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CENTRO PER LA CULTURA E L’ARTE

LUIGI BOSCA

Maurizio Viroli Dan Vittorio Segre

Di Bosca in Bosca

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Dan Vittorio Segre lavora fra l’Italia e laSvizzera dove dirige l’Istituto di StudiMediterranei dell’Università di Lugano.È autore di vari libri fra cui: Storia di un Ebreo fortunato (1985); La guerra privatadel Tenente Guillet, la resistenza italiana inAfrica Orientale (1993); Il Poligono MedioOrientale (1994); Il Bottone di Molotov (2004);Le Metamorfosi di Israele (2006).

Maurizio Viroli vive e lavora fra l’Italia egli Stati Uniti dove insegna Teoria Politicaa Princeton.È autore di diversi libri fra cui: Per amoredella Patria (1995), Il sorriso di Niccolò(1998), Repubblicanesimo (1999).

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Centro per la Cultura e l’Arte Luigi Bosca - 4

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Di Bosca in BoscaMaurizio ViroliLa saggezza del vino

Dan Vittorio SegreUn’azienda attraversa i secoli

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LUIGI BOSCA

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A chi ama le idee

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LA SAGGEZZA DEL VINO

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Nella nostra tradizione culturale, la vite e il vino sono stati interpretati soprattutto come sim-boli di fertilità e rinascita. L’esempio forse più noto è la storia di Lot e delle sue due figlie narrata nella Genesi: “Lot partì da Zoar e andò ad abitare sulla montagna, insieme con le due figlie, perché temeva di restare in Zoar, e si sta-bilì in una caverna con le sue due figlie. Ora la maggiore disse alla più piccola: “il nostro padre è vecchio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi, secondo l’uso di tutta la terra. Vieni, facciamo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui, così faremo sussistere una discendenza da nostro padre”.

Ben noto è anche il mito di Dioniso, il dio greco del vino e della fertilità che viene ucciso, scende nell’oltretomba e poi risorge riflettendo così il simbolismo della morte e della resurrezio-ne proprio della vite e del vino. L’immagine più forte della vite come simbolo di resurrezione è tuttavia quella del Cristo come “vera vite”: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota. Perché porti più frutto. Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, ed io in lui, fa molto frutto, perché

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senza di me non potete far nulla.”Oltre ad essere simbolo di fertilità e di rinasci-

ta, il vino è stato da sempre, simbolo dell’eb-brezza, della sessualità, del piacere. Basti citare il Cantico dei Cantici: “Vieni mio diletto, andia-mo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze….salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva e il profumo del tuo respiro come di pomi.”

Il vino, secondo il poeta persiano placa il tor-mento dell’amore:

Colma, la coppa di vino frizzante Lascia che io beva il succo divino E plachi con i tormenti del cuore, Ché l’amore prima così dolce, Così soave, così gioioso,Ora affonda qui la sua freccia

Dà la sola possibile letizia su questa terra:

Bevi vino, ché vita eterna è questavita mortale,

E questo è tutto quel ch’hai della tuagiovinezza;

Ed or che c’è di vino, e fiori ci sono,e amici lieti d’ebbrezza,

Sii lieto un istante ora, ché questa,questa è la vita.

E allevia la pesantezza della vita

Non posso vivere senza il purissimovino,

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Senza vino, il peso vile del corpotrascinare non posso.

Tutto darei pel momento in cui midice il Coppiere:

“Prendine un altro bicchiere!” ed io,già ebbro, non posso

Vi è tuttavia un altro aspetto del vino, sul quale invece vorrei fermarmi, sia perché lo considero di grande valore culturale, sia perché si tratta, a paragone degli altri, di un tema meno commen-tato. Mi riferisco al vino come guida e mezzo di una particolare saggezza, diversa da quella del saggio impassibile alle passioni e da quella del santo che ha saputo vincerle per aprirsi la strada alla beatitudine eterna. La saggezza che il vino stimola e accompagna è una saggezza umana e leggera che sa muoversi anche nell’universo del-le passioni e del desiderio, e sa adattarsi ai tempi e alle circostanze.

In primo luogo c’è una saggezza propria del-l’agricoltore che consiste nella scelta del terreno e dell’esposizione: “l’agricoltore abile sa in pre-cedenza che in pianura fa meglio la vite che può sopportare senza danno le nebbie e la brina e in collina quella che non soffre la siccità e i venti. Inoltre affiderà una vite gracile e non molto fe-conda per natura ad un terreno pingue e ubertoso, una vite ferace ad un terreno magro, una vite forte e abbondante di tralci e di fronde ad una terra densa, una scarsa di sarmenti al suolo sciol-to e fertile; e saprà che in una zona umida non si possono piantare con vantaggio uve di acino grosso e tenero, ma duro e piccolo e ricco di vinaccioli.”

Ma l’aspetto forse più interessante della sag-

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gezza del vino riguarda il particolare rapportofra il vino e la verità.

Quando si parla del vino e della verità —si pensi all’espressione in vino veritas— si intende che il vino è il mezzo per vedere dentro l’uomo in quanto spinge l’uomo ad abbandonare difese, autocontrollo e simulazioni; oppure si intende (ma il significato è affine) che il vino mostra il vero pensiero di un uomo. Il contesto è quello della cena o più precisamente del simposio. È qui che il vino rivela la vera mente (animo) dei compagni di mensa; rivela chi è un vero e affida-bile amico e chi no. È in questo senso che Eschilo dice che il vino è lo specchio del vero pensiero di un uomo.

C’è tuttavia un altro aspetto della relazione fra vino e verità che emerge soprattutto dall’analisi dei termini greci αληθης e αληθεια. Le parole αληθης e αληθεια si riferiscono nel greco anti-co alla persona che parla, che dice la verità. Que-sto significa che la relazione fra vino e verità consiste nella constatazione che l’effetto del bere vino è che il carattere di una persona si rivela, si mostra agli occhi dell’altro; ma essa consiste anche nel fatto che dire la verità (nel senso di αληθης e αληθεια) implica consapevolezza e intenzionalità. Dire che il vino rivela la verità non può dunque significare che il vino fa sì che una persona sveli la propria natura inconscia-mente o involontariamente perché è in uno stato di ebbrezza e di intossicazione.

Infine bisogna tenere presente che la verità, che il vino rivela, ha l’importante caratteristica della completezza. La verità, per essere davvero tale, deve essere detta tutta, senza reticenza o censure. Dire la verità significa dunque dire tutto

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ciò che vedi, conosci, o pensi senza esagerazioni o invenzioni. La verità del vino è, in altre parole, opposta tanto all’oblio quanto alla menzogna. I partecipanti al convito hanno dunque il dovere di rivelare i propri pensieri con candore, senza nascondere o trattenere alcunché per ragioni di opportunità o di riservatezza; al tempo stesso sono responsabili per quello che dicono: la bugia e l’esagerazione sono violazioni serie delle nor-me del convivio.

Eppure molti filosofi hanno scritto che il vino si concilia male con la saggezza, e la conoscenza della verità. Il vino ha l’effetto di cancellare tem-poraneamente la realtà, mentre l’ammonimento dei saggi è quello di eliminare le paure attraver-so la giusta conoscenza della natura e dell’ani-mo. La filosofia vuol liberare l’uomo dalle ango-sce attraverso la lucidità; il vino lo libera per mezzo dell’oblio. Non sorprende dunque che Platone pronunci contro il vino una severa requisitoria: “Intanto, il vino infonde nell’uomo che ha bevuto nuovo senso di euforia; subito, e per immediata azione. Anzi, quanto più l’uomo ne beve, tanto più grandi e ricche sorgono in copia illusioni di felicità e di potenza; immagi-nata soltanto, si capisce. Si conclude la vicenda che il nostro pover’uomo parla libero e aperto come fosse un gran sapiente; ardito il contegno; nulla lo turba. Insomma, non esita e non dubita di fronte a nulla; azioni o parole. E penso io, ognuno mi darà ragione”.

Il vino porta all’oblio, alla mollis inertia di cuiparla Orazio:

MoIlis inertia cur tantam diffuderitimis

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Oblivionem sensibus,Pocula Lethaeos ut si ducentia

somnosArente fauce traxerim,Candide Maecenas, occidis saepe

rogando

Orazio raccomandava contro i pericoli del vino l’etica della misura, e a volte l’astensione. Ma proprio quando il vino sembra allontanare mag-giormente dalla saggezza, esso in realtà schiude nuove dimensioni della conoscenza, quella del-l’irrazionale e della conoscenza poetica, due for-me di esperienza che eguagliano per importanza la conoscenza razionale.

Euhoe! Recenti mens trepidat metu Plenoque Bacchi pectore turbidum Laetatur. Euhoe! Parce, Liber, Parce gravi metuende thyrso

Nel convito e nel piacere del vino, vi sono occasioni in cui si può, o addirittura si deve an-dare oltre il modus, entrare nell’irrazionale terri-torio di Dioniso:

Non ego saniusbacchabor Edonis: recepto dulce mihi furere est amico

Nei momenti del convito, è pazzo chi non si abbandona ai piaceri del cibo e del vino, e ri-sparmia pensando all’erede. Saggezza diventa uscire, complice il vino, dalla misura ordinaria, provare l’ebbrezza e tuttavia sapersi governare con decoro secondo la misura adatta al contesto:

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Misce stultitiam consiliis brevem: Dulce est desipere in loco

La stoltezza, e l’oblio del saggio sono tuttavia brevi (stultitia brevis), e devono essere legati a momenti particolari. Il saper cedere all’oblio e all’abbandono sono i caratteri della vera saggez-za che non pretende che l’individuo lasci langui-re la forza vitale per coltivare una saggezza sere-na ma triste. È un grande aiuto alla saggezza quello che il vino arreca quando cancella con l’oblio una realtà misera e sconsolata e ne crea un’altra più bella e calda, seppur solo nella spe-ranza e nell’illusione. L’immaginazione della nuova realtà che il vino contribuisce a creare aiuta ad andare avanti, a superare il momento più nero, a ricominciare. Non è aiuto da poco, quando si vive l’esperienza della desolazione e dello sconforto, riuscire perlomeno a sognare un giorno nuovo. Il vino apre nuove porte, dà vita e speranza, come ha scritto Baudelaire:

Le regard singulier d’une femmegalante

Qui se glisse vers nous comme lerayon blanc

Que la lune onduleuse envoie au lactremblant,

Quand elle y veut baigner sa beauténonchalante;

Le dernier sac d’écus dans les doigtsd’un joueur;

Un baiser de la maigre Adeline;Les sons d’une musique énervante et

câline,Semblable au cri lointain de

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l’humaine douleur,Tout cela ne vaut pas, ô bouteille

profonde,Les baumes pénétrants que ta panse

fécondeGarde au cœur altéré du poète

pieux;Tu lui verse l’espoir, la jeunesse et la

vie,Et l’orgueil, ce trésor de toute

gueuserie,Qui nous rend triomphants et

semblables aux Dieux

Il vino ammorbidisce e rende più leggera e umana la virtù del filosofo. Lo stesso Zenone, che escludeva che al saggio fosse lecito ubria-carsi, rispose, a chi lo rimproverava perché non si tratteneva abbastanza col vino, che “anche i lupini, che sono amari, bagnati si addolciscono”. Crisippo distingueva nettamente il bere vino dal-l’ubriacarsi che porta all’umor nero e alla stol-tezza. Per Lenante l’ubriachezza non poteva non influire negativamente sulle conoscenze del sag-gio. Per alcuni, e fra questi era Crisippo, almeno a detta della sua serva, l’ubriachezza colpiva le gambe ma non la testa. Intendeva dire che, come ho già accennato, il saggio sa conservare una particolare lucidità e misura anche quando varca con il vino i confini dell’ebbrezza.

Nella tradizione classica vi era chi non ammet-teva l’ebbrezza per il saggio e chi invece ritene-va che ci fosse una ebbrezza ammissibile che porta vicino alla stoltezza senza tuttavia raggiun-gerla. L’ebbrezza, scriveva Filone d’Alessandria, non è affatto indecente per il saggio, anzi, ne

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addolcisce l’aspetto austero e spesso truce: “Il saggio, quando ha bevuto diviene più piacevole di se stesso quando era sobrio... Inoltre bisogna aggiungere che “l’aspetto della saggezza non è triste e severo, ma al contrario, lieto e sereno, pieno di gioia e di allegria; e da questi sentimen-ti si fu indotti spesso a giocare e celiare non senza grazia: tale gioco si armonizza pienamente con la gravità e la serietà come in una lira bene accordata suoni contrari si fondono in una sola melodia”.

Il saggio può dunque ubriacarsi perché l’ubria-chezza forma il carattere e gli dà rilassamento e semplicità. Il vino ha inoltre la caratteristica di rafforzare le qualità insite nell’individuo, sia quelle buone, sia quelle cattive, compresa la vir-tù dell’uomo. Per questa ragione ai tempi di Ora-zio si narrava che lo stesso Catone il Censore si scaldasse con il vino puro, e si tenga presente che l’autorità morale del grande Catone non era inferiore a quella dei più severi filosofi stoici.

Anche se seguiva le idee dei difensori del vino, Orazio non ha mai rivendicato la funzione del vino come ispiratore di poesia, e in una lettera tratteggia una caricatura severa dei poeti che puz-zano di vino fin dal mattino. Egli voleva soste-nere che non basta ubriacarsi per diventare poeti, non che bisognasse bandire il vino dal regno della poesia.

Il vino è un mezzo per la conoscenza del vero e per la conquista della saggezza. Noè bevve il vino, si ubriacò e fu trovato nudo. La nudità, ha scritto Filone Alessandrino, significa incapacità di distinguere fra gli opposti del bene e del male morale, o innocenza e semplicità di maniere; ma può indicare anche la verità, intesa come il pote-

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re di svelare, di scoprire ciò che è avvolto nel-l’oscurità. Il vino nella narrazione dell’ubria-chezza di Noè, rende nudi, ovvero spinge a rive-larci e ci dà al tempo stesso la capacità di svela-re. A volte rivela il vizio, altre volte rivela la virtù poiché, spiega Filone, non possiamo mo-strare o allontanare da noi l’uno e l’altro: se seguiamo il vizio abbandoniamo la virtù e vice-versa.

Il vino è invece vietato a chi deve avvicinarsi a quella forma più alta di saggezza che è la cono-scenza dei misteri divini rappresentati dal taber-nacolo e dall’altare. Il dovere dei sacerdoti è quello di amministrare i sacrifici, e l’ammini-strazione dei sacrifici esige che la mente sia luci-da e non turbata dalla follia che il vino produce. Per questa ragione Dio proibì ad Aaron di bere quando entrava nel tabernacolo. L’astinenza è il prezzo per diventare sacerdote, e più in generale è il prezzo che deve pagare chi aspira a coltivare la ragione nella sua forma più alta e pura, la ragione che si innalza ai pensieri sublimi e si distacca da tutto ciò che è basso e misero.

Anche il santo, al pari del sacerdote deve aste-nersi dal vino. Samuele, il più grande dei re e dei profeti, non bevve mai vino o liquori inebrianti fino alla fine dei suoi giorni. Ma Samuele non era un essere umano composto di anima e corpo, ma un anima che si appagava solo nel servire e adorare Dio. Il suo nome significa nominato e ordinato per Dio: il nome di sua madre, Hannah, significa grazia, ad indicare che senza l’aiuto della grazia è impossibile abbandonare il mondo dei mortali e rimanere per sempre fra gli immor-tali. Chi dunque voglia seguire la ragione eterna e elevarsi alla conoscenza della verità di Dio

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deve perseguire la purezza dell’animo e impedi-re che le passioni turbino la sua tranquillità inte-riore. Chi non aspira a raggiungere la perfezione della saggezza, il sacerdozio o la santità, ma cer-ca una saggezza umana e imperfetta, può invece cercare aiuto nel vino.

