al Prof. Mauro Bergonzi tratta da una trasmissione in onda su: RAI EDUCATIONAL del18/3/1998 in onda su RAI SAT Ronald Laing scriveva negli anni Sessanta: “La nost ra civiltà non reprime soltanto gli istinti e la sessualità, ma an che ogni forma di trascendenza. Il nostro stato normale e ben adat tato non è molto spesso che una rinuncia all'estasi, un tradim ento delle nostre più vere potenzialità. Molti di noi riescono fin troppo bene a costruirsi un falso io per adattarsi a una falsa realtà. Negli ultimi anni per ò ciò che era stato rimosso da questa cruda eclissi del sacro ha cominciato a riemergere sotto forma di una nuova sensibilità rel igiosa, connotata da esiti spesso ambivalenti. Da un lato l a moda dell'occulto, le sette suicide, il fascino dell'eso tico e dell'esoterico, la sottomissione a sedicenti guru, le superstizioni millenaristiche. Dall'altro la ricerc a di un'autentica esperienza spirituale, vissuta in prim a persona, senza intermediari attraverso un lavoro interiore c he coniughi insieme contemplazione e azione. In tale prospettiv a l'incontro con la spiritualità orientale rappresenta per alcun i occidentali una preziosa occasione per riscoprire attraverso un terreno religioso vergine, dominato da pregiudizi e da anti che ferite, la dimensione del sacro, celata nell'intimo di ciascun o.” L’affermazione di Laing “riscoprire attraverso un t erreno religioso vergine, dominato da pregiudizi e da anti che ferite, la dimensione del sacro” ci suggerisce forse che il n ostro desiderio di altezze è stato disatteso, che il terreno dove a bbiamo poggiato i nostri piedi non poteva accogliere i passi verso la direzione del Sé. L’ Oriente ci offre così un terreno religioso vergine porgendoci una dimensione del sacro così necessaria nell’esist enza terrena di ciascun individuo. Ma allora se le pulsioni ci accomunano, cos’è che c i differenzia? A questa domanda così risponde il Prof. Bergonzi: “…. quando si cominciano ad approfondire questi argome nti, ci si rende conto che in realtà non esiste un Occidente compatto e un Oriente compatto, ma ci sono tanti Occidenti e tanti Orien ti. E sia in Occidente che in Oriente l'uomo si trova costantemente a confrontarsi con i grandi temi, il grande mistero d i cosa significa vivere e di cosa significa morire. C'è una tendenza, in Occidente, a rivolgersi a un cambiamento del mondo esterno, attraverso la tecnologia, invece in Oriente c'è una prevalenza di tecnologia rivolta alla mente, alla p arte interna. Ma non bisogna nemmeno esagerare con queste differe nze, perché in Occidente c'è una grandissima tradizione spirituale, che è q uella della mistica cristiana, per esempio, c'è una tradi zione psicologica, di psicologia, che ha assoldato la men te. E in Oriente anche c'è stata una ricerca di tecnologie esterne. Basti pensare alle scoperte nel passato che ha fatto la C ina. Allora

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l' Occidente forse è arrivato a un punto critico in cui ha cominciato a capire che il controllo tecnologico su l mondo esterno ha dei limiti e questi limiti richiamano a cercare dentro di sé. La fiducia nella scienza, non impedisce che ci sian o dei disastri ecologici; la scienza ha cominciato a fare una rifl essione critica e a vedere che la tecnologia va accoppiata con un’e splorazione dell'uso che ne facciamo. E così si ritorna a esplo rare dentro. Allora, in questo momento in cui l' Occidente si sente forse di aver troppo trascurato il lato interno, dall'Illumi nismo ad oggi si sono tolte una serie di superstizioni che andava no tolte, però nello stesso tempo forse si è buttato via il bambin o con l'acqua sporca, cioè anche questa esplorazione dei mondi in terni. Allora, in questo punto l' Occidente inizia a sentire l'esigenza di guardare dentro. E possiamo osservare nell'ambito d ella spiritualità occidentale una serie di fermenti, nel la chiesa per esempio, e contemporaneamente alcuni, nella loro ri cerca, si rivolgono invece all' Oriente, che è un terreno inquinato forse