Maurizio Chiodi - Humanae Vitae

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517 La Rivista del Clero Italiano 7/8| 2008 MAURIZIO CHIODI A quarant’anni dall’«Humanae vitae» Alcune questioni ancora aperte Cade in questi giorni il quarantesimo anniversario dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Abbiamo chiesto a don Maurizio Chiodi, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Milano e al Se- minario di Bergamo, di richiamare i capisaldi del suo insegnamento e di aggiornare sul dibattito teologico morale che da quell’enciclica ha ricevuto autorevoli orientamenti. La riflessione proposta, pur nella sua sinteticità, non elude alcuni nodi fondamentali dell’odierna riflessione morale, sottolineando come l’enciclica costituisca un’im- pegnativa e preziosa occasione per andare a fondo su temi delicati e attuali a riguardo della concezione cristiana della sessualità: «Non c’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanae vitae implicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interezza. Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un documen- to paradigmatico e significativo per comprendere i nodi, le questio- ni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del cre- dente nel contesto della cultura contemporanea». Non è esagerato dire che l’Humanae vitae è stato, se non il docu- mento, almeno uno dei documenti del magistero ecclesiastico che ha fatto maggiormente discutere, suscitando numerose critiche e obie- zioni da una parte e un ampio schieramento di difensori dall’altra. Oggi, almeno nel panorama ecclesiale e teologico italiano, le pole- miche e le critiche si sono fatte meno aspre. Ma, al loro posto, è subentrato nei pastori un silenzio difficile da interpretare e nei cre- denti una pratica di vita che spesso è in aperto contrasto e, più fre- quentemente, ignora del tutto l’insegnamento dell’enciclica. Anche 03_Chiodi_07/08-08 29-07-2008 16:55 Pagina 517

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Un articolo del teologo Maurizio Chiodi a quarant'anni dall'Humanae Vitae

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MAURIZIO CHIODI

A quarant’anni dall’«Humanae vitae»Alcune questioni ancora aperte

Cade in questi giorni il quarantesimo anniversario dell’enciclica diPaolo VI Humanae vitae. Abbiamo chiesto a don Maurizio Chiodi,docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Milano e al Se-minario di Bergamo, di richiamare i capisaldi del suo insegnamentoe di aggiornare sul dibattito teologico morale che da quell’enciclicaha ricevuto autorevoli orientamenti. La riflessione proposta, purnella sua sinteticità, non elude alcuni nodi fondamentali dell’odiernariflessione morale, sottolineando come l’enciclica costituisca un’im-pegnativa e preziosa occasione per andare a fondo su temi delicatie attuali a riguardo della concezione cristiana della sessualità: «Nonc’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanae vitaeimplicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interezza.Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un documen-to paradigmatico e significativo per comprendere i nodi, le questio-ni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del cre-dente nel contesto della cultura contemporanea».

Non è esagerato dire che l’Humanae vitae è stato, se non il docu-mento, almeno uno dei documenti del magistero ecclesiastico che hafatto maggiormente discutere, suscitando numerose critiche e obie-zioni da una parte e un ampio schieramento di difensori dall’altra.

Oggi, almeno nel panorama ecclesiale e teologico italiano, le pole-miche e le critiche si sono fatte meno aspre. Ma, al loro posto, èsubentrato nei pastori un silenzio difficile da interpretare e nei cre-denti una pratica di vita che spesso è in aperto contrasto e, più fre-quentemente, ignora del tutto l’insegnamento dell’enciclica. Anche

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nei teologi moralisti, dopo una polarizzazione del dibattito tra difen-sori e oppositori, oggi predomina o un silenzioso dissenso o una dife-sa a priori. Non sono mancate e non mancano, soprattutto a livelloufficiale, diverse prese di posizione che hanno ribadito con forza l’in-segnamento dell’Humanae vitae: basterebbe pensare alla FamiliarisConsortio (1981) e a Donum vitae (1987). Tuttavia non mi pare lonta-no dal vero affermare che nella predicazione ordinaria, così comenella catechesi parrocchiale – fatta eccezione per alcuni gruppi di spi-ritualità coniugale o per istituzioni costituite ad hoc o per alcuni con-sultori cattolici – e in parte perfino nei corsi per la preparazione almatrimonio poco si parli dell’enciclica.