Un ultimo aspetto fondamentale della saggez-za è la capacità di adattarsi alle mutevoli circo-stanze e mutevoli esigenze. “E veramente chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi e l’ordi-ne delle cose et accomodassisi a quelle”, scrive-va Machiavelli, “arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, e verrebbe ad essere vero ch’l savio comandassi alle stelle et ai fati. Ma poiché di questi savi non si truova, avendo li uomini prima la vista corta e non po-tendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda a li uomini, e tiegli sotto el giogo suo.” Se gli uomini in gene-rale non sanno accomodarsi ai tempi e all’ordine delle cose, il vino ha invece mostrato una note-vole capacità di cambiar forma e di adattarsi a circostanze e bisogni diversi.

Nella sua lunga storia il vino si è infatti presen-tato in varie forme, gradazioni e composizioni. Una delle motivazioni a produrre forme inferiori di vino era senza dubbio la necessità di offrire al bracciantato urbano e agricolo vini economici che potessero essere consumati in larga quantità e dare quel sostentamento energetico che il cibo da solo non forniva. Forse vale la pena di ricor-dare, a questo proposito, che nel secolo scorso si usava dare a complemento del salario il cosid-detto vinello, che per quanto di qualità “infima”, come ricorda l’inchiesta agraria del 1881, è “con-fortante più che l’acqua” ed “il colono alquanto

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agiato, durante la settimana fa uso di pane e di minestra, e ogni otto giorni, anche di carne e vino schietto, mentre ordinariamente fa uso di vino piccolo o vinello”. Esistevano dunque due modi di consumo del vino, quello ordinario, quando il vino veniva consumato nella sua for-ma impura o annacquata, e quello straordinario, quando il vino veniva consumato nella forma pura, o alta: se non fossero state disponibili le qualità inferiori del vino l’alternativa sarebbe sta-ta, ovviamente, la misera acqua.

Misera acqua perché nell’Italia agricola il vino era, fino alla metà di questo secolo, una fonte energetica fondamentale che poteva addirittura sostituire, in parte, il pane. Chi scriveva nell’Ot-tocento dei rapporti fra alimentazione e lavoro lo metteva in evidenza: con un “buon bicchiere di vino sullo stomaco…, l’operaio può fare a meno anche di qualche libbra di pane”. Il socialista Edmondo De Amicis scriveva addirittura che il vino era “il secondo sangue della razza umana”, che rafforza il braccio all’operaio, mette il canto e l’allegria, riscalda i vecchi, aiuta nelle convalescenze, “aggiunge un sorriso all’amici-zia e una scintilla all’amore”.

Le versioni inferiori del vino erano tuttavia diffuse anche prima dell’Ottocento. “Coi fondi ed i lavaggi delle botti”, scriveva agli inizi del Seicento G.B. Croce, “si farà il vino per la servi-tù”. Meno severo, A. Gallo lodava un vinello ottenuto conservando la botte piena con l’ag-giunta di mezzo vino ed acqua che era chiamato “la bevanda dei poveretti”, perché “con poca spe-sa, rende assai, e non se ne può bere se non poco, per mordere la lingua come fa”. Accanto al vino di alta qualità è sempre esistito il mondo varie-

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gato dei vini di minor pregio, detti “vinelli”, “mischiati”, e “terzanelli” che hanno rappresen-tato per secoli la forma quasi esclusiva del con-sumo di vino delle classi popolari.

Il vino ha dato prova di saggezza non solo per la sua capacità di cambiar forma per essere ac-cessibile alle classi popolari, ma anche per la sua capacità di trasformarsi per diventare particolar-mente appetibile per le classi privilegiate. L’esempio forse più significativo di questa capa-cità di metamorfosi del vino è probabilmente la creazione dello champagne fra la fine del Sei-cento e gli inizi del Settecento. Si racconta che pioniere delle nuove tecniche di vinificazione fosse il capo cantiniere dell’abbazia di Haut-villers, Dom Pierre Pérignon, di cui però si è persa ogni traccia documentale. L’intraprendente cantiniere, scrive Tim Unwin, “ansioso di mi-gliorare la qualità dei vini dell’abbazia.… rior-ganizzò i vigneti e cominciò a selezionare alcuni specifici vitigni, in particolare il pinot noir, per la produzione vinicola. Durante la vendemmia Dom Pérignon sceglieva uno per uno i cesti d’uva da miscelare per produrre il particolare tipo di vino che voleva ottenere. L’uva veniva poi pressata rapidamente per ridurre i tempi di contatto con le bucce e la fermentazione produ-ceva un vino bianco non frizzante, conosciuto con il nome di vin gris. Si trattava di un vino molto pregiato che si vendeva a prezzi molto alti”. Più tardi si scoprì che, dopo alcuni mesi di riposo in bottiglia, questo tipo di vini sviluppa-vano una caratteristica effervescenza, e questa nuova caratteristica li rese ancora più prelibati e più ricercati da chi se lo poteva permettere. Il nuovo prodotto, come dimostra la commedia di

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Sir George Etheridge The Man of Mode; or Sir Fopling Flutter (1676) venne chiamato “Cham-pagne frizzante”.

L’altro esempio significativo di metamorfosi del vino per adattarsi ai gusti raffinati, è la crea-zione del Porto che avvenne anch’essa verso la fine del XVII secolo. Il Porto, come lo Champagne, richiede bottiglie che permettono al vino di maturare. Ma la caratteristica principale del Porto è che si tratta di un vino rafforzato con l’aggiunta di brandy. Anche nel caso del Porto, come in quello dello Champagne, pare che l’in-ventore del nuovo prodotto sia stato un abate, e precisamente l’abate del monastero di Lamego nell’alta valle del Duero. Dopo aver convinto due mercanti inglesi ad acquistare del vino di Pinhão, l’abate spiegò che aveva aggiunto del brandy durante la fermentazione per accentuarne la dolcezza e rafforzarne il corpo. Vera o falsa che sia la storia, è un fatto accertato che a partire dal 1670 si diffuse nel Portogallo settentrionale l’abitudine di rafforzare il vino con il brandy, e dal 1680 i mercanti inglesi cominciarono ad ac-quistare grandi quantità del nuovo tipo di vino. Quando si resero conto che era necessario un tempo sufficientemente lungo perché vino e brandy si miscelassero bene, presero l’abitudine di lasciare invecchiare il vino nelle botti.

Per la sua capacità di adattarsi ai tempi e alle varie e mutevoli esigenze, il vino merita un elo-gio particolare che non ci deve tuttavia far di-menticare la sua straordinaria virtù di rendere la mente più leggera e il cuore più forte. Ma a questo proposito è d’obbligo lasciare l’ultima parola a Shakespeare: “un buon bicchiere di vin di Spagna asciutto [sherris-sack] è sempre a dop-

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pio effetto: primo, che mi sale al cervello, e lì prosciuga tutti i vapori, acri e grevi, della sce-menza, e me lo rende appercettivo, pronto, saga-ce, vivo, forgiativo, pieno d’aereo fuoco e di estri dilettevoli: i quali, consegnati alla voce del-la lingua che gli dà l’aire, diventano battute di spirito eccellenti. L’altro effetto del nostro prodi-gioso vin di Spagna è di scaldare il sangue: il quale prima, infreddolito e stagno, lasciava pal-lidissimo il fegato: segno, questo, di meschinità e di vigliaccheria. Riscaldato dal vino invece, il sangue prende un fugone dall’interno alla perife-ria: illumina la faccia che come un fanale di segnalazione trasmette a tutto il resto del piccolo reame —l’uomo— l’ordine di armarsi; e allora la balda borghesia degli spiritelli interiori mi si schierano intorno al loro bravo capitano —il cuo-re— il quale, gonfiato e lievitato da questo gran codazzo compie prodigi di prodezza: e tutto a gloria di quel vin di Spagna”.

Maurizio Viroli

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UN’AZIENDA ATTRAVERSA I SECOLI

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IL MOSCATO E LO SPUMANTE

Gli antropologi distinguono fra l’appartenenza a gruppi la cui identità è determinata dalla madre e quelli la cui identità è determinata dal padre.

Qualcosa del genere vale forse per il vino. Ve ne sono di quelli che prendono il loro nome, la loro identità, da una zona determinata, come l’Asti e ve ne sono altri che lo traggono sempli-cemente dal vitigno come il moscato. Il quale deve forse il suo nome —ma diverse sono come vedremo le ipotesi— alla nobile famiglia dei conti Muscati di Albiano, così come il Barbera ai nobili Barbero, il Lambrusco ai Lambrusco di Acquosana e il Greco ai Greco di Canelli. Fu forse proprio questo vitigno, il Greco, ad aprire la strada alla coltivazione del moscato a Canelli. Dava uva di colore giallo dorato con riflessi ramati da cui si otteneva un vino dolce e liquoroso di gran pregio e di gran prezzo.

Oggi molti vini vengono indicati più propria-mente sia con il nome del padre che con quello della madre: è il caso ad esempio del Moscato d’Asti.

Questi appellativi sono, come si vede, più re-centi della coltivazione delle uve stesse, già nota al tempo dei romani. Plinio e più tardi il Palladio menzionano la viticoltura nei loro trattati col nome di coltivazione “apiana” a causa dell’attra-zione che le viti suscitano nelle api. Il cambia-mento di “appellativi” sembra così essere l’effet-to della storia più che del gusto o della cucina.

Dopo il disfacimento dell’amministrazione ro-

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Il moscato di Canelli.

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mana e le invasioni dei barbari —Goti, Longobardi, Franchi e Saraceni, questi ultimi definitivamente scacciati dal Piemonte solo at-torno agli anni 965-70— coltivare stabilmente la terra era un mestiere pericoloso che poca gente poteva permettersi: strade inagevoli ed infestate dai predoni, acquitrini in fondo valle, boscaglia e canneti al posto dei terreni prima coltivati. Non per nulla la capitale del moscato si chiamò Canelli dai canneti in cui sorse, inizialmente, un piccolo agglomerato abbarbicato attorno ad una fortezza, diventato in seguito un comune infeudato. Alla fine del XII secolo, Canelli era però già un “consorzio” di famiglie nobili. Esse, assieme ai conventi della zona lungo il fiume Belbo, ridiedero vita all’agricoltura. Non che questo rendesse la vita agli abitanti più facile. Situata come era al confine di Asti e Alessandria —due città in continua lotta fra di loro— Canelli fu possesso, e spesso preda, dell’una e dell’altra, come dei marchesi del Monferrato e dei Savoia, degli Orléans e di Napoleone.

Sino al Seicento, non sembra che la vite fosse stata la principale fonte di sostentamento della popolazione. Una parte delle attività economi-che esistenti al tempo dei romani —vasellame, legname, commercio della lana— aveva lasciato il posto a mestieri più moderni e poveri come quello dei calderai e degli spazzacamini. Dal Settecento si ha una documentazione più precisa sulla viticoltura della regione. Sappiamo così che nel 1749 ventiquattro dozzine di radici di barbera costavano 12 lire; che una brenta (50 litri) di “vino bianco vecchio” era venduta a 6 lire men-tre il “vino inferiore” era smerciato all’ingrosso a 0,16 lire. Il divario fra i prezzi era notevole. Il

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signor Petacchio, oste a Torino, comperava a Canelli vino malvasia a 15 lire la brenta e “vino bianco vecchio” a 9, trasporto a Torino (oltre 60 km) compreso.

Di moscato all’epoca non si parla molto nei documenti, anche se in breve tempo, cioè a par-tire dalla metà dell’Ottocento, questo tipo di vino diventa se non proprio una monocoltura certo la specialità della zona.

Il moscato è un vitigno di origine antica, colti-vato da sempre nel bacino del Mediterraneo.L’origine del nome è incerta. C’é chi la fa risali-re al fatto che i Romani chiamavano apiane le uve che attiravano le api, anche se dalle loro descrizioni le caratteristiche di quelle uve erano ben lontane da quelle del moscato. Le api furono poi confuse con le mosche, da cui sembra deri-vare il termine moscato. Più probabile, invece, come sostengono Berta e Mainardi nel loro libro sulla storia della vite e del vino del Piemonte, è che il nome moscato derivi dall’aggettivo muscatum, che sta per aromatico. Lo conferme-rebbe il fatto che nel medio evo a Venezia, il profumiere era chiamato muschiere e moschea significava “la profumata”.

Per lungo tempo il moscato fu prodotto come un vino dolce tranquillo. Messo in bottiglia, fermentava naturalmente creando quella mode-sta schiuma dorata che lo rendeva unico e pre-zioso e particolarmente adatto ai festeggiamenti. Proprio sfruttando queste caratteristiche, a Canelli nacque l’industria dello spumante.

Il collegamento dello spumante con l’amore è esso pure antico. Lo spumante crea un’atmosfera altrimenti difficilmente manifestabile grazie a quel “certo non so che” di leggerezza, benessere,

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Le prime cantine di Canelli.

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confidenza ed abbandono che nessun altro vino produce.

Plinio ricorda come gli imperatori romani raf-finati e gaudenti apprezzassero i “vini spu-meggianti della dea Augusta” e con essi festeg-giassero riti e festini. La difficoltà, in quel tem-po, era il recipiente che non resisteva alla pres-sione della fermentazione.

Lo spumante, potropum, aveva affascinato, for-se a causa dei suoi riflessi aurei di filigrana, anche Virgilio:

Ille impiger hausit Spumantem pateram

Cesare lo beveva con Cleopatra, anche se si trattava probabilmente di un Falerno rifermentato con uve della nubiana Meroe, mentre la scuola medica salernitana gli attribuiva un valore di medicamento. “Scaccia i vapori —leggiamo nel capitolo IX del Flos Medicinae— scioglie le vi-scere piene, acuisce l’ingegno, rafforza l’udito, fa rimpinguare il corpo, e fortifica l’esistenza”.

I poeti erano del resto d’accordo con i medicidell’epoca:

Fan palese il vin sapore, limpidezza, odor, colore,se il buon vin conoscer brami cinque cose ei ti richiamisia formoso, sia fragrante, forte sia, fresco e frizzante.

Finiti i tempi bui delle invasioni barbariche, quando in Europa si poté ricominciare a pensare alla vita gaudente, lo spumante ritorna in auge sulle tavole di Carlo V, Enrico VIII, Leone X,

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Clemente VII: protagonista dei brindisi che con-tinuano a formalizzare tanto i banchetti ufficiali che quelli di famiglia.

Ci sono ragioni pratiche per la longevità e il primato dello spumante: è un vino che si assorbe in fretta, che crea euforia senza guastarla subito con il mal di testa. Qualità, questa, ben nota ai gentiluomini della belle époque che conosceva-no l’arte di mantenere a livello ideale di gaiezza e comprensione le loro dame nei séparés di Chez Maxim’s. L’elogio femminile più bello di questo vino lo si deve a Jeanne Antoinette Poisson, dama di discussa virtù ma di gran nome, meglio nota come marchesa di Pompadour: “il solo vino che io conosca capace di rendere una donna più bella dopo averlo bevuto”. Una bottiglia di Champagne appena stappata fu trovata nel 1899 a Parigi nello studio del presidente Felix Faure morto, quasi invidiato, durante la visita pomeri-diana e intima della sua amante. Nel 1932, una rivista americana stabilì che fra le spese “indi-spensabili” per uno scapolo a caccia di avventu-re non possono mancare gli otto dollari per la cena e lo champagne del dopo teatro. Insomma, con le reminiscenze soggettive e i dolci fantasmi di passati amori e banchetti che suscita, questo vino resta a tutt’oggi l’espressione romantica del sole della civiltà europea mediterranea.