da una serie di ferite o di condizionamenti, che alcun i di noi sentono di aver ricevuto dall'educazione spirituale occidentale.” Bergonzi ci tiene a sottolineare che non è mai prof icuo assolutizzare, d’altra parte come vedremo non sarà difficile incontrare negli ultimi cento anni personaggi come Jung, e Assagioli, Maslow e Wilber (per citare solo i più n oti), richiamati da una necessità di capire il mistero in afferrabile, inesprimibile, incomprensibile dell’uomo e del suo desiderio di bere dalla “sorgente” della vita. Alcuni ipotizzano che un limite dell’occidentale si trova proprio nel voler capire e non comprendere,nel non riuscire ad abbandonarsi, eppure se pensiamo al cristianesimo, che ci chiede di credere che esista solo una verità assoluta, que sto comporta un abbandono…allora viene in mente che mentre per alcu ni questo è ciò di cui hanno bisogno, per altri rappresenta un osta colo e si rivolgono ad altre forme di spiritualità orientali che accolgono qualsiasi forma di ricerca dello spirito e relativ izzano le forme specifiche religiose a favore di un cammino cha vad a aldilà di dogmi precostituiti. Bergonzi al riguardo afferma “ Nelle forme di spiritualità orientali seguire una via spirituale significa perc orrere un cammino e non avere un credo, una credenza espressa in una serie di dogmi e dire: "Io aderisco a questa religione pe rché credo a questi dogmi". Nel caso, per esempio, del buddhismo invece si dice: "Seguite questa via perché vi può portare ad essere liberi dalla sofferenza, dal condizionamento". In questo s enso voi potete anche lasciare andare tutto questo insegnamento, qu ando vi ha portati dove volevate andare. In questo si arriva m olto lontano nella spiritualità orientale.” Quando uno studente a questa affermazione ha chiest o a Bergonzi:“ Secondo Lei, questo avvicinarsi da parte dell' Occidente alle filosofie orientali è dovuto a un limite della reli gione cristiana, comunque del pensiero occidentale?” Egli risponde riconducendo queste necessità a “un necessario sviluppo storico”:

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“ …nell’evoluzione storica la chiesa cristiana e ca ttolica, nel caso dell'Italia quella cattolica, ma diciamo più i n generale le chiese cristiane hanno sviluppato al loro interno d elle vie spirituali - penso soprattutto alla contemplazione cristiana - che sono state per secoli una delle maggiori fonti di r icchezza spirituale dell' Occidente, e lo sono tuttora. Nel caso dello sviluppo storico della chiesa cristiana, mi sembra importante notare che si è creata una forte istituzionalizzazi one della chiesa e una gerarchia, per cui la contemplazione a volte è stata vista con sospetto - le affermazioni dei mistici de vono essere sempre vagliate secondo un certo dogma — e la via d ei mistici è stata riservata per molto tempo a poche persone che sceglievano di ritirarsi dal mondo, di andare in un eremo o in un monastero e di praticare questa via, mentre ai laici, a coloro che seguivano questa religione, l'unico modo per accedere al sacr o era attraverso intermediari della chiesa e attraverso i l rito cioé la messa. Allora attraverso una conflittualità con il mondo laico, la chiesa ha attraversato un processo di secolarizzazi one, cioè ha cercato sempre più di demitizzare i suoi miti, ha c ercato di ridurre e razionalizzare i suoi riti; ai laici non è rimasto molto, non sono rimasti molti strumenti per avere u n'esperienza religiosa fatta in prima persona, nella propria viv a esperienza. Naturalmente questa crisi è stata affrontata dalla chiesa e attualmente assistiamo a un revival di movimenti, a nche laici, all'interno della chiesa in cui si rimette al primo posto l'importanza della contemplazione, oltre quella del l'azione, mentre prima c'era stato uno sbilanciamento a favor e di un'azione esterna, di un'azione fatta di aiuto, di assistenza del mondo, ma non accompagnata da questa profondità, dovuta alla contemplazione. Mi sembra di ricordare, ad esempio, Madre Teresa di Calcutta, nelle