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15 PROPOSTE PER LA GIUSTIZIA SOCIALE DISUGUAGLIANZE FORUM DIVERSITÀ MATERIALI

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15 PROPOSTE PERLA GIUSTIZIA SOCIALE

DISUGUAGLIANZEFORUM

DIVERSITÀ

MATERIALI

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Indice

Capitolo 1. Contributi esterni

Parte I. Un cambiamento tecnologico che favorisca la giustizia sociale1

Pag. 6 Roberto Aloisio, Eugenio Coccia, Alessandro Pajewski - Biforcazioni nella ricerca e nel cambiamento tecnologico: anticipare gli impatti sociali

Pag. 21 Maria Luisa Bianco, Giovanna Garrone e Guido Ortona, Angela Ambrosino, Daniele Ciravegna, Bruno Contini, Nicola Negri, Francesco Scacciati, Pietro Terna e Teodoro Togati, e Flavio Ceravolo - Il sottodimensionamento della Pubblica Amministrazione rallenta, quando non inficia, qualsiasi progetto nazionale o locale

Pag. 30 Nerina Boschiero - Un nuovo trattato delle Nazioni Unite su Ricerca e Sviluppo nel settore farmaceutico

Pag. 37 Claudio Bruno, Edoardo Reviglio - Investimenti e infrastrutture sociali p er una crescita inclusiva

Pag. 63 Giovanni Dosi e Andrea Roventini - La Cassa Dep ositi e Prestiti e le politiche d’innovazione

Pag. 64 Giovanni Dosi e Maria Enrica Virgillito – Work intensification and forms of control: from AI to I 4.0 (Ritmi di lavoro e forme di controllo: dall'intelligenza artificiale a Industria 4.0) - Slides

Pag. 65 Luca Enriques e Federico Maria Mucciarelli - Governance pubblica e privata delle politiche pubbliche per obiettivi: una proposta di riforma della governance della Cassa Depositi e Prestiti

Pag. 115 Massimo Florio e Francesco Giffoni - L’impatto sociale della produzione di scienza su larga scala: come governarlo?

Pag. 156 Ugo Pagano, Maria Alessandra Rossi - Come sorridere anche noi: Sviluppo economico, accesso alle conoscenze, e riduzione delle diseguaglianze

Pag. 186 Mario Pianta - Cambiamento tecnologico e disuguaglianze: cosa succede e cosa si può fare - Slides

Pag. 204 Romano Prodi e Edoardo Reviglio - Un New Deal p er l’Europ a. Rilanciare le infrastrutture sociali

1

Una parte di questi contributi è stata presentata al Seminario aperto “Fase II” del Programma Atkinson, sulTema “Un cambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”, il 15 novembre 2018 a L’Aquila presso il GSSI(cfr Capitolo 3 di questo e-book).

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15 proposte per la giustizia sociale 2

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Pag. 210 Giorgio Resta - Governare l’innovazione tecnologica: decisioni algoritmiche, diritti digitali e principio di uguaglianza

Pag. 238 Alessandro Sterlacchini - L’imp atto sociale della ricerca e dell’innovazione: ip otesi di intervento nel contesto europeo e italiano

Pag. 257 Stefano Vella e Carlo Petrini - Innovazione farmaceutica e accesso ai medicinali

Parte II. Un lavoro con più forza per contare2

Pag. 286 Francesco Denozza e Alessandra Stabilini - Ribilanciare il p otere del lavoro e la democratizzare l'economia

Pag. 310 Andrea Garnero - Un salario minimo per legge in Italia? Una proposta per il dibattito

Parte III. Un passaggio generazionale più giusto3

Pag. 336 Diego Piacentino – La tassazione dei trasferimenti di ricchezza tra generazioni: una difesa, con qualificazioni

Pag. 349 Chiara Rapallini - Ripensare la proposta di un fondo per l’accesso alla vita adulta

Capitolo 2. Materiali di lavoro

Parte I. Un cambiamento tecnologico che favorisca la giustizia sociale

Pag. 363 Algoritmi di apprendimento automatico e utilizzo di dati personali: una biforcazione sbilanciata (non paper a cura di Fabrizio Barca presentato al seminario di Messina)

Parte II. Un lavoro con più forza per contare

Pag. 383 Lorenzo Sacconi, Francesco Denozza e Alessandra Stabilini - Democratizzare l’economia, promuovere l’autonomia dei lavoratori e l’uguale cittadinanza nel governo di impresa

2

Contributi presentati al Seminario aperto “Fase II” del Programma Atkinson, sul Tema “Un Lavoro con piùforza per contare”, il 30 ottobre 2018 a Milano, presso la Casa della Cultura (cfr Capitolo 3 di questo e-book).3

Contributi presentati al Seminario aperto “Fase II” del Programma Atkinson, sul Tema “Un passaggiogenerazionale più giusto”, il 5 dicembre 2018 a Roma presso la Città dell’Altra Economia (cfr Capitolo 3 di questo e-book).

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Capitolo 3. Programmi dei seminari aperti e interni

Parte I. Un cambiamento tecnologico che favorisca la giustizia sociale

Pag. 407 Programma Seminario interno della “Fase I” del Programma Atkinson, “Un cambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”, 5 luglio 2018 presso la Fondazione Basso

Pag. 408 Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un cambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”, 15 novembre a L’Aquila presso il GSSI

Pag. 409 Programma Workshop, in collaborazione con la Fondazione Comunità di Messina, “Un cambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”, 1 febbraio 2019 a Messina

Parte II. Un lavoro con più forza per contare

Pag. 416 Programma Seminario interno “Fase I” del Programma Atkinson, “Un lavoro con più forza per contare”, 19 giugno 2018 presso la Fondazione Basso

Pag. 417 Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un Lavoro con più forza per contrattare”, 30 ottobre a Milano, presso la Casa della Cultura

Parte III. Un passaggio generazionale più giusto

Pag. 419 Programma Seminario interno “Fase I” del Programma Atkinson, “Un passaggio generazionale più giusto”, 10 luglio 2018 presso la Fondazione Basso

Pag. 420 Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un passaggio generazionale più giusto”, 5 dicembre a Roma presso la Città dell’Altra Economia

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Capitolo 1. Contributi esterni

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Biforcazioni nella ricerca e nel cambiamento tecnologico:

anticipare gli impatti sociali

R. Aloisio, E. Coccia, A. Pajewski

Gran Sasso Science Institute, L’Aquila

www.gssi.it

1. Introduzione

La ricerca scientifica non si esaurisce nella produzione e validazione sperimentale di nuove teorie.

Le scoperte scientifiche e le nuove tecnologie che a esse si accompagnano modificano la nostra visione

della realtà e il mondo in cui viviamo. Direttamente o indirettamente, la scienza è responsabile di

cambiamenti culturali, economici, sociali, ambientali e di salute pubblica. Gli esiti della ricerca sono

dunque rilevanti per l’umanità in generale, non solo per una ristretta cerchia di esperti, e non sono mai

scevri da implicazioni etiche e sociali.

Dal punto di vista economico, si parla spesso di scienza e tecnologia come motori

dell’innovazione e dello sviluppo, e i governi di tutto il mondo fanno normalmente affidamento sul

progresso tecnologico per accrescere il benessere delle nazioni (Ruttan 2001). Tuttavia, accanto agli

innegabili benefici già ottenuti e alle prospettive di risolvere alcuni dei problemi più gravi dell’umanità, lo

sviluppo scientifico e tecnologico non sempre si accompagna ad una diminuzione delle disuguaglianze.

Un indicatore che misura la disuguaglianza è l’indice di Gini (Gini 1921), indice di variabilità di una

distribuzione, che applicato al reddito vale 0 nel caso di pura equi-distribuzione (reddito uguale per tutti)

e 1 nel caso in cui si ha la massima concentrazione (reddito tutto concentrato su una sola persona). In

figura 1 confrontiamo l’indice di Gini relativo al reddito su base nazionale e la frazione di PIL pro-capite

investito in ricerca e sviluppo, i dati sono riportati in tabella ed estratti dal report della Banca Mondiale

per l’anno 2017.

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Come si vede dalla figura non c’è una chiara relazione tra le due quantità, con una tendenza,

statisticamente poco significativa (dell’ordine del 5%), alla diminuzione dell’indice di Gini all’aumentare

della percentuale di PIL pro-capite investito in ricerca.

Figura 1: Indice di Gini in funzione della percentuale di PIL pro-capite investito in ricerca. Ogni punto corrisponde ad una nazione come in tabella. La curva rappresenta la regressione lineare dei dati con una significatività statistica del 5%.

L’impatto sulle disuguaglianze degli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico è,

dunque, scarso e ciò risulta particolarmente grave se si pensa ai grandi investimenti pubblici nella ricerca

di base che hanno reso possibile lo sviluppo e la commercializzazione di nuove tecnologie e servizi. Per

esempio, Mariana Mazzucato ha recentemente mostrato come tutte le tecnologie cruciali presenti negli

iPhone prodotti da Apple, a partire dai chip fino al software, sono basate in origine su ricerche finanziate

da fondi pubblici (Mazzucato 2013). Tuttavia, in questo caso, l’enorme ricchezza prodotta dalla ricerca

pubblica non ha prodotto un beneficio diffuso per i cittadini che, attraverso la fiscalità generale, l’hanno

finanziata. Poche compagnie private e pochi individui hanno raccolto la maggior parte dei profitti,

provenienti da investimenti pubblici.

Il valore prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica è ormai divenuto il fattore dominante

nella produzione economica. Mentre nel 1975 la proprietà intellettuale (IP), di cui i brevetti tecnologici

0,20

0,25

0,30

0,35

0,40

0,45

0,50

0,55

0 1 2 3 4 5

INDI

CE D

I GIN

I

% PIL PRO-CAPITE IN RICERCA

Nazione % PIL in R&D Gini index USA 2,744 0,410 China 2,107 0,422 Japa 3,147 0,321 Germany 2,940 0,314 South Korea 4,292 0,314 India 0,850 0,351 France 2,256 0,323 UK 1,701 0,341 Russia 1,187 0,377 Brazil 1,170 0,513 Italy 1,287 0,347 Canada 1,612 0,340 Australia 2,120 0,347 Spain 1,222 0,360 Nederlands 1,973 0,286 Turkey 1,007 0,412 Sweden 3,161 0,272 Switzerland 2,967 0,325 Israel 4,300 0,414 Belgium 2,465 0,281 Austria 3,100 0,305 Poland 1,004 0,321 Mexico 0,941 0,482 Denmark 3,085 0,285 Finland 3,174 0,268 Czech Rep. 1,997 0,259 Egypt 0,680 0,318 Norway 1,710 0,268 Argentina 0,588 0,424

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costituiscono una componente fondamentale, rappresentava il 17% del valore delle compagnie quotate

nel S&P 500, nel 2015 l’IP è arrivata a rappresentare l’84% del loro valore (Ocean Tomo 2015).

Parallelamente, le disuguaglianze economiche sono progressivamente aumentate su scala globale a partire

dagli anni ‘80 del secolo scorso, come si evince in Figura 2: oggi in molte regioni del mondo il 10% più

ricco della popolazione raccoglie ogni anno più del 50% del reddito (Alvaredo et al. 2018). Di fronte a

questo scenario, il mondo della ricerca scientifica non può esimersi dall’interrogarsi sul proprio ruolo

nella produzione e distribuzione della conoscenza, dunque della ricchezza, e su quali accorgimenti e

procedure possono contribuire ad una riduzione delle disuguaglianze.

Figura 2: Quote del reddito nel mondo per il top 10%, 1980–2016. E.g., nel 2016 in India il 10% della popolazione che guadagna di più ha ricevuto il 55% del reddito nazionale, rispetto al 31% nel 1980. (tratto da Alvaredo et al. 2018).

Per uno scienziato, soprattutto per chi è impegnato nella ricerca di base, considerazioni di impatto

sociale possono creare perplessità, in quanto esulano della propria formazione e dagli obiettivi specifici

del proprio lavoro. Tuttavia, a cominciare dalle principali istituzioni di ricerca del mondo, è stata avviata

una riflessione per ampliare l’ambito della missione della ricerca scientifica e tecnologica includendo

anche l’impatto sociale delle ricerche condotte. Il 15 ottobre 2018, nell’investire un miliardo di dollari per

la creazione di un hub interdisciplinare sull’intelligenza artificiale, il Massachusetts Institute of

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Technology ha stabilito anche linee guida etiche e creato un forum per discutere e valutare l’impatto

sociale della ricerca. Questo è motivato dal timore che lo sviluppo tecnologico “è sempre più in grado di

alterare la struttura della società e – lasciato senza controllo – potrebbe danneggiare più persone di quante

non ne aiuti.” (MIT NEWS 2018)

Il Gran Sasso Science Institute (GSSI) considera l’attenzione all’incremento della giustizia sociale

come una delle sue missioni e si impegna in processi di partecipazione sociale per far sì che i benefici

della ricerca raggiungano tutti e non pochi. A fronte di partnership con il settore privato nel campo della

ricerca tecnologica, il GSSI come istituzione ha iniziato a riflettere su come strutturare le proprie attività

di ricerca e sviluppo per incorporare nelle decisioni strategiche anche una valutazione degli impatti sociali,

tenendo conto non solo dei cittadini resilienti, ma anche dei così detti vulnerabili, penultimi ed ultimi,

spesso esclusi dai benefici dello sviluppo scientifico e tecnologico. In definitiva, si vorrebbero orientare i

cambiamenti indotti dalla ricerca scientifica nella direzione della riduzione delle disuguaglianze e

dell’aumento della libertà sostanziale di ciascuno, piuttosto che nella direzione che migliora il benessere

solo di pochi.

Quanto segue rappresenta la fase iniziale della riflessione attualmente in corso al GSSI.

L’obiettivo è quello di creare un modello all’avanguardia nell’attività scientifica con impatto sociale per la

riduzione delle disuguaglianze.

2. Esempi di biforcazioni nella ricerca e nel cambiamento tecnologico

Il processo che dalla ricerca scientifica conduce a cambiamenti sociali impone agli Istituti di

ricerca decisioni che possono conseguire da biforcazioni, dove è possibile orientare lo sviluppo

tecnologico verso conseguenze sociali positive, tendenti cioè alla riduzione delle disuguaglianze, o

negative, nel caso in cui lo sviluppo tecnologico rimane a disposizione di pochi, contribuendo

all’incremento delle disuguaglianze. Possiamo fare alcuni esempi di biforcazioni presenti in alcuni progetti

di ricerca in cui il GSSI è coinvolto insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

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Sono del GSSI il Principal Investigator e uno dei gruppi di ricerca impegnati nel più importante

esperimento di rivelazione della materia oscura del mondo (l’esperimento DarkSide ai Laboratori del

Gran Sasso dell’Infn). Questo esperimento richiede l’uso di una grande quantità di Argon ultrapuro, con

la necessità di separare l’isotopo giusto (Argon 40) da quello radioattivo (Argon 39). Questa separazione

isotopica può avvenire per gravità in vaste strutture verticali oppure tramite l’uso di centrifughe

industriali.

In questo caso ci si trova davanti a una chiara biforcazione per una scelta di procurement. Da un

lato si ha la possibilità di affidare una ingente commessa pubblica ad una grande multinazionale,

contribuendo così a rafforzarne la posizione di mercato. L’alternativa consiste nell’utilizzo di questa

commessa come leva per il rilancio economico di una possibile area geografica depressa, generando un

ciclo virtuoso di sviluppo. È stata seguita la seconda opzione, proponendo di riattivare strutture dismesse

di vecchie miniere nel Sulcis, in Sardegna, per effettuare la separazione isotopica. L’effettiva attivazione

di queste torri di raffinazione ha permesso di richiamare al lavoro manodopera locale, sostituendo il ciclo

produttivo legato all’estrazione mineraria con quello della raffinazione di isotopi ultra-puri, permettendo

anche l’entrata, in prospettiva, nell’ importante mercato legato alla diagnostica medica.

La stessa linea di ricerca sulla materia oscura porta all’uso di sensori di luce di tipo innovativo

basati sulla tecnologia del silicio, i cosiddetti Silicon Photo Multiplier (SiPM). Il GSSI, in collaborazione

con Thales Alenia Space e Infn, abiliterà la tecnologia basata su SiPM all’ambiente spaziale, mettendo in

orbita, con il progetto Nuses, un nuovo satellite per ricerche di fisica astroparticellare e di segnali

precursori di eventi sismici. L’eventuale sviluppo di un sistema satellitare capace di prevedere terremoti

con qualche ora di anticipo (la cui fattibilità deve ancora essere dimostrata) ci porrebbe davanti ad una

chiara biforcazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sviluppate durante la ricerca. Se questa

tecnologia venisse sfruttata in forma esclusiva da privati disposti a investire nella sua messa in opera in

cambio di accesso anticipato alle previsioni, pochi individui potrebbero ottenere vantaggi enormi anche

tramite speculazioni finanziarie basate su informazioni riservate. D’altro canto, un meccanismo

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democratico che regolasse l'uso di quelle stesse informazioni permetterebbe di integrarle in un sistema

pubblico di protezione civile globale capace di salvare migliaia di vite umane.

La tecnologia SiPM può venire applicata anche nell’ambito della sensoristica per autovetture, e

anche in questo caso si presenta una biforcazione derivante dal suo uso. Il vantaggio competitivo

derivante da nuovi sensori avanzati potrebbe venire impiegato per sviluppare sistemi di guida autonoma

che sostituiscano piloti umani, riducendo le possibilità di impiego per ceti sociali con più basso livello

educativo. Oppure la stessa tecnologia potrebbe venire impiegata per sviluppare sistemi di supporto e

assistenza alla guida capaci di ridurre incidenti stradali e di aumentare la sicurezza di lavoratori e

passeggeri. Scelte analoghe sono inevitabili nel vasto campo della ricerca applicata alla robotica, che può

essere utilizzata per sostituire lavoratori oppure per migliorare la sicurezza dei lavoratori stessi, fino a

permettere l’accesso a lavori manuali anche a individui affetti da gravi disabilità.

Simili biforcazioni si presentano anche a fronte di decisioni su quali linee di ricerca perseguire e

su come queste ricerche vengono strutturate. Negli Stati Uniti è in corso un acceso dibattito sull’utilizzo

di Big Data e modelli matematici per informare decisioni di grande impatto sul pubblico, come il costo di

assicurazioni sanitarie e mutui per la casa, oppure l’assunzione o promozione di impiegati (O'Neil 2016).

Da un lato gli algoritmi e i dati utilizzati in applicazioni di Big Data possono essere stabiliti e selezionati

da tecnocrati in maniera opaca, senza considerazioni esplicite per eventuali bias e senza processi di

partecipazione pubblica. Il rischio concreto di questo approccio è di rafforzare e amplificare

disuguaglianze già esistenti nella popolazione, con alcuni gruppi già svantaggiati che possono vedere

ulteriormente ridotte le proprie opportunità. Considerando l’attuale sviluppo di sistemi di controllo

sociale basato sui big data, come il Social Credit Scoring System della Repubblica Popolare Cinese, il rischio

di ricadute distopiche di queste tecnologie è terribilmente concreto. Al contrario, gli algoritmi potrebbero

invece venire sviluppati in maniera partecipata, con lo scopo esplicito di evitare bias implicite e unintended

consequences. Un processo partecipativo pubblico potrebbe anche stabilire per quali ambiti sia legittimo

sviluppare sistemi di decisione basati su modelli matematici e per quali sia meglio ricorrere a decisioni

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individuali. Quest’uso democratico dei big data aiuterebbe a compiere scelte più informate e a ridurre,

anziché aumentare, le disuguaglianze sociali.

3. Technology assessment

La volontà di valutare e la capacità di anticipare l’impatto sociale delle biforcazioni sono i due

fattori limitanti nel perseguimento di un impatto sociale. Il primo di questi fattori dipende dalla sensibilità

e dall’organizzazione dell’Istituto di ricerca, mentre il secondo deve fare i conti con l’intrinseca incertezza

nell’anticipare in maniera completa ed affidabile le conseguenze di lunghe e complesse catene causali.

Specificatamente, il campo del Technology Assessment deve fare i conti con il cosiddetto dilemma di

Collingridge: da un lato l’impatto sociale di una tecnologia non può essere identificato con facilità finché

la tecnologia non è pienamente sviluppata ed adottata; dall’altro è difficile controllare o modificare una

tecnologia una volta che è ampiamente diffusa (Collingridge 1980). Ne consegue che le anticipazioni nel

campo del TA avvengono con margini di incertezza e approssimazione che sono comuni nel settore

business ma che possono mettere a disagio molti scienziati tradizionali. Nei limiti di questa situazione,

rendere esplicito e strutturato il processo di valutazione dell’impatto sociale della ricerca contribuisce,

comunque, a diffondere la responsabilità decisionale in una direzione più democratica. Inoltre, benché

sia impossibile prevedere tutte le conseguenze a lungo termine di una nuova tecnologia, è possibile

orientarne lo sviluppo a cominciare dalle fasi iniziali cercando di minimizzare i rischi per la collettività.

La disciplina del Technology Assessement (TA) venne sviluppata a partire dal 1972 dall’Office of

Technology Assessment (OTA) del Congresso degli Stati Uniti d’America, con lo scopo di fornire

un’analisi autorevole ed oggettiva sugli impatti delle nuove tecnologie. Sebbene venne smantellata nel

1995 nell’ambito della riduzione delle attività del governo federale voluto da Newt Gingrich (speaker

della US House of Representatives dal 1995 al 1999) e dalla maggioranza repubblicana, l’OTA ha ispirato

nel mondo la creazione di numerosi organismi analoghi. Oggigiorno il Center for Science, Technology and

Engineering (CSTE) del Government Accountability Office of the US Congress ha assorbito alcune delle vecchie

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funzioni dell’OTA. Il parlamento Europeo ha invece stabilito un comitato per il TA chiamato Science and

Technology Options Assessment (STOA), mentre le istituzioni che consigliano i vari parlamenti nazionali

europei sono riuniti in un network chiamato European Parliamentary Technology Assessment (EPTA) con 12

membri ordinari e 10 membri associati. Attualmente l’Italia non ha una sua istituzione nell’EPTA, ma i

vari report e dati prodotti dall’EPTA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati per la

valutazione di nuove tecnologie. Su questa base di conoscenze, il GSSI ha avviato una riflessione su come

inserire una valutazione esplicita dell’impatto sociale nello sviluppo della ricerca.

4. GSSI e impatto sociale della ricerca

Nascendo come Istituto curiosity driven, fattori di natura squisitamente scientifica sono alla base

delle decisioni di investimenti in ricerca da parte del GSSI. Nonostante questo, sin dall’inizio, anche

considerazioni di natura sociale hanno giocato un ruolo importante negli indirizzi strategici assunti dal

GSSI. La stessa fondazione dell’Istituto, legata allo sviluppo locale dell’Aquila e dei territori colpiti dal

terremoto del 2009, la creazione di un’area di ricerca in Social Sciences e la collaborazione con importanti

aziende ad alto contenuto tecnologico, trovano la propria ragione d’essere anche nella missione di

contribuire allo sviluppo economico realizzando un ponte tra ricerca di base e industria attribuita al GSSI

dal Parlamento italiano.

Già in alcune partnership di ricerca il GSSI ha iniziato a produrre o a prevedere ricadute sociali.

Contiamo di sviluppare i nuovi tipi di SiPM, di cui si è già parlato, con partner locali e inserendo chiare

considerazioni di ricadute sociali. L’esistenza sul territorio di un leader del settore del silicio, la LFoundry

ad Avezzano, e il know how acquisito dai ricercatori dell’Infn e del GSSI permettono oggi la realizzazione

all’Aquila di una “fabbrica” di nuovi sensori che, al di là della produzione necessaria all’esperimento

DarkSide, si prevede che potrà competere sul mercato dei sensori di luce con il gigante del settore, la ditta

giapponese Hamamatsu. Gli investimenti del GSSI nella ricerca contribuiranno quindi ad aumentare la

competitività di aziende localizzate in un’area interna e tradizionalmente svantaggiata. Inoltre gli sviluppi

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tecnologici dei SiPM necessari alla ricerca in fisica astroparticellare permettono, in linea di principio,

importanti applicazioni anche in campo biomedico. L’alta sensibilità raggiunta da questi sensori

permetterebbe di realizzare esami di Positron Emission Tomography (PET) con una minore dose di tracciante

radioattivo assunta dal paziente (fino a 100 volte minore di quelle attualmente in uso). Questo aprirebbe

straordinarie nuove possibilità alla tecnica diagnostica della PET per tutti i pazienti, in particolare quelli

in età pediatrica.

In prospettiva, il GSSI conta di strutturare le proprie attività di ricerca applicata introducendo

strumenti di valutazione e monitoraggio dell'impatto sociale in grado di aiutare a scegliere la strada voluta

a ogni possibile biforcazione presente nel processo di sviluppo tecnologico, a partire dalla decisione su

quali linee di ricerca perseguire fino all’eventuale commercializzazione di nuove tecnologie. Inoltre il

modello GSSI affiancherà a questi strumenti anche dei momenti di partecipazione sociale formalizzata

che li supportino e rafforzino.

Figura 3: Modello del processo di valutazione e monitoraggio dell’impatto della ricerca sulla giustizia sociale

A) “Due Diligence” dell’impatto sociale

Da tempo fondi di investimento “ad impatto sociale” (per esempio, The Rise Fund o Bain Capital

Double Impact negli Stati Uniti) prima di investire i loro capitali affiancano ad una valutazione del profitto

economico anche una previsione dell’impatto sociale atteso. Questo è uno dei fattori che serve a decidere

su quali opportunità investire, e identifica una serie di indicatori specifici che possono essere misurati a

posteriori per valutare l’effettivo conseguimento dei risultati aspettati. Questo tipo di valutazione può

servire da modello per un’attività analoga da svolgersi prima di decisioni importanti sulle linee di ricerca

da perseguire. Un’iniziativa di questo tipo sarebbe inoltre compatibile con la necessità di rafforzare

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nell’analisi del rischio considerazioni di giustizia sociale e di benessere per le generazioni future (Caney

2009, Ng 2005).

B) Open Data

Il libero accesso alle informazioni è un prerequisito per la partecipazione pubblica. Quando i

risultati e le implicazioni della ricerca restano riservati a pochi c’è il rischio di aumentare la disuguaglianza

dei cittadini che non hanno accesso alle informazioni e che non possono partecipare ad orientare il

progresso tecnologico traendone benefici (Kellog and Mathur 2003). Il GSSI ha stabilito, sin dall’inizio,

una politica di Open Source ed Open Data, per favorire la condivisione e l’analisi democratica dei propri

risultati scientifici. Un esempio di questo approccio è il Center for Urban Informatics and Modeling, che

coordina progetti di ricerca dedicati alla città dell’Aquila e all’intero cratere sismico come contesto

privilegiato di studio, con attenzione tanto all’attuale fase di ricostruzione che alle potenziali traiettorie di

sviluppo economico future, che coinvolge non soltanto le Istituzioni ma anche i cittadini attraverso

processi partecipativi volti a stabilire temi ed obbiettivi delle ricerche. Un altro esempio dell’approccio

“aperto” seguito dal GSSI è la piattaforma Open Data Ricostruzione (http://opendataricostruzione.gssi.it)

che raccoglie, in formato open scaricabili e liberamente consultabili, tutti i dati relativi alla ricostruzione

post-sisma, ivi compresi i dati relativi alle risorse finanziarie impiegate, ai lavoratori coinvolti ed al livello

di sicurezza sismica raggiunto con la ricostruzione.

C) Trasferimento Tecnologico

In generale, il GSSI intende perseguire una politica attiva per rendere accessibili al pubblico tutti

i dati e le informazioni sviluppate nell’ambito della ricerca scientifica che possono essere utilizzati

direttamente in maniera democratica. D’altro canto, l’accesso democratico ai dati non è da solo sufficiente

a garantire uno sfruttamento equo del loro valore. Sviluppare e commercializzare tecnologie specifiche,

così come utilizzare in maniera profittevole Big Data, richiede sempre più conoscenze tecniche avanzate

e ingenti capitali da investire, creando una barriera di fatto tra chi può utilizzare i dati in maniera

produttiva e chi no. In questo contesto, un’Istituzione che ha a cuore la riduzione delle diseguaglianze

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economiche può attuare politiche di protezione e valorizzazione della proprietà intellettuale (IP) per

indirizzarne il futuro utilizzo (e commercializzazione) verso impatti sociali positivi. Il GSSI sta

attualmente stabilendo un quadro di politiche interne sull’IP che possa fungere da guida nelle partnership

con le industrie e nella creazione di un hub per le tecnologie applicate.

Un patrimonio di IP che sia a disposizione di un Istituto di ricerca pubblico con finalità sociali è

un potente mezzo per indirizzare lo sviluppo economico verso la riduzione di diseguaglianze sociali. Un

esempio molto studiato a riguardo è il ruolo che il Fraunhofer-Gesellschaft ha avuto in Germania per lo

sviluppo delle piccole e medie imprese e per la riduzione delle differenze regionali nello sviluppo

economico (Jewell 2017, Wessner 2013).

Il GSSI sta considerando due criteri generali per indirizzare l’utilizzo della sua futura proprietà

intellettuale. Il primo criterio è dare preferenza quanto più possibile a partnership di ricerca con piccole

imprese locali, che potranno essere considerate anche come soggetti preferenziali per l’IP licensing nel caso

superino livelli minimi di affidabilità. Questo criterio ha lo scopo di indirizzare i benefici della ricerca

pubblica verso l’aumento della competizione (supportando piccoli attori che altrimenti avrebbero

difficoltà a competere con grandi monopolisti) e verso lo sviluppo dell’economia in un’area disagiata. Il

secondo criterio è privilegiare partnership con aziende che perseguono obiettivi di impatto sociale in

aggiunta al puro profitto. In pratica il GSSI si sta dotando di criteri di valutazione simili a quelli dell’Impact

Investing per allocare licenze di proprietà intellettuale anziché risorse finanziarie. In quest’ottica il GSSI

potrebbe anche richiedere un sistema di rendicontazione con una “triple bottom line” nel caso di spin-

off che nascano dalla propria ricerca (Savitz and Weber 2006).

D) Monitoraggio dell’impatto sociale

Le responsabilità di un’istituzione di ricerca verso le tecnologie da esso sviluppate non si

esauriscono con la commercializzazione. Molte legislazioni, ad esempio, richiedono che farmaci e

dispositivi medici siano in un regime di “post-market surveillance” da parte delle industrie farmaceutiche.

Similmente, un Istituto di ricerca che si prefigge di produrre un impatto sociale dovrebbe continuare a

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monitorare ed analizzare i risultati che le proprie tecnologie producono sulla società. La prima parte di

questa responsabilità comporta la raccolta di dati sugli indicatori di impatto sociale individuati durante il

processo iniziale di due diligence. L’analisi di questi indicatori, con i nuovi dati raccolti, può aiutare a

chiarificare l’effettivo impatto sociale di una tecnologia. Nel caso l’effettivo impatto sociale si discosti da

quanto previsto inizialmente, quest’analisi permetterebbe inoltre di raffinare ulteriormente i modelli usati

nella due diligence. In questo modo, la valutazione di impatto sociale della ricerca può operare in maniera

circolare producendo un miglioramento continuo nella capacità di anticipare gli effetti sociali della ricerca

e delle nuove tecnologie.

Problemi inaspettati e “unintended consequences” possono emergere nonostante scrupolose

valutazioni iniziali. Per esempio, numerosi test erano stati compiuti prima del 1990 per assicurare che le

cinture di sicurezza potessero funzionare con tutti i vari tipi di corporatura umana. Ciononostante, dopo

la commercializzazione di massa di questa tecnologia si scoprì che le cinture potevano causare dei danni

in alcuni casi particolari. L’analisi accurata di questi incidenti permise di modificare la tecnologia iniziale

rendendola più sicura (Wetmore 2008). Monitorare l’impatto sociale di una tecnologia commercializzata

può dunque suggerire soluzioni per mitigarne gli eventuali impatti negativi.

E) Partecipazione Pubblica

Tecnici e scienziati hanno il privilegio di conoscere in dettaglio e prima della maggioranza dei normali

cittadini quali sono i più recenti sviluppi tecnologici. Questo privilegio comporta anche la responsabilità

di stabilire un confronto democratico, aperto ed inclusivo, con i cittadini sugli orizzonti futuri

dell’innovazione tecnologica. Se questo processo partecipativo manca e le decisioni strategiche sono

lasciate solo agli esperti c’è un rischio concreto di creare sbilanciamenti nel potere decisionale e persino

di degradare il funzionamento della democrazia (Ellul 1992, Wartofsky 1992).

L’EPTA ha codificato una serie di metodi partecipativi per il TA e per i processi decisionali legati

all’utilizzo di nuove tecnologie (come “focus groups”, “scenario workshops”, conferenze, etc.) che

possono fornire un valido punto di partenza nello stabilire un’adeguata partecipazione pubblica (Klüver

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et al. 2000). Un esempio positivo di partecipazione democratica è quanto avvenuto negli anni 80 e 90 del

secolo scorso, quando la comunità omosessuale negli Stati Uniti è stata coinvolta attivamente in decisioni

sull’allocazione di fondi per la ricerca sull’AIDS (Epstein 2000).

5. Conclusioni

Nel secolo scorso i picchi di disuguaglianza economica raggiunti nei “ruggenti” anni 20 sfociarono

nella grande depressione e nell’istaurazione di regimi totalitari in molti paesi industrializzati. Oggi c’è il

timore che l’aumento delle diseguaglianze in atto possa mettere in pericolo la stabilità stessa dei sistemi

democratici. Guardando avanti, il Gran Sasso Science Institute intende incorporare nella propria missione

scientifica una dimensione di impatto sociale e riduzione delle diseguaglianze, grazie a iniziative

strategiche che governino la ricerca e la commercializzazione delle tecnologie sviluppate. Da un lato ci

ispiriamo ad una prospettiva di Open Science, stabilendo processi partecipativi che valutino l’impatto sociale

e indirizzino le applicazioni della produzione scientifica, rendendo i nostri risultati veramente fruibili al

pubblico più vasto. Dall’altro lato intendiamo impegnarci come Istituzione nella realizzazione a L’Aquila

di una prima “cellula” di un Fraunhofer-Gesellschaft italiano. Dalla collaborazione con l’Infn e con importanti

aziende del territorio, quali Thales Alenia Space ed L-Foundry, per la realizzazione di apparati per le

ricerche in fisica astroparticellare, è nato il progetto di dare vita all’Aquila ad un hub per la creazione e la

commercializzazione di tecnologie applicate che aiuti piccole aziende locali a sviluppare l’innovazione

necessaria a competere nell’economia globalizzata e promuova modelli di impresa che affianchino un

positivo impatto sociale al puro profitto. Si tratta di una sfida impegnativa e piena di incertezze, ma è una

sfida che può arricchire di un senso ancora più profondo la nostra attività di scienziati.

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Pubblica amministrazione e giovani – Il sottodimensionamento della Pubblica

Amministrazione rallenta– quando non inficia – qualsiasi progetto nazionale o locale – Nel

mondo sviluppato, il maggior datore di lavoro per i giovani laureati è la PA.

Questo nota riassume quanto elaborato a partire dal 2015 da un gruppo di professori e ricercatori diEconomia e Sociologia di varie Università, alcuni dei quali nel frattempo andati in pensione opassati ad altre mansioni, e cioè Maria Luisa Bianco, Giovanna Garrone e Guido Ortonadell'Università del Piemonte Orientale, Angela Ambrosino, Daniele Ciravegna, Bruno Contini,Nicola Negri, Francesco Scacciati, Pietro Terna e Teodoro Togati dell'Università di Torino, e FlavioCeravolo dell'Università di Pavia.

1. In Italia il numero di addetti alla pubblica amministrazione nel suo complesso è

anormalmente basso rispetto ai paesi sviluppati con cui dobbiamo confrontarci (dati OCDErelativi al 2015, personale militare escluso):

paese occupati

nella PA

(migliaia)

occupati

nella PA

per 1000 ab.Italia 3.055 48.9Francia 5.530 83.2Germania 4.262 52.5UK 5.076 78.0Svezia 1.383 141.1USA 22.771 70.9Spagna 2.805 60.5Grecia 650 56.5

2. Questo dato potrebbe essere influenzato dal diverso grado di esternalizzazione di alcune

mansioni (in Germania, per esempio, il personale sanitario ha un contratto di tipo privatistico), manon è così, come vediamo dalla tabella che segue (di fonte BIT e ONU, 2015), che si riferisce agliaddetti totali, pubblici e privati, impiegati nei settori dei servizi pubblici (fornitura di gas, elettricitàe acqua, fognature e nettezza urbana, pubblica amministrazione e personale civile della difesa,istruzione, sanità e pubblica assistenza):

paese occupati

nella produzione

di servizi pubblici

(migliaia)

occupati

nella produzione

di servizi pubblici

per 1000 ab.Italia 4.950 81.0Francia 8.664 133.3Germania 11.070 134.0UK 9.674 151.5Svezia 1.652 170.3USA 58.507 179.9Spagna 4.172 88.4Grecia 870 78.2

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Il dato per gli USA si riferisce a un aggregato leggermente diverso, dato che ovviamente gli USAnon seguono la metodologia standardizzata EUROSTAT; ma è evidente come esso smentisca l'ideache le economie che crescono di più sono quelle in cui il ruolo dello Stato è più piccolo.

3. I paesi che hanno un tasso di disoccupazione più basso del nostro devono questo risultato a

una maggiore occupazione nella produzione di servizi pubblici, come risulta dalla tabella chesegue (dati come da tabelle precedenti ed EUROSTAT):

Paese Tasso disoccupazione(2017)

Tasso di disoccupazione (2017)che si avrebbe se il numero di addettialla produzione di servizi pubbliciper 1000 abitanti fosse lo stessodell'Italia

Italia 11.7% 11.7%Francia 10.1% 21.8%Germania 4.1% 14.6%Regno Unito 4.8% 18.5%

4. L'ultima tabelle ci dice che è illusorio pensare di ottenere un livello accettabile di

occupazione senza espandere la produzione di servizi pubblici (e quindi l'occupazione pubblicae/o la spesa ad essi destinati). Ottenere il tasso di disoccupazione della Germania o del RegnoUnito operando solo sugli altri settori (servizi privati, servizi finanziari, agricoltura e industria)richiederebbe una loro espansione fino a far loro raggiungere un peso molto superiore a quello diquei paesi.

5. Va inoltre considerato che uno sviluppo adeguato del settore pubblico è una condizione

necessaria per un buon funzionamento del settore privato, e i dati citati suggeriscono come inItalia questo sviluppo non sia adeguato. Fra il 2006 e il 2016 le economia di Francia, Spagna,Germania e Regno Unito (misurate dall'andamento del PIL pro capite a prezzi costanti e tenendoconto del potere di acquisto) sono cresciute; quella dell'Italia si è contratta del 5.8%. È difficilepensare che la crescita anomala e il peso anormalmente basso della produzione di servizi pubblicidel nostro paese non siano collegati fra di loro, anche se ovviamente la nostra decrescita ha avutoanche altre cause. Vedere l’Appendice II per informazioni specifiche per Sanità e Università.

6. L'anomalia della Pubblica Amministrazione italiana è alla base di un apparente paradosso

molto preoccupante, e cioè il fatto che l'Italia è fra i paesi OCDE ai primissimi posti perpercentuale di laureati disoccupati, nonostante sia all'ultimo posto per percentuale di laureati sullapopolazione. Questo dato si spiega appunto con l'atrofia della pubblica amministrazione, che in unpaese sviluppato è uno dei principali datori di lavoro per i laureati, molto probabilmente ilprincipale. Senza un'espansione del settore pubblico le uniche soluzioni del paradosso, entrambeassai poco auspicabili, sono un'ulteriore riduzione del numero di laureati o un ulteriore aumentodella loro emigrazione.

7. La conclusione fin qui è che è necessario un piano straordinario di espansione

dell'occupazione nella produzione di servizi pubblici. Stabilita questa necessità si pongonosubito tre domande, e cioè le dimensioni dell'intervento, come realizzarlo, e come finanziarlo. Suquesti punti riassumiamo qui sotto, molto brevemente, i suggerimenti frutto della nostraelaborazione.

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8. Il numero di persone da assumere dipenderà dalle esigenze effettive, dalla retribuzione daassegnare ai nuovi assunti e dalle risorse disponibili. La nostra valutazione è che dovrebbe -epotrebbe- essere assunto circa un milione di nuovi addetti, anche in più tranches ma in aggiuntarispetto a quanti andranno assunti per mantenere il livello occupazionale attuale.

9. Dove e come assumere? È essenziale che le assunzioni vengano fatte là dove esse effettivamenteservono; il nostro suggerimento è che vengano assegnate sulla base di progetti presentati dai diversienti ed uffici, e valutati tecnicamente e in concorrenza fra loro sulla base di criteri comel'attivazione economica che possono produrre, la sostituzione delle importazioni o l'aumento delleesportazioni (compreso il turismo) che consentono, la disponibilità di personale disoccupatoqualificabile on the job, e altri.

10. Finanziamento della proposta. L'Italia dispone di un bacino di risorse inutilizzate di enormeampiezza, e cioè la ricchezza finanziaria dei suoi cittadini. Quella legale e censita ammonta a circa4400 miliardi; l'assunzione di un milione (circa) di persone potrebbe quindi essere consentita daun'imposta su di essa con un'aliquota media (ma sarebbe preferibile fissare una quota esentesignificativa e aliquote progressive) dell'ordine (circa) dello 0.5 per cento, pari a circa 22 miliardi(si veda l'Appendice III). Molta letteratura, e un'indagine sul campo svolta dal nostro gruppo1,suggeriscono che questa imposta sarebbe probabilmente ritenuta accettabile se presentata,correttamente, come necessaria per affrontare il problema, universalmente sentito, delladisoccupazione giovanile. Una variante potrebbe essere di offrire la possibilità di rifiutare, sudomanda, il pagamento dell'imposta, ma anche di accettare, su domanda, un'aliquota superiore. Laletteratura teorica suggerisce che l'effetto della seconda clausola potrebbe superare quella dellaprima, e gli effetti in termini di consenso sarebbero notevoli. Questo comunque andrebbe valutatocon indagini ad hoc. Si noti che la dimensione contenuta dell’imposta ne consente la copertura daparte del contribuente attingendo alla riserva di liquidità normalmente detenuta.

11. L'imposta sulla ricchezza finanziaria avrebbe costi di esazioni praticamente nulli perl'amministrazione, e completamente nulli per il contribuente; e sappiamo che i costi di esazionesono una componente molto importante del malcontento verso il pagamento di tributi. Latrasformazione di ricchezza in reddito avrebbe inoltre un effetto positivo sulla domanda interna (ilche consentirebbe probabilmente la sua abolizione dopo 3-5 anni, grazie agli effetti moltiplicativi eal conseguente aumento delle entrate ordinarie, come indicato nell’Appendice I), e ridurrebbe ipso

facto il rapporto debito/pil.

12. A differenza di quanto ai punti 8 e 9, la proposta contenuta nei punti 10 e 11 non è

essenziale alla realizzazione del progetto; nel senso che anche altri sistemi di finanziamento delprogetto sono possibili se ritenuti preferibili. Noi proponiamo una modesta imposta sui patrimonifinanziari perché ci sembra il sistema più praticabile e meno costoso.

13. Come procedere. Riteniamo che l'Amministrazione dovrebbe "istruire la pratica" di quantosopra, elaborare cioè un piano di fattibilità del progetto qui suggerito, o di sue varianti. I costi pereffettuare ciò sono presumibilmente molto bassi, e i vantaggi possono essere molto significativi.

1� Il rapporto è scaricabile dal sito http://polis.unipmn.it/index.php?autore=Bianco.Maria+Luisa&collana=13&cosa=ricerca%2Cpolis

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Appendice I – Ipotesi sugli effetti moltiplicativi dell’assunzione di nuovi dipendenti per un

costo totale pari a 22 miliardi di euro

Il moltiplicatore stimato dalla Banca d’Italia è compreso tra i valori 1,4 e 1,6. Per semplicitàpossiamo assumere il valore intermedio di 1,5*. Su una spesa iniziale di 292 miliardi avremmo un aumento del reddito di 43,5 miliardi (pari al2,38% del PIL), con un aumento del gettito fiscale e parafiscale di 18,5 miliardi. Se queste maggiorientrate andassero a ridurre il debito pubblico, il rapporto debito/PIL** si gioverebbe siadell’aumento del denominatore sia di una riduzione del numeratore***. Se invece la partestrettamente fiscale (10,17 miliardi, provenienti da IRPF e IVA****) di queste maggiori entrateandasse a finanziare nuove opere pubbliche, l’aumento del PIL dovrebbe essere maggiorato deglieffetti moltiplicativi (15,25 miliardi) anche di questa ulteriore spesa, per un totale di 58,75 miliardi(pari al 3,2% del PIL). Se il piano di assunzione dovesse essere realizzato in più anni, sia la spesa iniziale sia l’aumentodel reddito sarebbero divisi proporzionalmente per il numero di anni. Se questi fossero – peresempio – 4, avremmo una spesa annua di €7,25 miliardi e un aumento del reddito annuo di 10,87miliardi. Essendo quello del moltiplicatore un modello di breve periodo, va considerato costante lo stock dicapitale e dobbiamo dunque limitare il calcolo degli effetti del provvedimento a quelli sopraelencati. Passando invece dal breve al medio periodo, come sarebbe corretto, dato che si parla dieffetti su più anni, è probabile che, calcolando gli effetti di attivazione del moltiplicatore(moltiplicatore + acceleratore) sugli investimenti privati, avremmo aumenti di reddito ben maggiori.Difficili però da quantificare, poiché occorrerebbe fare delle ipotesi sui coefficienti di adeguamentodello stock di capitale da parte degli imprenditori, determinati sia dalle loro aspettative sia dallacompetitività del made in Italy. Qualora questi effetti congiunti arrivassero a far crescere il PIL di 68,3 miliardi di euro (+3,73%),tale aumento produrrebbe a sua volta un aumento del gettito fiscale pari a 29 milioni, e dunque ilprovvedimento da quel momento in poi pagherebbe da sé il costo dei nuovi assunti.

*Dati ISTAT: III trimestre 2018, Data di pubblicazione: 07 gennaio 2019 PIL 2018 = 1.830 miliardi Propensione al risparmio delle famiglie = 0,83 Import 2018 = 425 miliardi Propensione nazionale all’importazione = pmm = m = 0,232 Propensione al consumo delle famiglie = pmc = c = 0,917 Pressione fiscale (imposte, tasse, tributi e contributi previdenziali sul Pil) = 42,5%, dunque

T/Y = t = 0,425

** 2.317 miliardi /1830 miliardi = 1,266

*** Ceteris paribus: 2.316,83/1.873,5 = 1,237 con una riduzione del 2,3%

**** L’Irpef e l’Iva hanno fornito, nel 2017, un gettito di 278,44 miliardi di euro, pari al 55,4% deltotale.

2� In questa appendice utilizziamo l'aliquota fiscale media; occorre quindi considerare la retribuzione lorda dei nuovi assunti (€29.000).

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Appendice II – Alcuni dati di dettaglio sull’occupazione nella Pubblica Amministrazione.

La lente di ingrandimento è posta sulla Sanità, fondamentale per il benessere; sull’Università,fondamentale per il futuro della società, con lo sviluppo qualitativo (capitale umano) e quantitativo(ricerca e innovazione).

Particolarmente significativa, soprattutto qualitativamente, la diminuzione dei dipendenti delServizio Sanitario Nazionale, di cui nel 2018 si è celebrata, con giusta enfasi, l’istituzione 40 anniprima.

In termini comparativi, la pubblicazione3 dell’OECD Health at a Glance: Europe 2018, mostra allaFigura 5.3 a p. 135 che la spesa (pubblica e privata) per la salute in Italia è al di sotto della mediaeuropea.

Il nostro sistema sanitario, in cui la componente di spesa pubblica è così importante, riesce adassicurare risultati eccellenti nonostante il calo di occupazione e quindi di spesa qualificata.Intervistando gli operatori sul territorio, la carenza di personale risulta drammatica.

La carenza di personale in alcune Regioni, anche particolarmente grandi, come Campania, Lazio,Puglia e Sicilia, è molto più che evidente.

Considerando la dinamica nel tempo, dal 2001 i medici sono rimasti quasi costanti (leggeradiminuzione da 112.500 a 110.500) mentre il restante personale è diminuito del 6,5% (da 575.800 a538.00). Ora però si sta per affrontare l’emergenza dei 6/7000 pensionamenti per anno dei mediciper molti anni4. Ciò deriva dall’eccezionale addensamento di medici nati tra il 1950 e il 1960 fruttodelle assunzioni dei primi dieci anni di vita del SSN (dal dicembre 1978).Gli effetti sulla carenza di medici nel SSN sono ben evidenti e pongono anche problemi per leScuole di medicina.

Anche particolarmente significativa, soprattutto qualitativamente, la diminuzione dei dipendenti delSistema Universitario, personale docente e non docente: dai 120 mila circa del 2008 (ultimo anno incui si registrò un incremento) ai 97 mila circa nel 2016.

Ciò è molto grave perché si riduce la capacità di incrementare il capitale sociale della nazione;capitale che si fonda in gran parte sulla conoscenza. Allo stesso modo si riduce la capacità di farericerca, fondamentale di fronte al cambiamento sociale e tecnologico in accelerazione progressivain questi anni.

La gravità del dato è avvalorata da un confronto internazionale tratto dalla pubblicazione5

dell’OECD, Education at a Glance: Europe 2018. A p. 261, la Figura C2.2, è impietosanell’indicare la posizione dell’Italia: ci collochiamo al 26° posto tra i 29 paesi più progrediti inanalisi per la spesa dedicata alla formazione universitaria.

3� Online a http://www.oecd.org/health/health-at-a-glance-europe-23056088.htm 4� Fonte “LA PROGRAMMAZIONE DEL FABBISOGNO DI PERSONALE MEDICO, PROIEZIONI PER IL PERIODO 2018-2025: CURVE DI PENSIONAMENTO E FABBISOGNI SPECIALISTICI” delle Associazioni Medici Dirigenti ANAAO-ASSOMED, online https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato8665268.pdf 5� online a http://www.oecd.org/education/education-at-a-glance/

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Appendice III - Il finanziamento del piano di assunzioni

1. Assunzioni e dati di base. Assumiamo come stipendio quello di ingresso di un insegnante discuola media inferiore, cioè €21.000 lordi. L'Irpef è 5070, i contributi a carico del datore di lavoro8164, quindi il costo per lo stato è di€ 24.100 (stipendio lordo+contributi-irpef). Non consideriamo gli effetti di attivazione; ha però senso contare il rientro dovuto all'IVA.Assumiamo una propensione al consumo media arrotondata del 90%, che l'IVA media sia del 18%,e che l'evasione sia quella media (1/4). Quindi il gettito iva è 17.315*.9*.135 = 2104. Il costo per lostato è allora 24.100 - 2104 = €21.996 arrotondato a 22.000. La ricchezza finanziaria è 4406miliardi.

2. Calcolo dell'aliquota media. Abbiamo la seguente equazione per l'aliquota media (dove N è ilnumero di addetti):

(1) T = N*22.000/4.406.000.000.000

Tuttavia bisogna aggiungere il mancato introito dell'imposta di bollo (2 per mille), quindi il costodiventa N*22.000*1.002, cioè N*22.044, da cui

(2) T =N*22.044/4.406.000.000.000

per avere N = 1.000.000 occorre allora un'aliquota media del 5 per mille (più esattamente, 5,003).

3. Distribuzione della ricchezza, 1. Gli ultimi dati BdI sulla distribuzione della ricchezza risalgono-stranamente- al 2010. Riguardano la ricchezza totale; assumo inevitabilmente che quellafinanziaria abbia la stessa distribuzione. (Nel 2018 sono comparsi i dati BdI, relativi al 2016, sulladistribuzione per decili della ricchezza netta con esclusione dei fondi assicurativi; abbiamo ritenutoche il vantaggio in termini temporali di usare questa proxy fosse più che annullato dalla ambiguitàdell'aggregato relativamente ai nostri fini - vedi par.6). La tabella 1 (Credit Suisse Global Wealth Databook 2018, basato su dati BdI e riferita al 2010)riporta la ricchezza (in %) per decili della popolazione. I dati si riferiscono alle famiglie (erano25.494.000 nel 2017, stimiamo siano 26.000.000 nel 2018, quindi 2.600.000 per decile). Terza riga,

miliardi di euro; quarta, euro.

Tabella 1

decili→ricchezza↓

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

quota di ricchezzadel decile

-0,1 0,2 0,9 3,1 5,3 7,1 9,1 11,8 16,9 45,7

ricchezza finanziaria del decile

-4,4 8,8 39,6 136,6 235,5 312,8 400,9 519,9 744,6 2013,5

ricchezza finanziaria media del decile

-1692 3385 15231 52538 90577 120.308 154.192 199.961 286.384 774.423

4. Distribuzione della ricchezza,2. La stessa fonte della tabella 1 presenta anche dei dati sulladistribuzione della ricchezza totale per adulto, riferita al 2018 (tabella 2). Considerare come unità

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gli adulti crea dei problemi (per es., con una quota esente di €90.000 un adulto che abbia unaricchezza di 90.000 non pagherebbe niente, ma lo stesso varrebbe per una famiglia di 2 adulti conuna ricchezza di €180.000. Una famiglia con un adulto e un minore e una ricchezza di €180.000,presumibilmente in condizioni peggiori della precedente, pagherebbe invece l'imposta su €90.000).I dati sono quindi stati riportati alle famiglie. Ciò ha richiesto un'altra assunzione forte, vale a direche l'ampiezza media della famiglia sia la stessa per tutti i decili6.

Tabella 2

decili→ricchezza↓

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

quota di ricchezzadel decile

0,4 0,8 1,5 2,1 3,1 4,5 6,6 9,1 15,8 56,1

ricchezza finanziaria del decile

1,6 35,2 66,1 92,5 136,6 198,3 290,8 400,9 696,1 2471,8

ricchezza finanziaria media del decile(adulti)

4139 8277 15543 21751 32121 46629 68380 94270 163.684 581.231

idem (famiglia) 6769 13538 25423 35577 52538 76269 111.846 154.192 267.731 950.692

5. Aliquota e quota esente. Fortunatamente le elaborazioni condotte sulla tabella 1 e quellecondotte sulla tabella 2 danno esiti simili. Con i dati della tabella 1, ponendo una quota esente di 90000 (e escludendo il 5° decile) abbiamoche gli imponibili totali sono (in miliardi):

6° decile 78,77° decile 166,88° decile 285,89° decile 510,510° decile 1779,4

I 22 miliardi necessari per assumere 1.000.000 di persone potrebbero essere ottenuti con una quotaesente di €90.000 per famiglia e un'aliquota unica dello 0.78%. (Per fare un esempio: chi avesse€100.000 di ricchezza pagherebbe €78). Con i dati della tabella 2 (ultima riga), se poniamo di nuovo la soglia di esenzione a 90.000abbiamo i seguenti imponibili totali (in miliardi)

7° decile 56,80 8° decile 166,909° decile 462,1010° decile 2237,80

e i 22 miliardi necessari implicano un'aliquota media dello 0,75%, molto simile alla precedente.Una persona con una ricchezza di €100.000 pagherebbe €75.

6. Note. Abbiamo scelto una quota esente di €90.000 per comodità di calcolo (si escludono i primi 5decili nella tabella 1). Ovviamente sono possibili infiniti altri scenari in funzione delle aliquote (e

6� Esistono però dati che consentono, in elaborazioni più accurate e qui non necessarie, di correggere almeno in parte questa assunzione.

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dei relativi scaglioni), del costo unitario, del numero di assunti e della quota esente. I dati presentatisono ancora generici (per es. non si sono considerate le esenzioni e le maggiorazioni irpef, ledifferenze di ampiezza famigliare, i costi connessi all'attivazione di un posto di lavoro7, ecc.).Tuttavia i microdati necessari per un calcolo più preciso sono nella disponibilità del governo,casomai la politica venisse implementata; date le assunzioni che è stato inevitabile fare non misembra necessario elaborare ulteriori scenari. Comunque il costo di assumere per esempio 800.000addetti anziché 1 milione implica un'aliquota pari a 4/5 di quella precedente (6,24 per mille con idati della tabella 1), e così via. Analogamente, un costo unitario maggiorato (per es.) del 3% (peresempio per includere le spese connesse al posto di lavoro) implica che l'aliquota cresca del 3%,passando (tabella 1) all'8,03 per mille. Dal nostro punto di vista le elaborazioni precedenti sono molto conservative, per tre motivi:a) la ricchezza finanziaria è più concentrata di quella totale, su cui sono basate le elaborazioni; b) la concentrazione della ricchezza finanziaria è probabilmente cresciuta durante il decennio dellacrisi8;d) esiste una relazione diretta fra ampiezza delle famiglie e povertà, e quindi arguably le famigliepiù ricche sono anche meno numerose. Ne segue che il rapporto (per esempio) fra decimo e secondodecile aumenta se si considerano gli individui anziché le famiglie. e) anche se destinata ad amministrazioni separate, una parte dei contributi obbligatori a carico deldatore di lavoro può essere considerata una riduzione di costo, in quanto l'assunzione di unlavoratore aggiuntivo comporta un costo marginale per gli erogatori dei servizi relativi nullo ocomunque più basso del contributo versato a seguito della sua assunzione: è il caso per esempio deicontributi INAIL. Sono quindi probabilmente plausibili un innalzamento della quota esente e/o una riduzione dellealiquote. Ne segue che a dispetto della rozzezza delle elaborazioni possiamo considerare le aliquoteproposte come aliquote massime con una certa fiducia. Le aliquote considerate sono inferiori al rendimento medio obbligazionario (1%, e quindi a

fortiori di quello azionario); lo stock di ricchezza (in media) molto probabilmente non sarebbeconsumato, dato che la perdita riguarderebbe solo i depositi non fruttiferi e i titoli di stato a breve,che hanno un peso limitato nei portafogli dei decili interessati. Naturalmente i dati sono esposti allafluttuazione dei valori di mercato, il che rende tutte le considerazioni precedenti provvisorie; maquesto vale per qualsiasi previsione di politica economica.

7. Problemi. Da 1/5 a 1/4 della ricchezza finanziaria è costituito da strumenti assicurativi, di fattodifficilmente smobilitabili, anche se più facilmente della ricchezza immobiliare. Tuttavia ilproblema dovrebbe essere molto ridimensionato dalla quota esente. Chi abbia per es. 100.000 difondi assicurativi è molto difficile che non disponga della liquidità sufficiente a pagare €78 in unanno. Un altro problema è costituito dall'inflazione. Questa svaluta la ricchezza finanziaria (soprattuttodelle fasce più deboli, dato che di solito ceteris paribus i titoli azionari non si svalutano); d'altraparte l'inflazione abbassa il rapporto debito/pil e dà quindi più spazio fiscale (senza contare il fiscal

drag). Comunque, un'inflazione bassa avrebbe effetti solo marginali: se fosse dell'1%, lo stock diricchezza si svalutasse interamente, e il costo unitario fosse indicizzato a 22.264, 1 milione diaddetti implicherebbero un'aliquota media del 5,1%0 (sulla base della tabella 1) anziché del 5%0.D'altra parte, in realtà la ricchezza finanziaria delle famiglie sembra piuttosto crescere che noncalare in funzione dell'inflazione.

7� Si tratta ovviamente di costi marginali, in molti casi possono essere considerati nulli.8� "Non si arresta l'aumento delle ricchezze delle famiglie italiane servite dalle private banks. In base all'edizione 2018 dell'indagine di Magstat Consulting sul private banking in Italia i patrimoni (assets finanziari totali) detenuti dagli operatori specializzati sulle gestioni per i Paperoni sono cresciuti da 869,5 miliardi di euro di fine 2016 a 912,5 miliardi di fine 2017, con un incremento di 43 miliardi di euro, pari allo 4,9%. Negli ultimi cinque anni l’aumento è stato pari a 263,9 miliardi: da 648,6 miliardi di fine 2012 a 912,5 miliardi di fine 2017". (Milano Finanza, 17 luglio 2018).

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Naturalmente livelli elevati di inflazione (soprattutto se accompagnati da recessione)manderebbero l'intero sistema a pallino, così come un crollo del valore dello stock di ricchezza, eallora diventerebbero plausibili e necessari interventi di emergenza ben più drastici: non ha sensoquindi occuparsene qui.

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Un nuovo trattato delle Nazioni Unite su Ricerca e Sviluppo nel settore

farmaceutico

Nerina Boschiero

Università degli Studi di Milano

L’Italia dovrebbe/potrebbe farsi promotrice di una importante iniziativa

in ambito ONU: la negoziazione di un nuovo accordo internazionale

relativo a Ricerca e Sviluppo su Salute pubblica e Ricerca e Sviluppo in

ambito bio-medico.1

Perché un nuovo trattato internazionale?

L’accesso alle medicine e ai farmaci essenziali rappresenta un diritto

umano fondamentale ed è parte integrante del diritto di ogni essere

umano a godere del più alto standard possibile di salute fisica e mentale

riconosciuto dal diritto internazionale. 2 Direttamente collegati

all’accesso ai farmaci, in particolare quelli essenziali, sono i temi

dell’innovazione e dei meccanismi più idonei ad assicurare il

finanziamento della ricerca e dello sviluppo di nuovi farmaci che

vengano incontro ai bisogni fondamentali della popolazione.

L’attuale sistema non è adeguato nella misura in cui non garantisce

risorse sufficienti per la ricerca e lo sviluppo di medicine in grado di

1 Si tratta di un progetto da tempo al centro dell’interesse internazionale: si vedano i

resoconti del CIPIH Report, del WHO Global Strategy and Plan of Action (GSPOA), le

proposte intergovernative rese al WHO Intergovernmental Working Group on Public

Health, Innovation and Intellectual Property (May 24, 2008), nonchè inanzi al precedente

organismo del WHO Expert Working Group on Research and Development Financing

(EWG).

2� Cfr. la Convenzione ONU sui diritti economici, sociali e culturali del 1966; la

Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità; il General Comment 14 su The

right to the highest attainable standard of health (E/C.12/2000/4), le Risoluzioni

dell’Human Rights Commission/Council, in particolare la risoluzione 2001/21, ed infine la

Dichiarazione di Doha su Trips e Public Health (the Doha Declaration).

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curare malattie che colpiscono principalmente persone prive di risorse

finanziarie sia nei paesi sottosviluppati che in quelli sviluppati. Anche

laddove le medicine sono disponibili, il loro prezzo spesso proibitivo,

sommato a varie altre carenze nei sistemi sanitari dei vari paesi, le rende

inaccessibili a larghi strati della popolazione. Inoltre, le numerose

iniziative ad hoc che sono state implementate nel corso degli ultimi

decenni per porre rimedio a questi problemi, sono decisamente limitate

nello scopo, riguardando solo alcune specifiche malattie e potendo

beneficiare di un budget limitato, in larga parte assicurato da privati

donatori. Queste iniziative, pertanto, riguardano una porzione minima

degli investimenti globali in Ricerca e Sviluppo in ambito medico.

In aggiunta, l’attuale sistema di protezione dei diritti di proprietà

intellettuale, armonizzato dal sistema OMC (con la conclusione nel

1994 dell’accordo TRIPS sugli aspetti commerciali dei diritti di

proprietà intellettuale), presenta il grave inconveniente di una eccessiva

protezione della conoscenza e del sapere che impedisce una efficiente

condivisione dei risultati della ricerca, dei dati, dei materiali e delle

tecnologie innovative sviluppate.

Pur riconoscendo che i diritti di proprietà intellettuale rivestono una

posizione centrale nel corrente modello di business dell’industria

farmaceutica, è da tempo assodato che gli incentivi di mercato sono

insufficienti per rispondere alle priorità della salute pubblica, portando

sovente a posizioni dominanti di mercato, distorsione della concorrenza,

prezzi elevati e privatizzazione dei risultati della conoscenza di cui

invece dovrebbe poter beneficiare l’umanità intera.3

Occorre quindi ribaltare l’attuale prospettiva, proprietaria ed escludente,

per giungere a qualificare la conoscenza medica, la divulgazione dei

risultati raggiunti mediante la ricerca (inclusa la ricerca scientifica di

base) e lo sviluppo di nuove medicine, tecnologie mediche e

innovazioni terapeutiche, come beni pubblici globali. Al pari, infatti, di

tutti gli altri beni ritenuti rientranti in questa categoria, anche la

conoscenza medica può e deve essere condivisa, senza che ciò ne

diminuisca l’intrinseco valore (conoscenza dunque come bene “non-

excludable” e “non-rival in consumption”).

3 Commission on Intellectual Property Rights, Innovation and Public Health (CIPIH)

Report, 2006, pp. 91, 115.

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Per ottenere questo risultato, la comunità internazionale necessita di un

nuovo quadro giuridico internazionale che assicuri un adeguato (giusto

ed equo) finanziamento per la ricerca e lo sviluppo di nuove medicine,

vaccini, strumenti ed attrezzature mediche basati sulle esigenze e i

bisogni prioritari dei membri più vulnerabili delle nostre società; che

garantisca concretamente l’accesso ai pazienti a questi prodotti una

volta sviluppati; ed, infine, che stabilisca meccanismi efficienti di

condivisione del sapere e dei progressi scientifici raggiunti.4

Solo uno strumento giuridico internazionale vincolante (e non già

semplici guidelines da proporre alle imprese farmaceutiche),

liberamente contrattato dagli Stati, può garantire che gli Stati contraenti

si rendano “garanti” di investimenti pubblico/privati per provvedere ai

bisogni del mondo, sostenendo e finanziando lo sviluppo di vaccini e di

medicine essenziali per far fronte alle attuali emergenze sanitarie. Solo

norme “dure” possono imporre meccanismi per una giusta ed equa

contribuzione da parte di ognuno dei membri dei costi per la ricerca e lo

sviluppo di nuovi prodotti farmaceutici e al contempo garantire un

accesso globale ai risultati della ricerca. Politicamente negoziato tra gli

Stati, questo trattato dovrebbe contenere i principi fondamentali relativi

alla ricerca medica, delineare ruoli e responsabilità, metodi condivisi per

generare le risorse necessarie e norme che ripartiscano i costi e i

benefici dell’obbiettivo realmente universale consistente nel migliorare

la salute umana e far avanzare la ricerca medica.

Scopi ed obbiettivi del trattato

Questo nuovo accordo internazionale andrebbe negoziato sotto gli

auspici dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS/WHO),

agenzia specializzata delle Nazioni Unite per la salute creata nel 1948,

la cui costituzione prevede esattamente questa competenza. 5 Questa

4� World Health Organization (2008), GSPOA WHA Resolution 61.21 : «

The context » point 3.

5 WHO Constitution, Article 2(k): “In order to achieve its objective, the functions of the

Organization shall be:…(k) to propose conventions, agreements and regulations, and make

recommendations with respect to international health matters and to perform such duties as

may be assigned thereby to the Organization and are consistent with its objective;” ai sensi

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sede negoziale presenta molti vantaggi rispetto all’OMC: in sede OMC

vige infatti un sistema multilaterale di negoziazione ( Rounds) che si

basa sul consensus, dando inevitabilmente vita a processi negoziali

molto lunghi e in cui molto peso hanno i paesi maggiormente sviluppati

e i loro interessi specifici.

Per quanto concerne le aree prioritarie della nuova agenda globale su

Ricerca e Sviluppo, il punto di partenza potrebbe essere rappresentato

dei risultati già raggiunti in sede di lavori preparatori di un nuovo testo

convenzionale sul tema, da molto tempo all’attenzione della comunità

internazionale: si tratterebbe, in altre parole, di concentrare l’attenzione

su R&D per i tre principali tipi di malattie: quelle di I° tipo che

riguardano tanto i paesi ricchi che quelli poveri, dato il largo numero di

popolazione vulnerabile alle stesse; quelle di II° tipo che, pur

riguardando entrambi i paesi ricchi e poveri, affliggono in modo

sproporzionato i paesi poveri del mondo; quelle di III° tipo che

riguardano, per lo più o quasi esclusivamente, i paesi poveri del mondo.

Esempi di malattie del primo tipo sono il cancro; del secondo tipo la

Tubercolosi e l’AIDS; rientrano nel terzo tipo, a titolo di esempio, la

malaria e la leismaniosi.