Oggi, nonostante le abitudini sociali siano cam-biate, lo spumante rimane ancora il legame più diffuso tra il rituale amoroso del passato e del presente.

Passando dagli effetti al contenuto, i prodotti dell’industria dello spumante si possono divide-re in due grandi gruppi: Champagne (ed imita-zioni dello Champagne) e Asti (ed imitazioni

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Torchio usato per la produzione del moscato (1857).

Vecchi filtri del moscato (1930).

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dell’Asti). In qualsiasi paese vengano elaborati, gli spumanti secchi sono chiamati nel linguaggio comune champagne; gli spumanti dolci spuman-te, attributo che automaticamente significa pro-dotto dolce italiano.

Per lungo tempo Champagne e Asti hanno se-guito strade parallele: entrambi dolci ed entram-bi prodotti, date le limitate conoscenze tecniche, col metodo della fermentazione in bottiglia.

Il moscato cresce in Piemonte nell’Astigiano, nel Monferrato e nelle Langhe e il vino di queste tre zone produce quel tipo di spumante cono-sciuto mondialmente col nome di Asti. Esso si distingue dallo champagne per molte particolari-tà di gusto e per una differenza tecnica fonda-mentale: contrariamente ad altri spumanti, nella produzione dell’Asti, la fermentazione del mo-scato viene arrestata appena ammostato, in modo da conservare la maggior parte del suo zucchero. Viene poi ripresa al momento della trasforma-zione in spumante conservando così intatte le sue preziose caratteristiche organolettiche.

Un tempo questo moscato veniva trasportato in barili di legno di rovere, ben stagionato e steri-lizzato al vapore, di capacità variante da 50 a 200

litri. Ora viene conservato in celle frigorifere fino al momento dell’imbottigliamento. Dalle uve di questo nome, ora quasi tutte utilizzate per la produzione di Asti e di moscato d’Asti e, in piccole quantità di Moscato passito, veniva pro-dotto sino a non molti anni fa anche il moscato secco ed il moscato per vermouth. Dalle vinacce si ottiene una grappa unica ed inimitabile e dai residui del vino, da quella che si chiama la “fec-cia”, il cremortartaro il cui colore veniva ricor-dato in certi scritti medioevali in connessione con il buio dell’inferno.

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Pietro Bosca (1799-1887).

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I BOSCA E IL VINO DI CANELLI

Anche qui si tratta di un legame antico. Pietro Bosca, figlio di Secondo e di Domenica Scaglio-ne, primo membro della famiglia omonima di cui si hanno informazioni precise, nacque in quel di Sant’Antonio. È una frazione di Canelli, nota per essere la collina dove cresce il miglior mo-scato del mondo. Era l’anno di grazia 1799, epo-ca in cui la vita del contadino del Piemonte era ancora quella dell’Ancien Régime, anche se la Rivoluzione francese era ormai vecchia di dieci anni. La prima campagna d’Italia di Napoleone non l’aveva turbata di molto. I rapporti giuridici e sociali nelle campagne erano ancora in gran parte regolati dagli “Statuti di Canelli”, una legi-slazione risalente alla metà del XIV secolo. Im-poneva di pagare sessanta soldi a chi “tirava per i capelli una persona con pugni e schiaffi”; gli insulti “ingiustificati” ad una donna per bene potevano costare dieci soldi o la fustigazione; il proprietario che feriva colui che “rubava uva o messi” era assolto. Le multe a chi entrava abusivamente nelle vigne dovevano servire, al-meno teoricamente, a proteggere il raccolto: un soldo per il furto di un grappolo, di canneti o di rami di salice (con cui si legano ancor oggi le viti); due soldi sino al primo giorno di agosto, dopo la zappatura, a chi penetrava illegalmente nella vigna altrui; cinque soldi in seguito. Nulla era invece dovuto per le legnate somministrate alla propria moglie e ai proprii figli lasciando “il diritto di ritorsione” al Podestà.

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Il sistema era certo stato scosso dalla prima invasione delle truppe francesi nel 1796. Napole-one non era entrato in Canelli ma aveva dato battaglia ai piemontesi non lontano dalla città, a Cairo Montenotte, riportando una delle sue fa-mose vittorie. Il Generale Massena, che sembra avesse alloggiato in loco, era accompagnato da militari così male in arnese e affamati da com-portarsi con maggior violenza di quei “miliziotti”, volontari o reclutati con la forza dal governo di Torino, che costituivano i “partigia-ni” dell’epoca. Del passaggio delle truppe napoleoniche, ciò che aveva lasciato il peggior ricordo fra i contadini come il Bosca erano gli “assegni” con cui i francesi pagavano il vino, il bestiame e gli affitti delle case e delle cascine che confiscavano. Questi impegni finanziari ri-voluzionari non valevano più della carta su cui erano stampati.

Se al momento della nascita di Pietro Bosca le truppe francesi erano ormai lontane in Egitto,nel 1831 quando registrò, presso il notaio di Canelli, la sua ditta vinicola, egli era ancora as-sillato dai racconti su quegli “assegni”.

Piccolo proprietario della valle del Belbo, a-veva capito che di sola uva non era prudente vivere, come invece aveva fatto per secoli la sua famiglia (il nome di un Bosca appare in calce dell’atto di infeudazione di Canelli al feudatario del luogo nel 1217). Anche se la rinomanza del suo vino aveva raggiunto il Lombardo-Veneto, il Granducato di Toscana e persino la Francia, ba-sarsi solo sulla produzione di un appezzamento proprio non era né sufficiente né prudente per far fronte alla domanda instabile del mercato. Il vino era, dunque, meglio comprarlo anche dagli altri

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e venderlo fuori zona.In un’epoca in cui nel Piemonte, da poco resti-

tuito a Casa Savoia, le male annate agricole si alternavano con i moti rivoluzionari, il crollo dei prezzi con l’incompetenza di una nobiltà latifondista e indebitata, occorreva aggiungere all’aratro, al biroccio e al torchio altre fonti di guadagno capaci di allargare gli orizzonti econo-mici senza richiedere troppi investimenti. La cre-azione di una società pareva fare al caso suo: univa alla persona fisica di proprietario terriero quella legale di commerciante; confermava il suo passaggio dal contadinato alla borghesia: classe sociale nuova, che nel Regno Sardo dell’epoca, era guardata con sospetto perché troppo indipen-dente e politicamente liberale.

Non che questo lo preoccupasse oltre modo. Per un vinaio come lui che almeno una volta all’anno partiva per la Francia alla testa di una

Barile originario in cui venivano esportati i vini Bosca (1884).

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piccola carovana di carri-botte, trainati da cop-pie di grossi cavalli Percheron, il maggior peri-colo erano i banditi. Per valicare in pace il Colle Turchino e scendere in Liguria e sulla Costa Az-zurra occorreva patteggiare con loro. Pietro Bosca aveva imparato a farlo con il vino e con il denaro, senza mai sapere, in partenza, quale dei due rappresentasse il passaporto più efficace.

Di Pietro Bosca non si sono conservate foto-grafie. Ma il busto che il figlio Luigi fece scolpi-re in occasione dei suoi settant’anni, conferma nello sguardo austero e nel cravattino ricercato, la soddisfatta autorevolezza del notabile fine Ot-tocento. Testimonia anche l’evoluzione delle aspirazioni di una classe emergente, impegnata ad adattarsi ai cambiamenti politici ed economi-ci del suo tempo. Per i Bosca l’elasticità com-merciale si sarebbe trasformata in una strategia: quella della ricerca del nuovo nel permanente.

Pietro Bosca aveva quarantaquattro anni —un anziano per i suoi tempi— quando gli nacque, nel 1843, nella vecchia casa di Sant’Antonio, il figlio Luigi. In dodici anni la sua ditta non era cresciuta di molto anche se i vigneti di proprietà si erano estesi a 4 ettari grazie alle vendite go-vernative dei beni ecclesiastici confiscati.

Luigi (1843-1928) non era il suo primogenito. Pietro si era infatti ammogliato due volte: con Maria Teresa Bava, da cui aveva avuto due figlie e, in seconde nozze, con Maria Barbero madre di Luigi. Sappiamo che questo figlio fu precoce nel lasciare gli studi e nel matrimonio dato che a soli ventun’anni sposò Margherita Cortese da cui ebbe quattro figli e cinque figlie. Figlia anch’ella di un piccolo proprietario terriero, Margherita condivise con lui la sua vita movimentata. Di-

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venne la sua consigliera e la responsabile degli affari di famiglia durante le prolungate assenze del marito. Lo teneva al corrente dell’andamento della ditta mandandogli periodiche relazioni sul retro di cartoline postali che indirizzava all’al-bergo dove sapeva si sarebbe fermato. Brevi

Luigi Bosca (1843-1928) con la moglie Margherita Cortese.

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messaggi che dicevano: “venduto a 18 franchi quindici brente di moscato al Signor Bacigalupo di Quarto”; “ritirato le 300 barbatelle da impian-tare nella nuova vigna di Monteriolo”. Luigi morì a 85 anni, ancora saldamente al timone del-la sua azienda. Fu il primo industriale di Asti a ricevere il titolo di Cavaliere del Lavoro nel 1913. Patriarca nel pieno senso della parola, questo industriale del vino aveva modernizzato la Luigi Bosca & Figli, impiantata in Canelli in quel-l’odierno Largo dei Cantinieri che oggi ricorda ed onora una delle prime concentrazioni fisiche ed industriali dei vinai del Piemonte.

Per Trade Mark, Luigi aveva scelto un’insegna significativa: racchiuso in un cerchio adornato da tralci di viti, ritrae un leone sdraiato con uno scudo ed il motto “Puritas et Cura” sul dorso. Al centro dello scudo una mano spreme un grappo-lo d’uva in un calice da spumante: segno di un’affermazione personale e di un programma.

Trade Mark (1878).

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IL VIVANDIERE DEGLI EMIGRANTI

Se Pietro Bosca aveva capito che per stare al passo coi tempi occorreva abbinare la viticoltura al commercio, il figlio Luigi fu tra i primi viti-coltori piemontesi ad estendere questa convin-zione al di là dei confini regionali e ad accettare la sfida della crescente concorrenza anche al-l’estero. Cercò così e trovò clienti fra coloro che nel vino volevano appagare, assieme alla sete, anche la malinconia per la terra natale lontana. Erano, questi nuovi clienti, emigranti italiani in Francia, Svizzera, Germania, e poi oltremare nel-le Americhe, in Africa e in Australia.

Luigi Bosca aveva capito che il vino, per l’emi-grante, era qualcosa di più di una bevanda alco-lica: era un “nettare” che ricordava la patria nel-le festività di calendario e la casa paterna nelle feste di famiglia; con cui si brindava ai successi economici e ai ritorni dai viaggi e dalle guerre; con cui si addolcivano i distacchi e si cercava di lenire i dolori. Era, quel vino “nostrano”, un rag-gio di sole, una zolla di terra imprigionati nel vetro o nelle botti, un prodotto il cui prezzo e prestigio erano anche —ed in molti casi, soprat-tutto— legati al sapore del ricordo e dell’oblio.

Il ruolo di vivandiere degli emigranti si rivelò per Luigi Bosca un ruolo vincente. Ciò che, al-l’inizio, era stata un’intuizione venne in seguito elaborata in una strategia commerciale (a comin-ciare dalla prima succursale all’estero, creata si-gnificativamente nelle vicinanze del porto di Nizza nel 1860) e sviluppata attraverso ventitrè

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traversate atlantiche. Luigi le compì, prima, su navi a vela, poi sui primi vapori, accompagnato da mastri bottai per proteggere il suo vino dagli effetti delle lunghe soste sul mare (nel 1882 il viaggio verso l’Argentina richiese centoqua-rantadue giorni a causa delle avarie della nave bloccata alle Canarie).

Buenos Aires fu la prima sede d’oltremare. Fon-data nel 1889 e diretta dal figlio Pietro (1865-1928), la filiale sita al n. 938 del Calle Libertad era diven-tata alla fine del secolo “la Marca del mayor con-sumo de la Republica Argentina”. Disponeva di sette collegamenti telefonici, sfoggiava il doppio titolo di “Fornitrice di S.M. il Re d’Italia” e di “Esportatore Mondiale dei Vini del Piemonte”. Le sue specialità erano il Moscato, il Malvasia vec-chio, il Barbera, il Freisa, il Nebbiolo, il Grignolino, il Bracchetto, il Barolo Extra. I soli prodotti che non fossero di origine “familiare” erano la Grappa

Pubblicità per gli emigranti (1912).

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di Moscato, venduta “in damigiane con cannella”ed il Marsala extra vecchio.

La seconda succursale d’oltremare fu quella di Staten Island, presso New York. Venne aperta nel 1903 a Stapleton e fu diretta per sedici anni dal figlio Carlo (1882-1942). In quella sede, que-sto rampollo Bosca si sforzava di farsi perdonare dal padre, attraverso i successi commerciali “in terra d’esilio” le avventure romantiche che anni prima avevano messo in subbuglio la famiglia e turbato la tranquilla società di Canelli. Di lui, dopo le alluvioni che in due riprese hanno inon-dato gli archivi di Casa Bosca, ci rimangono delle fotografie e gli appunti del giro del mondo che fece fra il 1908 e il 1909. È un peccato perché da queste annotazioni, vergate a penna e a mati-ta, su una piccola agenda-indirizzario (garante di un servizio postale via Londra, fra New York e Roma in nove giorni (sic!) e del cambio della lira-oro col dollaro-oro a 19,3 cents), Carlo Bosca rivela una natura di attento osservatore, che avrebbe potuto fare di lui un buon giornalista. Non ne ebbe mai voglia né tempo, oberato co-m’era da impegni commerciali e amorosi. Al suo arrivo a New York, l’11 luglio 1909, dopo aver visitato il Giappone, la Cina e il Canada cercan-do ovunque di fare affari, sospira: “qui comin-ciano le noie, le minacce, i soprusi che rendonmi triste, non finiranno che verso settembre 1909, risentendone gli affetti morali per sempre, forse. Oh americani infami!”.

Tutto questo non gli impedì di godersi la vita “per dovere professionale” diventando un perso-naggio di spicco nella comunità italiana e “Mister Moscato” prima del proibizionismo. Abe Buchman, oggi ancora per fama, competenza e

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veneranda età, l’avvocato del vino di New York par excellence, non perde l’occasione di raccon-tare che suo padre aveva messo in serbo nel 1919

trecento bottiglie di spumante Carlo Bosca, av-volte in carta d’argento e d’oro, per festeggiare in sordina, durante il proibizionismo, le nozze d’oro e d’argento dei propri famigliari.

Il terzo figlio di Luigi, Umberto (1876-1960), fu il solo dei Bosca a non seguire le tradizioni vini-cole della famiglia. Scelse la carriera delle armi, che lo portò a combattere in Libia e nei Balcani. Morì generale di fanteria, pluridecorato, prota-gonista di un fatto d’armi che suona come uno scherzo della storia. Catturato dagli austriaci, in-ternato a Dachau, guidò negli ultimi giorni della Grande Guerra una rivolta dei militari prigionie-ri. Si impadronì della vicina città di posteriore famigerata fama e funzionò da sindaco per qual-che settimana dopo l’armistizio.

Giuseppe (1873-1961), rimase invece a Canelli a

La cantina di Stepleton a New York.