Lo sfondo culturaleNon c’è dubbio che, sotto un profilo teologico-morale, l’Humanaevitae implicitamente coinvolge la questione sessuale nella sua interez-za. Anzi, più complessivamente ancora, essa rappresenta un docu-mento paradigmatico e significativo per comprendere i nodi, le que-stioni, le sfide e le difficoltà relative a tutta la pratica morale del cre-dente nel contesto della cultura contemporanea.

L’enciclica deve anzitutto essere posta sullo sfondo delle granditrasformazioni del costume civile moderno riguardo alla relazionedella coppia nel matrimonio, la sessualità e la generazione. A sua voltaquesti cambiamenti vanno inscritti nelle trasformazioni culturali chenegli anni ’60 si annunciavano e che oggi sono ampiamente diffuse,non solo in Occidente, e che riguardano anche le convinzioni e l’agi-re di molti credenti. Per citare soltanto due cambiamenti tipici dellamodernità, in un senso molto generale, possiamo qui ricordare l’at-tenzione e la riscoperta del soggetto da una parte e il rischio della suariduzione individualistica dall’altra, e la riscoperta del valore degliaffetti e delle emozioni – che sono elemento decisivo nell’esperienzapersonale – con il correlativo rischio dell’emotivismo che trasforma ilben-essere in criterio assoluto delle scelte etiche.

Più in specifico, l’esperienza umana del matrimonio e della sessua-lità è oggi attraversata da profondi mutamenti riguardanti tanto l’e-sperienza pratica quanto il sapere riflesso: l’accentuazione del model-lo della famiglia ‘nucleare’, la privatizzazione del matrimonio, la nettaseparazione tra privato e pubblico, l’intimizzazione e la riduzione

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affettiva del legame di coppia con la perdita della sua definitività, icambiamenti dei significati della presenza dei figli nella famiglia, lacaduta del tabù del sesso, l’erotizzazione della cultura, la trasforma-zione della sessualità in esperienza privilegiata e quasi esclusiva del-l’emozione e del piacere, l’interpretazione ‘neutrale’ della sessualità,per la quale essa viene considerata un’inclinazione indifferentementeomo o eterosessuale.

Alcune questioni teoricheÈ chiaro che, dinanzi a tali questioni, non si può entrare qui in unaarticolata discussione teologica. Ma mi pare evidente che le questionipastorali e teologiche suscitate dall’Humanae vitae debbano andareben oltre la semplice definizione di una norma a favore dei metodinaturali e contro la contraccezione artificiale. Ridotta a questo, l’en-ciclica verrebbe imprigionata nella ristrettezza di un orizzonte unica-mente normativo e quindi ‘legalistico’. Per queste ragioni si deve fareattenzione a non ricondurre la ‘morale sessuale’ unicamente alla que-stione normativa, pure ribadita dall’enciclica.

Già il Concilio Vaticano II, nei numeri 47-52 della Gaudium etspes, aveva introdotto delle novità importanti nella dottrina tradizio-nale che si era un tempo cristallizzata nella definizione dei fini delmatrimonio e che affermava chiaramente il primato del fine generati-vo rispetto all’aiuto reciproco e al remedium concupiscientiae. IlVaticano II, parlando di «molteplici fini» (GS, n. 48) e pur ribaden-do con grande forza l’aspetto istituzionale del matrimonio e l’impor-tanza della generazione, aveva però rinunciato a stabilire una ‘gerar-chia’ di fini e aveva insistito sul matrimonio come «comunità d’amo-re» (GS, n. 47), accogliendo, non senza forti resistenze, una nuovalinea genericamente ‘personalista’. In questo modo, dopo circatrent’anni, il magistero ecclesiastico faceva sua quell’accentuazione‘personalista’ che a partire da Doms, su ispirazione di VonHildebrand, era stata in un primo tempo rifiutata o quantomeno con-trastata (cfr. DS 3838). Questa nuova linea, senza contraddire for-malmente al primato del ‘fine’ della generazione, sottolineava il sensodel rapporto coniugale come forma della comunione degli sposi, chia-mati al dono reciproco di sé, un dono che nel rapporto sessuale trovail suo momento espressivo culminante.