Questo nuovo accordo, negoziato sotto gli auspici delle Nazioni Unite,

dovrebbe porsi come fine il miglioramento dell’attuale sistema degli

incentivi alla ricerca e sviluppo di medicine, innovazioni terapeutiche e

tecnologie mediche necessarie a soddisfare i bisogni dei portatori di

malattie comunicabili o non comunicabili del terzo mondo, dei poveri

del primo e del secondo mondo che non possono permettersi di

acquistare né medicine né cure mediche, oltre che dei portatori di

malattie rare che, proprio in quanto tali, non interessano il mercato.

Il nuovo testo dovrebbe inoltre prevedere la messa in opera di un

meccanismo “globale” di coordinamento e finanziamento della ricerca

per raggiungere obbiettivi di sostenibilità in ambito biomedico.

Gli Stati negoziatori dovrebbero fissare le priorità di ricerca e

investimento sulla base di studi scientifici condivisi sul c.d. global

“disaese burden”; prevedere strumenti alternativi agli attuali incentivi di

dell’Articolo 19 : “The Health Assembly shall have authority to adopt conventions or

agreements with respect to any matter within the competence of the Organization. A two-

thirds vote of the Health Assembly shall be required for the adoption of such conventions or

agreements, which shall come into force for each Member when accepted by it in

accordance with its constitutional processes.”)

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mercato, ossia lo strumento classico dei diritti di proprietà intellettuale

(IPRs); garantire trasparenza rispetto ai reali costi per la ricerca e lo

sviluppo delle nuove tecnologie e prodotti farmaceutici; disciplinare i

clinical trials (traendo ispirazione dalla più avanzata legislazione

europea e americana sul tema); prevedere meccanismi di data sharing e

open access dei risultati delle ricerche finanziate con fondi pubblici,

vietando la brevettazione di prodotti e tecnologie medicali sviluppate

con fondi pubblici, ad esempio da Università statali; promuovere in

generale l’accesso globale ai risultati delle ricerche, che devono essere

di per sé considerate quali beni pubblici, da rendere accessibili in public

domain (open access v. intellectual property); individuare criteri etici

per la stessa ricerca di base ed avanzata.

L’ambito di applicazione di questo nuovo accordo potrebbe essere

inizialmente limitato al tema della R&D nel settore farmaceutico, il più

sensibile per il mondo, e come tale di interesse comune.6 Ma non può

essere sottostimato il plus valore che un simile trattato, ove sottoscritto,

avrebbe nel contesto più generale: codificando, infatti, principi generali

e condivisi in materia di ricerca e sviluppo, esso potrebbe in futuro

esercitare una importante influenza su tutti i settori del sapere (per il

tramite del principio generale del diri tto internazionale

dell’interpretazione sistemica). Una influenza positiva di questo tipo è

già testimoniata dal successo globale della Convenzione Quadro sul

Controllo del Tabacco, adottata dall’Organizzazione Mondiale della

Sanità (OMS/WHO), recentemente considerata dallo stesso Organo

delle Soluzioni delle Controversie dell’Organizzazione mondiale del

commercio (OMC/WTO) come parametro internazionale sulla base del

quale vagliare le condotte degli Stati potenzialmente in violazione di

obblighi internazionali del commercio internazionale, in particolare per

quanto riguarda le restrizioni ai diritti di proprietà intellettuale (marchi,

brevetti) relativi a prodotti dannosi per la salute.

In estrema sintesi, il nuovo trattato dovrebbe includere i seguenti

elementi essenziali: 7

6� World Health Organization (2008), GSPOA WHA Resolution 61.21 : The Plan of

Action 2.3.C), 27.

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1. L’affermazione che il diritto fondamentale alla salute implica un

accesso equo e universale alle medicine essenziali

2. L’affermazione che la R& D in ambito biomedico deve essere

condotta al fine precipuo di soddisfare le priorità di salute pubblica

3. Meccanismi trasparenti ed inclusivi per stabilire le priorità in ambito

biomedico, che devono corrispondere ai reali bisogni delle

popolazioni e non già ad una agenda di R&D dettata dal potenziale

commerciale dei nuovi prodotti

4. Un corretta stima dei fondi necessari per raggiungere gli obbiettivi

prefissatisi

5. Meccanismi per coordinare la Ricerca e lo Sviluppo in ambito

biomedico ad opera dei vari attori, locali, regionali, internazionali

6. Individuazione, tramite norme precise, di meccanismi governativi di

finanziamento, regolare e sostenibile, per la R&D relativa a malattie

del I,II e III tipo, da erogare in funzione delle capacità di ogni

singolo Stato membro ( in termini di percentuale sul PIL nazionale) e

di contributi volontari, al fine precipuo di garantire a tutti l’accesso a

prodotti farmaceutici di qualità

7. Individuazione di incentivi per investimenti pubblico/privati nel

settore, basati sul meccanismo di “de-link” tra i costi per la ricerca e

lo sviluppo e il prezzo finale del prodotto. Il prezzo finale de,

prodotto dovrebbe essere calcolato sulla base della sua reale

accessibilità da parte di coloro che ne hanno bisogno

8. Il rafforzamento delle capacità di innovazione e ricerca dei paesi in

via di sviluppo, che consenta loro di rispondere prontamente ai

bisogni di salute pubblica della propria popolazione (anche in caso di

emergenze sanitarie)

9. La garanzia che i risultati delle R&D finanziati da questo nuovo

strumento internazionale vengano considerati beni pubblici e che

come tali restino nel public domain

10. Meccanismi trasparenti per monitorare i risultati delle R&D

finanziate tramite il nuovo strumento convenzionale

7� Cfr. le proposte del 15 aprile 2009 avanzate da Bangladesh, Barbados, Bolivia e Suriname

al WHO EWG, “Proposal for WHO discussion on a Biomedical R&D Treaty”, consultabili

online: http://www.who.int/phi/Bangladesh_Barbados_Bolivia_Suriname_R_DTreaty.pdf

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11. Standards condivisi di divulgazione dei risultati dei clinical trials,

resi pubblici ed accessibili a tutti gli stadi in pubblici registri

Bibliografia essenziale:

BRUNDTLAND, G. H. (1998) Fifty years of synergy between health and

human rights. Health and Human Rights: An International Journal, vol. 3, nº 2,

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R&D Plos Biol (Feb. 17, 2004), http://journals.plos.org/plosbiology/article?

id=10.1371/journal.pbio.0020052

World Health Organization (2003). Framework Convention on Tobacco

Control. adopted in Geneva on May 21, 2003, BOE, February 10, 2005.

World Health Organization (2008), GSPOA WHA Resolution 6121 :The Plan

of Action 2.3.C p. 27

World Health Organization (2008). Global strategy and plan of action on public

health, innovation and intellectual-property. WHA Resolution 61.21, May 24,

2008.

WHO Submission to the UN SG High Level Panel on Access to Medicines, 7

March 2016

An Essential Health and Biomedical R&D Treaty Submission by Health Action

International Global, Initiative for Health & Equity in Society, Knowledge

Ecology International, Médicines Sans Frontières, Third World Network (TWN)

22 June 2011, http://www.who.int/phi/news/phi_1_joint_submission_en.pdf.

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http://www.sciencespo.fr/psia/sites/sciencespo.fr.psia/files/RP42_Rethinking-

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Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 36

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Investimenti e infrastrutture sociali per una crescita inclusiva 1

Claudio Bruno, Cassa Depositi e Prestiti

Edoardo Reviglio, Cassa Depositi e Prestiti e LUISS Guido Carli

Il capitolo si focalizza sugli strumenti di finanziamento a lungo termine per le infrastrutture sociali.

Nel quadro di una riorganizzazione generale delle leve di finanza pubblica per le infrastrutture e in

ragione del rilancio degli investimenti per la crescita, vengono passate in rassegna alcune tra le

principali alternative di finanziamento pubblico e pubblico privato/istituzionale per il welfare, con

una particolare attenzione a nuove forme di partenariato. Il capitolo concentra la sua attenzione,

inoltre, sul ruolo degli investitori istituzionali e del settore pubblico all’interno di piani di

investimento a lungo termine per le infrastrutture sociali. Alla luce dell’analisi svolta, nella parte

finale vengono avanzate proposte di rilancio degli investimenti, pubblici e privati in Italia, a

sostegno dell’agenda sociale europea.

Il contributo si concentrerà, inoltre, su come eliminare i diversi “colli di bottiglia” italiani che

impediscono, oltre alla mancanza di risorse per il finanziamento, una ripresa consistente degli

investimenti in infrastrutture nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno. Verranno discusse le

complicazioni implicite nel nostro diritto amministrativo, la mancanza di competenze progettuali

ed esecutive necessarie per un vasto programma. Un approfondimento particolare verrà dedicato

al ruolo della CDP: per analizzare oltre a ciò che fa cos’altro potrebbe fare. Infine, si terrà conto

di eventuali importanti novità preannunciate dal Governo e dall’Europa sull’argomento.

1� I l presente articolo è in corso di pubblicazione nel prossimo Volume Arel - il Mulino "Produttività, crescita e

inclusione sociale" a cura di Paolo Guerrieri e Carlo Dell’Aringa.

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Introduzione

Viviamo tempi complessi e difficili da comprendere. La velocità della storia ha subito una

accelerazione improvvisa ed in questa sua accelerazione molti dei punti di riferimento geo-politici,

economici e perfino etici sembrano essere in discussione. Anche l’Europa ne risente. Malgrado sia

ancora una delle aree più stabili del pianeta e dove la qualità della vita (misurata da più indicatori)

sia la più alta al mondo, il suo futuro preoccupa. Se ci limitiamo al breve e medio periodo, dopo

dieci anni di bassa crescita e di recessione, l'Europa si sta finalmente riprendendo. Il contesto

politico è sotto pressione, ma si mantiene stabile, sebbene populismo ed euroscetticismo

rappresentino un rischio reale per il futuro dell'Unione.

È quindi il momento di fare scelte coraggiose. Uno dei fronti su cui investire, sia politicamente che

economicamente è quello Sociale, ed in particolare quella degli investimenti in infrastrutture sociali.

Durante la crisi, gli investimenti hanno raggiunto il minimo degli ultimi 20 anni. Ne hanno

particolarmente sofferto gli investimenti in infrastrutture che riguardano i servizi sociali, in settori

cruciali per il futuro benessere dei cittadini europei: salute, istruzione e edilizia sostenibile.

Le infrastrutture sociali sono importanti perché plasmano la natura della nostra società. Gli

investimenti di alta qualità su larga scala nelle infrastrutture sociali sono particolarmente importanti

per l’Europa, date le proiezioni demografiche, i radicali cambiamenti strutturali nel mercato del

lavoro e l'innovazione. La domanda, tuttavia, è come riuscire a trovare finanziamenti per colmare

questo enorme divario, in uno scenario di elevati debiti pubblici e prospettive di tassi di crescita

economica di medio e lungo periodo moderati. Questa sfida è il cuore dell'appello dell'ex Presidente

della Commissione europea Romano Prodi per un New Deal per l'Europa sociale, contenuto in un

recente Rapporto europeo, su cui hanno lavorato per un anno esperti di politiche sociali e di finanza

per le infrastrutture. 2

Dal Rapporto Prodi ne esce un quadro piuttosto allarmante per i prossimi decenni, soprattutto sul

fronte della demografia. L'Europa oggi ha già una delle più basse percentuali nel mondo di

popolazione attiva rispetto alla popolazione non attiva (bambini e pensionati). Nel 2060, un

2� Fransen L. del Bufalo G. and Reviglio E., (2018), Boosting Investment in Social Infrastructure in Europe, Report of the HLTF

Force on Investing in Social Infrastructure in Europe chaired by Romano Prodi and Christian Sautter, Discussion Paper, 074,January 2018. Alcune parti di questo contributo sono parzialmente riprese da Reviglio, E., (2018), Il finanziamento delle infrastrutture sociali in

Europa, in Rassegna Sindacale, 2, giugno-settembre, 2018; Bassanini, F. e Reviglio E., (2018), Le politiche per gli investimenti e le

infrastrutture, G. Amato, E. Moavero Milanese, G. Pasquino, L. Reichlin, (a cura di), Europa, Istituto dell’Enciclopedia ItalianaRoma 2018; e Reviglio E., (2018), Rilanciare le infrastrutture sociali in Europa. Qualche riflessione intorno al Rapporto Prodi, Attidel Convegno “Strutture produttive: tecnologia ed economia”, a cura di Marco Fortis. e Alberto Quadrio Curzio, promosso dallaFondazione Edison e dall’Accademia Nazionale dei Lincei, in corso di pubblicazione per i tipi del Il Mulino Bologna 2018.

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cittadino europeo su tre avrà più di 65 anni (di cui uno su tre avrà più di 80 anni), mentre solo il

57% della popolazione sarà in età lavorativa (da 15 a 64 anni). Questo invecchiamento della

popolazione avrà effetti di non facile gestione, sia per il bilancio pubblici, che per i cittadini e le

famiglie. Ne risentiranno, in particolare, il costo dell'assistenza sanitaria e dei sistemi pensionistici.

A tutto ciò vanno aggiunte le strutture per l’istruzione del domani: strutture prenatali, scolastiche e

universitarie. Continua, infine, a crescere la domanda di alloggi a prezzi accessibili per nuove

famiglie, studenti, giovani lavoratori e migranti.

Gli incentivi per la procreazione e le politiche mirate di immigrazione dovrebbero diventare parte

integrante della nuova agenda sociale ed economica europea. Se la demografia europea non tornerà

a crescere, il rischio di un progressivo declino della civiltà europea diventa drammaticamente reale.

La velocità della globalizzazione ci impone di agire rapidamente e di essere ambiziosi. La gran

parte delle infrastrutture sociali è sostenuta da denaro pubblico. Due terzi degli investimenti sono a

carico delle amministrazioni locali. Tuttavia, questo flusso di finanziamento è sempre più

penalizzato dal consolidamento fiscale. Nel passato, lo Stato, le regioni e le città prendevano in

prestito denaro per costruire ospedali, scuole ed edilizia popolare. Oggi, la leva finanziaria è

limitata dall'elevato livello del debito pubblico. Molte sono le raccomandazioni del Rapporto Prodi

rivolte all'Unione europea, alla Commissione, e agli Stati Membri, tra cui: potenziamento dell'uso

di prodotti finanziari innovativi, maggiore assistenza nello sviluppo di progetti a livello locale,

miglioramenti normativi, suggerimenti per il prossimo quadro finanziario pluriennale, proposte di

transizione alla c.d. “convergenza verso l'alto” all’interno della UE e un invito a istituire un fondo

europeo pubblico-privato di grandi dimensioni per le infrastrutture sociali.

Questo appello all'azione rappresenta il più grande piano di investimenti sociali mai intrapreso in

Europa. Non dobbiamo, tuttavia, aver paura di una tale iniziativa. In un momento di disaffezione e

sfiducia politica, uno piano ambizioso, ampio ed efficace invierà un messaggio forte ai cittadini

europei: le loro istituzioni e governi vogliono riportare le persone e la società al centro del Progetto

europeo.

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Le prospettive di medio e lungo periodo dell’Europa Sociale

Riforme dei sistemi sociali europei, in particolare sanità e cura degli anziani, istruzione e edilizia

sociale sono dunque i pilastri per affrontare le grandi trasformazioni sociali ed economiche che

attendono il futuro dell’Unione europea e del nostro Paese. La crescita dei debiti pubblici richiede

la ricerca di soluzioni nuove, che – senza indebolire lo Stato sociale – non mettano a repentaglio la

sostenibilità di lungo periodo delle finanze pubbliche e quindi delle generazioni future. Una

missione impossibile? No, ma certo una missione difficile, che richiede innovazione e interventi

tempestivi per evitare che populismi e euroscettici prendano il sopravvento.

Sul fronte delle infrastrutture economiche (trasporti, energia, TLC) molti progetti si possono

finanziare da sé tramite le tariffe. Il contributo pubblico può essere “modesto” pesando poco sulle

finanze pubbliche. Per le infrastrutture sociali ed ambientali, invece, vi è una maggiore necessità di

contributi pubblici diretti, nazionali o europei. Per finanziare le infrastrutture sociali, a costi

sopportabili per i contribuenti, occorre sviluppare nuovi modelli finanziari con la partecipazione del

risparmio istituzionale di lungo periodo e del risparmio diffuso. Asili nido, scuole ed università

innovative ed interconnesse, telemedicina, assistenza agli anziani, edilizia sociale, ambiente,

bonifiche del territorio, sono la base della coesione sociale dell’Unione.

Rilanciare e riformare l’Europa Sociale può e deve diventare un grande investimento a favore della

crescita e della produttività. Il welfare (c.d. “economia bianca”) è un settore che può creare molti

nuovi posti di lavoro, dare un forte contributo all’industria delle costruzioni, all’innovazione e alle

nuove tecnologie.

Nel Libro Bianco del Presidente della Commissione (UE, 2017), tra i 5 principali obiettivi per il suo

futuro, l’Europa Sociale viene messa al primo posto. È cruciale che non si tratti solo di parole, ma

che si traduca rapidamente in azioni concrete ed efficaci.

I nostri modelli sociali devono costantemente adattarsi ai cambiamenti.

(1) Nella salute avremo bisogno di più centri di prevenzione, diagnostica ed assistenza e meno

ospedali per le malattie croniche. Gli ospedali dovranno essere di assoluta avanguardia ma

più concentrati, mentre l’assistenza sanitaria dovrà essere più diffusa sul territorio e di più

facile accesso;

(2) La necessità di strutture che favoriscano l’occupazione delle donne, come asili nidi, centri

assistenza sociale e cura degli anziani.

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(3) Sul fronte dell’istruzione assistiamo a rapidi cambiamenti nella richiesta di nuove capacità e

professionalità. Il futuro sistema educativo dovrà essere in grado di preparare i nostri

giovani ad un mondo dove le innovazioni corrono molto rapidamente. Su questo fronte è in

gioco l’occupazione dei nostri giovani e la competitività delle nostre economie.

(4) Infine, la casa accessibile a tutti coloro che ne hanno bisogno e hanno redditi non sufficienti

per pagare affitti di mercato è una delle grandi sfide che l’Europa dovrà affrontare. Oltre che

riuscire a coprire una domanda drammaticamente più alta dell’offerta, le nuove soluzioni

abitative rappresentano anche l’occasione di creare e/o riqualificare complessi abitativi,

capaci di unire anziani, giovani famiglie e bambini, migranti in arrivo dalle più diverse aree

del mondo, con servizi sociali dedicati ed integrati all’interno delle nuove comunità. Su

questo fronte, vi sono progetti innovatovi in tutta Europa e le potenzialità sono la frontiera

delle nuove politiche per la casa. Non solo alloggi, quindi, ma servizi sociali integrati (centri

di cura, asili nido e scuole, assistenza sociale, attività sportive e socio-culturali).

Per realizzare tutto ciò avremo bisogno di molte più risorse pubbliche nazionali ed europee di quelle

che vengono investite ora. Il Rapporto Prodi ha stimato che nei tre settori su cui si è concentrato il

suo lavoro – sanità, istruzione e edilizia sostenibile - si spendono nella UE-27 c.a. 170 miliardi

all’anno. Il gap da coprire è pari a 100-150 miliardi di euro. Questo significa che dovremmo

investire 1.5 trilioni di euro aggiuntivi entro il 2030. Si tratta di una sfida formidabile, ma per nulla

impossibile. Spiace vedere che nel nuovo Piano europeo per gli investimenti (InvestEU) le risorse

per garanzie per investimenti nelle infrastrutture sociali nel periodo 2021-2027 sono passate da 2,2

a 4 miliardi di euro con i quali verrebbero finanziati 50 miliardi di infrastrutture aggiuntive.

Davvero poco considerate le stime dei bisogni. Ciò detto i Piani Juncker 1 e 2 hanno per il momento

investito solo il 4% nel sociale e si è trattato prevalentemente di sostegni alle PMI che operano nel

farmaceutico. InvestEU fa un importante passo in avanti riconoscendo la centralità degli

investimenti sociali e acquisendo una larga parte delle raccomandazioni contenute nel Rapporto

Prodi. La sfida nel breve periodo è quella di avviare molti progetti pilota di successo per dimostrare

che è possibile finanziare con nuove forme pubblico-private-istituzionali le infrastrutture sociali in

modo da poter chiedere con il tempo maggiori risorse al bilancio della UE.

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La caduta degli investimenti degli Enti Locali in Italia

A partire dal 2007, in tutta la Unione Europea si è registrato un drastico calo degli investimenti, sia

pubblici che privati. Il calo è stato particolarmente accentuato in Italia, dove dal 2007 ad oggi, la

spesa per investimenti fissi lordi in percentuale del PIL è calata di 4 punti percentuali passando dal

21,6% del PIL al 17,6% del PIL (Fig. 1).

Il crollo degli investimenti ha colpito in particolare le Amministrazioni Pubbliche, che hanno ridotto

la spesa in investimenti fissi lordi del 30%, dal 2,9% del PIL nel 2007 al 2% del 2017 (Fig. 2). La

riduzione ha coinvolti in larga parte le opere pubbliche finanziate dagli Enti Locali che è stata pari

al 50% nel periodo 2008-2017. 3 Considerando che gli Enti locali contribuiscono per c.a. il 2/3 di

tutti gli investimenti pubblici nazionali, emerge tutta la gravità del fenomeno. È così che, durante

gli anni della crisi, mentre il rapporto debito pubblico/Pil aumenta, quello locale diminuisce. Non è

per nulla una buona notizia se si considera che significa un vero e proprio “crollo” degli

investimenti pubblici, come non si era mai visto prima nella storia del nostro Paese (Fig. 3 e 4).

L’accensione di nuovi mutui per finanziare le infrastrutture da parte degli Enti Territoriali può

rappresentare una buona proxy dei nuovi investimenti avviati (Fig. 5 e 6). 4

Hanno contribuito a questo calo diversi fattori:

(1) Una larga parte del consolidamento fiscale di questi ultimi anni è stato realizzato grazie a

ingenti tagli ai trasferimenti agli EL (che, peraltro per compensare i tagli si sono visti

costretti ad incrementare le entrate fiscali proprie). Osservando i grafici sul debito pubblico

della PA e di quello delle Amministrazioni locali, è possibile riscontrare come di fatto il

paese abbia scaricato gran parte dell’aggiustamento sugli Enti locali. Ciò è avvenuto, in gran

parte, poiché essi rappresentano una “constituency” più debole di altre, come, ad esempio,

pensioni, sanità, pubblico impiego, sostegno alla disoccupazione, ed altro ancora.

(2) Agli effetti della nuova legge sul pareggio di bilancio costituzionale (L. 243/2012) che

hanno fortemente penalizzato gli investimenti locali (fonte: Ufficio Parlamentare di

Bilancio, 2017).

3�Partenariato Pubblico Privato: nuovi investimenti e controllo della finanza pubblica. Intervento del Ministro dell’Economia e delleFinanze Prof. Giovanni Tria, Roma 8 luglio 2018, p. 2.

4� Circa il 95% degli investimenti in opera pubbliche degli EL è finanziata, ormai da quasi due decenni, con l’accensione di mutuitrentennali della Cassa depositi e prestiti.

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(3) Al calo nel 2016 ha partecipato anche l’introduzione della nuova Legge sugli Appalti – che

di fatto ha bloccato per vari mesi i nuovi bandi, proprio nell’anno in cui il Paese usciva dalla

recessione.

Nei prossimi anni sembrerebbero esserci le condizioni per una ripresa degli investimenti locali: nei

Comuni del Nord grazie agli ampi avanzi di cassa accumulati e in quelli del Sud grazie ad un

utilizzo maggiore dei fondi strutturali. Malgrado ciò la ripresa dei bandi per nuove opere non

sembra manifestarsi nella misura attesa. Vanno identificate le ragioni di questo fenomeno. Tra

queste:

(1) Un calo di più del 17% del personale comunale nel periodo 2007-2016 (che ha contribuito

ad innalzare l’età media dei tecnici che devono realizzare le opere pubbliche);

(2) scarso dialogo tra ufficio tecnico e ragioneria del Comune;

(3) ruolo dell’ANAC;

(4) una forte riduzione degli investimenti dell’ANAS.

Alcune misure potrebbe facilitare la ripresa degli investimenti, tra queste:

(1) una maggiore assistenza tecnica da parte di CDP - non solo nel rapporto con i c.d. “grandi

enti” (che segue da vicino ormai da qualche anno), ma anche su Comuni di media e piccola

dimensione;

(2) facilitare l’unione di progetti di dimensione più contenute anche tra comuni diversi (il “c.d.

“bundling”);

(3) semplificare i rapporti tra i vari livelli di governo;

(4) Fare in modo di “evitare” i contenziosi” tra amministrazioni pubbliche – limitandoli solo al

rapporto tra PA e privati.

Un contributo importante, infine, come già ricordato, potrebbe venire dalla CDP – che rafforza il

suo ruolo di “Banca del Territorio”, attraverso una serie di azioni. Rafforzando, tra le altre cose, la

sua presenza a livello locale, che è già cresciuta in questi anni attraverso l’apertura di nuove sedi

(Torino, Bari, Napoli, Palermo, ecc.), su tutto il territorio nazionale, mettendo a disposizione un

sistema di assistenza tecnica ai Comuni, sia nella gestione degli asset patrimoniali, che in quella dei

progetti infrastrutturali, su vari fronti, quali;

• Pianificazione, progettazione e monitoraggio delle opere;

• strutturazione finanziaria e la gestione successiva delle infrastrutture;

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• assistenza sul fronte dei finanziamenti nazionali ed europei (garanzie, fondo

perduto, fondi strutturali), dell’utilizzo di altri beni del patrimonio dell’Ente,

delle regole statistiche europee (Eurostat), degli incentivi fiscali, della

gestione degli stakeholder e, in generale, della Comunità in cui vengono

realizzate le nuove infrastrutture.

Va inoltre osservato che se si riesce a contribuire rilanciare gli investimenti locali - indirettamente

si sostengono anche le PMI sul territorio creando, quel circolo virtuoso che è stato ormai da troppo

tempo indebolito.

Infine, Per finanziare le infrastrutture sociali è necessario migliorare le procedure, semplificare i

processi e dare stabilità alla programmazione pluriennale per neutralizzare cambiamenti connessi al

ciclo politico, i quali costituiscono un forte disincentivo per i potenziali investitori, sia nostrani che

internazionali, Occorre sviluppare nuovi modelli finanziari con la partecipazione del risparmio

istituzionale di lungo periodo e del risparmio diffuso, trovare formule finanziarie innovative in

grado di assicurare la sostenibilità della spesa pubblica e un allargamento delle spettro delle fonti di

finanziamento.

Il ruolo degli Enti locali nel finanziamento delle infrastrutture

Il risanamento dei bilanci pubblici durante la crisi ha quindi fortemente ridotto lo spazio per gli

investimenti pubblici. Per la così detta economia infrastrutturale (trasporti, energia e

telecomunicazioni) che è per lo più fatta a livello centrale (e può largamente essere finanziata dal

flusso di cassa che produce), e per i servizi pubblici locali (che sono al di fuori del perimetro del

settore pubblico) la riduzione è stata meno pronunciata. Ciò che ha mostrato un crollo abbastanza

drammatico, specialmente in alcuni stati membri, sono stati invece gli investimenti pubblici di

media dimensione fatti a livello regionale e locale in settori cruciali come il sociale, il tessuto

urbano e l’ambiente. Se consideriamo che il livello subnazionale copre i due terzi del totale nella

media Ue-28 (Fonte: Eurostat) e che questi investimenti sono soprattutto in piccole e medie

infrastrutture, dobbiamo ammettere che abbiamo un problema davvero serio, non solo in Italia, ma

in tutta Europa.

L’investimento a livello locale è strategico per una serie di ragioni. È soprattutto a livello locale

che i cittadini percepiscono la presenza dei governi nazionali (e europei) nell’assicurazione di un

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buon livello di qualità infrastrutturale. Oltretutto, è soprattutto a livello locale che il settore edilizio

contribuisce alla crescita economica e alla creazione di nuova occupazione. Così un forte taglio

nell’investimento a livello locale ha effetti politici ed economici negativi. Tuttavia, perché avere

investimenti a livello locale è stato così penalizzante durante la crisi? In gran parte della UE, il

risanamento di bilancio è stato largamente effettuato attraverso i tagli nei trasferimenti dal livello

centrale al livello sub-nazionale. Inoltre, nel 2012 molti Stati europei hanno introdotto uno

stringente principio di risanamento del bilancio pubblico, anticipando il Fiscal Compact. Secondo

l’ultima indagine comunale sugli investimenti in infrastrutture condotta dalla Banca Europea degli

Investimenti (BEI) 5, tra i comuni che segnalano carenze infrastrutturali, il 75% considera i vincoli

di bilancio uno dei principali ostacoli. Inoltre, il 34% di tutte le amministrazioni comunali

coinvolte nell’indagine segnala che gli investimenti negli ultimi cinque anni sono stati inferiori alle

necessità. Il settore dell’edilizia sociale risulta tra i settori più fortemente penalizzati, anche se si

registrano notevoli differenze tra Paesi.

Per finanziare le infrastrutture sociali occorre sviluppare nuovi modelli finanziari con la

partecipazione del risparmio istituzionale di lungo periodo e del risparmio diffuso. Secondo le

stime dell'OCSE, il patrimonio gestito dagli investitori istituzionali di tutto il mondo ammonta ad

oltre 100 trilioni di dollari. Nella UE, il panorama degli investimenti è dominato da tre grandi

segmenti di investitori: assicurazioni, fondi pensione e fondi comuni di investimento. Negli ultimi

dieci anni, gli investitori istituzionali sono stati alla ricerca di nuovi investimenti di lungo periodo.

Una porzione sempre più ampia di investitori istituzionali sta iniziando a riconoscere il potenziale

degli investimenti infrastrutturali nelle sue diverse categorie, di cui quella delle infrastrutture

sociali, come avremo modo di discutere oltre, hanno caratteristiche molto interessanti per i

potenziali investitori.

5� EIBIS, (2017), Municipal Infrastructure: European Union Overview, Luxembourg.

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Partenariati Pubblico-Privati e il ruolo del “Blending”

Supponiamo che un comune o una regione debba fare un investimento in una infrastruttura sociale

ma non abbia spazio sul debito. Come noto, può decidere di realizzarlo tramite un partenariato

pubblico-privato. Se il rischio di costruzione viene trasferito al privato non peserà sul debito. Ma

chi pagherà l’opera? L’amministrazione locale attraverso un “canone di disponibilità” che inciderà

anno dopo anno sul “conto economico” dell’Ente, ma non sul debito. Ma il “canone di

disponibilità” non sarà più caro del servizio su un debito con tassi quasi “sovrani”? Se il “canone” è

ridotto grazie a:

(a) un “fondo perduto” nazionale e/o europeo (tramite i fondi strutturali o altri fondi

europei);

(b) delle garanzie pubbliche nazionali o europee;

(c) degli incentivi fiscali;

(d) beni patrimoniali e/o immobili di proprietà del comune non utilizzati (inclusi terreni dati

a titolo gratuito);

(e) un qualche “spazio fiscale” attraverso una “clausola per gli investimenti sociali”;

(f) e, infine, se il progetto è ben costruito – grazie ad un sistema di “assistenza tecnica”

istituzionale che garantisce all’amministrazione che rischi e profitti siano ben distribuiti tra il

pubblico e il privato – allora il suo costo potrebbe non essere molto più caro del costo del debito,

con due ulteriori vantaggi:

(1) non crea nuovo debito pubblico (che peserebbe sulle generazioni future);

(2) si crea un incentivo per l’amministrazione pubblica a tagliare spesa corrente non

produttiva e eventuali sprechi a scapito del canone per gli investimenti che invece incide

positivamente sulla crescita e produce esternalità positive per la comunità.

La riduzione del costo del canone di disponibilità, molto caldeggiata dalla UE, usando altre risorse e

incentivi viene conosciuto come “Blending”.

Vi sono forme molto innovative che si stanno sperimentando nelle nuove strutture di Partenariati

Pubblici Privati/Istituzionali in Europa. Indirizzi innovativi di PPP si basano su una diversa e più

puntuale articolazione delle caratteristiche richieste ai due attori principali: il privato (quale

privato?) e il pubblico (con quali caratteristiche?). In tale ambito si vanno individuati quali sono i

potenziali investitori/finanziatori delle opere in PPP e quali sono i prodotti finanziari più adatti;

vanno analizzati gli strumenti che potrebbero favorire la diffusione tra i vari stakeholder: i rating,

per investitori e gestori; i rating e score sociali e ambientali (ESG) come sostegno alle scelte di

investimento, per imprese ed enti locali. Una parte rilevante riguarda l’analisi degli strumenti di

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valutazione e misurazione della trasparenza, integrità e performance delle Amministrazioni

pubbliche. Sullo sfondo di queste analisi due importanti novità: le nuove linee guida Eurostat e il

primo “contratto standard” per il contesto italiano, relativo al PPP, che sarà messo in consultazione

dal MEF nel mese di settembre 2018.

Una nuova impostazione di policy:

partenariato pubblico privato istituzionale e partenariato pubblico privato sociale 6

Fino ad oggi il nostro Paese non ha ancora saputo produrre nel Partenariato Pubblico Privato

(“PPP”) l’innovazione necessaria a superare la tradizionale cultura dell’appalto, a riformare la PA

(centrale e locale) e a ridurre gli ostacoli e i costi normativi (gold plating), amministrativi e

burocratici a livelli allineati con quelli dei Paesi che competono con noi sul mercato delle attrazioni

di capitali per investimenti infrastrutturali.

Siamo dunque è in ritardo anche sotto un profilo della policy. Ci riferiamo al passaggio dal

tradizionale modello di PPP nel quale i partner privati erano prevalentemente imprenditori di “elite”

e costruttori, ad un nuovo PPP aperto ad investitori istituzionali ed operatori del terzo settore.

Anche sulla scorta di analisi, suggerimenti, indicazioni e programmi di investimento promossi ad

ogni livello (World Bank, OCSE, BEI ed altre banche di sviluppo regionale), i principali paesi

OCSE e del G20 hanno negli anni recenti profondamente rivisto le rispettive normative per favorire

il coinvolgimento di risparmio istituzionale negli investimenti in infrastrutture: coinvolgimento

realizzato in forma diretta (es. Canada, Olanda, ecc.) o tramite operatori specializzati come i fondi

infrastrutturali (di debito e di equity), soggetti regolati e vigilati dagli Organismi di vigilanza

competenti come gestori del risparmio, regolarmente registrati nell’albo delle rispettive autorità

(Banca d’Italia e Consob per l’Italia) e pertanto connotati da particolari elementi di efficienza e

trasparenza.

Non solo. Le tendenze e le inclinazioni degli investitori “privati, ma istituzionali” ha portato alla

affermazione a livello internazionale di nuove prospettive, tra le quali vale la pena di richiamare:

(1) la valutazione accurata dell’impatto sul sistema economico (“impact investing”);

(2) il rispetto dell’ambiente, l’attenzione alle dinamiche sociali e l’adozione di più efficaci

soluzioni di governance (Sostenibilità; “ESG”);

6� Questa Sezione è ripresa da un documento di lavoro interno sul PPP elaborato da ASTRID e curato da Franco Bassanini, FedericoMerola e Edoardo Reviglio.

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(3) l’adeguamento delle infrastrutture alle nuove frontiere tecnologiche (smart infrastructure) e

(4) la connessione con i nuovi programmi speciali di supporto varati in vari contesti geografici,

come il Piano Juncker per l’UE, oggi in fase di trasformazione (“InvestEU”).

Ed in effetti, proprio l’investimento in infrastrutture con il coinvolgimento di capitale istituzionale

era uno dei tre pilastri del Piano Juncker, da noi rimasto poco attuato (a differenza del

finanziamento delle PMI). Come avremo modo di Lo ripropone oggi con maggiore convinzione la

Commissione Europea nel nuovo programma denominato InvestEU.

Non si tratta di tecnicismi. È una nuova impostazione di policy, una nuova forma di operare del

sistema economico che si apre al partenariato pubblico privato istituzionale e al partenariato

pubblico privato sociale. Si passa così ad un modello di PPP allargato, esteso ad operatori privati

ma sociali o istituzionali (fondi infrastrutture alimentati da Fondazioni Bancarie, assicurazioni,

fondi pensione, Casse di Previdenza ecc.), trasparenti e responsabili e per questo adatti a soluzioni

di convergenza tra interesse pubblico e privatistico.

Ma il coinvolgimento del risparmio istituzionale nelle infrastrutture si realizza solo a determinate

condizioni, volte a rendere le caratteristiche e i rischi delle operazioni compatibili con le funzioni di

investimento degli istituzionali: innanzitutto un ragionevole contenimento dei rischi che richiedono

una cultura diffusa, capace di valutare ad ogni livello il tema della c.d. “eleggibilità” degli

investimenti (accanto a quello della bancabilità).

Per tale ragione il passaggio al Partenariato Pubblico Privato-Istituzionale e Pubblico Privato-

Sociale richiede un cambio di prospettiva che impone un nuovo indirizzo di policy e una crescita di

cultura e competenza anche del mercato del risparmio gestito. Sono necessari interventi coordinati a

diversi livelli: dalla normativa sugli impieghi degli investitori istituzionali a quella della gestione

del risparmio; dalla disciplina di appalti e concessioni a quella del settore creditizio; da quella

fiscale alla regolamentazione dei singoli settori di possibile intervento. Ma il cambiamento può

essere avviato subito, con poche iniziali modifiche capaci di generare nel tempo grandi

cambiamenti.

Sul fronte della PA, si tratta di identificare un’unità centrale di consulenza analoga a quella prevista

a livello europeo dal Piano Juncker e poi da InvestEU, capace di assistere gli enti locali nella

impostazione e strutturazione di operazioni articolate e complicate come quelle di PPP. Per esempio

una versione potenziata della precedente Unità Tecnica di Finanza di Progetto.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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Inoltre, ciascuna PA desiderosa di attrarre investimenti dovrà raggiungere livelli soddisfacenti di

efficienza e trasparenza, misurabili con adeguate metodologie dagli investitori, come indici di

rischio politico e indicatori indiretti del rischio di corruzione.

Da valutare la possibilità di costituire una vera e propria authority indipendente del PPP in tutte le

sue varie accezioni (salvo quelle coperte da altra autority esistente) ovvero estendere determinate

competenze di PPP ad una già authority esistente (es. quella dell’energia o dei trasporti?).

Il soggetto privato, da par suo, deve diventare più trasparente, coinvolto nella generazione di reale

efficienza operativa e innovazione tecnologica nonché attento agli effetti generali dei propri

investimenti (Impact Investing) e all’equità generale dell’operazione. In una parola: più

responsabile.

Sul fronte normativo, la strada è appena agli inizi, ma importanti risultati possono essere ottenuti

con un primo insieme di provvedimenti urgenti. Per limitarci a qualche esempio:

(1) La legge appalti e concessioni, tra le altre cose, deve perseguire anche la eleggibilità delle

operazioni per il capitale di rischio e non solo la bancabilità per il capitale di credito. A mero

titolo di esempio:

(a) riducendo gli attuali vincoli ai fondi infrastrutturali di agire – oggi con sostanziale

obbligo (sebbene indiretto) di ATI con costruttori o gestori – come promotori di

iniziative di finanza di progetto, allineando la disciplina a quella di altri paesi dell’UE;

(b) Incentivando l’acquisizione da parte di investitori istituzionali di concessioni esistenti,

soprattutto se suscettibili di importanti interventi di efficientamento, innovazione e

manutenzione straordinaria;

(c) Intervenendo sulla disciplina dell’art. 177 del Codice che introduce una sovra-

regolamentazione rispetto alla disciplina europea, in netta contrapposizione con il

principio del divieto di gold plating, la direttiva 2014/23/UE. Nell’affidamento di servizi

e forniture, l’art. 177 del Codice impone vincoli stringenti ai concessionari privati

condizionandone la libertà di scelta del modello operativo con conseguenze negative

anche sull’efficienza gestionale, sull’economia di scala e in ultimo, quindi, sulla stessa

convenienza ad investire (e del perseguimento degli obiettivi che la PA si pone tramite

coinvolgimento di soggetti privati);

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(2) La disciplina del credito deve eliminare o almeno ridurre gli ostacoli che fino ad oggi hanno

impedito e limitato l’attività di finanziatori diversi da banche nel nostro Paese (es. fondi di

credito per le infrastrutture);

(3) La disciplina degli investimenti delle varie categorie di investitori istituzionali deve essere

più coraggiosa, puntando sul connubio “competenza-flessibilità” piuttosto che su crescenti

vincoli e divieti, come fino ad oggi avvenuto. Con la capacità di valorizzare e “premiare”,

anche fiscalmente, l’asset allocation dedicata alle infrastrutture italiane, per rafforzare il

quadro degli incentivi già realizzato dalle normative generali (es. Solvency II, che pure

dovrebbe essere ulteriormente migliorata);

(4) Il sistema dei controlli e delle responsabilità amministrative (amministrative, contabili,

civili, penali), che oggi scoraggia le amministrazioni pubbliche dall’assunzione di

responsabilità per l’adozione di programmi, decisioni, attività esecutive. Occorre sciogliere

tra l’altro il nodo dell’ ANAC e delle sue competenze: se essenzialmente focalizzate sulla

prevenzione e la repressione della corruzione occorrerà identificare a chi affidare i compiti

propri di una autorità di settore, dotata di adeguate competenze anche in ambito finanziario e

di una elevata capacità di trasparente dialogo con gli investitori istituzionali, per loro natura

portatori di una domanda di legalità e di tutela da fenomeni distorsivi di qualsiasi tipo; se no,

occorrerà che l’ANAC sia messa in condizione di svolgere questo ruolo.

Alcune caratteristiche distintive degli investimenti in infrastrutture sociali

Gli investimenti in infrastrutture sociali condividono le “caratteristiche generali” degli investimenti

infrastrutturali:

- Tendono ad essere illiquidi. L’illiquidità degli investimenti infrastrutturali ha una

importante conseguenza: i ritorni sono realizzabili soltanto sul lungo periodo e quindi solo

investitori con una prospettiva di lungo periodo possono permettersi questo tipo di investimento.

- Tuttavia, sta emergendo un mercato di strumenti di debito come i social bond, i

social impact bond, i green bond e i project bond, che sono molto più liquidi del capitale di rischio

(equity) che è invece meno liquido ed è stato in questi ultimi anni lo strumento prevalente per chi

intendeva investire in infrastrutture.

- Le probabilità di default (fallimento) sono relativamente basse. Dalla ben nota analisi

di Moody’s 7 – su un campione di 10.280 progetti per un valore totale di 3,17 trilioni di dollari Usa

7� Moody’s (2016), Infrastructure Default and Recovery Rates,1983-2015, Default Research, Moody’s

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nel periodo tra il 1983 e il 2015 – emerge infatti che il debito infrastrutturale è solitamente meno

rischioso rispetto alle obbligazioni societarie, soprattutto nel lungo periodo. Il risultato è che gli

investimenti infrastrutturali sono in media più stabili di investimenti in obbligazioni societarie. Una

analisi più recente condotta da EDHEC Infrastructure Institute-Singapore 8 - che prende in

considerazione dati raccolti in 14 paesi europei in un periodo che va dal 2006 al 2016 – raggiunge

risultati molto interessanti. Con i dati raccolti viene creato un indice che include il debito per la

finanza di progetto e il debito contratto da imprese che operano nelle infrastrutture e dimostra che

tale indice ha un profilo rischio/rendimento decisamente superiore a quello delle obbligazioni

industriali.

Detto questo gli investimenti in infrastrutture sociali hanno alcune altre “caratteristiche

specifiche” che li rendono attraenti per gli investitori di lungo periodo:

– Il settore pubblico svolge un ruolo cruciale in quanto responsabile per gli

investimenti in infrastrutture sociali. A differenze delle infrastrutture economiche, come strade,

porti, aeroporti o impianti di produzione d’energia – che solitamente assicurano entrate attraverso le

tariffe – le infrastrutture sociali in PPP dipendendo in larga parte dalla disponibilità del settore

pubblico di garantire un pagamento sotto forma di un “canone di disponibilità”. L’appalto pubblico

è ancora l’accordo contrattuale maggiormente utilizzato, ma pesa sul debito dell’Ente. Schemi di

partenariato, se ben costruiti, non incidono sul debito ma solo, anno dopo anno, sulla ”spesa

corrente”. Tutto ciò diminuisce il rischio per gli investitori.

– La partecipazione al finanziamento delle infrastrutture sociali da parte della

Commissione Europea, della Banca Europea degli Investimenti, del Banca di sviluppo del Consiglio

d'Europa e degli Istituti Nazionale di Promozione al finanziamento degli investimenti in

infrastrutture sociali.

– Le dimensioni relativamente ridotte dell’investimento. I progetti infrastrutturali nei

settori della salute e dell’istruzione sono di solito relativamente piccoli. Secondo l’Edhec-Risk

Institute (2012) 9, circa il 99% dei progetti infrastrutturali sociali esistenti in Europa comporta un

capitale totale di investimento di meno di un 1 miliardo di euro, con la maggior parte dei progetti al

di sotto dei 30 milioni. Oltretutto, il costo della fornitura e distribuzione dei servizi è solitamente

più alto del capitale d’investimento necessario per la costruzione e realizzazione dell’infrastruttura

di per sé.

Investors Service, 18 July 2016.

8� EDHEC Infrastructure Institute-Singapore (2017), Private Infrastructure Broad Market Debt Indices, Benchmarking Europe’s

Private Infrastructure Debt Market 2000-2016, June 2017.

9� EDHEC-Risk Institute, (2012), Pension Fund Investment in Social Infrastructure. Insights from the 2012 reform of the private

finance initiative in the United Kingdom, February 2012.

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– Buone opportunità di diversificazione del portfolio. Grazie alle dimensioni

relativamente ridotte dell’investimento richiesto, investire in infrastrutture sociali fornisce ottime

opportunità di diversificazione finanziaria. Questo aspetto è chiaramente diverso rispetto agli

investimenti nelle infrastrutture economiche, che sono caratterizzate da una concentrazione del

rischio più elevata.

– Bassa volatil i tà dei r i torni. L’ammontare dei pagamenti da parte

dell’amministrazione pubblica è di norma stabilito ex-ante ed indicizzato all’inflazione. Ritorni reali

prevedibili e stabili sono un aspetto importante nelle scelte di investimenti da parte di investitori

orientati al lungo periodo.

– Bassa correlazione con altri investimenti. La natura pubblica di investimenti in

infrastrutture sociali li rende meno esposti ai rischi di volatilità e a quelli che dipendono dagli

andamenti altalenanti dei mercati finanziari.

Le caratteristiche descritte rendono gli investimenti in infrastrutture sociali particolarmente adatti

agli investitori di lungo periodo, non orientati al breve termine o a ritorni speculativi

dell’investimento.

Le banche nazionali di promozione e le istituzioni

I mercati finanziari sono sottoposti ad una grande trasformazione. Per gli effetti prolungati della

crisi finanziaria non stanno agendo a sostegno del finanziamento di lungo periodo dell’economia

reale. La Banca europea per gli investimenti, così come le banche di promozione nazionali (in Italia

Cassa depositi e prestiti) e stesse le istituzioni europee, possono parzialmente coprire questo gap,

grazie allo loro alta capacità di assorbimento dei rischi e agendo da intermediari per lo sblocco di

liquidità in favore degli investimenti. C’è una buona opportunità per questi istituti finanziari di re-

inventare sé stessi alla luce della crisi e dei compiti nuovi che gli sono stati assegnati negli ultimi

anni. 10 Queste istituzioni hanno l’affidabilità di agire come intermediari dei flussi finanziari per

alcune ragioni: la loro lunga storia (comprovata esperienza); la prevedibilità dell’azione di

investimento (stabilità); la non contaminazione con gli abusi della crisi finanziaria; la credibilità

data dalla conoscenza dei contesti territoriali e dalla capacità di esecuzione dei progetti. Va inoltre

detto che le banche nazionali di promozione (cd. National Promotional Banks and Institutions -

10� Bassanini F., Pennisi G. and Reviglio E., (2015), Development Banks: from the financial and economic crisis to sustainable

and inclusive growth, in Garonna P. e Reviglio E. (eds), Investing in Long-Term Europe. Re-launching Fixed, Network and Social

Infrastructure, LUISS University Press Rome 2015.

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NPBIs) possono giocare un ruolo significativo nel colmare i fallimenti di mercato, bilanciando il

ciclo economico, così come avere un ruolo sussidiario nei confronti delle banche commerciali,

garantendo coperture ai costi sostenuti per prestiti su mutui e finanziamenti su progetti ad alto

ritorno sociale. Nel 2005 le Nazioni Unite hanno definito queste organizzazioni come “istituzioni

finanziarie pubbliche con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo economico e sociale attraverso il

finanziamento di attività ad alto ritorno sociale”, aggiungendo alla stessa definizione il principio

secondo cui le banche di sviluppo intervengono sui fallimenti di mercato. Nel fare questo esse

diventano complementari alle istituzioni di mercato, nel senso che il loro intervento non compete

con dinamiche del mercato (e quindi è complementare e non intende “spiazzare” i capitali privati).

In attesa di un ritorno di stabilità nel sistema bancario europeo, il ruolo delle grandi banche di

sviluppo nazionali (KfW, CdC, CDP etc..) e multilaterali (EIB, CEB, EBRD) è diventato sempre

più importante. Esse hanno promosso nuovi strumenti finanziari a sostegno degli investimenti,

hanno mobilitato risorse addizionali per l’economia reale, hanno lanciato nuovi fondi di capitale di

lungo periodo, nazionali e europei, per investire in progetti infrastrutturali. La cooperazione tra

queste istituzione potrebbe condurre in futuro a nuove iniziative, ad esempio agendo da catalizzatori

per la partecipazione degli investitori istituzionali al finanziamento delle infrastrutture, attraverso il

potenziamento del credito e l’attrazione di co-investimenti sul lato equity dei progetti.

Il punto chiave è che le banche di sviluppo sono differenti dalle banche commerciali, da quelle

universali, di sviluppo e d’investimento (cioè altre categorie di banche), in quanto esse agiscono per

fornire a medio e lungo termine capitale per investimenti produttivi, spesso accompagnati da una

forte assistenza tecnica. Inoltre gli investimenti produttivi che effettuano dovrebbero essere

selezionati sulla base di un doppio insieme di criteri. Nel breve periodo gli investimenti dovrebbero

contribuire al pieno impiego dei fattori di produzione (e dunque sostenere l’occupazione). Nel

medio e lungo periodo dovrebbero fornire capitale fisico, finanziario e tecnico (e quindi, aumentare

la produttività dei fattori di produzione).

Parallelamente all’intervento sui fallimenti di mercato sta emergendo un’altra funzione strategica

che le banche d’investimento pubbliche potranno giocare nel futuro, ovvero quello di essere

istituzioni “mission oriented” a favore dell’innovazione, quando il capitale privato non è in grado di

sostenere investimenti a redditività differita con forti esternalità positive (sociali o ambientali). Su

questo fronte, tuttavia, la riflessione sta ancora muovendo i suoi primissimi passi. 11

11� Per tutti cfr., Mazzucato, M., (2017) Mission-oriented Innovation Policy: Challenges and Opportunities, UCL Institute forInnovation and Public Purpose Working Paper, (2017-1).

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Verso la costituzione di un Fondo Europeo per le Infrastrutture sociali

Come facciamo ad assicurare che un paese membro con un rating particolarmente

penalizzante ma molto bisognoso di infrastrutture e di crescita possa finanziarsi a tassi

“sostenibili”? Attraverso la creazione di una grande Fondo europeo per le infrastrutture sociali –

con azionariato pubblico-privato-istituzionale – che emetta bond sociali europei con un alto rating

capace di distribuire il rischio a valle - sui progetti - in modo da dare finanza a tutti i paesi membri

superando, almeno in larga parte, il problema degli spread sovrani.

Il Fondo sarebbe dotato di una rete di assistenza tecnica in grado di assistere le amministrazioni

nella costruzione di piani economici e finanziari di qualità “europea”. A sua volta il Fondo europeo

godrebbe di una reputazione tale da attrarre gli investitori di lungo periodo. Sia sul fronte della loro

partecipazione al capitale del fondo (tramite azioni) e sia attraverso l’investimento in bond sociali

europei si realizzerebbe quell’incontro” tra investitori di lungo periodo, come fondi pensioni e

assicurazioni vita, e strumenti finanziari infrastrutturali su cui molto si è scritto e discusso, ma che

ancora non si è realizzato nella dimensione che sia domanda sia offerta sembrano richiedere.

La differenza tra gli Eurobond proposti dal Piano Delors nel 1993 e gli Euro Social Bond proposti

dal Piano Prodi nel 2018 sono essenzialmente due. 12 La prima è che il Fondo non richiede una

garanzia degli stati membri, ma solo la partecipazione al capitale tramite le banche promozionali di

sviluppo e/o capitale degli stati membri – è il Fondo che gestisce il rischio a valle e quello a monte

attraverso un “c.d. “tranching” dei titoli secondo la loro rischiosità, senza nulla chiedere in più ai

governi nazionali. Secondo, il Fondo si “limiterebbe” alle infrastrutture sociali, attraverso una

specializzazione dedicata su settori con delle caratteristiche specifiche molto particolari, lasciando

al mercato (e alla BEI e alle banche promozionali nazionali) infrastrutture economiche che hanno

strutture economico finanziarie di altra natura.

InvestEU: il nuovo Piano per gli Investimenti Europei e le infrastrutture sociali

Come abbiamo già osservato, gli investimenti europei e degli Stati membri si sono dimostrati

insufficienti per un adeguato sviluppo infrastrutturale in settori chiave quali l'istruzione, la sanità e

l'housing sociale. InvestEU, che è il nuovo Piano europeo per gli investimenti che dovrebbe

succedere ai Piani Juncker 1 e 2 entrando in vigore nel 2021, sembra andare nella giusta direzione

12� L’idea di creare un nuovo Fondo europeo per le infrastrutture sociali è stata sviluppata all’interno del Rapporto Prodi a cui siriferimento nelle proposte finali. Il Working Paper preparato dalla HLTF è ancora in lavorazione e verrà pubblicato auspicabilmenteentro fine 2018.

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dotandosi, come raccomandato dal Rapporto Prodi, di una “finestra unica” dedicata agli

investimenti sociali.

Il 2 ottobre 2018, il Presidente della “Task-Force sul finanziamento delle Infrastrutture Sociali in

Europa” Romano Prodi ha inviato una lettera al Presidente della Commissione Europea Jean-Claude

Juncker per ringraziarlo dei passi in avanti fatti dalla Commissione Europea in tema di infrastrutture

sociali nel nuovo Piano europeo per gli investimenti InvestEU. In particolare, per il fatto che il

nuovo piano dedica alle infrastrutture sociali un ruolo molto più centrale che in passato con la

costituzione del Fondo Unico per la garanzie dei progetti sociali. Malgrado questo sia un passo in

avanti importante, peraltro contenuto nelle raccomandazioni del Rapporto Prodi, siamo ancora

lontani dall’obbiettivo di colmare il grande gap tra quanto si investe e quando si dovrebbe investire.

Nei prossimi anni, nell’ambito del Piano Juncker 2, sarà importante avviare progetti pilota e

preparare la giusta cornice per dimostrare che è possibile fare di più, ed eventualmente di

incrementare le risorse europee per le infrastrutture sociali.

Il Presidente Prodi si è detto soddisfatto che una serie di riflessioni e proposte all’interno del

Rapporto “Boosting Social Infrastructure in the EU”13 siano state prese in considerazione nel

disegno del nuovo Piano InvestEU, ma suggerisce una serie di miglioramenti:

(1) la necessità di predisporre a livello europeo (attraverso una richiesta formale alla Agenzia

statistica europea, Eurostat) una banca dati sulle infrastrutture sociali e schemi di

valutazione delle operazioni di finanziamento e di investimento;

(2) il rafforzamento di schemi di assistenza tecnica più capillari e legati al territorio. L'obiettivo

dovrebbe essere perseguito in stretta collaborazione con il centro di assistenza tecnica del

nuovo Piano ("InvestEU Advisory Hub"). Esso dovrebbe aiutare i partner locali a rafforzare

e/o costruire le loro capacità di assistenza tecnica a livello nazionale e/o regionale. Tale

rafforzamento sarebbe di vitale importanza per la creazione di un mercato europeo per le

infrastrutture sociali;

(3) favorire il raggruppamento di progetti (“bundling”) per aumentare la dimensione dei

prodotti finanziari con sottostanti progetti sociali da offrire gli investitori istituzionali e

privati; (4) assicurare che la garanzia sia la più ampia possibile - cioè irrevocabile, incondizionata e alla

prima richiesta – e che il suo prezzo sia basato sul profilo di rischio delle operazioni

sottostanti, ma tenendo in debito conto il conseguimento degli obiettivi strategici di

InvestEU;

13� https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/economy-finance/dp074_en.pdf

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(5) l’applicazione di un indirizzo più “regionale” piuttosto che basato solo sugli Stati membri

nell'interpretazione del concetto di "addizionalità" per ridurre le crescenti divergenze e

favorire la cd. “upward convergence” contenuta nei Trattati.

Infine, viene proposto un trattamento fiscale speciale dedicato alle infrastrutture sociali. Esse

rappresentano circa il 10% di tutti gli investimenti infrastrutturali nell'UE, ma sono tra le più urgenti

e cruciali per il benessere dei cittadini europei e la tenuta politica dell’Unione. Nell'ottica del

miglior utilizzo della flessibilità, nell'ambito delle norme esistenti del Patto di Stabilità e Crescita,

propone l'ampliamento dei criteri di ammissibilità della clausola di investimento, per consentire un

maggiore cofinanziamento per i progetti sociali. La proposta riflette l'attuale contesto sociale ed

economico nell'Unione e fornirebbe una risposta concreta all'appello dei cittadini per una Unione

Europea più sociale e che abbia a cuore il benessere dei cittadini.

Conclusioni

Gli investimenti degli Enti territoriali in Italia dallo scoppio della crisi hanno subito una riduzione

del 50%. Ne ha risentito il territorio, le opere sociali e il Paese nel suo complesso. Il fenomeno si è

manifestato non solo in Italia ma in tutta Europa, come ben ha documento il c.d. Rapporto Prodi sul

rilancio delle infrastrutture sociali in Europa. Se si considera che circa 2/3 degli investimenti

pubblici totali vengono realizzati a livello locale il calo ha dimensioni preoccupati. Quali sono le

ragioni di un crollo così straordinario? Abbiamo cercato di individuarne alcune delle principali.

Primo, forti tagli ai trasferimenti agli Enti locali e riduzione dell’autonomia fiscale; secondo, le

incertezze sul Patto di Stabilità Interno (ora in via di superamento); terzo, l’incertezza del nuovo

codice degli appalti, che nel 2016 che ha bloccato le amministrazioni locali e l’industria delle

costruzioni per gran parte dell’anno; ma soprattutto gli effetti della nuova legge di bilancio e

sull’equilibrio delle Regioni e delle Enti locali, di cui alla L. 243/2012 che hanno fortemente

penalizzato gli investimenti locali (fonte: Ufficio Parlamentare di Bilancio, 2017). Il debito locale è

fortemente diminuito, così come sono fortemente diminuiti gli investimenti in opere medie e

piccole, soprattutto infrastrutture sociali, urbani e ambientali. Cosa fare? A meno che la UE non

decida che tali investimenti, che sono cruciali per coesione sociale e la tenuta del territorio e

rappresentano una quota minoritaria del totale degli investimenti in infrastrutture in Europa, non

potranno godere nei prossimi anni di qualche forma di flessibilità fiscale, dobbiamo trovare nuove

forme per finanziarie opere, che sono fondamentali per il presente ed il futuro della comunità e del

territorio. Nel frattempo la UE incoraggia i Paesi Membri ad utilizzare in maniera più estesa forme

di Partenariato Pubblico Privato. Se parliamo di opere sociali in gran parte, a differenza delle

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infrastrutture economiche (trasporti, energia e TLC), esse non producono da sé flussi di cassa per

ripagare i costi della costruzione. Devono quindi essere finanziate in gran parte da denaro pubblico

con l’accensione di debito. Il PPP può comunque essere una soluzione attraverso il pagamento di

una “canone di disponibilità”, insieme a altri contributi pubblici nazionali o europei (fondi

strutturali, garanzie, fondo perduto, incentivi fiscali, matrici d’impatto per consentire una parziale

“spazio fiscale fuori dal patto” – ovvero il cd. “blending”). Se ben strutturati tali investimenti in

partenariato potrebbero avere due vantaggi: (1) avere un costo non molto superiore, se non

inferiore, all’appalto tradizionale, grazie all’efficienza di schemi ben strutturati e contratti

monitorati nel tempo e (2) di non essere conteggiati nel debito pubblico secondo le regole statistiche

europee. Vi sono esempi di successo, ad esempio, realizzati soprattutto dalla Banca Europea per la

Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) in Europa dell’Est, ma anche dalla Banca Europea degli

Investimenti (BEI) nei paesi UE. Per fare in modo che il PPP per le opere sociali (e urbane) possa

decollare ad un costo “complessivo” non superiore all’appalto diretto (considerati i bassi tassi di

interesse) è necessario studiare nuovi schemi, che richiedono: (1) assistenza tecnica diffusa sul

territorio da parte di un soggetto istituzionale che assista le amministrazioni locali nella

progettazione e nel costruzione di contratti e piani economici e finanziari sostenibili e flessibili nel

tempo; (2) una revisione di alcuni punti dell’attuale legge sugli appalti; (3) attraverso lo studio di

best practice internazionali la creazione di un contesto giuridico-amministrativo capace di trovare il

giusto equilibrio tra protezione del pubblico ed incentivo del privato; (4) la possibilità di

standardizzare i contratti, soprattutto per le opere di piccole e medie dimensioni, e di “raccoglierle”

(“bundling”) per creare prodotti finanziari più grandi che possano coinvolgere la partecipazioni di

investitori pazienti di lungo periodo (come Fondazioni bancarie, CDP, Casse di Previdenza, Fondi

Pensione e Assicurazioni Vita). Ci sono le condizioni affinché nuove forme di partenariato possano

svilupparsi con successo in Italia anche per le opere medio piccole sul territorio (istruzione, sanità e

edilizia sociale). Questo richiede una serie di interventi a livello nazionale e, insieme, contributi di

varia natura da parte della UE. La domanda da parte dell’industria finanziaria è alta. Sull’offerta di

buoni progetti c’è ancora da lavorare. In generale, l’urgenza politica di accelerare i tempi di questi

processi per creare un Europa più vicina ai cittadini potrebbe rappresentare un potente fattore di

cambiamento ed innovazione.

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15 proposte per la giustizia sociale 61

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15 proposte per la giustizia sociale 62

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Giovanni Dosi e Andrea Roventini

Scuola Superiore Sant'Anna

La Cassa Depositi e Prestiti e le politiche d’innovazione

L’Italia è afflitta da un grave problema di stagnazione economica che ha le sue radici nella bassa

innovatività dell’industria italiana e nella bassa crescita della produttività. Tali problemi risalgono

almeno agli anni ’80 e derivano anche dalla rinuncia da parte del Governo a politiche industriali e

per l’innovazione, a favore di privatizzazioni selvagge e di una fiducia cieca e mal riposta nella

“magia del mercato”. Che cosa si può fare per rilanciare la crescita? Lo Stavo deve tornare ad essere

innovatore1 creando simbiosi positive con il settore privato per affrontare sfide come il

cambiamento climatico, l’automazione “intelligente”, la salute. Tali sfide richiedono infatti

politiche mission-oriented che stimolino l’innovazione in diversi settori e ne creino di nuovi.

In questo quadro, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP) può avere un ruolo decisivo come banca di

sviluppo. Ricerche recenti hanno mostrato che banche pubbliche come la China Development Bank

(CDB), la brasiliana BNDES e la tedesca KfW hanno un ruolo chiave nel finanziare imprese che

sviluppano nuove tecnologie nel settore delle energie rinnovabili consentendo di aumentare la

produzione di energia verde.2

La CDP, la seconda più grande banca pubblica europea (dopo la tedesca KfW), dall’inizio della

grande crisi ha ampliato molto le sue attività. Tuttavia, nonostante le ingenti risorse di cui dispone,

manca di un disegno strategico di sviluppo di medio e lungo periodo. Il nuovo piano industriale

riorganizza la Cassa in quattro “linee strategiche di intervento”: (i) sostegno alle imprese

(innovazione e crescita internazionale); (ii) infrastrutture e territorio (realizzazione di nuove

infrastrutture, miglioramento dei servizi di pubblica utilità, social housing e riqualificazioni di aree

urbane, sostegno alla cultura, arte e turismo); (iii) partecipazioni strategiche; (iv) cooperazione

internazionale. Ma gli effetti sulle strategie effettive della Cassa devono ancora essere visti.

Queste “linee strategiche di intervento” dovrebbero avere una o più missioni comuni volte ad

affrontare le grandi sfide che la nostra società deve affrontare attraverso l’innovazione e lo sviluppo

tecnologico. Oltre ai potenziali impatti catastrofici del riscaldamento globale (l’Italia è il Paese

europeo con il maggiore rischio idrogeologico), il nostro Paese deve affrontare le sfide delle nuove

tecnologie (intelligenza artificiale, robot, etc.), di un invecchiamento progressivo della popolazione

e della creazioni di posti di lavoro in settori ad alto valore aggiunto. Queste sfide richiedono

finanziamenti e risorse adeguate a sostegno delle pubbliche amministrazioni, delle infrastrutture e

delle imprese (potenziando ad esempio il Fondo d’Investimento Italiano che finanzia l’intero ciclo

di vita delle imprese fin dalla loro nascita), ma anche un ampliamento del portafoglio di imprese

1 Mazzucato, M. (2013), The Entrepreneurial State: debunking public vs. private sector myths, Anthem Press: London, UK,

ISBN 9780857282521, US edition.

2� Mazzucato, M. and Semieniuk, G (2017) “Financing renewable energy: who is financing what and why it matters”, Technological

Forecasting and Social Change (June 2017).

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15 proposte per la giustizia sociale 63

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strategiche detenuto dalla CDP.3 Ciò potrebbe realizzarsi attraverso l’acquisizione di imprese

attualmente in mano al Governo, di imprese quotate ad alto contenuto tecnologico in settori

strategici e di imprese innovative di medie dimensioni che necessitano di risorse per crescere (le

cosiddette multinazionali tascabili). La lista delle imprese già detenute e di quelle che potrebbero

essere acquisite è noto. Realtà industriali di livello globale nell’energia, nelle alte tecnologie (TLC,

intelligenza artificiale e aerospazio e difesa), nei trasporti (autostrade e ferrovie, ma anche porti,

aeroporti e logistica), nel sistema delle società di pubblica utilità, nelle infrastrutture sociali ed

ambientali, nei servizi finanziari e gestione del risparmio, e, in generale, nella gestione del territorio

e delle città.

Come fare in modo che tutto questo insieme di attività ed imprese sia gestito da una visione

strategica coerente e capace di crescere in modo da diventare il principale strumento delle politiche

pubbliche ed industriali del nostro Paese? Una riflessione va aperta. Di seguito ci proponiamo di

fare qualche proposta.

L’idea è quella di fare in modo che le due anime della Cassa – quella che possiede e gestisce le

imprese e quella che gestisce le varie linee di business, lavorino insieme verso obbiettivi condivisi.

Quali obbiettivi? Si potrebbero inserire nel nuovo modello industriale i c.d. “Programmi di missione

integrati di innovazione” (conosciuti anche come i “Mission Oriented Innovation Integrated

Programs and Networks”). Il loro obbiettivo dovrebbe essere quello di creare “uno stato di mobilità

permanente” di risorse, analisi e proposte a favore delle loro crescita e sviluppo.

Quali potrebbero questi Programmi? Ne proponiamo alcuni. (1) Energia/Ambiente; (2)

TLC/Intelligenza Artificiale/Aerospazio & Difesa; (3) Trasporti; (4) Il sistema delle utility locali –

attraverso i Fondi F2i e la costituzioni di ulteriori Fondi mono-settoriali con un’ampia

partecipazione di investitori istituzionali di lungo periodo e “pazienti” come i fondi pensione, le

assicurazioni vita, le fondazioni bancarie e il risparmio diffuso; (5) Sevizi finanziari e gestione del

risparmio; (6) Infrastrutture locali e Innovazione Sociale; (7) Tecnologia e innovazione per le PMI.