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Carlo Bosca (1882-1942). Caricatura di Enrico Caruso.

coadiuvare il padre. Aveva sposato nel 1910

Caterina, prima figlia di Luigi Pistone proprieta-rio di una delle aziende vinicole più importanti del tempo. Situata nel centro di Asti alla fine del viale che pochi anni dopo venne intitolato alla “Vittoria”, la Pistone produceva Asti e Barbera ed aveva una vasta clientela internazionale. Caterina non si occupò mai degli affari del mari-to anche se proveniva da una famiglia di impren-ditori di successo. Era una donna sognatrice; sa-peva dipingere con garbo; era innamorata dei fiori, in particolare delle rose che coltivava con passione quasi maniacale. Passò la sua vita ad occuparsi dei poveri e dei diseredati. Giuseppe fu quello che in giornalismo si chiama “l’uomo di macchina”, il tecnico che dietro le quinte ren-de possibile il funzionamento quotidiano del-

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l’azienda. Assieme al padre dovette misurarsi con le molte crisi che scossero in quegli anni l’economia vinicola italiana: l’invasione della fillossera, che obbligò il rimpiantamento dei vi-gneti piemontesi; la Grande Guerra, a cui Giu-seppe partecipò come alpino; il proibizionismo negli Stati Uniti; la chiusura e la vendita della succursale di New York. Dopo la morte del pa-dre superò la crisi del 1929 e risolse, con la ven-dita, quella della succursale di Buenos Aires ri-masta senza guida per la scomparsa del fratello Pietro e nel 1932, partecipò, con Calissano, Martini e Rossi, Cinzano, Gancia, Contratto e Beccaro, alla costituzione del Consorzio per la Tutela dell’Asti di cui ancora oggi la Bosca fa parte. A quasi sessant’anni decise di “abdicare”. Non dovette essere per lui una decisione facile: il brillante secondo non si sentiva forse suffi-

Giuseppe Bosca (1873 - 1961) con la moglie Caterina Pistone.

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cientemente forte per affrontare la difficile siste-mazione dell’eredità paterna con i membri di una così vasta famiglia. Senza la sua soluzione pacifica e negoziata sarebbe stato infatti impos-sibile dare all’azienda una guida sicura.

Passò così le redini della Bosca al figlio Luigi (1911-1988), suo unico erede. Spetterà a lui con-vincere zii e zie che, ben guidata da una sola mano capace e disposta a rischiare e ad assumer-si la responsabilità di rilanciare l’azienda, la Bosca, malgrado il fallimento di tante aziende vinicole gloriose, ce la poteva fare.

Infatti, mentre falliscono la Calissano, il Conte di Mirafiori, e tante altre aziende piccole e me-die, la Bosca riesce a sopravvivere. Luigi, il se-condo del nome della dinastia, sposa Carla Ponzone. Era, nel suo genere, una Annita Garibaldi che seguirà sin dai primi anni i freneti-ci spostamenti del marito per il mondo. Fu mo-deratrice silenziosa che indirizzava sul concreto,

Cortile dello stabilimento in tempo di vendemmia (1922).

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senza smorzarli, gli entusiami fantasiosi del marito. Più tardi si trasformò lei stessa in businesswoman curando le relazioni esterne e le attività promozionali di una azienda in continua espansione.

Luigi morirà, in quella che la Bibbia definisce “buona canizie” dopo aver radicalmente trasfor-mato l’azienda di famiglia ed in parte la coltiva-zione della vite nel Piemonte.

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Le medaglie non mancano.

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Grande concorso a premi (1940).

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DALL’AZIENDA NAZIONALE ALL’AZIENDA INTERNAZIONALE

Luigi Bosca era stato educato al Collegio dei Barnabiti di Moncalieri. A vent’anni, mentre an-cora studiava per conseguire la laurea in econo-mia all’Università di Torino, dovette prendere in mano l’azienda di famiglia. Risolti i problemi di successione, nel 1935 lo troviamo all’Asmara a capo di una filiale che sfrutta con successo le opportunità apertesi al commercio dei vini con la guerra d’Etiopia. A venticinque anni riesce a riportare l’azienda in carreggiata: i guadagni rea-lizzati in Africa servono a rilanciare la Bosca e a finanziare l’ampliamento delle cantine, della fab-brica e del caseggiato di famiglia, oggi Palazzo Bosca in Largo dei Cantinieri.

Le attività in colonia non durano a lungo. So-pravvengono la II Guerra mondiale, la sconfitta, l’occupazione tedesca. Il Piemonte è terra di guerra civile fra Partigiani e Repubblichini e Canelli è coinvolta in queste lotte. A due riprese Luigi rischia la fucilazione nel corso di trattative per lo scambio di prigionieri.

Terminata la guerra, si getta a capofitto nello sforzo di ricostruzione. È convinto di essere ab-bastanza forte per rilanciare la vecchia strategia del “vivandiere degli emigranti”, ma allargando le attività dell’azienda all’estero. Sulla scia del-l’esperienza e della visione del nonno, si con-centra nella produzione dello spumante, attività che nei seguenti venticinque anni diventerà per lui un’ossessione.

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Troppi sono i vincoli che ostacolano in patria l’esportazione. La sopravvivenza dell’azienda dipende ormai dalla capacità di trasferire gran parte della produzione oltre frontiera e Luigi si impegna in una girandola di iniziative per pro-durre spumante là dove crede ci siano mercati di assorbimento. Nel 1947, a New York, ricostruisce la rete commerciale per la diffusione dello spu-mante Bosca avvalendosi del prestigio che il marchio conservava dal passato. Nel 1948 nasce a San Paolo la Bosca do Brazil; nel 1949 è la volta di una joint venture a Città del Messico a cui fanno seguito iniziative in Europa e in India. Non tutte si rivelano un successo. Servono tutta-via a dare alla Bosca l’immagine di leader dello spumante.

La Svizzera è, nell’immediato dopo guerra, il primo paese per numero di emigranti italiani. Nel 1955, Luigi Bosca acquista a Manno, nei pressi di Lugano, la Società Vini Bée. Sfruttando i vantaggi di una tariffa doganale che calcolava i dazi sul vino in base al peso lordo della bottiglia anziché su quello netto del contenuto (per lo spumante la produzione in loco comportava una riduzione di oneri doganali di più del 50%) riesce in breve a conquistare una importante fetta di un mercato ricco, non toccato dalla guerra e geogra-ficamente non distante da Canelli.

Il merito è anche di un giovanissimo tecnico, Walter Bocchino. Poco più che ventenne, questi diventa in pochi anni direttore generale della so-cietà che trasformerà in una delle più importanti aziende vinicole della Confederazione.

San Marino è la più piccola repubblica del mondo. Nullo come mercato, già negli anni cin-quanta, attirava migliaia di vacanzieri, soprattut-

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to tedeschi, che si riversavano sulla Riviera adria-tica. Il Moscato di San Marino, localmente in vendita, era prodotto dappertutto fuorché nella Repubblica. Luigi propone al governo sammarinese di creare un’industria del moscato propria, partendo dall’impiantamento di vigneti selezionati. Nasce la Società Vinicola del Titano, a cui fu riconosciuto il monopolio locale sulla produzione di spumante. Nel 1973 il governo sammarinese, esercitando un’opzione, decise di nazionalizzarla.

Le miniere del Belgio erano un altro punto focale dell’emigrazione italiana nell’Europa del dopoguerra. Nel 1956, a Mons, nel Borinage, dove anche l’aria sa di carbone, sempre in virtù del principio che lo spumante Bosca deve segui-re gli emigranti, fu costituita la Bosca pour le Bénélux. Per vent’anni, sino al 1974, quando il Mercato Comune renderà la sua gestione

Luigi Bosca (1911-1988).

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antieconomica, lo spumante Bosca viene prodot-to in grandi quantità a Mons.

È qui che si fa strada l’idea di sviluppare un tipo di moscato leggermente spumante, adatto al gusto dei Belgi e degli Olandesi: bevitori attratti dalla malìa del vino, ma difficili ad abituarsi al suo sapore. Al momento l’idea non ebbe seguito, ma rappresentò una delle utili esperienze di pro-duzione e di studio del mercato che in seguito sarebbero state confermate con straordinario suc-cesso dall’invenzione del Canei.

Un’altra esperienza a risultato posticipato fu, per la Bosca, quella di Vienna, tradizionale tram-polino dei commerci verso l’Est europeo. Gli italiani in Austria erano, nell’immediato dopo guerra, pochi e i rapporti commerciali non facili-tati dalle tensioni provocate tra i due paesi dalla questione dell’Alto Adige. Tuttavia, la tentazio-ne nella Bosca di avventurarsi all’Est era fortis-sima. Nel 1957 venne aperta a Erlaa, a pochi chilometri a sud di Vienna, la Bosca für Österreich. Si trattava di poco più di uno scanti-nato dotato di povere attrezzature manovrate da sei operai. Da qui incominciarono a partire pic-cole spedizioni di spumante per i paesi d’oltre cortina: Polonia, Germania Est, Cecoslovacchia, Ungheria e Russia. Si trattava di vendite numeri-camente insignificanti ma che si riveleranno nel tempo di grande importanza. I risultati economi-ci della Bosca austriaca furono tuttavia così de-ludenti da condurre alla chiusura della succursa-le dopo una decina di anni. Essa però servì a far conoscere il marchio Bosca nei paesi comunisti, dove qualsiasi prodotto occidentale esposto nelle tetre vetrine dell’Est costituiva un fatto eccezio-nale e immediatamente notato dal pubblico. La

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“predellina” austriaca aiutò inoltre a stabilire rap-porti con le varie organizzazioni governative pre-poste all’importazione di beni voluttuari e a co-noscerne ingranaggi e mentalità. Esperienza, questa, alla quale, negli anni sessanta, a Canelli non si era data importanza ma che si sarebbe rivelata preziosa quando l’Est comunista, sotto la spinta di un tenore di vita in lenta crescita, incominciò ad aprire le porte a beni di non prima necessità. La Bosca si trovò allora, quasi per miracolo, in una posizione di privilegio nei con-fronti di altre ditte occidentali ed in grado di sviluppare in grande stile la vendita dei suoi pro-dotti. Si sarebbe potuto sostenere, a posteriori, trattarsi di un caso da manuale di preveggenza imprenditoriale. In verità, si trattò di un colpo di fortuna con la quale, alle volte, la Provvidenza sembra voler premiare la determinazione e il co-raggio dell’imprenditore.

Non pianificata e di tipo ben differente, fu la

Lo stabilimento Vini Bee. Stabio, Svizzera.

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creazione di una società vinicola —l’unica ita-liana del genere— in India.

Ad interessare Luigi Bosca a questo lontano mercato, per di più religiosamente astemio, fu Pino Cacciandra. Era un generale di cavalleria, campione di equitazione, suo amico di lunga data col quale Luigi condivideva la passione per i cavalli. Era il presidente della Bisleri, produttri-ce del Ferro China, un tonico allora diffusissimo perché considerato oltre che liquore, un efficace ricostituente.

La Bisleri da tempo aveva interessi in India. Finita l’epoca coloniale, non potendo più pro-durre liquori, aveva iniziato ad imbottigliare ac-qua minerale e bibite gasate. D’altra parte l’alti-piano del Deccan produceva ottima uva da tavo-la ma il mercato locale, dopo la partenza degli inglesi (che a Puna avevano la loro maggiore base militare) non riusciva più ad assorbirla.

Il primo capannone a Baramati, India (1974).

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Cacciandra, contattato dal governo locale per trovare uno sbocco a questo eccesso di produzio-ne viticola, pensava di risolvere il problema pro-ducendo succo d’uva analcolico. Si consultò con Luigi al quale non sembrò vero di lanciarsi in una impresa che possedeva tutti gli elementi, economici e psicologici, per interessarlo. Dal-l’incontro fra una visione industriale pratica e la fantasia di un sogno romantico, nacque una serie di prodotti vinicoli smerciati, in un primo tempo, solo nelle farmacie, negli alberghi, negli ospeda-li e fra acquirenti stranieri. In seguito il mercato si estese alla popolazione locale, nonostante i molti ostacoli posti da tradizioni religiose e flem-ma burocratica. Oggi Baramati Grape Industries è controllata dalla United Bruweries, la più im-portante produttrice di bevande alcoliche dell’In-dia con una produzione annua che supera i sei-cento milioni di bottiglie.

Nel Deccan, nella regione di Baramati rigoglio-si vigneti creati dalla Bosca con vitigni italiani —barbera, nebbiolo, riesling, moscato, char-donnay, trebbiano e grignolino— forniscono le uve per la produzione dei vini e del vermouth Bosca sotto l’appassionata e costante supervisione di Polina Bosca che sembra aver scelto l’India come sua seconda patria.

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La pubblicità degli anni della rinascita (1950-1960).

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DA INDUSTRIALE A CONTADINO

Nel frattempo si stava attuando in Italia la più grande e pacifica riforma agraria della sua storia con la soppressione della mezzadria attraverso le agevolazioni offerte ai contadini per l’acquisto di terre che i proprietari non erano più in grado di coltivare indirettamente. Si creò così in tutta la Penisola, ma in particolare nel nord dove rico-struzione e industrializzazione assorbivano a ra-pido ritmo la mano d’opera contadina, un “mer-cato di venditori” terrieri, superiore alle capacità di acquisto dei vecchi mezzadri.

Normalmente, aziende dello spumante come la Bosca non coltivano uva perché i margini di pro-fitto sono troppo bassi e soprattutto aleatori. La comprano dai contadini o acquistano il vino pro-dotto dalle cantine sociali. Luigi Bosca percepi-sce, invece, nella congiuntura creata dalla rifor-ma agraria, un’occasione per diventare un pro-duttore di moscato di tipo nuovo. Acquista vigne nel circondario di Canelli seguendo un preciso programma mirante a rivoluzionarne la coltiva-zione e renderla economicamente interessante. È a lui che si deve l’introduzione, in Piemonte, del sistema di coltivazione detto a “rittochino”. È un metodo che cambia, da orizzontale a verti-cale, la disposizione tradizionale dei filari nei vigneti di collina. Questo permette al coltivatore di utilizzare i nuovi mezzi meccanici, con una drastica riduzione di costi e fatica, anche in ter-reni con forti pendenze che da sempre danno i migliori risultati in termini di qualità. Si trattava

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di un’innovazione tecnica semplice, quasi un uovo di Colombo, ma turbava abitudini e menta-lità contadine millenarie. L’impatto sulla produ-zione vinicola è stato uno dei fattori dello svi-luppo attuale della viticoltura in Piemonte il cui merito a tutt’oggi è ancora poco riconosciuto alla Bosca. Ha inoltre contribuito a trattenere sulla terra almeno una parte della mano d’opera contadina che altrimenti sarebbe stata attirata nelle città dalla industrializzazione.

I vigneti di Luigi Bosca, battezzati poi “Tenute Luigi IV” in occasione della nascita del primo nipote maschio che naturalmente portava il suo nome, superavano al momento della sua morte i 300 ettari. In essi l’agricoltore tradizionale era stato sostituito da operai trasportati giornalmen-te da Canelli sugli appezzamenti viticoli. Questa nuova attività di Luigi, così differente da quella

Polina Bosca ispeziona le viti coltivate a rittochino a Moirano di Acqui Terme.

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commerciale e industriale nella quale la sua fa-miglia si era distinta da generazioni, era forse dettata dal presentimento della malattia che lo avrebbe colpito nel 1974. Essa lo indusse a cedere la direzione dell’azienda al primo figlio Luigiterzo (1944), e a ritirarsi a vivere in mezzo ai suoi vigne-ti col titolo di Presidente onorario della Luigi Bosca & Figli. Da allora questo innovatore di non facile carattere e di risolute decisioni, non inter-venne più nella conduzione della azienda familia-re. Il compito di trasformarla in quello che il New York Times avrebbe definito come “la principale esportatrice di spumante in America” sarebbe toc-cato al terzo Luigi della dinastia.

Mappa delle Tenute Luigi IV.