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La grande questione che stava sullo sfondo delle discussioni avvia-te dai personalisti della prima metà del Novecento riguardava il rap-porto tra la sessualità coniugale intesa come forma di comunione d’a-more e il significato della procreazione. Dopo quei dibattiti, sulla sciadel rinnovamento ‘personalista’, con Mounier, Lacroix, Madinier emolti altri, nella teologia morale e nella filosofia di ispirazione cristia-na, alla nozione di ‘natura umana’ si preferiva sostituire quella di per-sona. Non si trattava – o almeno non avrebbe dovuto trattarsi – sol-tanto di un cambiamento nominalistico: una delle istanze che muove-vano il cambiamento di parole, con il passaggio dalla terminologiadella natura a quella della persona, era il superamento del naturalismoche, dando scarsa considerazione alla centralità del soggetto, finivaper ricondurre la morale a semplice osservanza di una legge riferita auna ‘natura’ biologicamente determinata.

La questione di fondo, tuttavia, riguarda il senso del passaggio dal-l’idea di natura a quella di persona: poiché l’idea di persona richiedel’elaborazione di un metodo e di un’antropologia differente rispetto aquella che ruota intorno all’uomo inteso come ‘natura umana’, fino ache punto doveva essere condotta questa ‘svolta antropologica’? Inaltri termini, qual è il rapporto tra l’idea di ‘natura umana’ e quella dipersona umana?

Alla questione antropologica si collega anche il tema, specifica-mente etico, della ‘legge naturale’. In modo estremamente sintetico aquesto proposito si può porre un duplice problema: se la nozione di‘natura umana’ viene sostituita, perché ritenuta troppo ‘reificata’, conquella di persona umana, come si può continuare a far uso dellanozione di legge naturale, che invece riposa evidentemente sullanozione di natura umana – come dice l’assioma: agere sequitur esse –?E d’altra parte, se si rinuncia alla terminologia della ‘natura umana’ edella legge naturale, come evitare un approccio etico che, rinviando alsoggetto, rischi di cadere in un soggettivismo che rinuncia all’affer-mazione della verità morale?

Un altro problema, legato ai precedenti, concerne l’evidente equi-vocità della nozione di natura, che effettivamente appare problemati-ca: che cos’è la natura? Che cosa si vuol designare quando si parla dinatura? Con tale termine si intende la creazione, intesa come l’am-biente o il complesso della bio-geo-sfera oppure si intende la naturadell’uomo come corpo, nella sua biologicità? Ma il corpo umano è

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riducibile a un corpo biologico (a un oggetto)? In quale rapporto stadunque la ‘natura’ – come ‘corpo’ del soggetto, che è sempre il corpoproprio – con la libertà della persona? E si può pensare la libertà del-l’uomo a prescindere dal suo corpo?

Strettamente correlata a tutte queste domande, un’altra grandequestione riguarda il rapporto tra la natura umana e la cultura. Comesuperare la contrapposizione, la giustapposizione e la reciproca estra-neità tra natura e cultura? I due termini non possono essere pensatiné in alternativa e tantomeno né l’uno senza l’altro, perché non c’èaccesso alla ‘natura umana’ universale se non a procedere dalla cultu-ra particolare.

Per il credente, infine, un’antropologia svolta nei termini dellanatura umana pone la questione ulteriore del rischio di interpretare ilnesso tra natura e grazia in modo estrinseco, come se alla ‘natura’ cor-rispondesse la ragione e alla soprannatura (o grazia) la fede...

Come si può vedere da queste troppo brevi battute, le domandeteoriche che stavano sullo sfondo dell’Humanae vitae erano assaiaspre. E a mio parere queste rimangono ancora oggi le questioni piùproblematiche e irrisolte, per la stessa teologia morale: e tale situazio-ne di incertezza si ripercuote anche sulla prassi pastorale. La sfida e ilcompito della teologia morale oggi è di non limitarsi a ripetere le for-mule ricevute dalla sua pur eminente tradizione, aprendosi al con-fronto e agli interrogativi che le sono posti dalle trasformazioni cultu-rali odierne e dalle istanze critiche del pensiero contemporaneo.