A livello organizzativo, per evitare possibili ingerenze della politica sull’indipendenza della CDP e

governare con una visione sistemica la nuova Cassa mission-oriented si potrebbe creare una

direzione strategica, costituita di persone indipendenti di alte competenze ed esperienza, con il

compito di elaborare proposte, analisi e studi a favore di una gestione dei programmi e alla

mobilizzazione di risorse finanziarie (pubbliche italiane ed europee, istituzionali, private) e

industriali a loro favore. Naturalmente, le proposte ed analisi della direzione strategica non

dovrebbero essere vincolanti, ma dovrebbero essere discusse a approvate dal Consiglio di

Amministrazione.

Il “modello” proposto ha delle analogie, ma anche delle differenze, con il “modello IRI” – un Ente

Pubblico, mentre la Cassa è una S.p.A. I Programmi della nuova organizzazione della CDP

corrisponderebbero grosso modo alla serie di Holding di Settore dell’IRI che a loro volta

controllavano aziende quotate e non. Inoltre, l’IRI poteva disporre di risorse aggiuntiver attraverso i

“fondi di dotazione” erogati dallo Stato. Nel caso della CDP questo non sarebbe possibile per i

vincoli di disciplina europea degli aiuti di Stato. Tuttavia, lo Stato potrebbe, qualora necessario,

ricapitalizzare la CDP, che a sua volta potrebbe utilizzare le risorse aggiuntive per rafforzare le

3� I c.a. 30 miliardi di capitalizzazione di Borsa fanno della Cassa il maggiore proprietario di imprese quotate del Paese.

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15 proposte per la giustizia sociale 64

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imprese che controlla ed i suoi Fondi per realizzare gli obiettivi di breve, medio e lungo periodo dei

Programmi mission-oriented.

Siamo in una fase di grandi cambiamenti. Lo Stato innovatore e imprenditore torna ad essere

un’esigenza, di fronte alla debolezza dei capitalisti privati italiani, all’attivismo della finanza

speculativa e della forza di grandi paesi come la Cina, la Russia, ma anche gli Stati Uniti, che non si

fanno problemi ad intervenire con il capitale pubblico per sostenere l’innovazione, l’occupazione e

la forza della propria nazione. Una Cassa Depositi e Prestiti potenziata e riorganizzata può

contribuire a raggiungere tali obiettivi affrontando le sfide globali come il cambiamento climatico e

facendo ripartire l’innovazione e la crescita della produttività.

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Work intensification and forms of control:

from AI to I4.0

Giovanni Dosi

Scuola Superiore Sant’Anna

e

Maria Enrica Virgillito

Scuola Superiore Sant’Anna

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15 proposte per la giustizia sociale 66

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A Blade Runner scenario?

I A blossoming debate on the e↵ects of robotization upon bothemployment and inequality is now spurring among scholars inthe economic discipline.

I Should we expect an age of medieval techno-feudalismgoverned by a plutocracy which owns machines and robots,which will enjoy high standard of living, together with themost part of the population deprived of the benefits oftechnology?

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Is this time really di↵erent?

I The Industrial Revolution was no marriage party for theworking classes: it was largely an era of degradation of socialconditions and it took decades for productivity growth totrickle down to the working classes.

I Today there are worrying factors which hint that it might notbe so in near future. And they have to do with both theimpact of the new technologies and, even more so, with theways the old socio-economic regime, call it “Fordist”,progressively exhausted its driving force.

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Some long term patterns

1. De-industrialization

2. Stagnant wages and divergence between productivity growthand wage growth

3. Declining labour share and related

4. Massive surge in corporate profits, especially financial ones

5. Declining labour force participation

6. Declining business dynamism and net job creation

7. Soaring inequality

8. Polarization and growing number of part-time jobs(gig-economy)

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The wage productivity gap in the US Economy

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Real wage growth 1973-2012

Figure: Source: Economic Policy Institute

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Real wage growth 2007-2012

Figure: Source: Economic Policy Institute

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Decline of manufacturing shares

myf.red/g/5awa

5

10

15

20

25

30

35

40

1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010

fred.stlouisfed.org

PercentofEmploymentinManufacturinginGermany(DISCONTINUED)

PercentofEmploymentinManufacturinginItaly(DISCONTINUED)

PercentofEmploymentinManufacturingintheUnitedStates(DISCONTINUED)

PercentofEmploymentinManufacturinginFrance(DISCONTINUED)

PercentofEmploymentinManufacturingintheUnitedKingdom(DISCONTINUED)

Percent

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Decline of labour compensation shares

myf.red/g/5awX

0.50

0.55

0.60

0.65

0.70

0.75

0.80

0.85

0.90

1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010

fred.stlouisfed.org

ShareofLabourCompensationinGDPatCurrentNationalPricesforGermany

ShareofLabourCompensationinGDPatCurrentNationalPricesforUnitedStates

ShareofLabourCompensationinGDPatCurrentNationalPricesforItaly

ShareofLabourCompensationinGDPatCurrentNationalPricesforFrance

ShareofLabourCompensationinGDPatCurrentNationalPricesforChina

Percent

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Declining median income

myf.red/g/4NAK

48,000

49,000

50,000

51,000

52,000

53,000

54,000

55,000

56,000

57,000

58,000

1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014

fred.stlouisfed.org

Source:US.BureauoftheCensus

RealMedianHouseholdIncomeintheUnitedStates

2014CPI-U-RSAdjustedDollars

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15 proposte per la giustizia sociale 75

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Surge of profits

myf.red/g/4JQK

0

200

400

600

800

1,000

1,200

1,400

1,600

1,800

2,000

1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015

fred.stlouisfed.org

Source:US.BureauofEconomicAnalysis

CorporateProfitsAfterTax(withoutIVAandCCAdj)

BillionsofDollars

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Declining labor force unionization rate

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Declining labor force unionization rate

Figure: The beneficial e↵ects of unionization - Freeman, 1980, JOLE

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Declining Business Dynamism

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Declining Job creation rate

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Jobless recovery

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Polarization

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Declining job participation rate

myf.red/g/4Kpd

58

59

60

61

62

63

64

65

66

67

68

1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015

fred.stlouisfed.org

Source:US.BureauofLaborStatistics

CivilianLaborForceParticipationRate

Percent

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Matching or mismatching between three subsystems

1. The system of technologies

2. The economic machine

3. The system of social relations and institutions

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The main question

The emergence of a new techno-economic paradigm?The massive introduction of robotized work certainly characterizesthe industrial sectors, with robotic arms able to substitute forrepetitive and routinized activities.

But, artificial intelligence, algorithms and software developmentsbecome increasingly relevant also in the service sectors, whichnowadays employs the largest labour share.

As a direct consequence, robotization and AI do not represent athreat only for blue-collars workers, but for the white-collars as well.

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How can humans cope with machines?

I Many emerging start-ups in the Silicon Valley or in the BostonArea are explicitly meant at creating and developingtechnologies able to entirely substitute for human labour.

I Sectors like medicine and health care are lacking theintroduction of robots and machine learning algorithms whosemassive usage can be complementary to human activity ratherthan replacing it.

I Potentially, there is ample room to go well beyond the use ofrobots and artificial intelligence in already standardized andhigh productive sectors, like fast-food production and delivery,to less routinised ones like medicine and health care.

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Coexistence of Old Taylorism and Digital Taylorism butwithout Fordism!

Two archetypes of labour relations both based on the intensificationof working conditions:

I Old Taylorism: clear control and subordinate working activity,vertical industrial relation

I Digital Taylorism: soft-power, fictitious independence, myth ofcreativity and self-organization

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Old Taylorism in the ICT era

The Foxconn archetype: Source: Pun Ngai,“Nella fabbricaglobale”, 2015Among the biggest worldwide employers and the first Chineseexporter.

I Massive migration from agricultural areas of young workers(born after 1980s)

I Factory-cum-dormitory: Dormitory Labour Regime

I Every factory building and dormitory has security checkpointswith guards standing by 24 hours a day

I All employees, whether they are going to the toilet or going toeat, must be checked

I Physical and verbal violence is systemic in Foxconn system.Workers are harassed and beaten up without serious cause

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Old Taylorism

The iPad caseThe global value chain

I International brand-name corporations (Apple) who squeezetheir suppliers

I To secure contracts, Foxconn minimizes costs, and transfersthe pressure of low profit margins to frontline workers.

I Average wage quite close to the province minimum wage

I Massive reliance upon overtime hours

I price of the iPad : $� 499

I manufacturing costs: 9$ equivalent to 1.8% ) Foxconn

I costs of components: 250$ equivalent to 50%

Source: Pun Ngai,“Nella fabbrica globale”, 2015

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More on workers conditions

In 2010, 18 workers committed a suicide

A worker blog (after the 12 suicide at Foxconn)

To die is the only way to testify that we ever lived.Perhaps for the Foxconn employees and employees like us – wewho are called nongmingong, rural migrant workers, in China – theuse of death is simply to testify that we were ever alive at all, andthat while we lived, we had only despair. Source: Pun Ngai,“Nellafabbrica globale”, 2015

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Digital Taylorism - The Uber-Foodora-Deliveroo archetype

I Based on cheap, generally educated workers

I Without a workplace

I Being“your own boss”

I Transfer of the entreprenerial risk from firms to workers

I Managed not by people but by an algorithm thatcommunicates with workers via smartphones

I Disappearance of both collective and even individual labourcontracts

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When your boss is an algorithm? Source FT

How the App changes the salary - UberEats

I Started paying 20 pounds an hour

I Then it moved to 3.30 pounds a delivery plus 1 pounds amile, minus a 25 per cent“Uber service fee”, plus a 5 pounds“trip reward”

I Then the“trip reward”had been cut to 4 pounds for weekdaylunch and weekend dinner times, and to 3 pounds for weekdaydinner and weekend lunch times.

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When your boss is an algorithm? Source FT

Algorithmic management - ControlHow to instruct, track and evaluate a crowd of casual workers youdo not employ, so they deliver a responsive, seamless, standardisedservice.

I monitoring of the workers

I sending productivity evaluation messages (time to acceptorders, time to deliver, travel time to restaurant, travel tocustomers, late orders)

I but... drivers can’t be deemed employees because they haveno obligation at all to log on to the app (Uber).

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What to do?

I Be there also on the production side (see the GermanProgram on Industry 4.0)

I Prevent de-industrialization

I Major mission-oriented programs

I Income and working hours redistributions

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The bottom line

We are at the cross road between a Blade Runner Scenario andKeynes’s vision (Economic Possibilities for our Grandchildren,1930)

Public policies will make the di↵erence

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Luca Enriques

LUISS Guido Carli

e

Federico M. Mucciarelli

Università di Modena e Reggio Emilia

Governance pubblica e privata delle politiche pubbliche per obiettivi:

una proposta di riforma della governance della Cassa Depositi e Prestiti

SOMMARIO : 1. Le politiche pubbliche per obiettivi. – 2. La Cassa Depositi e Prestiti comeholding pubblica. – 3. Due esempi stranieri: Germania e Cina. – 3.1. Germania: laKreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) – 3.2. La holding pubblica cinese. – 4.Stabilità e trasparenza degli obiettivi pubblici. – 5. Governance della CDP e regole ditrasparenza. – 5.1. Governance. – 5.2. Trasparenza. – 6. Rapporti con le societàpartecipate e con investitori privati. – 6.1. Rapporti con le società partecipate. – 6.2.Rapporti con investitori privati. – 7. Conclusioni.

1. Le politiche pubbliche per obiettivi. - Secondo la visione più tradizionale dell’intervento

pubblico nell’economia, lo Stato ha il compito di investire in imprese e società che operano in

settori ritenuti strategici e/o che non possono essere lasciati alla proprietà di privati a causa di

fallimenti del mercato1. La selezione delle imprese in cui investire, in quest’ottica, dipende da

valutazioni riguardanti lo specifico settore industriale (ad esempio, mantenere la produzione

Una versione ampliata di questo lavoro verrà pubblicata su Giurisprudenza Commerciale. Unaversione preliminare, invece è stata presentata al seminario Cambiamento tecnologico e impatto sociale:

strumenti per riprenderne il governo, Fondazione Lelio Basso – Forum Diseguaglianze e Diversità, Gran SassoScience Institute, l’Aquila, 15 novembre 2018. Ringraziamo Fabrizio Barca, Edoardo Reviglio, Francesco Vella,tutti i partecipanti al seminario e, infine, Renzo Costi per gli utili suggerimenti. Delle opinioni espresse siamoovviamente i soli responsabili.

1� Ovviamente, lo Stato potrebbe anche svolgere il ruolo di regolatore, non solo di proprietario, cosa che

tipicamente accade in settori in cui esistono monopoli naturali o fallimenti del mercato; inoltre, la presenza dipartecipazioni azionarie o interventi diretti in attività economiche non escludono stimoli macroeconomici efiscali di altro tipo. Nella prassi, anche considerazioni politiche di breve termine (ad esempio, mantenere in vitaun vettore aereo nazionale, ancorché gestito in perdita) possono essere alla base dell’investimento in determinateimprese o settori, spesso sotto le mentite spoglie di considerazioni strategiche o economiche.

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metallurgica o estrattiva nel Paese), ovvero l’impossibilità di assicurare un mercato

concorrenziale ed efficiente di un determinato servizio o prodotto (ad esempio, a causa di

economie di scala che giustificano un monopolio naturale)2.

Di recente, si sta facendo strada la consapevolezza che lo Stato potrebbe selezionare e gestire

gli investimenti in partecipazioni azionarie secondo una logica diversa, che non si concentra

solo sull’obiettivo di realizzare politiche settoriali o risolvere fallimenti del mercato. Lo

Stato, in particolare, potrebbe organizzare le partecipazioni societarie al fine di perseguire

obiettivi di sistema (mission oriented policies) di lungo periodo (ad esempio: la transizione

“verde” del Paese, lo sviluppo tecnologico nelle città al servizio dei cittadini, oppure politiche

sociali o abitative) e che richiedono il coinvolgimento e la messa a sistema di vari soggetti,

tanto pubblici quanto privati. In quest’ottica, i frutti di questo coordinamento potrebbero non

vedersi immediatamente e potrebbero emergere anche a distanza di molto tempo.3

Le politiche pubbliche per obiettivi, quindi, potrebbero aprire nuovi mercati e indicare la

direzione futura agli investimenti e alla crescita anche del settore privato. In quest’ottica, di

conseguenza, spetta a soggetti pubblici il compito di individuare le politiche e gli obiettivi,

ma la loro attuazione nel tempo potrebbe essere affidata a soggetti sia pubblici sia privati. Il

punto è che anche gli investimenti e le scelte produttive di imprese private, quando inserite

nella logica delle mission, dovrebbero essere orientate dalle strategie pubbliche decise a

monte e dagli impulsi di soggetti.

Le politiche pubbliche per obiettivi richiedono la presenza di un soggetto pubblico, o

comunque legato al circuito politico, che le attui attraverso partecipazioni in imprese private,

di solito trattandosi di holding o di banche di investimento. Ovviamente, l’equilibrio ottimale

tra proprietà pubblica e proprietà privata varia e deve essere individuato caso per caso,

dipendendo essenzialmente dal rapporto tra possibili fallimenti del mercato (dovuti ad

asimmetrie informative) e fallimenti pubblici (spesso dovuti a rendite legate al potere

2

� Cfr. A. OGUS, Regulation, Oxford, 1994, 31.

3� Si veda M. MAZZUCATO From market fixing to market-creating: a new framework for innovation

policy, Industry and Innovation (2016) 140; M. MAZZUCATO, Mission-oriented innovation policy and dynamic

capabilities in the public sector, IIPP Working paper, P 2018-05. Sulla possibilità di orientare l’interventopubblico non solo al fine di evitare fallimenti del mercato si veda già Ogus (nt. 2) 33.

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d’imperio dello Stato)4. Peraltro, ogniqualvolta lo Stato agisca come proprietario di mezzi di

produzione attraverso holding pubbliche, si pongono due obiettivi tra loro contrastanti: (a) in

primo luogo, occorre garantire un legame anche formale tra il “braccio” dello Stato che

detiene la proprietà azionaria e il circuito politico-democratico, ossia il governo (in maniera

non dissimile dal problema che sorge riguardo alle autorità indipendenti5); (b) in secondo

luogo, una regolamentazione ottimale deve far sì che le scelte di investimento e industriali

della holding cui sono affidate le partecipazioni statali non siano assoggettate agli obiettivi di

breve termine o meramente elettoralistici del ceto politico al potere in un dato momento. La

regolazione ottimale delle holding pubbliche, quindi, si colloca tra queste Scilla e Cariddi: da

un lato garantire la democraticità del sistema, dall’altro evitare la cattura da parte di un ceto

politico che non vede al di là del proprio tornaconto elettorale.

In Italia, anche dopo le privatizzazioni degli anni Novanta6, lo Stato continua a detenere

partecipazioni anche di controllo in numerose società per azioni. Questi pacchetti azionari

sono in parte detenuti direttamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e in parte

sono di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, la quale non solo fornisce finanziamenti a

enti pubblici e privati, ma detiene partecipazioni in numerose società di rilievo. Pertanto, è

proprio la Cassa Depositi e Prestiti il candidato naturale a svolgere il ruolo di “braccio” delle

politiche pubbliche per obiettivi dello Stato (e, in ultima istanza, della sua politica

industriale).

2. La Cassa Depositi e Prestiti come holding pubblica. – Una serie continua di riforme nel

corso degli ultimi due decenni ha progressivamente accresciuto la possibilità della CDP di

agire come holding pubblica7, accanto alla sua tradizionale funzione di finanziatore degli enti

4� J.E. STIGLITZ, Il ruolo economico dello Stato, Bologna, 1992, 61 – 66.

5� Cfr. G. NAPOLITANO, Regole e mercato nei servizi pubblici, Bologna, 2005, 99 ss.

6� Per una sintesi si veda, ad esempio: F. BARCA – S. TRENTO, La parabola delle partecipazioni

pubbliche: una missione tradita, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, a cura di F. Barca,1997, 230 ss.

7� Il d.lgs. 284/1999, art. 1, comma 2, consentiva alla Cassa (allora ancora ente pubblico) di detenere

partecipazioni anche di controllo in società di capitali che fossero funzionali ad attività “strumentali, connesse oaccessorie ai suoi compiti istituzionali”. La l. 448/2001, art. 47 (la legge finanziaria per il 2002) rimosse ilvincolo di strumentalità delle partecipazioni detenute., pur assoggettando le partecipazioni al vincolo

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locali e di banca pubblica d’investimento. L’assunzione di questa funzione di holding

pubblica viene favorita dalla qualificazione della Cassa come intermediario finanziario8, ai

sensi dell’art. 107 TUB9, nonostante la sua natura oggettivamente bancaria10, qualificazione

che la legge operò al fine di sottrarre la CDP ai limiti stringenti alla detenzione di

partecipazioni industriali che si applicano alle banche11. In particolare, al momento della

privatizzazione o negli anni immediatamente successivi, lo Stato ha trasferito alla CDP a

titolo oneroso alcune partecipazioni in imprese di rilievo strategico12. Tali partecipazioni,

qualora mirino a perseguire gli obiettivi fondamentali di CDP, vengono incluse nel sistema

separato di gestione a fini contabili e organizzativi13. A partire dal 2011, infine, la CDP può

utilizzare la provvista derivante dal risparmio postale per acquistare partecipazioni in imprese

dell’interesse generale e vietando l’acquisto di nuove partecipazioni che fossero di controllo. Questi vincolivennero rimossi con la trasformazione della Cassa in s.p.a. con il d.l. 30/9/2003, n. 269/2003, art. 5 (convertitodalla l. 326/2003), che rappresenta ancora la norma fondamentale che disciplina la Cassa, ancorché più voltemodificata. Infine, la possibilità di acquistare partecipazioni venne ampliata dal d.l. 34/2001, art. 7 (convertitocon l. 75/2011). Si veda G. DELLA CANANEA, La societò per azioni Cassa Depositi e Prestiti, i n Giorn. Dir.

Amm., 2004, 358 ss.; M. CARDI, Cassa Depositi e Prestiti e Bancoposta – Identità giuridiche in evoluzione, Bari,2012, 123 ss.; A. DONATO, Il ruolo di holding di Cassa Depositi e Prestiti s.p.a.: profili giuridici attuali della

gestione di partecipazioni come strumento di politica industriale, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2015, 370s.

8� D.l. 269/2003, art. 5, comma 6.

9� D.lgs. 385/2003, Testo Unico in Materia Bancaria e Creditizia.

10� R. COSTI, L’ordinamento bancario5, Bologna, 2012, 239.

11� DONATO (nt. 7) 374.

12� Le prime partecipazioni azionarie furono trasferite dallo Stato (in attuazione del d.l. 269/2003, art. 5 e

art. 8) con d.m. 5.12.2003 (10,35% di Enel s.p.a., 10% di Eni s.p.a., 35% di Poste Italiane s.p.a.). A seguito dinumerose vicissitudini, attualmente CDP partecipa in numerose società, anche attraverso sub-holding (Fintecnas.p.a., CDP Equity s.p.a., CDP Immobiliare s.p.a., SACE sp.a., CDP Reti s.p.a.). Il quadro complessivo attualelo si può venedre sul sito: https://www.cdp.it/chi-siamo/dati-societari/partecipazioni/partecipazioni.kl. Per unaricostruzione storica si veda: M.G. FANTINI, La “straordinaria mutazione del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti

nel passaggio dello Stato azionista allo Stato investitore, federalismi.it, 16 novembre 2018.

13� D.l. 269/2003, art. 5, comma 8. Questa “gestione separata” comprende le attività finalizzate a

perseguire gli obiettivi di cui all’art. 5, comma 7(a) del D.l. 269/2003, ossia il finanziamento attraverso fondiderivanti dall’emissione dei titoli di risparmio postale e di altri titoli normalmente assistiti da garanzia delloStato, di: (a) Stato e enti pubblici; (b) altre operazioni di interesse pubblico previste nello statuto di CDP. È utilericordare che la gestione separata non rappresenta una vera segregazione patrimoniale che protegge tali assets

dalle pretese degli altri creditori di CDP: F.M. MUCCIARELLI, Ma cos’è diventata la Cassa Depositi e Prestiti, inMercato Concorrenza e regole, 2004, 355, 362.

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strategiche, nel qual caso le partecipazioni così acquistate sono contabilizzate nella gestione

separata14.

Con riguardo all’idoneità della CDP a perseguire politiche pubbliche per obiettivi, è

interessante notare che essa già adesso persegue obiettivi “alti”, ossia orienta la propria

azione ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall’ONU15, così come specificati nei

Principi di Corporate Governance e Investimento Responsabile della stessa CDP16.

In questo contesto, si pone l’interrogativo se sia opportuno accettare compiutamente questa

trasformazione del ruolo di CDP e formalizzarne il ruolo di holding pubblica destinata e

essere la cinghia di trasmissione di politiche industriali, quasi fosse una nuova IRI. Allo stato

attuale, peraltro, la disciplina della CDP non pare possa essere posta seriamente in

discussione e mutata radicalmente. Infatti, Eurostat qualifica la CDP tra gli “intermediari

finanziari”, in quanto sostiene la parte principale del rischio d’impresa e gestisce le proprie

attività a condizioni di mercato. In particolare, la garanzia dello Stato a vantaggio della

raccolta postale è solo sussidiaria, con la conseguenza che lo Stato si rivarrebbe sul

patrimonio di CDP, la quale potrebbe astrattamente fallire. Pertanto, come gli enti omologhi

francesi e tedeschi, CDP è esterna al perimetro della pubblica amministrazione e, quindi, al

debito dello Stato. Di conseguenza, il risparmio postale è stato sottratto all’area del debito

pubblico e viene qualificato come prestito tra privati. Qualsiasi intervento che accentui la

natura pubblicistica della CDP e la possibilità di compiere interventi economici non di

mercato rischierebbe di violare la disciplina della UE sugli aiuti di stato e, soprattutto, di farle

oltrepassare la linea sottile che la separa dal perimetro della Pubblica Amministrazione, con

rischi evidenti per il debito pubblico italiano.

Ciò nonostante, è un fatto che la CDP abbia assunto, direttamente o attraverso società

controllate, il ruolo di holding pubblica anche in settori diversi da quelli strettamente

funzionali alla propria attività essenziale (come la partecipazione in Poste S.p.a.). Già adesso,

quindi, la CDP detiene partecipazioni anche di controllo in settori strategici in cui lo Stato

ritiene sia necessario un proprio intervento propulsivo, sia pure all’interno delle regole del

14� D.l. 269/2003, art. 5, comma 8-bis, introdotto con d.l. 34/2011.

15� https://sustainabledevelopment.un.org/?menu=1300

16� https://www.cdp.it/chi-siamo/dati-societari/principi-di-corporate-governance/principi-di-corporate-

governance-e-investimento-responsabile.kl.

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mercato. Pertanto, anche nel quadro istituzionale attuale, senza mutarne la natura di market

unit privatistica, occorre individuare regole di governance che assicurino che la CDP sia in

grado di svolgere in modo efficace il ruolo indicato, nella ricerca di quell’equilibrio tra

accountability democratica ed esigenza di evitare la cattura della politica di cui si è detto in

precedenza. Più in particolare, si pone il problema di garantire, da un lato, che la CDP si

muova all’interno di una relazione trasparente con il circuito politico-democratico e,

dall’altro, che gli obiettivi di sistema da perseguire siano, da un lato, effettivamente tali e,

dall’altro, anche in funzione di ciò, sufficientemente stabili nel medio periodo.

3. Due esempi stranieri: Germania e Cina. - Tra i molti possibili, presentiamo di seguito, sia

pure in maniera sintetica, due esempi stranieri, ossia la Germania e la Cina, che ci pare

possano fornire utili termini di raffronto per comprendere come rendere il quadro

istituzionale della Cassa Depositi e Prestiti più coerente con le esigenze di cui si è detto.

3.1. Germania: la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) – Nella Germania Federale, sin dal

secondo dopoguerra la KfW è stata il “braccio” federale d’investimento. Dapprima essa

veicolò gli aiuti del piano Marshall17. Successivamente ha fornito supporto agli enti pubblici e

alle piccole e medie imprese tedesche. Sul piano strettamente giuridico essa è una una

fondazione di diritto pubblico, il cui capitale è fornito per l’80% dallo Stato Federale e per il

20% dai singoli Länder. Viene disciplinata da una legge ad hoc del 1948 (KfWGesetz) più

volte modificata. Le funzioni di KfW sono essenzialmente di finanziamento alle imprese

(soprattutto piccole e medie imprese e professionisti) o agli enti locali. In base alla legge

bancaria non viene considerata come una banca e si finanzia emettendo obbligazioni sul

mercato internazionale (offerte principalmente a investitori istituzionali), garantite dallo Stato

federale. Ai fini delle nostre riflessioni, è interessante notare che la KfW svolge un ruolo

essenziale anche nel perseguimento di obiettivi pubblici di sistema, quale soprattutto la

transizione ecologica del sistema industriale e delle infrastrutture. Essa, inoltre, può anche

assumere partecipazioni: in particolare, vennero attribuite a KfW le azioni di Deutsche

Telekom AG e Deutsche Post AG, in seguito alla privatizzazione di tali enti; essa detiene

ancora il 20% di Deutsche Post AG, oltre ad altre partecipazioni strategiche.

17� Cfr. A. GRÜNBACHER, The Early Years of a German Institution: The Kreditanstalt fiir Wiederaufbau in

the 1950s, in Business History, 2001, 68.

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La struttura degli organi di KfW rispecchia, sia pure con alcune peculiarità, il modello

dualistico delle società per azioni tedesche. L’organo amministrativo (Vorstand) ha il

compito di amministrare in via esclusiva il KfW e deve avere almeno due membri. Il secondo

organo è il Verwaltungsrat (consiglio amministrativo), che nomina il Vorstand e vigila sulla

sua attività. In pratica, il Verwaltungsrat ricopre lo stesso ruolo dell’Aufsichtsrat nel sistema

generale delle società anonime tedesche. È interessare riflettere sulla composizione di

quest’organo. Il numero di membri è molto elevato: 37 componenti. Tra essi siedono il

ministro delle finanze e il ministro dell’economia, che fungono da presidente dell’organo ad

anni alterni; inoltre, il Verwaltungsrat è composto da altri ministri e da membri nominati dal

Parlamento, dai sindacati e dall’associazione industriali. I componenti durano in carica tre

anni e ogni anno un terzo di essi è in scadenza18. Infine, la struttura del KfW contempla un

terzo organo, il Mittelstandrat (consiglio per le piccole e medie imprese), composto da

ministri ed esponenti nominati da Parlamento e ministeri. Il suo compito è di specificare le

linee operative della funzione, affidata alla KfW dallo Stato federale, di finanziare il ceto

medio e la piccola impresa; inoltre ha anche compiti decisionali sulle proposte di

finanziamento19.

3.2. La holding pubblica cinese. – Addurre l’esempio cinese come termine di paragone

potrebbe apparire poco utile, considerata la grande differenza istituzionale tra i due paesi.

Peraltro, proprio questa differenza profonda, oltre al ruolo che la Repubblica Popolare ha

ormai assunto di nuova potenza economica planetaria accanto agli Stati Uniti, rendono

interessante osservare come le partecipazioni pubbliche sono organizzate in quel paese. Lo

Stato cinese gestisce le proprie partecipazioni industriali attraverso un ente pubblico, che

possiamo indicare con la traduzione inglese di State-owned Assets Supervision and

Administration Commission (SASAC). La peculiarità è che si tratta di un’agenzia statale che

funge tanto da holding quanto da regolatore. Essa venne costituita nel 2003 al fine di

razionalizzare le partecipazioni pubbliche in mano allo Stato a seguito della privatizzazione

formale di aziende che in precedenza erano branche di ministeri.

18� KfWGesetz §7(2)

19� KfWGesetz, §7-bis.

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I suoi poteri come azionista e regolatore sono alquanto estesi20. Ad esempio, qualsiasi

trasferimento di azioni di società partecipate (escluse quelle destinate al mercato di borsa)

deve essere approvato da SASAC.21 Riguardo alle nomine di amministratori e management

delle società controllate da SASAC, sussiste in pratica un forte influsso del Partito Comunista

Cinese, tanto che i vertici delle società controllate dallo Stato o da enti pubblici sono

nominati secondo linee condivise con il Dipartimento Organizzazione del Partito. Peraltro,

vista la complessità e la dimensione dei conglomerati societari controllati da SASAC, non è

chiaro se e in che misura questo controllo dall’alto sia effettivo e pervasivo.22 Una peculiarità

formalizzata nella legge (SOE Assets Law 2009, § 22), peraltro, è il fatto che la SASAC

abbia il potere di nominare il management apicale (tra cui il CEO) delle partecipate, potere

che a rigore spetterebbe al consiglio di amministrazione.

Un’ulteriore peculiarità delle partecipate SASAC è la suddivisione delle azioni in tre classi,

di cui una necessariamente in mano allo Stato (le azioni dello Stato, ossia di SASAC, sono

chiamate “azioni dei fondatori”); è interessante notare come l’autorità di vigilanza sulle

società quotate cinese ha previsto che tutte le modifiche statutarie e le decisioni fondamentali

debbano essere approvate anche dagli azionisti che detengono le azioni di categoria speciale

destinate a SASAC attribuendo così allo Stato e alla SASAC un potere di veto (regolamento

del 2004). Allo stesso tempo, il medesimo regolamento prevede che gli azionisti di controllo

(ossia lo Stato e SASAC) siano investiti di doveri fiduciari anche verso gli altri azionisti. 23

Pertanto, possiamo concludere che, nonostante indubbie differenze del quadro istituzionale

complessivo, anche il legislatore cinese si posto il problema di disciplinare in maniera

20� C.J. MILHAUPT – M. PARGENDLER, Governance Challenges of Listed State-Owned Enterprises around

the World: National Experiences and a Framework for Reform, 50 Cornell Int’l L.J., 2017, 473, 524.

21� L.W. LIN – C.J. MILHAUPT, We Are the (National) Champions: Understanding the Mechanisms of

State Capitalism in China, 65 Stan. L. Rev., 2013, 697, 743.

22� C.J. MILHAUPT, W Zheng, Beyond Ownership: State Capitalism and the Chinese Firm, 103 Geo. L.J.,

2015, 665, 677.

23� N.C. HOWSON, Quack Corporate Governance as Traditional Chinese Medicine - The Securities

Regulation Cannibalization of China’s Corporate Law and a State Regulator’s Battle against Party State

Political Economic Power, 37 Seattle U. L. Rev., 2014, 667, 680; N.C. HOWSON, Regulatory interventions in

corporate governance and the financing of China’s “State Capitalism”, in Regulating the visible hand? : the

institutional implications of Chinese state capitalism, a cura di B.L. LIEBMAN – C.J. MILHAUPT, Oxford, 2016,49 ss.

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efficace la governance interna della holding pubblica, anche deviando da regole previste dal

diritto societario generale.

4. Stabilità e trasparenza degli obiettivi pubblici. – Per far sì che la CDP orienti in maniera

stabile e trasparente l’attività di finanziamento e le proprie partecipazioni azionarie a obiettivi

di sistema, è opportuno che la definizione stessa degli obiettivi sia efficacemente disciplinata

e che la stessa governance della CDP subisca alcune modifiche.

In primo luogo, gli obiettivi politici di sistema dovrebbero essere definiti in anticipo in

maniera trasparente e con procedure che li rendano sufficientemente stabili nel tempo. Gli

obiettivi di sistema, infatti, dovrebbero idealmente rappresentare gli orizzonti di lungo

periodo dell’evoluzione economica e sociale del Paese e dovrebbero orientare anche gli

investimenti privati per lungo tempo. Pertanto, non dovrebbero essere sottoposti a

fluttuazioni dettate da situazioni contingenti o da esigenze politiche elettoralistiche. A tal

fine, occorre disegnare meccanismi procedurali che lascino alla politica spazio di intervento

nella definizione degli obiettivi e nella verifica della loro attuazione degli obiettivi, ma che al

contempo le “leghino le mani”, per evitare finalità di breve termine o di mera creazione di

consenso.

In quest’ottica, sarebbe opportuno che gli obiettivi di sistema non fossero il prodotto della

visione di uno specifico governo o maggioranza parlamentare, bensì davvero obiettivi

condivisi dall’intera classe dirigente del paese e nell’interesse nazionale di lungo periodo. Da

questo punto di vista, il paragone con la Cina pare fruttuoso, ancorché probabilmente non

trasponibile nel nostro Paese. Nonostante che anche in Cina esistano fenomeni di corruzione

e inefficienze allocative, il controllo del PCC sull’economia consente di pianificare

investimenti per obiettivi con un orizzonte temporale estremamente lungo. In questo scenario

il SASAC rappresenta uno dei bracci con cui la pianificazione dell’economia si intreccia con

le logiche del mercato e dell’impresa privata. Osservando un sistema più vicino a noi, come

la Germania, notiamo che la KfW persegue, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una

“transizione verde” del sistema-Paese: si tratta di un esempio di politica pubblica per obiettivi

condivisa da tutta la classe dirigente del Paese indipendentemente dagli schieramenti.

Una possibile soluzione per garantire che gli obiettivi di sistema vengano individuati su

orizzonti lunghi e nel modo il più possibile imparziale potrebbe risiedere nel coinvolgere le

minoranze parlamentari nella definizione degli obiettivi stessi. Come vedremo, ad esempio, il

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 104

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MEF e il Governo dovrebbero assumere un ruolo cruciale nella declinazione degli obiettivi di

sistema ad uso della CDP (di seguito, “obiettivi della CDP”). Si potrebbe allora vagliare

l’ipotesi che gli obiettivi della CDP siano definiti dal MEF anche sulla base dell’assenso

della commissione parlamentare di vigilanza sulla CDP (che così muterebbe la propria

natura, da organo di controllo a organo anche propositivo) con maggioranze particolarmente

elevate. Ovviamente, questa proposta presenta delle possibili controindicazioni, soprattutto

considerando le attuali relazioni tra forze politiche, che potrebbero essere poco inclini a

trovare punti di mediazione o di caduta comuni, ed è quindi da vagliare con molta cautela.

Da un punto di vista procedurale, ci sembra che si possano delineare tre meccanismi

alternativi per definire gli obiettivi della CDP.

1) Il primo è di prevedere che tali obiettivi siano fissati nello statuto di CDP. A tal fine, in

base allo statuto di CDP, occorre una maggioranza rafforzata pari all’85% del capitale24,

cosicché, per poter introdurre gli obiettivi stessi, il MEF non può autonomamente imporre

una modifica statutaria e deve ottenere il voto favorevole di almeno una parte (ancorché

minoritaria) delle fondazioni bancarie socie di CDP25. Le fondazioni, quindi, devono essere

convinte che la scelta che stanno approvando sia compatibile con il vincolo di redditività,

quantomeno nel lungo periodo, o perlomeno con le funzioni obiettivo pro tempore loro

proprie. La soluzione di introdurre gli obiettivi in statuto renderebbe stabili gli obiettivi stessi.

Per evitare, d’altro canto, che gli obiettivi siano eccessivamente stabili (in relazione al fatto

che, in mancanza di accordo sulla loro modifica, la CDP potrebbe vedersi obbligata

staturiamente a perseguire obiettivi obsoleti e potenzialmente non più condivisi dalle istanze

politiche), potrebbe essere opportuno sembra necessario introdurre una sunset clause degli

obiettivi medesimi: decorso un certo termine senza che la clausola sia modificata o

riconfermata, essa perderebbe efficacia.

2) La seconda opzione è di prevedere che gli obiettivi di sistema siano fissati con atto di

indirizzo dell’assemblea di CDP, ossia senza una modifica statutaria e con maggioranza

semplice. Se si seguisse questa strada, sarebbe necessario introdurre una norma di legge ad

hoc al fine di derogare al riparto di competenze tra assemblea e amministratori di spa previsto

nel codice civile. Questa opzione non richiedebbe al MEF di ottenere il consenso delle

24� Art. 14(2) Statuto CDP.

25� Attualmente la compagine azionaria di CDP è così composta: MEF 82,77%; fondazioni bancarie

15,93%; azioni proprie 1,30%.

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fondazioni bancarie per determinare gli obiettivi stessi e, ovviamente, renderebbe tali

determinazioni meno rigide. Al fine di rendere gli obiettivi di sistema più stabili, la stessa

legge che prevede il potere dell’assemblea ordinaria di CDP – in deroga al riparto di

competenze previsto dal codice civile - dovrebbe anche prevedere un intervallo di tempo

minimo, prima del quale i soci e gli organi sociali non possano fare nuove proposte al

riguardo.

3) Da ultimo, si potrebbe scegliere di individuare gli obiettivi della CDP con un atto

normativo, ad esempio un decreto del MEF oppure del Presidente del Consiglio dei Ministri a

seguito di delibera dell’intero Consiglio. Se si seguisse questa strada, sarebbe opportuno

prevedere (con norma di legge) che il decreto in questione possa essere modificato solo

decorso un intervallo di tempo minimo (es. 5 anni) e che sia possibile una modifica anticipata

solo a seguito del voto favorevole della commissione parlamentare di controllo su CDP con

maggioranze tali da coinvolgere necessariamente le opposizioni. Il difetto di questa

soluzione, peraltro, è di non essere rispettosa dell’autonomia della CDP e della posizione dei

soci di minoranza. D’altro canto, occorre tenere presente che già adesso il MEF ha importanti

poteri di indirizzo della gestione separata della Cassa, comprese le partecipazioni azionarie, e

che le decisioni della CDP inerenti alle partecipazioni devono essere concordate con il MEF

stesso26.

Quale che sia la procedura per definire gli obiettivi della CDP, di sicuro questa

formalizzazione renderebbe più agevole alla CDP dare conto del proprio operato alle Camere.

Attualmente, la CDP deve riferire annualmente a una Commissione Parlamentare di vigilanza

sulla CDP, composta di membri di Camera e Senato, oltre a esponenti della Corte dei Conti e

del Consiglio di Stato27. Già è prevista una relazione sul ruolo di CDP per lo sviluppo

infrastrutturale del Paese e una per lo sviluppo sostenibile dei territori. Si potrebbe

ovviamente ampliare lo spettro delle relazioni, aggiungendone una sull’attuazione degli

obiettivi della CDP. L’interrogativo di fondo, naturalmente, è se questa relazione alla

Commissione possa davvero servire e se davvero aumenti la accountability della CDP, in

considerazione del grado di attenzione che sulla medesima ci si può attendere dai suoi

destinatari ufficiali e dai mass media.

26� D.l. 269/2003, art. 5, comma 11 (attuato da d.m. 18 giugno 2004 n. 59627)

27� R.D. 453/1913, art. 3.

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In tutte e tre le soluzioni alternative che abbiamo illustrato, spetterebbe al MEF il ruolo di

promuovere e approvare gli obiettivi della CDP, vuoi come azionista di maggioranza (opzioni

1 e 2), vuoi direttamente approvando le politiche per decreto (opzione 3). In generale,

peraltro, considerando la rilevanza strategica delle politiche pubbliche per obiettivi, ci sembra

opportuno che sia coinvolto anche il Governo nel suo complesso: ad esempio, sarebbe

opportuno prevedere che le azioni del MEF come azionista di CDP e riguardanti le politiche

pubbliche per obiettivi debbano seguire una deliberazione del Consiglio dei Ministri. In ogni

caso, ci sembra importante far sì che il MEF e il Governo non possano modificare le scelte

sugli obiettivi di sistema, né tanto meno gli obiettivi della CDP, prima di un congruo lasso di

tempo (3 o 5 anni ad esempio) e che, per modificarli prima della scadenza, sia necessario

coinvolgere le minoranze politiche rappresentate in Parlamento, ad esempio attraverso il voto

favorevole della Commissione Parlamentare con maggioranze rafforzate. Non ci si nasconde,

peraltro, che la forza bruta della politica potrebbe sempre nei fatti imporre di ignorare gli

obiettivi già formalizzati.

Infine, ci sembra necessario che la selezione delle politiche e degli obiettivi di sistema e, per

quel che qui più interessa, degli obiettivi della CDP non si svolga nelle segrete stanze del

MEF o del Parlamento, ma che avvenga a seguito di un procedimento aperto e trasparente,

che coinvolga il più possibile i vari stakeholders coinvolti (sindacati, associazioni

rappresentative dei datori di lavoro, associazioni professionali), sulla falsariga di quanto

prevedono le OECD Guidelines on Corporate Governance of State-Owned Enterprises28.

5. Governance della CDP e regole di trasparenza. – 5.1. Governance. – Riguardo alla

governance della CDP, sorge il problema di garantire tanto il legame tra CDP e la politica (in

un’ottica di medio-lungo termine) quanto l’autonomia decisionale degli organi della CDP

nell’attuazione delle politiche di sistema. In sostanza, un assetto ottimale dovrebbe attribuire

in maniera chiara alla politica il compito di definire le politiche di sistema secondo un

orizzonte di medio-lungo periodo e agli amministratori un ruolo attuativo e di gestione.

Attualmente, per l’amministrazione della gestione separata il cda di CDP viene integrato29 dal

ragioniere dello Stato, dal direttore generale del Tesoro e da tre esperti in materie finanziarie,

28� OECD Guidelines on Corporate Governance of State-Owned Enterprises (2015) 23.

29� Art. 5(1) dl 269/2003.

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scelti da terne presentate dalla Conferenza dei presidenti delle giunte regionali, dall’UPI,

dall’ANCI e nominati con decreto del Ministro del tesoro in rappresentanza, rispettivamente,

delle regioni delle province e dei comuni30. Tali soggetti, però, non hanno diritto di voto

“sulle decisioni riguardanti la gestione delle partecipazioni detenute da CDP S.p.A. in società

controllate che gestiscono infrastrutture di rete di interesse nazionale nel settore dell’energia e

nelle loro società controllanti.”31 Di conseguenza, per le questioni attinenti alla gestione

separata, il cda di CDP è composto da quindici membri, di cui sei espressione dell’azionista

di maggioranza (il tesoro), tre degli azionisti di minoranza coalizzati e sei esterni nominati

secondo le regole appena indicate. Di conseguenza, già adesso per le questioni attinenti alla

gestione separata il MEF è in grado di controllare solo una minoranza di consiglieri.

Riguardo al legame col circuito politico, potremmo trarre qualche insegnamento dall’esempio

della KfW, in cui alcuni ministri federali partecipano al Verwaltungsrat, pur essendo privi di

deleghe. In questo caso, è evidente come la KfW (che tra l’altro è fondazione di diritto

pubblico, non una società con anche azionisti privati) si presenti come “braccio” di scelte

squisitamente politiche. Peraltro, considerando l’attuale clima politico italiano e l’esigenza di

evitare che CDP divenga preda di obiettivi elettoralistici del ceto politico, invece che

strumento di pianificazione sul lungo periodo, ci sembra preferibile evitare una soluzione che

immetta direttamente ministri nel cda di CDP. Infatti, anche se privo di deleghe, il ministro

avrebbe sicuramente una voce che gli altri amministratori non potranno non ascoltare.

Una soluzione per rendere gli amministratori più autonomi dalle fluttuazioni politiche

potrebbe essere di prevedere lo scaglionamento dei loro mandati, sul modello di quanto

previsto per la KfW tedesca. Precisamente, si potrebbe prevedere che un terzo di loro scada

ogni anno, in maniera tale che gli amministratori non vengano sostituiti tutti insieme. Se si

accogliesse questa soluzione, peraltro, diverrebbe necessario anche prevedere che gli

amministratori non siano revocabili se non per giusta causa, perché in caso contrario lo

scaglionamento dei mandati avrebbe scarsa utilità. Questa regola dovrebbe essere introdotta

necessariamente con una norma di legge, perché rappresenterebbe una significativa

deviazione dal diritto societario vigente, che prevede al contrario come principio generale di

tutte le società che l’assemblea possa revocare gli amministratori senza alcuna giustificazione

30� L. 13 maggio 1983, n. 197, art. 7, comma 1, lettere c), d) e f).

31� Statuto CDP, art. 15(2)

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e che gli amministratori revocati senza una giusta causa abbiano solo diritto al risarcimento

del danno. Inoltre, in tale norma di legge si potrebbe prevedere un mandato rigido (almeno 3

anni, ma si potrebbe pensare di estenderlo sino a 6). Infine, si potrebbe valutare di

assoggettare la delibera di revoca ai quorum rafforzati previsti attualmente per le modifiche

statutarie, in maniera tale che la revoca possa essere deliberata solo se sussiste l’assenso (di

almeno una parte) delle fondazioni (oltre alla giusta causa). Una simile forma di isolamento

del board dai soci riprende, sia pure in parte, quanto avviene nel diritto societario del

Delaware e in quello tedesco. In Delaware, se lo statuto di una società prevede lo staggered

board, salvo che lo statuto disponga diversamente, gli amministratori possono essere revocati

solo con giusta causa32. In Germania, invece, l’isolamento degli amministratori

dall’assemblea nelle Aktiengesellschaften dipende dal modello dualistico: gli amministratori

sono nominati dal Consiglio di Sorveglianza, che può revocarli solo per un giustificato

motivo (sussistente peraltro in caso di voto di sfiducia dell’assemblea)33.

Il diritto societario tedesco potrebbe rappresentare un modello più in generale, proprio perché

il modello dualistico isola al massimo grado gli amministratori dall’assemblea dei soci. Di

conseguenza, al fine di rendere gli amministratori di CDP più indipendenti dai soci, si

potrebbe pensare di assoggettare la CDP al sistema dualistico, trasponendo l’attuale

composizione allargata del cda, descritta in precedenza, al consiglio di sorveglianza. Questa

proposta non scardina gli equilibri di potere e la partecipazione di altri stakeholder al governo

della società, partecipazione che anzi risulterebbe razionalizzata (nel consiglio di

sorveglianza siedono gli stakeholder, nel consiglio di gestione i pochi amministratori). In tale

maniera la governance della CDP diverrebbe molto simile a quella della KfW. Ovviamente,

occorrerebbe adattare il meccanismo di scaglionamento da noi proposto al modello dualistico

e prevedere un meccanismo simile a quello previsto in generale per le Aktiengesellschaften

tedesche per la revoca degli amministratori solo con giusta causa (vedi sopra). Da valutare è

se prevedere una composizione differenziata per le materie che non coinvolgono la gestione

separata (come attualmente) o se, alternativamente, proporre una riforma più radicale, ossia

che il consiglio di sorveglianza abbia composizione allargata a membri esterni per qualsiasi

materia.

32� Delaware General Corporation Law §141(k).

33� Aktiengesetz §84(3) and §103.

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L’esigenza di garantire l’indipendenza dei membri del cda affiora nello Statuto di CDP, in cui

si può leggere che almeno due amministratori debbano avere caratteristiche di indipendenza,

“qualora la normativa applicabile lo richieda”34. Questa previsione è molto importante e, a

nostro avviso, andrebbe precisata ed estesa. Si potrebbe prevedere, ad esempio, che almeno

due amministratori debbano avere necessariamente i requisiti di indipendenza previsti dal

codice di autodisciplina di Borsa Italiana, ancorché la CDP non sia quotata, eliminando la

previsione che gli amministratori indipendenti sono necessari solo quando la normativa lo

richiede. Ovviamente, qualora si decidesse di far adottare a CDP il modello dualistico, gli

amministratori “indipendenti” dovrebbero sedere nel consiglio di sorveglianza.

Infine, potrebbe essere utile che all’interno del cda si formasse un comitato per l’attuazione

degli obiettivi pubblici di sistema. Tale comitato dovrebbe avere tra i suoi compiti

l’implementazione delle politiche per obiettivi e il monitoraggio della loro realizzazione. In

tale comitato dovrebbe essere presente almeno un amministratore indipendente e un

amministratore non nominato dal MEF (quindi tra quelli nominati dalle fondazioni o tra

quelli esterni). Ovviamente, qualora la CDP adottasse il modello dualistico, un simile

comitato dovrebbe essere costituito nel consiglio di sorveglianza.

5.2. Trasparenza. – Uno dei problemi più rilevanti per la CDP è il rischio che la politica

influisca sulle sue scelte in maniera informale e non trasparente. Quali che siano le scelte

compiute riguardo ai rapporti tra politica e CDP, è necessario che essi avvengano il più

possibile alla luce del sole. Sorge, quindi, il problema di assicurare la massima trasparenza

sui rapporti tra esponenti CDP ed esponenti del Governo. Una prima soluzione potrebbe

essere di richiedere che gli esponenti della CDP e del Governo comunichino solo attraverso

atti soggetti a pubblicità e rispetto ai quali, quindi, i cittadini possano richiedere ufficialmente

l’accesso agli atti in base alla legge 241/1990.

Peraltro, ci si potrebbe chiedere se sia davvero necessario porre i cittadini di fronte alla

necessità di compiere una richiesta formale di accesso agli atti per poter conoscere le

comunicazioni tra il Governo e la CDP. In particolare, si potrebbe esplorare la possibilità di

creare una directory pubblica sul sito di CDP, o in un sito internet ad hoc, attraverso la quale i

cittadini (inclusa la stampa) possano accedere alle interazioni tra membri del Governo ed

esponenti CDP.35

34� Statuto CDP Art. 15(4)

35

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6. Rapporti con le società partecipate e con investitori privati. – 6.1. Rapporti con le società

partecipate. – La CDP opera attraverso società partecipate, le quali dovrebbero essere

coordinate anche al fine di realizzare obiettivi e politiche di sistema. Qualora una società

partecipata venga utilizzata da CDP come strumento per realizzare politiche di sistema, si

potrebbe esplorare l’ipotesi di far sottoscrivere ad essa e a CDP un “contratto di missione”,

quantomeno se la società partecipata non è quotata (mentre per le società quotate questa

soluzione è molto più problematica). Stipulando un contratto di missione la società si

impegnerebbe a perseguire gli obiettivi di sistema o, quantomeno, a tenerne conto. È chiara

l’assonanza tra un simile contratto e i “contratti di dominio”, con cui una società si impegna

verso un’altra a seguirne le direttive (nel qual caso scatterebbe la disciplina sull’attività di

direzione e coordinamento prevista dal codice civile a protezione dei soci e dei creditori delle

società “dominate”). A tal fine, è utile ricordare come nell’ordinamento italiano si discuta

ancora se i contratti di dominio – a fronte di un dato normativo ambiguo – siano legittimi,

tanto che parte della dottrina considera ammissibili solo i contratti in cui la società

“dominata” mantenga comunque la libertà di valutare la convenienza delle indicazioni

fornite dalla capogruppo (c.d. “contratti di dominio deboli”)36.

I contratti di missione qui proposti non sono assimilabili in toto ai contratti di dominio, ma

probabilmente sono legittimi solo nei limiti in cui sono ammessi in generale i contratti di

dominio deboli, ossia se la società partecipata mantiene uno spazio di discrezionalità nel

valutare la convenienza delle indicazioni della CDP. Il medesimo obiettivo può essere

ottenuto anche nei confronti di società in cui la CDP non detiene alcuna partecipazione, ma

cui fornisce un finanziamento o una garanzia: in tal caso si potrebbe inserire una “clausola di

missione” nel financial agreement, come un normale covenant.

6.2. Rapporti con investitori privati. – Se la CDP intende utilizzare le società partecipate e, in

particolar modo, società quotate, come strumento per realizzare politiche di sistema, si pone il

problema della possibile discrasia tra interessi degli altri soci, tipicamente investitori

� Per una proposta analoga riferita alla Consob (e in generale alle autorità indipendenti) cfr. L. ENRIQUES,La governance delle autorità di vigilanza dei mercati finanziari: teoria, strategie normative e un’applicazione

alla Consob, in Giur. Comm., 2013, 1153, 1172.

36� Il dibattito sul tema è sterminato e non può essere riferito compiutamente in questa sede. Per una

sintesi (anche in relazione all’art. 4497 septies c.c., che presume l’attività di direzione e coordinamento inpresenza di “un contratto con le società medesime o di clausole dei loro statuti”) si veda: N. RONDINONE, Società

(gruppi di), i n Digesto delle discipline privatistiche, sezione commerciale, aggiornamento n.5, Torino, 2009,607 – 608.

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istituzionali, a massimizzare la redditività dell’investimento e gli obiettivi di sistema

perseguiti da CDP attraverso la società partecipata. In astratto, potrebbe sembrare impossibile

conciliare il perseguimento degli obiettivi pubblici con gli interessi dei soci di minoranza,

considerando anche che l’interesse a massimizzare l’utile è rilevante anche sul piano

normativo, essendo lo scopo tipico delle società secondo l’ordinamento italiano. Si tratta di

un problema di difficile soluzione, anche perché investitori privati quali fondi pensione o gli

altri investitori istituzionali hanno come proprio obiettivo statutario o contrattuale la

massimizzazione del profitto per conto dei propri clienti e, quindi, investiranno solo in

società ritenute redditizie.

Peraltro, è un dato di fatto che spesso gli investitori istituzionali prestano attenzione a fattori

ambientali, sociali e di governance (Environmental, Social and Governance Factors, o

“ESG”) nel prendere decisioni di investimento. In altri termini, molti investitori istituzionali

orientano i loro investimenti anche tenendo conto di simili fattori. Pertanto, non è affatto

impensabile che vi siano convergenze di vedute tra la CDP, che mira a perseguire obiettivi

pubblici, e investitori istituzionali.

Benché la nozione di ESG presenti tratti di ambiguità37, in pratica si tratta di un ombrello che

racchiude svariate finalità o caratteristiche di investimento. È interessante notare che i

“Principles for Responsible Investment” dell’ONU38 vengono sottoscritti da molti investitori

istituzionali, tanto Europei quanto americani39. Che questo tema sia piuttosto sentito lo

testimonia anche il recente piano d’azione Financing Sustainable Growth (2018) della

Commissione Europea, che intende, tra l’altro, orientare i doveri degli investitori istituzionali

e degli asset managers verso obiettivi di sostenibilità ambientale (si veda anche il progetto di

regolamento 2018 che attua, sia pure in parte, i propositi dell’action plan).40

37� M.M. SCHANZENBACH – R.H. SITKOFF, The law and economics of environmental, social and

governance investing by a fiduciary, Harvard John Olin Centre for Law Economics and Business, DiscussionPaper 971/2018 (https://ssrn.com/abstract=3244665).

38� Si veda: https://www.unpri.org/about/the-six-principles.

39� Si veda: https://www.unpri.org/directory.

40� Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio, Bruxelles, 24.5.2018, COM(2018)

354 final, 2018/0179 (COD).

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Gli obiettivi pubblici, di cui la CDP dovrebbe farsi interprete e strumento traducendoli nei

propri obiettivi mission-oriented, non coincidono necessariamente con l’ESG in senso

tradizionale. Peraltro, è evidente la somiglianza tra le due sfere, perché in entrambi i casi gli

investitori istituzionali sono posti di fronte all’interrogativo se orientare il proprio

investimento o le proprie scelte come azionisti “attivi” anche tenendo conto di fattori che non

sono esclusivamente riconducibili alla redditività dell’investimento. In questo scenario,

potrebbe essere opportuno che la CDP traducesse gli obiettivi di missione del Governo in

altrettanti principi/obiettivi di ESG, previo (e contestualmente a un) dialogo con gli

investitori istituzionali per saldare le politiche mission-oriented all’aspirazione degli

investitori istituzionali ad avere società partecipate con buone politiche di ESG (considerando

ovviamente la redditività di medio-lungo periodo dell’investimento).

A tale proposito, è opportuno sottolineare come gli obiettivi pubblici non siano

necessariamente in contrasto con la ricerca di investimenti redditizi da parte di investitori

istituzionali che investono nelle società quotate controllate da CDP. La redditività e il rischio

di un investimento dipendono anche dagli scenari futuri prodotti (su un tempo medio-lungo)

dall’investimento stesso. La logica delle politiche pubbliche per obiettivi risiede nella

capacità di creare nuove possibilità di investimento e sviluppo, di aprire nuove strade e nuovi

mercati, e anche tali effetti devono essere considerati nel calcolare la redditività

dell’investimento.

Infine, si noti che se gli investitori istituzionali partecipano al capitale di più società che

operano nel medesimo settore, essi troveranno redditizi gli investimenti in R&D,

potenzialmente anche sulla base di piani pubblici, sia pure qualora producano vantaggi per

altre società del medesimo settore e non producano vantaggi immediati o sicuri per la società

che li compie. Questo proprio in ragione delle partecipazioni orizzontali (horizontal

shareholding) che consentono comunque di catturare a livello di portafoglio i vantaggi che

eventualmente chi sostenesse i costi degli investimenti improntati a logiche di sistema

potrebbe non essere in grado di fare propri.41

7. Conclusioni. – La Cassa Depositi e Prestiti da alcuni anni ha affiancato al ruolo

tradizionale di banca pubblica d’investimento quello di holding detentrice di partecipazioni

41� Cfr. M. ANTON – F. EDERER – M. GINE – M.C. SCHMALZ, Innovation: The Bright Side of Common

Ownership?, 2018, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3099578.

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societarie. Nel rispetto dei requisiti che le consentono di non essere classificata tra le

pubbliche amministrazioni da parte di Eurostat, la Cassa potrebbe, quindi, essere il veicolo di

politiche pubbliche per obiettivi. A tal fine, peraltro, è perlomeno opportuno rivedere la sua

governance interna e i legami istituzionali con il ceto politico. Occorre, precisamente, trovare

un equilibrio tra due obiettivi, potenzialmente divergenti: da un lato, l’esigenza di legare la

CDP al circuito politico-democratico; dall’altro, evitare il più possibile la “cattura” da parte

di interessi politici elettoralistici o, peggio, clientelari. Un adeguato insieme di regole

organizzative che disciplinino il ruolo del MEF così come quello degli organi sociali

potrebbe consentire l’avvio di una nuova fase della vita di CDP e delle politiche industriali

italiane. Ovviamente, l’effetto pratico di queste proposte – se effettivamente realizzate – in

larga misura dipenderà dalle scelte concrete del ceto politico e dalla sua complessiva qualità.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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L’impatto sociale della produzione di scienza su larga scala: come governarlo?1

Massimo Florio1 e Francesco Giffoni

2

1Università degli Studi di Milano

2CSIL - Centre for Industrial Studies, Milano e Università degli Studi di Milano

Seminario: Cambiamento tecnologico e impatto sociale: strumenti per riprenderne il governo:

Verso un Programma Atkinson per l’Italia.

L’Aquila 15 Novembre 2018.

Questa versione 06 Febbraio 2019

1. Introduzione

Il termine ‘Big Science’ appare forse per la prima volta in un celebre articolo su Science del

fisico statunitense A.M. Weinberg (1961). Weinberg dirigeva all’epoca uno dei National

Laboratories degli USA, eredi del progetto Manhattan, a sua volta l’archetipo della mobilitazione su

larga scala della scienza. L’obiettivo di quel progetto era di tradurre le conoscenze sulla fissione

dell’atomo, in particolare i modelli sviluppati negli anni ’30 da Enrico Fermi ed altri fisici, in

bombe atomiche da sganciare sulla Germania di Hitler. Caduta la Germania, le bombe furono

invece sperimentate a Hiroshima e Nagasaki, inaugurando l’epoca della corsa agli armamenti

nucleari. Nel progetto Manhattan furono coinvolti 130.000 fra tecnici, scienziati e operai in diversi

siti2. Vari di questi siti sono tuttora in funzione, gestiti dall’Office of Science del Department of

Energy (DoE) che amministra sia l’arsenale nucleare sia la ricerca in fisica, computer science, ed in

altre aree scientifiche. Weinberg sosteneva che la Big Science stesse rovinando la scienza,

sconvolgendo la finanza pubblica e che le esplorazioni spaziali e la fisica delle alte energie non

1 Ringraziamenti

Il presente lavoro si base in parte sul libro Florio M. (2019) “Investing in Discovery. A Cost-Benefit Analysis

Perspective on Science and Research Infrastructures” in corso di pubblicazione, (MIT Press); su un altro precedente

breve lavoro: Florio (2017) “Un’agenda per per lo Stato imprenditore di conoscenza” in Italiani Europei, n.2; e su

materiali da progetti di ricerca presso DEMM e CSIL. Le ricerche su alcuni temi qui trattati sono state sostenute da

BEI, CERN, Università degli Studi di Milano, Agenzia Spaziale Italiana, Commissione Europea (DG Regio),

Programma Horizon 2020. Ringraziamo per i commenti su una presentazione preliminare i partecipanti al seminario

presso la Fondazione Basso, Roma 4 Luglio 2018 e presso GSSI, L’Aquila 15 Novembre 2018, ed i particolare

Giovanni Dosi e Andrea Filippetti.

2 Hughes (2002), Gosling (1999), Galison and Hevly (1992).

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meritassero alcuna priorità rispetto ad altri bisogni dell’umanità più rilevanti e urgenti. Paragonava

gli enormi missili, gli enormi acceleratori di particelle e i reattori nucleari a imprese monumentali

realizzate per la gloria dei governanti, come le piramidi in Egitto o le cattedrali nel Medioevo.3

Un altro classico esempio di questo tipo di Big Science, intimamente connessa al settore

militare, è il programma lunare Apollo della NASA (Apollo Lunar Program) durante la prima fase

della guerra fredda. L’obiettivo del Programma Apollo (1961-1972) è desumibile da un famoso

discorso che il presidente J.F. Kennedy tenne al Congresso il 15 Maggio 19614:

[ If we are to win the battle that is now going on around the world between freedom and tyranny, the

dramatic achievements in space which occurred in recent weeks should have made clear to us all, as did

the Sputnik in 1957, the impact of this adventure on the minds of men everywhere, who are attempting to

make a determination of which road they should take. […] I believe that this nation should commit itself

to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the moon and returning him safely to

the earth. […] But in a very real sense, it will not be one man going to the moon, […], it will be an entire

nation. […].

La missione fu portata a termine dall'Apollo 11 nel 1969 ad un costo totale, rivalutato a prezzi

costanti 2010, intorno ai 110 miliardi di dollari (Lafleur, 2010). Il programma coinvolse migliaia di

scienziati e un numero elevato di imprese fornitrici operanti nel campo aerospaziale e della difesa.

Secondo alcune stime, alla fine degli anni '60, il programma Apollo 11 aveva finanziato 400.000

posti di lavoro e coinvolto 20.000 imprese (Scott e Jurek, 2014).

Il programma Apollo e il progetto Manhattan si fondavano su quattro pilastri principali:

espliciti obiettivi legati alla difesa e quindi forte coinvolgimento del complesso militare-industriale;

ottica nazionale, con limitato coinvolgimento di altri paesi (UK e Canada); segretezza dell’attività

di ricerca e dei relativi risultati; reclutamento delle migliori menti ma solo dopo averne verificato la

lealtà politica.

Quasi contemporaneamente si stava affermando un modello molto diverso di produzione di

scienza su larga scala. Tra il 1948 e il 1950 (circa dieci anni dopo il progetto Manhattan e dieci anni

prima del programma Apollo) cominciò a diffondersi negli ambienti scientifici di vari Paesi europei

l’idea di creare un laboratorio comune per la ricerca nucleare di base, dotandolo di apparati

sperimentali troppo costosi per singoli stati. L’obiettivo era fondare un centro europeo

all'avanguardia per la ricerca nella fisica delle particelle al fine di ridare all’Europa il primato nella

fisica, in quegli anni detenuto dagli Stati Uniti, ma escludendo statutariamente le finalità militari.

Nel settembre 1954 fu ratificata da 12 Paesi dell’Europa Occidentale la convenzione che segnava la

nascita ufficiale del CERN a Ginevra (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare). Il suo primo

acceleratore di particelle, il Sincrociclotrone, fu costruito nel 1957. La dimensione era -per statuto-

3Da Weinberg (1961): “The huge rockets, huge particle accelerators, the high-flux energy reactors” are the’monumental enterprises’

of our days, much like the pyramids in Egypt in past societies or the cathedrals in the Middle Ages were ‘extraordinary exertions of

their rulers’”.

4Per ulteriori dettagli si veda https://www.nasa.gov/vision/space/features/jfk_speech_text.html . Ultimo accesso 29 ottobre 2018.

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15 proposte per la giustizia sociale 116

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internazionale (istituzione intergovernativa) e quindi il suo finanziamento era condiviso dagli Stati

membri. Il reclutamento di scienziati non era legato a controlli di lealtà politica. L'apertura e la

disseminazione della ricerca scientifica e dei risultati era la norma; mentre la segretezza e la censura

dei risultati erano praticamente inesistenti. Fin dai primi giorni, le priorità di ricerca,

l'organizzazione e le decisioni di investimento sono state profondamente influenzate dal consenso di

una comunità scientifica globale di fisici delle particelle, anche al di fuori dell’ambito del personale

del CERN o del governo dei suoi Stati membri. Inoltre, e in modo cruciale, il CERN fu concepito

come una piattaforma: i suoi scienziati e ingegneri progettano la costruzione e il funzionamento di

acceleratori di particelle complessi, mentre gli esperimenti sono ideati e gestiti da collaborazioni

internazionali, ciascuna con una propria organizzazione e regole (Boisot et al., 2011). Oggi, il

CERN gestisce il Large Hadron Collider (LHC), l’acceleratore di particelle più grande e potente del

mondo (un anello di 27 km di circonferenza cento metri sottoterra che ospita tecnologie di

frontiera) il cui costo in termini di valore attuale (1993-2025) è stato stimato intorno ai 13.5 miliardi

di euro (Florio et al., 2016).5 Gli Stati Uniti hanno da oltre venti anni perso il primato nel campo,

avendo nel 1993 abbandonato il progetto del Superconducting Super Collider, un acceleratore di 87

Km di circonferenza, dopo avere già speso 2 miliardi di dollari, e di fronte a un costo di costruzione

lievitato a oltre 10 miliardi.6

Quindi, all’indomani della seconda guerra mondiale e durante la seconda metà del ventesimo

secolo sono coesistiti due modelli di Big Science, il modello ‘Manhattan’ (con la sua controparte in

URSS e altrove) e quello ‘Ginevra’ (con numerose altre infrastrutture di ricerca che vi si ispirano),

l’uno nazionalistico e legato a obiettivi militari, l’altro cosmopolita e legato solo alle domande delle

comunità scientifiche.