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USARE IL PASSATOPER INVENTARE L’AVVENIRE

La Bosca precorrendo i tempi, aveva mirato al suo consolidamento attraverso l’assorbimento di altre case vinicole. All’inizio degli anni sessanta aveva acquistato la Zoppa, la più antica delle aziende vinicole di Canelli, fondata nel 1810. Nel 1900 Paolo Zoppa aveva costruito un imponente stabilimento lungo la linea ferroviaria al di là del fiume Belbo. Un grande palazzo di famiglia do-veva essere il segno di un successo che invece sfuggì alle susseguenti generazioni. Messo in vendita, lo stabilimento venne acquistato dalla Bosca che lo trasformò in quartier generale e centro di coordinamento delle sue attività al-l’estero.

Era un segno di ottimismo forse eccessivo do-vuto al confronto di una industria dello spuman-te, fino ad allora saldamente nelle mani delle aziende piemontesi, con uno scenario mondiale in rapida trasformazione. Due ne erano le cause principali: da un lato i consumatori stavano sco-prendo i vini di pregio, dall’altro essi si allonta-navano sempre più da vini che per generazioni avevano costituito una parte integrante dell’ali-mentazione quotidiana. Il vino si trasformava in genere voluttuario raffinato. Una miriade di pic-coli imprenditori di talento, attratti dalle possibi-lità offerte da questo nuovo mercato in espansio-ne, crearono nuove aziende, molte delle quali ottennero rapido successo internazionale. Era nata la moda del vino a denominazione d’origine

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che traeva il proprio valore dalla terra in cui le uve venivano coltivate oltre che dall’abilità di chi le produceva. Alla base della “DOC” sta l’idea della omogeneizzazione di ogni tipo di vino di cui le caratteristiche principali vengono stabilite per legge. Esso diventa materia prima per una nuova categoria di artisti che esprimo-no in esso la propria personalità, mettendo sul mercato prodotti unici, di qualità, che affasci-nano i consumatori alla ricerca di appagamento di gusti raffinati e di status, specie se di recente conquistato.

Lo spumante volle seguire questa tendenza e partecipare alla festa e alla moda. Anche l’Asti ebbe la denominazione d’origine che gli spetta-va per qualità e storia. Ma se il Barolo o il Brunello di Montalcino permettono al vinaio-artista di cesellare vini che il mercato richiede ed assorbe in virtù di un suo accurato, speciale pro-cesso di produzione, invecchiamento e rarità, la produzione industriale dello spumante non con-sente tali raffinatezze, del resto poco percepibili in un prodotto di questo tipo.

Angelo Riccadonna fu l’unico industriale del settore a comprendere la necessità di un profon-do rinnovamento dello spumante nonché gli osta-coli che tradizioni e filosofia imprenditoriale ponevano ad una corretta lettura delle nuove ten-denze del mercato. Per quanto fosse condiziona-to da un lungo successo nella produzione del vermouth e sembrasse disinteressato a quella dello spumante, Riccadonna intuì l’importanza di quella che si potrebbe definire l’immagine mirata della novità. Il suo President, ottimo spu-mante secco, accompagnato dal fortunato slogan pubblicitario “La domenica si pranza col Pre-

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sident” lo resero famoso e gli permisero di man-tenere per anni l’egemonia assoluta nel campo dello spumante in Italia.

La maggioranza dei produttori non sembrava tuttavia comprendere che contrariamente ai vini DOC, lo spumante stava cessando di essere un prodotto d’arte per diventare semplicemente una “merce”. Si trattava di un processo lento che spesso sfuggiva all’analisi, del resto poco coor-dinata, degli specialisti del vino, ma era un pro-cesso inesorabile.

Le cifre parlavano chiaro: da un lato mostrava-no la crescita dei consumi e la capacità di nuove aziende di produrre sempre maggiori volumi sen-za porsi problemi di immagine; dall’altro le vec-chie società ricche di storia e di tradizioni, appe-santite dalla passata opulenza, facevano fatica a reagire e a sostenere la concorrenza. Il boom dei consumi degli anni ’70-’80 aveva in qualche modo

Sede della Bosca a Canelli.

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impedito di prevedere questa evoluzione che un più attento esame del mercato avrebbe potuto far scoprire nei fatti e nelle statistiche.

L’esame non venne fatto in tempo per vari motivi, primo fra tutti l’assenza di un’azienda leader dell’Asti, capace di imporsi sul mercato e prosperare grazie a profitti derivati unicamente dall’Asti. A controllare i mercati c’erano invece due o tre grandi aziende che investivano nel-l’Asti profitti ricavati in altre produzioni. Inol-tre, nel caso specifico di Canelli, le molte azien-de locali non trovarono mai formula e interesse per unire le loro forze onde imporre assieme il prestigio della capitale del moscato.

Alla Bosca si percepiva il paradosso di una espansione di produzione che correva verso la propria fine. Una timida proposta di cooperazio-ne, avanzata da Luigiterzo agli inizi degli anni settanta, suscitò scandalo e fu subito abbandona-ta. La si interpretò come un’idea prodotta da difficoltà, il che era comprensibile data la situa-zione in cui la Bosca stessa si dibatteva: schiac-ciata com’era dalle grandi aziende produttrici di vermouth e aperitivi e da quelle nuove che non avevano tradizioni da difendere. Se voleva so-pravvivere come azienda famigliare indipenden-te doveva trovare il modo di reinventare l’indu-stria, divincolandosi dall’abbraccio della omo-geneizzazione che minava le ragioni stesse della sua esistenza.

Alla Bosca, non senza contrasti interni, venne deciso di cambiare registro. La nuova parolad’ordine fu “usare il passato per inventare l’av-venire”. Questo concetto, dimostratosi in seguito vincente sembrava, venticinque anni fa, più che un’eresia, un formidabile controsenso. Se fu pos-

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sibile navigare contro corrente, in un momento in cui tutte le maggiori aziende vinicole erano in espansione, lo fu solo grazie all’impiego delle non molte risorse della Società a sostegno di una convinzione: la possibilità di sopravvivenza del-l’impresa famigliare nell’epoca di globaliz-zazione a condizione di reagire grazie alla sua maggiore flessibilità decisionale ai cambiamenti profondi del mercato.

Autorità, coraggio e perseveranza sono virtù indispensabili ma non sufficienti per attuare pro-fonde trasformazioni economiche e tecnologiche. A coagulare idee e sforzi occorre il fattore uma-no della leadership, specie se sostenuto da una proprietà che con angoscia vedeva un’azienda di famiglia rischiare di scomparire senza combatte-re. Alla Bosca l’uomo giusto al momento giusto

Enrico Baj. La centomilionesima bottiglia di Canei.

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fu trovato nel nuovo direttore generale, Mario Martinengo, ingegnere torinese poco più che cinquantenne, sino ad allora amministratore in Italia e all’estero di grandi aziende meccaniche ed elettroniche. Sostenuto da Luigiterzo Bosca, questo tecnico che di vino non aveva alcuna esperienza, ma di mercato molta, mise a punto ciò che a molti vinai pareva non solo anti-professionale ma di impossibile realizzazione: un nuovo prodotto del vino.

Col senno di poi è oggi possibile capire quanto innovazioni del genere si scontrassero con resi-stenze psicologiche. Nel caso del moscato, a Canelli, avevano le loro radici più che nei vigne-ti, nella storia. Metaforicamente si trattava tanto di idolatria della tradizione quanto di “sindrome del palio”, la giostra medioevale equestre con cui dal 1275 Asti fa concorrenza al più famoso palio di Siena.

L’idolatria della tradizione favoriva l’immobi-lismo; la “sindrome del palio” era quel sotto-fondo psicologico di tribalismo parrocchiale, per il quale, come nella spericolata annuale corsa di cavalli, il danno inferto o subito dal concorrente era preferito al bene acquisibile dalla propria dit-ta (o contrada).

La trasformazione dell’innovazione “eretica”in successo di mercato fu trovata nella memoria “storica” della Bosca. Cercando, non senza ap-prensione, il prodotto nuovo, ci si ricordò del vecchio progetto nato e morto anni prima a Mons nel Belgio, dove si era tentato, senza successo, di sviluppare un tipo di prodotto che fosse al tempo stesso leggermente spumante, dotato del sapore e dello charme del vino ma adatto al gu-sto dei Belgi e degli Olandesi.

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New York Times, 7 aprile 1984.

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Fu il geniale intuito dell’enologo Francesco Paschina a trarre dall’archivio dei molti sogni svaniti della Bosca la formula per il nuovo pro-dotto. Il progetto venne rispolverato; nuovi pro-gressi tecnici fondamentali permettevano di ri-voluzionare i concetti produttivi; la fantasia di quel tecnico di grande capacità scientifica per-mise di trasformare un prodotto a suo tempo abortito in un vino che doveva poi diventare una pietra miliare dell’enologia italiana: il Canei.

Che cos’era? Era il primo vino pensato per i non consumatori di vino, un vino per i non ini-ziati: appena spumante, di moderata gradazione alcolica, frutto di una accurata combinazione di vini aromatici, molto leggeri e delicatamente dolci, per le sue caratteristiche organolettiche poteva essere apprezzato da un pubblico molto più vasto di quello degli abituali consumatori. Come spesso avviene nel campo della ricerca scientifica, anche l’idea del Canei aveva radici nel passato. Nel Seicento, infatti, la crespia era stato un vino dolce e frizzante ottenuto per rifermentazione. Si pensa che il suo nome deri-vasse dal fatto che, bevendolo, faceva increspare le ciglia. Era un timido primo passo sulla via della trasformazione del vino in bibita, perdutosi nei secoli e nella selva dei cambiamenti del gu-sto e dell’economia.

Anche il Canei si scontrò, all’inizio, con l’op-posizione di esperti che spesso si consideravano “grandi sacerdoti” della tradizione vinicola. Fu astiosamente e invidiosamente bollato con defi-nizioni dispregiative di cui, quella di “Coca Cola italiana” parve la più insultante. Non però alla Bosca dove nel prenderne conoscenza, la prima volta, si fece festa. Era la consacrazione della

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validità di un’idea originale, di una corretta, pre-vidente e coraggiosa lettura di un mercato in radicale trasformazione ma anche un nuovo modo di pensare i bisogni di un pubblico che richiedeva un approccio diverso da quello del vinaio classico.

Poiché il Canei era qualcosa di nuovo, nuova si pensò dovesse essere la sua presentazione. Per ben marcarne l’originalità venne studiata una bottiglia di tipo particolare dal collo allungato, ben oltre l’altezza delle normali bottiglie di vino, e la sostituzione del tradizionale tappo di sughe-ro con una moderna chiusura a vite a tenuta di pressione. Inizialmente concepita per motivi estetici, questa presentazione si rivelò un fattore importante di successo, quasi un colpo di genio. La bottiglia del Canei non entrava infatti negli scaffali normali per il vino nei negozi. Di conse-

Il cortile della Foresteria.

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guenza, il Canei veniva posto nei supermercati in settori distinti da quelli del vino. La sua parti-colarità catturava l’occhio del consumatore ed impediva la confusione dello spumante-bibita con i vini tradizionali: era nata una marca di stile e di gusto nuovo.

Le prime quantità sperimentali di Canei, invia-te negli Stati Uniti ricevettero subito una positi-va accoglienza da parte dei rivenditori. Ma una volta di più si ebbe la prova che le strategie che appaiono logiche ed eleganti quando sono for-mulate a tavolino vengono percepite in maniera molto differente sul “campo di battaglia”.

L’esperienza passata della Bosca unitamente al potenziale di assorbimento del mercato avrebbe-ro logicamente dovuto fare dell’America il ber-saglio naturale e privilegiato degli sforzi di pro-mozione del Canei. Non fu così perché il succes-so iniziò dal mercato opposto, a cui nessuno per ragioni economiche ed ideologiche aveva pensa-to: la Germania comunista dell’Est.

La Bosca aveva mantenuto con questo mercato comunista contatti che risalivano all’epoca dei timidi affari promossi dall’ormai scomparsa fi-liale di Vienna. In un sistema come quello comu-nista, dove la conservazione del potere è ragione di sopravvivenza, l’immobilismo burocratico era una delle sue caratteristiche. I funzionari che un decennio prima avevano trattato i gravi problemi politici connessi all’importazione di qualche mi-gliaio di bottiglie di spumante capitalista Bosca erano in gran parte gli stessi che ora dovevano affrontare le ardue decisioni politiche e ideologi-che dell’entrata del Canei nel mondo marxista tedesco. Ma con una differenza: se i burocrati e il nome dello spumante erano gli stessi, mancan-

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za di valuta estera, puritanesimo ideologico e orgoglio germanico del paese economicamente leader del blocco sovietico, si scontravano con la domanda della popolazione di allietare il grigiore della tavola socialista popolare con qual-che tentazione culinaria d’oltre cortina. L’Italia, col suo più grande partito comunista europeo e la sua politica estera permanentemente occhieg-giante verso est non faceva paura; il Canei univa il gusto del vino con il fremito della voluttà pec-catrice borghese dello spumante; per cui le auto-rità di Pankov non ebbero troppe remore nell’ap-provare l’importazione di un prodotto voluttua-rio, fabbricato da una azienda che non si era rivelata pericolosa nel passato, e di una bevanda che offriva una misura permissibile di peccato ideologico capitalista.

Fu così che, con grande stupore della Bosca, giunse a Canelli una richiesta di cinquantamila bottiglie che naturalmente si riferivano allo spu-

Capitolo dell’Universale Ordine degli amici del Canei.

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mante tradizionale tipo quello della vecchia azienda viennese, ormai inesistente. Persuadere i funzionari comunisti che il nuovo era meglio del vecchio, anche se in apparenza diverso, richiese un lungo negoziato in cui il produttore resisteva paradossalmente alle pressioni del cliente. Alla fine le cinquantamila bottiglie partirono nei loro “voluttuosi” recipienti di vetro dal collo elegan-temente allungato. E fu subito il boom.

Nel 1977, le bottiglie passarono da cinquan-tamila a due milioni, l’anno seguente a sette. A Canelli si dovette por mano alla costruzione di un nuovo stabilimento per far fronte alle richie-ste. Gino Robba, proprietario di una delle mag-giori ditte produttrici di un glorioso vermouth —aperitivo che stava passando di moda— deci-se di vendere la sua azienda. Gli stabilimenti della Robba vennero comprati dalla neonata Canei spa, e riconvertiti alla nuova produzione nel giro di pochi mesi.

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STATI UNITI

Contrariamente a quanto succedeva nell’Est europeo, gli studi di mercato in America dimo-stravano che il Canei stentava a penetrare nel mondo dei consumatori statunitensi, non per inaccettabilità del gusto del nuovo spumante, ma per eccesso di innovazione. Per abituare il pub-blico al nuovo prodotto ci sarebbe voluta una costosa campagna pubblicitaria che l’evoluzione delle vendite in America non giustificava. Fu così che la Germania Est salvò la situazione. I profitti derivanti dal successo insperato e non programmato del nuovo prodotto della Bosca nella DDR vennero investiti in pubblicità sul mer-cato americano e permisero ai tre containers spe-rimentali inviati alla fine del 1975 di trasformarsi in dodici milioni di bottiglie nel 1980 e in oltre venti milioni cinque anni dopo.

La storia della diffusione del Canei negli Stati Uniti ha anch’essa i suoi paradossi e i suoi eroi. “Chi berrà mai questa schifezza?” chiese Jack Cohen la prima volta che glielo fecero assaggia-re. Con Abe Rosemberg, Louis Silver e Raymond Ochacher, Cohen faceva parte della Star Industries di Syosset in Long Island, l’azienda che avrebbe portato il Canei al successo. Invece Ochacher, ex-proprietario del famoso negozio di liquori di Astor Place a Manhattan, ne fu subito entusiasta. Pensionato d’oro, inserito da lunga data nel commercio dei vini, che cercava un’oc-casione di impiegare il suo tempo libero, Ochacher decise di affidare ad una piccola socie-

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tà pubblicitaria di proprietà di Richard Heim il compito di conquistare il mercato americano per il Canei. Fu una scelta fortunata. Heim, uomo colto e raffinato seppe interpretare rapidamente, con gli scarsi mezzi a disposizione ma con gran-de intelligenza, il gusto di una clientela che nel giro di pochi mesi catapultò la nuova bibita in testa a tutte le classifiche di vendita negli USA.