L’«Humanae vitae»: il rapporto tra sessualità (amore) e feconditàÈ soltanto sullo sfondo di questi interrogativi che può essere com-preso il travaglio che portò Paolo VI, al termini dei lavori dellaPontificia Commissione pro studio populationis, familiae et natalitatis,istituita da Giovanni XXIII nel marzo 1963 e poi da lui stesso allar-gata, a non accogliere le conclusioni della maggioranza che si eradetta favorevole a riconoscere che la vera opposizione non stava tra imetodi naturali e la contraccezione, bensì tra un modo generoso e unaltro ‘egoista’ di aprirsi o rispettivamente di ‘chiudersi’ alla genera-zione, all’interno di quella comunità d’amore che è il matrimonio. Lasoluzione alla questione, da parte di Paolo VI, fu originale: com’è

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noto, recuperando il Vaticano II, l’Humanae vitae non solo superavala gerarchia dei fini, con la antropologia problematica che le era sot-tesa, ma assumeva decisamente un approccio ‘personalista’, centratosull’amore coniugale, inteso come un amore pienamente umano, tota-le, fedele e fecondo (HV, n. 9). La fecondità veniva dunque conside-rata come caratteristica costitutiva dell’amore, senza alcuna contrap-posizione tra amore e generazione, tra sessualità e fecondità.

È per questo che l’Humanae vitae superava decisamente la subordi-nazione della «finalità» o del «significato» – l’enciclica usa in modo indif-ferente questa pur diversa terminologia (HV, n. 11-13) – della relazioneconiugale (unitivo) a quello della generazione (procreativo). Ciò che l’en-ciclica sottolineava con forza era proprio l’impossibilità di scindere que-sti due fini o significati del rapporto coniugale. In modo estremamenteinteressante si intravedeva così quello che sarebbe diventato un proble-ma sempre più grave per il vissuto della sessualità – non soltanto matri-moniale – nella cultura contemporanea: la dissociazione tra la relazionesessuale come alto momento di comunione e la sua apertura alla genera-zione. In effetti è un modo estremamente problematico di vivere la ses-sualità umana quello, oggi assai diffuso, che scinde la relazione sessualeda quell’apertura al ‘terzo’ che è il figlio e che costituisce un momentooriginario della verità della relazione della coppia matrimoniale.

Nell’Humanae vitae però, la difficoltà, a questo punto, si scaricavatutta sul nesso tra fecondità e sessualità relativamente al singolo attoconiugale. Certo, già Pio XII nella famosa Allocuzione alle ostetrichedel 1951 e poi, seppure implicitamente, il Vaticano II, avevano rico-nosciuto che, nel mutato contesto contemporaneo, serie ragioni dicarattere medico, economico, sociale, potevano portare una coppia adecidere di evitare di mettere al mondo nuovi figli, pur continuandoad avere rapporti coniugali e sfruttando i giorni della «sterilità natu-rale» della donna. Ciò che l’Humanae vitae, come già Pio XII – e nondiversamente da Pio XI nella Casti Connubii (1930) –, non volleaccettare fu che nel singolo atto procreativo fosse mai possibile per glisposi, per nessuna ragione, dissociare volutamente – nel senso di arti-ficialmente – i due significati. Per questo motivo, ultimamente, i‘metodi naturali’ fanno riferimento alla legge naturale (HV, n.4,11,23), inscritta nella biologia del corpo umano. La contraccezione,in qualsiasi sua forma, manipolerebbe e modificherebbe in modo ille-cito questa ‘legge di natura’.