In questo lavoro, cercheremo di rispondere a tre domande:

- Che cosa esattamente differenzia il CERN e il nuovo modello di produzione di scienza su

larga scala dai modelli che si ispirano ai progetti Apollo 11 e Manhattan?

- Qual è l’impatto sociale del modello ‘Ginevra’ oggi largamente diffuso?

- Come si possono governare le conseguenze sotto il profilo distributivo di questo impatto?

Sosterremo, inoltre, tre tesi:

- si è creata una tensione fra il modello di open science e la appropriazione delle conoscenze

da parte di grandi imprese private. Ciò ha conseguenze per la diseguaglianza sociale, in

5Questo valore non include il costo degli scienziati delle collaborazioni internazionali.

6La storia di questo fallimento è raccontata magistralmente da Riordan et al (2015), che identificano fra le cause della catastrofe del

progetto l’incapacità di coinvolgere altri Paesi e la tensione fra comunità scientifica e complesso militare industriale USA.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 117

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quanto genera rendite di monopolio (o di oligopolio) in sostanza espropriando i cittadini di

gran parte dei benefici derivanti dalla produzione di beni pubblici da loro stessi finanziata

- la tassazione degli extra-profitti derivanti dalla appropriazione della conoscenza come bene

pubblico non è efficiente per l’estrema difficoltà di scorporare nei bilanci delle imprese la

componente di rendita derivante dalla ricerca pubblica da quella derivante da innovazioni a

valle sostenute da R&S privata, e non è praticabile per la mobilità transnazionale del capitale

di questo tipo di imprese

- il meccanismo di fondo che genera la diseguaglianza potrebbe essere corretto con un nuovo

tipo di impresa pubblica come polo della creazione di conoscenza. Questo tipo di impresa

dovrebbe gestire come proprietà sociale il capitale intangibile derivante dalla ricerca

pubblica, facendo affluire i proventi del proprio portafoglio di progetti in un fondo destinato

sia a reinvestire nella stessa ricerca sia a programmi sociali di promozione della uguaglianza

nell’accesso alle risorse della scienza.

Ci preme dire subito che tutte e tre le tesi sono in una certa misura congetturali, e che per

quanto riguarda i meccanismi di governo dell’impatto sociale delle grandi infrastrutture di ricerca ci

muoviamo su un terreno inesplorato. Per cui questo lavoro offre solo un insieme di spunti di

discussione.

Il lavoro si articola come segue: La sezione 2 presenta i due modelli di produzione di

conoscenza su larga scala; la Sezione 3 descrive l’impatto sociale del “nuovo modello” e introduce

le questioni critiche legate alla diseguaglianza e al profilo distributivo dei benefici; una possibile

soluzione di intervento pubblico nella forma di organizzazioni ‘mission-oriented’, è proposta nella

sezione 4. La Sezione 5 conclude.

2. Due modelli di produzione di scienza su larga scala

Mentre Weinberg (1961) usava il termine Big Science con un’accezione negativa e che

comprendeva entrambi i modelli di produzione di scienza, due anni dopo, lo storico della scienza e

fisico Derek de Solla Price pubblicò un influente libro dal titolo ‘Little Science, Big Science’ (de Solla

Price, 1963) in cui enfatizzava il ruolo della Big Science quale fattore chiave nel processo esponenziale

di creazione di nuova conoscenza avvenuto dopo la seconda guerra mondiale.7 Il titolo della versione

aggiornata e postuma del libro (de Solla Price, 1986) fu cambiato in ‘Little Science, Big Science … and

Beyond’. Cosa c’è oltre la Big Science? Una possibile risposta potrebbe essere il

7Il termine Big Science fu coniato per descrivere il carattere e la complessità su larga scala della scienza moderna (i progetti di

ricerca ad alta intensità di capitale, l’elevato contenuto tecnologico e le sfide ingegneristiche che essi ponevano) rispetto alla vecchia

‘Little Science’.

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nuovo paradigma di produzione di conoscenza offerto dalle (grandi) infrastrutture di ricerca (IR).

La Commissione Europea (EC) (2017: 4)8 definisce le IR:

Strutture, risorse e servizi che sono usati dalle comunità di ricerca per condurre ricerca e promuovere

l'innovazione nei rispettivi settori… Esse possono essere utilizzate al di là della ricerca, ad esempio per

scopi educativi o di servizio pubblico. Esse comprendono: attrezzature scientifiche di primaria importanza

o serie di strumenti, risorse basate sulla conoscenza quali collezioni, archivi o dati scientifici,

infrastrutture in rete quali sistemi di dati e calcolo e reti di comunicazione e qualsiasi altra infrastruttura di

natura unica ed essenziale per raggiungere l'eccellenza nella ricerca e nell'innovazione. Tali infrastrutture

possono essere " in un unico sito", "virtuali" o "distribuite".

L’idea chiave è che queste infrastrutture hanno l’obiettivo principale di creare conoscenza, la

quale deve potere essere condivisa tra molteplici possibili utenti e, nel caso, contribuire all’offerta

di servizi di pubblica utilità. Il concetto di Big Science si è quindi evoluto in almeno due direzioni.

La prima concerne il concetto di infrastruttura intesa nell’accezione più ampia come strumento

multi-utente. Il secondo è il concetto di apertura e assenza di censura rispetto all’attività di ricerca e

disseminazione dei risultati in linea con la visione di open science (come per esempio l’European

Open Science Cloud).9

Possiamo quindi distinguere due modelli di produzione di scienza su larga scala. Il modello

tradizionale top-down, che chiameremo per semplicità modello ‘Manhattan’, e il nuovo modello

bottom-up, nel senso di condivisione di obiettivi e risultati, che caratterizza le moderne IR,

compreso il CERN.10 Chiameremo il secondo modello ‘Ginevra’. I pilastri su cui si fonda il

modello Manhattan sono principalmente quattro:

- Stretta relazione, sia diretta che indiretta, tra avanzamenti tecnici e scientifici e i Ministeri di

Difesa nazionali, con il coinvolgimento del complesso militare-industriale;

- Disponibilità di generosi finanziamenti pubblici derivanti da tale relazione e dalla proprietà

dei laboratori scientifici saldamente nelle mani dei governi nazionali;

- Segretezza sulla maggior parte delle attività di ricerca, censura dei risultati ed esposizione

selettiva alla stampa (spesso in funzione propagandistica ed apologetica);

- Reclutamento delle migliori menti in circolazione, ma solo dopo averne attentamente

valutato la lealtà politica.

Secondo Hughes (2002: 13), le cinque ‘M della Big Science’ (e di questo modello) erano

“money, manpower, machines, media, and military”.

8Si veda l’articolo 2, comma 6 del Regolamento (UE) n. 1291/2013 del parlamento Europeo e del Consiglio dell'11 dicembre 2013

che istituisce il programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020) - Orizzonte 2020 e abroga la decisione n. 1982/2006/CE.9 https://ec.europa.eu/research/openscience/index.cfm?pg=open-science-cloud10 Il CERN è stato di fatto la prima infrastruttura di ricerca intergovernativa finanziata dagli Stati Membri (Hallonsten, 2006; Martin

and Irvine, 1984).

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Concettualmente e operativamente distante dal modello Manhattan, il modello Ginevra affonda

le sue radici in un nuovo paradigma che vede l’infrastruttura di ricerca come un’impresa collettiva

che opera su larga scala, progettata e gestita con l’obiettivo di avanzare la conoscenza e i relativi

servizi per un vasto numero di utenti. L’infrastruttura rappresenta la chiave di volta di comunità

scientifiche dinamiche e cosmopolite che, collaborando, rimescolano i confini intellettuali tra

nazioni, università, istituti di ricerca e domini scientifici. Le caratteristiche essenziali del modello

Ginevra sono:

- Identificazione delle priorità all’interno di una comunità scientifica. Mentre l’approccio top-

down del modello Manhattan fissa le priorità di investimento in base alle esigenze o

ambizioni militari dei singoli governi nazionali, i progetti legati alle IR sono il risultato di un

processo di consultazione tra finanziatori, decisori politici e la comunità scientifica

pertinente, spesso in una prospettiva internazionale. Tipicamente, questo processo è

formalizzato da un sistema di gruppi e comitati che concordano su ‘roadmaps’ e su progetti

prioritari come quelli selezionati da ESFRI (2016) per conto della Commissione Europea,

con un ruolo importante di comunità scientifiche ‘integrate’ che portano alla costituzione di

consorzi transfrontalieri ERICs.11 Ad esempio, la creazione di consorzi e reti transfrontaliere

è un requisito fondamentale per le candidature del programma Orizzonte 2020 dell'UE.

- Coalizioni internazionali di finanziatori. Le IR sono spesso strutture intergovernative

finanziate combinando risorse internazionali (fondi governativi), contributi monetari da

associazioni di beneficenza e altri investitori privati. Tale tipologia di finanziamento rende la

pianificazione della spesa, la contabilità dei costi e gli accordi giuridici più complessi rispetto

alla Big Science tradizionale, che tipicamente si basa su trasferimenti dal bilancio nazionale.

Anche quando un governo nazionale è il principale finanziatore, di solito non è l'unico

proprietario del progetto.

- Accessibilità flessibile alle risorse comuni da parte di più utenti. Le IR possono essere

strutture fisiche localizzate in un unico sito (sincrotroni) o distribuite (satelliti, radiotelescopi,

navi oceanografiche, strumenti per la conservazione e la restaurazione del patrimonio

artistico e culturale) o strutture virtuali (cloud come DARIAH12

, CERIC-ERIC13

). In ogni

caso, le operazioni delle IR devono consentire il coordinamento e la sinergia di diversi

progetti ricerca, a volte con requisiti di precisione molto rigidi. Questo comporta un design

11 European Research Infrastructure Consortium https://ec.europa.eu/research/infrastructures/index.cfm?pg=eric12

https://www.dariah.eu/13

//www.ceric-eric.eu

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unico per supportare il lavoro di grandi team, o reti di squadre più piccole coinvolte in una

pluralità di progetti, allo stesso tempo e / o in sequenza.

- Amministrazione e gestione condivisa. Le risorse tangibili e intangibili delle IR (database,

software, apparecchiature scientifiche) sono condivise da diverse comunità di scienziati e la

loro proprietà è spesso diluita tra i diversi partner. Mentre i grandi laboratori tradizionali

organizzati verticalmente esistevano ed esisteranno, le nuove IR richiedono sistemi di

gestione peculiari che vanno dalla definizione di complesse politiche di accesso ad accordi di

utilizzo degli strumenti scientifici sia tra i partner della IR e tra questi ultimi e gli utenti

finali, fino alla gestione di una pluralità di progetti di ricerca spesso con finalità molto

diverse tra loro.

- Incubatore di capitale umano. Una (grande) IR rappresenta un ambiente di apprendimento

unico per studenti e giovani scienziati che beneficiano dalla condivisione di idee, risultati e

collaborazioni con altri scienziati con problemi comuni o simili. Un IR può essere

immaginata come un ambiente di intelligenza collettiva (Malone e Bernstein, 2015) che va

oltre lo scopo di ciò che solitamente può offrire un’università.

- Hub tecnologico. Al fine di raggiungere i loro obiettivi e adempiere alle loro missioni, le IR

operano tipicamente alla frontiera della conoscenza e questo richiede nuove tecnologie,

spesso non esistenti sul mercato. L’attività di approvvigionamento coinvolge molteplici

aziende e, in alcuni casi, di una catena di approvvigionamento internazionale che può essere

limitata solo da principi ‘di giusto ritorno’ agli Stati Membri (come per esempio nel caso

dell’Agenzia Spaziale Europea o il CERN).14 L’esistenza di catene di approvvigionamento

tecnologico internazionale è una caratteristica che si avvicina all'evoluzione del settore

automobilistico o aeronautico che ha portato alla creazione di catene globali del valore. In

altri casi le RI sono incorporate in strategie regionali o nazionali e devono prestare maggiore

attenzione allo sviluppo territoriale, ma preservare l'eccellenza scientifica e tecnologica nella

fornitura di prodotti e servizi. Nel modello Manhattan i fornitori sono selezionati invece

anche in base a considerazioni di strategia militare.

- Generatori e gestori di big data. La quantità di dati da raccogliere, archiviare ed elaborare

per supportare le scoperte scientifiche è supportata in modo critico dai progressi

dell'informatica e dall’ICT. Le moderne IR sono quindi centri di informazione digitale di

dimensioni senza precedenti nella storia della scienza. In alcuni casi ciò richiede approcci e

14Nel caso della fornitura di beni e servizi, il principio del ‘giusto ritorno’ stabilisce che le commesse alle imprese nazionali devono

essere proporzionali alla quota di finanziamento che lo stato trasferisce alla IR. Molto spesso, questo principio è applicato anche nel

caso di infrastrutture virtuali che offrono accesso transazionale alle proprie risorse.

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strumenti completamente nuovi (talvolta sviluppati dalle IR medesime) per gestire diverse

problematiche come l'acquisizione di dati, il filtraggio, l'archiviazione, la trasmissione e

l'utilizzo. Inoltre, le IR generano notevoli esternalità perché le soluzioni adottate (software)

sono disponibili gratuitamente per qualsiasi potenziale utente (non così nel modello

Manhattan dove prevale la protezione di codici e dati).

- Open science. Tipicamente, i dati scientifici e i risultati prodotti dalle IR sono liberamente

accessibili e rapidamente diffusi attraverso conferenze, preprints online, riviste e politiche di

accesso sempre più flessibili (un esempio è dato da arXiv, gestito dalla Cornell University

Library). In generale, il concetto di ‘open science’ associato alle moderne IR risponde

sempre più al principio di ‘FAIR data’, cioè dati ritrovabili, accessibili, interoperabili, e

riutilizzabili.15 L’ICT consente alle IR di distribuire informazione online quasi in tempo

reale. Questo modello implica un processo di comunicazione più rapido e accessibile rispetto

alle procedure accademiche tradizionali che portano alle pubblicazioni.

- Coinvolgimento pubblico. La disseminazione delle informazioni inerenti all’attività di

ricerca, soprattutto attraverso i social media, produce un notevole impatto sull’opinione

pubblica in termini di sensibilizzazione alla ricerca scientifica e sostegno pubblico. Tale

divulgazione si traduce spesso in turismo scientifico organizzato in loco e online (con milioni

di visitatori dei siti delle IR e di piattaforme di citizen-science come Zooniverse); nascita di

comunità virtuali di cittadini interessati alla ricerca scientifica in un dato campo, creazioni di

film e documentari ispirati alle grandi scoperte e imprese scientifiche. Il web è inondato di

notizie e commenti derivanti dai progetti più visibili, come la Stazione Spaziale

Internazionale e l’LHC. La ricerca genera quindi degli effetti culturali collaterali.

La differenza tra questi due modelli di produzione di conoscenza potrebbe essere meno chiara

in alcuni casi. Il budget del Department of Energy (DoE) degli Stati Uniti (circa 28 miliardi di

dollari nel 2018) è suddiviso tra quattro principali aree di missione: a) sicurezza nucleare,

protezione degli Stati Uniti dalle minacce nucleari e promozione della marina nucleare; b) ricerca

scientifica di base; c) innovazione e sicurezza energetica; d) bonifica ambientale per soddisfare gli

obblighi del progetto Manhattan, della guerra fredda e della ricerca sull’energia nucleare (DoE

2017a:1). In questo caso, per ragioni storiche, i due modelli di scienza su larga scala sono intrecciati

all'interno della stessa istituzione. Alcuni dei programmi di ricerca finanziati dal DoE sono simili a

ciò che viene fatto al CERN in termini di apertura internazionale del modello scientifico, ampia

consultazione della comunità scientifica e divulgazione. Il DoE stesso contribuisce anche agli

15 Findable, Accessible, Interoperability, Re-use.

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esperimenti e all’aggiornamento dell’LHC del CERN. In una prospettiva storica, è possibile

condividere l’opinione di Hughes (2002) secondo la quale il progetto Manhattan (e la ricerca

militare basata sulla conoscenza scientifica precedente alla Seconda Guerra Mondiale) ha ispirato i

successivi laboratori su larga scala in fisica, incluso il CERN, almeno in termini di complessità

organizzativa e dimensione del budget. Si veda anche Block e Keller (2011) sul ruolo del governo

USA nella promozione della ricerca tecnologica. Tuttavia, mentre alcune caratteristiche del modello

‘Ginevra’ non sono del tutto assenti nel modello ‘Manhattan’ e non sono presenti in tutti i progetti

scientifici su larga scala contemporanei, esse sono tuttavia peculiari del nuovo paradigma

sottostante gli investimenti nelle moderne IR. Queste stanno diventando un elemento strategico

della politica pubblica e delle iniziative dell’EU per affrontare le sfide sociali in diversi settori quali

ambiente, energia, salute, scienza del patrimonio, cultura e istruzione, biologia, etc. (OCSE GSF,

2018a; ESFRI, 2018, 2016b, Eiroforum, 2017).

La Tabella 1 riporta alcuni esempi di IR tratti dagli ESFRI Landmarks. La prima colonna

identifica l’IR, il Paese coordinatore e i Paesi partner; la Colonna (2) identifica il settore/ambito:

energia (ENE), ambiente (ENV); salute e nutrizione (H&F); fisica e ingegneria (PSE); sociale e

cultura (S&C). La Colonna (3) descrive la tipologia di infrastruttura: struttura fisica localizzata in

un unico sito (SS); struttura fisica distribuita (D); distribuita virtuale (D-e). Il periodo inerente alla

fase di costruzione (YCO) è riportato nella Colonna (4); mentre la Colonna (5) mostra l’anno in cui

l’IR ha iniziato o inizierà la fase operativa (YOP). La colonna (6) riporta il valore dell’investimento

in milioni di euro (CAV) e la colonna (7) elenca gli Stati Membri (PCS).

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Tab.1: Alcuni esempi di IR tratti dalla Roadmap ESFRI 2016.

Name SEC TYP YCO YOP CAV PCS

Jules Horowitz Reactor (JHR), http://www.cad.cea.fr/rjh ENE SS 2009- 2020* 1,000 EC-JRC, BE, CZ, ES, FI,

2019 FR, FR, IL, IN, SE, UK

Partnership for Advanced Computing in Europe (PRACE) e-RI D 2011- 2010 500 European XFEL, AT, BE,

http://www.prace-ri.eu 2015 BG, CH, CY, CZ, DE, DK,

EL, ES, FI, FR, HU, IE, IL,

IT, LT, NL, NO, PL, PT,

RO, SE, SI, SK, TR, UK

European Advanced Translational Research Infrastructure in H&F D 2011- 2013 500 CZ, DK, EE, ES, FI, FR,

Medicine (EATRIS ERIC), http://www.eatris.eu 2013 IT, NL, NL, NO, SE

European Spallation Source (ERIC) PSE SS 2013- 2025* 1,843 BE, CH, CZ, DE, DK, DK,

http://www.europeanspallationsource.se 2025 EE, ES, FR, HU, IT, NL,

NO, PL, SE, SE, UK

European X-Ray Free-Electron Laser Facility (European PSE SS 2009- 2017* 1,490 European XFEL, CH, DE,

XFEL), http://www.xfel.eu 2017 DK, ES, FR, HU, IT, PL,

RU, SE, SK

High-Luminosity Large Hadron Collider (HL-LHC) PSE SS 2017- 2026* 1,370 CERN, AT, BE, BG, CH,

http://home.cern 2025 CZ, DE, DK, EL, ES, FI,

FR, HU, IL, IT, NL, NO,

PK, PL, PT, RO, RS, SE,

SK, TR, UK

Facility for Antiproton and Ion Research PSE SS 2012- 2022* 1,262 DE, FI, FR, IN, PL, RO,

(FAIR), http://www.fair-center.de 2022 RU, SE, SI, UK

European Extremely Large Telescope (E-ELT), PSE SS 2014- 2024* 1,000 ESO, AT, BE, BR, CH,

http://www.eso.org/public/teles-instr/e-elt/ 2024 CZ, DE, DK, ES, FI, FR,

IT, NL, PL, PT, SE, UK

Extreme Light Infrastructure (ELI), http://www.eli-laser.eu/ PSE D 2011- 2018* 850 ELI-DC, CZ, DE, HU, IT,

2017 RO, UK

Square Kilometre Array (SKA), PSE D 2018- 2020* 650 ESO, AU, CA, CN, ES,

http://www.skatelescope.org 2023 FR, IN, IT, MT, NL, NZ,

PT, SE, UK, UK, US, ZA

European Social Survey (ESS ERIC)

http://www.europeansocialsurvey.org

S&C D 2010- 2013 NA AT, BE, CH, CZ, DE, DK,

2012 EE, ES, FI, FR, HU, IE, IL,

LT, LV, NL, NO, PL, PT,

SE, SI, SK, UK

Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe S&C D 2010- 2011 110 AT, BE, CH, CZ, DE, DE,

(SHARE ERIC), http://www.share-project.org/ 2012 DK, EE, EL, ES, FR, HR,

HU, IE, IL, IT, LU, NL,

PL, PT, SE, SI

Digital Research Infrastructure for the Arts and Humanities S&C D 2014- 2019* 4.3 AT, BE, CY, DE, DK, EL,

(DARIAH ERIC), http://www.dariah.eu 1018 FR, HR, IE, IT, LU, MT,

NL, RS, PL, PT, SI, ES

Source: Florio (2019).

Notes: * expected; **for centralized services; *** NA (not available); M€/Y: EUR millions per Year

Legend: ELI-DC: ELI Delivery Consortium International Association; EUC: Consortia of Europen Universities, AM: Armenia, AR:

Argentina, AT: Austria, AU: Australia, AZ: Azerbaijan, BE: Belgium, BG: Bulgaria, BR: Brazil, CA: Canada, CH: Switzerland, CL:

Chile, CN: China, CY: Cyprus, CZ: Czech Republic, DE: Germany, DK: Denmark, EE: Estonia, ES: Spain, ESO: ESO, FI: Finland,

FR: France, HR: Croatia, HU: Hungary, IE: Ireland, IL: Israel, IN: India, IT: Italy, JP: Japan, LT: Lithuania, LU: Luxembourg, LV:

Latvia, MA: Morocco, MT: Malta, MX: Mexico, NA: Namibia, NL: Netherlands, NO: Norway, NZ: New Zealand, PK: Pakistan,

PL: Poland, PT: Portugal, RO: Romania, RU: Russian Federation, SE: Sweden, SI: Slovenia, SK: Slovakia, TH: Thailand, TR:

Turkey, UA: Ukraine, UK: United Kingdom, US: United States, ZA: South Africa.

Si tratta solo di alcuni esempi. Esaminando le Roadmap 2016 e 2018 di ESFRI e le Roadmap

nazionali, in Europa (UE, UK e Svizzera) le grandi IR sono forse trecento.16 Con quelle minori, ma

comunque con caratteristiche analoghe al modello Ginevra, sia pure su scala più piccola, forse in

Europa ci sono oltre un migliaio di IR, con il coinvolgimento diretto e indiretto di centinaia di

migliaia di utenti scientifici, personale tecnico e gestionale studenti di dottorato e di master e

imprese. Una quota consistente della scienza (settore militare escluso) è oggi organizzata in questa

forma e ha importanti ricadute sociali, su cui sappiamo ancora poco. Tentiamo di discuterne in quel

che segue.

16 Comunicazione personale del presidente di ESFRI.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 124

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3. L’impatto sociale del modello ‘Ginevra’ delle infrastrutture di ricerca.

3.1. Il paradosso: dall’ “open science” all’ oligopolio?

Le IR producono conoscenza che può tradursi in benefici sociali con una varietà di

meccanismi (Martin and Tang, 2007; Bozeman; 2000; Martin, 1996). Un modo semplice di

discutere dell’impatto socioeconomico del modello ‘Ginevra’ e delle moderne IR è analizzare

distintamente i benefici per diversi gruppi sociali e attori economici (Florio and Sirtori, 2016).

Gli scienziati sono sia ‘produttori’ sia ‘consumatori’ dell’output dell’attività di ricerca. Essi

contribuiscono ad aumentare lo stock di conoscenza a vari livelli (incrementale, scoperte vere e

proprie o scoperte ‘rivoluzionarie’) sia nel proprio ambito scientifico sia in altri domini scientifici.

L’ output di ricerca viene spesso misurato (a partire da de Solla Price, 1963), sebbene in modo

imperfetto, considerando le pubblicazioni scientifiche e i preprints (EC, 2014; Martin, 1996; Pinski

and Narin, 1976). L’impatto successivo sulla comunità scientifica è misurabile anche tracciando il

numero di citazioni attraverso analisi scientometriche (Carrazza et al., 2016; Ferrara and Salini,

2012). Questa modalità formalizzata di comunicare le conoscenze ha riflessi sulle carriere dei

ricercatori e le IR - in questo senso limitato - funzionano come produttori di dati sperimentali e di

output per gli scienziati stessi come utenti.

Studenti e giovani ricercatori che trascorrono un periodo di studio e/o lavoro presso un

laboratorio scientifico o una IR beneficiano in termini di accumulazione di capitale umano e

apprendimento (Camporesi et al., 2017; Choi, et al 2011). Come accennato sopra, le IR sono

incubatori di capitale umano (e di capitale sociale tramite le reti di collaborazioni) e possono

positivamente influenzare le competenze dei giovani ricercatori migliorandone le abilità tecniche,

scientifiche, comunicative, di analisi critica e risoluzione di problemi alla stessa stregua delle

aziende più performanti e tecnologicamente avanzate (OECD, 2014). Il beneficio può essere

stimato valutando gli effetti a lungo termine sulle future carriere di studenti e ricercatori post-

dottorato in termini di opportunità occupazionali e retribuzioni in settori che spesso sono al di fuori

del mondo accademico o della ricerca17

.

Le imprese fornitrici interagiscono con le IR per fornire loro tecnologia, beni e servizi

strumentali all’attività di ricerca. Gli acquisti tecnologici consistono tipicamente in strumenti e/o

servizi all’avanguardia, spesso non esistenti sul mercato e che devono operare in condizioni estreme

(ad esempio nello spazio o a bassissime temperature per ottenere la superconduttività). Le

interazioni e lo scambio di conoscenze tra IR e imprese (usualmente private) fornitrici di tecnologia

17 Camporesi et al., 2017; Schopper 2009.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 125

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è spesso fonte di innovazione e potenziale successo dell’impresa fornitrice sul mercato (Sorenson,

2017; Edquist et al., 2015; Edquist e Zubala-Iturriagagoitia, 2012; Williamson, 2008; Lundvall,

1985). In tal senso, le IR rappresentano un ambiente di apprendimento per i loro partner industriali

(Autio et al., 2004). In alcuni casi, le IR agiscono come ‘risk takers’, riducendo il rischio di

sviluppo del bene e/o servizio e di intraprendere progetti alla frontiera della scienza che altrimenti

peserebbe interamente sull’impresa (Unnervik, 2009). L’impatto delle IR sull’economia veicolato

attraverso la loro attività di approvvigionamento è misurabile valutando l’effetto sulla perfomance

delle imprese fornitrici lungo molteplici direttrici: maggiore profitti, acquisizione di nuovi clienti,

entrata in nuovi mercati, intensità di R&S, capacità innovativa, nuove unità e spinoffs, effetti

reputazionali, ecc (Florio et al., 2018; Castelnovo et al, 2018; Nordberg et al., 2003). I benefici

acquisiti dai fornitori diretti possono essere (parzialmente) trasferiti ai subfornitori di secondo, terzo

livello e lungo l’intera catena di approvvigionamento (Florio et al., 2018; Science | Business, 2015;

Nordberg et al., 2003).

Le imprese e i consumatori di prodotti innovativi a valle delle IR possono beneficiare dei

contributi tecnologici avvenuti a monte. Essi includono nuovi servizi, prodotti, processi o

applicazioni utilizzate in mercati secondari e/o in altri ambiti rispetto al campo di ricerca iniziale.

Per esempio, il programma Europeo di osservazione della terra Copernicus,18 è un insieme

complesso di sistemi che raccoglie informazioni da molteplici fonti (satelliti di osservazione della

Terra e sensori di terra, di mare ed aviotrasportati). Esso integra ed elabora tutte queste

informazioni, fornendo agli utenti, istituzionali ed afferenti al comparto industria, informazioni

affidabili e aggiornate attraverso una serie di servizi che si dividono in sei aree tematiche: il suolo,

il mare, l'atmosfera, i cambiamenti climatici, la gestione delle emergenze e la sicurezza. L’impatto

del programma Copernicus a valle è stato stimato da EC (2016) in diversi settori (agricoltura,

monitoraggio ambientale come foreste e oceani, energia, monitoraggio urbano, qualità dell’aria

etc..).

Gli utenti di software e di databases beneficiano da un lato della sempre crescente disponibilità

di dati e dall’altro delle innovazioni relative all’ICT. Un caso notevole del primo tipo di beneficio la

disponibilità di dati di pubblico dominio è l'impatto nelle scienze della vita dei dati dell’Human

Genome Project, il primo esempio di scienza su larga scala nel campo della biologia. Completato

nel 2003, e costato oltre 3 miliardi di USD, ha permesso di sequenziare il DNA di un piccolo

campione di riferimento di esseri umani, con un protocollo di diffusione senza restrizione dei

risultati attraverso databases liberamente accessibili e con un enorme impulso alla bioinformatica.

Presso il CERN, come ben noto, è stato ideato il World Wide Web. Attualmente viene tuttora

18 http://copernicus.eu/

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 126

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sviluppato e rilasciato nel pubblico dominio un software inizialmente adattato alle esigenze della

fisica delle alte energie ma che in molti casi risulta essere di grande utilità anche per altri domini

applicativi. Due esempi di questo software sono ROOT (una libreria di strumenti per l'analisi e la

visualizzazione dei dati) e Geant4 (software per simulare gli effetti delle particelle che passano

attraverso la materia, utilizzato, ad esempio, in medicina per simulare il danno da radiazioni nel

DNA, e in altri settori). I benefici economici di tali esternalità sono stati stimati da Florio, Forte e

Sirtori (2016) utilizzando le statistiche annuali sul download del codice del software e con survey

agli utenti. Ricerche presso il EMBL-Bioinformatics Institute hanno stimato il valore del tempo

risparmiato dai ricercatori di tutto il mondo che possono accedere gratuitamente ai database online

contenenti un immenso patrimonio informativo sul genoma di diverse specie e altri biodati19

.

Gli utenti di benefici culturali. Le IR generano un beneficio culturale che può essere

direttamente o indirettamente associato all’attività di ricerca (Martin, 1996). Molte IR organizzano

regolarmente mostre permanenti o temporanee, visite guidate, eventi speciali, workshops,

conferenze, eventi di disseminazione e sensibilizzazione per il pubblico e i non addetti ai lavori.

L’attività di disseminazione può anche essere veicolata tramite social media attraverso webinars,

messa a disposizione di risorse digitali per attività ricreative, ecc. Il beneficio a favore degli utenti

può essere approssimato dalla loro disponibilità a pagare stimata con metodi consolidati nella

analisi costi-benefici dei beni ambientali e culturali (EC, 2014; Florio and Sirtori, 2016).

I cittadini, nella doppia veste di contribuenti e di beneficiari di valori di non-uso. Le IR

producono conoscenza, la quale è spesso, di fatto, un bene pubblico (Stiglitz, 1999). Nel caso delle

IR, tipicamente, la produzione di conoscenza è finanziata dagli Stati partecipanti tramite spesa

pubblica; quindi, in ultima istanza, i contribuenti sono i finanziatori della produzione di conoscenza.

Ma perché essi dovrebbero essere disposti a pagare? Una possibile risposta è che potrebbe esserci

una preferenza pubblica (utilità) per la scienza, per la possibilità di fare nuove scoperte e per gli

avanzamenti della conoscenza per se (Archibugi e Filippetti 2015) senza che i contribuenti ne

usufruiscano direttamente. Emerge quindi un valore di ‘non uso’ o di esistenza dell’attività di

ricerca (o della scoperta scientifica) alla stessa stregua del valore che le persone attribuiscono ai

beni pubblici ambientali (foreste, ecosistemi, specie in via di estinzione) e culturali (musei,

monumenti, patrimonio artistico e culturale in generale). La disponibilità a pagare per i beni

pubblici è una proxy empirica del valore di non uso (Johnston et al., 2017; Carson et al., 2003;

Pearce and Mourato, 1998).

In alcuni casi che abbiamo studiato, i benefici sociali totali delle IR (per quanto possibile

misurarli) sono maggiori dei loro costi, generando un beneficio netto per la società. Ad esempio,

19 https://www.genome.gov/12011238/an-overview-of-the-human-genome-project/

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l’acceleratore LHC del CERN, produce benefici sociali nelle categorie sopra citate. Il rapporto fra

benefici e costi (B/C), con una stima prudenziale (escluse future applicazioni ancora ignote), è di

1.2 (Florio et al. 2016) che salirà a 1.8 considerando il potenziamento con il progetto High

Luminosity LHC, previsto per il 2025 con un costo di investimento di 950 milioni di SFR

(Bastianin and Florio, 2018). Un grande sincrotrone per la ricerca medica sui tumori, come il

CNAO di Pavia (a sua volta in un certo senso uno spin-off di idee e tecnologie di origine CERN) ha

un rapporto benefici-costi ancora maggiore (Battistoni et al. 2016). Analoghi risultati sono previsti

per diversi progetti cofinanziati dal FESR nel quadro della politica di Coesione Europea. Questi

lavori e altri di tipo più qualitativo prodotti da parte di altri gruppi di ricerca già a partire dagli anni

’80 (Martin and Irvine, 1981; 1983; Irvine and Martin, 1983) suggeriscono che le IR potrebbero

quindi generare benefici sociali netti già prima che si possano prevedere gli effetti economici a

cascata del progresso scientifico sotto il profilo dell’innovazione.

Ma quali sono gli effetti distributivi sui vari gruppi sociali? Qui le cose sono un po’ più

complicate da valutare. Il metodo dell’analisi costi benefici (CBA) richiede di attribuire un peso

sociale a ciascun gruppo se le funzioni del benessere sociale sottostanti esprimono avversione alla

diseguaglianza. I pesi sono inversamente proporzionali al reddito pro capite (o un altro indicatore di

benessere individuale) (Brent, 2006; Squire and van der Tak, 1975). Ponendo l’unità pari ad un euro

guadagnato dal cittadino/contribuente mediano, quali dovrebbero essere i pesi da attribuire a

ciascuno dei gruppi sociali coinvolti? In mancanza di indagini specifiche, una ragionevole

congettura suggerirebbe che il coefficiente di benessere per valutare i benefici diretti per scienziati e

studenti sia leggermente al di sotto dell’unità perché questi sono un gruppo con reddito procapite

attuale e potenziale mediamente al di sopra della media. Lo stesso vale per gli investitori nelle

imprese fornitrici e per gli utenti di software e databases. Il coefficiente di benessere sociale

potrebbe, invece, essere fissato al massimo pari all’unità per gli utenti diretti e indiretti di beni

culturali e (come accennato sopra per definizione) per il contribuente medio. Quest’ultimo da un

lato finanzia con le tasse questi progetti dall’altro ha una certa disponibilità a pagare per la ricerca.

Applicando il metodo della valutazione contingente, Florio and Giffoni (2018) hanno

quantificato la disponibilità a pagare per finanziare l’attività di ricerca di base al CERN tramite

un’indagine su un campione di 1.000 cittadini francesi rappresentativo della popolazione in termini

di reddito procapite, età, istruzione, genere e distribuzione geografica. La disponibilità a pagare

media è 4 euro per persona all’anno (contro un contributo effettivo della Francia al CERN di 2,7

Euro procapite all’anno), sebbene solo metà del campione abbia rivelato una disponibilità a pagare

maggiore di zero. Per quanto il reddito non sia l’unica determinante, certamente la correlazione fra

disponibilità a pagare e reddito è positiva, quindi i meno abbienti, soprattutto quelli meno istruiti

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 128

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traggono meno beneficio percepito dall’essere tassati per la produzione di beni che volontariamente

non finanzierebbero

Tutto ciò implica che, a parte un effetto ‘pesato’ leggermente inferiore rispetto a quello

aggregato, gli effetti distributivi in prima battuta sembrano modesti e forse anche lievemente

regressivi. Questo soprattutto se, per esempio, si confrontasse direttamente un investimento in IR

come un radiotelescopio con un progetto di ospedale o di scuola pubblica in un’area svantaggiata.

Per esempio, il Sudafrica sta investendo in SKA (Square Kilometre Array), il più grande progetto di

radioastronomia della storia formato da migliaia di antenne radio da dislocare in Sudafrica e in

Australia. SKA è utilizzato per intercettare onde radio dallo spazio profondo e sarà usato per capire

come si formano le stelle e le galassie e come esse si sono evolute nel tempo. Esso sarà anche

utilizzato per una migliore comprensione della materia oscura. Stime preliminari suggeriscono che

la prima fase di costruzione (SKA1), i costi operativi del quartier generale SKA e il finanziamento

richiesto per la messa in servizio e le operazioni iniziali ammontano a 1,8 miliardi di euro per il

periodo 2018-2027.20 Si potrebbe discutere se questo investimento dal punto di vista sociale sia una

priorità per un paese con un basso livello di sviluppo e rilevanti problemi di diseguaglianza

persistente anche dopo la fine dell’apartheid. D’altro canto un paese, anche in via di sviluppo, che

non investa nulla nella ricerca fondamentale e applicata rimarrà ai margini dalla frontiera scientifica

e, soprattutto inevitabilmente, soffrirebbe di un’emigrazione dei cervelli. La Cina sta progettando

un acceleratore di particelle di 100 Km di diametro, quattro volte LHC.

Ma vorremmo essere chiari: non crediamo che queste considerazioni di analisi dei costi e

benefici sociali siano esaustive nel valutare l’impatto delle IR a lungo termine. È possibile che la

vera questione sotto il profilo distributivo non derivi da nessuno degli impatti socio-economici in

precedenza elencati, ma dalle modalità con cui le imprese private a valle si appropriano delle

conoscenze prodotte come bene pubblico o comunque senza finalità di profitto. In questa

prospettiva vari esempi suggeriti da Block e Keller (2011) e da Mazzucato (2017, 2018) possono

anche essere letti in modo un po’ meno ottimistico quando la prospettiva è quella della

diseguaglianza. Il punto è che il contribuente mediano, ed anche quello meno abbiente, finanzia

grandi progetti di ricerca pubblica i cui risultati sono resi disponibili gratuitamente per ulteriori

R&S nelle (prevalentemente grandi) imprese. Ne deriva un processo innovativo che si traduce in

effetti sui mercati dei beni e dei servizi. Quanta parte dei profitti delle imprese, soprattutto di quelle

tecnologicamente avanzate (sia manifatturiere sia di servizi) deriva dall’appropriazione di

conoscenza generata a monte dalle IR e per accedere alla quale le imprese non hanno pagato nulla?

20 https://www.skatelescope.org/ Ultimo accesso 01.11.2018.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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Per quanto ne siamo consapevoli, non esiste una valida ricerca empirica in grado di rispondere a

questa domanda, se non singoli studi di caso (ad es. Block and Keller, 2011).

Come è noto, gli argomenti che supportano il finanziamento pubblico della ricerca, a partire

dai modelli di crescita endogena (Romer, 1990; Lucas, 1990), identificano una sottoproduzione di

R&S da parte delle imprese private dovute al fatto che certe conoscenze possono essere acquisite

solo con alti rischi, a lungo termine, e per di più sono soggette a spillover da una impresa all’altra.

In questo impianto metodologico, lo Stato si configura come rimedio ai fallimenti del mercato e

colma il gap o con intervento diretto (ad esempio con IR e università pubbliche) o con sussidi alle

imprese incentivandole a fare di più di quanto spontaneamente non farebbero. Anche varie forme di

forniture pubbliche per l’innovazione vanno nella stessa direzione (Knutsson and Thomasson, 2014;

Aschhoff and Sofka, 2009; Edler and Georghiou, 2007). La stessa Mazzucato (2017) parla di

‘market creation’, nel senso che il rimedio ai fallimenti del mercato generati dalla scienza crea

nuove, inedite, opportunità e fa diversi esempi a riguardo. In generale questa letteratura sostiene il

ruolo positivo dello Stato innovatore, ma forse non ne coglie le implicazioni distributive.

Se il capitale produttivo è oggi largamente basato sulla conoscenza, cioè di natura

intangibile, allora forse un meccanismo importante di generazione delle diseguaglianze va cercato

proprio nell’appropriazione privata di conoscenze che nascono come bene pubblico e, in seguito,

sono intercettate da investitori privati. Per vedere un’analogia: per molti decenni le imprese più

performanti per valore di mercato e profitti sono state le società petrolifere, che in larga misura

riflettono l’appropriazione privata di risorse del sottosuolo, talvolta nella legislazione considerate

intrinsecamente pubbliche, ma poi a vario titolo ‘concesse’ ai privati. La storia delle ‘sette sorelle’

del petrolio, che tanta influenza hanno avuto nella storia anche politica e militare del XX secolo, è

basata su questo tipo di appropriazione. Il petrolio dei nostri tempi è la conoscenza e nuove ‘sette

sorelle’ se ne sono impadronite (The Economist, May, 2017) 21

, vedi più avanti (Tab.2)

Per ben note ragioni la conoscenza genera peraltro forme di monopolio naturale (il costo

medio di produzione è indefinitamente decrescente con la quantità prodotta), un punto già chiaro ad

esempio, in Romer (1990). Sul monopolio naturale si innesta quindi spesso un monopolio di

mercato (o un oligopolio, vedi Tresch 2008, a proposito del prezzo del software). Perciò, se a valle

possono esistere meccanismi competitivi che normalizzano gli extraprofitti, a monte, lo scenario è

dominato dal monopolio (o da equilibri di oligopolio che per semplicità non saranno considerati in

questo lavoro). Se la ricerca pubblica crea i mercati, come sostenuto da Mazzucato (2018), è anche

21The world’s most valuable resource is no longer oil, but data. The data economy demands a new approach to antitrust rules

https://www.economist.com/leaders/2017/05/06/the-worlds-most-valuable-resource-is-no-longer-oil-but-data

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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vero che spesso crea mercati monopolistici, con tutte le conseguenze del caso. La concentrazione

della ricchezza, e quindi la diseguaglianza, sono causate anche da questo meccanismo.

Per far fronte a questo meccanismo, è necessario ripensare il ruolo e le forme dell'intervento

pubblico nel campo della ricerca e dell'innovazione per perseguire non solo la crescita economica

ma anche obiettivi sociali.

3.2. Perché non basta tassare i profitti di impresa.

La soluzione ortodossa in economia pubblica al problema del profitto di monopolio è la

tassazione. Tuttavia, questa soluzione potrebbe non essere efficiente. In presenza di monopolio

naturale l’efficienza richiederebbe che il prezzo sia fissato al costo marginale che tuttavia è

inferiore al costo medio. L’impresa privata dovrebbe essere sussidiata e obbligata a operare in

regime di prezzo amministrato, oppure dovrebbe essere nazionalizzata e le perdite di bilancio

coperte da un trasferimento dalla fiscalità generale.

Il caso che stiamo discutendo è più complesso. Le IR possono essere viste come una

particolare forma di impresa pubblica che produce e distribuisce gratuitamente conoscenza ed opera

in regime di monopolio naturale dato che, sostanzialmente, il costo di produzione è fisso. Il costo di

esercizio degli apparati sperimentali e il valore cumulativo della conoscenza come bene intangibile

generalmente non variano in funzione del numero di pubblicazioni scientifiche prodotte. Le

pubblicazioni sono a loro volta funzione lineare del numero di scienziati coinvolti. La

combinazione di questi elementi genera un processo a costi decrescenti, che, come si è detto, è

messo a disposizione di chiunque a prezzo zero. Si crea un’esternalità, un beneficio che è trasferito

dai contribuenti agli azionisti e altri stakeholder (manager ma anche fornitori e alcune fasce di

dipendenti) alle imprese private che beneficiano della ricerca pubblica senza pagarla. Si potrebbe

restituire ai contribuenti almeno quanto hanno investito? Discutiamo brevemente due soluzioni:

un’imposta indiretta sui beni prodotti a valle e un’imposta sugli extra-profitti o rendita di

monopolio derivante dall’appropriazione della conoscenza. Vedremo che sono entrambe

inadeguate.

Un’imposta indiretta dovrebbe poter funzionare come un’imposta alla Pigou, che costringe

l’impresa a internalizzare come proprio costo per unità di prodotto ciò che i contribuenti hanno

speso a monte per consentire all’impresa stessa di produrre. Questo tipo di imposta, almeno in

teoria, è relativamente semplice. Nel caso delle esternalità negative, come ad esempio

l’inquinamento, si tratta di far pagare all’inquinatore un’imposta pari al costo che subiscono i terzi,

per cui il costo sociale è dato dalla somma del costo privato di produzione per l’impresa e del costo

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dell’inquinamento. Nel caso di un’esternalità positiva, le cose non sono diverse, e si dimostra che

un’imposta e un sussidio hanno effetti equivalenti.

Si possono immaginare diversi meccanismi per spingere un centro di ricerca privato a fare più

ricerca. Uno di questi è che il centro di ricerca sia acquisito dall’impresa che gode dell’esternalità,

divenendo la propria divisione R&D. Un altro meccanismo è quello di un sussidio pubblico al

centro di ricerca, in modo che il costo della ricerca si riduca.22 Occorre poi verificare se per il

contribuente medio il costo dell’imposta che finanzia il sussidio sia compensato dal beneficio

indiretto dovuto all’aumento della quantità di ricerca.

Fin qui una lettura tradizionale e schematica del problema. Tuttavia sembra molto difficile

calcolare esattamente l’esternalità per tarare l’imposta con un margine accettabile di errore. Di fatto,

l’esternalità è spesso ignota ex-ante almeno per quanto riguarda la ricerca di base. Sono occorsi quasi

cento anni perché l’articolo di Einstein (1905) sull’effetto fotoelettrico avesse applicazioni tecnologiche

nella produzione commerciale di elettricità. Non abbiamo alcuna idea se la scoperta del bosone di Higgs

fra cento anni avrà qualche applicazione pratica. In altre parole, la curva del beneficio marginale è

indeterminata ex ante, quindi lo è anche la curva del costo marginale.

Sembrerebbe forse più pratico tassare ex post i profitti dell’impresa privata derivanti

dall’esternalità. In particolare, se l’impresa che beneficia della ricerca operasse a sua volta in un

mercato monopolistico la tassazione dei profitti sarebbe efficiente. Si tratterebbe di tassarla con una

imposta lump-sum per definizione non distorsiva in quanto l’impresa non potrebbe modificare il

proprio comportamento per sottrarsi all’imposta stessa. Tuttavia, vi sono due ostacoli praticamente

insuperabili. In primo luogo non si saprebbe come determinare quale parte dei profitti dell’impresa

derivi dall’esternalità della ricerca. Nel bilancio di un’impresa i profitti sono un aggregato derivante

dall’insieme delle attività e passività, e quale parte degli assets intangibili dell’impresa e delle sue

conoscenze derivi dall’esternalità della ricerca non è contabilizzata. Quindi avremmo lo stesso

problema emerso con l’imposta indiretta: un’indeterminazione della base imponibile. A questo

problema si sommerebbe l’estrema facilità con cui grandi imprese di capitali possono sottrarsi

all’imposta sui profitti, in particolare attraverso l’arbitraggio fra giurisdizioni fiscali. In questo

contesto la natura di bene pubblico o quasi pubblico della conoscenza non aiuta, perché non è

affatto detto che centro di ricerca e impresa nell’esempio di cui sopra appartengano alla stessa

giurisdizione.

Il finanziamento delle IR può essere visto come un meccanismo alternativo. Invece che

ricorrere a imposte correttive à la Pigou o con imposte sui profitti, si introduce nella scena una

22 Di fatto uno dei meccanismi classici di sussidio alle università private perché facciano ricerca sono i contratti con i governi, che

negli USA spesso vuole dire contratti per ricerca militare, ma anche grants dal National Institutes of Health, della National Science

Foundation ed altri.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 132

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struttura di ricerca pubblica che fa direttamente ciò che né un centro di ricerca privata né l’impresa

privata sono disposti a fare: ad esempio, cercare il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, pianeti

simili alla Terra in altre galassie, sequenze genetiche di specie marine, materiali superconduttori,

ecc. Le IR operano in condizioni incompatibili con il mercato: producono conoscenza in regime di

monopolio naturale, cioè a costi medi decrescenti e si spingono a farlo sin dove i trasferimenti degli

Stati partecipanti glielo consentono.

Prima o poi, in modo del tutto aleatorio, si creeranno delle esternalità, di valore economico

imprecisato. Per semplicità immaginiamo che queste siano le uniche esternalità. Quando esse si

materializzano la loro appropriazione privata è integrale perché nessun prezzo è stato pagato dalle

imprese, ma tutto è stato finanziato dai contribuenti. Se le conoscenze scientifiche così acquisite

sono monopolizzate legalmente, ad esempio con brevetti o di fatto grazie all’operare di rendimenti

di scala, il prezzo pagato dai consumatori contiene una componente di rendita monopolistica. Il

contribuente-consumatore medio, che tipicamente ha un reddito inferiore all’azionista delle imprese

monopolistiche basate sulla conoscenza, subisce un doppio effetto distributivo avverso. Ha

finanziato l’innovazione a monte, con imposte spesso sub-ottimali sotto il profilo della progressività

(si pensi al ruolo ormai limitato che hanno le imposte personali progressive) e ne ricompra a valle le

ricadute a prezzo maggiorato dalla rendita di monopolio.

Come abbiamo detto sopra, in realtà non tutte le esternalità derivano dalla ricerca pubblica, vi

sono anche esternalità derivanti dalla ricerca privata (e il modello di Romer 1990 si riferisce a

quelle). Quindi la curva del beneficio marginale avrebbe due componenti, una a monte per la

ricerca pubblica e una a valle per quella privata, ma è facile vedere che le conseguenze sono

analoghe.

Si potrebbe pensare che questi effetti di appropriazione privata a valle della produzione di

beni pubblici non siano rilevanti. Nell’area OCSE nel 2015 il finanziamento pubblico della ricerca è

stato di 315 miliardi di dollari, di cui il 47 percento negli USA, e in particolare nel settore spaziale e

della difesa nazionale (OECD, 2017a). Nel 2015, la popolazione dei paesi OCSE era di 1,281

miliardi, e quindi il contributo diretto annuo in termini fiscali di ogni cittadino (di ogni fascia di età

e reddito) in media è stato di circa 246 dollari. Potrebbe sembrare poco. Ma ciò che non sappiamo è

quanto ogni cittadino paga a valle per ricomprarsi il valore delle innovazioni e come si

distribuiscono le rendite che ne derivano. E’ tuttavia interessante che se consideriamo le prime dieci

imprese del mondo nel 2018 per valore di mercato, le prime sei (o sette considerando Tencent

Holdings, società ICT cinese) si basano su tecnologie dell’informazione, mentre EXXON, a lungo

la prima impresa del mondo per valore di mercato è ora al decimo posto (Tab. 2)

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Tab.2. Le prime dieci società del mondo per valore di mercato nel 2018.

N Società Valore di mercato (miliardi di dollari)

1 Apple 926,9

2 Amazon 777,8

3 Alphabet 766,4

4 Microsoft 750,6

5 Facebook 541,5

6 Alibaba 499,4

7 Berkshire Hathaway 491,9

8 Tencent Holdings 491,3

9 JPMorgan Chase 387,7

10 ExxonMobil 344,1

Source: https://www.statista.com/statistics/263264/top-companies-in-the-world-by-market-value/)

Ovviamente, sarebbe del tutto improprio dire che questi enormi valori di mercato, che in

concreto sono valori di azioni possedute dagli investitori, siano direttamente derivanti dalla ricerca

del CERN per il World Wide Web o dal dipartimento della difesa USA per Internet (che deriva

come è noto da Arpanet, un progetto di rete militare). In Google c’è molto altro. Alphabet, cui

Google appartiene, nel 2017 ha investito 16,625 miliardi di dollari in R&S (erano 7,137 cioè meno

della metà nel 2013).23 Il valore di mercato riflette anche le aspettative generate dall’accumulo di

questo capitale intangibile derivante dalla ricerca (oltre che possibili bolle speculative). Resta il

fatto, tuttavia, che se Google esiste è perché gli inventori e i contribuenti che li hanno finanziati

hanno donato al mondo il concetto della rete Internet (oggi 3,5 miliardi di utenti) e del WWW (1, 2

miliardi di siti web).24

‘Human Genome Project (HGP)’ come si è detto, è costato circa 3 miliardi di dollari,

interamente finanziati dal settore pubblico di diversi Paesi, principalmente dagli USA ed ha

richiesto circa dodici anni.25 Oggi sequenziare interamente un genoma umano richiede meno di

mille dollari e meno di un’ora con le nuove tecnologie, sviluppate grazie a quell’investimento

pubblico iniziale. Nel giro di qualche anno sarà possibile sequenziare il genoma di milioni di esseri

umani e utilizzare l’informazione per una medicina mirata a gruppi geneticamente affini. Già

adesso oltre 350 prodotti biotech derivanti da queste conoscenze sono in fase di sperimentazione.

Migliaia di brevetti sono stati depositati da società private. Dati i lunghi tempi di sperimentazione

clinica, gli effetti si vedranno nei prossimi dieci anni ed oltre, ma è possibile che la medicina sarà

cambiata per sempre. L’offerta di farmaci, test diagnostici, apparecchiature mediche è saldamente

23 https://www.statista.com/statistics/507858/alphabet-google-rd-costs/ )

24 https://www.webopedia.com/DidYouKnow/Internet/Web_vs_Internet.asp

25 https://www.genome.gov/11006943/human-genome-project-completion-frequently-asked-questions/

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nelle mani di imprese oligopolistiche private, le quali hanno ottenuto gratuitamente le conoscenze

genetiche e tecnologiche con cui potranno riformulare le loro strategie. Nel prezzo dei nuovi

farmaci molecolari vi è certamente la spesa di R&S in-house da parte delle imprese, ma i pazienti

pagheranno una rendita su questi nuovi farmaci che in ultima analisi derivano dal loro stesso

finanziamento come contribuenti del HGP (si veda l’Appendice su questo tema). Data la difficoltà

di tassare il reddito delle società multinazionali, si può intuire che il problema distributivo che

abbiamo segnalato non è marginale. E’ inevitabile che le cose vadano così?

3.3. Imprese pubbliche della conoscenza.

In un certo senso, le IR sono imprese pubbliche di nuovo tipo. Benché finanziate dai governi,

ovvero da coalizioni internazionali di governi, le IR godono di ampia autonomia di bilancio,

discrezionalità manageriale, una governance interna molto flessibile e poco gerarchica, e

competono vigorosamente fra di loro perché i fondi pubblici sono scarsi rispetto alla infinita

curiosità degli scienziati. Combinano efficientemente capitale fisso e intangibile, lavoro e capitale

umano, con l’obiettivo di produrre nuova conoscenza scientifica e tecnologica. La competizione

non avviene sul mercato. Per lo più i servizi sono offerti a prezzo zero o al costo marginale.

Da questa prospettiva il CERN è una fabbrica del sapere contenuto in articoli scientifici,

preprints online, seminari e conferenze e sapere tacito che si tramanda nel laboratorio come in un

distretto Marshalliano dove i segreti del mestiere sono ‘nell’aria’. Le grandi collaborazioni

sperimentali come ATLAS e CMS, ognuna con circa tremila scienziati, hanno prodotto nell’arco

della loro esistenza pluridecennale migliaia di pubblicazioni. Questo output ha prezzo zero (i

preprints in arXiv, le slides in INDICO, ecc.) o quasi zero (gli articoli pubblicati nelle riviste). Ma

migliaia d’imprese fornitrici di tecnologia, di sviluppatori di software, di giovani ricercatori,

assorbono gradualmente questo sapere cui seguono innovazioni che creano valore economico. Per

quanto riguarda i fornitori di tecnologia del CERN, il nostro gruppo dell’Università di Milano e di

CSIL (Centre for industrial studies) ha esaminato 33.414 ordini con un valore maggiore di 10.000

CHF che hanno coinvolto, nel periodo 1995-2015, 4.204 imprese in 47 paesi. Analisi effettuate sia

sui dati di bilancio (Castelnovo et al., 2018) sia con indagini dirette (circa 700 imprese fornitrici

intervistate nel 2017) (Florio et al., 2018) dimostrano l’esistenza di un ‘effetto CERN’ sulla

performance delle imprese fornitrici (R&D, brevetti, produttività, profitti, capacità innovativa in

seguito all’ingresso in nuovi mercati in una varietà di settori).

Le sorgenti di luce di sincrotrone26 offrono tempo di uso di fasci di radiazione

elettromagnetica (raggi X di diversi ordini di grandezza più intensi di quelli convenzionali) agli

26 Ve ne sono una trentina nel mondo, in Italia ELETTRA a Trieste Si veda

https://en.wikipedia.org/wiki/Synchrotron_light_source

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utenti in vari settori che comprendono farmaceutica, biologia molecolare, cristallografia, materiali

innovativi, beni culturali, ecc. Il servizio è gratuito per i team sperimentali affiliati a istituti di

ricerca e offerti al costo di esercizio alle imprese. Queste ultime rappresentano peraltro meno del

dieci per cento degli utenti perché si preferisce che siano altri utenti, tipicamente ricercatori

universitari, a disegnare ed eseguire gli esperimenti. In una percentuale di casi significativa ne

derivano, prima o poi, innovazioni, brevetti e profitti. Le imprese si collocano quindi due gradini al

sotto: prima viene il lavoro dei fisici ed ingegneri del sincrotrone, poi i team accademici

sperimentali, poi la R&S delle imprese (talvolta ci sono anche altri passaggi intermedi).

I sincrotroni per l’adroterapia del cancro27 come il CNAO di Pavia, ottengono rimborsi del

costo di esercizio dai servizi sanitari pubblici a tariffe non di mercato, data anche la unicità del

servizio offerto. Esplorano approcci di ricerca alternativi rispetto all’uso dei raggi X, come protoni

e ioni di carbonio, e generano conoscenze tecnologiche e scientifiche che si diffondono in altri

centri di adroterapia.

Altri esempi riguardano l’archiviazione e distribuzione di informazione digitale. EMBL-EBI,

l’istituto di bio-informatica dell ‘European Molecular Biology Laboratory fornisce accesso online ai

propri dati inerenti a scienze naturali gratuitamente e, generalmente, senza neppure richiedere che

l’utente si registri (Florio, 2019). Un rapporto sull’uso di questi dati mostra che anche le PMI di

vari settori accedono frequentemente (EMBL-EBI, 2016). Un’analisi sulle citazioni dei brevetti

condotta da Bousfield et al. (2016) relativi alla rete di biodati ELIXIR (comprendente oltre 200

istituti) mostra che dal 2014 sono stati depositati oltre 8.000 brevetti che citano i dati ottenuti da tale

infrastruttura.28 Nel mese di gennaio 2017 EMBL-EBI ha registrato circa 40 milioni di accessi al

giorno effettuati da 3.2 milioni di diversi indirizzi IP per scaricare i dati. Le imprese rappresentano

il 20% degli accessi, tuttavia molti altri utenti come università e istituti di ricerca a loro volta

lavorano con imprese biotech e farmaceutiche.

L’EMBL-EBI Industry Programme coinvolge la maggioranza delle 20 imprese del mondo più

performanti nei settori farmaceutico, medico e agroalimentare. Un esempio interessante di come si

possa creare un cluster ‘mission-oriented’ attorno ad una IR pubblica come EMBL-EBI è

l’iniziativa Open Targets29 che associa ad EMBL-EBI i partner GSK, Biogen, Takeda, Celgene, e

l’istituto Wellcome Sanger. I partecipanti si sono impegnati in un programma focalizzato su

oncologia, immunologia e malattie neurodegenerative che ha l’obiettivo di identificare dei ‘targets’

genetici su cui mirare potenziali farmaci. Si tratta di ricerca pre-competitiva integralmente pubblica

27 https://it.wikipedia.org/wiki/Terapia_adronica

28Il 14 percento concerne brevetti per enzimi industriali, il 16 percento per i vaccini e marcatori biologici rispettivamente, ecc., con

una costante tendenza all’aumento. Si veda anche: https://drive.google.com/file/d/0B8in1NtGRloYcFNLSFpZWWthYzg/view,

ultimo accesso 25 maggio 2018.

29 https://www.opentargets.org

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(open science) che identifica le associazioni statistiche fra geni, meccanismi di generazione delle

malattie e molecole farmacologiche. Il progetto si articola in due aree: a) le informazioni disponibili

su targets genetici potenzialmente correlati a malattie sono resi disponibili nella Open Targets

Platform; b) informazioni su esperimenti su larga scala avviati per validare le ipotesi sui legami

causali fra targets e malattie in una ottica di ricerca a largo raggio sulle terapie.

Un esempio analogo è il programma Copernicus dell’ESA (si veda sopra) che gestisce i

satelliti Sentinels per l’osservazione terrestre. Come accennato sopra, l’utilizzo a valle di questi dati

è talmente variegato che è difficile persino mappare gli utenti. Gli utenti registrati erano circa

160.000 lo scorso anno, tra cui forse 500 imprese. Ad esempio, la navigazione commerciale nel

Mar Baltico si avvale dell’osservazione dei ghiacci per dirigere i rompighiaccio e la flotta

mercantile con notevoli risparmi di costi e tempi per le società armatrici delle navi fino ai

supermercati finlandesi che possono gestire in modo più flessibile il livello di scorte grazie alla

maggiore regolarità degli approvvigionamenti. Vi sono vari esempi analoghi.

La competizione fra queste IR è quella tipica della scienza, basata sulla concorrenza per

ottenere fondi sulla base dei risultati scientifici ottenuti e sperati, meccanismi di reputazione, e

dimostrazione, in qualche modo, dei benefici sociali potenziali attraverso la comunicazione. Che

un’impresa venda a prezzo zero servizi che hanno costo marginale nullo è la condizione di

efficienza allocativa da manuale. In questo senso sono efficienti. Inoltre, questo nuovo tipo di

“imprese” sono efficienti anche dal punto di vista tecnico. Hanno bilanci solitamente piuttosto rigidi

basati su trasferimenti annuali e poco più (tutt’altro che ‘soft budget constraints’) e hanno attivi non

liquidi, quindi devono ottimizzare le risorse per far fronte a programmi di ricerca spesso

estremamente costosi e complessi. Secondo The Economist ( “Titan of innovations”, April 27,2103)

le grandi imprese multinazionali dovrebbero imparare da loro:

I progetti ‘Big Science’ differiscono dalle aziende notevolmente. Sono finanziati pubblicamente e non

cercano profitti ... Eppure, come le aziende, devono innovare furiosamente, sfruttare al massimo le

risorse limitate e battere i rivali nelle scoperte ... I loro obiettivi sono spesso chiari: trovare l’ Higgs,

sequenziare il genoma, esplorare Marte - ma i mezzi per raggiungerli sono tutt'altro che noti.30

Se questo è possibile a monte della catena di creazione di valore tramite la produzione di

scienza su larga scala, perché non dovrebbe essere possibile allo stadio successivo, cioè quello in

cui si formano le grandi imprese basate sulla conoscenza? In altre parole, perché i governi

30“Big Science” projects differ from companies in important ways. They are publicly financed and do not seek profits… Yet, like

companies, they must innovate furiously, make the most of limited resources and beat rivals to breakthroughs…Their aims are often

clear-cut - find the Higgs, sequence the genome, potter around Mars – but the means to attaining them are anything but ’.

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dovrebbero lasciare interamente in mani private lo sfruttamento delle grandi discontinuità

tecnologiche e dei risultati economici che ne derivano?

Un argomento frequentemente ripetuto è che le imprese pubbliche non sarebbero in grado di

essere sufficientemente innovative. L’evidenza empirica a favore di questa tesi è scarsa.

Sterlacchini (2012) ha dimostrato che le imprese privatizzate nel settore dell’energia investono in

R&S significativamente di più di quanto facevano le imprese pubbliche. Belloc (2014) ha mostrato

che le asserite differenze di innovatività fra imprese pubbliche e private vengono meno quando si

considerano, fra l’altro, le condizioni di contesto. Clo, Florio e Rentocchini (2018) mostrano che le

imprese di telecomunicazione a partecipazione pubblica nel mondo hanno depositato più brevetti

delle omologhe private. Benassi e Landoni (2017) studiano i casi Thales e ST Microelectronics;

Landoni (2018) quello dell’Agenzia Spaziale Italiana come esempi di innovatività di organizzazioni

pubbliche. Bortolotti et al (2018) trovano che le imprese a partecipazione pubblica investono di più

in R&S delle imprese private (ma non così quelle controllate interamente dallo Stato). In generale,

il confronto di produttività totale dei fattori (per quanto mal misurata) e persino di redditività fra

imprese pubbliche contemporanee rispetto alle private è tutt’altro che sfavorevole nelle economie

più sviluppate. Castelnovo, Del Bo, Florio (2018) mostrano che la produttività delle maggiori

imprese di telecomunicazioni a partecipazione pubblica, benchè mediamente inferiore alle imprese

privata, è pari e persino superiore alle imprese private nei paesi in cui la qualità delle istituzioni

pubbliche è alta (dove la corruzione è bassa), ad esempio nei paesi scandinavi.

La ricerca empirica sulle imprese pubbliche contemporanee in questo campo è ancora

inadeguata, probabilmente perché ci si attendeva che le privatizzazioni avrebbero sostituito le

imprese pubbliche che solo recentemente sono tornate ad essere studiate: negli ultimi anni sono stati

pubblicati sul tema varie monografie, articoli e diversi numeri speciali di riviste internazionali

(Florio 2015) ed è in corso di preparazione un Handbook of State-Owned Enterprises (Routledge).

In questo quadro, ci sembra interessante discutere di politiche di promozione (o sviluppo) di nuovi

tipi di imprese pubbliche come hub di conoscenza e orientate alla soluzione di grandi sfide

scientifiche, tecnologiche e sociali. L’obiettivo di queste imprese dovrebbe essere quello di

mantenere, per quanto utile e possibile nella sfera pubblica, i ritorni economici della ricerca

scientifica, contrastando così la formazione dei monopoli privati del sapere.

Il modello ‘Ginevra’ delle IR mostra come lo stato possa fare qualcosa che le imprese non

possono fare: investire a lunghissimo termine nella conoscenza (progetti pluridecennali), scegliere

di renderla accessibile gratuitamente o al costo, senza confini geografici o barriere legali, inventare

nuove tecnologie di punta, gestire una organizzazione complessa con un management

internazionale selezionato esclusivamente su criteri di merito e incentivato da motivazioni

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intrinseche, non da premi finanziari. Questo miracolo, incomprensibile a chi pensa che le

organizzazioni efficienti siano solo quelle orientate al profitto, può forse essere visto come un

nuovo paradigma di politica pubblica. Il CERN potrebbe essere un esempio di frontiera, ma non un

caso unico. Potrebbe invece essere paradigmatico di una classe potenzialmente ampia di imprese

pubbliche di nuovo tipo. Imprese la cui missione preminente è quella di produrre conoscenza e

renderla accessibile ma al tempo stesso sviluppare l’offerta di grandi innovazioni tecnologiche con

modalità alternative al monopolio privato. Di seguito verrà argomentato che forse nessun

investimento oggi potrebbe essere migliore per uno stato che sia guidato da una politica

lungimirante.

Usiamo il termine impresa pubblica in questo contesto per enfatizzare un punto andato perso

in trenta anni di politiche di privatizzazione. Lo stato non può essere solo un regolatore, deve anche

essere in senso lato imprenditore, cioè produrre creativamente. L’unico modo perché una

organizzazione apprenda è che faccia qualcosa che richieda la soluzione di problemi. In fondo

questo è il messaggio importante della teoria della crescita endogena, e non vale solo per le imprese

private. Uno stato che si limiti a regolare ciò che fanno gli altri non apprende e quindi in ultima

analisi difficilmente crea benessere. Se preleva e redistribuisce risorse create altrove perde

legittimazione, come stiamo vedendo nella nostra epoca di discredito della sfera pubblica. Chi si

percepisce come un contribuente netto ha interesse a tirarsi fuori e a sostenere politici anti-politici,

cioè a distruggere le basi della democrazia. E’ una ricetta sicura per la polarizzazione sociale e in

ultima analisi per la perpetuazione della diseguaglianza.