Raymond Ochacher e Luigiterzo Bosca.

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Severino Gazzelloni dopo il concerto nella Sala delle Feste.

ITALIA

Il mercato italiano si presentava molto più schizzinoso e resistente. Per conquistarlo, Mario Martinengo ideò uno speciale distributore frigo-rifero trasparente. Alla base, c’erano tre calici allineati in modo che corrispondessero ciascuno ad una bottiglia. Queste potevano rovesciare, con il semplice abbassamento di una leva, il loro contenuto fresco al punto giusto e ricco di bollicine, nel calice sottostante. Questo versatore originale, appositamente costruito per la Bosca da una fabbrica delle Marche, fu dato in conse-gna a migliaia di bar in tutta la Penisola. Il rica-vato, minimo, di questa operazione si dimostrò

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largamente compensato dai suoi riflessi pubbli-citari. In Italia la vendita del Canei sfiorò nel 1988 i tre milioni di bottiglie. A contribuire al suo successo in patria intervenne anche l’Ordine de-gli Amici del Canei, confraternita gastronomica promossa e diretta da Giovanni Goria, avvocato e gastronomo di fama internazionale, che riuniva in sodalizio di buongustai personaggi di ogni estrazione sociale e culturale —da Oscar Luigi Scalfaro a Giuseppe Lazzati, da Severino Gazzelloni a Paolo Conte, da Agostino Casaroli a Mino Maccari e Luciano Minguzzi—. Questi estimatori del Canei svolsero una funzione de-terminante nell’aprire nuovi orizzonti ad un pro-dotto che offriva nuove occasioni di consumo.

Conversazione del Presidente Oscar Luigi Scalfaro alla Bosca.

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ISRAELE

In Israele negli anni settanta, il vino da tavola non era popolare e quello di produzione locale veniva consumato quasi esclusivamente per usi religiosi. Dall’Italia ne venivano esportate a mala pena ventimila bottiglie all’anno. Il Canei pro-vocò una rivoluzione. Nel primo anno la vendita superò il milione di bottiglie prima ancora di ottenere l’autorizzazione rabbinica che gli avreb-be aperto un larghissimo mercato in loco e al-l’estero. Il motore di questa diffusione fu Amiel Epstein, pittoresco personaggio che continuava con successo l’azienda di importazione di liquo-ri fondata dal padre fuggito dalla Russia zarista. Faceva parte di quelle famiglie di pionieri sionisti idealisti e intraprendenti, a cui Israele deve la sua nascita. Si rese subito conto di come in un mercato piccolo come Israele, famigliare e ciarliero, per vendere il Canei sarebbe bastato farlo assaggiare. Quando le vendite superarono i quattro milioni di bottiglie all’anno per un mer-cato di tre milioni di potenziali bevitori —bam-bini e musulmani inclusi— lo scontro con gli interessi dei pochi e protetti produttori locali fu inevitabile. La Bosca fedele alla sua politica di franchising e di joint ventures decise allora di produrre lo spumante in cooperazione con la principale azienda vinicola locale, la Carmel Misrahi.

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IL RESTO DEL MONDO

All’epoca Israele non era il solo paese dove il Canei si imponeva sul mercato locale. Il Canei veniva prodotto anche a St. Joan Despì in Catalogna, nei pressi di Lilla in Francia, in Au-stria a Linz, in Brasile ad Andradas nello stato del Minas Gerais, ed era venduto in oltre trenta paesi. Questi successi della Bosca, o piuttosto del Canei, rappresentavano un enigma per le vec-chie e soprattutto le nuove aziende vinicole. Si cercava di capire in che modo una azienda famigliare che in passato aveva sì avuto momen-ti di gloria ma in seguito si era adattata a vivere senza infamia e senza lode, si fosse ripiazzata, con clamore, sul mercato internazionale vinico-lo, attraverso l’invenzione di un nuovo prodotto.

Ernest Gallo, il re del vino californiano, voleva capirlo. Figlio di emigranti piemontesi, si era lanciato col fratello Julio nel commercio dei vini al termine del proibizionismo. Aveva poi creato la più grande azienda vinicola del mondo. Lo intrigava, più che preoccuparlo, il fatto che la vendita del Canei della Bosca era passata in In-ghilterra, in un solo anno, fra il 1986 e il 1987 da ventimila a duecentomila casse sotto l’abile re-gia di Lionel Motais con cui la Bosca UK aveva promosso una joint venture.

Questa filiale, sistemata in un piccolo ufficio a Lutterworth, nel centro dell’Inghilterra, con il direttore e due segretarie, era riuscita a conqui-starsi il mercato britannico e trasformare, in poco più di un anno, l’investimento di Motais da qual-

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che centinaio di sterline in qualche milione.Ernest Gallo telefona a Luigiterzo, e lo invita

perentoriamente a venirlo a trovare in California. Non spiega la ragione ma sa che nessun vinaio rifiuterebbe un suo invito. Nel corso della cola-zione offerta ai Bosca nella sua “reggia”californiana di Modesto, emerge lo scopo del-l’invito: qual era la ragione del successo inglese di una piccola azienda come la Bosca UK mentre la sua, a Londra con quaranta dipendenti, fatica-va ad imporsi?

La risposta era ovviamente nel rifiuto della omogeneizzazione e nella capacità di innovazio-ne. Questa strategia comportava tuttavia pericoli non inferiori ai successi. Infatti per quanto grati-ficante, l’esplosione delle vendite del Canei ce-lava un grave rischio: faceva dipendere il futuro della Bosca da una monoproduzione con tutti i vantaggi immediati e i pericoli a lungo termine che la “monocoltura” comporta. L’alternativa era perciò: o continuare a sfruttare il Canei, ormai prodotto maturo, lottando con enormi investi-menti pubblicitari contro imitazioni e concorren-za, oppure cedere questa “gallina dalle uova d’oro”, destinando le risorse ottenute dalla ven-dita al rinnovamento dell’impresa.

La decisione fu presa nel 1989 con la cessione della Canei spa alla multinazionale francese Pernod Ricard che a tutt’oggi ne continua con successo la produzione a Canelli.

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Il Canei.

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La spirale della Cora (1930).

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L’ACQUISIZIONE DELLA CORA

La Cora era una delle più antiche e nobili ditte piemontesi. Sul finire del Settecento, Giovanni Rovere, erborista e liquorista con negozio a Tori-no, preparava dei vini speciali aromatizzati, chia-mati “Vermouth”, di cui esistono ancora oggi le formule originali. Fra questi, uno era riservato alla Casa Reale e descritto nel suo ricettario come “Vino che faccio per S.M. Carlo Alberto”.

A quel tempo la vendita del vermouth era limi-tata e circoscritta alla città di Torino. Solo più tardi, anche per merito della Cora, doveva varca-re i confini d’Italia per diventare in pochi lustri l’aperitivo più consumato del mondo.

Il 30 maggio 1835 i fratelli Giuseppe e Luigi Cora rilevarono il negozio di Giovanni Rovere e costituirono con atto pubblico dinanzi al Regio Luogotenente Vicario di Torino la Società G.&L. Fratelli Cora.

Iniziava così l’espansione di una Casa che nel 1838 esportava, prima fra tutte, il Vermouth di Torino nelle lontane Americhe.

Il commercio dei fratelli Cora, andò acquistan-do uno sviluppo tale che Giuseppe e Luigi deci-sero di stabilirsi a Torino, sotto i portici di Piaz-za San Carlo trasformando la loro industria in una delle più importanti del settore.

Nel 1854 i Cora aprirono, sempre a Torino, in piazza della Legna, poi piazza Venezia, il Caffè Monviso. Sorto sulle rovine del Caffè Catlin, un antico e malfamato locale frequentato dalla tep-pa e dalla “mala”, il Monviso divenne luogo sto-

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Atto di fondazione della Cora (1835).

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rico di incontri sociali e politici dell’epoca risor-gimentale con Luigi Cora consigliere municipa-le a Torino e membro influente di associazioni politiche liberali.

Nel 1859, la Cora acquistò, a Costigliole d’Asti, nella piana chiamata Boglietto, uno sta-bilimento che la nobile famiglia dei Roero di Cortanze aveva sino ad allora utilizzato come conceria.

Scomparsi i due fratelli, le redini dell’industria passarono nelle mani di Enrico (1847-1915), figlio di Luigi, e di suo figlio Mario (1878-1944) che riuscì a portarla in testa alle aziende congeneri ed a realizzare una notevole espansione nei mer-cati europei ed extra-europei. Fu per suo volere che venne iniziata e potenziata una campagna pubblicitaria che fece dell’Amaro Cora un suc-cesso mondiale.

Lo stabilimento del Boglietto.

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Ciò nonostante e malgrado la grande espansio-ne dell’azienda nell’ultimo dopoguerra, alla metà degli anni settanta anche la Cora fu colpita dalla crisi degli aperitivi.

Il suo acquisto da parte della Bosca nel 1984, fu un affare non scevro dal sentimento del dovere: non sarebbe stato onorevole che un marchio così antico e famoso scomparisse o passasse in mani straniere. La Cora, una volta ceduta la Canei spa, permise con le sue strutture la continuazione di una gloriosa tradizione delle produzioni del vermouth e dello spumante.

Pubblicità Vermouth Cora (1915).

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LA RISPOSTA ALLE NUOVE SFIDE DEL MERCATO

Con la vendita del Canei, la Bosca si lanciava in una nuova avventura. Non si trattava per lei soltanto di inventare un prodotto nuovo di suc-cesso. Si trattava di affrontare i problemi molto più generali, con quei risvolti sociali, psicologi-ci, finanziari, che Peter F. Drucker aveva previ-sto ed analizzato nel suo libro Innovation and Entrepreneurship sin dal 1985: gli investimenti che si sostituivano al flusso delle merci come motore principale dell’economia internazionale; la robotizzazione che rendeva il lavoro una mer-ce sempre più rara e cara; l’ingigantirsi del ter-ziario che creava una nuova classe di lavoratori non più proletarizzati o proletarizzabili e cliente-le condizionate da rapidi processi di innovazione e globalizzazione.

Da qui il problema di molte aziende, piccole o grandi, di rinnovarsi. Necessità che diventa pres-sante ed evidente al momento del cambiamento generazionale alla testa dell’impresa.

In un certo senso, un’azienda può essere para-gonata ad una squadra di calcio, con la differen-za che, nello sport, la percezione della crisi ac-compagna la sconfitta mentre in un’azienda essa può nascondersi a lungo dietro molteplici para-venti oggettivi e soggettivi per emergere quando è troppo tardi per correre ai ripari. Poiché gestire un’impresa è come partecipare ad una competi-zione sportiva che non ha soste, il segreto della sopravvivenza risiede nella capacità e nella vo-

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lontà di rinnovarsi continuamente. Ne consegue una pericolosa tendenza, soprattutto per le gene-razioni non fondatrici delle imprese, a privile-giare l’amministrativo sul creativo, il vecchio sul nuovo, l’abitudinario sull’innovativo. Stessa sorte può accadere a chi da troppi anni detiene il comando e, per rimanere nel paragone sportivo, a chi per aver molto vinto perde aggressività e ambizione.

Nel caso dell’industria vinicola, all’inizio del secolo i nomi di Gancia, Contratto e Bosca, per limitarci a quelle insegne e palazzi che fanno ancora bella mostra nelle strade di Canelli, rap-presentavano la crema dell’industria mondiale dello spumante. Oggi hanno perso molto del loro smalto. La Bosca (come produttore di vini, vermouth e spumante classico) non fa eccezione pur essendo rimasta fra le poche nelle mani della famiglia fondatrice e senza accordi globali che ne limitano l’indipendenza.

Tutto questo aveva un rapporto diretto con le sue scelte di strategia per il futuro: decidere fra la continuazione di un prodotto ancora molto redditizio, ma non più in fase ascendente, e un taglio netto col passato e col presente per essere tecnicamente e psicologicamente liberi di punta-re su qualcosa di totalmente nuovo ma da inven-tare, non tecnicità ma visione; non evoluzione ma rivoluzione. L’esempio, fra i molti, veniva da Nicholas Hayek, fondatore e patron della Swatch, che ha ripristinato il predominio svizze-ro sul mercato dell’orologio, dopo l’invasione giapponese degli anni settanta e ottanta, rein-ventando l’orologio e trasformandolo da oggetto durevole in oggetto frivolo. Oppure l’esempio, a due passi da Canelli, di Giovanni Ferrero che,

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partito dal nulla nel dopoguerra, aveva dimostra-to come con una idea semplice, realizzata con capitali limitati, fosse possibile creare un’indu-stria di importanza mondiale fondata su un largo ventaglio di dolciumi innovativi rispondendo al gusto (ma spesso anche creandolo) di un pubbli-co globalizzato di consumatori.

Nel campo enologico il peso della tradizione sembrava invece condizionare le scelte di fondo degli operatori. Nel settore dello spumante, in particolare, non era emersa alcuna novità di ri-lievo se si fa eccezione del President della Riccadonna, già menzionato. Canelli, per oltre un secolo indiscussa capitale dello spumante, era andata lentamente decadendo. Era contro questa stagnazione che la Bosca doveva misurarsi, oltre che con la sempre più aggressiva concorrenza internazionale. Essa lasciava aperte alle vecchie aziende famigliari due vie ugualmente pericolo-

L’importante è non fermarsi mai.

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se: accordi con gruppi molto più grandi nell’illu-sione che, appoggiandosi al nuovo padrone, fos-se possibile mantenere l’indipendenza in cambio di esperienze manageriali; dedicarsi a produzio-ni anonime per grandi catene di distribuzione che offrivano guadagni immediati ma mettevano l’azienda, “anemizzata”, in balia di pochi grandi clienti nei confronti dei quali non aveva più mor-dente e diritto di trattare.

La decisione di concentrare ogni risorsa nel campo dello spumante era, per la Bosca, una scelta naturale trattandosi dell’unica cosa che nel corso della sua lunga storia aveva saputo fare con discreto successo. Ma non poteva essere solo una scelta tecnologica. Se l’alternativa era fra clonazione con scomparsa, a tempi più o meno lunghi, e indipendenza, allora occorreva puntare senza tentennamenti sull’indipendenza e quindi su prodotti e su uomini non globalizzati. La for-mula più adatta a raggiungere lo scopo appariva quella del franchising o della joint venture con piccoli e medi imprenditori locali in cerca di indipendenza interessati a diventare gestori di prodotti nuovi nella zona di loro competenza. Il modello era la McDonald per imitare la quale, toute proportion gardée, la Bosca doveva scrol-larsi di dosso l’eredità delle vecchie produzioni, e la mentalità, dello spumante e del vermouth.

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RICERCA E INNOVAZIONE

Per continuare la politica di joint ventures, che aveva dato buoni risultati con il Canei, occorreva però inventare il nuovo prodotto da condividere finanziariamente con vecchi o nuovi gestori. La risposta poteva essere trovata solo fuori dalla Bosca e dalla esperienza vinicola industriale. Oc-correva associare esperienza e tradizione con so-luzioni nuove offerte dalla scienza e dalla tecno-logia. Il legame con il passato venne mantenuto continuando la produzione di spumante e dei vermouth di qualità e la produzione di vini DOC

nei vigneti di proprietà. Il legame col futuro ven-ne stabilito con l’applicazione di scienza e tec-nologia alla ricerca di un prodotto nuovo.