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L’«Humanae vitae»: il rapporto tra ‘naturale’ e ‘artificiale’Come si vede, anche se in modo non tematizzato, sullo sfondo di que-sta problematica sta il rapporto tra il naturale e l’artificiale e dunquetra la ‘natura’ e la tecnica. Che cosa è ‘naturale’ per l’uomo? E checos’è ‘tecnico’? Fino a che punto la tecnica, insieme con la scienza,può modificare il dato ‘naturale’ e biologico senza modificare radi-calmente l’originario che caratterizza l’esperienza dell’umano? Checosa significa dire che il rapporto sessuale, nella relazione della cop-pia, deve restare ‘naturale’ e dunque ‘naturalmente’ aperto alla gene-razione della vita? Fino a che punto può spingersi l’uomo nel modifi-care e nel trascendere il suo limite corporeo, visto che questo noncoincide con il biologico, anche se lo include? In ultima analisi: cherapporto c’è tra il facere della tecnica e l’agere della libertà?

Si pone qui un interrogativo riguardo al senso della tecnica, che èil fenomeno epocale che caratterizza la modernità. Non si può certotrovare il criterio della tecnica nel rimando a un ‘naturale’ che identi-fica la ‘natura’ della persona umana con la biologia del corpo. Mad’altra parte non si può prescindere dal corpo del soggetto, con lerelazioni nelle quali questi è impegnato, per valutare eticamente ilsenso di un intervento tecnico.

La questione è impegnativa. Ma la sua soluzione non impone neces-sariamente un’alternativa secca, tra naturale e artificiale. L’agire umanoinfatti non rifiuta la tecnica, ma la riconduce entro il quadro di unaresponsabilità personale, perché il sapere scientifico e il facere della tec-nica implicano e si integrano, pur supponendone l’autonomia, in unpiù ampio sapere sull’uomo, che è il sapere relativo al senso inscrittonelle esperienze buone della vita – la cui elaborazione è compito del-l’antropologia e dell’etica. Anche qui si tratta di evitare degli eccessi:l’uno consiste nell’assegnare alla tecnica il potere di trasformare indi-scriminatamente o assolutamente le condizioni del vivere umano, per-ché questo porterebbe a esiti inaccettabili. Il rifiuto di questo eccessoperò non può significare la demonizzazione della tecnica, cosa che con-durrebbe a un’ambigua esaltazione di un dato puramente ‘naturale’ chein realtà nell’uomo non esiste mai a uno stato ‘puro’.

Anche nella situazione specifica del rapporto tra matrimonio e ses-sualità, tra sessualità e generazione, e tra senso unitivo e procreativodel rapporto sessuale nella relazione coniugale, il difetto consiste a

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mio parere nel cadere in due estremi che sono allo stesso modo pro-blematici: da una parte c’è il rischio di ridurre la norma morale allalegge ‘biologica’, in fondo riconducendo l’amore coniugale a uncomandamento che si riduce a osservanza di una legge ‘fisica’, e dal-l’altra il rischio è di ridurre la norma dell’amore a un principio tal-mente astratto e intellettualista da prescindere dalle forme concretedella relazione, e dunque dal darsi del corpo proprio nelle sue espe-rienze concrete. Il rischio – speculare – è dunque duplice: o unamorale naturalista, che identifica l’osservanza di una legge biologicacon la norma morale, o una morale intellettualistica, nella quale ci siappella genericamente al ‘valore’ dell’amore, e in specie dell’amoreconiugale, in un modo tanto astratto da prescindere da qualsiasi suaforma e determinazione pratica.

L’«Humanae vitae»: la norma e la coscienzaAnche nel campo della morale sessuale, si pone poi la questione del-l’interpretazione della norma: questa non può essere interpretata inmodo legalistico, come se l’unico problema fosse la sua osservanzamateriale. La semplice norma rimanda dunque a un modo complessivodi vivere e di pensare la persona umana, le sue relazioni, il suo rappor-to con sé e con il proprio corpo, e ultimamente il suo rapporto con Dio.Nel caso dei metodi naturali, la norma, rifiutando qualsiasi forma dicontraccezione nel rapporto sessuale coniugale, intende propiziare uncerto modo di vivere, nella relazione della coppia, l’esperienza del pro-prio corpo, del dialogo amoroso e di una buona disposizione nei con-fronti del figlio. Proprio per questa ragione, la norma dà sempre formaconcreta a un senso – un bene promesso – che, mentre è formulato nellanorma, la trascende e che deve essere riconosciuto e interpretato dallacoscienza, nel discernimento (prudentia, phrònesis) operato a partiredalla situazione concreta. Il problema si presenta dunque sotto forma diuna domanda, che è affidata ultimamente al discernimento del magiste-ro ecclesiastico stesso: se in certe circostanze, come esplicitamente hariconosciuto Pio XII, ci sono motivi sufficientemente fondati per noncercare un figlio nel rapporto sessuale coniugale, perché, laddove que-sta stessa decisione – per molteplici ragioni – non fosse possibile attra-verso i metodi naturali, non si potrebbe ottenere lo stesso effetto attra-verso l’intervento ‘contraccettivo’ della tecnica e della scienza medica?