Per guadagnarsi il rispetto dei cittadini, uno stato deve produrre qualcosa di utile, e farlo con

proprie organizzazioni dotate di una missione precisa. Sotto questo profilo le banche di sviluppo

sono spesso un esempio di come imprese pubbliche dotate di una chiara missione possano fare un

buon lavoro di sostegno all’innovazione. La Banca Europea degli Investimenti gode attualmente di

un rating maggiore di quella del debito sovrano dei paesi che vi partecipano e ha un vasto

portafoglio di operazioni nel campo dell’economia della conoscenza, con oltre 500 operazioni di

finanziamento a soggetti privati e pubblici.31 Si potrebbero fare diversi altri esempi di imprese

pubbliche e banche di sviluppo che direttamente o indirettamente svolgono questo ruolo. Nel

periodo 20017-13 queste operazioni sono state indirizzate a networks ICT per il 17%, 21% ricerca

sviluppo e innovazione in generale, 5% imprese del settore dell’automobilistico, 5% R&S nelle

imprese farmaceutiche, 15% R&S nelle altre imprese manifatturiere, 16% settore dell’istruzione,

13% R&S nel settore pubblico, e il rimanente in altri settori.

31 http://www.eib.org/attachments/ev/ev_support_to_knowledge_economy_en.pdf .

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3.4. Missioni pubbliche

Abbiamo citato CERN, EMBL, BEI: organizzazioni sovranazionali europee. La frontiera

della produzione di beni pubblici globali passa forse anche per l’abolizione delle frontiere

attraverso imprese di nuovo tipo, in cui non solo non vi siano investitori privati, ma neppure stati

nazionali egemoni. Il paradigma di Ginevra e del nuovo mondo della produzione di conoscenza è

cosmopolita, non diversamente, ma più radicalmente, di quanto lo siano i gestori globali di

informazione come Alphabet. L’agenda della costruzione di un nuovo portafoglio di imprese

pubbliche potrebbe essere di preminente interesse per l’Europa, se mai la UE potesse uscire dal

processo di autodistruzione innescato dal prevalere degli interessi e delle ideologie del neoliberismo

e del nazionalismo.

Immaginiamo per un momento che si possa invece pensare nei termini di robusti progetti di

imprese europee a missione pubblica, orientate alla conoscenza, come hub di iniziative di largo

respiro. A titolo puramente di esempio, vi potrebbero essere cinque campi in cui queste

organizzazioni, di cui vi sono già embrioni, potrebbero essere utili: transizione energetica, mobilità

sostenibile, comunicazione digitale, salute e transizione demografica, cambiamento climatico e

gestione dei grandi rischi .

a) La transizione energetica

Stiamo vivendo una transizione energetica di immensa portata, che consiste nel tentativo di

risolvere per sempre uno dei problemi centrali dello sviluppo umano, quello di come usare la natura

senza distruggerla per compiere lavoro (nel senso della fisica: energia associata ad uno spostamento

(Welsch, 2017; Solomon and Krishna, 2011; Fouquet and Pearson, 2012; Araujo, 2014). Non

possiamo inventare una macchina che crei il moto perpetuo senza dissipare energia, ma sappiamo

che bruciare idrocarburi e combustibili nucleari non è la scelta giusta per i prossimi secoli. Per

quanto importanti siano stati gli sforzi di alcuni governi europei (ad esempio la Danimarca) di

promuovere le energie rinnovabili, come il solare e l’eolico, ci sono problemi tecnologici e

scientifici tuttora irrisolti per cui il Kwh rinnovabile ancora non costa meno di quello fossile

(Meyer, 2004 ; Parajuli, 2012 ; IRENA, 2017).). Possiamo andare oltre?

La UE finanzia un costosissimo progetto di ricerca sulla fusione nucleare (ITER), che ha tempi

molto lunghi e che richiederebbe, anche se avesse successo, tecnologie sulla cui industrializzazione vi è

molta incertezza. Nel frattempo, forse, oggi servirebbe una nuova organizzazione mission-oriented, con

una agenda ambiziosa di ricerca su tutto lo spettro delle opzioni di R&S nel campo della generazione,

distribuzione ed efficienza energetica, non solo quindi nel nucleare. Quello che si comincia ora a

intravedere è un mondo in cui il costo marginale di

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produzione e trasmissione di energia potrebbe diventare zero o estremamente piccolo. Le grandi

imprese private o semipubbliche non possono investire nella scoperta dei principi tecnologici e

scientifici che ne distruggerebbero la profittabilità, e infatti hanno spesso smesso di farlo o tagliato i

budget di R&S. I governi nazionali hanno ideato costosi schemi di trasferimento in bolletta di

sussidi alle imprese elettriche per gli investimenti sulle rinnovabili e per la capacità di riserva. Ma

la via maestra non è il sussidio di tecnologie ancora immature, occorre un salto nella conoscenza

che porti queste tecnologie a soppiantare definitivamente idrocarburi e nucleare. Un nuovo Euratom

(quello attuale è inadeguato) dovrebbe essere piuttosto un CERN dell’energia, concepito come hub

di imprese prevalentemente pubbliche alla frontiera dell’innovazione. Come si è ricordato, cento

anni dopo l’articolo di Einstein sull’effetto fotoelettrico, sappiamo che occorre un ulteriore salto

nella fisica dei pannelli solari. Attualmente, su scala globale solo il 2% dell’energia prodotta viene

dal fotovoltaico, con una efficienza media inferiore al 20%. Le prime idee sulla fusione nucleare

risalgono agli anni ’20, ben prima del progetto Manhattan. ITER e DEMO, cento anni dopo, sono la

strada giusta? Non è solo questione di generazione. Oggi la superconduttività (i magneti del CERN

hanno richiesto tecnologie di avanguardia nel campo della criogenia e dei materiali, attentamente

studiate ad esempio da EDF per possibili ricadute nella trasmissione elettrica) e la

computerizzazione potrebbero rivoluzionare le reti. Per trarre fino in fondo le conseguenze dei

principi scientifici della transizione energetica accorerebbe un’iniziativa pubblica sovranazionale

che non sia paralizzata dalla consapevolezza che se ha successo il prezzo dell’elettricità potrebbe

essere polverizzato e il ramo su cui siede segato. La sua missione non dovrebbe quindi essere legata

ad un singolo progetto, sia pure fondamentale come la fusione nucleare, ma ad una missione più

ampia: chiudere definitivamente con il progresso scientifico l’era dei combustibili fossili, della

fissione nucleare, delle reti in rame, dello spreco energetico. Forse alcune delle imprese elettriche

pubbliche europee potrebbero essere coinvolte in una missione di questo tipo attraverso contratti di

programma o altri meccanismi. L’impatto su scala planetaria dell’uguaglianza sociale nell’accesso

ad un nuovo modello energetico non può essere sottovalutata, se si considera quale impatto esso

avrebbe sulla vita delle persone e sulla produttività delle imprese. Un esempio fra mille: in una

recente tesi di dottorato presso l’università di Milano,32 si mostra che in molti paesi africani (dati di

survey della Banca Mondiale), le frequenti e imprevedibili interruzioni di corrente elettrica sono fra

i principali ostacoli alla produzione manifatturiera e nei servizi (per l’Etiopia in particolare). Inoltre,

nel 2016 la percentuale di popolazione senza accesso alla rete elettrica era dell’80% in

32 Power outages, economic cost, and firm performance: Evidence from Ethiopia. Lamessa T. Abdisa, Utilities Policy, vol 53, August

2018.

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Congo, del 60% in Etiopia, ecc. Sono problemi risolvibili con nuove tecnologie a basso costo

(minigrids, fotovoltaico, accumulatori, ecc.).

b) La mobilità sostenibile

Sappiamo che il paradigma del motore che brucia idrocarburi è l’analogo della generazione

elettrica convenzionale; che l’idea di un’automobile pro-capite non è compatibile con le nostre

città; che l’abbattimento dei costi del trasporto aereo sta creando uno scenario di congestione dei

cieli e degli aeroporti; che il trasporto via mare e gomma di merci crea problemi ambientali enormi.

Il rapporto Global Mobility (OECD, 2017) dimostra che siamo ben lontani da un modello di

mobilità sostenibile.

Non sappiamo ancora bene con che cosa sostituire il mondo dei trasporti che conosciamo e

non sembra che le soluzioni possano venire dalla R&S di chi in definitiva vuole vendere più

automobili, più aerei, più portacontainer. Se davvero andiamo verso l’automobile privata senza

guidatore, questo potrebbe essere un esempio della torsione privatistica del progresso scientifico.

Un progresso ben più significativo potrebbe essere piuttosto come fare a meno dell’automobile. Ma

come? Non è solo una questione di scelte politiche, come se bastasse ordinare ai popoli di andare in

bicicletta, ma soprattutto di innovazione tecnologica radicale. Anche qui occorrerebbe un soggetto

che - non motivato dal profitto che ne può trarre, ma dal benessere sociale che ne può derivare -

metta a disposizione di tutti le conoscenze necessarie per uscire dal modello attuale di mobilità.

Non saranno le società che producono automobili, nemmeno se a partecipazione pubblica come

Renault e Volkswagen a risolvere il problema, a meno di non essere attratte in una diversa agenda.

Occorrerebbe un soggetto pubblico che cambi le regole del gioco e che si ponga il problema di

come la scienza e nuove tecnologie possano in primo luogo drasticamente diminuire la necessità di

costosamente spostare merci e persone nello spazio fisico, ovvero possano farlo con costi

ambientali ed economici molto minori di quelli attuali. Ad esempio, la tecnologia che supporta

Skype e servizi analoghi gratuiti rende, di fatto, spesso poco efficienti le riunioni virtuali per la

qualità del segnale. Questo dipende da una serie di problemi tecnici noti agli esperti di

telecomunicazioni, che sarebbero tuttavia risolvibili con un miglioramento nelle reti e forse nei

protocolli. Inoltre la necessità di spostare nello spazio merci e persone dipende forse anche

dall’insufficiente sviluppo di alcune tecnologie (come la stampa 3D e internet-of-things), che

peraltro pongono nuovi problemi sociali. Sotto il profilo dell’uguaglianza, si consideri quanto

importante sarebbe per le aree più disagiate, non solo nei PVS ma anche nei territori del nostro

stesso paese, potere evitare il costo (di tempo, di fatica, di stress psicologico) derivante dal fatto che

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milioni di persone ogni mattina e ogni sera migrano fisicamente dalla abitazione al posto di lavoro

quando sarebbero disponibili tecnologie che riducano fortemente questo immenso spreco di risorse.

c) L’economia digitale

Ancora più evidente forse è la maturità di una nuova impresa pubblica che rompa le barriere

che ci costringono a pagare un prezzo per la comunicazione digitale e per l’elaborazione dei dati,

quando sono a portata di mano le innovazioni che renderebbero pari a zero il costo marginale di

elaborare e trasmettere l’informazione elettronica in ogni sua forma: voce, dati, contenuti. Abbiamo

già citato Arpanet e il World Wide Web. La tecnologia dei satelliti di telecomunicazione,

metereologici, ecc. nasce da ricerche di US Navy e dallo Sputnik sovietico (ne sono stati lanciati

oltre 14.000 da allora e ci sono oggi in orbita forse 4.000 satelliti attivi, con milioni di scorie). La

fibra ottica è nata dalla ricerca universitaria indipendente in UK e altrove. Le potenzialità che

potrebbero derivare dagli sviluppi di campi come i computer quantistici e la nuova fisica dei

materiali applicata all’economia digitale sono immensi, ma non si può pretendere che siano

sviluppate solo o principalmente dalle imprese di information technology che vivono dal far pagare

un prezzo agli utenti per ogni bit processato, quando con le nuove tecnologie il costo marginale è

zero. Anche in questo caso occorrerebbe un nuovo soggetto mission-oriented, andando oltre lo

stillicidio di modesti e frammentari sussidi pubblici nel campo della ‘agenda digitale’. Ad esempio,

iniziative -peraltro private- come OneWeb33 mostrano che esistono tecnologie con cui sarebbe

possibile nel giro di un decennio chiudere completamente il digital divide, portando internet a

banda larga nel 50% del mondo non connesso, attraverso una flotta di 900 piccoli satelliti non

geostazionari prodotti industrialmente e con terminali di ricezione a basso costo. L’impatto ad

esempio sulle scuole rurali, sulle opportunità di lavoro nei PVS e nei territori disagiati, sulla

prevenzione dei rischi potrebbe trasformare il mondo come lo conosciamo. L’instabilità della base

finanziaria delle iniziative private in questo campo suggerisce che un’impresa pubblica

internazionale connessa alle agenzie spaziali potrebbe realizzare una rete globale a costo marginale

nullo in tempi relativamente brevi, su frequenze attualmente libere.

d) La transizione demografica

La transizione demografica globale in corso ha due aspetti: l’invecchiamento della

popolazione (oramai non solo in Occidente) e le grandi migrazioni. Sono tendenze epocali in questa

misura del tutto inedite. La prima deriva dall’allungamento della speranza di vita e dalla

procreazione responsabile, e pone alla ricerca in campo sanitario sfide cui il modello attuale di cure

33 http://www.oneweb.world

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è impari. Tale modello è basato sulle imprese private della salute (farmaceutiche, elettromedicali,

ecc.). Negli Usa e altrove tutto funziona con assicurazioni e altre organizzazioni basate sulla rendita

finanziaria. Le une e le altre sono più ostacoli che elementi favorevoli al salto di qualità della

conoscenza necessaria per scoprire, ad esempio, farmaci antitumorali che non costino direttamente

al paziente o indirettamente al contribuente centinaia di migliaia di euro per anno di vita

guadagnato. Si potrebbe immaginare un CERN della medicina, anche studiando il caso degli

National Institutes of Health, l’organizzazione pubblica USA nel Maryland che raggruppa 27 istituti

di ricerca, ospitati in 75 fra edifici e laboratori, universalmente considerata l’eccellenza mondiale

nel campo (ha contribuito a 156 premi Nobel)34

. Si dovrebbe reinventare la relazione fra una grande

impresa scientifica di questo tipo e la sanità pubblica del modello europeo, che peraltro nulla ha da

imparare dagli USA, e rompere il tabù per cui gli stati non possono produrre i farmaci e i servizi

che per lo più, in Europa, essi stessi acquistano.

A fronte dell’invecchiamento sta il declino demografico nelle economie sviluppate e le

migrazioni di massa dal Sud, dove le malattie e la denutrizione si accompagnano a guerre e

sottosviluppo. Le risorse necessarie per affrontare alcune di queste sfide in Africa non sono solo

quelle della cooperazione allo sviluppo, ma anche quella della scienza. Siamo ben lontani da avere

messo a punto le soluzioni scientifiche, tecnologiche ed economiche per assicurare una convivenza

pacifica fra la natura del pianeta e i suoi 7,5 miliardi di abitanti o i forse 9,7 miliardi previsti nel

205035

. Negli ultimi quindici anni il genere umano è cresciuto di un miliardo, cioè come tutta la

popolazione del mondo subito prima della rivoluzione industriale, all’inizio dell’800. Non

sappiamo affatto come gestire la combinazione di rischi ambientali, demografici, sanitari che ci

aspettano, mentre i demagoghi invocano muri e torri di guardia. Non è solo questione di politiche

che sarebbero giuste e che non si riescono ad attuare per interessi e miopia (come la prevenzione

delle malattie banali nei PVS ). Quella è metà del problema. L’altra metà è che non abbiamo ancora

le conoscenze e gli strumenti operativi necessari per evitare, ad esempio, una imminente catastrofe

alimentare e sanitaria africana, di cui vediamo solo piccole avvisaglie sulle barche dei disperati. La

Green Revolution in India negli anni ‘60 è un esempio di come la genetica possa contribuire ad

affrontare il problema delle carestie (Chakravarti, 1973; Sen, 1974), ma illustra anche quali

problemi oggi ponga la mancanza di una rete globale di imprese no-profit che mettano a

disposizione dei PSV alternative a quelle insostenibili oggi offerte dalle multinazionali delle

biotecnologie. Monsanto (ora acquisita da Bayer) non ha le stesse motivazioni alla ricerca che

potrebbe avere una agenzia pubblica sovranazionale che si occupasse in modo integrato di salute,

34 https://www.nih.gov/about-nih/what-we-do/nih-almanac/nobel-laureates

35 http://www.un.org/en/development/desa/news/population/2015-report.html

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alimentazione e sostenibilità ambientale, collaborando con i PVS ad una offerta al costo di

soluzioni di avanguardia in questi campi.

e) Cambiamento climatico e grandi rischi ambientali

Infine, la ricerca sui grandi rischi fra cui soprattutto, ma non solo, quelli che derivano dal

cambiamento climatico36 (OECD, 2015), potrebbe essere matura per un salto di qualità basato su un

progetto di messa in sicurezza del pianeta. Ci sono stati grandi progressi nella previsione dei

fenomeni metereologici grazie alle tecnologie di osservazione terreste e ai modelli matematici

dell’atmosfera. Inoltre, oggi abbiamo una capacità nuova di monitoraggio dell’ambiente marino e

terreste, ma siamo ben lontani da disporre del sapere operativo necessario per fare fronte agli

scenari a lungo termine che il riscaldamento globale prospetta. Alcuni dei temi accennati sopra sono

peraltro strettamente intrecciati. Nuove tecnologie per l’energia, la comunicazione digitale, il

trasporto e il controllo dei grandi fenomeni demografici sono essenziali per fare fronte al

cambiamento climatico e i suoi effetti, ma poi occorrono anche passi avanti importanti e radicali

che non siano solo legati a politiche, ma anche dalla capacità di intervento pubblico diretto con

strumenti operativi basato sulla conoscenza. L’idea che tutto si possa fare con politiche e trattati,

peraltro esposti al free riding, è illusoria. La scienza e la tecnologia di un mondo il cui clima sta

cambiando si apprendono intervenendovi e occorrono organizzazioni che facciano esperienze

concrete.

4. Conclusioni

L’appropriazione di conoscenze è oggi forse più importante della proprietà di capitali

tangibili nel determinare la distribuzione dei redditi. In che modo in concreto si potrebbe quindi

contrastare l’appropriazione privata, inevitabilmente oligopolistica, dei risultati della ricerca? La

nostra proposta è che coalizioni di governi lungimiranti, se ne esistessero, dovrebbero promuovere

hub tecnologici sovranazionali di imprese dove si concentri e da cui si diffonda la migliore ricerca

del mondo, dove attivamente si promuova il trasferimento tecnologico alle imprese pubbliche e

private degli stati membri e terzi, dove la missione pubblica, chiara e riconoscibile, sia quella di

spostare in una ottica a lungo termine ciò che sappiamo in alcuni campi cruciali. La nostra idea è

che organizzazioni quali CERN, EMBL, ESA, organismi multinazionali espressione di comunità

scientifiche di decine di migliaia di ricercatori con il supporto di attori finanziari pubblici come la

BEI, evolvano come hub di trasferimento scientifico e tecnologico, creando essi stessi o

partecipando a clusters di imprese pubbliche, miste o forse anche private fra loro consorziate e

orientate a missioni pubbliche di ampio respiro. Andrebbe preservato il modello delle IR che

36 Si veda il rapporto «Climate Change Risks and Adaptation»

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abbiamo descritto nella sezione 2, associandovi finalità che si misurano anche con le ricadute

applicative ed economiche.

I meccanismi finanziari per sostenere questi grandi progetti possono essere vari e la loro

discussione esula da quanto qui possiamo fare, ma essenzialmente si tratterebbe di due tipi di

schemi:

a) Ricavi diretti derivanti dalla vendita sul mercato di prodotti e servizi innovativi, o di licenze,

a prezzi pari al costo medio quando questo sia socialmente accettabile;

b) Ricavi indiretti derivanti da contratti di programma con gli stati partecipanti in relazione ad

obiettivi raggiunti quando è più efficiente praticare prezzi nulli o pari ad un costo marginale

inferiore al costo medio.

Per quanto concerne il primo caso, la politica attuale da parte delle IR e dei governi che le

sostengono è quella della donazione al mondo senza alcuna condizione delle conoscenze acquisite.

Sembra un modo progressista di organizzare la scienza. Ma se un nuovo farmaco può essere

brevettato a valle della ricerca di base pubblica o sostenuta da fondi pubblici, forse la cosa migliore

sarebbe che sia un soggetto pubblico a svilupparlo, forse a produrlo, e/o successivamente a

concedere le licenze a condizioni socialmente accettabili. Non è affatto chiaro quale sia oggi il

ruolo innovativo a lungo termine delle multinazionali farmaceutiche che a causa dei costi dei trials

clinici e per altre ragioni in realtà stanno ritirandosi dalla ricerca più rischiosa, ed in ogni caso dalla

ricerca su farmaci non remunerativi, e nel frattempo praticano un sistema di prezzi inefficiente (cfr.

Appendice). A questo punto tanto vale che i proventi della ricerca ritornino al settore pubblico e che

il controllo sui prezzi segua criteri equitativi e non di massimo profitto monopolistico. Esempi

analoghi si possono fare nel campo della comunicazione digitale e dell’energia.

Per quanto riguarda i ricavi indiretti, le imprese partecipanti a queste iniziative andrebbero

compensate anche per quanto fanno risparmiare ai governi e ai cittadini. Ad esempio, innovazioni

che abbattano i costi energetici e il riscaldamento globale per definizione non hanno ricavi di

mercato, ma possono essere remunerate con contratti di programma perché in definitiva i

contribuenti presenti e futuri guadagnerebbero anche economicamente da queste innovazioni.

Non è scritto nella pietra che scienza e tecnologia debbano contribuire alla diseguaglianza, al

contrario. Occorre tuttavia che la produzione di scienza su larga scala e le sue ricadute economiche

siano governate per evitare la formazione di monopoli privati più potenti di quelli che hanno

dominato il secolo scorso nel campo dell’energia e delle materie prime. E’ forse a portata di mano

una grande trasformazione dei rapporti di produzione basata su tecnologie di produzione a costi

marginali tendenzialmente nulli. Uno scenario in cui energia, informazione, mobilità, salute e

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alimentazione, ambiente siano un po’ meno appropriate da monopoli privati e un po’ più offerte in

modo socialmente efficiente da nuovi tipi di impresa pubblica potrebbe avere effetti importanti

sulla riduzione delle diseguaglianze. Gli esempi che abbiamo fatto, in modo molto frammentario e

schematico, sono solo illustrativi di che cosa una politica pubblica della scienza lungimirante

potrebbe fare. La creazione di reti di imprese pubbliche europee di questo tipo, non solo agenzie di

finanziamento della ricerca, ma vere e proprie organizzazioni con capacità autonoma di fare e di

apprendere, forse potrebbe dare un senso nuovo all’ Unione Europea. Un senso basato non

sull’imitazione del modello USA (che in definitiva presuppone una ricerca essenzialmente basata

sul finanziamento del complesso militare-industriale), ma su una via europea più avanzata ed

originale. Si tratta di modificare per quanto possibile un modello di creazione e sfruttamento della

conoscenza che ha implicazioni distributive forse mai ben misurate, ma sicuramente penetranti, data

la natura del capitalismo contemporaneo.

Ci rendiamo conto che queste idee sono sommarie, vaghe, e cadono in un momento difficile.

Siamo consapevoli dei limiti del nostro discorso. Ma ci premeva indicare in che direzione la ricerca

scientifica e un’iniziativa pubblica oggi potrebbero contribuire a risolvere le grandi diseguaglianze

che minacciano il nostro futuro.

Appendice. Pubblico e private nella ricerca farmaceutica.

Secondo Prasad et al (2017) la spesa annua globale per farmaci antitumorali è nell’ordine di

100 miliardi di dollari. Negli USA il costo per paziente di un nuovo farmaco antitumorale è di circa

100 mila dollari all’anno, con significativi aumenti dei prezzi di lancio di anno in anno (del 10%

secondo Howard et al 2015). Quanto dei relativi costi di ricerca è sostenuto dai contribuenti?

Un recentissimo articolo, Cleary et al (2018), pubblicato da PNAS (Proceedings of the

National Academy of Sciences of the United States of America) consente per la prima volta di

stimare il valore del contributo dei National Institutes of Health (la più grande infrastruttura

pubblica di ricerca del mondo in campo biomedico) alla messa a punto di farmaci.

Il NIH, che fa parte del Department of Health (il ministero della salute del governo USA), ha

un bilancio annuale di circa USD 30 miliardi, un terzo più della NASA, e 30 volte il CERN37

, e

ospita 1.200 ‘principal investigators’ e 4.000 ricercatori post-doc, che afferiscono a 27 istituti nel

campus di Bethesda (Maryland). La ricerca svolta direttamente da NIH, o sostenuta attraverso i

grants alle università e altri istituti, comprende una varietà di campi, dal cancro all’HIV,

dall’invecchiamento all’ alcolismo e ai disordini mentali. NIH insieme al Department of Energy è

stata l’istituzione chiave per l’avvio di HGP.

37 https://www.nih.gov/about-nih/who-we-are

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Cleary et al (2018) hanno studiato il contributo che NIH ha apportato a ciascuno dei 210

farmaci approvati fra il 2010 e il 2016 dalla Food and Drug Administration, l’autorità di

regolazione dell’industria negli USA, il più grande mercato del mondo per i farmaci. I risultati sono

i seguenti:

- Il contributo cumulativo di NIH alla ricerca che sta alla base di questi farmaci è stato di oltre

100 miliardi di dollari, (20 % del budget NIH) corrispondenti a oltre 200.000 anni/ricercatore

(1985-2016) e di 115 miliardi considerando un altro fondo pubblico (ARRA);

- Oltre il 90% dei fondi ha riguardato lo studio dei targets (ovvero gli obiettivi biologici dei

farmaci, l’aspetto più critico della ricerca)

- Lo studio ha identificato oltre due milioni di pubblicazioni scientifiche connesse ai 210

farmaci e ai 151 target biologici, di cui 600.000 lavori citano NIH come finanziatore.

- Il contributo pubblico medio per ciascun principio attivo brevettato dalle imprese

farmaceutiche è di circa 840 milioni di dollari.

La maggioranza dei farmaci approvati sono antitumorali, anti-infettivi (particolarmente AIDS

ed epatiti) seguiti da farmaci relativi a malattie del metabolismo, cardiovascolari, immunologiche, e

del sistema nervoso centrale.

Una volta identificato il target biologico, più di un farmaco efficace può essere identificato a

valle e vi sono importanti interazioni fra i due livelli della ricerca (targets e nuove entità

molecolari). Il modello tradizionale della ricerca farmaceutica presuppone che la ricerca di base sia

svolta dal settore pubblico nei propri laboratori o nelle università con il sostegno del settore

pubblico, e che invece, la proprietà intellettuale venga trasferita al settore privato. Le società

farmaceutiche a loro volta sviluppano la ricerca preclinica e clinica, ottengono l’approvazione del

regolatore e si occupano di produzione, distribuzione, marketing, finanziando queste attività con

profitti pregressi e con la ricerca di nuovi capitali. Secondo alcuni studi, tuttavia piuttosto

contestati, data l’opacità dei dati disponibili da parte delle multinazionali farmaceutiche, ogni nuovo

farmaco costerebbe alle imprese 1,4 miliardi di dollari di R&S (era forse 800 milioni di dollari dieci

anni fa) e un investimento complessivo di 2,5 miliardi.

Secondo gli autori, la letteratura precedente alla loro ricerca riteneva che 6–10% dei nuovi

principi attivi (NME, new molecular entities) era originariamente brevettato dal settore pubblico o

da università, che metà dei brevetti totali citava ricerche precedenti nel settore pubblico, che fino al

40% dei nuovi principi attivi era stato sintetizzato nelle università. La letteratura sui ‘case studies’

identifica dal 50 al 75% di frequenza del contributo pubblico ai nuovi farmaci. Il nuovo studio

degli autori mostra che per il periodo da loro esaminato, il ruolo del settore pubblico è invece molto

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più alto: 198 su 210 casi per i NME e il 100% dei targets. La differenza fondamentale è

metodologica, dato che gli studi precedenti si basavano soprattutto le citazioni nei brevetti, mentre

gli autori hanno considerato le citazioni dei fondi nelle pubblicazioni, che sono un indicatore molto

più appropriato per la ricerca di base.

Nelle parole degli stessi autori:

These data demonstrate that a sizable public-sector investment occurs before the approval of first-in- class

NMEs, particularly those discovered using targeted discovery methods (including recombinant

biologicals). The scale of this investment can be estimated from the costs associated with first-in-class

NMEs approved in 2010–2016 and their molecular targets ... These data suggest that the public-sector

investment in research underlying each first-in-class drug is as high as $839 million, with 89% of this cost

associated with target research and 11% of the cost associated with the first-in-class compound or follow-

on compounds approved from 2010–2016... It is also likely that basic research on drug targets has

spillover effects that could lead to new classes of products that are not yet anticipated as well as to new

diagnostics, devices, or approaches to disease management.

Se la stima del sostegno pubblico di poco meno di 840 milioni di dollari per farmaco proposta

da questo studi è corretta, questo implica, prendendo a riferimento l’investimento delle imprese

farmaceutiche di 1.4 miliardi proposto dalla letteratura, che il settore pubblico si è fatto carico

direttamente del 37.5% del costo della ricerca.

Tuttavia un lavoro recente (Prasad e Mailankody 2017) sostiene che il costo medio di

sviluppo di un antitumorale riportato in dieci casi (2006-2015) dalle imprese quotate in borsa è di

648 milioni USD con mediana dei ricavi successivi (tempo mediano 4 anni) di 1.648 miliardi

(media 7 miliardi). Questa stima dei costi di R&D delle imprese è molto più bassa di quella in altre

fonti38

. In questo caso il contributo pubblico sarebbe addirittura maggiore di quello privato.

Non siamo in grado qui di prendere posizione su quanto sia in realtà la spesa di R&S

sostenuta dalle imprese farmaceutiche per farmaco. Osservatori indipendenti hanno spesso fatto

notare che le spese di R&D dichiarate delle imprese farmaceutiche, comprese le spese per i progetti

che non hanno successo (pare il 90%), sono basate su dati forniti dalle imprese stesse, che hanno la

necessità di giustificare il prezzo dei farmaci stessi. Ancora più difficile è esattamente decifrare i

profitti. Secondo un ex presidente della ricerca di una grande azienda farmaceutica in USA (Pfizer)

non sarebbero eccessivi39

:

The average return on equity for key industries from 2014 – 2016 shows that biopharma’s profits stand at

16.2%, significantly lower than Computer Sciences (31.6%), Beverages (27.4%), Aerospace/Defense

(23.0%), and Trucking (19.1%) while modestly higher than Software System/Applications (15.2%) and

Healthcare Support Services (14.4%).

38Si veda l’articolo in https://www.forbes.com/sites/matthewherper/2017/10/16/the-cost-of-developing-drugs-is-insane-a-paper-that-

argued-otherwise-was-insanely-bad/#34daba832d45 oppure si vedano le fonti citate in

https://en.wikipedia.org/wiki/Cost_of_drug_development .

39 https://www.forbes.com/sites/johnlamattina/2018/01/23/about-those-soaring-pharma-profits/#179f19553f9d

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Resta il fatto che una parte consistente dei costi di ricerca farmacologica non sono

internalizzati dalle imprese, ma sostenuti dai contribuenti e che i prezzi dei nuovi farmaci sono

cresciuti molto di più dei prezzi di altri prodotti, creando rilevanti problemi ai sistemi sanitari. La

contabilità sociale del settore, alla luce di lavori come quelli di Cleary et al (2018) sarebbe da

rivedere, cfr. anche Mazzucato e Roy (2018).

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UGO PAGANO

Università di Siena

MARIA ALESSANDRA ROSSI

Università di Chieti-Pescara

Come sorridere anche noi:

Sviluppo economico, accesso alle conoscenze, e

riduzione delle diseguaglianze

Il lavoro è stato presentato ai seminari organizzati dal Forum Disuguaglianze Diversità nelNovembre 2018 a L’Aquila, GSSI e nel Febbraio 2019 a Messina alla Fondazione Horcynus Orca.Siano grati ai partecipanti ai seminari e a Fabrizio Barca, Nerina Boschiero, Gaetano Giunta eStefano Vella per i loro utili commenti.

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1. Introduzione.

Nell’economia globale sono sempre più presenti estese catene del valore che coinvolgono molte

imprese spesso operanti in paesi diversi. La catena del valore descrive l’insieme di attività che

contribuiscono al valore del prodotto finale. All’origine della catena sono le attività di ricerca e

sviluppo del prodotto e alla sua fine le attività di marketing, seguite anche da forme di assistenza e

garanzia per i consumatori finali.

La crescente concorrenza globale ha fatto decrescere i costi della produzione fisica dei beni, che è

stata spostata in paesi caratterizzati da un basso costo del lavoro (Baldwin 2016). Al tempo stesso,

la crescente monopolizzazione intellettuale ha innalzato sia la percentuale di valore all’origine della

catena, caratterizzata una forte intensità di brevetti e progetti e disegni proprietari, sia la percentuale

di valore alla fine della catena, dove si è avuto un rafforzamento del potere di monopolio dei marchi

(Durand e Milberg 2018). Il risultato congiunto di questi cambiamenti dell’economia mondiale è

stato un aumento della curvatura verso il basso della catena del valore dovuto all’aumento di valore

della prima e ultima fase rispetto a quelle intermedie. Se si paragona la “smile curve”1 del 1970 con

quella dell’ultimo decennio sembra quasi che un sorriso appena accennato si sia trasformato in una

risata fragorosa.

Figura 1. “Smile curve” e monopoli intellettuali

Fonte: Durand e Milberg, 2018.

Purtroppo, in realtà, per la gran parte degli esseri umani, c’è poco da sorridere!

Possono sorridere a pieno titolo solo coloro che svolgono attività qualificate, o meglio ancora sono

proprietari, delle attività collocate ai due estremi della catena del valore. Invece una gran parte degli

individui, che operano nei tratti intermedi della catena del valore, ha spesso visto insieme a una

1� La cd. “smile curve” è un concetto introdotto per la prima volta da Stan Shih, fondatore dell’azienda Acer, conriferimento alla distribuzione del valore aggiunto nell’industria dei personal computer (Shih, 1996), e successivamentediscusso più in generale con riferimento alle catene del valore globali.

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15 proposte per la giustizia sociale 157

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caduta del valore che aggiungono al prodotto anche una notevole caduta delle loro retribuzioni.

Molte grandi imprese dei paesi avanzati si sono concentrate sulla prima e l’ultima fase della catena

del valore, mentre hanno decentrato le fasi intermedie ad altre imprese più piccole, situate in zone

diverse del mondo, con salari medi più bassi e spesso in concorrenza fra di loro. Questo processo ha

portato a un forte aumento della precarizzazione del lavoro, a una marcata crescita della

diseguaglianza e anche a una forte finanziarizzazione dell’economia dovuta al fatto che i diritti di

monopolio, aumentati a dismisura nelle ultime tre decadi, costituiscono dei nuovi beni su cui è

possibile definire dei diritti finanziari.

La nuova architettura dell’economia mondiale, e in particolare l’istituzione del WTO, hanno avuto

un ruolo importante in questo processo. Le nuove regole hanno portato sia a una maggiore

concorrenza nella fase intermedia di produzione, sia alla proliferazione di posizioni monopolistiche

nella fase iniziale e in quella finale. Esse hanno infatti rafforzato la concorrenza sul mercato dei

prodotti tangibili e aumentato il grado di monopolio esercitabile sui beni intangibili, attraverso i

brevetti e altri diritti di proprietà sui progetti che impattano sulla creazione di valore della prima

fase, e attraverso i marchi che impattano invece sulla creazione di valore nell’ultima fase.

Ne è scaturita una nuova forma di capitalismo dei monopoli intellettuali caratterizzata non solo da

diseguaglianza ma anche da stagnazione. La stagnazione non è solo causata dall’aumento stesso

della diseguaglianza ma anche dalla caduta degli investimenti che si ha, dopo il boom iniziale

dovuto alla ricerca di rendite monopolistiche, quando il rafforzamento dei diritti di proprietà

intellettuale è così marcato da compromettere l’equilibrio fra conoscenze oggetto di privativa e

conoscenze liberamente accessibili. Questo è quanto è progressivamente avvenuto a seguito

dell’accordo sui Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) annesso alla

costituzione del WTO, con l’estensione e il consolidamento a livello globale degli ostacoli

all’utilizzo della conoscenza esistente e/o alla realizzazione di innovazioni adattative o

complementari.

Le regole del WTO hanno avuto effetti paradossali. Un sistema che doveva rafforzare la

concorrenza a livello internazionale ha rafforzato i diritti di proprietà intellettuale, che sono di fatto

uno strumento di difesa dalla concorrenza ben più efficace di qualsiasi dazio o quota di

importazione. Questi ultimi possono solo limitare la concorrenza straniera nel paese che li

introduce. Invece un brevetto può impedire non solo la concorrenza ma anche la produzione stessa

di un prodotto in qualsiasi paese del mondo. Inoltre, se si accetta che ogni paese può investire sia in

ricerca scientifica non proprietaria (open science) sia in ricerca scientifica a fine di lucro (closed

science) i TRIPS finiscono con il creare una notevole asimmetria fra ricerca scientifica disponibile a

tutti e ricerca scientifica fatta a scopo di lucro.

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Mentre i profitti a scopo di lucro di un paese si estendono, grazie agli accordi internazionali, a tutto

il mondo, la ricerca aperta a tutti presenta invece benefici che, globalmente condivisi, vanno solo in

piccola parte al paese che ne sostiene i costi. Si determina così un secondo paradosso: un sistema

che ha come scopo principale di favorire lo sviluppo di efficienti mercati internazionali crea un

incentivo a porre in essere forme di concorrenza sleale in cui ogni paese cerca di usufruire il più

possibile degli investimenti in open science degli altri paesi mentre aumenta la sua quota di

conoscenze proprietarie. Non a caso le Università di ogni paese sono state sempre più portate a

brevettare i loro risultati. In un accordo che doveva difendere anche i marchi, il marchio

“Universitas studiorum” dedicato alla libera circolazione degli studi, ha sempre più visto sminuire il

suo significato.

La prossima sezione di questo lavoro si concentra sul nesso fra diritti di proprietà intellettuale,

monopolio e stagnazione, mentre la sezione successiva ha come oggetto gli effetti della proprietà

intellettuale sulla diseguaglianza. La terza e la quarta sezione esaminano due tipi di politiche che un

paese come l’Italia, particolarmente colpito dal nuovo tipo di catena del valore affermatosi a livello

globale, può perseguire. Il primo tipo di politiche riguarda gli interventi possibili, dato il quadro

istituzionale che si è affermato nella economia globale. Il secondo tipo di politiche riguarda invece

proposte di riforma di cui l’Italia può farsi portatrice a livello internazionale per eliminare le

distorsioni indotte dall’attuale quadro istituzionale globale, eccessivamente sbilanciato a favore

della monopolizzazione delle conoscenze. Si considera in particolare una possibile modifica

dell’accordo TRIPS, che trova il suo fondamento nel riconoscimento in ambito WTO del fatto che

l’attuale assetto istituzionale crea le condizioni per una diffusa concorrenza sleale basata sullo

sfruttamento della conoscenza pubblica degli altri paesi e il massimo grado di privatizzazione della

propria e che, rimediando a questo stato di cose, renda l’accordo TRIPS compatibile con gli

obiettivi individuati per il WTO al momento della sua istituzione: “The World Trade Organization

— the WTO — is the international organization whose primary purpose is to open trade for the

benefit of all.” Un benefit che, contrariamente a quanto è successo, non dovrebbe far sorridere solo

poche persone situate nei punti giusti della catena del valore!

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2. Monopolio intellettuale e stagnazione.

L’argomento a favore dei diritti di proprietà intellettuale è fondato sull’incentivo che essi danno alle

innovazioni. Fino agli anni 50 il termine “proprietà intellettuale,” che assimila questi diritti a quelli

definiti ordinaria proprietà privata, non era stato ancora inventato. Si discuteva sui modi più

opportuni di bilanciare dei diritti di monopolio temporanei, che favorivano e coprivano le spese

delle attività innovative, con le inefficienze del monopolio. Nel caso della conoscenza queste

inefficienze non si limitavano soltanto alle tradizionali perdite del surplus dei consumatori ma

anche a un suo uso limitato, in contraddizione con la sua natura di bene non-rivale che poteva essere

simultaneamente utilizzato da tutti. Si parlava quindi di una sorta d’implicito scambio che la società

faceva fra i benefici dinamici del monopolio e la sua inefficienza statica.

Questa formulazione del problema non teneva conto di tre importanti argomenti. Il primo, emerso

con crescente evidenza per via dei cosiddetti patent troll, è che le imprese possono acquisire i

brevetti non solo per sviluppare nuovi prodotti e tecnologie ma anche a fini strategici, per bloccare

lo sviluppo di tecnologie da parte della concorrenza. Il secondo, messo in evidenza con la cosiddetta

tragedia degli anti-commons, è che le nuove innovazioni si muovono spesso da innovazioni

precedenti utilizzandone i contenuti e sono fra di loro spesso complementari. Il terzo è che la

scienza si basa su un dibattito aperto e una continua verifica dei risultati, difficilmente compatibile

con l’appropriazione privata delle conoscenze e con l’atmosfera di segretezza e diffidenza che essa

può indurre.

Per questi motivi il monopolio intellettuale non presenta solo una inefficienza statica ma anche un

insieme di inefficienze dinamiche che possono essere più rilevanti dell’incentivo all’innovazione

dovuto ai profitti di monopolio.

Nel comparare i vantaggi e gli svantaggi dinamici del monopolio intellettuale bisogna tenere

presente che il loro profilo temporale è molto diverso. Quando si introducono o si rafforzano i diritti

di proprietà intellettuale l’effetto incentivante sugli investimenti innovativi è immediato. Le imprese

sono immediatamente portate a cercare di accaparrarsi le rendite future aggiuntive che sono ora

possibili grazie a questi investimenti. Invece gli effetti disincentivanti si manifestano

successivamente, quando la colonizzazione di alcune direttrici di innovazione tecnologica rende

rischioso investire in innovazioni che potrebbero essere bloccate dal numero crescente di coloro che

hanno acquisito diritti di proprietà intellettuale complementari (qualche volta proprio allo scopo di

bloccare i concorrenti). Anche gli effetti negativi sulle dinamiche della scienza aperta non sono

immediati, in quanto in un momento iniziale si sfruttano le conoscenze di base che sono state

precedentemente sviluppate.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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Lo sfasamento temporale degli effetti negativi rispetto a quelli positivi, congiunto al fatto che le

imprese che hanno un pacchetto di diritti di proprietà intellettuale fanno meglio di quelle che non lo

hanno, può creare la falsa illusione che i diritti di proprietà siano contribuiscano certamente alla

crescita dell’economia – cosa davvero molto dubbia quando si prenda l’economia nel suo

complesso e si consideri una fase sufficientemente lunga di tempo.

A un livello più disaggregato il saldo fra effetti dinamici positivi e negativi dipende dal particolare

tipo di conoscenza che viene privatamente appropriata. Per alcune conoscenze il saldo fra gli effetti

incentivanti e quelli disincentivanti della appropriazione privata di conoscenza potrebbe essere

positivo. Questo potrebbe essere il caso quando essa incentiva l’investimento innovativo a fronte di

modeste distorsioni statiche dovute al monopolio e a fronte di modesti effetti disincentivanti sugli

investimenti in conoscenze da parte delle altre imprese e ricercatori impiegati nella “open science”.

Questo potrebbe accadere quando una nuova conoscenza ha effetti ben evidenti solo su un

particolare prodotto o processo e disincentiva le innovazioni in prodotti e processi alternativi. In

molti casi potrebbe verificarsi il contrario. Se, per esempio, ipotizziamo che alcune conoscenze

sono un input essenziale in altre conoscenze complementari e possono essere utili per una vasta

gamma di processi e prodotti, la privatizzazione di queste conoscenze finirà con l’avere un effetto

negativo sulle innovazioni. Usando un linguaggio efficace, ma non preciso, si potrebbe sostenere

che quanto più di base è una conoscenza, e meno direttamente applicata a uno specifico processo o

prodotto, tanto più è proficuo che essa non sia privatizzata e che sia prodotta da chi lavora nella

open science.

E’ naturalmente molto difficile sapere quanto sia di base una nuova futura conoscenza e quanto sia

applicata. Spesso le sue ricadute possono essere stabilite solo dopo che la conoscenza è stata

acquisita. In ogni caso, per quanto non esista un netto confine, tradizionalmente molti Stati si sono

sforzati nel passato di finanziare la ricerca più di base e di renderla di dominio pubblico, mentre

hanno lasciato agli agenti privati la ricerca più direttamente applicata che ha ricadute positive più

immediate sui profitti delle imprese.

Per una economia chiusa di una singola nazione o per la economia globale nel suo complesso uno

Stato proverebbe a stabilire un confine certamente non ottimale, ma abbastanza ragionevole, fra

conoscenza pubblica e la conoscenza che è possibile privatizzare senza arrecare danni evidenti allo

sviluppo del paese. Naturalmente lo Stato dovrebbe essere in grado di resistere a lobby bene

organizzate che raccolgono in poche mani i benefici della privatizzazione. I frutti che si hanno

tenendo le conoscenze della sfera pubblica invece sono dispersi fra numerosi agenti colpiti per di

più in modo diverso. Tuttavia, una democrazia ben organizzata potrebbe dare voce anche a questi

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interessi dispersi e favorire un bilanciamento virtuoso fra sfera dei beni comuni e quella dei beni

privatizzati.

La situazione cambia in modo notevole quando si passa a considerare una economia aperta. Se gli

Stati avessero accordi stringenti sia di cooperazione per la produzione di conoscenza pubblica, sia

per il rispetto della proprietà intellettuale privata, i confini che si verificherebbero a livello globale

potrebbero approssimare quelli di una economia chiusa.

Se invece non vi sono accordi né a livello di produzione della conoscenza disponibile come bene

comune né per il rispetto della proprietà privata di conoscenza, entrambi gli investimenti potrebbero

attestarsi a un livello sotto-ottimale. Infatti, sia i risultati delle ricerche pubbliche che di quelle

private sarebbero appropriabili all’estero e ci potrebbe essere una limitazione in entrambi i casi a

godere dei frutti dei propri investimenti a livello globale (con una conseguente limitazione degli

investimenti stessi). Tuttavia, l’effetto disincentivante dei monopoli intellettuali sarebbe inferiore

perché essi non sarebbero applicabili in altri paesi. Date le ricadute degli investimenti negli altri

paesi, ogni singolo paese (quando non fosse preda delle lobby interne) potrebbe al suo interno

stabilire dei confini fra conoscenze pubbliche e conoscenze appropriabili privatamente che ne

promuovano lo sviluppo.

La situazione diventa radicalmente diversa quando, mentre la ricerca pubblica resta in mano degli

stati nazionali, i diritti di proprietà privata sulla conoscenza sono estesi all’economia globale nel suo

complesso. In questo caso ogni singola impresa, indipendentemente dalla sua nazionalità,

percepisce a livello globale i profitti dovuti alla sua proprietà intellettuale e questo può avere un

effetto incentivante sui suoi investimenti. Al tempo stesso, l’effetto disincentivante è molto più

forte. Infatti, anche in altre nazioni nuovi investimenti possono essere bloccati da preesistenti diritti

di proprietà intellettuale detenuti in altri paesi. L’effetto più notevole di questo quadro istituzionale

è quello di spostare per il mondo nel suo complesso il confine fra investimenti in conoscenza

comune e conoscenza appropriabile. Ogni Stato si trova ora di fronte a una nuova situazione: ogni

appropriazione privata delle conoscenze da parte delle imprese private o istituzioni pubbliche del

paese genera dei monopoli globali che permettono elevati profitti. Al contrario, ogni singolo Stato

deve ancora sostenere tutti i costi di ogni investimento in conoscenza pubblica mentre i suoi

benefici sono condivisi da tutti gli Stati. Diventa a questo punto impossibile resistere ai gruppi di

pressione che spingono per una maggiore privatizzazione della conoscenza. Si finisce con lo

spingere anche le istituzioni per secoli preposte alla produzione della conoscenza aperta comune, a

brevettare il più possibile e si tagliano i fondi disponibili per la produzione di open science, come

testimonia l’attuale situazione di molte istituzioni universitarie.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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A ogni Stato conviene aumentare la sua quota relativa d’investimenti in ricerca privatamente

appropriabile e spostare in modo sfavorevole alla ricerca pubblica il suo confine rispetto a quella

privatamente appropriabile. Questa concorrenza sleale di ognuno degli stati nazionali è ragionevole

per ognuno di essi ma, in una logica da dilemma del prigioniero, determina un risultato nefasto a

livello globale. L’effetto disincentivante dei monopoli intellettuali privati diventa dominante e il

sotto-investimento in ricerca pubblica determina un ulteriore impoverimento delle conoscenze a

tutti disponibili e da tutti utilizzabili in un mercato davvero concorrenziale.

Dopo un boom dovuto al loro effetto immediato, un rafforzamento dei diritti di proprietà

intellettuale non può che portare a una crescente privatizzazione della conoscenza e a una

stagnazione degli investimenti. L’architettura istituzionale che l’economia globale si è data dopo la

fine della guerra fredda con l’istituzione del WTO e dell’annesso accordo TRIPS porta proprio a

questi risultati (Pagano e Rossi 2008, Belloc e Pagano 2012). Essa è una causa di stagnazione

dell’economia mondiale e anche una delle cause dei forti rigurgiti di nazionalismo che

caratterizzano il recente quadro politico.

3. Diritti di proprietà intellettuale e diseguaglianza.

Il beffardo sorriso, che abbiamo visto diventare così più pronunciato nella figura 1, suggerisce una

possibile spiegazione della stagnazione della economia mondiale. Esso raffigura anche una

importante causa dell’aumento delle diseguaglianze che vi è stato in molte economie capitaliste. Ci

descrive un capitalismo in cui gli intangibili, che fanno parte della prima e dell’ultima parte della

catena del valore, sono diventati la parte più importante del capitale delle grandi imprese. Nello

stesso periodo in cui si è accentuato il sorriso della catena del valore, gli intangibili sono passati dal

17 per cento allo 87 per cento dei beni capitali delle 500 imprese più grandi del mondo. A questo ci

sarebbe da aggiungere che robot e piattaforme – elementi imprescindibili dell’attuale contesto

economico – sono dei beni compositi semi-intangibili nel senso che il loro valore materiale è

minimo rispetto al contenuto intangibile (per esempio programmi proprietari) che contengono e

proteggono.

Figura 2. Peso relativo dei beni tangibili ed intangibili nella composizione del valore di mercato delle prime 500 imprese a

livello mondiale

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Fonte: OECD Outlook 2004.

La crescita degli intangibili ha creato una enorme diseguaglianza, portando fino alle sue ultime

conseguenze un processo di monopolizzazione intellettuale che aveva una lunga storia risalente alle

origini del capitalismo.

Marx, e in seguito Braverman (1974), avevano visto nella monopolizzazione delle potenze

intellettuali un processo che era insito nella natura stessa del capitalismo. In un passaggio del

Capitale Marx scriveva:

“Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come

proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo

manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il

capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai;

si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa

nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal

lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale."

(Marx, il Capitale 1970, p. 405).

Marx vedeva la scienza come prevalentemente incorporata nelle macchine della grande industria,

mentre il capitale restava qualche cosa di tangibile. La scienza non costituiva una parte

indipendente del capitale.

Quello che è successo, soprattutto dopo gli anni 80, è andato ben oltre le previsioni di Marx. Le idee

stesse sono diventate la parte più importante del capitale e le idee sviluppate all’interno delle

imprese sono ormai lungi dall’essere proprietà dei membri della impresa che le hanno sviluppate.

Esse costituiscono invece spesso una delle fonti di accumulazione più importante del capitale

dell’impresa.

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La monopolizzazione della conoscenza è stata tradizionalmente vista nell’ottica, illustrata nella

sezione precedente, delle limitazioni che essa comporta per i processi concorrenziali. Tuttavia, tale

monopolizzazione costituisce anche un terreno di scontro (pre-)distributivo fra lavoratori e datori di

lavoro, che ha definito diversi fasi del capitalismo. Si possono a questo proposito, seguendo Fisk

(2001), distinguere tre fasi che segnano la transizione da una situazione iniziale in cui la conoscenza

sviluppata nei posti di lavoro è proprietà dei lavoratori alla istituzione della “corporate intellectual

property”.

In una prima fase che va dal 1800 al 1860 le restrizioni post-contrattuali, che vietavano ai lavoratori

di utilizzare i segreti del mestiere appresi in un posto di lavoro in un altro posto di lavoro, sono viste

come un retaggio dei monopoli delle corporazioni del mondo feudale e come una restrizione alla

concorrenza. In questa fase le corti inglesi e americane emisero sentenze in cui si dichiarava

illegittimo il monopolio della conoscenza da parte dei datori di lavoro. Il suo conflitto con la libertà

di lavorare dove si volesse, rafforzato dall’interesse pubblico a un regime di concorrenza, era quindi

decisamente risolto a favore dei lavoratori.

Nel periodo che va dal 1860 al 1890 si cominciano a determinare delle crepe in questa visione.

Diventa possibile stipulare dei contratti che permettono di restringere l’uso delle conoscenze

apprese in un’impresa in altre imprese.

Infine, nel periodo che va dal 1890 al 1920, l’uso e la divulgazione dei segreti del mestiere appresi

in una impresa viene considerato essere implicitamente vietato dal contratto di lavoro. In questo

processo la libertà dei lavoratori e la stessa concorrenza vengono sempre più sacrificati a favore di

un emergente concetto di proprietà intellettuale dell’impresa. Come afferma Fisk:

“In enforcing contracts first, only if they were express, and later by recognizing such contracts as

implied-to maintain secrecy of the employer's methods, courts created a new species of

"intellectual" property at the expense of older notions of artisanal independence. This was

undoubtedly a case of "creative destruction" of one form of economic privilege to create another-

the corporate intellectual property.” (Fisk, 445).

Anche se i trade secrets possono essere visti come una forma embrionale di proprietà intellettuale,

essi non sono dotati di quello che distingue la proprietà da contratti impliciti o espliciti fra le parti

coinvolte: la valenza dei diritti rispetto a tutte le parti terze non coinvolte nel contratto (Pistor

2018).

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E’ questa universalità dei diritti di proprietà intellettuale che permette di considerali un titolo di

proprietà che può essere incluso a pieno titolo nel capitale delle imprese.

Il ruolo delle parti terze non coinvolte nel contratto cambia con forme compiute di proprietà

intellettuale come i brevetti. Infatti, con i trade secrets una parte terza che scopra

indipendentemente una tecnologia già usata da altri ha il pieno diritto di usarla, e il reverse

engineering che permette di svelare la tecnologia sottostante al prodotto è permesso. Invece nel

caso della proprietà intellettuale la tecnologia è diventata proprietà del detentore del brevetto e può

essere usata da una parte terza solo con la sua autorizzazione (che può essere o meno concessa se

non esiste un regime di compulsory licensing), anche se la tecnologia è stata indipendentemente

scoperta da questi altri agenti.

L’appropriazione privata della conoscenza rende il capitale intangibile una fonte inesauribile di

economie di scala e di scopo e genera monopoli intellettuali di grande dimensione.

Dei beni “non-rivali” (o addirittura moltiplicativi), in contrasto con la loro natura economica

intrinseca, non sono detenuti come beni comuni. Essi sono privatizzati e monopolizzati e originano

diseguaglianze molto più forti dei tradizionali beni capitali privati.

Una singola unità di conoscenza può essere usata infinite volte, spesso in sinergia con altre unità di

conoscenza, senza deteriorarsi. Nemmeno l’impianto tangibile più grande e duraturo del mondo

potrebbe mai avere queste caratteristiche. Lo stesso vale per altre forme di beni intangibili come le

piattaforme dominate da effetti di rete (ognuno vuole stare nella rete dove stanno gli altri), o come i

marchi in cui la fiducia riposta in un marchio non si deteriora ma cresce con il numero delle unità

prodotte.

Le imprese con un nutrito portafoglio di diritti di proprietà intellettuale e di altri intangibili

usufruiscono di un elevato livello di garanzia di appropriazione dei frutti delle loro innovazioni

complementari a queste conoscenze private. Esse hanno quindi un elevato incentivo a investire in

capacità innovative che, in un circolo virtuoso, permettono l’acquisizione di nuovi diritti di

proprietà intellettuale.

Un corrispondente circolo vizioso si determina per le imprese che sono prive di diritti di

proprietà intellettuale. L’assenza di diritti di proprietà rende rischioso l’apprendimento di capacità

innovative e porta a sua volta a una bassa acquisizione di diritti di proprietà intellettuale e di altri

intangibili.

Non a caso la crescente diseguaglianza nelle retribuzioni riguarda più differenze di reddito

fra i lavoratori di diverse imprese che lavoratori di una stessa impresa. Come viene messo in luce da

Schwartz (2017):

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Using a standard measure for inequality, the Gini index (where 1 equals perfect inequality

and 0 equals perfect equality), to assess the distribution of profit just within the [Forbes Global

2000] shows levels of inequality for profits that are significantly higher than any given national

economy. The Gini index for the distribution of profits among the [Forbes Global 2000] over the

ten year period 2005 to 2015 is .809. By comparison, some of the most unequal societies in the

world, South Africa and Brazil, typically have Gini indices of roughly .600, and the highly

egalitarian Nordic countries have Ginis typically around .250

I lavoratori, stabilmente impiegati nelle imprese, tendono ad appropriarsi di parte dei loro

profitti. Quindi la diseguaglianza della profittabilità delle diverse imprese si tramuta anche in una

diseguaglianza dei redditi dei loro lavoratori. Come infatti viene dimostrato da Song e altri (2015),

in pratica tutto l’aumento di diseguaglianza che c’è stato negli Stati Uniti dal 1978 al 2012 può

essere spiegato dalla aumentata diseguaglianza dei salari medi pagati da ognuno dei datori di lavoro

di questi individui. In effetti, come si vede dalla Figura 3 di seguito, quando si escluda il valore

della goodwill (che include gli intangibili), si può notare come la differenziazione dei rendimenti fra

il percentile più alto e quello medio si sia enormemente dilatata.

Figura 3. Rendimenti sul capitale investito, escludendo il valore della goodwill, delle aziende quotate non-finanziarie negli

Stati Uniti, 1965-2014

Fonte: U.S. Council of Economic Advisers, 2016, basato su Koller et al., 2015; McKinsey and Company e Furman e Orzsag,

2015.

Questo quadro di crescente diseguaglianza sarebbe ancora più marcato se si prendessero in

considerazione le imprese finanziarie che sono escluse dalla precedente figura (Philippon 2002). La

finanziarizzazione della economia mondiale costituisce per molti versi l’altra faccia della crescita

degli intangibili. Gli intangibili e i diritti di monopolio ad essi associati sono contabilizzati come un

aumento di ricchezza privata ma essi possono in realtà decrescere il capitale produttivo di un paese.

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Se un pezzo di conoscenza passa dalla sfera pubblica a quella privata, compiendo così quella che

Boyle (2003) ha chiamato la seconda enclosure dei commons, essa potrà essere usata solo per un

numero limitato di usi decrescendo la sua produttività complessiva. Tuttavia, l’enclosure rende

possibile percepire delle rendite il cui valore scontato futuro può essere scambiato sui mercati

finanziari. La ricchezza finanziaria costituita sui diritti su questi intangibili cresce a dispetto del

decremento di capitale produttivo. Come afferma Stiglitz (2015 p. 24):

If monopoly power of firms increases, it will show up as an increase in the income of capital, and

the present discounted value of that will show up as an increase in wealth (since claims on the rents

associated with that market power can be bought and sold.)

In altre parole, un aumento del tasso di profitto (inclusivo delle rendite monopolistiche) è

compatibile con una diminuzione della crescita della economia. Questo costituisce una spiegazione

alternativa della relazione r > g (tasso di profitto maggiore di quello di crescita) che secondo

Piketty (2014) è alla base della crescita della diseguaglianza (Pagano 2018b).

La forte complementarità fra mercati concorrenziali e open science, e l’altrettanto forte

complementarità fra monopoli e scienza chiusa, definisce quadri istituzionali entro cui si sviluppano

risorse diverse secondo traiettorie tecnologiche diverse.

Atkinson (2015) cita un pezzo del libro How we got to now di Steven Johnson relativo alla

invenzione della lampadina. Johnson (2015) sostiene che le invenzioni sono il risultato di

interazioni collettive e che l’appropriazione di un singolo non è solo ingiusta ma limita anche

questo processo di apprendimento collettivo.

La lampadina, simbolo di una idea che ci illumina, finisce con l’essere anche il simbolo di

una invenzione che, pur attribuita a un singolo come Edison indubbiamente di grande intelligenza e

con notevoli capacità organizzative, fu tuttavia il frutto di molte attività innovative da parte di

persone con specializzazioni molto diverse.

If we think that innovation comes from a lone genius inventing a new technology from

scratch, that model naturally steers us toward certain policy decisions, like stronger patent

protection. But if we think that innovation comes out of collaborative networks, then we want to

support different policies and organizational forms: less rigid patent laws, open standards,

employee participations in stock plans, cross-disciplinary connections. The lightbulb shines light

on more than just our bedside reading; it helps us see more clearly the way new ideas come into

being, and how to cultivate them as a society. (Johnson 2014 pp.248-9)

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Questo punto si collega con la prima proposta avanzata dallo stesso Atkinson (2015) che,

preso atto del carattere endogeno del cambiamento tecnologico, nota come la sua direzione

dovrebbe attirare l’attenzione dei policy-maker che dovrebbero incoraggiare la dimensione umana

della fornitura dei servizi. Nella sua prima proposta Atkinson sostiene infatti che:

Proposal 1: The direction of technological change should be an explicit concern of policy-

makers, encouraging innovation in a form that increases the employability of workers, emphasizing

the human dimension of service provision.

La tesi di Atkinson di endogeneità del cambiamento tecnologico ha conseguenze importanti

anche quando si esaminino i rapporti fra le regole giuridiche che regolano i processi innovativi e la

loro dimensione umana. E’ vero, come afferma Johnson, che l’innovazione della lampadina, frutto

di molte applicazioni e molti ingegni, ci illumina sulle caratteristiche che dovrebbero avere le

istituzioni che regolano l’appropriazione dei frutti delle innovazioni. Tuttavia è anche vero il

contrario: le istituzioni che scegliamo esercitano un’influenza molto importante sulle modalità in

cui avvengono le innovazioni.

Se una gran parte della ricerca è svolta in strutture pubbliche, o anche private, che hanno

standard aperti, come scopo primario la divulgazione dei risultati e brevetti limitati sia in termini

degli ambiti di applicazione che temporali, allora molti saranno a portati a dialogare, cooperare

nella ricerca ed interagire nei processi innovativi. Le capacità di innovare saranno molto diffuse

nella società e presenti in molte imprese. In una situazione del genere le innovazioni potranno

essere adottate in tempi brevi da molte imprese e un mercato concorrenziale caratterizzato da molte

imprese potrebbe emergere.

Se invece gran parte della ricerca è svolta in istituzioni che presentano un quadro normativo

diverso caratterizzato da rigidi diritti di proprietà intellettuale, molto estesi nel tempo e nello spazio,

si tenderà ad avere un minore scambio di idee fra ricercatori e si avrà una concentrazione delle

attività innovative in pochi centri che, grazie a brevetti preesistenti e marchi forti, possono garantirsi

una appropriazione dei frutti delle loro attività innovative. Si verrà rapidamente a creare una

gerarchia fra imprese. Alcune svilupperanno un circolo virtuoso fra capacità di chi ci lavora e

dotazioni di diritti di proprietà intellettuale. Altre si troveranno in un circolo vizioso in cui una

scarsa dotazione dei diritti di proprietà intellettuale blocca l’incentivo a investire nelle capacità di

innovare e viceversa l’assenza di questa ultima non permette di acquisire diritti di proprietà

intellettuale.

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In altre parole, una volta che si siano affermati dei forti diritti di proprietà intellettuale, si

entra in una nuova fase del conflitto sulla proprietà del working knowledge, che aveva caratterizzato

al loro interno numerose imprese sin dagli albori del capitalismo. Questo conflitto tende, anche

all’interno d’imprese che producono nuova conoscenza, a risolversi a favore dei datori di lavoro, ma

tende soprattutto a esternalizzarsi fuori dall’impresa provocando una forte differenziazione fra

imprese diverse.

In alcune imprese vengono concentrate le due fasi estreme della catena caratterizzate dalla

presenza di un monopolio intellettuale che consente di investire in conoscenza lungo una certa

direttrice di innovazioni. Molte altre fasi della catena del valore vengono decentrate in altre

imprese. Esse includono attività produttive che avvengono in base a brevetti detenuti dal primo tipo

di imprese e per un prodotto finale di cui il primo tipo di imprese ha anche la proprietà del marchio.

Le imprese alle quali viene decentrata in questo modo la produzione non possono fare

concorrenza alle imprese detentrici del marchio e dei brevetti senza infrangere i loro diritti di

proprietà intellettuale. Messe in concorrenza reciproca dalle imprese che hanno i diritti di proprietà

intellettuale, esse hanno poche opportunità di sviluppare una working knowledge autonoma e si

trovano nel circolo vizioso determinato da assenza di proprietà intellettuale ed esigui investimenti

in conoscenze e capacità dei loro lavoratori. Queste imprese, sfruttate dal primo gruppo di imprese,

tendono anche per tagliare i costi a precarizzare maggiormente la loro forza lavoro. La

diseguaglianza fra i lavoratori, che sono occupati in imprese in circoli virtuosi e viziosi, acquisisce

molte dimensioni fra cui il reddito guadagnato, la qualità del lavoro, l’apprendimento di nuove

capacità e la continuità degli impieghi.

Rompere il circolo vizioso fra finanziarizzazione e privatizzazione della conoscenza

significa cambiare una direttrice di sviluppo tecnologico che sovrainveste in IPR (e robot con

cervelli privatizzati dagli IPR) a scapito della stragrande parte dei lavoratori. Ridimensionare la

lunghezza e l’ampiezza dei diritti di proprietà intellettuale, e insieme accrescere il potere dei

lavoratori rispetto a quello della finanza, ci porterebbe verso una diversa direzione del cambiamento

tecnologico compatibile con una maggiore eguaglianza e una creatività più diffusa.

4. La crisi italiana e la proprietà intellettuale.

Marchi, reti e conoscenza sono le caratteristiche della nuova economia. Essi sono beni non-

rivali o addirittura moltiplicativi. La loro privatizzazione monopolistica produce enormi rendite,

diseguaglianza e stagnazione dell’economia. Riconoscerne la natura di beni comuni e ristabilire

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l’equilibrio fra le conoscenze private e quelle liberamente accessibili può essere un grimaldello per

uscire da questa nuova forma di capitalismo monopolistico. Inoltre, può aiutare a ravvivare le

dinamiche concorrenziali, aumentando la capacità di competere ed innovare anche delle aziende di

piccola dimensione, che non sono in grado di accumulare significativi portafogli di diritti di

proprietà intellettuale.

E’ possibile riformare la proprietà intellettuale e orientare l’economia verso un nuovo tipo di

istituzioni non più caratterizzato dalla prevalenza di scienza privatizzata e capitalismo dei monopoli

intellettuali ma da una robusta presenza di scienza aperta e concorrenza?

Abbiamo visto che il problema presenta una doppia dimensione. Da un lato occorre chiarire

cosa può fare l’Italia in quanto singolo paese vincolato da una normativa internazionale. Dall’altro

lato si può avanzare una possibile proposta di riforma dell’assetto istituzionale globale definito dal

WTO, e in particolare dell’accordo TRIPS, che potrebbe essere presentata dal nostro governo nelle

sedi internazionali più appropriate. Tratteremo in questa sezione il primo punto mentre il secondo

sarà affrontato nella sezione successiva.

Il nostro paese è stato fortemente danneggiato dal rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale

che si è verificato negli anni 90. Paradossalmente negli anni 80 il nostro paese veniva indicato come

il caso paradigmatico di una economia di successo basata sulla conoscenza diffusa, prevalentemente

informale, che si respirava nei distretti italiani (Piore e Sabel 1984). Mentre i primi anni del

dopoguerra erano stati caratterizzati da uno sviluppo industriale trainato dalle grandi imprese, in

notevole parte a partecipazione statale, gli anni 80 sono stati considerati come una rivincita delle

piccole imprese che meglio di altre erano in grado di utilizzare, secondo alcuni, le macchine e le

tecnologie più flessibili che erano disponibili. Due fattori sembravano favorire l’economia italiana

negli anni 80.