A Canelli esisteva e tuttora esiste una raccolta ampelografica, unica al mondo, che riunisce nel-lo stesso ambiente oltre cento vitigni ad aroma moscato di origini diverse. Era stata creata al-l’occasione del centocinquantesimo anniversario della fondazione della Bosca, nel 1981, su un’idea del prof. Italo Eynard, titolare della cattedra di viticoltura della facoltà di agraria di Torino. Al-l’iniziativa avevano aderito istituzioni scientifi-che di quasi tutti i paesi in cui la coltivazione della vite era attività antica —Francia, Svizzera, Germania, Spagna, Portogallo, Cipro, Turchia, Grecia, i Balcani, Ucraina e Armenia—e quelli di più recente storia come il Sud Africa, le Americhe e l’Australia. Ultimo risultato di lavori su questa raccolta è la classificazione del DNA

dei diversi tipi di moscato. Essa mette a disposi-

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Collezione vitigni ad aroma moscato.

La collina della collezione.

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zione dei coltivatori nel mondo possibili elemen-ti di miglioramento della qualità del moscato.

Quando nel 1989, al momento del massimo suc-cesso commerciale del Canei, Luigiterzo Bosca decise di venderlo, tutto questo apparteneva al futuro. C’era una raccolta di vitigni, ma non si sapeva come sfruttarla; c’erano le disponibilità finanziarie ricavate dalla vendita della Canei, ma non c’era alcuna idea di come impegnarle per creare un prodotto nuovo. Alla Bosca si era con-vinti che il punto di partenza fosse una trasfor-mazione radicale del moscato da vino a bevanda. Nacque così il progetto V.E.R.D.I. Le iniziali sta-vano ad indicare la speranza di trovare qualcosa che nella terminologia di mercato volutamente anglosassone, fosse una “versatile, enchanting, revolutionary, daring innovation”. Belle parole che definivano un’idea che, di per sé, non aveva nulla di rivoluzionario, se non la sfida di realiz-zare nello spumante uno di quei sogni che aveva-no contribuito a fare la fortuna di altre industrie italiane: la Ferrero con la Nutella, la Galbani con il Belpaese, la Piaggio con la Vespa.

Nei cinque anni che seguirono decisivo fu per la Bosca impegnare dirigenza e personale in un progetto fondato sul principio che “ciò che fun-ziona è già obsoleto”. Nel caso specifico dopo il volontario abbandono del Canei all’apice del suo successo, si trattava di realizzare una conversio-ne di concetti e di modus operandi. Lo scopo fu raggiunto con un cambiamento di strategia di produzione e di investimenti: trasformare una fabbrica vinicola in un laboratorio di ricerca e collegare la produzione del futuro all’innovazio-ne invece che allo sfruttamento della tradizione.

Furono, fra il 1989 e il 1995, anni difficili in cui

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in quella che in Bosca si chiama la “camera degli scheletri”, si accumulavano decine e decine di bottiglie di ogni forma e contenuto, a testimonian-za dei falliti tentativi di inventare il nuovo prodot-to su cui costruire il futuro dell’azienda.

Poi qualcuno pensò al vermouth. Era stato uno dei grandi prodotti industriali dell’Ottocento che aveva permesso di creare aziende enormi, che trasformarono il Piemonte nel centro industriale enologico del loro tempo. Martini e Cinzano era-no nomi noti come lo sono oggi Benetton e Microsoft. Basti pensare che ci fu un momento in cui il budget pubblicitario della Martini & Rossi era superiore a quello della Coca Cola.

Il successo di questi marchi non nasceva solo dalla qualità dell’uva ma dalla genialità di pro-duttori capaci di valorizzare questa materia pri-ma onde ottenere un prodotto “artificiale” (paro-la considerata spesso blasfema, ma chiave di molti successi industriali) in grado di soddisfare un bisogno, magari inconscio, del consumatore. Nel caso del vermouth, l’artificio era stato di trasformare prodotti naturali —uva, erbe aroma-tiche, barbabietole, grano— prima in vino, es-senze, zucchero e alcool, poi, con dosaggi sapienti, in un prodotto prelibato che, curiosa-mente divenne noto con il termine tedesco di We r m u t scritto però alla francese, vermouth.

C’è uno strano comportamento di molti im-prenditori vinicoli di fronte al successo di pro-dotti “artificiali” nell’industria. Nel campo stes-so dell’aperitivo e del liquore, essi continuano ad esaltare la naturalità dei vini, inclusa quella dello spumante “genuino” pur sempre prodotto indu-striale “artificiale”. Si tratta infatti di una mistu-ra, anche se nobilitata dal nome cuvée, “saggia-

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mente dosata” di vino, zucchero, lieviti con l’ag-giunta di un insieme di distillati. Ancora oggi li chiamiamo “esoticamente” liqueur in omaggio al segreto della formula gelosamente conservata dagli antichi produttori. Forse la reticenza all’in-novazione dell’imprenditore vinicolo è frutto di abitudini cristallizzate dal prestigio della tradi-zione che ostacolano il salto di fantasia che inve-ce ha reso possibile il vermouth e nel caso della Bosca, il Verdi.

Fu comunque proprio pensando al vermouth che la ricerca decisa dall’azienda nel 1989 si incanalò verso un programma inteso a trovare la novità nella miscela di spumante con altre so-stanze alimentari.

La ricerca del nuovo è oggi affidata alla nuova generazione, la sesta dei Bosca spumantieri, che

Polina, Pia and Gigi Bosca davanti al ritratto del fondatore.

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rinverdisce il vecchio tronco famigliare con nuo-vi giovani rami, impegnati a far progredire l’azien-da nel futuro pur restando custodi dei principi di etica e creatività che l’hanno ispirata nel passato.

Pia è l’avvocato internazionale educata nelle uni-versità europee e americane al timone della Bosca a Canelli.

Polina, agronoma laureata all’Università di To-rino, è responsabile del settore agricolo della So-cietà. A lei è stata affidata la responsabilità della qualità delle produzioni d’oltremare, in partico-lare dell’India.

Il loro arrivo alla guida della Società ha intro-dotto nelle tradizioni di famiglia l’innovazione della leadership femminile.

Luigi, detto Gigi, laureato in economia e finan-za all’Università della Svizzera italiana di Lugano lavora nel settore bancario e finanziario ma vor-rebbe far cambio con le sue sorelle.

E’ questa la nuova equipe a cui è stato affidato il compito di transitare esperienza, fortune, ambi-zioni e responsabilità da un millennio all’altro svi-luppando quella continuità di intenti, lavoro e cre-atività che i Bosca si possono vantare di aver cu-stodito per due secoli.

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Impianto per la lavorazione dei cereali.

Impianto per la lavorazione dei vini al Boglietto di Costigliole d’Asti.

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“I Bosca sono dei pionieri”.

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PRODROMI DI UNA ASSOLUTA NOVITÀ

Se la Germania dell’Est era stata l’apertura provvidenziale per il Canei, la Russia, fresca del-la perestroika lo sarebbe stata in non minor mi-sura per il nuovo corso della Bosca.

Il nome Bosca era conosciuto in Russia sin dall’Ottocento quando il primo Luigi aveva ini-ziato ad esportarvi il suo spumante. Nell’Unione Sovietica la presenza risaliva invece ai primi contatti avviati attraverso la filiale di Vienna: un’avventura austriaca, di cui si è già detto, che si rivelò un totale fallimento commerciale in se-guito trasformatosi in una benedizione.

A partire dal 1991, le frontiere dell’ex-Unione Sovietica si erano aperte in modo caotico alle importazioni dell’occidente a due condizioni: che coinvolgessero un’immagine “capitalista” e fos-sero offerte a prezzi “stracciati”. Lo spumante con i profumi, i jeans, i McDonald’s e mille altri articoli di nuovo lusso, apparente od ostentato, era ciò che una miriade di nuovi importatori rus-si, dotati di improvvise enormi disponibilità fi-nanziarie e di scarsa cultura imprenditoriale, cer-cavano sui mercati occidentali.

La Bosca non si adattava a questo tipo di ri-chieste che svalorizzavano la qualità. Per oltre un anno fra importatori ex-sovietici e la Bosca ci fu uno scambio di domande e rifiuti: agli uni interessava il prezzo e la forma; all’altra la pos-sibilità di sperimentare in loco almeno uno dei prodotti che lentamente uscivano dai suoi labo-ratori. Era una occasione unica in un momento

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politicamente e commercialmente eccezionale.Fu un giovane ebreo di Odessa da poco emi-

grato negli Stati Uniti a lasciarsi finalmente con-vincere. Aveva fatto una discreta fortuna con il caffè che confezionava nel New Jersey e spediva in Ucraina. Accettò di acquistare il nuovo pro-dotto Bosca di cui gli piacevano il gusto e il profumo, che non era un vino ma una bevanda prodotta, sì, con il vino, ma anche con altri in-gredienti. Non lo disturbava il fatto che avesse solo sette gradi di alcool e neppure che non fosse venduto come spumante ma semplicemente come “Bosca”.

Al primo container di prova seguirono in po-chi mesi centinaia di altri. La gente in Ucraina lo acquistava la prima volta forse per il suo prezzo invitante ma tornava in massa a comprarlo per la qualità. Il successo in Ucraina aprì le porte del più grande mercato russo dove la risposta fu istantanea.

Gli stessi importatori non chiedevano più uno spumante ma il “Bosca” che a Kiev e in Polonia vide spuntare bottiglie contraffatte come le borse di Gucci a Hong Kong. Se i guadagni non erano alti, il ritorno di questa operazione al di là del sipario di ferro ormai caduto, si dimostrò vitale per la Bosca. Le vendite servivano a mantenere in attività linee di produzione in attesa di un prodotto veramente nuovo che tardava ad uscire dal centro di ricerca del Boglietto.

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LA PORTA DEL BALTICO

Gintaras Skorupskas è un giovane medico lituano di Kaunas specializzato in cardio-chirurgia all’Università di Mosca. Nel 1991 le truppe russe sono costrette dalla rivolta popolare ad abbandonare la Lituania che diventa indipen-dente. Skorupskas decide di abbandonare la pro-fessione e tentare la fortuna nel commercio. Co-nosce bene il russo e l’inglese e la posizione geografica della Lituania ne fa la naturale cer-niera per gli scambi commerciali tra Russia e mondo occidentale. Il successo del Bosca in Rus-sia non gli era sfuggito ed appena ne ha l’oppor-tunità si presenta a Canelli e ne ottiene la distri-buzione esclusiva per i paesi Baltici. Qui il pro-dotto conosce un successo forse ancora maggio-re che altrove. Ma Skorupskas è conscio del pe-ricolo che, dopo l’iniziale periodo di anarchia normativa provocato dalla transizione dal comu-nismo al sistema di libero mercato, prodotti come gli alcolici possano subire pesanti limitazioni al-l’importazione.

Luigiterzo Bosca gli aveva parlato del suo pro-gramma di costituire joint ventures con partners che avessero il gusto del rischio e l’ambizione di creare la propria azienda.

Nel 1997 viene costituita a Kaunas la Boslita ir Ko per la produzione in Lituania dello spumante Bosca. Lo stabilimento creato a tempo di record diventa operativo all’inizio del 1998 malgrado le lungaggini burocratiche locali. Oggi a Kaunas vengono prodotte oltre quattrocentomila botti-

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glie al mese e il “Bosca” è diventato in pochissi-mo tempo il leader del mercato, non solo, ma, quella che sembrava soltanto una teoria —indi-pendenza e prodotti innovativi come condizioni di successo per le aziende famigliari— aveva dimostrato sul campo la sua validità.

In poco più di un anno a Kaunas sono arrivati giovani imprenditori da diversi paesi dell’Est, attratti dalla speranza di poterne replicare il suc-cesso nei loro paesi. In mercati come la Moldavia, la Bosnia, il Kazakstan ed in molte repubbliche della Federazione Russa lo spuman-te ha davanti a sé consistenti possibilità di diffu-sione e sviluppo: prodotto voluttuario ma acces-sibile a tutti, con pochi rubli permette di parteci-pare ad un nuovo benessere invano a lungo so-gnato.

Lo stabilimento di Kaunas, Lituania.

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IL MATRIMONIO DEL VINO CON I CEREALI

Tra i molti ingredienti utilizzati per la ricerca, al laboratorio del Boglietto aveva fatto capolino il malto. Ci si accorse subito che l’aggiunta di mal-to fermentato al moscato ne aumentava in gran misura la bevibilità, oltretutto riducendone il gra-do alcolico.

Ma il gusto restava tuttavia tutt’altro che sod-disfacente mentre i problemi tecnici del connubio ne rallentavano la realizzazione industriale. La soluzione arrivò quando al malto si pensò di ag-giungere diversi altri cereali in un rapporto che venne man mano raffinato fino ad ottenere uno spumante eccezionale.

Il progetto V.E.R.D.I. si stava finalmente con-cretizzando e al nuovo prodotto si decise di dare il nome di Verdi (inteso ora a significare versati-le, enchanting, revolutionary, daring, Italian) che rispondeva alle premesse iniziali di laboratorio.

Per sottolineare l’assoluta novità venne inven-tata una chiusura del tutto speciale. Un tappo di materiale composito a base polimerica privo di gabbietta che pur conservando le forme del tappo tradizionale, vola via con il caratteristico botto festoso quando la bottiglia viene aperta. Pur per-mettendo di rinchiuderla più volte essa conserva a lungo e inalterata la qualità dello spumante, com-prese le sue preziose bollicine.

Da prodotto di celebrazione lo spumante si po-teva cosí finalmente trasformare in vino di consu-

mo abituale.

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Pubblicità del Verdi.

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Inventato il prodotto occorreva inventare il mercato. Un cambiamento di gusto e di moda non poteva essere imposto dall’alto ma doveva crescere dal basso, dalla domanda del pubblico, superando la reazione titubante di importatori e distributori per i quali il Verdi appariva un pro-dotto troppo nuovo. Si pensò così, una volta di più, agli Stati Uniti dove un brillante manager del New Jersey, Steven Karp, conoscitore a fon-do del settore degli alcolici e amico dei più im-portanti distributori americani, si entusiasmò al-l’idea del Verdi.

Libero da impegni perché lui stesso vittima di un processo di fusione di aziende, Karp aveva intuito le grandi potenzialità della nuova bevan-da. Si scontrava però con le prevenzioni del pubblico. A vincerle, intervenne un fatto del tutto imprevisto.

Le nuove norme del Bureau of Alcohol, Tobacco, and Firearms impongono modifiche alle etichette del Verdi. Per evitare confusioni nei consumatori si decise di sospendere le ven-dite del prodotto con le vecchie etichette ed offrire quello giacente nei magazzini a prezzi scontati a società di catering. Queste incomin-ciarono ad offrirlo a bicchieri nei banchetti da loro organizzati. Il successo fu immediato: la gente che beveva uno spumante di cui non co-nosceva né nome né metodo di produzione, ri-maneva colpita dal suo gusto accattivante. I ri-storatori si trovarono subissati dalle richieste di informazioni sul prodotto e, cosa mai prima ca-pitata alla Bosca, lettere, fax e messaggi di po-sta elettronica incominciarono ad arrivare ai ri-venditori e direttamente a Canelli per chiedere dove fosse possibile trovare il nuovo misterioso

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spumante. Ciò che nessuna campagna pubblici-taria avrebbe potuto ottenere fu realizzato da una clientela che si comunicava reciprocamente la scoperta di un nuovo drink.