sue lettere diceva che lei faceva un certo nu mero di ore al giorno di preghiera, di contemplazione, e che senza quel ritiro nel profondo non avrebbe avuto l'energia di dedicar e tutto il resto del suo tempo ad aiutare le persone, perché s ono due cose che vanno insieme. Quindi diciamo che nella chiesa sta avvenendo questo all'interno, però alcuni, occidentali, nello stesso tempo, si sentono più attratti da altre forme di religiosi tà, come quelle orientali, che in qualche modo, di nuovo, cercano d i mettere insieme la contemplazione con l'azione, attraverso degli strumenti molto concreti, dando la precedenza all'esperienza che uno fa e a un rapporto con una guida spirituale. E questo quin di viene trovato molto interessante da alcuni. Certamente ci sono anche degli incontri, delle sintesi. Avvengono degli inco ntri fra monaci orientali e monaci occidentali, scambi di esperienz e, il famoso dialogo interreligioso, come uno strumento di cresc ita reciproca fra le due religioni. Ci sono anche, per esempio, d ei casi di cattolici che insegnano i vangeli, usando però, per esempio, delle meditazioni di tipo orientale o mettendo insieme tu tto questo. E’ un campo molto interessante da esplorare: uno dei v antaggi che ha l'occidentale, una delle doti è quella di cercare l 'altro, contattare l'altro e nello stesso tempo adattare co ntinuamente questi incontri verso l'altro.”

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A questa lettura vorrei aggiungere una provocazione : si ha l’impressione che, diversamente da altre forme di s piritualità orientali, la religione occidentale stia cercando u na sua propria identità forse non ancora trovata. Aggiustare il tiro plasmandosi in base a degli svil uppi storici da una parte è sintomo di plasticità e adattamento, da ll’altra, messe a confronto con la coerenza e l’attualità degli ant ichissimi cammini spirituali orientali, viene da chiedersi pe rché? Forse che con lo scambio interreligioso si possano avere delle risposte del motivo per cui sempre più occidentali sposano altri cammini? D’altra parte gli orientali sembra che siano intere ssati ad uno scambio più sul piano scientifico/tecnologico che filosofico/religioso….. Un altro importante motivo per cui siamo sempre più attratti da queste pratiche orientali è che esse indagano gli i stinti, le emozioni, i desideri senza reprimerli, casomai ci o ffrono gli strumenti per una gestione delle sensazioni e dei n ostri sentimenti senza esserne sopraffatti. Bergonzi con estrema chiarezza espone le due possib ili soluzioni per la gestione delle emozioni, più una (della visi one orientale): “ ….per esempio, prendiamo un moto di collera: poss o fare in genere due cose: posso reprimere, rimuovere la coll era, cioè far finta che non ci sia, rimetterla nell'inconscio - e questo - la psicoanalisi ci insegna - è come mettersi dentro un a bomba e farla scoppiare sotto terra, quindi con tutti i disastri psicologici che derivano da un'emozione repressa -; l'altra via che spesso si pensa sia l'unica alternativa è quella di esprimer e questa collera prendendomela con il bersaglio più vicino e quindi scaricare la collera. Invece quello di cui non ci r endiamo conto é che, quando scarichiamo la collera, è un altro modo di non vederla, perché quando l'abbiamo scaricata se n'è a ndata e così noi non ci troviamo nella situazione spiacevole di doverla guardare.” La via meditativa è una terza via: non reprimere e non scaricare, ma lasciare cosciente la collera e sentirla in tutt i i modi: sentire di che sa la collera fisicamente, in che pu nto la sento, sentire che pensieri evoca, sentirla, lasciarla ess ere. Ecco, allora, questo lasciar essere le cose permette di c reare uno spazio di libertà, per poi esprimermi nella realtà in una maniera non compulsiva, cioè non meccanica, non come una ma rionetta, che basta premere certi bottoni e agisco in un certo mo do, ma in una maniera libera, sentire pienamente chi sono, come s ono, ed essere libero di esprimermi, in maniera da tener conto di tutta la situazione. Questo è anche collegato col non attacc amento di cui si parla molto spesso.” Come possiamo osservare ciò che avviene in noi nel preciso istante della collera? L’allenamento ad osservare, lo abbiamo già vistonel Raja yoga dal nostro modo di comportarci,dal corpo fisico, poi da l corpo energetico, e ancora dal corpo psichico in un perco rso sempre più raffinato in cui possiamo imparare a non identifica rci più con le