In primo luogo, una ricca tradizione artigianale italiana è sempre stata presente e le sue origini

possono esser fatte risalire per lo meno al tardo Medio Evo. In secondo luogo, le lotte operaie degli

anni 80 avevano spinto a un decentramento delle attività delle grandi fabbriche che avevano visto al

loro interno anche episodi di contrasti violenti e persino la presenza di armi.

Nello spiegare il successo di questo modello si assumeva, in parte implicitamente, che una

conoscenza in gran parte incorporata nelle nuove macchine a controllo numerico (usate fino agli

anni 80 solo in nicchie come la meccanica di precisione) fosse sviluppata presso centri di ricerca

pubblici italiani e internazionali. Una volta disponibile, questo insieme di conoscenze sarebbe stato

assimilato con incomparabile efficacia dai distretti industriali italiani, che erano caratterizzati da

reciproca imitazione delle pratiche migliori, continua gemmazione di imprese fondate da operai

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qualificati che lasciavano le imprese dove avevano imparato il loro mestiere e associazioni

collettive in territori caratterizzati da forte coesione, fiducia e solidarietà.

Questo successo delle piccole imprese fu uno dei fattori che favorì la privatizzazione delle grandi

imprese pubbliche. La grande dimensione non sembrava più dare la chiave per il successo sui

mercati internazionali. Con riferimento alla Figura 1, che illustra la cd. “smile curve”, era come se il

sorriso non solo non fosse diventato più marcato ma addirittura si fosse invertito. Il macchinario a

controllo numerico costava relativamente poco, i programmi in essi contenuti e le relative

innovazioni avevano prezzi molto bassi, mentre permettevano di produrre anche quantità limitate di

prodotto compatibili con le piccole imprese dei distretti italiani. Se la prima fase aveva dei costi

unitari limitati, anche l’ultima costava relativamente poco se i costi di spedizione, marketing e la

reputazione stessa dei prodotti potevano essere condivisi dal distretto.

Questo quadro roseo esisteva di più negli scritti degli ammiratori dei distretti che nella realtà.

Eppure esso coglieva un fatto reale di cui tuttavia i futuri sviluppi avrebbero mostrato tutta

l’intrinseca fragilità. Se in un’economia ad alta intensità di conoscenza quest’ultima è disponibile a

tutti e molti beni intangibili non sono monopolizzati, la smile curve potrebbe addirittura invertire il

suo sorriso e il valore aggiunto dalle piccole imprese concentrate nella produzione potrebbe avere

un ruolo più rilevante nella catena del valore.

Negli anni 80 il mondo era diviso politicamente e militarmente e la condivisione o l’esclusione

dalle innovazioni militari contavano di più del loro sfruttamento commerciale. Esemplare a questo

proposito fu lo sviluppo di internet. Partito come milnet e poi arpanet, si trasformava da una rete

nata con fini militari in una di ricerca ed era poi gratuitamente arricchita dai ricercatori del CERN di

Ginevra con il WWW, diventando infine una tecnologia di base della nuova economia della

conoscenza disponibile a tutti a costi molto bassi.

Tuttavia questo stato di cose, favorevole alle piccole imprese e alla economia italiana, era destinato

a durare ben poco. Subito dopo la fine della guerra fredda diventa per la prima volta possibile un

sistema di commercio internazionale che vede un forte rafforzamento dei diritti di proprietà

intellettuale. Gli accordi di Marrakech del 1994, che vedevano la fondazione del WTO con

l’istituzione del TRIPS, portavano a sfruttare rapidamente le opportunità offerte dal nuovo quadro

politico che si era determinato a livello globale. Le imprese americane, e anche le istituzioni private

americane, avevano accumulato una notevole ricchezza in termini di proprietà intellettuale e

avevano un forte interesse a rafforzare i diritti di proprietà intellettuale.

Nel 1980 veniva emanato in America il Bayh Dole Act, che disciplinava lo sfruttamento

commerciale privato della ricerca pubblica. Contrariamente ai miti neo-liberisti gli Usa hanno

sempre avuto una politica industriale pubblica molto attiva. Essa è al di sopra di ogni discussione

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politica solo perché si identifica con la politica di sicurezza nazionale. Con il Bayh Dole Act la

politica industriale americana portava a una forte privatizzazione della conoscenza a tutto vantaggio

delle imprese nazionali che, spesso con un minimo cofinanziamento privato della ricerca sostenuta

dallo Stato, venivano dotate di cospicui pacchetti di diritti di proprietà intellettuale. Il sistema

americano di cooperazione fra privato e pubblico veniva poi anche consolidato dall’abitudine di

nominare i generali in pensione nei consigli di amministrazione delle grandi public companies e da

leggi che permettevano alle grandi Università americane di brevettare le loro innovazioni.

L’istituzione del WTO e del TRIPS nel 1994 permise l’estensione a livello globale del sistema

americano e lo sfruttamento in tutto il mondo della proprietà intellettuale, detenuta soprattutto dagli

USA. Esso dava la possibilità di applicare a livello internazionale sanzioni commerciali contro chi

violasse la proprietà intellettuale e istituiva a livello globale un sistema caratterizzato da spese in

ricerca pubblica ancora sostenute dagli stati nazionali e diritti di proprietà privata appropriabili in

tutto il mondo.

Le multinazionali americane si sono così trovate con un doppio vantaggio. Da un lato esse hanno

acquisito un’enorme ricchezza in intangibili e il conseguente controllo di sentieri d’innovazione

tecnologica. D’altra parte hanno potuto decentrare in imprese più piccole e in paesi a basso costo

del lavoro le attività produttive. In altre parole le imprese americane sono quelle che per lo meno in

un primo momento si sono trovate ad avvantaggiarsi della nuova smile curve che si delineava nella

economia globale.

La situazione italiana si è purtroppo sviluppata in modo opposto a quella degli Stati Uniti.

Le piccole imprese italiane si sono trovate in una situazione in cui la conoscenza non era più un

bene pubblico usabile liberamente nell’economia mondiale. Molte di esse non avevano né uno stock

di diritti di proprietà intellettuale, né la dimensione per acquistarne un pacchetto che garantisse loro

di svilupparsi lungo una traiettoria tecnologica senza essere bloccati da detentori di diritti di

proprietà intellettuale. D’altra parte le imprese italiane non presentavano nemmeno costi

sufficientemente bassi da rendere appetibile la decentralizzazione nel nostro paese della parte

intermedia della catena del valore (che vedeva ormai concorrenti agguerriti come Cina e India).

Esse erano in mezzo a una tenaglia costituita da costi relativamente troppo elevati e diritti di

proprietà intellettuale troppo esigui.

Inoltre l’Italia, trovandosi in una situazione di elevato debito pubblico, è stata spinta a una politica

di privatizzazioni (Pagano 2019) proprio nel momento in cui le grandi imprese diventavano di

nuovo importanti per le economie di diversificazione e di scala derivanti dai diritti di proprietà

intellettuale (che sono definiti su beni che, ben più di un grande impianto tangibile, possono essere

usati un numero infinito di volte senza deteriorarsi).

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Questa situazione ha fatto pesantemente sentire i suoi effetti sull’economia italiana che ha avuto

una produttività stagnante, perdendo molte posizioni rispetto alle altre economie europee. Quanto

l’Italia può fare dato il presente quadro internazionale è da un lato favorire la crescita dimensionale

delle imprese e d’altra parte cercare di rinnovare la sua tradizione di cooperazione fra piccole

imprese, tenendo presente il mutato quadro istituzionale globale e in particolare i nuovi accordi in

materia di diritti di proprietà. Mettere in rete le piccole imprese e le università, aumentare la spesa

in ricerca e sviluppo e valorizzare le restanti grandi imprese pubbliche costituiscono delle misure

indispensabili per evitare che il paese resti schiacciato nella morsa forgiata dai paesi ad alto

contenuto di capitale monopolistico intellettuale e da quelli a basso costo del lavoro.

Per mettere insieme in rete le diverse imprese in modo da sfruttare e generare conoscenza in un

mondo caratterizzato da stringenti diritti di proprietà intellettuale, si potrebbe seguire l’esempio

tedesco in cui un’istituzione, il Fraunhofer, si occupa di coordinare e centralizzare parte della

ricerca delle piccole imprese. Centralizzando parte delle spese di ricerca e condividendo licenze per

i diritti di proprietà intellettuale il Fraunhofer mette insieme diverse conoscenze in un singolo

portafoglio di diritti di proprietà intellettuale ed evita gli effetti di blocco reciproco fra proprietari

diversi, incoraggia ogni impresa a sviluppare e usare brevetti e sfrutta, a beneficio delle aziende

tedesche, i rendimenti di scala e di scopo delle diverse unità di conoscenza. Il Fraunhofer

colonizza con largo anticipo dei campi di ricerca che promettono di generare proprietà intellettuale

per le imprese tedesche e, grazie al suo largo portafoglio di diritti di proprietà intellettuale,

permette di evitare blocchi di imprese straniere alle traiettorie innovative delle imprese tedesche.

Inoltre, condividendo le spese legali di difesa dei brevetti il Fraunhofer, grazie al tribunale europeo

comodamente basato a Monaco, difende i diritti di proprietà intellettuale delle imprese tedesche a

un costo unitario legale molto basso.

La tradizione italiana di associazionismo e cooperazione può favorire politiche di condivisione

della conoscenza, del marchio e di altri intangibili. Lo Stato o le Regioni potrebbero incoraggiare

questo sviluppo di proprietà intangibile comune sia attraverso le imprese a partecipazione statale sia

attraverso la collaborazione fra piccole imprese e università, incoraggiando forme comuni di

proprietà intellettuale2. Queste dovrebbero non solo includere la condivisione dei beni, come i

2� Una prima recentissima esperienza italiana nella direzione indicata, di cui siamo a conoscenza, è data dal progettoavviato dalla Regione Lazio “Verso le Fraunhofer del Lazio”. Il progetto mira a “sostenere il potenziamento delleInfrastrutture di Ricerca individuate come prioritarie dal Programma Nazionale per le Infrastrutture di Ricerca (PNIR) peraccrescere la competitività del proprio sistema della ricerca ed innovazione e la sua capacità di generare ricadute per ilsistema industriale ed imprenditoriale regionale nelle aree di specializzazione tecnologiche individuate dalla SmartSpecialisation Strategy del Lazio”. In particolare, il progetto si propone di incentivare la realizzazione di investimentimateriali e immateriali in infrastrutture utili sia alla comunità scientifica che alle imprese, così da migliorare la capacità diricerca e potenziare il trasferimento tecnologico, ed è quindi in linea con quanto proposto in questo scritto. Il progetto,tuttavia, non specifica ancora le forme di proprietà intellettuale che dovrebbero caratterizzare la nuova istituzione – unaspetto che, come si è finora argomentato, è di cruciale importanza. Sul progetto Fraunhofer vedi Pagano (2010 e 2018b).

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brevetti, che entrano nella prima fase della catena del valore ma coinvolgere anche la fase finale di

marketing dei prodotti. La condivisione dei marchi e l’uso di un doppio marchio che garantisce la

qualità e l’origine dei prodotti sono già parte della tradizione italiana come, per esempio,

testimoniano il settore dei vini di alta qualità e il settore delle macchine utensili in cui l’associazione

dei produttori (UCIMU) svolge da tempo questa funzione.

Si potrebbe così realizzare, anche in modo parziale e spesso solo a livello locale, una diversa

direttrice di sviluppo tecnologico, caratterizzata da un accesso diffuso alle conoscenze che

contribuisca a realizzare una società italiana meno diseguale, più creativa e più pronta a condividere

conoscenze e innovazioni.

5. Una proposta italiana di riforma del WTO e dell’accordo TRIPS

Essendo un paese che ha particolarmente sofferto per lo squilibrio fra conoscenza pubblica e

conoscenza appropriabile privatamente, l’Italia ha un particolare interesse a una riforma delle

istituzioni globali che riequilibri questo rapporto. In questo senso l’Italia potrebbe farsi portavoce di

un ampio spettro d’interessi concreti e visioni ideali che si oppongono agli effetti perversi che le

attuali istituzioni dell’economia mondiale hanno sulla stagnazione e sulla diseguaglianza. In

particolare, è interesse dell’Italia promuovere modifiche dell’assetto istituzionale globale che

consentano di passare progressivamente da una economia globale basata sulla prevalente

complementarità istituzionale fra conoscenze privatizzate e mercati monopolizzati a una basata

sulla prevalenza di conoscenze pubbliche e mercati concorrenziali.

Abbiamo visto nella prima sezione come un’economia caratterizzata da diritti di proprietà

intellettuale globali e da intervento pubblico solo a livello nazionale favorisca stagnazione,

diseguaglianza e un inefficiente spostamento del confine fra conoscenza privata e pubblica. La

costituzione del WTO, con l’annesso accordo TRIPS, ha generato esattamente questa situazione.

Una proposta di riforma dovrebbe porsi l’obiettivo di avvicinare il confine fra conoscenza privata e

pubblica a quello che si avrebbe in un’economia chiusa dove uno Stato Nazionale potrebbe stabilire

un equilibrio ragionevole fra conoscenza finanziata pubblicamente e conoscenza sostenuta

privatamente per accaparrarsi rendite di monopolio.

Assumeremo realisticamente che uno Stato Mondiale che prenda una decisione del genere non

esista e proporremo di concentrare l’attenzione sulle possibilità di riforma dell’assetto istituzionale

definito nell’ambito del WTO, nel senso di generare incentivi adeguati a raggiungere il confine che

si avrebbe nella economia globale se questo Stato esistesse.

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È bene sottolineare, preliminarmente, che l’adozione di misure volte a realizzare un riequilibrio

globale fra conoscenze private e conoscenze liberamente accessibili rappresenta una precondizione

essenziale per perseguire la missione stessa del WTO: una apertura dei mercati nazionali

compatibile con la crescita e lo sviluppo di ognuno dei paesi membri.

La compresenza di libertà commerciali globali e crescita e sviluppo locali nelle finalità del WTO è

esplicita anche nelle parole riportate nel sito del WTO:

The WTO's founding and guiding principles remain the pursuit of open borders, the guarantee of

most-favoured-nation principle and non-discriminatory treatment by and among members, and a

commitment to transparency in the conduct of its activities. The opening of national markets to

international trade, with justifiable exceptions or with adequate flexibilities, will encourage and

contribute to sustainable development, raise people's welfare, reduce poverty, and foster peace and

stability. At the same time, such market opening must be accompanied by sound domestic and

international policies that contribute to economic growth and development according to each

member's needs and aspirations.

Il contrasto a forme di concorrenza sleale rappresenta un aspetto importante del perseguimento delle

articolate finalità del WTO sopra esposte. Questo è evidente con riguardo alle misure adottate per

scoraggiare l’introduzione di sussidi all’esportazione e l’adozione di pratiche di dumping sotto costo

per accaparrarsi slealmente quote di mercato. Ma è evidente anche con riguardo all’accordo TRIPS,

che era ed è rivolto a contrastare la concorrenza sleale basata sul mancato rispetto dei diritti di

proprietà, impedendo un abbassamento degli standard di protezione della proprietà intellettuale

all’interno di ogni paese.

L’enfasi su sussidi, dumping e proprietà intellettuale nell’ambito del WTO, se è certamente

funzionale all’obiettivo dell’apertura dei mercati globali, distoglie tuttavia l’attenzione da altre

forme di concorrenza sleale che minano la possibilità di raggiungere gli obiettivi di crescita e

sviluppo per l’insieme dei paesi aderenti. Questo è il caso, ad esempio, della dinamica di

concorrenza sleale innescata dall’apertura dei mercati in assenza di standard comuni per effetto

della convergenza verso gli standard più bassi. Se i paesi si fanno concorrenza sui mercati dei

prodotti, la pressione alla riduzione dei costi può portare a una gara al ribasso nella definizione e

nell’applicazione di standard ambientali e di sicurezza dei lavoratori, che sono spesso in forte

conflitto con i bisogni e le aspirazioni dei paesi aderenti alle istituzioni internazionali.

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Ma vi è di più. Come si è cercato di argomentare nei paragrafi precedenti, la forma di concorrenza

sleale più elusiva, e quella alla quale proponiamo di rivolgere particolare attenzione, è la diretta

conseguenza dell’accordo TRIPS, che ha di fatto istituzionalizzato una situazione, quale è quella

esaminata nella prima sezione, in cui a dei diritti di proprietà privata intellettuale globali

corrisponde un finanziamento nazionale e non globale della ricerca pubblica. In questa situazione, si

rafforza l’incentivo a investire eccessivamente in ricerca privata e, contestualmente, s’indebolisce

sostanzialmente l’incentivo a investire in quella pubblica. Si accentua così, come abbiamo

argomentato nella seconda e terza sezione, una situazione di stagnazione economica e

diseguaglianza.

Paradossalmente, il WTO e i TRIPS contraddicono la loro missione più importante. Essi creano un

forte incentivo a una diffusa concorrenza sleale in cui ogni paese cerca di utilizzare la conoscenza

pubblica degli altri paesi e privatizzare al massimo la propria. Porre fine a questo tipo di

concorrenza sleale, che ha portato a tagli negli investimenti in ricerca pubblicamente disponibile

nella gran parte dei paesi e ha messo in difficoltà numerose Università e centri di ricerca, dovrebbe

essere un obiettivo prioritario del WTO. Peraltro, è evidente che nel quadro istituzionale definito

dall’accordo TRIPS che si è descritto, iniziative di policy unilaterali dei singoli paesi sono

scarsamente efficaci, e soltanto un approccio multilaterale, quale quello adottabile nell’ambito del

WTO, può generare effetti concreti.

Una proposta di eliminazione della concorrenza sleale indotta dal TRIPS richiede un intervento

articolato almeno su almeno tre piani complementari:

- rafforzare la consapevolezza della necessità di trovare un equilibrio ottimale fra conoscenze

private e conoscenze liberamente accessibili;

- introdurre uno standard minimo di contribuzione all’open science per ciascun membro del WTO,

sostenuto da un adeguato sistema di tutela dei contributi dall’appropriazione privata e da un

adeguato sistema di enforcement;

- infine, creare un sistema di acquisto pubblico dei diritti di proprietà intellettuale particolarmente

suscettibili di generare effetti di blocco sull’innovazione adattativa o complementare e/o

particolarmente importanti per esigenze di salute pubblica.

Quanto al primo aspetto, come precondizione delle misure di policy più specifiche, è importante

promuovere, nell’ambito del WTO, l’affermazione esplicita della necessità di garantire un

equilibrio fra conoscenze liberamente accessibili e diritti di privativa, poiché la tutela dei diritti di

proprietà intellettuale rappresenta uno strumento imperfetto di incentivazione e non un fine in sè.

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L’attuale filosofia di fondo dell’annesso relativo all’accordo TRIPS ignora, o persino nega, il

problema di stabilire un confine efficiente fra proprietà intellettuale privata e conoscenze pubbliche.

Questo si evince dal preambolo del Trattato, che include ben quattro Recognizing, il secondo dei

quali recita:

Recognizing that intellectual property rights are private rights

Porre l’enfasi sul fatto che la proprietà intellettuale è, per sua natura, privata fa leva sulla fallace

analogia fra proprietà intellettuale e proprietà dei beni tangibili – un approccio che non permette di

riconoscere le specificità e i limiti dell’attribuzione di diritti di privativa sulla conoscenza. Si finisce

per ignorare il “public domain”, nel quale in varie forme i diritti di proprietà intellettuale sono di

tutti e nessuno (Boyle 2003) e s’ignora il fatto che la conoscenza è il bene comune più importante

dell’umanità. E’ sviluppo delle conoscenze quello che ha reso la nostra storia diversa da quella di

tutte le altre specie.

La conoscenza, anche se appropriabile privatamente, presenta un aspetto tipico dei beni pubblici,

ovvero il fatto che molteplici usi sarebbero simultaneamente compatibili. Con parole ancora oggi

molto efficaci si può ripetere quanto scrisse il Presidente americano Thomas Jefferson in una

famosa lettera nel lontano 1813:

“He who receives an idea from me, receives instruction himself without lessening mine; as he who

lites his taper at mine, receives light without darkening me.”

Restringere con la proprietà privata la circolazione di un bene che può avere infiniti usi gratuiti

come la conoscenza equivale a rifiutarsi di accendere altre candele con la propria pur sapendo che la

fiamma delle nuove candele accese non farà scemare la fiamma della propria candela. Il rifiuto di

ognuno di accendere le candele degli altri finirà così con l’aumentare l’oscurità di tutti.

La frase:

Recognizing that intellectual property rights are private rights

andrebbe pertanto cambiata come segue:

Recognizing that knowledge is the most important global common of humankind and that a limited

attribution of intellectual private property rights can be sometimes justified as an incentive to

develop it.

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Il secondo aspetto della proposta attiene all’introduzione di uno standard minimo globale di

sostegno all’open science: i paesi membri dovrebbero concordare un ammontare minimo di

investimenti in ricerca pubblica, espresso in percentuale del PIL, al di sotto del quale la loro

partecipazione al sistema di scambi internazionali non viene ammessa in quanto assume la forma di

concorrenza sleale.

A questo scopo, il comma 2 dell’articolo 8 dell’accordo TRIPS andrebbe a nostro giudizio

integrato. Infatti, questo articolo fa solo riferimento al possibile abuso dei diritti di proprietà

intellettuale quando essi si traducano in pratiche che hanno l’effetto di limitare lo scambio e gli

scambi internazionali di tecnologia. In esso non si fa invece riferimento al fatto che un paese possa

fare concorrenza sleale usando la conoscenza resa pubblica dagli altri paesi senza contribuire allo

suo sviluppo con propri investimenti.

Al testo:

Appropriate measures, provided that they are consistent with the provisions of this Agreement, may

be needed to prevent the abuse of intellectual property rights by right holders or the resort to

practices which unreasonably restrain trade or adversely affect the international transfer of

technology.

andrebbe aggiunto:

Appropriate measures may also be needed to prevent country policies, inconsistent with the aim to

contribute to the development of global public knowledge, which generate unfair competitive

advantages.

È importante sottolineare che, al fine di garantire un riequilibrio efficace e duraturo fra conoscenze

private e conoscenze liberamente accessibili, è necessario prevedere un sistema di tutela

dall’appropriazione privata dei risultati delle ricerche condotte in regime di open science in

applicazione dello standard minimo di cui proponiamo l’istituzione. Una possibile soluzione è

quella già adottata nell’ambito della produzione di software, in ambito biotech e in altri ambiti,

basata sulla divulgazione dei risultati di R&S mediante un sistema di licenze che garantisca lo

stesso grado di accessibilità che si ha quando la conoscenza è nel public domain e, al contempo, la

possibilità di impedire che sviluppi futuri di quella conoscenza siano sottratti al public domain

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perché incorporati in innovazioni proprietarie. Si tratta del sistema di licenze open source, e in

particolare del sistema di licenze GPL, la cui applicazione potrebbe essere generalizzata a tutti i

risultati della ricerca condotta in applicazione dello standard minimo di contribuzione all’open

science (Rossi, 2006; D’Antoni e Rossi, 2014).

Altre modifiche all’accordo e/o al trattato istitutivo del WTO si rendono necessarie per garantire

l’efficace applicazione dello standard. Una possibilità potrebbe essere la creazione di un’apposita

agenzia internazionale indipendente che certifichi il raggiungimento della percentuale di spesa in

conoscenza pubblica di ciascun paese prevista dal WTO, ed eventualmente applichi sanzioni in caso

di inosservanza degli standard minimi richiesti. I contributi a determinate organizzazioni

internazionali che promuovono l’avanzamento delle conoscenze in settori ritenuti globalmente

prioritari, come la cura di determinate malattie, sono parte di questa percentuale e non necessitano

di ulteriori certificazioni dell’agenzia.

La definizione di uno standard minimo di sostegno alla produzione di conoscenze liberamente

accessibili è suscettibile di generare effetti benefici sia sull’efficienza economica sia

sull’eguaglianza. Come si è visto, essa comporta un aumento nel grado di utilizzo di fattori

produttivi sottoutilizzati, riduce gli ostacoli all’investimento innovativo delle imprese e dei paesi

che non detengono un consistente portafoglio di diritti di privativa sulla conoscenza, contribuendo a

garantire una sostanziale eguaglianza di opportunità e una più equa distribuzione dei profitti e della

ricchezza nella catena del valore globale, con conseguenti effetti anche sulle remunerazioni dei

lavoratori. Gli effetti moltiplicativi di questi investimenti potrebbero contribuire a superare la

stagnazione che ha caratterizzato gli ultimi anni della economia mondiale. Inoltre, poichè la

proposta prevede che i contributi alle istituzioni di ricerca internazionali entrino automaticamente

nella percentuale di spesa obbligatoria in open science, si avrebbe una benefica intensificazione

della collaborazione internazionale.

Si noti che la scelta di promuovere la definizione dello standard proposto nell’ambito del WTO

consente di superare il classico problema di free riding nel contributo ad un bene pubblico: se lo

standard di contributo minimo entra simultaneamente in vigore per tutti i membri del WTO, viene

meno il problema di raggiungere una massa critica di paesi che possano trarre beneficio

dall’applicazione delle nuove regole anche se i restanti paesi non le adottano. Inoltre, la proposta

consente di individuare un meccanismo di applicazione efficace dello standard: stabilire un legame

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fra contributo all’open science e politiche commerciali analogo a quello che già sussiste fra rispetto

dei DPI e politiche commerciali.

Infine, l’agenzia internazionale indipendente (considerata nella proposta precedente) potrebbe

svolgere, oltre alla funzione di certificazione degli investimenti in open science, anche una funzione

di raccolta e aggregazione delle informazioni sulle circostanze nelle quali specifici diritti di

proprietà intellettuale esercitano un effetto di blocco per gli investimenti innovativi particolarmente

pernicioso perché le sottostanti conoscenze hanno un campo di applicazione molto ampio e il

tradizionale sistema di licenze è poco efficace, o perché sussistono evidenti implicazioni in termini

di salute e sicurezza. In questi casi l’agenzia potrebbe imporre una licenza obbligatoria che

comporta l’immissione nel pubblico dominio del diritto di proprietà intellettuale e prevede una

compensazione del detentore del DPI, come veniva già proposto molti anni fa in un bell’articolo da

Michael Polanyi (1944).

Questa misura trova fondamento nelle flessibilità già presenti nell’accordo TRIPS e non utilizzate

prevalentemente per il timore di ritorsioni commerciali. Rappresenta un modo per implementare

attraverso un meccanismo multilaterale una flessibilità giudicata indispensabile fin

dall’introduzione dell’accordo nel 1994. Una misura del genere avrebbe anche il vantaggio di

contribuire a rilanciare l’economia mondiale. La proposta comporta, infatti, uno spostamento dal

dominio privato a quello pubblico di un fattore produttivo, che genera un duplice effetto d’incentivo

all’investimento: da un lato, da parte dei soggetti in precedenza esclusi dall’accesso ai DPI

bloccanti; dall’altro, da parte dell’ex-monopolista che fronteggerebbe una maggiore concorrenza ed

avrebbe al contempo nuovi flussi monetari derivanti dalla compensazione ottenuta a disposizione

per l’investimento (Pagano e Rossi 2009).

5. Conclusione.

Per spegnere il perverso sorriso che caratterizza l’economia globale occorrono riforme delle

istituzioni internazionali che hanno rafforzato il monopolio intellettuale e creato una concorrenza

fra poveri incapaci di progredire mediante nuove idee e tecnologie. L’Italia, che ha particolarmente

sofferto per quest’assetto istituzionale, deve reagire sia facendo quello che è possibile con le

istituzioni vigenti, sia promuovendo una riforma della struttura delle istituzioni internazionali.

Naturalmente questa riforma delle istituzioni internazionali non può limitarsi al WTO e all’accordo

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TRIPS. Essa può per esempio coinvolgere, come sottolinea Boschiero (2017), piuttosto il

rafforzamento o la fondazione di istituzioni internazionali che, specialmente nel settore medico,

contribuiscano allo sviluppo della ricerca pubblica.

Tuttavia, qualsiasi sia il metodo prescelto per iniziare a riformare le istituzioni internazionali, il

presupposto delle proposte avanzate in questo lavoro è che è importante prendere atto del fatto che

le istituzioni fondate a Marrakech nel 1994 hanno finito con l’incentivare delle forme di

concorrenza sleale fra paesi che contraddicono la loro stessa missione. Se si parte da questa

costatazione, forse potremo sorridere anche noi. Senza ridere degli altri. Anzi forse facendo

sorridere anche loro.

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Cambiamento tecnologico

e disuguaglianze:

cosa succede e cosa si può fare

Mario Pianta Scuola Normale Superiore, Firenze

Forum Disuguaglianze Diversità, L’Aquila, 15 novembre 2018

The power of capital over labour

10-15% of GDP moved from labour to capital

n The power of finance

n Control over labour

n Technological change

n International production

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G e r m a n y

F r a n c e

I t a l y

U n i t e d K i n g d o m

U n i t e d S t a t e s

Ja p a n

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Data from European Commission AMECO database, from: ILO Global Wage Report 2014/15, p.11

1 0 %

1 5 %

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4 0 %

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U n i t e d S t a t e s

Ja p a nG e r m a n y

F r a n c e

U n i t e d K i n g d o m

I t a l y

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Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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Come la tecnologia crea

disuguaglianza (tra salari e profitti) n - sostituzione diretta di lavoro con capitale, aumento della

quota dei profitti e riduzione della quota dei salari. Aumenta la

produttività del lavoro: che succede ai salari?

n - riduzione dell’occupazione e del monte salari; inadeguati

meccanismi di compensazione attraverso nuova domanda

capaci di creare nuova occupazione

n - polarizzazione dei posti di lavoro in termini di qualifiche e

salari: maggiori disparità interne ai salari

Tecno-disug n - i benefici della maggior produttività non vanno più ai

salari

n - uso delle tecnologie per aumentare il controllo dell’impresa

sui lavoratori

n - il cambiamento tecnologico si intreccia con la

globalizzazione

n - la logica finanziaria influenza la tecnologia: pressione della

finanza sulle imprese in termini di alti profitti e di quotazioni di

borsa

n - il caso delle piattaforme digitali

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15 proposte per la giustizia sociale 188

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Prodotto

Tecnologia nuova

(i salari aumentano?)

Tecnologia vecchia

Lavoro L1 L2

P2

>Dom

P1

Dom=

Disocc tecnol. (il monte salari scende)

Tecnologia, occupazione e disug.

Value Added, Employment and Productivity in Northern

(DE, FR, UK) and Southern Europe (ES, IT)

(Cirillo, 2016)

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15 proposte per la giustizia sociale 189

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1 0 0

1 0 2

1 0 4

1 0 6

1 0 8

1 1 0

1 1 2

1 1 4

1 1 6

1 1 8

1 9 9 9 2 0 0 0 2 0 0 1 2 0 0 2 2 0 0 3 2 0 0 4 2 0 0 5 2 0 0 6 2 0 0 7 2 0 0 8 2 0 0 9 2 0 1 0 2 0 1 1 2 0 1 2 2 0 1 3

L a b o u r p r o d u c t i v i t y i n d e x

R e a l w a g e i n d e x

Growth of labour productivity and average wages Wage growth is calculated as a weighted average of year-on-year growth in average monthly real wages

in 36 economies. Index is based to 1999 because of data availability. From: ILO Global Wage Report

2014/15, p.8.

15/03/19 10

Total wage bill in Italy’s manuf. Ind.

High and low tech, Indexes 2000=1

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 190

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15/03/19 11

Total wage bill in Italy’s services

High and low tech, Indexes 2000=1

Change of employment by occupat., 2000-14 Average annual rates of change, manufacturing and services,

five major EU countries

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15 proposte per la giustizia sociale 191

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D E S DD E S DD E S DD E S DD E S D

D E S ID E S ID E S I

D E S B

D E S ID E S ID E S I

D E S D

D E S S

D E S B

D E S S

D E S BD E S B

D E S I

D E S S

D E S D

I TS DI TS DI TS DI TS DI TS DI TS II TS II TS I

I TS B

I TS II TS II TS II TS D

I TS S

I TS B

I TS S

I TS BI TS B

I TS I

I TS S

I TS D

-.50

.51

1.5

2

RVLC

PEM

P951

4_CP

2 0 3 0 4 0 5 0 6 0 7 0Q in p d t 9 5 1 4 _ C P

Product innov. and wage growth

Manif. Ind., 4 macrosect. 1995-2014

Change in

Wages per empl.

1995-2014

% firms with product innov.

Germany

Italy

SB: science based

SS: machinery

SI: scale intens.

SD: traditional

15/03/19 14

Value added and profits in manuf. and services

Germany and Italy indexes 2000=1

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15 proposte per la giustizia sociale 192

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Inequality within wages, Italy n INPS database LOSAI (one fifteenth of all Italian

workers with a labour contract)

n 1985 to 2014, Italy only

n pre-tax earnings in real terms (using consumer

price index; top earners with more than 250,000

euros are assigned with that income)

n Full time, full year, temporary, perman. workers

Italy, change in real wages, 1985-2014

top 10%: +27%

bottom 10%: -29%

mean: +7%

bottom 25%:

-22%

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 193

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Italy, change in real wages, 1985-2014 Workers employed full time, full year

top 10%

bottom 10%

bottom 25% mean

Italy, share of temporary workers

1998-2014

12%

22%

INPS LOSAI data, representative sample

of private sector employees

Bloise, Pianta, Raitano, 2018

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 194

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Earnings variation by decile in Italy, 1985-2014

Poor losers

-22,30 -19,42

-17,87

-13,49

-3,92

3,33

8,01

12,21

19,34

-25

-20

-15

-10

-5

0

5

10

15

20

25

p10 p20 p30 p40 p50 p60 p70 p80 p90

% variation of gross real earnings between 1985 and 2014 at each decile

The elephant curve of global inequality, 1980-2016 Source: Alvaredo et al. World Inequality Report 2018, licensed under CC BY-NC-SA 4.0

 

:

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15 proposte per la giustizia sociale 195

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Le proposte: il quadro n Riequilibrare i rapporti capitale-lavoro

n Ridurre l’estensione dei processi di mercato che

creano disuguaglianze (ad es. servizi pubblici)

n Aumentare istruzione, conoscenza, qualifiche

n Mantenere processi decisionali su tecnologia e

lavoro nel paese

n Trasferire ai salari l’aumento di produttività

Le proposte: il lavoro

n Difesa della quantità di occupazione

n Innovazione ‘amica dell’occupazione’:

n Non sostituzione di lavoro come priorità,

n Non riduzione delle qualifiche/competenze

n Non polarizzazione all’interno dei salari

n Contratti collettivi di settore, non liv d’impresa

n Meno precarizzazione (peggiora l’innovaz)

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15 proposte per la giustizia sociale 196

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Le proposte: la tecnologia

n Innalzamento del contenuto tecnologico,

cambiam strutturale verso tecnol avanzate

n Innovazioni di prodotto più che di processo

n Politiche di domanda

n Mission-oriented R&D policy

n Evitare concentrazione di potere e controllo

(ad es. nelle piattaforme)

Le proposte: la politica industriale

n Non politiche orizzontali

n Non Industria 4.0

n Priorità: diffus ICT, sostenibilità, salute, attività

con alto lavoro, qualifiche, salari

n Varietà di strumenti da utilizzare

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15 proposte per la giustizia sociale 197

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The policy space in Europe n Europe2020, Structural Funds/cohesion

n Flagship initiative “An integrated industrial policy”, ‘Smart

specialisations’

n Environmental actions and the Energy Union

n EFSI and EIF, role of European Investm Bank

n Industry 4.0, 2017 actions for digital economy

n Social infrastructure report by Public investm banks, 2017

n Mazzucato report on Mission-oriented research, 2018

A progressive industrial

policy in Europe n Europe-wide industrial policy

n 2% of Europe’s GDP (about EUR 260 billion) for a decade,

n greater national policy space with a ‘golden rule’ for public

investment.

n reduce the divergence between Europe’s centre and periphery,

concentrate resources in weaker regions and weaker countries.

n Integration with tax harmonisation (Irish report)

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15 proposte per la giustizia sociale 198

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Funds

n Role for the ECB,

n Long-term, high-risk public capital is needed to fund

investment financial markets do not fund

n Role of EIB, EFSI, Public Investment Banks

Key fields to be targeted n environmental sustainability;

n appropriate ICT applications;

n health and public services

(coherent with EU2020)

n innovative and efficient new economic activities employing

high-skill, high-wage labour

n no focus on manufacturing alone, no focus on whole

industries

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 199

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Tools n Greater general support for R&D, education, horizontal

actions

n Public investment programmes,

n Public procurement

n public enterprises,

n support of private firms,

n mission-oriented innovation programmes

n Link to environmental and other policies

Implementation

n Implemented at the national and regional levels, with bottom-

up efforts and democratic processes

n Reinventing the governance of public-interest economic

activities, political and social consensus

n Need for new arrangements for the governance of public

interest economic activities,

n Transparency, monitoring, avoid collusion, corruption, waste

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15 proposte per la giustizia sociale 200

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What if nothing can be done?

n Divergence and inequality continue to grow

Hypotheses on the political consequences:

n Inequalities, impoverishment, insecurity (and

the fear of becoming poorer) are relevant in

changing voting behaviour

Italy, change in real wages, 1985-2014

top 10%: +27%

bottom 10%: -29%

mean: +7%

bottom 25%:

-22%

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 201

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Di Thern - Opera propria, CC BY-SA 4.0,

https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=71577870

2018 5Stars Vote (% Camera)

Lowest wage workers

Bloise, Pianta, Raitano, 2018

Di Thern - Opera propria, CC BY-SA 4.0,

https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=71577870

2018 5Stars Vote (% Camera)

Temporary workers

Bloise, Pianta, Raitano, 2018

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I N C O M E D I S T R IB U T I O NE N G I N E S O F I N E Q U A L I T Y

P O W E RO F C A P I TA LO V E R LA B O U R

O L I G A R C H SC A P I TA L I SM

I N D I V I D U A L I S .O F E C O N O M I CC O N D I T IO N S

R E T R E A T O FP O L I T I C S

F i n a n c eL a b . c t r lT e c h n o l .G l o b a l i s .

P o s i t i o n so f r e n t s

M O R E P R O F I T SL E S S W A G E S( e x c l u d i n gt o p m a n a g e r s )

H I G H E RF I N A N C I A LR E N T S

L O W E RR E T U R N S O FP R O D U C T I O N

M O R ED I S P A R I T I E SB E T W . W A G E S

P O L I C I E S F A V O U R I N G M A R K E T I N E Q U A L I T YL E S S R E D I S T R I B U T I O NT H R O U G H P O L I C I E S , T A X E S , P U B L I C E X P E N D .

M O R EI N E Q U A L I T Y

T O P 1 0 %R I S E O F T O PI N C O M E S

B O T T O M 9 0 %I N C O M E F A L L ,M O R E D I S PA R .

G r e a t e ri n h e r i t a n c e ,i n t e r g . i n e q

The four engines of inequality and

their impact on income distribution

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15 proposte per la giustizia sociale 203

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Un New Deal per l’Europa

Rilanciare le infrastrutture sociali *

Romano Prodi

Presidente della Fondazione per la collaborazione dei popoli

e

Edoardo Reviglio

Cassa Depositi e Prestiti e LUISS Guido Carli

Dopo dieci anni di bassa crescita e recessione l’Europa vive una “crisi di identità”. Le granditrasformazioni della nuova rivoluzione industriale, insieme al nuovo contesto geo-politico,colpiscono l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Le prospettive della demografiapreoccupano il futuro delle famiglie. Finora lo stato sociale non ha ridotto le risorse a disposizionedei cittadini. Tuttavia, i bisogni crescenti ne hanno accresciuto la domanda. Secondo i datidell’Eurostat (2017) circa 145 milioni di persone, pari a quasi il 30% della popolazione dell’Unionesono a rischio di povertà o di esclusione sociale. È aumentata la divergenza tra le regioni più ricchee quelle più povere dell’Unione. La classe media è riuscita, in parte, a sostenere la crisi facendoricorso al risparmio accumulato negli anni, spesso nei decenni passati. Ora è in difficoltà e leaspettative sono tutt’altro che rassicuranti. Questo incide sui consumi e sulla crescita. Incide anchesul benessere e la tranquillità dei cittadini. Per la prima volta, dal secondo dopoguerra, le nuovegenerazioni potrebbero essere più povere di quelle precedenti. Le difficoltà economiche alimentanoi movimenti populisti e sovranisti. L’Europa deve reagire con coraggio.

Eppure l’Unione europea è ancora tra le aree più prospere del mondo. La coesione sociale è tra lepiù alte del pianeta. Forse mai nella storia dell’umanità si è riusciti a costruire un periodo di pacecosì lungo. La guerra tra gli stati europei non è più un’opzione. Lo stato di diritto, anche se sottopressione in alcune nazioni, è una garanzia che diamo ormai per scontata. La creazione di unaunione di stati della dimensione dell’Europa è una conquista che in molti ci invidiano. La Brexit hadimostrato che è meglio stare nell’Unione che uscirne. Ha anche dimostrato che l’Europa è unita.

Bisogna quindi essere coraggiosi ed ottimisti. Bisogna gestire il presente, ma preparaci per unfuturo complesso e pieno di incognite. L’Europa nel mondo è ancora una “potenza tranquilla”.Malgrado l’individualismo in questi decenni sia stata la cifra della nuova ideologia economica,solidarietà e senso della comunità sono ancora diffuse. Bisogna riportare l’Europa nei nostri cuori e,insieme, bisogna agire con l’ottimismo della ragione. L’Unione ha sempre dato il suo meglioquando le condizioni si facevano più difficili. Ci auguriamo che sia così anche questa volta. Certouno dei problemi che dovrebbe essere affrontato con una certa urgenza nel sistema di governanceeuropea è l'eccessivo potere del Consiglio rispetto alla Commissione. Il primo, che raduna i capi diStato e di Governo, tende ad acuire le tensioni tra stati nazionali. La seconda, che ha una

** Questo testo è in corso di pubblicazione sulle “Rivista di Politiche Sociali”.

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conformazione molto più eterogenea, permette di affrontare i problemi dell'Europa nel suo insieme,attenuando, almeno in parte, le divergenze nazionali.

Una delle grandi priorità politiche è il rafforzamento ed il rilancio dell’Europa Sociale. E quandoparliamo di Europa sociale non intendiamo solo gli investimenti sociali, ma anche le infrastrutturenecessarie per gestire la domanda dei servizi sociali, che aumenta e cambia natura. Su questo tema,insieme alla Commissione europea e all’associazione delle banche promozionali e pubblicheeuropee, abbiamo lavorato lo scorso anno con una quarantina di esperti e prodotto un Rapporto sucome rilanciare le infrastrutture sociali in Europa. 1 Il documento ha avuto una circolazione ed unriconoscimento che francamente non ci saremmo aspettati. Perché? Sicuramente perché, ingenerale, si parla molto di infrastrutture economiche e molto meno di infrastrutture sociali. Le c.d.infrastrutture economiche (trasporti, energia, TLC, ecc.) sono ancora a centro delle politiche diinvestimento della UE. In parte perché producendo flussi di cassa tramite le tariffe si ripagano ingran parte da sé, e quindi pesano meno sulle finanze pubbliche. E in parte perché sono generalmenteopere medio-grandi e quindi attirano, costruttori, imprese, e grandi investitori istituzionali e privati.Le infrastrutture sociali sono opere medio-piccole, granulari, sono finanziate per circa il 90 percento da risorse pubbliche, richiedono una forte presenza sul territorio con la messa a punto dischemi finanziari innovativi, che spesso le amministrazioni locali non possiedono. Per parte suaBanca Europea degli Investimenti (BEI) non ha risorse sufficienti per essere presente sul territoriodi 28 stati membri. Bisogna coinvolgere in modo più attivo le banche promozionali di svilupponazionali, che con la BEI possono creare una rete europea di assistenza tecnica per leamministrazioni locali. Inoltre, il consolidamento fiscale le ha penalizzate, tagliando i trasferimentiagli enti locali, riducendo così le risorse pubbliche a favore delle infrastrutture sul territorio. Questolo consideriamo un errore politico molto grave perché è sul territorio che i cittadini percepiscono dipiù la presenza (o l'assenza) dello Stato (e dell'Europea) ed è sulle opere medio piccole che simobilitano il maggior numero di maestranze locali, creando occupazione e crescita.

Il lavoro della HLTF (High-Level Task Force), era diviso in due gruppi di esperti. Il primocomposto da scienziati sociali ed il secondo da esperti di finanza. Due mondi che spesso parlanolingue diverse o non si parlano proprio. Questo, credo, sia stato un elemento molto innovativo delnostro lavoro. Gli scienziati sociali avevano il compito di elaborare gli scenari futuri nei settori dellasanità, dell’istruzione e dell'edilizia sociale. Avevano, inoltre, il compito di stimare la spesa inquesti settori e il divario (gap) tra quello che si spende e quello che sarebbe necessario spendere neiprossimi anni. Gli esperti di finanza avevano invece il compito di studiare meccanismi innovativiper finanziare queste opere in modo da pesare il meno possibile sulle finanze pubbliche attraversoforme innovative di partenariati pubblico-istituzionali, pubblico-comunità, pubblico-terzo settore,ecc. Infine, era necessario dare raccomandazioni alla Commissione sul ruolo che l’Unione europeae il successore del c.d. Piano Juncker per gli investimenti denominato InvestEU potesse aumentarele risorse a disposizione per le infrastrutture sociali attraverso una serie di nuove soluzioni.

I risultati sono stati molto apprezzati dalla Commissione e dalla società civile ed in larga parteutilizzati per costruire il nuovo piano per gli investimenti europeo e per accendere un faro politicosul tema dell’Europa Sociale.

1� Fransen L. del Bufalo G. and Reviglio E., (2018), Boosting Investment in Social Infrastructure in Europe, Report of the HLTF

Force on Investing in Social Infrastructure in Europe chaired by Romano Prodi and Christian Sautter , Discussion Paper, 074,January 2018.

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Il futuro sociale dell’Europa

Uno dei temi che preoccupano di più gli studiosi di politiche sociali nei prossimi decenni è lademografia europea. Se oggi gli over-65 sono c.a. il 18 per cento della popolazione nel 2060saranno c.a. il 30 per cento. Di questi circa il 50 per cento sarà over-80 (e degli over-80 c.a. il 40 percento, che cresce con il crescere degli anni, ha alta probabilità di soffrire di disturbi, soprattuttomentali, che richiedono cure costanti). La ragione è che la medicina ha fatto straordinari progressinella cura del corpo, ma non altrettanti nella cura della mente. A meno di progressi importanti dellascienza su questo fronte, di cui tutti ci auguriamo, l’invecchiamento della popolazione rappresentaun tema che va affrontato con urgenza. Bisogna prepararsi. Se oggi il rapporto tra chi lavora e chinon lavora, o perché in pensione o perché disoccupato, è pari a 1:4, nel 2060 potrebbe essere pari a1:2. È dunque necessario fare politiche per la famiglia per incentivare le nascite (gli asili nido e glialloggi con affitti sostenibili sono tra queste). Bisogna rendersi conto che se non si rinverdisce lapopolazione europea, anche attraverso politiche mirate e socialmente sostenibili sul frontedell’immigrazione, l’Europa rischia un lento declino.

Sul fronte dei giovani vanno studiati nuovi modelli educativi per prepararli a nuovi mestieri. Questosignifica non sono ristrutturare le scuole, ma anche i sofware che gestiscono i nuovi programmieducativi ed i sistemi di connessione. Le infrastrutture scolastiche devono quindi essere consideratecome beni sia tangibili che intangibili. Abbiamo bisogno di raggiungere in tempi rapidi la pienacopertura del fabbisogno prescolare (asili nido e scuole materne) in tutta Europa. Questo è unfattore decisivo, non solo per la formazione e socializzazione dei giovani, ma anche perl’occupazione femminile.

Infine, abbiamo un gran bisogno di alloggi per i giovani e per le nuove famiglie a costi sostenibili.Solo in Italia la domanda di nuovi alloggi è pari a c.a. 1,6 milioni di nuove unità. Inoltre, ènecessario fare in modo che i vecchi ed i nuovi alloggi siano dotati di sistemi di efficienzaenergetica. Non solo per l’ambiente in generale, ma anche per il costo del riscaldamento, che rischiadi diventare proibitivo per chi ha redditi medio-bassi.

Oggi in tutta Europa si sperimentano nuove forme di case-comunità, dove gli anziani sono dotati diun centro medico per i controlli e le emergenze, famiglie di giovani con bambini con asili nido escuole prescolari ed elementari all'interno della comunità, con la possibilità per i piccoli di giocarecon i più anziani e con gli studenti, e altri servizi di vario genere. Si parla di "commons urbani". Sitratta di casi di grande successo, che devono rappresentare i modelli del futuro. Un futuro chedobbiamo incominciare a sperimentare e costruire fin da ora.

Le riforme dei sistemi di protezione sociale europei, in particolare sanità, cura degli anziani e deiminori, istruzione, edilizia sociale, dovrebbero diventare i pilastri per affrontare le granditrasformazioni che attendono Europa di domani. Infrastrutture sociali di alta qualità offrono beneficiai singoli cittadini ed alla collettività con ricadute positive sulla società e sull’attività economicaaumentando la coesione sociale, l'occupazione e la crescita economica. Infrastrutture sociali dibassa qualità, al contrario, possono limitare opportunità sociali ed economiche, fanno sì che imercati funzionino in modo meno efficiente e marginalizzando alcuni gruppi, generando nuovedisuguaglianze e perpetuando disuguaglianze già esistenti.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

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Quanto si investe e quanto di dovrebbe investire nelle infrastrutture sociali?

In Europa, dal 2007 ad oggi gli investimenti, sia pubblici che privati, sono diminuiti del 20 percento. Nell’ambito degli investimenti pubblici ben il 75 per cento della riduzione è dovuta al crollodelle opere realizzate dalle amministrazioni locali che, nella media europea, rappresentano intornoai 2/3 del totale degli investimenti pubblici.

Secondo recenti stime il fabbisogno italiano per le infrastrutture economiche (energia elettrica,strade, ferrovie, telecomunicazioni, acqua, porti e aeroporti) per il periodo 2016-2040 può esserestimato in 65/70 miliardi di dollari all’anno, per le infrastrutture sociali intorno ai 10/12 miliardi didollari (Global Infrastructure Outlook, 2018). Ma, dall’inizio della crisi ad oggi la spesa perinvestimenti pubblici ha subito un vero e proprio tracollo: da 47 miliardi di euro del 2007 a 34miliardi nel 2017, con una riduzione di circa il 27%. La caduta degli investimenti locali durante glianni della crisi è stata ben più rilevante e drammatica, pari al 50%, con un con una riduzione ancorapiù intensa dell’84% dal 2012 al 2018, dovuta principalmente al taglio dei trasferimenti agli Entilocali, seguito dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione.

Una riduzione degli investimenti sul territorio di tali proporzioni crea inevitabilmente disaffezionetra i cittadini verso lo Stato (e l'Europa). Impoverisce la struttura sociale e non aiuta a curare levecchie e nuove povertà. Toglie le speranze e riduce le aspettative. Riduce il lavoro per gli artigianie per le imprese locali. Il trend va invertito subito, se non vogliamo che il rapporto tra politica ecittadini si deteriori ulteriormente.

I nostri esperti hanno stimato che nella UE-28 si spendono attualmente ogni anno circa 170 miliardidi euro in infrastrutture sociali nei settori della sanità, dell’istruzione e della edilizia sociale. Il gapinfrastrutturale minimo è pari a circa 100-150 miliardi all'anno, che rappresenta un gap totale pari a1,5 trilioni di euro nel periodo 2018-2030.

Secondo il Rapporto la necessità di colmare un tale divario va di pari passo con quella diridisegnare i sistemi di welfare nazionali. Su questo fronte non mancano idee e proposte.Considerando che i sevizi sociali sono anche una economia con un alto moltiplicatore economico efiscale, sarebbe il caso di invertire la rotta al più presto.

Come finanziare le infrastrutture sociali in Europa?

Come finanziare sanità, istruzione e edilizia sociale a un costo sostenibile per le finanze pubblicheeuropee? Il Rapporto propone una serie di soluzioni innovative.

Va premesso, come abbiamo già avuto modo di osservare, che le infrastrutture sociali – a differenzadi quelle economiche e nei settori regolati che si possono in larga parte ripagare attraverso i flussi dicassa che provengono dalle tariffe – sono finanziate per oltre il 90% dai bilanci pubblici.

Prevale l’appalto diretto finanziato con prestiti di lungo periodo a costi vicini al costo del debitosovrano. Grazie al QE gli spread tra paesi membri si è molto ridotto. Ma quanto durerà? Inoltre, ildebito degli enti locali ha spazi molto ristretti.

Si pongono dunque due questioni. La prima riguarda la possibilità di realizzare investimenti chenon pesino sui debiti pubblici. La seconda di fare in modo che i paesi più deboli e più bisognosi diinfrastrutture sociali possano finanziarle a costi meno onerosi. Il Rapporto propone alcune soluzioniper ovviare a questi due problemi.

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Supponiamo che un Comune o una Regione debba fare un investimento in una infrastruttura socialema non abbia spazio sul debito. Può decidere di realizzarlo tramite forme innovative di partenariatipubblico-privato. Se il rischio di costruzione viene trasferito al privato non peserà sul debito. Machi pagherà l’opera? L’amministrazione locale attraverso un “canone di disponibilità” che incideràanno dopo anno sulla spesa corrente, ma non sul debito. Ma il “canone di disponibilità” non sarà piùcaro del servizio su un debito con tassi quasi “sovrani”? Se il “canone” è ridotto grazie a: (a) un“fondo perduto” nazionale e/o europeo (tramite i fondi strutturali o altri fondi europei); (b) dellegaranzie pubbliche nazionali o europee; (c) degli incentivi fiscali; (d) un qualche “spazio fiscale”attraverso una “clausola per gli investimenti sociali” (e) contributi in natura utilizzando beni delpatrimonio pubblico locale (terreni, edifici); e, infine, (f) se il progetto è ben costruito – grazie ad unsistema di “assistenza tecnica” istituzionale che garantisce all’amministrazione che rischi e profittisiano ben distribuiti tra il pubblico e il privato – allora il suo costo potrebbe non essere molto piùcaro del costo del debito, con due ulteriori vantaggi: (1) non crea nuovo debito pubblico (chepeserebbe sulle generazioni future) e (2) si crea un incentivo per l’amministrazione pubblica atagliare spesa corrente non produttiva e eventuali sprechi a scapito del canone per gli investimentiche invece incide positivamente sulla crescita e produce esternalità positive per la comunità. Questasoluzione si chiama in gergo "Blending" (ovvero mettere insieme risorse pubbliche europee enazionali, contributi di associazioni del Terzo Settore, Fondazioni Bancarie, garanzie, incentivifiscali, ed altri strumenti e risorse per ridurre il costo per il Comune che deve realizzare l'opera). Asua volta, le varie opere di piccola e media dimensione vanno unite tra loro e questo si chiama ingergo il "Bundling". Questo per fare sufficiente “massa critica” per attirare gli investitoriistituzionali di lungo periodo, come fondi pensione, che cercano strumenti finanziari a basso rischioper garantire il pagamento delle pensioni nel lungo periodo.

Ora, come facciamo ad assicurare che un paese membro con un rating particolarmente penalizzantema molto bisognoso di infrastrutture e di crescita possa finanziarsi a tassi “sostenibili”? Attraversola creazione di una grande Fondo europeo per le infrastrutture sociali – con azionariato pubblico-istituzionale – che emetta bond sociali europei con un alto rating capace di distribuire il rischio avalle - sui progetti - in modo da dare finanza a tutti i paesi membri superando, almeno in larga parte,il problema degli spread sovrani.

Il Fondo sarebbe dotato di una rete di assistenza tecnica in grado di assistere le amministrazioninella costruzione di piani economici e finanziari di qualità “europea”. A sua volta il Fondo europeogodrebbe di una reputazione tale da attrarre gli investitori di lungo periodo. Sia sul fronte della loropartecipazione al capitale del fondo (tramite azioni) e sia attraverso l’investimento in bond socialieuropei si realizzerebbe quel ’“incontro” tra investitori di lungo periodo, come fondi pensioni eassicurazioni vita, e strumenti finanziari infrastrutturali su cui molto si è scritto e discusso, ma cheancora non si è realizzato nella dimensione che sia domanda sia offerta sembrano richiedere.

La differenza tra gli Eurobond proposti dal Piano Delors nel 1993 e gli Euro Social Bond propostidal nostro Piano nel 2018 sono essenzialmente due. La prima è che il Fondo non richiede unagaranzia degli stati membri, ma solo la partecipazione al capitale tramite le banche promozionali disviluppo e/o capitale degli stati membri – è il Fondo che gestisce il rischio a valle e quello a monteattraverso un c.d. “tranching” dei titoli secondo la loro rischiosità, senza nulla chiedere in più aigoverni nazionali. Secondo, il Fondo si “limiterebbe” alle infrastrutture sociali, attraverso unaspecializzazione dedicata su settori con delle caratteristiche specifiche molto particolari, lasciandoal mercato (e alla BEI e alle banche promozionali nazionali) infrastrutture economiche che hannostrutture economico finanziarie di altra natura.

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Conclusioni

La lunga crisi economica e i grandi cambiamenti strutturali causati da una improvvisa accelerazionedella velocità della storia hanno colpito duramente l'Europa e la sua gente. Di conseguenza, unaparte considerevole della popolazione europea vive sotto condizioni difficili e dolorose. Per reagirealla situazione attuale e alle sfide future, vanno concepite e realizzate iniziative concrete edinnovative all’interno della sfera sociale. Mentre le politiche e i modelli sociali europei sonol'orgoglio del nostro continente, la grande pressione esercitata dalla recente crisi e dalle nuove sfidedel XXI secolo richiedono un ampliamento ed un ammodernamento delle politiche sociali su moltilivelli. Le infrastrutture sociali sono fondamentali per il nostro futuro perché plasmano la naturadella nostra società e rendono possibili servizi sociali e investimenti in capitale umano.

Il Rapporto indica come la crescita dei debiti pubblici richiede la ricerca di soluzioni nuove che,senza indebolire lo stato sociale, non mettano a repentaglio la sostenibilità di lungo periodo dellefinanze pubbliche e quindi delle generazioni future. Mentre infatti le infrastrutture sociali sonogeneralmente costruite e finanziate a livello nazionale, regionale e locale, il divario esistenteimplica che né gli organismi nazionali né quelli sub-nazionali dispongono delle risorse finanziarienecessarie. Sebbene il principio di sussidiarietà debba essere rispettato, gli investimenti nelleinfrastrutture sociali dovrebbero avere una dimensione continentale e dovrebbero essere pianificatiin un'ottica di lungo termine. Il Rapporto indica anche la strada per indirizzare con più efficacia lerisorse pubbliche e istituzionali e private in questo settore.

Sebbene il volume degli investimenti in infrastrutture sociali richiesti costituisca probabilmente ilmaggiore investimento nell'area sociale mai intrapreso nella storia europea, non dobbiamo averpaura di sostenere questa iniziativa. Infatti, solo catalizzando vaste risorse finanziarie in modiinnovativi, l'Europa può mantenere la sua leadership globale nello stato sociale e nel benessere deicittadini. In un momento di disaffezione e sfiducia politica, nuovi ed importanti investimenti ininfrastrutture sociali invierebbero anche ai cittadini un forte segnale che le istituzioni e i governieuropei li vogliono riportare al centro del progetto europeo.

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Governare l’innovazione tecnologica: decisioni algoritmiche, diritti digitali

e principio di uguaglianza

Giorgio Resta

Università di Roma Tre

1. Governare l’innovazione tecnologica: l’incrocio tra big data e machine learning

Queste pagine intendono svolgere alcune riflessioni, dal punto di vista del giurista, sui

problemi posti dal ricorso agli algoritmi quali strumenti di decisione sia in ambito pubblico sia in

ambito privato1.

È bene chiarire sin da ora che, per apprezzare correttamente la reale natura delle questioni

coinvolte, è necessario concentrarsi non soltanto sul profilo dell’automazione nelle decisioni

(algoritmi e machine learning), ma anche su quello della disponibilità di una massa enorme di dati,

sulla quale si appuntano le tecniche di data analytics e che quindi rappresenta il presupposto

essenziale per il funzionamento dei moderni algoritmi di apprendimento2. Big data e machine

learning, in altri termini, sono i fattori fondamentali alla base delle due cruciali questioni regolatorie

con le quali la società è oggi chiamata a confrontarsi:

a) come disciplinare la raccolta e l’uso dei dati fruibili per i trattamenti algoritmici (questione

‘a monte’);

b) come regolare il processo decisionale in quanto tale, sia nel suo iter procedimentale sia nei

suoi effetti sociali, in modo da assicurare un equilibrato bilanciamento degli interessi collettivi

coinvolti (questione ‘a valle’).

Su entrambi gli aspetti la discussione è accesa e non mancano esempi di interventi normativi,

decisioni giurisprudenziali o prassi operative, dei quali si darà conto nelle pagine che seguono. La

notevole attenzione rivolta alle suddette questioni - in ambito accademico, da parte di istituzioni ed

enti di ricerca3, nonché in alcuni casi rimarchevoli anche in sede di discussione politica, come

1� Sulla nozione di algoritmo, quale descrizione formalizzata e astratta di una procedura computazionale, e le sueimplicazioni giuridiche v. W. Hoffmann-Riem, Verhaltenssteuerung durch Algorithmen – Eine Herausforderung für

das Recht, Archiv des öffent. Rechts, 142 (2017), 2 ss. 2� Sul punto D. Pedreschi – F. Giannotti et al., Open the Black Box. Data-driven Explanation of Black Box Decision

Systems, in ArXiv, 1 (2018), 1-2; S. Barocas – A.D. Selbst, Big Data’s Disparate Impact, 104 California L. Rev. 671(2016).3� Mi limito a ricordare i seguenti rapporti e documenti: House of Lords, Select Committee on Artificial Intelligence, AI

in the UK: ready, willing and able?, London, 2018; AI Now Report 2018; Council of Europe, Discrimination, artificial

intelligence, and algorithmic decision-making, a cura di F.Z. Borgesius, Strasbourg, 2018; Art. 29 Data ProtectionWorking Party, Guidelines on Automated individual decision-making and Profiling for the purposes of Regulation

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nell’esempio del Koalitionsvertrag tedesco tra CDU, CSU e SPD del 20184 - riflette una chiara

consapevolezza della profonda ambiguità di tutti i grandi processi di innovazione tecnologica,

capaci di imprimere una netta discontinuità alle dinamiche evolutive della società. Da un lato essi

possono avere una valenza fortemente emancipatoria, redistribuendo il potere sociale e creando

opportunità di crescita, progresso e miglioramento della condizione umana. Dall’altro, se non sono

democraticamente governati, rischiano di consolidare le posizioni di privilegio, le disuguaglianze e

le asimmetrie di potere esistenti in una data comunità organizzata5.

È stato così per le innovazioni collegate alla prima rivoluzione industriale – e le lucide pagine

di Karl Marx e Karl Polanyi stanno tuttora a ricordarcelo6 – ed è così per quelle della quarta

rivoluzione. Far pendere il piatto della bilancia verso l’uno o verso l’altro polo è il frutto di scelte

sociali, rispetto alle quali la mediazione giuridica svolge un ruolo centrale. Ciò è ancor più vero in

relazione alle innovazioni legate al mondo digitale, non foss’altro perché qui viene meno il primo e

più elementare strumento di controllo e tutela dei beni, rappresentato dal possesso materiale.

Rispetto ai beni intangibili, come l’informazione, qualsiasi meccanismo di allocazione esclusiva

presuppone necessariamente l’intervento del diritto, che, come nel caso dei diritti di proprietà

intellettuale, può creare situazioni di scarsità artificiale al fine di stimolare l’accumulazione di

conoscenza e la produzione di innovazione. Misurare i caratteri e i limiti dell’intervento giuridico è

allora essenziale, perché l’adozione di modelli di governo non equilibrati e troppo sbilanciati sul

polo della protezione rischia – a tacer d’altro7 - di allargare in maniera sproporzionata le sfere di

proprietà, comprimendo artificialmente le sfere di libertà (civili, politiche ed economiche), con

l’effetto di precludere il conseguimento di molte delle opportunità aperte dalle nuove tecnologie,

specie in termini di condivisione delle conoscenze e accesso al patrimonio comune immateriale.

Di conseguenza, questo contributo dovrà prendere in considerazione non soltanto il problema

della trasparenza e non discriminatorietà degli algoritmi (par. 3), ma, prima ancora, la questione del

regime di appartenenza delle informazioni processate in forma automatica e usate per fini di

decisione (par. 2).

2016/679, last revised February 2018; Council of Europe, Draft Guidelines on Artificial Intelligence, 2018; FederalTrade Commission, Data Brokers. A Call for Transparency and Accountability, Washington, 2014; Executive Office ofthe President of USA, Big Data: A Report on Algorithmic Systems, Opportunity, and Civil Rights, 2016.4� Sono diversi passaggi dedicati agli algoritmi e al loro possibile effetto discriminatorio: v. Ein Neuer Aufbruch für

Europa. Eine neue Dynamik für Deutschland. Ein neuer Zusammenhalt für unser Land. Koalitionsvertrag zwischenCDU, CSU und SPD, 2018, pp. 2092, 2098, 6354.5� In generale, ed altresì con riferimento alle tecniche di intelligenza artificiale, v. R. Baldwin, The Globotics Upheaval.

Globalization, Robotics, and the Future of Work, Oxford, 2019; v. altresì S. Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna,1997.6� Si veda in proposito L. Basso, Giustizia e potere, in Democrazia e diritto, 1971, 549 ss., 555; K. Polanyi, Per un

nuovo Occidente. Scritti 1919-1958, a cura di G. Resta – M. Catanzariti, Torino, 2013.7� Per un’analisi d’insieme sull’importanza della regolamentazione giuridica per fini di costruzione di una sfera pubblicadigitale v. P. Nemitz, Constitutional Democracy and technology in the age of artificial intelligence, Phil. Trans. R. Soc.

A 376:20180089.

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2. Il controllo sui dati nell’economia digitale

Quando si discorre di big data analytics si fa riferimento a due principali categorie di dati: a) i

dati personali, ossia riferibili a un determinato individuo, identificato o identificabile; b) i dati non

personali, ossia non riferibili a un determinato soggetto, per propria natura o perché sottoposti a un

processo di anonimizzazione.

La gran parte dei processi decisionali automatizzati non sarebbe oggi pensabile prescindendo

dall’accesso sistematico a entrambe le categorie di informazioni, sovente rese disponibili non

direttamente dai data subjects o comunque dai data sources, bensì dagli intermediari professionali, i

data brokers, i quali operano in un mercato ormai floridissimo, anche se poco conosciuto nei suoi

dettagli organizzativi e regolamentato in maniera ancora frammentaria e lacunosa8. Quanto al

rilievo di ciascuna tipologia di dati, si pensi, dal primo punto di vista, alle informazioni relative alla

storia creditizia, alle propensioni di acquisto di un consumatore, oppure alle informazioni relative

alla salute o alle preferenze politiche di un lavoratore: tutti dati utili ai fini della costruzione di un

profilo individuale, e dunque spesso per fini di decisioni algoritmiche; e, dall’altro, alle

informazioni prodotte dai macchinari intelligenti, come gli autoveicoli di ultima generazione

(informazioni relative allo stato funzionale del veicolo, chilometri percorsi, anomalie rilevate, strade

percorse, etc.), gli elettrodomestici interconnessi, oppure le informazioni prodotte dal settore

pubblico (informazioni catastali, cartografiche, meteorologiche, etc.).

Diversi sono, ovviamente, i problemi sottesi all’utilizzo dell’una e dell’altra tipologia di

informazione, le quali mettono in gioco in maniera diversa la sfera della soggettività individuale.

Differenti, di conseguenza, dovrebbero essere i regimi giuridici applicabili, sia pure nella

consapevolezza dell’estrema fluidità dei confini e della presenza di continue sovrapposizioni tra le

due categorie di dati.