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Si potrebbe obiettare che questa soluzione è di fatto già stata adot-tata quando, in molteplici sedi – basterebbe pensare ad alcuni deinumerosi commenti emanati, nei primi mesi successivi all’Humanaevitae, dagli Episcopati cattolici di tutto il mondo (38 in tutto) oppureal Documento (Official Communication) edito dalla Congregazioneper il Clero il 26 aprile 1971 per risolvere una controversia sorta nelladiocesi di Washington – si è distinto tra la oggettività della norma e la‘eccezione’ della coscienza: ciò che oggettivamente continua a restare‘illecito’, si dice, potrebbe diventare soggettivamente difendibile oper lo meno non gravemente peccaminoso: ma qui si aprirebbe l’altraquestione, relativa alla valutazione della gravità morale dell’agire.Sotto il profilo pratico, certo, questa argomentazione sortisce il risul-tato di lasciare invariata la norma universale e oggettiva, affidandonela ‘applicazione’ – qui di fatto in modo non puramente deduttivo –alla coscienza, considerata appunto nella tradizione manualistica lanorma proxima moralitatis. Ma questo approccio non risulta convin-cente, sotto il profilo teorico. Esso apre facilmente il campo a unasorta di doppia morale, quella pubblica e ‘oggettiva’ e quella ‘privata’e soggettiva, legata al phoro interno, con il rischio reale che ciò che èufficialmente negato venga ufficiosamente permesso o tollerato.

Ma la vera questione teorica, assai viva nella morale tradizionale, èun’altra: ciò che fa problema, è la divisione tra l’oggettivo e il sogget-tivo. Classicamente, l’oggettivo veniva identificato con la formulazionedella norma, appunto considerata sempre ‘oggettivamente’ valida, e ilsoggettivo veniva identificato con l’ambito riservato alla decisionedella coscienza. Ciò che fa problema in questa separazione tra oggetti-vo e soggettivo è che in modo non reale – in termini ‘scientifici’ sidirebbe in modo non ermeneutico – essa divide la coscienza, e cioè ilsoggetto morale, dal suo atto. Ora ciò che si deve chiarire è che l’atto,che nella tradizione tomista era l’objectum o la ‘materia’, è sempre l’at-to del soggetto: e dunque l’atto (oggetto) è sempre soggettivo, poichéla coscienza si attua e decide di sé solo nella determinazione praticadell’agire. Ciò significa che la valutazione del significato morale dell’a-gire – quella che viene chiamata l’«oggettività» dell’atto – non può innessun modo prescindere dalla coscienza agente, e dunque dall’espe-rienza personale e culturale, dalle circostanze e dalle relazioni nellequali essa è coinvolta. La divisione tra oggetto e soggetto, assegnandol’oggettività alla norma e la soggettività alla coscienza, separa nell’uni-

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ca esperienza morale il profilo esteriore (materiale) dell’agire e l’inten-zione soggettiva. In realtà, l’agire è sempre un’intenzione incarnata el’intenzione è un’azione anticipata e/o immaginata. Questo implica diriconoscere che la norma morale riguarda l’agire intero del soggetto enon soltanto il profilo esteriore della sua azione: altrimenti si cadreb-be in una sua interpretazione legalistica. Ma, ugualmente, la valutazio-ne morale dell’azione non può procedere per semplice applicazione diuna norma ‘oggettiva’ al soggetto, perché essa non può non tenerconto del contesto, e si opera sempre a partire dalla coscienza stessanel discernimento concreto della sua ragion pratica.