Da allora le vendite iniziarono ad impennarsi al punto che il Verdi è diventato negli USA un prodotto di interesse per tutta l’industria. Negli anni 1997, 1998, 1999, 2003, 2004 e 2005 il Verdi ha conquistato il premio Hot Brands Award asse-gnato dalla rivista Impact ai prodotti di maggior successo – unico prodotto ad aver ottenuto il prestigioso riconoscimento per sei anni – e per-messo fra l’altro a Karp di creare la sua propria azienda in stretta collaborazione con la Bosca.

In Australia l’Asti Bosca era distribuito da Nino Molinari, un toscano di Lucca che, arrivato

Steve Karp e Pia Bosca ricevono l’Hot Brands Award per il 2005 da Marwin Shanken.

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a Sydney alla fine degli anni sessanta, vi aveva impiantato una azienda di distribuzione di pro-dotti alimentari ed era diventato con gli anni il più autorevole importatore di vini italiani. Del Verdi, Molinari non ne voleva sapere. Sembrava quasi un sacrilegio a chi aveva fatto dei grandi vini d’Italia la propria bandiera. Tuttavia, intri-gato dalla storia dei primi successi americani oppure non volendo dire di no alla Bosca che gli proponeva il Verdi con entusiasmo ed insistenza, accettò di acquistarne un primo container dopo aver ottenuto la promessa che, in caso di non vendita, la Bosca se lo sarebbe ripreso. Risulta-to: in tre anni il Verdi si è trasformato in uno dei prodotti italiani più venduti in Australia, al punto che vi sono ristoranti che lo comprano addirittu-ra a container.

In Inghilterra la Bosca aveva costituito una joint-venture con due giovani provenienti dal gruppo Gallo, Paul Burton e John Hibbert, che avevano proposto all’azienda di Canelli di lan-ciarsi in proprio come gestori in una zona di loro competenza. È stata un’avventura coronata da un successo che deve non poco all’entusiasmo e alla fortuna. Infatti anche in Inghilterra non è facile parlare di diffusione di un prodotto nuovo come il Verdi in un mercato dove la distribuzio-ne è praticamente in mano a grandi organizza-zioni restie al rischio del nuovo, anche se richie-sto dalla clientela. Una situazione che oggi però non spaventa i nuovi distributori dei prodotti Bosca. Il Verdi proposto come una bevanda di gusto nuovo nel Regno Unito è venduto in oltre ottantamila casse.

Grazie a uomini intraprendenti e coraggiosi oggi il Verdi è distribuito in svariati mercati e la sua

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Un fiume di bottiglie corre verso il Verdi.

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diffusione va costantemente ampliandosi. Hans Ulrik Andersen in Danimarca, Ariel Epstein in Israele, Tarcisio Piscopo nella piccola Malta e molti altri dai Carabi al Vietnam, dal Baltico alle Isole Mauritius, dalla Cina all’Ungheria, dal-l’Islanda alla Russia alla Repubblica Ceca… sono gli uomini a cui si deve la nascita di un nuovo cult.

A Canelli, il Verdi veniva inizialmente prodot-to in un piccolo stabilimento sperimentale, situa-to in un capannone, poco più di un sottoscala e con macchine adattate alla meglio.

All’inizio del 1999 venne creato accanto al vec-chio stabilimento Cora del Boglietto una fabbri-ca di concezione radicalmente nuova, la prima al mondo, per il momento, ad utilizzare la tecnolo-gia messa a punto in Bosca. L’impianto è in grado di produrre imbottigliare e confezionare sino a 35 milioni di bottiglie all’anno. Un record ma anche una scommessa sul futuro in quanto volumi del genere non sono stati sinora raggiunti da alcuna ditta di Canelli. Se il nuovo spumante nella sua versione di bibita “cerealicola” riuscirà a ridare alla città la sua preminenza sul mercato dello spumante resta naturalmente una questione aperta. Ciò che sembra tuttavia acquisito è la validità dello spumante concepito come bibita. Allo stesso tempo, essa conferma l’efficacia del-la strategia perseguita da una azienda convinta della necessità di rinnovarsi nella tradizione per adattarsi al futuro.

Vale la pena a questo proposito, di citare alcuni passaggi della Relazione del Consiglio di Am-ministrazione della Bosca del 1996 che per la prima volta espone agli azionisti le nuove direttive dell’azienda.

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“La decisione assunta alcuni anni fa di trasformare questa azienda in una realtà fortemente orientata alla ricerca e alla innovazione ci sembra poter dire che inco-minci a dare i primi risultati. Non staremo a ripercorrere l’iter delle valutazioni che ci avevano portato a questa decisione, sofferta ma ineluttabile, ma dobbiamo pur ricordare che i grandi mutamenti strutturali che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta hanno inte-ressato in maniera travolgente in tutto il mondo anche il nostro settore, ci ponevano davanti ad una alternativa secca: abdicare alla indipendenza della Società —in fa-vore probabilmente di qualcuno dei grandi gruppi che dominano la scena mondiale, ammesso che ciò fosse ancora possibile a condizioni non fallimentari—oppure trasformarla in una fucina di idee capaci, per contenuto innovativo, di creare nuovi mercati e per conseguenza aprire nuovi spazi alla attività di questa Società”.

Linee di produzione del Verdi.

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Senza naturalmente farsi illusioni sulle capaci-tà di una ditta locale di capovolgere un processo generale, i responsabili della Bosca vedevano nella situazione di Canelli un ricorso storico del-l’Italia. Questo corrispondeva all’analisi fatta da uno dei maggiori storici economici moderni, Carlo M. Cipolla, sulle cause che avevano porta-to al declino dell’economia delle città italiane, le più floride d’Europa sino al XVII secolo: non competitività delle merci e dei servizi, produzio-ne di prodotti pregiati superati dalla moda, con-servatorismo delle corporazioni ostili ai necessa-ri mutamenti tecnologici. La proprietà e la dire-zione della Bosca vedevano in questa analisi l’esatta descrizione dell’evoluzione dell’enologia italiana nell’ultimo quarto di questo secolo.

La decisione di trasformare l’azienda da pro-duttrice in laboratorio di innovazione appariva dunque giustificata non soltanto dalla micro-ana-lisi economica locale ma da una visione macroeconomica della situazione del ramo vini-colo di cui lo spumante di Canelli sarebbe prima o poi caduto vittima.

Leggiamo ancora nel rapporto agli azionisti:

“In un processo di globalizzazione vi è sempre menospazio per l’iniziativa dei singoli imprenditori schiac-ciati da ogni parte. Ma l’inventiva, la voglia di creare, la capacità di vedere dove altri non vedono non si possono comprimere. Se l’evoluzione del mondo della produzio-ne dovesse continuare sulla via su cui è incamminata, un giorno ci si accorgerà che vi è assolutamente biso-gno di qualcuno che sappia avere visioni, che si tormen-ti per trovare soluzioni, che non abbia bisogno del con-forto di esperti per aver il coraggio di tentare”.

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La Piramide dei Sogni.

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LO SPUMANTEDELLA GRANDE CATTEDRALE

Nel sottosuolo di Canelli chilometri di cantine, in gran parte dimenticate e abbandonate, conser-vano i cimeli delle vicende di lavoro, fallimenti e glorie di diecine di aziende vinicole che qui han-no operato tra l’ottocento e il primo novecento.

Le quattro, ancora attive, offrono esempi di im-ponente bellezza architettonica che già in passato erano stati visti come vere e proprie “cattedrali sotterranee”.

Sono degli splendidi, suggestivi monumenti, pieni di bellezza, di ricordi e di tradizioni che l’UNESCO

ha sentito il dovere di inserire nella lista dei siti degni di tutela internazionale in attesa di procla-marli patrimonio dell’Umanità.

Si tratta delle cantine Gancia, Contatto, Coppo e Bosca. Queste ultime vantano due primati: quello dell’anzianità, la loro costruzione essendo inizia-ta una ventina d’anni prima delle altre negli anni ’30 dell’ottocento; quello della vastità con una superficie di oltre ….che grazie alle sue armonio-se e imponenti volte le hanno guadagnato il titolo di “Grande cattedrale di Canelli”.

Questa “Grande Cattedrale” è stata l’opera au-dace, grandiosa del primo Luigi. Egli seppe tra-sformare due piccole cantine ereditate dal padre (che ancora si possono visitare) in quello che sa-rebbe diventato un monumento alla tenacia e cre-atività di un geniale imprenditore che già ai suoi tempi suscitava meraviglia.

In questa “cattedrale” Luigi sperimentava con

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passione, tra un viaggio e l’altro, formule e tecni-che di produzione che in quell’epoca, ancora pionieristica dello spumante, erano ricerche per l’evoluzione di prodotti di qualità sempre più raf-finata.

In uno dei suoi tanti viaggi al di la dell’Atlanti-co Luigi Bosca intuì che il rum della Martinica distillato dal puro succo della canna da zucchero, si prestava assai meglio del brandy a preparare la liqueur che aggiunta allo spumante alla fine della lavorazione ne completa l’aroma particolare.

Fu invece il girovagare attento nelle sue vigne che risvegliò in lui un’altra intuizione: quella di usare il miele prodotto dalle api nella sua tenuta i Monteriolo per produrre uno spumante di qualità superiore.

Sostituire lo zucchero col miele con l’aggiunta del rum rappresentava tuttavia un’innovazione troppo raffinata e selettiva per rispondere alle esi-genze della produzione di massa che avrebbe con-dizionato gli anni a venire. Il “pallino” di un ge-nio stravagante che poco aveva a che fare con una corretta, razionale attività industriale fu così messo nel dimenticatoio. Ma non lo spirito d’inventiva e di ricerca della Bosca.

Fu così che alla fine degli anni ’80 del novecen-to, sulla spinta di un mercato che richiedeva pro-dotti di qualità sempre più raffinata, venne dato inizio ad un vasto programma di ricerca in colla-borazione con l’Istituto sperimentale di enologia di Asti diretto da Luciano Usseglio Tomasset. Lo scopo era di determinare quali fossero le varietà di uva dell’Astigiano più appropriate per produr-re uno spumante di altissima qualità e in quale percentuale dovessero essere usate nella sua com-posizione. Le uve di Moirano, la grande tenuta

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Bosca ai confini meridionali della provincia di Asti, il pinot noir, lo chardonnay con una piccola percentuale di barbera si rivelarono essere il mix ideale. Nel corso dei tempi lunghi della ricerca e della sperimentazione riemersero anche le formule nuove di vecchie ricette. Rum e miele, aggiunti a vini accuratamente selezionati, più per curiosità che per convinzione, diedero un risultato ecce-zionale, un ”unicum” di altissima qualità.

Era rinato lo “Spumante della Grande Cattedrale”.

Lo Spumante della Grande Cattedrale.

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NOBLESSE OBLIGE

Giunti a questo punto della nostra storia di una società non atipica nel panorama economico at-tuale italiano, ci si può chiedere se esista un contesto culturale a cui si può ricollegare questa maniera di comportamento aziendale che defini-rei “padronale-rivoluzionaria”.

Le alluvioni del 1948 e del 1994 avendo, come già detto, distrutto la totalità degli archivi del-l’azienda, non è possibile dare una risposta “sto-rica” a questa domanda. Qualcosa si può tuttavia comprendere dalla maniera con la quale l’attuale amministrazione reagisce al fatto di essere la Bosca rimasta, tra le grandi aziende “storiche”, ancora di proprietà della famiglia che l’ha creata ed una delle poche sopravvissute in Italia e in Europa.

Questa situazione ispira oltre che la dinamica innovatrice dell’azienda anche la sua visione di impegni extra aziendali. Essi nascono dalla con-statazione che grazie alla sua longevità, la Bosca è diventata un punto di confluenze fra le genera-zioni che si sono susseguite in Canelli. Buona parte dei suoi abitanti ha avuto rapporti di lavo-ro, amicizia, interesse, istruzione con l’Azienda. Era dunque naturale che la Foresteria Bosca, in passato complesso di costruzioni al tempo stesso fabbrica, abitazione, residenza e cantine, si tra-sformasse in un centro di convergenza civica tanto per le vecchie quanto per le nuove genera-zioni.

La Foresteria serve oggi da sala di conferenze,

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museo d’arte, centro di manifestazioni private e pubbliche che fanno capo al Centro per la Cultu-ra e l’Arte Luigi Bosca presieduto da Arabella Bosca. Il Centro ha lo scopo di valorizzare la cultura del vino attraverso l’incontro con le di-verse espressioni del sapere, senza chiasso né ostentazione come è tradizione nelle terre di Pie-monte. Ad esso è legata la casa di edizioni che pubblica volumetti di divulgazione di storia e arte locale. Il vecchio stabilimento adiacente alla Foresteria è stato conservato nello stato in cui, nel 1961, cessò la produzione: più che un museo di enologia è un monumento alla storia dello spumante.

Nelle cantine, le più grandi d’Italia, si produce ancora lo spumante con lo stesso metodo con cui lo produceva il primo Luigi: non è un business ma un modo per ricordare e tramandare una tra-dizione.

La quadreria in cantina

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Migliaia di persone visitano la Foresteria ogni anno: personaggi illustri partecipano ai suoi eventi culturali; visitatori stranieri arrivano a Canelli attratti dal fascino di una storia vecchia di due secoli; curiosi e ragazzi delle scuole locali e regionali hanno preso l’abitudine di farne luo-go di incontri.

Lontano fisicamente da Canelli, ma non con il pensiero, e nella discrezione la famiglia Bosca mantiene attività che con lo spumante hanno poco a che vedere se non con l’elemento frizzan-te dell’avventura. La tradizionale passione di fa-miglia per i cavalli è passata a Edoardo Bosca, direttore generale dell’azienda che ha sviluppato a Castelnuovo Calcea l’Allevamento Bosca e mostrato i suoi colori su vari turf. Enologo, per lunghi anni impegnato nella direzione tecnica dell’azienda, Edoardo Bosca ha creato negli anni ottanta a Nangan Tuti, sulla costa del Senegal, un dispensario di pronto soccorso per la popola-zione indigena locale.

Luigiterzo Bosca, attuale presidente della So-cietà, ha creato la Fondazione Bosca in Svizze-ra, responsabile fra l’altro del finanziamento dell’Istituto di Studi Mediterranei presso la Uni-versità della Svizzera italiana di Lugano. Primo fra i centri di Alti Studi di questa giovane uni-versità —l’unica di lingua italiana fuori della Penisola— l’Istituto è impegnato nello studio delle metodologie culturali artistiche politiche e religiose che possono favorire l’intesa e la coesistenza pacifica dei popoli mediterranei, con particolare attenzione a quelli del Medio Oriente.

Se la divisa industriale della società Bosca è “ciò che funziona è già obsoleto” quella sociale

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della famiglia è “occorre restituire alla società almeno un po’ di quanto la società ci ha dato”.

Il moscato spumante che ha fatto la fortuna di Canelli nel corso dei secoli diventa, attraversol’impegno civile, la miglior garanzia di quella della Bosca.

Palazzo Bosca.

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Finito di stampare nel Maggio 2006 per conto delCentro per la Cultura e l’Arte Luigi Bosca - Canelli (AT)

presso la Litografia FABIANO - Canelli (AT)

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Luigi Einaudi

....migliaia, milioni di individui lavorano,producono e risparmiano nonostante tuttoquello che noi possiamo inventare permolestarli, incepparli, scoraggiarli. È lavocazione naturale che li spinge; non soltantola sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio divedere la propria azienda prosperare,acquistare credito, ispirare fiducia a clientelesempre più vaste, ampliare gli impianti,abbellire le sedi, costituiscono una molla diprogresso altrettanto potente che il guadagno.Se così non fosse, non si spiegherebbe comeci siamo imprenditori che nelle propriaazienda prodigano tutte le loro energie einvestono tutti i loro capitali per ritrarrespesso utili di gran lungo più modesti diquelli che potrebbero sicuramente ecomodamente ottenere con altri impieghi.

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