La tendenza degli ordinamenti giuridici occidentali è quella di assoggettare a garanzie e

salvaguardie soprattutto il segmento delle informazioni personali, anche se ciò avviene secondo

forme e con modalità molto diverse. Ad esempio, gli Stati Uniti sono ancora ben lungi

dall’introdurre un regime generale di tutela dei dati personali, limitando gli statuti di protezione a

specifici sotto-settori (come quelli dell’accesso al credito o delle informazioni sanitarie), per il

timore di ostacolare eccessivamente lo sviluppo del mercato, frenare l’innovazione tecnologica in

settori cruciali per la competitività internazionale, nonché inibire la libera diffusione delle

informazioni, vista come diretta emanazione della garanzia del Primo Emendamento della

8� In proposito v. l’indagine conoscitiva della Federal Trade Commission, Data Brokers. A Call for Transparency and

Accountability, Washington, 2014.

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Costituzione federale USA9. Per contro, gli ordinamenti europei – che, però, sotto questo profilo

possono vantare un’influenza globale sul piano dei modelli regolatori ben maggiore degli USA10 –

hanno da più di vent’anni optato per un sistema incisivo di controllo sulla circolazione dei dati

personali, ispirato alla logica dei diritti fondamentali.

Nel prossimo paragrafo ci si interrogherà sui limiti posti alla raccolta e ulteriore trattamento

dei dati personali per fini di profilazione e decisione algoritmica (par. 2.1.).

Nel paragrafo successivo si indagherà, invece, sul livello di tutela ascritto ai dati non

personali, chiarendo in particolare se di essi possa predicarsi un regime d’appartenenza in forma

esclusiva (par. 2.2.).

2.1. I dati personali

Il regime applicabile ai dati personali è ormai compiutamente delineato dal Regolamento UE

n. 2016/679 (di seguito GDPR), al quale si aggiungerà a breve il Regolamento e-privacy, ancora in

fase di negoziazione. Esso offre una risposta a molte delle questioni oggi sul tavolo, anche se

permangono alcuni elementi d’ambiguità che potranno essere sciolti solo dalla prassi applicativa.

Quanto al profilo della raccolta dei dati, il diritto europeo muove, in termini generali, da una

prospettiva opposta rispetto a quello americano. Mentre negli USA può ritenersi vigente un regime

di libertà di trattamento dei dati personali, salve le specifiche ipotesi di divieto fissate a livello di

leggi speciali11, in Europa i dati personali non possono essere trattati se non in presenza di una

specifica base autorizzativa rientrante tra quelle previste dall’Art. 6 GDPR per i dati personali

‘comuni’ e dall’art. 9 per le categorie particolari di dati (quelli che nella disciplina previgente si

definivano “dati sensibili”). Tra le suddette cause di giustificazione rientra anche il consenso

dell’interessato, che benché nell’economia degli artt. 6 e 9 svolga un ruolo marginale, gode sempre

di preponderante attenzione sia nella prassi applicativa sia nelle analisi scientifiche.

Il riferimento al consenso permette di sciogliere subito un equivoco che aleggia spesso nella

letteratura in materia. Deve ribadirsi che la previsione circa la necessità del consenso non giustifica

9� In generale, v. P.M. Schwartz – K.N. Peifer, Transatlantic Data Privacy Law, 106 Georgetown Law Journal 115(2017).10� G. Greenleaf, The influence of European data privacy standards outside Europe: implications for globalization of

Convention 108, Int’l Data Privacy Law, 2 (2012), 68.11� In generale, v. P.M. Schwartz – K.N. Peifer, Transatlantic Data Privacy Law, 106 Georgetown Law Journal 115(2017). Tra le molte conseguenze di questa diversità di approccio, può annoverarsi anche il ricorso a maglie larghe negliUSA del political microtargeting, su cui v. C. Bennett, Voter databases, micro-targeting, and data protection law: can

political parties campaign in Europe as they do in North America?, 6 International Data Privacy Law, no. 4 (2016).

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la conclusione che ciascun individuo debba ritenersi titolare di un diritto dominicale liberamente

alienabile sui propri dati personali12.

La finalità del GDPR non è quella di allocare titoli esclusivi alienabili e quindi porre le

premesse per un efficiente mercato delle informazioni, bensì di bilanciare l’esigenza della

circolazione intracomunitaria dei dati con il rispetto dei diritti fondamentali coinvolti (dignità,

riservatezza, identità ed altre libertà civili: si noti che l’art. 8 della Carta dei Diritti UE configura il

diritto alla protezione dei dati come autonomo diritto fondamentale della persona umana). Ciò si

ricava dalle specifiche scelte normative compiute nel GDPR13: a) il consenso non è considerato

sempre un requisito essenziale per il trattamento, anzi in molti casi esso non è necessario (per

l’esecuzione di un contratto di cui è parte l’interessato, per il perseguimento del legittimo interesse

di cui il titolare del trattamento è portatore, per compiti di interesse pubblico, etc.), sicché non può

ritenersi vigente alcuna forma di tutela assoluta dei dati; b) perché sia valido è necessario provare la

“libertà” della sua manifestazione (art. 4, n. 11), e dunque l’assenza di condizioni di disparità di

potere sostanziale che connotano molte relazioni di mercato, specie nel quadro dei rapporti online

che si avvalgono di condizioni di contratto standardizzate; c) anche qualora il consenso sia

validamente inserito in un accordo contrattuale, realizzando una forma di cessione remunerata delle

informazioni, esso è sempre revocabile (art. 7, c. 3), a testimonianza dell’assenza di quella stabilità

delle posizioni negoziali, che è propria delle relazioni di mercato; d) infine esso non è di ostacolo

all’esercizio del diritto alla portabilità, il quale testimonia l’esigenza di mantenere nelle mani della

persona il potere di controllo sull’utilizzazione dei propri dati.

Una volta accertata la sussistenza dell’idonea base giuridica, il diritto europeo assoggetta il

trattamento a importanti condizioni sostanziali e procedurali, le quali assumono un rilievo cruciale

quando si sia in presenza di un’attività di “profilazione” dell’interessato14. Questa è definita dal

GDPR come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell'utilizzo

di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in

particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione

economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento,

l'ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica” 15. Si deve notare che un trattamento anche

12� C. Berger, Property Rights to Personal Data? An Exploration of Commercial Data Law, in Zeitschrift für geistiges

Eigentum, 9, 2017, p. 340; S. Gutwirth – G. González Fuster, L’éternel retour de la propriété des données: de

l’insistance d’un mot d’ordre, in Degrave-de Terwangne-Dusollier-Queck (a cura di), Law, norms and freedoms in

cyberspace - Liber amicorum Yves Poullet, Bruxelles 2018, 117. 13� Si veda in questo senso J. Drexl, Legal Challenges of the Changing Role of Personal and Non-Personal Data in the

Data Economy, in A. De Franceschi et al., Digital Revolution: New Challenges for Law, forthcoming, Beck, 2019 (onfile with the author). 14� Cfr. Art. 29 Data Protection Working Party, Guidelines on Automated individual decision-making and Profiling for

the purposes of Regulation 2016/679, last revised February 2018, 6 e ss. 15� In generale v. F. Pizzetti, La protezione dei dati personali e la sfida dell’Intelligenza Artificiale, in Id., a cura di,Intelligenza artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Torino, 2018, 30 ss.

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parzialmente automatizzato non esclude la sussistenza di un’attività di profilazione, contrariamente

a quanto previsto dall’art. 22 GDPR in relazione alle decisioni interamente automatizzate, che

soggiacciono al regime di divieto solo in quanto l’intervento umano sia del tutto escluso16.

Quanto ai principi che disciplinano il trattamento, questo deve anzitutto essere condotto in

maniera “trasparente”. Ciò implica uno specifico onere informativo nei confronti dell’interessato

(sia che i dati siano forniti da costui in maniera volontaria, sia che essi siano espunti da altra fonte),

precisato nei suoi lineamenti dagli artt. 12-14. Si deve notare che a tal riguardo che è espressamente

previsto l’obbligo di comunicare informazioni circa “l’esistenza di un processo decisionale

automatizzato, compresa la profilazione di cui all’art. 22, par. 1 e 4, e, almeno in tali casi,

informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di

tale trattamento per l’interessato” 17.

Si deve poi osservare il parametro della “correttezza”, sicché anche un trattamento

formalmente lecito potrebbe rivelarsi scorretto se ad esempio i dati sono impiegati in maniera tale

da produrre effetti discriminatori, per precludere l’accesso a beni e servizi fondamentali, etc.

Inoltre, i dati in oggetto devono essere esatti ed accurati e in ogni caso devono rispettare la

regola aurea della “minimizzazione”: non è possibile cioè ricorrere a una massa sovrabbondante di

dati, a meno che ciò non sia strettamente necessario rispetto alle finalità sottese al trattamento, né è

ammissibile conservare tali dati per un lasso temporale sproporzionato (art. 5, n. 1, lett. e). Ciò si

sposa, peraltro, con la regola per cui gli strumenti automatizzati di trattamento dei dati devono

essere progettati sin da principio e devono operare in via predefinita in modo da ridurre al massimo

la quantità di dati personali trattati e l’incidenza di tali operazioni sulla sfera della persona (privacy

by design e privacy by default).

Infine, deve essere osservato il principio della finalità, sicché il trattamento validamente

iniziato in relazione a un determinato scopo, come indicato nell’informativa resa al soggetto, non

giustifica in linea di massima l’impiego dei dati per il conseguimento di scopi distinti, fatte salve le

condizioni di compatibilità previste nell’art. 6, c. 4 GDPR. Un’applicazione importante di tale

logica si rinviene nei limiti posti all’interconnessione degli archivi della p.a., la quale è subordinata

a una specifica previsione di legge, ai sensi dell’art. 6, c. 1, lett. e) e art. 6, c. 3 GDPR18.

Fra gli altri strumenti atti ad operare in chiave preventiva, qualora il trattamento presenti un

rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche, v’è la “valutazione dell’impatto dei

trattamenti previsti sulla protezione dei dati personali” (art. 35). Il titolare è tenuto ad adottare un

16� Ibid., 7. 17� In tema M. Temme, Algorithms and Transparency in View of The General Data Protection Regulation, 3 Eur. Data

Prot. L. Rev. 473 (2017), 482.18� V. S. D’Ancona, Trattamento e scambio di dati e documenti tra pubbliche amministrazioni, utilizzo delle nuove

tecnologie e tutela della riservatezza tra diritto nazionale e diritto europeo, Riv. it. Dir. pubb. Com., 2018, 587 ss.

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siffatto documento qualora si intenda porre in essere “una valutazione sistematica e globale di

aspetti personali relativi a persone fisiche, basata su un trattamento automatizzato, compresa la

profilazione, e sulla quale si fondano decisioni che hanno effetti giuridici o incidono in modo

analogo significativamente su dette persone fisiche”.

Queste ed altre regole, che non è possibile qui analizzare nel dettaglio, delineano un

meccanismo di controllo abbastanza capillare, che restringe ex ante la quantità e la tipologia dei dati

personali utilizzabili – entrando di fatto in conflitto con un altro segmento importante della

legislazione comunitaria che, soprattutto in materia finanziaria e bancaria, incentiva il ricorso a

forme di invasive di profilazione dei clienti al fine di valutarne la solvibilità e il merito di credito 19 -

assicurando al contempo che questi abbiano un elevato grado di ‘qualità’, nel senso di accuratezza,

esattezza e granularità20. In questo senso si prevede che i dati debbano essere esatti e se necessario

aggiornati, non possano essere conservati per un periodo eccessivo di tempo, e in ogni caso sono

suscettibili di accesso, controllo, rettifica, integrazione e persino cancellazione su istanza del

soggetto interessato (artt. 13-21 GDPR).

Ciò significa, in conclusione, che l’infrastruttura regolatoria si caratterizza per una serie di

filtri atti a elevare la qualità dell’ecosistema informativo, selezionando ex ante tipologia, volume e

caratteri delle informazioni utilizzabili per fini di profilazione, analisi a scopo predittivo e decisioni

algoritmiche. Ciò rappresenta una circostanza non trascurabile, perché come è ben noto, gli

algoritmi funzionano secondo la logica garbage in – garbage out, per cui dati incongrui, inesatti o

non aggiornati non possono che produrre risultati decisionali inaffidabili21. D’altra parte, non può

dimenticarsi che non tutti i dati immessi nel processo automatizzato sono dati personali in senso

stretto.

2.2. I dati non personali

19� V. ad es. il Considerando 27 e l’art. 8 della Direttiva 2008/48/CE, relativa ai contratti di credito ai consumatori, ovesi prevede che “Member States shall ensure that, before the conclusion of the credit agreement, the creditor assesses the

consumer's creditworthiness on the basis of sufficient information, where appropriate obtained from the consumer and,where necessary, on the basis of a consultation of the relevant database. Member States whose legislation requirescreditors to assess the creditworthiness of consumers on the basis of a consultation of the relevant database may retainthis requirement”; nonché il Consumer Financial Services Action Plan della Commissione del 2017. In tema v.l’indagine di V. Zeno-Zencovich, ‘Smart Contracts’, ‘Granular Legal Norms’, and Non-Discrimination, di prossimapubblicazione.20� Per un panorama più dettagliato v. F. Pizzetti, La protezione dei dati personali e la sfida dell’Intelligenza Artificiale,

cit. 21� M. Temme, Algorithms and Transparency in View of The General Data Protection Regulation, 3 Eur. Data Prot.

L. Rev. 473 (2017), 478.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 216

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Le informazioni rilevanti per gli algoritmi di apprendimento automatico non sono, come si è appena

ricordato, soltanto quelle atte ad identificare un individuo determinato. Tutte le informazioni

prodotte da macchine, o i flussi inerenti le comunicazioni elettroniche, ad esempio, costituiscono,

una porzione importante dell’universo big data, ma non rientrano necessariamente nel novero dei

“dati personali”, o perché strutturalmente non riferibili a una persona determinata, o perché oggetto

di un processo di anonimizzazione (che preclude l’applicabilità della disciplina in materia di

protezione dei dati personali) 22.

Il regime giuridico dei “dati non personali” – come definiti, in negativo, dal recente Regolamento

2018/1807/UE sulla libera circolazione dei dati non personali nell’Unione Europea23 – è molto

meno chiaro e univoco di quello relativo a dati personali24. In particolare, è quanto mai accesa la

discussione se il dato, in quanto tale, possa costituire il termine di riferimento di una pretesa di

natura proprietaria25. In questo senso, in particolare, sembrava essere orientata la Commissione con

la Comunicazione al Parlamento Europeo e al Consiglio del 2017 su “Building a European Data

Economy”, nella quale si evocava l’introduzione di un nuovo “diritto del produttore di dati” 26.

Che si ponga la questione in questi termini non sorprende più di tanto, poiché accade di continuo

che, di fronte all’emersione di nuovi beni patrimonialmente rilevanti, il primo schema al quale ci si

rivolge per operare un inquadramento della realtà è quello del diritto di proprietà. È stato così per

l’immagine, per l’etere, per l’energia, ed è così oggi per i dati non personali. Tuttavia, applicato

all’informazione, lo schema proprietario si rivela fuorviante e non è in grado di apprestare soluzioni

operazionali adeguate27.

Difatti, essendo l’informazione un bene tipicamente non rivale nel consumo e suscettibile di

produrre conoscenza incrementale, introdurre barriere artificiali alla sua circolazione tramite il

riconoscimento di un diritto di esclusiva significa operare una forma di etero-regolazione, la quale

può giustificarsi soltanto al fine di rimediare a un fallimento del mercato. Nel caso degli ordinari

diritti di proprietà intellettuale, questo è rappresentato dalla c.d. sotto-produzione del bene: in

assenza di un monopolio legale di sfruttamento, l’autore di una creazione estetica o utile non

riuscirebbe a far propri gli utili derivanti dallo sfruttamento del bene (l’informazione è bene non

escludibile, oltre che non rivale non consumo), sicché non avrebbe un incentivo sufficiente a

22� Per un’analisi dettagliata v. C. Wendehorst, Of Elephants in the Room and Paper Tigers: How to Reconcile Data

Protection and the Data Economy, S. Lohsse – R. Schulze - D. Staudenmayer (a cura di), Trading Data in the Digital

Economy: Legal Concepts and Tools, Oxford – Baden-Baden, 2017, 327 ss. 23� Art. 3, Regolamento 2018/1807/UE. 24� J. Drexl, Legal Challenges of the Changing Role of Personal and Non-Personal Data in the Data Economy, cit. 25� D. Zimmer, Property Rights Regarding Data?, in S. Lohsse – R. Schulze - D. Staudenmayer (a cura di), Trading

Data in the Digital Economy: Legal Concepts and Tools, cit., 101 ss.; M. Becker, Rights in Data – Industry 4.0 and the

IP Rights of the Future, in Zeitschrift für geistiges Eigentum, 9, 2017, p. 253.26� COM(2017) 9 final, p. 13.27� Sulla linea qui sostenuta v. J. Drexl, Designing Competitive Markets for Industrial Data. Between Propertisation

and Access, JIPITEC, 8 (2017), 257.

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 217

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investire e produrre, con danno per l’intera collettività. Per contro, nel caso dei dati grezzi, privi

cioè di un’immediata utilità estetica o industriale (quale quella sottesa al riconoscimento del diritto

d’autore o del diritto di brevetto), non è la promessa di un profitto monopolistico a costituire la

molla principale per innescare il processo di produzione della risorsa, bensì lo sono fattori diversi

come la concorrenza e il miglioramento dell’assetto tecnologico28. Non a caso, nella realtà attuale,

che pur è connotata dall’assenza di diritti di privativa, le informazioni ‘grezze’ vengono nondimeno

prodotte in maniera intensiva e in diversi casi rappresentano la principale voce di capitale di

un’impresa.

In altri termini, le istituzioni giuridiche esistenti, e in primo luogo gli istituti del segreto industriale

e della concorrenza sleale29, offrono strumenti di salvaguardia adeguati per proteggere il parco

informativo di un’impresa, senza che sia necessario ricorrere a misure controproducenti come

quelle del riconoscimento di nuovi diritti di esclusiva30. Controproducenti non soltanto perché

rischiano di frenare il processo di sviluppo e innovazione, creando continui conflitti circa la

titolarità della risorsa (si pensi alle informazioni circa le buche stradali rilevate dai sensori delle

autovetture o da altri meccanismi di rilevazione) e elevando a sistema il potere di veto dei singoli

detentori di spezzoni di informazioni utili soprattutto in forma aggregata per fini di apprendimento

automatico (problema degli anti-commons); ma anche perché tali pretesi diritti di esclusiva non

potrebbero non riflettersi negativamente sulla libera circolazione dei dati, e dunque sulle garanzie

della libertà d’informazione, particolarmente rilevanti oggi per il funzionamento dei processi

democratici in un ambiente digitale.

In conclusione qualsiasi tentativo di introdurre nuove forme di esclusiva concernenti dati non

personali deve essere rigettato in quanto non giustificabile sul piano funzionale – come in parte si è

rivelata essere la scelta di introdurre un diritto sui generis sulle banche di dati non creative - e

foriero di conseguenze nocive sul piano dell’innovazione tecnologica e della trasparenza dei

processi democratici.

3. Le decisioni algoritmiche e le prospettive dell’uguaglianza

28� Per un panorama sulla prassi v. C. Wendehorst, Besitz und Eigentum im Internet der Dinge, in H. Micklitz – L.A.Reisch et al., a cura di, Verbraucherrecht 2.0 – Verbraucher in der digitalen Welt, Baden-Baden, 2017, 367.29� T. Aplin, Trading data in the digital economy: trade secrets perspective, in S. Lohsse – R. Schulze - D.Staudenmayer (a cura di), Trading Data in the Digital Economy: Legal Concepts and Tools, cit., 59 ss.30� J. Drexl, Designing Competitive Markets for Industrial Data. Between Propertisation and Access, cit., 260-261.

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Il ricorso a trattamenti algoritmici per finalità di previsione e/o di decisione è ormai all’ordine

del giorno tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato31.

Si pensi, dal primo punto di vista, all’uso degli algoritmi da parte della p.a. per decidere

questioni seriali o fondate su parametri predeterminati (come l’assegnazione degli insegnanti alle

sedi scolastiche vacanti)32; per orientare la prestazione dei servizi sociali (in Pennsylvania – ricorda

un articolo apparso su Nature lo scorso anno – è stato messo in atto un sistema di profilazione e

scoring, individuale, l’Allegheny Family Screening Tool, finalizzato ad individuare i bambini a

rischio di esclusione sociale e maltrattamento e progettare gli interventi di tutela) 33; per operare

valutazioni data-driven delle prestazioni dei dipendenti pubblici (come in un noto caso USA

concernente la valutazione degli insegnanti) 34; per gestire i flussi migratori e effettuare uno

screening preventivo dei files dei richiedenti asilo, visto di ingresso e soggiorno, etc. 35; per orientare

le azioni di contrasto al terrorismo, sfruttando le potenzialità delle analisi predittive ma non di rado

ponendo le premesse per un immenso e capillare sistema di sorveglianza occulta degli individui (è

quanto è emerso con le rivelazioni di Edward Snowden) 36; per indirizzare le operazioni di polizia e

prevenire la commissione dei reati (come nel caso dell’applicativo PredPol) 37; per assumere

decisioni concernenti l’amministrazione della giustizia penale (emblematico è l’esempio di

COMPAS, il software utilizzato in diverse giurisdizioni USA al fine di calcolare il rischio di

recidiva e la pericolosità sociale di un soggetto sottoposto a procedimento penale, e quindi misurare

l’entità e la tipologia della pena irrogabile) 38.

Si pensi, dal secondo punto di vista, al trattamento algoritmico nell’ambito dei rapporti di

lavoro (algoritmi computerizzati vengono ormai di frequente utilizzati al fine di operare forme di

sollecitazione selettiva alla presentazione delle domande d’impiego, per gestire in forma

interamente o parzialmente automatizzata il processo di assunzione, o per operare la valutazione

delle prestazioni dei dipendenti) 39; alla vendita di beni e servizi (è da ciò che dipende l’applicazione

di prezzi, e spesso anche condizioni d’offerta, differenziati nei rapporti on line) 40; al mercato del

31� S.C. Olhede – P.J. Wolfe, The growing ubiquity of algorithms in society: implications, impacts, and innovations,

Phil. Trans. R. Soc. A 376:20170364.32� V. TAR Lazio, 10-9-2018, n. 9227; TAR Lazio, 22-3-2017, n. 3769. 33� R. Courtland, The Bias Detectives, Nature, 558 (2018), 357. 34� Houston Fed. Of Teachers v. Houston Ind. School District, 251 F. Supp. 3d 1168 (2017). 35� Per molti esempi v. M. Hu, Algorithmic Jim Crow, 86 Fordham L. Rev. 633 (2017). 36� M. Hu, Small Data Surveillance v. Big Data Cybersurveillance, in 42 Pepp. L. Rev. 773 (2015). 37� Per un’attenta analisi giuridica del problema del predictive policing v. T. Rademacher, Predictive policing im

deutschen Polizeirecht, Archiv des öffent. Rechts, 142 (2017), 366 ss. 38� R. Courtland, The Bias Detectives, cit., 358-359. 39� P. Kim, Data-driven Discrimination at Work, 58 William & Mary L. Rev. 857 (2017); D.J. Dalenberg, Preventing

discrimination in the automated targeting of job advertisements, 34 Computer Law & Security Rev. 615 (2108); e B.Dzida – N. Groh, Diskriminierung nach dem AGG beim Ansatz von Algorithmen im Bewerbungsverfahren, NJW, 2018,1917. 40� Sul tema dei prezzi differenziati v. ad es. T. Tillmann – V. Vogt, Personalisierte Preise im Big-Data-Zeitalter, inVerbraucher und Recht, 2018, 447; sulla segmentazione degli utenti nel servizio Airbnb, v. C. Lutz – G. Newlands,

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credito (si pensi ai meccanismi di credit scoring al fine di valutare l’affidabilità finanziaria nel

quadro delle procedure di finanziamento a singoli individui e ad imprese) 41; alla comunicazione (dal

microtargeting nella comunicazione politica, all’ordinamento delle notizie rese fruibili agli utenti da

un social network quale Facebook) 42; nonché ovviamente ai mercati finanziari (basti un rinvio al

Regolamento 2017/589/UE in materia di trading algoritmico).

Il processo decisionale algoritmico, mette conto precisare, può essere interamente

automatizzato, come nel caso dei filtri anti-spam che in maniera del tutto autonoma selezionano il

tipo di messaggi da indirizzare nella casella della posta indesiderata, oppure può trattarsi di una

delega soltanto parziale alla macchina, come nell’ipotesi in cui alla valutazione computerizzata

dell’affidabilità finanziaria di un cliente faccia seguito una decisione umana definitiva circa la

concessione di una linea di credito.

Come si può agevolmente intuire, l’automazione del processo decisionale permette, se ben

congegnata, di conseguire notevoli vantaggi in termini di uniformità, affidabilità e controllabilità

della decisione stessa. Essa appare dunque astrattamente in linea, non soltanto con le istanze di

calcolabilità delle relazioni di mercato, ma anche con i valori di neutralità ed efficacia dell’azione

amministrativa di cui all’art. 97 Cost. 43.

Per altro verso, però, la logica stessa delle tecniche di big data analytics porta con sé alcuni

rischi, che devono essere attentamente considerati. Poiché la ricostruzione di tendenze

predittivamente rilevanti avviene a partire dalle occorrenze empiriche esistenti, dalle quali le

macchine ricavano trend utili ad orientare la valutazione di situazioni future, l’intero sistema ha la

propensione a “codificare” il passato, ingabbiando soluzioni e predizioni all’interno delle griglie

fornite dai trascorsi storici e dal set di valori che ha guidato la programmazione del sistema44. Ciò

significa, in altri termini, che un determinato ‘stato del mondo’ tende a essere cristallizzato nel

Consumer Segmentation Within the Sharing Economy: The Case of Airbnb, 88 Journ. Business Research 187 (2018). 41� D. Keats Citron – F. Pasquale, The Scored Society: Due Process for Automated Predictions, 89 Washington Law

Review 1 (2014). 42� In generale v. M. Ebers, Beeinflussung und Manipolation von Kunden durch Behavioral Microtargeting.

Verhaltenssteuerung durch Algorithmen aus der Sicht des Zivilrechts, in Multimedia und Recht, 2018, 423. 43� In particolare, come si è autorevolmente notato, “i vantaggi di un’automazione dei processi decisionaliamministrativi sono evidenti con riferimento a procedure seriali o standardizzate, caratterizzate da un alto tasso divincolatezza o fondate su presunzioni, probabilisticamente significative di un certo fatto. Si pensi alle procedure ditrasferimento contestuale o di prima assegnazione di sede agli insegnanti; e si pensi alla erogazione di contributiassistenziali agli aventi diritto sulla base di parametri predeterminati. Ma si pensi anche, quanto alle decisionisfavorevoli, agli accertamenti fiscali fondati su base presuntiva i cui dati siano ‘messi insieme’ da una macchina o allesanzioni amministrative (per esempio per eccesso di velocità) elaborate in via automatizzata sia quanto alla rilevazionedell’infrazione sia per la determinazione della correlativa sanzione e la ‘formazione’ stessa del provvedimento” (F.Patroni Griffi, La decisione robotica e il giudice amministrativo, accessibile all’indirizzo https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/147941/Patroni%20Griffi%20%20La%20decisione%20robotica%20e%20il%20giudice%20amministrativo%20-%2028%20agosto%202018.pdf/24218a2e-47b7-1c0a-b2eec1b670347f95/Patroni+Griffi+-+La+decisione+robotica+e+il+giudice+amministrativo+-+28+agosto+2018.pdf )44� Per una spiegazione puntuale e accessibile dei modelli matematici e statistici sottesi alle decisioni algoritmiche C.O’Neil, Weapons of Math Destruction: How Big Data Increases Inequality and Threatens Democracy, London, 2017.

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processo prognostico, influenzandone i risultati ed orientando più o meno incisivamente le decisioni

prese a valle della valutazione automatizzata.

Se questo può non apparire particolarmente problematico quando si prendano in esame

accadimenti naturali, come l’andamento delle perturbazioni per fini di previsioni meteorologiche,

ben diversa è la situazione qualora le tecniche predittive si appuntino su stati dell’uomo e su

processi sociali45. Qui, infatti, uno dei pericoli più evidenti è che le condizioni di disparità sociale

esistenti in un dato momento storico si riflettano sul giudizio prognostico tramite la costruzione di

profili individuali o di gruppo, composti per inferenza da fattori come la propensione al consumo, la

capacità di spesa, il luogo di residenza, i trascorsi familiari, il grado di istruzione, la storia

giudiziaria, etc. 46 Se non adeguatamente monitorate e rese neutre rispetto ai rischi di bias già insiti

nella selezione dei dati rilevanti, le decisioni algoritmiche che si basano su tali fattori sono atte a

produrre effetti discriminatori e aggravare il peso delle disuguaglianze, invece che contribuire a

ridurle, come pure la tecnologia potrebbe fare. Peraltro, come è ben noto, è lo stesso corretto

funzionamento del processo deliberativo democratico a essere minacciato da una incontrollata

proliferazione di ciò che Cathy O’Neil ha definito le “weapons of math destruction”: la

sollecitazione personalizzata resa possibile dalle moderne tecnologie della comunicazione tende a

segmentare artificialmente (e condizionare la formazione) delle preferenze politiche, con tutti quegli

effetti distorsivi sul piano dell’esercizio dei diritti democratici che da ultimo il caso Cambridge

Analytica ha compiutamente illustrato47. È ovvio, poi, che qualora ci si muova in un contesto non

democratico, le possibilità di accesso, aggregazione dei dati e profilazione, offerte dalle moderne

tecnologie, sono tali da assicurare un controllo capillare sui comportamenti individuali, capace di

reprimere qualsiasi forma di dissenso e segmentare i cittadini e le imprese in liste “rosse” e “nere”

che evocano i peggiori incubi orwelliani. Che non si tratti di distopia, ma di preoccupante realtà, è

dimostrato dal “social credit system” posto in atto dal governo cinese a partire dal 2014, con

l’obiettivo di rafforzare la fiducia nelle istituzioni e nei mercati, e consistente nell’attribuzione di un

punteggio individuale (e correlative penalizzazioni) in funzione del grado di aderenza a regole e

norme sociali mostrato dai singoli nel corso della vita quotidiana48.

Ma torniamo al tema iniziale dell’effetto discriminatorio, ricorrendo a due esempi in grado di

chiarire meglio i termini del problema.

45� D. Keats Citron – F. Pasquale, The Scored Society: Due Process for Automated Predictions, cit., 4 ss. 46� S. Barocas – A.D. Selbst, Big Data’s Disparate Impact, cit., 677 ss.47� Cfr. F.J.Z. Borgesius et al, Online Political Microtargeting: Promises and Threats for Democracy, 14 Utrecht L.

Rev. 82 (2018); B. Bodó – N. Helberger – C. de Vreese, Political micro-targeting: a Manchurian candidate or just a

dark horse?, Internet Policy Review, 6 ( 2017). DOI: 10.14763/2017.4.776; W. Hoffmann-Riem, Verhaltenssteuerung

durch Algorithmen – Eine Herausforderung für das Recht, cit., 14-15. 48� M. Hu, Small Data Surveillance v. Big Data Cybersurveillance, in 42 Pepp. L. Rev. 773 (2015); e Y.J. Chen et al.,‘Rule of Trust’: The Power and Perils of China’s Social Credit Megaproject, 32 Columbia J. Asian Law 1 (2018).

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15 proposte per la giustizia sociale 221

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Il più noto è senza dubbio quello relativo all’uso di un algoritmo computerizzato, noto con

l’acronimo COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions),

atto a quantificare il rischio di recidiva di soggetti sottoposti a procedimento penale. Prodotto da

una società commerciale, esso è stato impiegato in diverse giurisdizioni USA per calcolare la

probabilità di commissione di altri reati nell’arco dei due anni successivi, e quindi per decidere sia

in merito alla remissione in libertà su cauzione, sia alla stessa quantificazione della pena49. Diversi

studi hanno testato il funzionamento del suddetto algoritmo, dimostrando la presenza di un

pregiudizio sistematico a danno delle persone di colore. In particolare, un rapporto realizzato da

Propublica dimostra che tra coloro i quali sono stati classificati ad alto rischio di azioni

criminogene, che non hanno però nei due anni successivi compiuto atti illeciti, i bianchi sono in

percentuale del 23,5%, mentre gli Afro-americani del 44,9%50. Per contro, in quelli classificati a

basso rischio, che invece si sono resi effettivamente responsabili di atti criminali, i bianchi sono

47,7%, mentre gli afro-americani sono il 28%. È interessante capire a quali fattori sia imputabile un

siffatto ‘bias’ discriminatorio. Un dato che emerge da diverse ricerche è che i punteggi elaborati da

COMPAS sono la risultante delle risposte a 137 questioni, offerte direttamente dagli indagati o

desunte da altri dati pubblici. L’origine etnica non potrebbe per legge rientrare tra le domande, ma

rileva indirettamente, atteso che vengono presi in esame fattori spesso statisticamente correlati

all’appartenenza ‘razziale’, come il luogo di residenza, i precedenti penali (personali o familiari), il

consumo di stupefacenti, il livello di istruzione, etc.

Il secondo esempio attiene ai rapporti di mercato. Esso concerne il software utilizzato da

Amazon per individuare le città e i circondari dove offrire il servizio di consegna in un giorno.

Un’indagine compiuta da Bloomberg nel 2016 ha fatto venire alla luce una chiara stratificazione per

fasce di reddito e in genere capitale sociale51. Mentre tutte le principali città statunitensi risultano

coperte, al loro interno vi sono ‘buchi’ di copertura del servizio legati in maniera nient’affatto

casuale con le aree più povere e degradate del territorio, come il Bronx a New York e Roxbury a

Boston. Questo banalissimo esempio mostra come orientare i comportamenti futuri esclusivamente

in base alle condizioni esistenti rischi di cristallizzare le disparità del presente, spingendo i più

svantaggiati sempre più in basso nella piramide sociale.

49� Di qui la controversia decisa dalla Supreme Court del Wisconsin nel caso State v. Loomis, 881 N.W.2d 749 (2016),nella quale è stata rigettata la richiesta di ritenere l’irrogazione di una pena basata sulle risultanze dell’applicativoCOMPAS come confliggente con le garanzie del due process. 50� J . Angwin – J. Larson – S. Mattu – L. Kirchner, Machine Bias, ProPublica, 23-5-2016,https://www.propublica.org/article/machine-bias-risk-assessments-in-criminal-sentencing. 51� D. Ingold – S. Soper, Amazon Doesn’t Consider the Race of Its Customers. Should it?,

https://www.bloomberg.com/graphics/2016-amazon-same-day/.

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Come già indicano questi semplici esempi, alla radice dell’effetto discriminatorio

dell’algoritmo possono celarsi diversi fattori, dei quali il programmatore non sempre ha piena

consapevolezza52.

Innanzitutto, la scelta delle variabili o delle categorie in base alle quali è costruita la decisione

algoritmica può tradursi in forme di discriminazione indiretta. Ad esempio, se nella

programmazione di un algoritmo utilizzato per decisioni relative all’assunzione di personale si

concretizza la nozione di ‘buon’ dipendente avendo riguardo – tra gli altri – al criterio della

puntualità nel recarsi sul luogo di lavoro, ciò può finire per penalizzare sistematicamente tutti

coloro che vivono in periferia ed impiegano di conseguenza maggior tempo per raggiungere ogni

giorno la sede dell’impresa. E poiché in determinati contesti vivere in periferia si correla in misura

prevalente con origini etniche, condizioni sociali e di reddito più disagiate, un siffatto criterio

formalmente ‘neutro’ potrebbe finire per riprodursi a danno di categorie già svantaggiate.

In secondo luogo, può risultare fallace il set di dati sui quali si esercitano i processi di auto-

apprendimento delle macchine. In particolare, tali dati potrebbero essere relativi a un campione

troppo ristretto o parziale, o riflettere essi stessi una situazione discriminatoria. Se, ad esempio, si

calcolasse l’attitudine a delinquere esclusivamente sulla base delle statistiche relative alla

popolazione carceraria negli USA, se ne trarrebbe un risultato viziato in partenza, poiché è noto che

gli Afro-americani rappresentano una quota preponderante di tale popolazione.

In terzo luogo, può rivelarsi problematica la tipologia di dati presa in considerazione. Ad

esempio, se le scelte in materia di occupazione fossero fatte automaticamente in base al ranking

delle università di provenienza, ciò avrebbe verosimilmente come risultato quello di premiare le

fasce più alte, per censo ed istruzione, della popolazione.

In quarto luogo, le proxies utilizzate potrebbero correlarsi a fattori indici di disparità sociale:

si pensi soltanto al codice di avviamento postale utilizzato come strumento predittivo del rischio di

default rispetto alla restituzione di un credito: si tratta anche qui di un criterio formalmente neutro,

ma che in realtà fotografa – specie se unito ad altri dati - una ben precisa storia di vita della persona

in questione.

Infine, l’algoritmo potrebbe essere stato programmato in maniera intenzionalmente

discriminatoria, come nei casi riportati sulla stampa di pubblicità on line richieste a social network

in modo da escludere persone di origine ispanica, o individui con un determinato orientamento

sessuale.

52� Quanto segue sintetizza l’analisi compiuta da Council of Europe, Discrimination, artificial intelligence, and

algorithmic decision-making, a cura di F.Z. Borgesius, cit., 10-14; e da S. Barocas – A.D. Selbst, Big Data’s Disparate

Impact, cit..

Forum Disuguaglianze Diversità MATERIALI

15 proposte per la giustizia sociale 223

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3.1. Etica, governo e regolazione degli algoritmi

Queste brevi considerazioni inducono a sottolineare tre dati.

Il primo è che gli algoritmi possono apportare notevoli benefici non soltanto per la loro

intrinseca attitudine alla razionalizzazione in senso weberiano del processo decisionale, con

aumento dei livelli di rapidità ed efficienza rispetto ai costi, ma anche come strumenti di riduzione

delle disuguaglianze tramite, ad esempio, l’allocazione mirata delle prestazioni sociali, il contrasto

alle frodi o all’evasione fiscale, o più in generale lo stimolo ai processi partecipativi.

Il secondo è che perché i benefici attesi si traducano in effettiva prassi operativa e non siano

sopravanzati dai rilevati effetti distorsivi, è necessario pre-formare le modalità di funzionamento

degli algoritmi, assicurandone una sorta di legality by design, in modo da ridurre al minimo, e

possibilmente eliminare, i rischi di impatto negativo sui diritti civili, sociali e politici delle

persone53. Quando si parla di rischi specifici della decisione algoritmica, si fa soprattutto riferimento

in letteratura a tre principali ordini di problemi:

a) la segretezza o l’inintelligibilità della logica sottesa al processo decisionale, la quale è

particolarmente acuta nel caso degli algoritmi di apprendimento automatico (problema del black

box) 54;

b) l’attitudine discriminatoria dell’algoritmo (problema del bias) 55;

c) la mortificazione della persona umana, resa oggetto di decisioni interamente automatizzate

(problema della dignità)56.

Il terzo dato è che per governare i problemi suindicati non è sufficiente affidarsi unicamente

allo strumento tecnologico, quale ad esempio lo sviluppo di appositi algoritmi di auto-

apprendimento volti a scovare e correggere l’esistenza di bias decisionali (c.d. bias busting) e a

promuovere il valore della ‘correttezza’ decisionale (fairness formulas)57; né a dichiarazioni

d’impegno e codici di autoregolamentazione dei soggetti professionali coinvolti (come quelli

prodotti dall’organizzazione Fairness, Accountability, and Transparency in Machine Learning,

dalla IEEE, dal Future of Life Institute) 58.

53� Vedi D. Cardon, Le pouvoir des algortihmes, Pouvoir, 2018, 63 ss. 54� J.A. Kroll, The Fallacy of Inscrutability, Phil. Trans. R. Soc. A 376:20180084; H. Shah, Algoritmic Accountability,

Phil. Trans. R. Soc. A, 376:20170362 (2018); D. Pedreschi – F. Giannotti et al., Open the Black Box. Data-driven

Explanation of Black Box Decision Systems, cit.55� A. Chander, The Racist Algorithm?, 115 Michigan L. Rev. 1023 (2017).56� Sachverständigenrat für Verbraucherfragen (SVRV), Lösungsoptionen, in H. Micklitz – L.A. Reisch et al., a cura di,Verbraucherrecht 2.0 – Verbraucher in der digitalen Welt, Baden-Baden, 2017, 25; G. Noto La Diega, Against the De-

Humanisation of Decision-Making, 1 JIPITEC 3 (2018).57� In tema v. D.R. Desai – J.A. Kroll, Trust But Verify: A Guide to Algorithms And the Law, 31 Harvard J. Law &

Tech. 1 (2018), 35 ss. Per molti utili esempi sul punto v. AI NOw, 24 ss.58� Per un utile panorama sulle principali iniziative di auto-disciplina v. Council of Europe, Discrimination, artificial

intelligence, and algorithmic decision-making, a cura di F.Z. Borgesius, cit., 27.

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15 proposte per la giustizia sociale 224

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Questi sono certamente strumenti utili e meritevoli di essere incoraggiati, ma che si muovono

pur sempre in una logica di autodisciplina, la quale è per propria natura soggetta soltanto a quei

vincoli che la cultura degli operatori e le prassi tecnologiche condivise in un dato momento storico

possano suggerire59. Dato il rango costituzionale delle situazioni incise, è imprescindibile

apprestare, prima ancora, un’adeguata infrastruttura istituzionale, composta di norme, rimedi e

procedure adeguati agli interessi in gioco e in grado di assicurare un capillare controllo sociale

sull’uso dell’algoritmo. Si tratta cioè di arricchire un modello di digital ethics con un più penetrante

sistema di digital regulation60.

La consapevolezza dei tre profili indicati ha ispirato la formazione di prassi innovative,

l’adozione di codici di auto-regolamentazione e la formulazione di indirizzi di policy

particolarmente impegnativi. Basti citare, dal primo punto di vista, le iniziative della Algorithmic

Justice League e dell’AI Now Institute, che al pari di numerose altre organizzazioni non

governative, sono impegnate nel disvelare e contrastare attraverso azioni giudiziarie i fenomeni di

uso discriminatorio dell’algoritmo. O si pensi alla campagna “OpenSchufa” recentemente promossa

in Germania dalla Open Knowledge Foundation e da AlgorithmWatch al fine di ottenere

l’ostensione del codice sorgente, o comunque la comunicazione dei dettagli operativi,

dell’algoritmo utilizzato dalla potentissima società Schufa (Schutzgemeinschaft für allgemeine

Kreditsicherung), la quale raccoglie dati relativi alla solvibilità finanziaria di 67 milioni di persone e

5 milioni di imprese tedesche e le cui valutazioni negative possono determinare l’impossibilità di

accedere al credito, stipulare un contratto di locazione, etc. 61 Dal secondo punto di vista, mette

conto ricordare la Sharing Cities Declaration adottata a Barcellona nel 2018 e finalizzata a

delineare un quadro impegnativo per assicurare condizioni di vita, produzione e sussistenza urbane

che siano inclusive, aperte e sostenibili62. In essa trovano specifica emersione alcuni dei temi sin qui

evocati, come la differenziazione delle piattaforme in collaborative e non collaborative in base, tra

l’altro, al grado di inclusione sociale promosso nell’offrire servizi a condizioni identiche a differenti

segmenti della popolazione e senza indulgere in discriminazioni (Principio # 1); il principio del

contrasto al pregiudizio e alla discriminazione attraverso la predisposizione di condizioni eque e

giuste di accesso all’occupazione per persone di qualsivoglia provenienza sociale (Principio # 4); la

più ampia garanzia dei diritti digitali, specificamente inclusiva del diritto alla accountability

algoritmica e alla portabilità dei dati personali (Principio # 4).

59� Sachverständingenrat für Verbraucherfragen (SVRV), Lösungsoptionen,cit., 26, 36.60� Per un’utile tassonomia dei 3 principali modelli di governo della tecnologia, digital ethics, digital governance edigital regulation, v. L. Floridi, Soft ethics, the governance of the digital, and the General Data Protection Regulation,

Phil. Trans. R. Soc. A 376:20180081.61� E. Erdmann, Schufa, öffne dich, Zeitonline, 17-3-2018. 62� http://www.share.barcelona/declaration/.

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3.2. I modelli di disciplina emergenti: l’approccio europeo

Oltre alle prassi e alle dichiarazioni, che richiederebbero anche uno specifico panorama

sull’ampio universo del soft law, non può prescindersi – come si notava pocanzi – dal ruolo del

diritto in senso formale, quale strumento di mediazione tra le varie istanze sociali emergenti e

soprattutto quale tecnica di controllo democratico dei nuovi poteri tecnologici63.

Il ricorso al diritto in questo campo non è privo di problemi, né si sottrae alle obiezioni di chi

abbia il timore di ingessare l’impetuoso sviluppo tecnologico attraverso regole troppo rigide e

esposte a rapida obsolescenza. Non a caso esso è osteggiato negli ambienti culturali che ripongono

una maggior fiducia nelle virtù di autoregolazione dei mercati, mentre esso è maggiormente

incoraggiato nei contesti a più alta propensione regolatoria. Tra questi spicca lo spazio giuridico

europeo. È qui che hanno trovato emersione i primi e più compiuti esempi di governo giuridico

della decisione algoritmica. Se ne analizzeranno nel prosieguo due, il primo tratto dal diritto

dell’Unione Europea e il secondo dall’esperienza francese.

Il primo esempio è costituito dal Regolamento generale per la protezione dei dati personali

(GDPR). Esso contiene una disciplina piuttosto avanzata delle salvaguardie da adottare in caso di

decisione automatizzata che coinvolga dati personali, la quale si colloca in un’immediata linea di

continuità con la previgente direttiva 95/46/CE. Al tema in oggetto sono dedicati – a tacer d’altro -

il Considerando n. 71, e due articoli: il 15 e il 22.

L’art. 15 configura una prima, fondamentale, garanzia di fronte a un processo decisionale

automatizzato, compresa la profilazione (ai sensi dell’art. 22), che si avvalga di dati personali: il

diritto di sapere. La norma, in particolare, stabilisce il diritto di ottenere informazioni circa “la

logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per

l'interessato”.

Per contro l’art. 22 fissa un limite sostanziale all’uso del trattamento algoritmico. Esso

stabilisce che “l’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente

sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo

riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”. Si tratta di un vero

e proprio divieto64, sia pur corredato da una serie di eccezioni delle quali si farà ora cenno, alla cui

violazione conseguono effetti preclusivi per il titolare del trattamento. Sottese a tale proibizione

63� Sachverständigenrat für Verbraucherfragen (SVRV), Lösungsoptionen, cit., 25 ss.; V. Boehme-Nessler, Die Macht

des Algorithmen und die Ohnmacht des Rechts, NJW, 2017, 3031.64� Art. 29 Data Protection Working Party, Guidelines on Automated individual decision-making and Profiling for the

purposes of Regulation 2016/679, last revised February 2018, 19-20; P. Voigt– A. von dem Bussche, The EU General

Data Protection Regulation (GDPR). A Practical Guide, Cham, 2017, 180.

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sono diverse esigenze, tra cui quella di proteggere la dignità umana, evitando che la persona sia resa

oggetto passivo di decisioni assunte in forma de-umanizzata, e di assicurare la trasparenza e la

controllabilità della decisione stessa.

Tale divieto non opera qualora la decisione: a) sia necessaria per la conclusione o l'esecuzione

di un contratto tra l'interessato e un titolare del trattamento65; b) sia autorizzata dal diritto

dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, che precisa altresì misure

adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell'interessato; c) si basi sul

consenso esplicito dell'interessato.

Nel caso della conclusione del contratto e del consenso esplicito, il Regolamento obbliga il

titolare del trattamento ad attuare misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e i legittimi

interessi dell’interessato. Tra queste assumono particolare rilievo il diritto di ottenere l'intervento

umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la

decisione.

Inoltre viene fissato un limite sostanziale invalicabile, costituito dal principio per cui le

decisioni algoritmiche autorizzate non possono avvalersi dei dati particolari di cui all’art. 9 (cioè i

dati sulla salute, sull’orientamento sessuale, sulle opzioni ideologiche e sindacali, sulle

appartenenze etniche, etc.), a meno che non sussistano le scriminanti previste dall’art. 9, par. 2, lett.

a) (consenso esplicito della persona) o g) (trattamento necessario per motivi di interesse pubblico

rilevante) e che non siano state adottate misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei

legittimi interessi dell’interessato.

Tali norme riflettono il lodevole sforzo di elaborare una disciplina che sia trasversale al

settore pubblico e al settore privato, trovando applicazione in entrambi ogniqualvolta si sia in

presenza di una decisione automatizzata presa a partire da dati personali. Esse soffrono di alcuni

limiti intrinseci e di qualche elemento di ambiguità.

Iniziamo da questi ultimi.

Per quanto concerne l’art. 15, esso ha senza dubbio un’importanza non trascurabile quale

strumento capace di rispondere almeno in parte all’esigenza indicato in precedenza come problema

della “trasparenza” dell’algoritmo66. Se non già a livello ‘proattivo’ (stimolando indirettamente la

leggibilità dell’algoritmo in fase di programmazione) 67, quanto meno a livello ‘reattivo’ esso

testimonia della necessità di dotarsi di una chiave di accesso e possibilmente di comprensione della

65� Ad esempio, alcuni studi legali hanno iniziato a far uso di tecniche predittive automatizzate al fine di decidere seaccettare il patrocinio nel campo dell’infortunistica (J. Croft, Legal firms unleash office automatons, Financial Times,

16 maggio 2016). 66� M. Temme, Algorithms and Transparency in View of The General Data Protection Regulation, 3 Eur. Data Prot.

L. Rev. 473 (2017), 481.67� G. Malgieri - G. Comandé, Why a Right to Legibility of Automated Decision-Making Exists in the General Data-

Protection Regulation, 7 Int’l Data Privacy Law 243 (2017).

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logica funzionale dell’algoritmo, come chiaramente indicato in ambito amministrativo dalla prima

decisione del TAR Lazio, che ha riconosciuto il diritto per il privato cittadino di accedere al codice

sorgente del software relativo all’algoritmo usato dalla p.a. per gestire le procedure di assegnazione

degli insegnanti nelle sedi vacanti68.

Si discute, tuttavia, se il diritto ad ottenere informazioni di cui all’art. 15 si appunti sulle

generali caratteristiche del modello e la logica utilizzata dal software, o attenga invece più

specificamente al rapporto tra tale logica e i risultati per la sfera del singolo individuo della

decisione adottata69. Si tratta cioè di un modello di controllo generale circa le conseguenze attese del

trattamento, oppure di un canone conoscitivo volto a comprendere il modo in cui la decisione è

stata presa in relazione alla specifica situazione soggettiva e fattuale dell’interessato?

Se si opta per questa seconda, più estensiva, interpretazione, vi sono due ostacoli da tener

presenti. Il primo consiste nel fatto che l’applicabilità della disciplina è condizionata alla

circostanza che, usati per fini di decisione, siano dati personali, sicché i dati non personali (si pensi

ancora ai dati forniti da un’autovettura intelligente) o i dati in forma anonima (molte delle inferenze

a carattere predittivo sono basate su dati anonimi, come la residenza di certi gruppi sociali in

determinate aree di territorio) ne sono esclusi70. Il secondo è rappresentato dal considerando 63, il

quale – come la legge francese che verrà di seguito discussa - fa espressamente salve le prerogative

della proprietà intellettuale. Ciò significa che se l’algoritmo computerizzato sottende un software

protetto dal diritto d’autore, o siano coinvolti segreti commerciali la richiesta di accesso potrebbe

infrangersi di fronte a un siffatto scoglio e essere neutralizzata dai privilegi dominicali cristallizzati

nell’ultima generazione delle regole in materia di IP71. Quanto ciò sia importante è dimostrato da

alcune controversie statunitensi in materia di voto elettronico, là dove la richiesta di ostensione del

codice operativo del software è stata rigettata in nome del principio dei trade secrets72. Ovviamente,

qualora si tratti di un algoritmo computerizzato realizzato su commissione per conto di una pubblica

amministrazione, potrebbe invocarsi il disposto dell’art. 11, primo comma, della legge sul diritto

d’autore, sostenendo l’intervenuto acquisto a titolo originario del monopolio di sfruttamento in capo

all’ente committente; per poi desumerne l’inopponibilità al privato dell’argomento tratto dalla tutela

della proprietà intellettuale73. Il problema, però, rimane quanto meno per il settore privato e per i

68� Tar Lazio, 22-3-2017, n. 3769; 21-3-2017, n. 3742, in Foro amm., .69� L Edwards – M. Veale, Enslaving the Algorithm: From a ‘Right to an Explanation’ to a ‘Right to Better

Decisions’?, cit.70� Tar Lazio, 22-3-2017, n. 3769.71� Su questo problema v. M. Temme, Algorithms and Transparency in View of The General Data Protection

Regulation, cit., 484.72� D. Levine, Secrecy and Unaccountability: Trade Secrets in Our Public Infrastructure, 59 Fla. L. Rev. 135 (2007); v.anche AI NOw, 11.73� In questa linea v. Tar Lazio, 22-3-2017, n. 3769, che attribuisce valore assorbente ai principi della trasparenza delprocedimento amministrativo, configurando l’algoritmo come un documento amministrativo.

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trattamenti algoritmici condotti dalla p.a. sulla base di rapporti contrattuali con effetti obbligatori e

non traslativi della titolarità; sarebbe auspicabile, a tal proposito, optare per un’interpretazione

restrittiva della clausola di salvaguardia dei diritti di proprietà intellettuale e affermare la prevalenza

del diritto d’accesso dell’interessato, in linea peraltro con quanto espresso nei Considerando 34 e 35

della Direttiva 2016/943/UE sulla protezione dei segreti commerciali74.

Quanto invece all’art. 22, difficoltà derivano:

a) dall’essere il diritto in oggetto limitato all’ipotesi in cui il processo

decisionale sia integralmente basato sul trattamento automatizzato, il che avviene in un

numero limitato di casi, posto che in particolare per le decisioni che interessano il settore

pubblico è generalmente previsto un intervento umano (il quale però è spesso fortemente

condizionato da una previa valutazione automatizzata della fattispecie);

b) dalla ristrettezza della nozione di “decisione”, la quale implica, a tacer

d’altro, l’esclusione dall’ambito applicativo della norma di tutte le forme - per quanto

invasive - di microtargeting75. Che si tratti di questioni rilevanti è testimoniato non solo dal

problema oggi cruciale del data-driven political microtargeting76, ma anche dai casi di

sollecitazione pubblicitaria discriminatoria, come quello in cui si inviavano pubblicità di

servizi di assistenza legale in ambito penale soltanto ai soggetti con cognomi che rivelassero

l’origine afro-americana della persona77.

c) Dal requisito dell’“effetto giuridico” come conseguenza di una decisione

automatizzata. Si tratta di una limitazione alquanto rilevante dell’ambito applicativo della

norma, che copre essenzialmente i casi di decisioni suscettibili di incidere situazioni

giuridiche soggettive. Vi rientrano certamente le ipotesi di atti amministrativi

particolareggiati, il rifiuto di una domanda di credito presentata online o scelte in materia di

assunzione operate in via elettronica (cfr. Cons. 71), ma altre importanti fattispecie ne

risulterebbero escluse. Si è già citato il caso del microtargeting, che non produce

tecnicamente effetti giuridici, ma è atto a condizionare comportamenti sia di mercato sia

extra-mercato, come nel caso delle fake news indirizzate in maniera mirata a classi di

soggetti. L’interrogativo che va sollevato in relazione a tale modello regolamentare è il

seguente: ha senso limitare l’impatto rilevante di cui si discorre nella norma alla posizione

74� G. Malgieri, Trade Secrets v. Personal Data: a possible solution for balancing rights, 6 Int’l Data Privacy L. 102(2016); G. Malgieri - G. Comandé, Why a Right to Legibility of Automated Decision-Making Exists in the General

Data-Protection Regulation, cit., 262-264.75� Martini, sub § 22, in B. Paal – D. Pauly, Datenschutz-Grundverordnung, München, 2017, Rn. 23.76� F.J.Z. Borgesius et al, Online Political Microtargeting: Promises and Threats for Democracy, 14 Utrecht L. Rev. 82(2018).77� L. Sweeney, Discrimination in Online Ad Delivery, 11 Queue 10 (2013).

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del singolo individuo, quando invece è la somma delle micro-violazioni individuali a

produrre un effetto lesivo o discriminatorio per l’intero gruppo di riferimento?

Il quesito appena sollevato disvela il primo dei limiti intrinseci dell’approccio regolatorio

delineato dal GDPR, consistente nella prevalente logica individualistica attraverso la quale ci si

accosta a un tema di rilevanza decisamente meta-individuale e collettiva, quale è quello delle

decisioni algoritmiche78. Non è detto, infatti, che l’assenza di lesione individualmente rilevante ai

sensi della normativa sulla protezione dei dati privi la fattispecie dei caratteri di disvalore, poiché ad

esempio il suddetto trattamento potrebbe produrre effetti pregiudizievoli o discriminatori per lo

specifico gruppo al quale il cittadino appartenga.

Tale considerazione induce da un lato a ricordare che la normativa sulla tutela dei dati deve

essere intesa come un tassello, certo al momento il più avanzato, di un più ampio mosaico

regolatorio, al quale dovranno contribuire gli altri segmenti dell’ordinamento, e in primo luogo il

diritto antidiscriminatorio (come delineato a partito dalle direttive 2000/43 CE, sull’uguaglianza

razziale, 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di lavoro, 2006/54/CE sull’uguaglianza

di genere) 79, il diritto dei consumatori, il diritto amministrativo e il diritto del lavoro80. Dall’altro

essa spinge ad affermare che anche gli strumenti di tutela, finalizzati ad assicurare un controllo

esterno sulle decisioni algoritmiche, dovrebbero essere improntati ad una logica di azione collettiva

piuttosto che individuale. È vero che il primo comma dell’art. 80 GDPR prevede la possibilità di

conferire mandato ad enti del terzo settore, ma il secondo comma rimette agli stati membri la scelta

discrezionale se adottare il modello dell’opt out, ossia dell’azione promossa direttamente dagli enti

non profit, salvo il diritto di opporsi da parte del singolo81. Tale forma di azione collettiva

sembrerebbe l’unica in grado di apprestare una tutela efficace, assieme ovviamente all’iniziativa

delle autorità amministrative indipendenti competenti nel settore, che però scontano in molti casi un

ritardo di mezzi e organizzazione tecnologica.

Inoltre andrebbe incoraggiato il ricorso a tecniche di controllo ex-ante che contribuiscano ad

orientare le modalità di impiego dell’algoritmo82. Il GDPR contiene a tal proposito indicazioni

78� L Edwards – M. Veale, Enslaving the Algorithm: From a ‘Right to an Explanation’ to a ‘Right to Better

Decisions’?, cit.79� Per una specifica applicazione del diritto antidiscriminatorio al caso dei selective advertisements in materia dilavoro, v. D.J. Dalenberg, Preventing discrimination in the automated targeting of job advertisements, 34 Computer

Law & Security Rev. 615 (2108). 80� In quest’ottica v. A. Mantelero, AI and Big Data: A Blueprint for a human rights, social and ethical impact

assessment, Computer Law & Security Rev. 34 (2018), 754.81� In tema v. F. Casarosa, La tutela aggregata dei dati personali nel Regolamento UE 2016/679: una base per

l’introduzione di rimedi collettivi?, in A. Mantelero – D. Poletti, a cura di, Regolare la tecnologia: il Regolamento UE

2016/679 e la protezione dei dati personali, Pisa, 2018, 235 ss. 82� L Edwards – M. Veale, Enslaving the Algorithm: From a ‘Right to an Explanation’ to a ‘Right to Better

Decisions’?, cit.

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importanti, che potrebbero essere valorizzate nella prassi al fine di inglobare nel sistema normativo

in oggetto l’ulteriore istanza di tutela contro gli effetti discriminatori dell’algoritmo. Tra queste

meritano di essere ricordate la progettazione preventiva delle macchine in maniera ‘privacy-

enhancing’ (art. 25); la valutazione di impatto da redigere qualora il trattamento presenti un rischio

elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche (art. 35); le certificazioni adottate ai sensi

dell’art. 42. Di questa attitudine espansiva della disciplina in materia di protezione dei dati v’è una

traccia precisa nello stesso GDPR, il cui Considerando 71 recita al secondo comma:

“Al fine di garantire un trattamento corretto e trasparente nel rispetto dell’interessato, tenendo

in considerazione le circostanze e il contesto specifici in cui i dati personali sono trattati, è

opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per

la profilazione, metta in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in

particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il

rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali secondo una modalità che tenga

conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell’interessato e che impedisca tra

l’altro effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della razza o delle origini

etniche, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell’appartenenza

sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o dell’orientamento sessuale, ovvero che

comportino misure aventi tali effetti”.

3.3. Algoritmi e decisioni amministrative: la riforma francese

Le regole contenute nel GDPR hanno il pregio di guardare trasversalmente al fenomeno del

trattamento automatizzato dei dati personali, al fine di prefissare garanzie minime per i diritti della

persona le quali siano applicabili sia ai trattamenti nel settore pubblico sia nel settore privato.

L’attitudine onnicomprensiva della normativa in oggetto ne costituisce però anche un limite, in

quanto il ricorso all’algoritmo nel settore pubblico, ed in particolare nell’ambito delle procedure

preordinate all’emanazione di un provvedimento amministrativo, ha indubbie particolarità di ordine

funzionale e strutturale, che richiedono una disciplina più specifica e puntuale rispetto a quella del

settore privato (il quale pure richiederebbe di essere disarticolato in più microsettori, come il

credito, la sanità, il lavoro, etc.) 83. Si comprende, quindi, che negli ordinamenti europei per

tradizione più sensibili all’interazione tra tecnologie e diritti, come la Francia, il recepimento del

GDPR abbia offerto il destro per introdurre, oltre a norme di dettaglio sulle decisioni automatizzate

contemplate dal Regolamento, apposite regole sui provvedimenti amministrativi algoritmici.

83� H. Pauliat, La décision administrative et les algorithmes: une loyauté à consacrer, Rev. Dr. Pub., 2018, 641 ss.

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La legge n. 2018-493 del 20 giugno 2018 ha modificato l’art. 10 della celebre legge

Informatique et libertés del 1978, prefissando i seguenti principi:

a) nessuna decisione giudiziaria che implichi la valutazione del comportamento di una

persona può fondarsi su un trattamento automatizzato di dati personali preordinato a

giudicare aspetti della personalità di tale persona [se ne desume che un sistema del

tipo COMPAS non potrebbe trovare accoglimento nell’ordinamento francese];

b) nessuna decisione che produca effetti giuridici su una persona e basata sul

trattamento automatizzato dei dati può essere assunta al di fuori delle condizioni

stabilite dall’art. 22 del GDPR;

c) provvedimenti amministrativi individualizzati che si basino su un trattamento

automatizzato sono ammissibili, purché rispettino le condizioni previste dal Code

des relations entre le public et l’administration e purché il trattamento non coinvolga

categorie particolari di dati (dati sulla salute, sulle preferenze politiche, dati sulla

configurazione genetica, etc.).

d) tali provvedimenti devono contenere espressa menzione del trattamento

automatizzato; relativamente ad essi, il responsabile del trattamento deve assicurare

la piena comprensione del trattamento algoritmico e delle sue evoluzioni affinché

possa spiegare alla persona interessata, nel dettaglio e in una forma intellegibile, il

modo in cui il trattamento sia stato posto in opera nei suoi confronti.

Se questa disciplina è contenuta nella legge di recepimento del GDPR, già la legge sulla

République Numérique e un successivo decreto attuativo avevano prefissato le condizioni di

ammissibilità dei provvedimenti amministrativi algoritmici84.

L’art. L 311-3-1 prevede che “una decisione individuale presa sul fondamento di un

trattamento algoritmico comporta una menzione esplicita e l’informazione all’interessato. Le regole

che definiscono tale trattamento, come pure le principali caratteristiche della sua messa in opera

sono comunicate dall’amministrazione all’interessato che ne faccia domanda”.

La norma in esame rinviava a un decreto attuativo per la definizione delle specifiche

applicative.

Tale decreto, approvato il 14 marzo 2017, ha stabilito, all’art. R 311-3-1-1, che “la menzione

esplicita prevista dall’art. L. 311-3-1 indica la finalità perseguita attraverso il trattamento

algoritmico. Essa richiama il diritto, garantito dal suddetto articolo, di ottenere la comunicazione

delle regole che definiscono tale trattamento e delle principali caratteristiche della sua messa in atto,

nonché delle modalità di esercizio di tale diritto alla comunicazione e di ricorso, ove ne sussistano

84� J.-B. Duclercq, Le droit public à l’ère des algorithmes, Rev. Dr. Pub., 2017, 1401 ss.

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le condizioni, alla commissione di accesso ai documenti amministrativi, come definita dal presente

libro”. La norma successiva, l’art. R 311-3-1-2, dà specifica concretezza al diritto dell’interessato di

essere informato circa il modo in cui la logica generale dell’algoritmo è stata applicata alla sua

condizione particolare, comprendendo così il modo e le forme in cui essa ha inciso sui risultati della

decisione. “L’amministrazione comunica alla persona destinataria di un provvedimento preso sul

fondamento di un trattamento algoritmico, su istanza di parte, in forma intellegibile e a condizione

di non violare segreti protetti dalla legge, le seguenti informazioni:

- il grado e il modo in cui il trattamento algoritmico ha contribuito alla decisione;

- i dati trattati e la loro origine;

- i parametri del trattamento e, se del caso, la loro ponderazione, applicati alla situazione

dell’interessato;

- le operazioni effettuate attraverso il trattamento”.

Si tratta di principi particolarmente innovativi e rilevanti, poiché da un lato prefissano una

serie di garanzie procedurali e sostanziali (prima tra tutte l’impossibilità di far uso di dati sensibili

nel trattamento algoritmico) che elevano la tutela della persona-cittadino rispetto alle decisioni

automatizzate, ma dall’altro ammettono espressamente la validità di un provvedimento

amministrativo, che incida sulla situazione soggettiva del singolo, assunto sulla base di un

trattamento automatizzato di dati. Si comprende, quindi, che tale disciplina abbia sollevato anche

obiezioni da parte di chi ravvisi, nella parziale delocalizzazione dello spazio deliberativo agli

algoritmi computerizzati, un vulnus ai principi che governano il procedimento amministrativo85.

Anche nel nostro ordinamento, peraltro, il problema era già emerso ed aveva trovato una

prima valutazione giudiziaria da parte del TAR Lazio, che con pronunzia 10 settembre 2018, ha

annullato i provvedimenti del Ministero dell’Istruzione conclusivi delle procedure di mobilità

straordinaria degli insegnanti, in quanto assunti invece che con ordinaria istruttoria procedimentale,

con valutazione demandata ad apposito algoritmo86. Ha osservato il collegio, in particolare, che “gli

istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi di relazione del privato con i pubblici

poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana

con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere

svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche. Ad essere inoltre

vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche

l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche

85� In generale v. il panorama offerto da H. Pauliat, La décision administrative et les algorithmes: une loyauté à

consacrer, cit.86� Tar Lazio, 10-9-2018, n. 9227. In tema v. L. Viola, L’intelligenza artificiale nel procedimento e nel processo

amministrativo: lo stato dell’arte, i n Foro amm., 2018, 9, 1598 ss.; P. Otranto, Decisione amministrativa e

digitalizzazione della p.a., in www.federalismi.it, 2018, 2, 15.

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delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in

giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della

motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al

Giudice, di percepire l’iter logico-giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un

determinato approdo provvedimentale”. Si tratta probabilmente, di un approccio eccessivamente

rigido, che portato alle estreme conseguenze finirebbe per precludere l’utilizzo di algoritmi di

apprendimento automatico nell’ambito dell’azione amministrativa.