Teologia e magisteroIl personalismo stesso, al di là della sottolineatura dell’istanza dellapersona, con le sue varie elaborazioni teoriche, si mostra insufficien-te a propiziare il superamento di tali complessi problemi. A tutt’oggi,dunque, il compito della teologia morale è di riflettere sulle esperien-ze umane fondamentali – buone perché originarie – che danno sensoal vivere dell’uomo, perché lo costituiscono nella sua identità, che èda sempre in relazione con altri da sé, come l’identità e la relazionefiliale, la relazione di coppia tra uomo e donna, la relazione fraterna,la relazione sociale. Tra queste esperienze, certamente, la relazione trauomo e donna, nella forma della coniugalità, appare paradigmaticaper interpretare il senso stesso della relazione umana in generale: essarivela in tutta evidenza che la propria identità (maschile o femminile)si costituisce nella relazione con l’altro/a da sé, allo stesso modo in cuiè proprio nell’impegno suscitato da questa relazione che il soggettodecide della qualità etica della propria libertà.

È in questo quadro che la riflessione teologica – dogmatica, etico-antropologica, pastorale, spirituale, giuridica, canonica – sul matri-monio come sacramento acquista un’importanza centrale. È questa lavera posta in gioco delle questioni aperte dall’Humanae vitae. Nelsacramento appare in modo chiaro come l’impegno dell’uomo a deci-dere di sé (etico), si fonda sul dono che Dio gli ha anticipato (teolo-gico), affidando tale dono alla decisione della sua stessa libertà, affin-ché esso possa davvero essere buono per lui. Come sacramento, ilmatrimonio è l’atto nel quale gli sposi celebrano nella Chiesa l’agiresalvifico di Dio in Cristo nei confronti dell’umanità tutta, affidando –

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nel caso specifico – a Lui la propria relazione di sposi. Essi, acco-gliendosi in una dedizione totale, fiduciosa e per ciò stesso feconda,si aprono a un dono di amore l’uno per l’altro: e questo stesso amorericeve il dono del figlio, nell’atto generante, nel quale essi stessi accol-gono l’opera del reciproco amore come un dono ricevuto da Dio.

Quanto qui è stato solamente accennato, ovviamente, richiedereb-be di essere pensato in modo più ampio e organico. In ogni caso, ilcompito di una tale riflessione teologica – non solo etica e antropolo-gica, ma anche dogmatica, pastorale e canonica – non può in nessunmodo essere pensato in alternativa all’istanza del magistero ecclesia-stico, alla quale va riconosciuto il compito di ‘giudizio supremo’ dellaconformità o meno di un’affermazione teologica con la verità dellaRivelazione cristiana. Ma questo esercizio di discernimento supponeil dibattito, anche vivace, della teologia.

Sotto questo profilo il compito del magistero ecclesiastico si ponein relazione circolare e virtuosa con la riflessione teologica: l’obietti-vo comune è quello di favorire le forme concrete della testimonianzacristiana, tenendo conto in modo non accidentale delle diverse situa-zioni personali e culturali, non semplicemente per adeguarsi a esse,ma per interpretare le esigenze universali dell’etico nelle mutate situa-zioni storiche.

Se questo è vero, sarebbe un errore pensare che il magistero eccle-siastico, in rebus morum, non solo non sia passibile di interpretazioninuove, ma anche che un cambiamento di un’indicazione normativadovrebbe significare il ‘crollo’ dell’etica e della comprensione antro-pologica in essa implicata. In questa linea il compito del magisteronon è anzitutto di fissare, una volta per sempre, le singole normemorali: del resto, la stessa storia della tradizione mostra la possibilitàdi questi cambiamenti, laddove non fosse in gioco un pronunciamen-to infallibile. Questo compito consiste soprattutto nel garantire eorientare, con la specifica autorevolezza del magistero ecclesiastico,una riflessione capace di condurre i singoli credenti – e qui alla finela convinzione della coscienza risulta decisiva – a interpretare nellediverse situazioni culturali, anche grazie al contributo sempre criticodella teologia e allo stesso sensus fidei, le forme della testimonianzacristiana.

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