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sensazioni, i pensieri, le emozioni sviluppando cos ì consapevolezza e la qualità del testimone che ci co ndurrà verso la meditazione. Se non sviluppiamo la consapevolezza sia del punto in cui ci troviamo, sia di quel grande crogiolo che é la cosc ienza dove tutto si brucia e si trasforma, non potremo acquisi re la capacità di trasformare anche le emozioni negative. Certamente questa indagine sulle emozioni, i deside ri e i pensieri, che in occidente è prerogativa della psicologia, la ritroviamo ben svolta dalle dottrine orientali che possiamo definire soteriologiche, salvifiche di tutta la sof ferenza che ci troviamo ad affrontare. Nessuna confessione è richiesta, nessun arcaico sen so di colpa per i nostri istinti, ma osservazione neutrale dei nost ri processi interiori e disidentificazione e annullamento del d esiderio. Ma una domanda, per una mente pragmatica, è d’obbli go: le vie che portano all'annullamento del desiderio, non mortifi cano l’importanza al nostro essere persone che vivono qu esta vita terrena? Bergonzi: “…quando ottengo quello che desidero, non sono affa tto soddisfatto, perché subito dopo desidero un'altra c osa e un'altra cosa ancora. C'è una storia di un saggio folle, il quale venne sorpreso una volta al mercato, a mangiare un mucchi o di peperoncini piccanti, e se ne mangiava uno dopo l'a ltro diventando tutto rosso e lacrimante. Allora gli dicono: "Ma pe rché, se ti fa stare così male, continui a mangiare questi peperon cini?" . E lui risponde:" Perché ne sto aspettando uno che non sia piccante". Inseguendo tanti desideri - nella visione buddhista -, andiamo sempre a sperare che quella cosa che otterremo ci f arà stare in pace, tranquilli! Allora il buddhismo insiste nel f atto che questo gioco non finisce mai e non ci dà quello che cerchi amo. Se invece noi cominciamo a essere consapevoli della caratteri stica insoddisfacente delle nostre esperienze, allora pos siamo aprirci a qualcosa di più grande. Quindi non si tratta di rep rimere i desideri. Si tratta, mano a mano che scopriamo il d esiderio di qualcosa di più grande, chiamiamolo desiderio di Di o, se vogliamo usare un linguaggio cristiano, allora i piccoli des ideri, piano piano, cadono come foglie secche, perché non servon o più al cammino e comincio a desiderare molto di più qualco sa che mi dia quella felicità profonda, quella pace profonda che io ho sempre cercato in tutte le cose.” In conclusione possiamo affermare che non esistono poi così tante differenze sui grandi temi, sulle domande relative alla nostra esistenza e alla morte, che l’uomo di tutte le civi ltà si è posto e ancora si pone, semmai le differenze si esplicano nella modalità di questa ricerca che può essere riconosciuta da al cuni e non da altri. Il nostro bagaglio culturale, individuale e collett ivo, senza dubbio ci condiziona nelle nostre scelte e l’invito delle discipline orientali è proprio quello di liberarci dai condizionamenti, richiamando in noi una partecipazi one attiva per ciò che riguarda un completo sviluppo evolutivo.

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L’azione e la meditazione o se vogliamo, meditazion e in azione, possono renderci quel senso di libertà che andiamo ricercando da sempre. Portare nel quotidiano i risultati della propria cr escita è anche un obiettivo comune di entrambi i punti di vista, g li indiani spinti dalla legge del karma , noi dalla paura dell’inferno ci dirigiamo per traiettorie comuni: il ricongiungimen to con Dio-Brahman e la pace dello Spirito.