Che ciò non sia un esito desiderabile, né necessitato sul piano dell’assetto giuridico vigente, è

dimostrato da una recente pronunzia del Conseil Constitutionnel francese. La Corte nel 2018 è stata

chiamata a giudicare della costituzionalità della norma interna di adeguamento al GDPR,

precedentemente discussa87. Tra i vari profili di illegittimità denunziati, vi era anche quello del

contrasto con i principi di legittimità dell’azione amministrativa, derivanti dall’ammissione delle

decisioni individualizzate assunte in base a trattamento algoritmico; in particolare, i ricorrenti

sostenevano che il ricorso ad algoritmi privasse l’amministrazione nel necessario di potere di

apprezzamento delle situazioni individuali, e che in particolare gli algoritmi di apprendimento

automatico, implicando una continua revisione delle regole di funzionamento dell’algoritmo stesso,

precludesse alla stessa amministrazione la facoltà di comprendere la logica motivazionale sottesa

alla decisione. La Corte ha rigettato tutte le censure, avanzando i seguenti argomenti88:

a) non vi è una delega del potere regolamentare allo strumento tecnologico, per ciò che i

criteri e le modalità di funzionamento dell’algoritmo sono stabiliti ex ante e validati

dal responsabile del procedimento;

b) il ricorso al trattamento algoritmico è subordinato alle specifiche condizioni e

garanzie previste dal suddetto decreto del 2017;

c) contro il provvedimento individuale assunto sulla base di trattamento algoritmico è

comunque sempre concesso ricorso amministrativo, che richiede una decisione

evidentemente non basata soltanto sull’algoritmo, e se ne ricorrono le condizioni,

ricorso al giudice;

d) il responsabile del trattamento deve essere sempre in grado di comprendere il

funzionamento del trattamento algoritmico e le sue evoluzioni, in modo da poter

spiegare alla persona interessata, nel dettaglio e in una forma intellegibile, il modo in

cui il trattamento è stato posso in essere nei suoi riguardi;

87� Cons. const., déc. 12-6-2018, n. 2018-765.88� Per alcune considerazioni in merito alla pronunzia v. E. Rulli, Giustizia predittiva, intelligenza artificiale e modelli

probabilistici. Chi ha paura degli algoritmi?, in Analisi giuridica dell’economia, 2, 2018, 533 ss., 540 ss.

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e) per quanto detto, devono ritenersi preclusi all’amministrazione quegli algoritmi di

apprendimento automatico il cui funzionamento sfugge alla comprensione del

responsabile del procedimento, ma non tutti gli algoritmi che possano semplificare e

rendere più precisa e neutrale l’azione amministrativa.

4. Gli algoritmi come opportunità e la politica (del diritto)

Le ultime norme citate suggeriscono quale dovrebbe essere, ad avviso di chi scrive,

l’approccio tecnicamente corretto al tema dei big data e dell’intelligenza artificiale, intorno a cui

stiamo costruendo le basi della nostra convivenza futura. Non ci si dovrebbe ispirare a un laissez-

faire tecnologico, né a un luddismo di retroguardia.

È invece necessario operare, in tutte le sedi, perché i processi in atto, i quali sono destinati a

regolare segmenti crescenti della vita sociale dell’uomo, siano sottoposti a una logica di controllo

democratico, che assicuri un adeguato bilanciamento tra la ‘funzionalità tecnologica’ e la

desiderabilità sociale degli scopi perseguiti, e rispetto alla quale la mediazione giuridica svolge un

ruolo centrale.

Si deve cioè lavorare all’adozione di strumenti regolatori e di governo, preordinati ad evitare

che la saldatura tra potere economico e potere tecnologico produca una società della sorveglianza e

della discriminazione, in cui tutti siano profilati, segmentati in gruppi e resi destinatari di effetti

giuridici o sociali in funzione dell’assetto di potere esistente. Non può, infatti, ignorarsi il pericolo

che, come si è bene osservato, i nuovi modelli algoritmici creino le condizioni per un nuovo

medioevo digitale. Si delinea cioè il rischio “di una società connotata da una segmentazione per

caste, ove lo status non è però dato dalla nascita o dall’appartenenza a classificazioni sociali

tradizionali (quelle su cui vigilano le norme in materia di non-discriminazione), ma da algoritmi e

dai valori di coloro li generano. Classificazioni che sono poi impiegate per prendere decisioni che

coinvolgono una pluralità di soggetti, i quali però non hanno contezza della propria posizione” 89.

Se ciò implica rigettare tanto un modello sregolato di “capitalismo della sorveglianza”, il

quale finirebbe per inchiodare la società alle sue iniquità e ai suoi pregiudizi, codificandoli nel

linguaggio informatico90, quanto un sistema programmato di “sorveglianza di stato”, come nel già

descritto caso del “social credit system” cinese91, è necessario stabilire quale tecnica di intervento

89� A. Mantelero, La gestione del rischio nel GDPR: limiti e sfide nel contesto dei Big Data e delle applicazioni di

Artificial Intelligence, in A. Mantelero – D. Poletti, a cura di, Regolare la tecnologia: il Regolamento UE 2016/679 e la

protezione dei dati personali, cit., 289 ss., 302.90� S. Barocas – A.D. Selbst, Big Data’s Disparate Impact, cit., 671 ss.91� V. supra, par. 3.

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sia più adeguata al controllo dei trattamenti algoritmici. La logica del divieto tout court non sembra

percorribile, per il semplice fatto che l’innovazione tecnologica, se attentamente monitorata, può

apportare immensi benefici sociali, creando le premesse per una società più aperta ed inclusiva. Del

pari, sembra utopistico pensare a un meccanismo di co-decisione pubblico-privato o a

un’approvazione preventiva da parte di appositi enti pubblici degli algoritmi utilizzabili anche da

soggetti privati. La strada più proficua appare quella dell’intervento a geometria variabile, composto

cioè da forme più soft di incentivazione all’adozione di tecnologie e prassi organizzative human

rights compliant (come nella logica dell’accountability prescritta dal GDPR per assicurare un

trattamento conforme a parametri di sicurezza da valutare caso per caso e su iniziativa del singolo

titolare del trattamento, oppure del ricorso a certificazioni e marchi che attestino l’uso di

transparency enhancing technologies) e strumenti più incisivi con funzione prettamente

regolamentare (come nel caso dei limiti sostanziali alle decisioni automatizzate posti dall’art. 22

GDPR), i quali dovrebbero poi ricadere a cascata sulla fase della programmazione dell’algoritmo,

incentivando in ultimo una sorta di legality by design) 92. Le regole emergenti in ambito in europeo,

pur perfettibili da molti punti di vista, si ispirano ad una logica siffatta. Converrà, in conclusione,

ribadire sinteticamente alcuni dei tratti caratterizzanti di questo modello.

Innanzitutto è caratteristico dell’approccio europeo sottoporre a un’attenta disciplina

l’ecosistema informativo che sta a monte del funzionamento degli algoritmi, fissando alcuni

requisiti di qualità e quantità (esattezza, accuratezza, minimizzazione dei dati, etc.) dei dati destinati

a rappresentare l’input dei processi di machine learning. Le prime e più efficaci garanzie partono

proprio dalla ‘giuridificazione’ dei fenomeni di trattamento dei dati personali e dal controllo sulla

profilazione individuale (par. 2.1.). Coerente, peraltro, con questa prospettiva è il divieto di

sottoporre a trattamento algoritmico i dati che attengono al nucleo duro della privacy, e cioè i dati

sulla salute, sull’orientamento politico, sulle fedi religiose, sull’origine etnica, etc. Per altro verso

per sfruttare al massimo la capacità innovativa delle tecniche di machine learning, andrebbe tenuto

fermo un principio di libera utilizzazione dei dati non personali, resistendo con forza ai tentativi di

introdurre surrettiziamente diritti di proprietà sui dati grezzi (par. 2.2.).

In secondo luogo si attribuisce grande rilevanza al principio della trasparenza, il quale viene

declinato in forme diverse e spesso convergenti: diritto di essere informato ex ante circa l’esistenza

di un trattamento automatizzato; diritto di conoscere la logica di cui tale trattamento si avvale;

diritto di comprendere il modo e il grado in cui il trattamento algoritmico ha influito sui risultati

della decisione che coinvolga la sfera del singolo; diritto di accedere all’algoritmo in quanto parte

92� In quest’ottica v. il ricco contributo di J.A. Kroll – J. Huey – S. Barocas et al., Accountable Algorithms, 165 U. Pa.

L. Rev. 633 (2017); G. Malgieri - G. Comandé, Why a Right to Legibility of Automated Decision-Making Exists in the

General Data-Protection Regulation, cit.; M. Hildebrandt, Algorithmic regulation and the rule of law, Phil. Trans. R.

Soc. A 376:20170355.

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integrante di un procedimento amministrativo. Tutto ciò può contribuire in maniera rilevante alla

‘leggibilità’ e alla accountability degli algoritmi stessi, specie là dove si opti per un’interpretazione

restrittiva delle clausole di salvaguardia poste a protezione della proprietà intellettuale e dei segreti

commerciali in caso di richieste volte a conoscere la logica sottesa ai trattamenti algoritmici (par.

3.2.).

In terzo luogo, si va affermando un principio di massima, per cui l’individuo non deve essere

sottoposto a una decisione integralmente automatizzata, allorché questa incida in maniera

significativa sulla propria sfera giuridica. Quando ciò venga ammesso dall’ordinamento, si

applicano una serie di garanzie sostanziali, tra le quali risalta lo strumento del riesame della

decisione attraverso un diretto coinvolgimento dell’uomo, oltre ovviamente al controllo giudiziario

ex post sulla conformità del trattamento algoritmico ai requisiti di legge (par. 3.3.).

Perché tali rimedi acquistino maggiore efficacia, appare necessario fare un ulteriore passo in

avanti e, oltre ad estendere il perimetro di applicabilità delle norme in oggetto, valorizzare la

dimensione collettiva del controllo sugli algoritmi. Ciò significa non soltanto sottolineare, come si è

già fatto, che l’impatto potenzialmente distorsivo degli algoritmi sul piano richiede il concorso di

diversi sotto-settori dell’ordinamento, e in primo luogo del diritto anti-discriminatorio, che va

declinato in funzione del nuovo ecosistema digitale. Significa soprattutto potenziare il quadro dei

rimedi di natura collettiva (come le azioni collettive promosse da enti non profit anche senza

mandato preventivo da parte dei singoli) e affiancare alle tecniche di controllo individuale le

iniziative del potere pubblico, valutando ad esempio l’introduzione di un’apposita autorità

amministrativa indipendente che assommi le competenze frammentate tra le altre autorità per il

settore del digitale93.

93� In questo senso è indirizzata la proposta del Sachverständigenrat für Verbraucherfragen (SVRV), Lösungsoptionen,

cit., 38 ss.

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L’impatto sociale della ricerca e dell’innovazione: ipotesi di intervento

nel contesto europeo e italiano*

Alessandro SterlacchiniUniversità Politecnica delle Marche

Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali

[email protected]

1. Introduzione

Il punto di partenza di questo contributo è che l’impatto sociale della ricerca e dell’innovazionedeve costituire una preoccupazione esplicita delle politiche pubbliche in quanto il mercato lasciato ase stesso non premia in misura sufficiente le attività rivolte a tale scopo. Gli stessi incentivi pubblicialla ricerca e all’innovazione condotte da soggetti privati possono risultare inefficaci se nonaccompagnati da misure complementari finalizzate a migliorare la qualità della vita delle persone.

A questo riguardo il caso esemplare è quello delle eco-innovazioni: l’evidenza empirica mostra cheeffetti rilevanti nel campo delle innovazioni ambientali si hanno quando il sostegno pubblicoall’innovazione si accompagna a politiche ambientali stringenti, come, ad esempio, l’introduzionedi limiti o tasse sulle emissioni inquinanti. Un esempio parallelo potrebbe essere fatto nel caso disoluzioni innovative per migliorare la sicurezza nei posti di lavoro: normative e regole, da un lato,incentivi dall’altro (se si vuole, il bastone e la carota).

Per promuovere soluzioni innovative da parte di soggetti privati che diano luogo a impatti socialidesiderabili un altro strumento che può essere utilizzato è quello della domanda pubblica (appalticon contenuto innovativo).

Diverso è il discorso per le attività di ricerca finanziate e condotte, totalmente o principalmente, dalsettore pubblico. Nell’allocazione delle risorse, gli effetti sociali del progresso scientifico e delcambiamento tecnologico dovrebbero essere valutati attraverso opportuni criteri. Sempre in questocampo, un'altra possibilità consiste nell’introdurre programmi di ricerca mission-oriented sutematiche e sfide di natura sociale. In questi e nei casi della domanda pubblica occorrerebbefavorire, fin dalla fase di programmazione degli interventi, il coinvolgimento della società civile.

Il lavoro è così organizzato. Il secondo paragrafo tratta dell’impatto sociale della ricerca scientifica.Il terzo è dedicato all’impatto sociale delle attività innovative mentre il quarto al ruolo degli appaltipubblici. Il quinto paragrafo riassume le ipotesi di intervento nel contesto europeo e italiano.

** Versione rivista del contributo presentato al seminario organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità il15 novembre 2018 a L’Aquila presso il Gran Sasso Science Institute.

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2. L’impatto sociale della ricerca scientifica

2.1 I Programmi Quadro della UE

Con un budget di circa 80 miliardi di euro in sette anni (2014-2020), Horizon 2020 rappresenta ilprogramma di ricerca più corposo messo in campo dalla UE. Le principali aree di ricerca in terminidi risorse sono: le “Sfide sociali” (salute e invecchiamento della popolazione; sicurezza alimentare;energia pulita; mobilità sostenibile; cambiamenti climatici; innovazione e inclusione sociale);l’”Eccellenza scientifica” e la “Leadership industriale” (che include un canale preferenziale per lapartecipazione delle piccole e medie imprese – PMI). Minori risorse vengono assegnateall’obiettivo di “Diffondere l'eccellenza e promuovere la partecipazione” e quindi a quello dimaggiore interesse per il presente contributo: “La scienza con e per la società”.

Nell’opuscolo in lingua italiana “Horizon 2020 in breve”, le caratteristiche di quest’ultimoprogramma sono così descritte: “È necessaria una collaborazione efficace tra scienza e società per reclutare nuovi talenti per lascienza e per sposare l'eccellenza scientifica alla consapevolezza e la responsabilità sociali. Questosignifica capire i problemi da tutti i punti di vista. Horizon 2020 sostiene quindi progetti checoinvolgono il cittadino nei processi che definiscono la natura della ricerca che influenza la vita ditutti i giorni. Una maggiore comprensione reciproca tra comunità di specialisti e di non specialistirispetto agli obiettivi e ai mezzi per raggiungerli, garantirà l'eccellenza scientifica e permetterà allasocietà di condividere la proprietà dei risultati.” (Commissione Europea, 2014, p. 17)

Un’altra denominazione per questo approccio alla Ricerca e all’Innovazione (d’ora in avanti R&I) èquello di “Innovazione e Ricerca Responsabile” (Responsible Research and Innovation). Secondo laben nota definizione di von Schomberg (2013): “Responsible Research and Innovation is a transparent, interactive process by which societal actorsand innovators become mutually responsive to each other with a view to the (ethical) acceptability,sustainability and societal desirability of the innovation process and its marketable products (inorder to allow a proper embedding of scientific and technological advances in our society).”

In termini generali, lo scopo dovrebbe essere quello di anticipare e valutare le implicazioni socialidelle attività di R&I. In termini più operativi, gli obiettivi sono quelli di:

coinvolgere in modo ampio la società nelle attività di R&I; accrescere l’accesso ai risultati della ricerca scientifica; assicurare la parità di genere sia nelle attività che nei contenuti della ricerca; considerare la dimensione etica della ricerca; promuovere l’educazione scientifica (in modo formale e informale)

Rispetto agli obiettivi di R&I responsabile, non abbiamo un quadro aggiornato del grado dipartecipazione delle organizzazioni della società civile (OSC) nei progetti selezionati e finanziati inHorizon 2020. Abbiamo però a disposizione un rapporto di valutazione su quanto è avvenuto neiprogrammi precedenti, vale a dire il Sesto e Settimo Programma Quadro (si veda WU Vienna et al.,2017).

Da tale rapporto risulta che le OSC (le quali includono anche le associazioni sindacali,imprenditoriali e di categoria) hanno avuto un ruolo marginale nei suddetti programmi: esse hannocostituito il 6% dei partecipanti, ricevuto l’1% dei fondi e coordinato l’1% dei progetti. Ma a parte idati quantitativi, quello che emerge è che le OSC hanno svolto un ruolo da comprimari (o finanche“comparse”) nei consorzi di ricerca; le attività che dovevano svolgere non sono state chiaramentedefinite; inoltre, i partner accademici hanno manifestato la preoccupazione che la loropartecipazione potesse compromettere la legittimità scientifica della ricerca.

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Sulla base di queste risultanze, gli estensori del rapporto raccomandano sostanziali cambiamenti,rivolti in particolare a:

1. coinvolgere in modo significativo le OSC anche nella predisposizione dell’agenda di ricercae nella valutazione delle proposte;

2. rafforzare l’enfasi sull’impatto sociale dell’intero programma;

3. finanziare un numero maggiore di progetti di piccola dimensione in modo da ridurre lebarriere all’entrata e, quindi, l’eccessiva concentrazione dei beneficiari.

Alla luce della maggiore selettività registrata con Horizon 2020 possiamo dire che l’esigenza di cuipunto 3 non è stata perseguita. La valutazione intermedia di Horizon 2020 (cfr. EuropeanCommission, 2017a) non evidenzia sostanziali progressi sul fronte della partecipazione delle OSC.Rispetto al tema della R&I responsabile, l’unico dato positivo che viene segnalato è il modestoaumento della partecipazione femminile: la percentuale di coordinatrici dei progetti è passata dal28.5% del Settimo Programma Quadro al 31% di Horizon 2020.

Anche se è prematuro tirare le somme, dai progetti di Horizon 2020 non sembra che all’impattosociale della ricerca sia stato attribuito un ruolo di rilievo.

Tutto ciò nonostante il panel di esperti che valuta i progetti, e quindi decide quelli meritevoli difinanziamento, è chiamato ad assegnare un egual peso a tre criteri: a) l’eccellenza; b) l’impatto e c)la qualità ed efficienza con le quali il progetto viene realizzato.

Questi criteri di valutazione ex-ante, sono simili a quelli impiegati nella valutazione ex-post delResearch Excellence Framework (REF) del 2014 nel Regno Unito (si veda https://www.ref.ac.uk/2014/). Nella valutazione delle unità di ricerca (non dei singoli progetti) un peso del 65% èattribuito all’eccellenza (considerando i tipici output della ricerca scientifica, vale a dire,principalmente, le pubblicazioni); il criterio dell’impatto pesa per un 20%, mentre quellodell’ambiente in cui si è svolta la ricerca il 15%.

Apparentemente, il criterio dell’impatto (atteso) pesa di più nella valutazione ex-ante di Horizon2020. Ai nostri fini, tuttavia, è importante specificare come viene declinato tale criterio. Nel casodel REF l’impatto della ricerca è definito come: “… the social, economic, environmental and/orcultural benefit of research to end users in the wider community regionally, nationally, and/orinternationally”.

La definizione adottata in Horizon 2020 è invece la seguente1:“ … the extent to which projectoutputs should contribute to the expected impacts described for the topic, to enhancing innovationcapacity and integration of new knowledge, to strengthening the competitiveness and growth ofcompanies by developing and delivering innovations meeting market needs, and to otherenvironmental or social impacts, as well as the effectiveness of the exploitation measures.”

Risulta quindi evidente che mentre nel primo caso l’impatto sociale della ricerca assume un ruolo diprimaria importanza, nel secondo l’enfasi principale è posta sull’impatto tecnologico e soprattuttoeconomico del progetto di ricerca (competitività delle imprese, innovazioni che soddisfano bisognidel mercato).

Ovviamente, questa è una considerazione di carattere generale dato che in alcune specifiche linee diintervento di Horizon 2020 gli effetti sociali rivestono un ruolo importante. Questo, in particolare, èil caso del programma “Scienza con e per la società” introdotto anche grazie allo stimolo esercitatodall’esperienza della Netherlands Organisation for Scientific Research la quale finanzia da tempouno specifico programma di “Responsible Innovation”.

1 Si veda “Guidance for evaluators of Horizon 2020 proposals - Version 1.1 of 26 September 2014”.http://ec.europa.eu/research/participants/data/ref/h2020/grants_manual/pse/h2020-evaluation-faq_en.pdf.

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Anche se a questo specifico programma è stato assegnato un budget di soli 460 milioni di euro (il5.8% del budget totale di Horizon 2020), va comunque rilevato che quando introdotti nei progettirelativi ad altri programmi (che beneficiano di assai maggiori risorse) gli aspetti di R&Iresponsabile e la capacità di coinvolgere nel progetto le OSC devono essere opportunatamenteconsiderate dai valutatori.

Per valutare l’impatto sociale della ricerca il REF del Regno Unito ricorre a panel di esperti (diversiper disciplina) che includano anche “utilizzatori” dei risultati della ricerca. Questi panelcondividono ex-ante alcuni criteri per poi applicarli nell’esame di evidenze discorsive (narrative

evidence) e casi di studio prodotti dalle unità di ricerca.

Questa è la modalità considerata best practice a livello internazionale, la quale, è opportunoricordarlo, viene impiegata ai fini di una valutazione ex-post. La valutazione ex-ante in Horizon2020 è svolta da un panel di esperti in senso stretto. Non è quindi prevista la partecipazione diutilizzatori finali o di OSC come raccomandato nel rapporto sopra menzionato.

L’esigenza di accrescere la consapevolezza degli effetti sociali della ricerca sembra essere statacolta nella predisposizione del futuro programma quadro della UE, riferito al periodo 2021-2027 edenominato HORIZON EUROPE (si veda European Commission, 2018b). Con un budget chepassa da circa 80 a 100 miliardi di euro, il nuovo programma si impernia su tre pilastri:

a) Open science: basato su procedure bottom-up orientate alla comunità scientifica;

b) Global challenges and Industrial competitiveness (integra i precedenti “industrialleadership” e “societal challenges” in cinque clusters): principalmente basato su proceduretop-down o “mission-oriented”;

c) Open innovation: orientato nelle fasi a valle del processo innovativo (validazionetecnologica, testing, prototipizzazione, produzione pre-commerciale).

Con riferimento al punto b), nel documento della Commissione si afferma che “The pillar will beimplemented through a strategic planning process ensuring the involvement of stakeholders andsociety and alignment with Member States’ activities” (sottolineatura mia).

L’enfasi che in Horizon Europe viene posta sulle politiche mission-oriented per la ricerca el’innovazione deriva da una precedente riflessione svolta da un panel di esperti (EuropeanCommission, 2017b) e riproposta da Mariana Mazzucato (2018).

Le politiche mission-oriented non hanno a che fare con incentivi e sussidi ma prevedono il co-investimento nel tempo lungo l’intera catena dell’innovazione, condividendo sia i rischi che ibenefici in modo che questi si manifestino prevalentemente nella società. A tal fine, diventaessenziale la partecipazione pubblica e delle organizzazioni della società civile sia nella selezionedei progetti sia nel loro monitoraggio e nella loro (eventuale) revisione, attraverso modalitàtrasparenti.

A questo riguardo, tuttavia, la questione che si pone è se la dimensione Europea sia appropriata peril coinvolgimento della società civile. Infatti, affinché tale partecipazione sia effettiva e nonpleonastica (come in parte è avvenuto nel passato; si veda sopra), il livello di organizzazione e dicompetenze richieste è decisamente elevato.

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Sarebbe quindi necessario istituire un forum europeo delle OSC il quale dovrebbe stabilire unordine di priorità rispetto ai progetti di ricerca mission-oriented sul tappeto e, quindi, identificare icriteri con i quali valutarne l’impatto sociale. Un compito molto impegnativo, considerata non solola dimensione sovra-nazionale del forum, ma anche la notevole diversità delle OSC da coinvolgere. Parliamo infatti, da un lato, di associazioni imprenditoriali e sindacali le quali dispongono di unadimensione internazionale e, anche se in misura diversa, sono state già coinvolte in forum suspecifici programmi della UE. Da un altro lato, che quello che ci interessa di più, abbiamo leassociazioni ambientaliste (ad esempio, WWF e, per l’Italia, Legambiente) insieme a fondazioni eorganizzazioni non governative di natura umanitaria-assistenziale (Croce Rossa, Caritas, Medicisenza Frontiere, ecc.) e sociale in senso lato (tra queste, lo stesso Forum Disuguaglianze Diversità).In alcuni casi si tratta di organizzazioni di dimensione anche internazionale (WWF, Croce Rossa,MsF) mentre, in altri casi, di OSC che hanno operato principalmente a livello nazionale e quindimeno attrezzate ma non per questo meno motivate o utili ai fini di una consultazione a livelloeuropeo. Il Forum Disuguaglianze Diversità potrebbe farsi promotore di una iniziativa a livellonazionale per coinvolgere nella discussione sui progetti di ricerca europei le OSC italiane conminore proiezione internazionale.

Questo secondo forum europeo di OSC dovrebbe predisporre una lista di “portavoce” conconclamata esperienza in diverse aree di ricerca (salute, qualità dell’ambiente, tutela del territorio,mobilità sostenibile, ICT, ecc.). Tali esperti dovranno essere nei coinvolti nei panel chiamati avalutare i diversi progetti di ricerca europeo. Per evitare conflitti di interesse, particolare attenzionedovrà essere posta sul fatto che essi opereranno su mandato delle OSC e sui criteri da questestabiliti.

Come opportunamente sottolineato dalla Mazzucato, un ulteriore e cruciale elemento per larealizzazione di politiche mission-oriented nel campo della ricerca e dell’innovazione è la dotazionedi capacità ed esperienza nelle organizzazioni e istituzioni pubbliche, nei vari livelli di governo:comunitario, nazionale e locale (regionale). E’ infatti di fondamentale importanza che gli statimembri e le regioni intervengano con misure place-based coerenti con i grandi obiettivi identificatidal framework europeo. In tali contesti, il coinvolgimento delle OSC dovrebbe essere più sempliceda organizzare e il loro intervento potrebbe risultare più efficace di quello svolto a livello europeo.

2.2 Il caso italiano e la terza missione delle università

Relativamente all’impatto sociale della ricerca scientifica, il quadro italiano risulta decisamente piùarretrato rispetto alla situazione europea.

Nel nostro paese una quota significativa (circa il 17%) dei fondi attribuiti alle università vienedistribuita sulla base della performance scientifica, prevalentemente basata su indicatori quantitatividi natura bibliometrica (citazioni ricevute, pubblicazioni su riviste con elevato impatto citazionale oconsiderate eccellenti nelle diverse discipline) a cui si associa (in modo più o meno importante aseconda del settore disciplinare) una revisione tra pari (esperti) delle pubblicazioni scientifiche(metodologia denominata informed peer review). La valutazione ex-post della qualità della ricercaaccademica si basa quindi in modo esclusivo sul criterio dell’eccellenza scientifica.

Per quanto riguarda i fondi distribuiti sulla base di una valutazione competitiva ex-ante dei progettidi ricerca, questi sono risultati molto ridotti a confronto di quanto avviene nel resto d’Europa.Soltanto nel 2017 vi è stato un cospicuo aumento di fondi sui Progetti di Ricerca di InteresseNazionale (PRIN).

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Nel corso del 2018 sono stati distribuiti fondi aggiuntivi a 180 dipartimenti universitari dieccellenza e un altro Fondo per il Finanziamento delle Attività Base di Ricerca (FFABR) del qualehanno beneficiato singoli ricercatori e professori associati ritenuti particolarmente meritevoli. Perquesti finanziamenti, la selezione si è basata prevalentemente (PRIN e dipartimenti eccellenti) senon esclusivamente (FFABR) sul criterio di eccellenza scientifica e, quindi, sugli stessi indicatoriapplicati per la distribuzione ex-post agli atenei.

Nel Rapporto Biennale sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR, 2018; p.489), dal quale ho ampiamente tratto per la stesura di questo breve paragrafo, si afferma che

“Per quanto riguarda i criteri di valutazione, in quasi tutti i paesi partecipanti (al Mutual Learning

Exercise – Performance Based Funding of University Research – della Commissione Europea) sifa riferimento non solo ad un criterio di “pura” qualità della ricerca, ma anche al concetto di“impatto” o rilevanza socio-economica; fanno eccezione Italia e Spagna, che si concentrano sul solocriterio di qualità e impatto scientifico. Il MLE sottolinea che l’inserimento di criteri diversi rispettoa quelli della mera eccellenza scientifica comporta la necessità, soprattutto in prospettiva dellacrescente importanza che stanno assumendo tali criteri, di coinvolgere nei panel di valutazioneanche componenti di tipo non accademico, meglio in grado di valutare l’impatto sociale edeconomico della ricerca.”

Il processo di valutazione degli atenei e dei dipartimenti universitari italiani riguarda anche leattività della cosiddetta “terza missione”. Tuttavia, è importante sottolineare che, in questo caso, gliesiti della valutazione non incidono sulla ripartizione dei fondi. Prima di passare ai criteri con iquali la terza missione viene valutata in Italia, introduco una breve digressione su ulteriori indicatoridell’impatto sociale della ricerca scientifica proposti in letteratura.

Per riconoscendo che la metodologia adottata nel REF britannico sia la migliore pratica, alcuniautori hanno proposto alcuni avanzamenti, soprattutto al fine di rendere la valutazione dell’impattosociale maggiormente confrontabile tra diverse discipline. Bornmann e Marx (2014), ad esempio,propongono che i gruppi di ricerca scrivano un rapporto nel quale vengano riassunti in termini nontecnici i benefici sociali effettivi e potenziali della ricerca svolta. Questo rapporto, prima di esserepubblicato, dovrebbe essere sottoposto alla revisione di esperti esterni (ricercatori di altre discipline,policy makers, organizzazioni della società civile, ecc.). Una volta pubblicato, si potrebbemonitorare quante volte tale rapporto viene menzionato in documenti di organizzazioni governativee non, oltre che nei media (stampa, tv, internet e social media).

Condivido l’idea che ai gruppi di ricerca responsabili di rilevanti progetti che hanno beneficiato dicospicui finanziamenti pubblici venga richiesta la stesura di un rapporto (con le caratteristiche sopramenzionate) sottoposto a una qualche forma di revisione da parte di esperti esterni.

Ho invece qualche dubbio sulla parte finale della proposta di Bornmann e Marx. Non ritengo infattiprioritario perseguire, a tutti i costi, l’obiettivo di ottenere indicatori quantitativi dell’impatto socialedella ricerca scientifica, alla stregua di quanto avviene per l’eccellenza scientifica tramitel’approccio bibliometrico. Le informazioni quantitative sono utili come base informativapreliminare, ma poi ci deve essere comunque un giudizio qualitativo (basato su peer review; cfr.Hicks et al., 2015). Altrimenti, si corre il rischio che indicatori che approssimano grossolanamentesia la qualità della ricerca sia l’impatto sociale della stessa invece di essere uno strumento diventinol’obiettivo.

Purtroppo è quello che sta avvenendo in Italia con la valutazione della ricerca scientifica (vedisopra) e della terza missione (vedi sotto).

Greco (2015) sostiene che la terza missione delle università dovrebbe favorire la costruzione di unacultura diffusa della cittadinanza scientifica. L’obiettivo dovrebbe essere quello di includere tra idiritti dei cittadini quello della cittadinanza scientifica o il diritto alla conoscenza.

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Tutto ciò alla luce del fatto che siamo nell’era in cui la conoscenza assume un ruolo centrale per ilprogresso economico e sociale. Quello che, secondo Greco, andrebbe perseguito con maggioreconsapevolezza è il giusto equilibrio tra libertà di ricerca, da un lato, e diritto di accesso allaconoscenza dall’altro, attraverso una maggiore integrazione tra ricerca scientifica e culturademocratica.

Gli indicatori quantitativi proposti dall’ANVUR, e che attualmente gli atenei e i dipartimenti sonochiamati a esplicitare e perseguire, difficilmente possono cogliere tale obiettivo. Parliamo infatti dinumero di brevetti e di spin-off o di attività di ricerca in conto terzi e, quindi, di misure riferite altrasferimento tecnologico. A questi si aggiungono indicatori di diffusione della conoscenza come,ad esempio, il numero di pubblicazioni divulgative e l’organizzazione di conferenze rivolte a unpubblico di non specialisti.

Il fatto che le università raggiungano le soglie riferite agli indicatori sopra esposti non significa cheesse stiano impegnandosi seriamente per una maggiore interazione con la società. A ciò va aggiuntoche, nonostante l’obiettivo della terza missione sia stato formalizzato, nella pratica a esso non vieneattribuita priorità e non ci sono adeguati supporti e/o incentivi (specifiche risorse, avanzamenti dicarriera, ecc.) per i ricercatori che vogliono intraprendere iniziative di public engagement.Un’ulteriore criticità risiede nel fatto che gli indicatori quantitativi sopra esposti misuranoessenzialmente il flusso unidirezionale dall’università alla società. Poco o nulla viene detto suipossibili feedback e, quindi, sui modi in cui la società civile e anche la politica possa interveniresugli oggetti, sui processi e, soprattutto, sulle applicazioni dei risultati della ricerca scientifica.

A tale riguardo, non vanno sottaciuti i rischi nei quali si incorre quando, sulla base di notizie einformazioni che poco o nulla hanno a che fare con l’evidenza scientifica, la politica e l’opinionepubblica sposa “verità” negate dalla comunità scientifica. Su tali rischi, e sulla conseguentenecessità di un maggiore impegno “sociale” da parte delle donne e degli uomini di scienza, rinvio airecenti interventi della Senatrice Elena Cattaneo sui quotidiani nazionali (si veda, ad esempio,Cattaneo e Grignolo, 2018).

3. L’impatto sociale delle attività innovative

3.1 Innovazione e qualità del lavoro

Nell’ambito di Horizon 2020 l’esame della relazione tra innovazione e occupazione dovrebbe essereoggetto della Sfida Sociale 6: Inclusive, innovative and reflective societies. Tra i temi considerati,in particolare, possiamo segnalare “Human and social dynamics of the fourth industrial revolution”nel quale si presume venga attribuita notevole importanza agli effetti dirompenti, sia nel numeroche nella qualità dei posti di lavoro, che la quarta rivoluzione industriale dovrebbe portare con se. Inrealtà, se si guarda alle riflessioni e raccomandazioni che un panel di esperti ha predisposto per laCommissione Europea (European Commission, 2016) i rischi sembrano essere inferiori alleopportunità che si presentano nel prossimo futuro. Vi sono pochi cenni al problema delladisoccupazione tecnologica e su come affrontarlo, mentre viene enfatizzato il ruolo positivo che,nell’era digitale, possono giocare le industrie “creative”, il turismo e la valorizzazione delpatrimonio culturale.

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Ovviamente, ciò non ha comportato che nell’ambito di Horizon 2020 non vi siano progetti di ricercafinanziati che affrontano il tema con meno ottimismo e sano realismo. Tra questi ho visionato ilprogetto QuInnE – Quality of jobs and Innovation generated Employment outcomes (sito webhttp://bryder.nu/). Tale progetto, finanziato nell’ambito della Sfida Sociale 6 sopra menzionata,viene segnalato nel rapporto di valutazione intermedia di Horizon 2020 nel capitolo 8.3 intitolato,non a caso, “What progress has been made towards achieving societal impact?” (cfr. EuropeanCommission, 2017a, p. 171).

Tra i diversi contributi pubblicati nel sito di QuInnE, i paper da cui ho attinto maggiormente persviluppare questo paragrafo sono quelli di Makó, Illéssy e Warhurst (2016) e di Munoz-de-Bustillo,Grande e Fernandez-Macias (2016). Il primo, sulla base di alcune evidenze empiriche, parte dallaconstatazione che i paesi della UE che registrano migliori performance occupazionali sono quelli incui la qualità del lavoro è più alta. Viene quindi smentita l’idea che per garantire più posti di lavorola lor qualità debba essere sacrificata. Il secondo paper, propone alcune evidenze tra paesi, settori eindividui dalle quali emerge una correlazione positiva tra innovazione e qualità del lavoro.

Quest’ultima può essere valutata sulla base di varie dimensioni: salario; qualità intrinseca dellamansione (abilità, grado di autonomia); qualità dell’occupazione (principalmente legata allatipologia di contratto: tempo indeterminato o determinato); sicurezza e salute; bilanciamento tratempo di lavoro e di vita. Alla luce di queste caratteristiche possono essere definiti degli standardminimi di qualità del lavoro: salario minimo, congedo parentale, ferie, permessi, ecc. A taleriguardo, un esempio di intervento legislativo è quello del parlamento australiano il quale hastabilito, con il Fair Work Act del 2009, dieci standard nazionali per l’occupazione, obbligatori pertutte le aziende (www.fairwork.gov.au/employee-entitlements/national-employment-standards).

Come sottolinea Aiginger (2014), ci sono due principali vie o strategie per migliorare leperformance occupazionali e di produttività di un paese. Una “via bassa” (low-road strategy)fondata sulla riduzione dei costi, inclusi ovviamente i salari ma anche quelli legati al rispetto distandard minimi di qualità del lavoro (sostituire una persona per congedo parentale è comunquegravoso per un’azienda; ancora più alti sono i costi per garantire ai lavoratori un’adeguataformazione professionale). Oppure un “via alta” (high-road strategy) basata sull’innovazione, sullaqualità dei prodotti e sull’offerta di nuovi beni e servizi, con particolare riguardo a quelli cheincidono positivamente sull’ambiente e la qualità della vita della popolazione. Per i paesi europeicaratterizzati da elevati livelli di PIL pro-capite, dovrebbe essere scontato che l’unica strategiacredibile e sostenibile, anche da un punto di vista della coesione sociale, è quella della “via alta”.Ciononostante, come rileva Warhurst (2017, p. 15), “Sfortunatamente, la via bassa dellaconcorrenza di costo rimane attrattiva per molte imprese (traduzione mia).” Da rilevare che l’autoresi riferisce principalmente alla situazione del Regno Unito. Nel caso italiano, non è azzardatosostenere che ciò si verifica per moltissime, troppe imprese.

Che cosa possono fare i governi per bloccare la “via bassa” e instradare le imprese verso quella“alta”? Warhurst, focalizzando l’attenzione sulle condizioni lavorative, suggerisce le seguentimisure:

a) adozione e/o rigorosa applicazione di norme che fissano standard occupazionali;b) applicazione di tali standard nel settore pubblico, il quale deve agire da modello per il

settore privato; c) inserimento di clausole di qualità del lavoro negli appalti pubblici (si veda il paragrafo 4).

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L’esame di queste e di altre similari proposte va ben al di là del tema su cui è focalizzato questoparagrafo, vale a dire la relazione tra innovazione e andamento e caratteristiche dell’occupazione.Esse saranno oggetto di un altro tema del “Programma Atkinson per l’Italia”, quello del“Ribilanciamento del lavoro”. E’ quindi importante sottolineare che alcune misure di politicaeconomica possono avere più di un impatto: migliorare le condizioni lavorative può essereconsiderato di per sé un obiettivo cruciale per ridurre le disuguaglianze, ma quello che qui rileva èche esso può anche rappresentare uno strumento o un obiettivo intermedio al fine di migliorare lacapacità innovativa delle imprese e dell’intero sistema.

Citando Lundvall (2014, p. 2), “questi lavori (di qualità elevata) contribuiscono all’innovatività delsistema economico e, inoltre, le persone che li svolgono sono significativamente più soddisfattidella loro condizione lavorativa”. Esaminando due specifici indicatori di qualità del lavoro,l’opportunità di apprendimento e il livello di autonomia, Lundvall mostra che, in gran parte deipaesi Europei (anche se in misura differente), queste due caratteristiche sono diminuitemarcatamente tra il 2000 e il 2010 e soprattutto nelle mansioni “non-manageriali” (quadri intermedie operai). Poiché i due aspetti sopra menzionati favoriscono i processi innovativi delle imprese, lasua conclusione è che una delle ragioni delle basse performance economiche dei paesi europei è ildeterioramento della qualità del lavoro (ovviamente dovuto anche ai processi di globalizzazione ealla crisi del 2008-2009).

Come abbiamo già accennato, Munoz-de-Bustillo et al. (2016) propongono diverse evidenze asostegno della correlazione positiva (o causazione circolare) tra innovazione e qualità del lavoro.Nell’analisi tra paesi emerge una correlazione particolarmente forte tra capacità innovativa è qualitàdella mansione e dell’occupazione ma anche con il grado di salute e sicurezza (si veda il sotto-paragrafo che segue).

Sulla complementarietà tra la capacità innovativa delle imprese e i cambiamenti nell’organizzazionedel lavoro rivolti, in particolare, ad accrescere le competenze e l’autonomia decisionale deilavoratori, l’evidenza a livello internazionale è ormai consolidata da renderla un “fatto stilizzato”.Considerando esclusivamente gli studi empirici con dati d’impresa riferiti all’Italia possiamo citare,senza pretesa di esaustività, Mazzanti, Pini e Tortia (2006), Cristini, Gaj e Leoni (2008), Santangeloe Pini (2011), Leoni (2012).

Makó, Illéssy e Warhurst (2016) sostengono che le politiche a favore dell’innovazione adottate inEuropa non hanno prestato adeguata attenzione a queste evidenze. Tali politiche sono troppofocalizzate su ricerca e innovazione in senso stretto (spese in R&S, brevetti, innovazioni di prodottoo di processo) mentre trascurano le innovazioni organizzative e “non-tecnologiche”. In questomodo, privilegiano, da un lato, le imprese di dimensione più grande, con attività formalizzate diR&S e maggiore capacità di ottenere e sfruttare diritti di proprietà intellettuale; dall’altro, i settorihigh-tech e knowledge-intensive. Ne deriva un minore impatto sulle PMI e i settori a medio-bassatecnologia, dai quali dipende gran parte dell’occupazione complessiva (sia nell’industria che neiservizi). Politiche troppo orientate agli indicatori tradizionali di ricerca e innovazione vanno quindia discapito non solo della qualità ma anche della quantità dei posti di lavoro.

Come in Europa, anche in Italia le politiche nazionali a sostegno dell’innovazione hannoampiamente sottovalutato l’importanza dei cambiamenti organizzativi e delle attività rivolte amigliorare la qualità del lavoro. L’ultimo esempio al riguardo risiede nel Piano Impresa 4.0, il qualeper favorire la produzione e, soprattutto, l’adozione di soluzioni hardware e software della quartarivoluzione industriale (macchine “intelligenti”, infrastrutture per la connettività, ecc.), ha introdottoun iper e super ammortamento e una “nuova Sabatini”, insieme a un credito di imposta per gliincrementi di spesa in R&S.

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Il piano prevede una sola misura a sostegno del capitale umano delle aziende: un credito di imposta(40%) sulle spese per la formazione del personale su queste nuove tecnologie. Tale misura, tuttavia,viene definita “sperimentale” e quindi introdotta solo per l’anno 2018 (con un budget decisamenteinferiore a quello destinato ad altre misure).

L’indicazione di policy che emerge da questo sotto-paragrafo è, in sintesi, la seguente. Tra leattività innovative condotte da soggetti privati e suscettibili di supporto pubblico vanno incluse inmodo significativo e sistematico la formazione del personale e i cambiamenti organizzativinecessari sia per l’introduzione che per l’adozione di nuove tecnologie. Tutto ciò deve avvenire neidiversi ambiti di intervento: certamente a livello europeo e nazionale, ma in modo particolare inambito regionale. Dal punto di vista operativo si pone il problema di come accertare (rendicontare)le spese riferite ai cambiamenti organizzativi alla stregua di quanto avviene con la R&S, i brevetti oi prototipi. Poiché ci riferiamo principalmente a cambiamenti finalizzati a migliorare le opportunitàdi apprendimento e il livello di autonomia degli addetti, queste attività richiedono, per loro natura,investimenti nella formazione professionale i quali possono essere documentati e monitorati.

3.2 L’innovazione responsabile nelle imprese italiane

In un recente contributo (Divella e Sterlacchini, 2019) abbiamo sfruttato le informazioni cheemergono dalla Community Innovation Survey (CIS) – condotta in Italia dall’Istat nel 2008 e nel2010 – al fine di fornire un contenuto empirico al concetto di innovazione responsabile nelleimprese. Dopo aver selezionato le imprese che nei periodi di riferimento avevano introdottoinnovazioni di prodotto e/o di processo, abbiamo considerato quelle che, nello sviluppo di taliinnovazioni, avevano attributo un’elevata importanza all’obiettivo di “migliorare la salute e lasicurezza dei lavoratori”. Per il 2010 soltanto abbiamo anche considerato l’obiettivo di “ridurrel’impatto ambientale”. Il perseguimento di questi obiettivi, diversi da quelli tipicamente aziendali(riduzione dei costi, aumento delle quote di mercato, ecc.), può quindi approssimare l’attenzioneall’impatto sociale dell’innovazione da parte delle imprese.La tabella 1 mostra un calo delle imprese innovative tra il 2008 e il 2010 (dovuto principalmentealla crisi) e quindi anche una riduzione di quelle che assegnavano grande importanza almiglioramento della salute e sicurezza dei lavoratori. Tuttavia, la percentuale di queste ultime sulleimprese innovative si riduce di un solo punto percentuale. Di particolare interesse è il fatto che nel2010 le imprese che segnalavano questo obiettivo come molto importante superavano in numeroquelle che indicavano la riduzione dell’impatto ambientale come obiettivo rilevante delle loroinnovazioni.

Tabella 1 - Imprese con innovazioni “responsabili”: miglioramento della salute e sicurezza dei lavoratori e riduzione dell’impatto ambientali. Percentuali su imprese innovative tra parentesi.

CISTotale

imprese

Imprese coninnovazioni diprodotto e/o di

processo

Miglioramento dellasalute e sicurezza

come obiettivo moltoimportante

dell’innovazione

Riduzione dell’impattoambientale comeobiettivo molto

importantedell’innovazione

2008 18,944 6,817 1,997 (29.3) -

2010 18,100 6,000 1,686 (28.1) 1,218 (20.19)

Fonte: Divella e Sterlacchini (2019)

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Considerando soltanto le imprese innovative, abbiamo stimato l’impatto esercitato da una serie divariabili aziendali (dimensione, settore, attività innovative, ecc.) sulla probabilità di innovare conl’obiettivo “sociale” della salute e sicurezza dei lavoratori. Tale probabilità, in linea con le attese, èpiù alta nell’industria (soprattutto quella a medio-bassa tecnologia) e nelle costruzioni mentre risultabassa nei servizi. Essa non dipende dalla dimensione né dalle attività di R&S, ma cresce sel’impresa ha introdotto anche innovazioni nell’organizzazione del lavoro (orientate aldecentramento dei processi decisionali) e se ha investito nella formazione del personale (sempre aifini dell’innovazione).

Per il 2010 abbiamo stimato congiuntamente (con un modello probit bivariato) anche la probabilitàdi innovare con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale. Le due tipologie di innovazioneresponsabile sono positivamente correlate e associate a variabili in gran parte identiche. Nel casodell’impatto ambientale, tuttavia, l’attività di R&S ha un effetto significativo mentre perde dirilevanza l’investimento nella formazione professionale.

Questi risultati confermano e qualificano maggiormente quanto sottolineato nel precedente sotto-paragrafo. Le innovazioni di natura organizzativa finalizzate alla maggiore autonomia deidipendenti risultano positivamente correlate non solo con le innovazioni tecnologiche in sensostretto ma anche e in modo particolare con quelle che possono essere definite innovazioniresponsabili o a maggiore impatto sociale. Quando sono associate alle attività di formazione delpersonale aumentano la propensione delle imprese a considerare molto rilevante l’obiettivo dellasalute e sicurezza dei lavoratori.

Relativamente alle innovazioni responsabili è importante sottolineare il ruolo complementaresvolto, da un lato, dalle normative e, dall’altro, dalle misure di incentivazione. Per quanto riguardala salute e sicurezza dei lavoratori la normativa vigente in Italia è contenuta nel Decreto Legislativon. 81 del 2008, il quale stabilisce gli obblighi dei datori di lavoro e dei lavoratori. I primi, inparticolare, sono tenuti a valutare i rischi per la salute e sicurezza degli addetti e quindi ad adeguareil posto di lavoro per prevenirli e, quindi, evitarli. Le imprese italiane che svolgono tali attività diprevenzione possono beneficiare di una riduzione del premio di assicurazione versato all’Inail.Secondo diversi commentatori e studiosi, tale incentivo non è sufficiente soprattutto nel caso dellePMI le quali non hanno un’adeguata percezione dei rischi e, quindi, neanche dei potenziali beneficieconomici che l’investimento in prevenzione può generare nel medio-lungo periodo. Non è quindisorprendente che gran parte degli incidenti sul lavoro avvengano tra imprese di dimensione ridotta.Al fine di accrescere gli incentivi per investire nella prevenzione e anche in soluzioni innovative permigliorare la sicurezza dei lavoratori, Bianchini et al. (2017) propongono l’utilizzo di un indicatorebasato sulle spese sostenute dalle singole imprese rapportate ad una stima dei costi che siverificherebbero in assenza di investimenti nella prevenzione. Le imprese con indici superiori adeterminate soglie dovrebbero beneficiare di maggiori riduzioni dei premi di assicurazione e,soprattutto, di una esenzione di responsabilità nel caso di incidenti che non potevano essere previsti.Sulla stessa lunghezza d’onda si è posto il presidente dell’Inail, Massimo De felice, nellapresentazione dell’ultimo rapporto annuale dell’Istituto, auspicando l’assegnazione di un “rating insicurezza” alle imprese che ne fanno richiesta. Per tradursi in meccanismo di incentivo, tale ratingpotrebbe essere utilizzato, oltre che ai fini sopra esposti, anche come criterio di merito nelladistribuzione di incentivi per attività di ricerca e innovazione e nell’assegnazione di appaltipubblici.

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4. Il ruolo degli appalti pubblici

Negli corso degli ultimi decenni l’Unione Europea ha posto particolare enfasi sul ruolo degli appaltipubblici come strumento di stimolo all’innovazione dal lato della domanda. Il crescente interesseper gli appalti pubblici come strumento di politica dell’innovazione è legato al fatto che, anche acausa dei ridotti margini per accrescere al spesa pubblica, i tradizionali strumenti di supportoall’innovazione (sussidi e incentivi fiscali) possono risultare insufficienti, soprattutto al fine diintrodurre innovazioni di pubblico interesse o con elevato impatto sociale. Tra documenti pubblicatidalla Commissione Europea possiamo citare la guida del 2014 sugli appalti pubblici comestrumento per favorire l’innovazione nelle PMI (European Commission, 2014) e quella più recentesugli appalti innovativi (European Commission, 2018).

Con questa tipologia di appalti, l’agenzia pubblica decide non solo come acquistare (selezionandol’offerta economica maggiormente vantaggiosa) ma cosa acquistare, inclusi beni o servizi pococommercializzati o che ancora non esistono sul mercato.

A questo riguarda la Commissione Europea opera un distinzione tra Appalti Pubblici Pre-commerciali (APP) e Appalti Pubblici per soluzioni Innovative (API). Gli APP consistono incommesse per servizi di Ricerca & Sviluppo. Diverse imprese sono chiamate a sviluppare, in modoparallelo e concorrente, soluzioni non presenti sul mercato, idonee a fronteggiare le esigenze postedal settore pubblico. I risultati di questa fase, se positivi, saranno utilizzati per lo sviluppocommerciale di nuovi prodotti e servizi su base concorrenziale. La stazione appaltante non sivincola quindi all’acquisto effettivo del nuovo bene o servizio ma contribuisce a ridurre i rischitecnologici dell’attività di ricerca dell’impresa selezionata. Gli API si riferiscono invece acommesse rilevanti per beni e servizi innovativi che ancora non sono commerciati su vasta scala.Tali commesse possono includere test di conformità (ad esempio, per dispositivi medicali). In questicasi, la stazione appaltante agisce come “launch customer” o “early adopter” e, in questo modo,riduce considerevolmente i rischi di mercato per l’impresa offerente2.

Recenti contributi hanno messo in luce la necessità di impiegare una definizione di appalti pubbliciper l’innovazione assai più ampia di quella confinata agli APP e agli API (si vedano, a titolo diesempio, Uyarra et al., 2017; Czarnitzki et al., 2018). Infatti, gran parte degli appalti pubblici chepossiamo definire “innovativi” sono utilizzati soprattutto in ambito locale e riguardano innovazioniincrementali, ricombinazioni di innovazioni esistenti applicate in ambiti nuovi, sovente con obiettividi sviluppo sostenibile. Si tratta quindi di beni e servizi nuovi per le imprese che li offrono, per lepubbliche amministrazioni che li acquistano e per i cittadini che ne usufruiscono.

Per favorire questa tipologia di appalti è importante che i bandi, invece di specificare in modorigido i prodotti o i servizi richiesti, indichino le funzionalità e le prestazioni. In tal modo, ipotenziali fornitori sono incentivati a proporre soluzioni innovative. Un esempio di specificazione rigida è la seguente: “Il comune Y bandisce una gara per la consegna e l'installazione di 280 lampioni; ognunoequipaggiato con lampade a vapori di sodio da 100 watt”.Sullo stesso oggetto, un bando con specificazione funzionale (che include aspetti innovativi)potrebbe essere il seguente:

2 A livello europeo, Horizon 2020 contiene azioni di supporto e possibilità di cofinanziamento soprattutto perAPP che, seppur inizialmente riferiti a determinati contesti nazionali, possano essere estesi a un ampioinsieme di paesi e, possibilmente, all’intera UE. A livello regionale, gli appalti pubblici innovativi, conparticolare riferimento agli API, possono beneficiare del cofinanziamento dei Fondi Strutturali della UE, ed èsoprattutto in questi contesti che può essere facilitato l’accesso delle PMI a tali appalti. Tra gli strumenti chepossono incentivare la partecipazione delle PMI la Commissione Europea segnala la riduzione dell’IVA efinanche il suo azzeramento nel caso degli APP.

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“Il comune Y bandisce una gara per illuminare 18 strade residenziali con un livello di illuminazionedi tre lux su un periodo di 10 ore (in media) al giorno. Le sorgenti luminose devono avereun'aspettativa di vita minima di 100.000 ore e il consumo energetico deve essere perlomenodimezzato rispetto a quello del sistema attualmente in uso”3.

Per quanto riguarda la partecipazione delle imprese italiane ad appalti pubblici innovativi intesi insenso ampio, Divella e Sterlacchini (2018) hanno utilizzato le informazioni della CIS, indagine giàmenzionata nel paragrafo precedente, ma relativa all’anno 2012. Tra le 18,700 imprese incluse nellaCIS, quelle coinvolte in appalti pubblici generalmente definiti sono poco più di 5,100 (27.5%). Diqueste, il 9% (500 imprese) ha dichiarato che tali attività innovative erano esplicitamente previstenel contratto di appalto. In Italia, le attività innovative esplicitamente indotte dagli appalti pubblicisembrano quindi ridotte. Tuttavia, un risultato confortante che abbiamo ottenuto è che, una voltacontrollato per la probabilità di partecipare ad appalti pubblici (più alta per le imprese più grandi e/oappartenenti a determinati settori come le costruzioni), la dimensione dell’impresa non accresce, maanzi diminuisce, la probabilità di svolgere attività innovative indotte dagli appalti pubblici. Ciòdepone a favore dell’idea che negli appalti pubblici innovativi le imprese di minore dimensione nonsono discriminate e che quindi questo strumento dovrebbe essere maggiormente impiegato perindurre le PMI a intraprendere attività di innovazione.Anche se la CIS non fornisce dati sul tipo di appalto innovativo, dalle informazioni sparse chericaviamo dalla pubblicistica, dai policy report europei e nazionali e da internet possiamodesumere che, in Italia, la gran parte degli appalti giudicati innovativi dalle imprese non riguarda gliAppalti Pubblici Pre-commerciali (APP) e neanche gli di Appalti Pubblici per soluzioni Innovative(API).

Lo scarso utilizzo di APP in Italia non dipende dalla bassa presenza di imprese in grado diprendervi parte ma dal basso livello di competenze e dall’elevata avversione al rischio dellepubbliche amministrazioni, nazionali e regionali. Ma a prescindere da tali carenze, nel caso degliAPP resta il fatto che i decisori pubblici devono accollarsi la responsabilità di spendere i soldi deicontribuenti per finanziare un’attività caratterizzata da elevata incertezza. Per questo motivo, comeabbiamo evidenziato in nota, sia a livello europeo che nazionale e regionale esistono programmi cheprevedono specifiche misure di cofinanziamento e quindi di incentivazione per l’utilizzo di appaltipubblici innovativi.

La presenza di incentivi, tuttavia, non esime le pubbliche amministrazioni dallo svolgimento diun’analisi approfondita dei “fabbisogni tecnologici” della collettività la quale, ovviamente, deveavvenire prima di avviare la procedura di appalto. È in questa fase preliminare chel’amministrazione dovrebbe organizzare una serie di consultazioni pubbliche coinvolgendo ipotenziali utilizzatori del nuovo bene o servizio e, se presenti, le organizzazioni della società civile(OSC) che svolgono attività connesse al soddisfacimento di tali bisogni. È da questa attività, più chedagli stimoli e dalle misure di incentivazione della UE, che la pubblica amministrazione può trarrela legittimazione per avviare una procedura rischiosa come quella dell’APP. Al fine di identificare i nuovi beni e servizi, il coinvolgimento della società civile sarà tanto piùfacile da organizzare quanto più il livello di governo sarà decentrato. Abbiamo già trattato delladifficoltà di operare in questa direzione nel caso dei programmi di ricerca mission-oriented della UE(si veda il sotto-paragrafo 2.1). E’ chiaro che minori difficoltà si incontreranno quando la“commessa di ricerca” proviene da un’amministrazione regionale o locale.

3 Gli esempi sono tratti da Czarnitzki et al. (2018). Il secondo è simile a una gara d’appalto indetta nel 2017dal comune di Copenhagen per la fornitura di illuminazione stradale (cfr. European Commission, 2018).

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Relativamente alle amministrazioni regionali italiane non è stato possibile reperire informazionisull’utilizzo di API che, si suppone, possano essere più diffusi degli APP. Rispetto a questi ultimi,invece, è possibile menzionare il caso della Regione Lombardia la quale ha predisposto tre “gare” diAppalto Pubblico Pre-commerciale, tutte riferite al comparto della sanità, il quale, non a caso,rappresenta la maggiore voce di spesa delle Regioni italiane.

La prima è stata avviata nel 2015 e riguardava la predisposizione sistema “intelligente”, universaleed economico in grado di trainare i letti di degenza tra corsie e reparti, con sistemi di sicurezza cheimpediscono le collisioni e in grado di muovere i letti senza corsie preferenziali e anche in percorsitortuosi. Il carattere “sperimentale” di questa procedura nel panorama italiano, si può inferire dalfatto che tale gara è stata messa in atto dall’Agenzia regionale acquisti (Arca) su mandato dellaRegione Lombardia in collaborazione con l’Ospedale Niguarda di Milano e in raccordo con la DGWelfare della Commissione Europea.

Nel 2018 la Regione Lombardia ha pubblicato altri due bandi di gara pre-commerciali per larealizzazione di: a) di un sistema meccatronico esoscheletrico; b) un sistema di bronco aspirazionesicura. Nel primo caso si tratta di dispositivo che consente al team riabilitativo di pianificare epersonalizzare le terapie ai diversi pazienti. Il secondo riguarda un dispositivo per l’aspirazionetracheobronchiale utilizzabile anche da personale non professionale4.

Nel 2017, a monte di questi recenti APP, è stata effettuata una ricognizione dei fabbisogni in ambitomedico. Questa è stata avviata attraverso la pubblicazione di un invito rivolto alle diverse strutturesocio-sanitarie, pubbliche e private, operanti nella regione. Le strutture e il personale medico hannoindicato le esigenze dei pazienti che, alla luce delle tecnologie esistenti, risultavano insoddisfatte.Successivamente, dopo averne verificato l’indisponibilità sul mercato anche attraverso l’analisi deibrevetti esistenti, la Regione Lombardia ha predisposto i due bandi di APP di cui sopra.

I due casi esaminati, rappresentano buone pratiche da estendere ad altre amministrazioni regionali elocali. Da sottolineare, in particolare, il ruolo cruciale svolto dalla consultazione pubblica. È chiaroche nel settore sella sanità tale procedura è facilitata dalla presenza di una varietà di strutturecaratterizzate da elevate competenze. Tuttavia, anche in altri settori, le organizzazioni della societàcivile e i cittadini potrebbero essere coinvolti, anche tramite l’impiego di piattaforme digitali.

A quest’ultimo riguardo, è importante sottolineare che gli appalti pubblici che riguardanotecnologie digitali dovrebbero includere requisiti di open source e open standard al fine diconsentire il riutilizzo di soluzioni innovative in altri ambiti territoriali (Morozov e Bria, 2018).

A chiusura di questo paragrafo è importante sottolineare che, al fine di promuovere soluzioniinnovative a elevato impatto sociale, gli appalti pubblici possono svolgere non solo un ruolo direttoma anche esercitare un effetto indiretto. Infatti, a prescindere dall’innovatività del prodotto oservizio oggetto del contratto di appalto, tra i requisiti di partecipazione alla gara e tra i criteri divalutazione delle offerte potrebbero essere inserite delle clausole e/o delle premialità per le impreseche favoriscono modelli di produzione e consumo sostenibili e che soddisfano requisiti di qualitàdel lavoro.

Un caso apparentemente secondario dal punto di vista dell’innovatività ma rilevante per il suoimpatto socio-economico è quello dei bandi di gara per le mense scolastiche emessi dai comuniitaliani (si veda Morgan e Sonnino, 2007): in molti casi e da parecchi anni, in questi bandi sonoinserite clausole tese a favorire consumi alimentari sostenibili (prodotti biologici e tipici delterritorio).

A titolo di esempio, ho sintetizzato alcune clausole inserite in un recente bando di gara per mensascolastica emesso da un comune marchigiano:

4 Si veda http://www.openinnovation.regione.lombardia.it/it/what%27s-going-on/pre-commercial-procurement- online.

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“I menù devono promuovere l’utilizzo di specifici prodotti, nel rispetto della stagionalità mentre ètassativamente vietato l’uso di OGM5. Per ciascuna categoria di alimenti viene indicata lapercentuale di incidenza minima della fornitura qualificata (ad es. 35% da produzione biologica;20% prodotti IGP, DOP, STG). La distanza fra il luogo di produzione/raccolta e il luogo diconsumo dei prodotti ortofrutticoli e da allevamento non può essere superiore a 150 km”6.

E interessante evidenziare che, insieme alle clausole di consumo sostenibile, il bando contieneanche specificazioni relative ai rapporti di lavoro. Vengono infatti premiate le offerte chesoddisfano non solo elementi quantitativi (mantenimento dell’occupazione esistente) e normativi(rispetto delle norme contenute nel contratto nazionale di lavoro e negli accordi integrativi) maanche aspetti qualitativi (specificazione delle qualifiche professionali e, soprattutto, partecipazionedel personale impiegato nel servizio a corsi di formazione professionale e a iniziative di educazionealimentare rivolte alle famiglie degli alunni).

5. Le ipotesi di intervento: una sintesi

In questo paragrafo conclusivo riporto, in modo sintetico, le ipotesi di intervento che sono emerseper i diversi ambiti trattati in questo contributo.

5.1 Impatto sociale della ricerca scientifica

Per quanto riguarda i progetti di ricerca europea, va in primo luogo rafforzata l’enfasi sull’impattosociale dell’intero programma. Tale esigenza, perlomeno nelle intenzioni, è stata colta nellapredisposizione del nuovo programma quadro Horizon Europe per il periodo 2021-2017, soprattuttonel pilastro “Global challenges and Industrial competitiveness” che dovrebbe essere basato suprocedure mission-oriented.

Tale pilastro dovrebbe essere implementato attraverso un processo di panificazione strategica cheassicuri il coinvolgimento dei soggetti portatori di interesse e della società e l’allineamento delleattività degli Stati Membri (a livello nazionale e locale).

A questo fine, diventa essenziale la partecipazione pubblica e delle organizzazioni della societàcivile sia nella selezione dei progetti sia nel loro monitoraggio. Affinché tale partecipazione siaeffettiva (non pleonastica) sarebbe necessario costituire un forum europeo delle organizzazioni dellasocietà civile.

Questo forum europeo dovrebbe: a) esprimere un parere e stabilire un ordine di priorità rispetto aiprogetti di ricerca mission-oriented europei; b) identificare i criteri con i quali valutare l’impattosociale di tali progetti; c) predisporre una lista di propri esperti che dovranno essere coinvolti neipanel chiamati a valutare i progetti di ricerca.

Portare a compimento questo percorso sarà decisamente arduo. Ciò non significa che un tentativo inquesta direzione non vada fatto. Poiché la Commissione Europea avvierà senza dubbio unaconsultazione pubblica su Horizon Europe è importante che, perlomeno a livello nazionale, venganoal più presto costituiti forum della società civile in grado di parteciparvi. L’organizzazione delforum europeo potrebbe avvenire in itinere, considerando i soggetti e i contributi che emergono daidiversi ambiti azionali.

5“Il servizio richiesto dovrà essere volto a favorire la riduzione degli impatti sull’ambiente in coerenza conquanto indicato nel “Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblicaamministrazione ”, promosso dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, adottatocon il Decreto Interministeriale n. 135 dell'11 Aprile 2008 aggiornato con Decreto 10 aprile 2013 (G.U. n. 102del 3 maggio 2013)”.

6“Laddove siano richieste specifiche caratteristiche di freschezza viene data indicazione della distanzamassima del luogo di coltivazione/produzione rispetto al luogo di consumo, conformemente al parere diAVCP (Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici - attualmente ANAC) n. 201 del 5 dicembre 2012. Taledistanza massima può essere aumentata per particolari prodotti previsti nel menù”.

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Il Forum Disuguaglianze Diversità potrebbe farsi promotore di una iniziativa a livello nazionale alfine partecipare inizialmente alla consultazione della CE su Horizon Europe e, quindi, identificare icontenuti da riportare nel forum europeo tramite “portavoce” nazionali.

Al tempo stesso, il forum italiano per la “ricerca socialmente responsabile” potrebbe avviareun’iniziativa a livello nazionale finalizzata a sensibilizzare su queste tematiche il Miur, l’Anvur, laConferenza Nazionale dei Rettori, il CNR e gli altri centri pubblici di ricerca. Infatti, come abbiamoargomentato, a livello nazionale il tema dell’impatto sociale della ricerca è ampiamente trascurato.

Gli indicatori quantitativi delle attività delle terza missione delle università sono insoddisfacenti.Vanno sostituti con una valutazione qualitativa i cui risultati dovrebbero essere considerati nelladistribuzione premiale dei fondi pubblici.

La valutazione ex-post dei dipartimenti universitari (e anche dei centri pubblici di ricerca) potrebbeessere basata su “rapporti di impatto” che riassumano in termini non tecnici i benefici sociali dellericerche svolte. Tali rapporti dovrebbero essere sottoposti alla valutazione di esperti esterni almondo accademico.

Anche nella valutazione ex-ante dei progetti di ricerca va esplicitamente considerato come criteriodi merito l’impatto sociale potenziale, sempre valutato tramite peer review.

5.2 Innovazione e qualità del lavoro

Per quanto riguarda l’impatto sociale delle attività innovative condotte dal settore privato abbiamofocalizzato l’attenzione sulla complementarietà tra innovazione e qualità del lavoro. Gliinvestimenti finalizzati a favorire le opportunità di apprendimento e l’autonomia decisionale deilavoratori risultano infatti fondamentali per incrementare l’efficacia delle innovazioni introdotte e/oadottate dalle imprese. Inoltre, le imprese che prestano maggiore attenzione alla formazione delpersonale sono quelle più propense all’adozione di innovazioni socialmente responsabili comequelle rivolte a migliorare la salute e la sicurezza dei lavoratori e a ridurre gli impatti ambientali.

Al fine di supportare l’innovazione delle imprese, gli incentivi pubblici devono riguardare anche leattività di formazione del personale e i connessi cambiamenti organizzativi e non solo le attività diR&S, i brevetti e le innovazioni tecnologiche in senso stretto.

Per favorire l’introduzione e la diffusione di innovazioni socialmente responsabili le norme e leregole, pur necessarie, non sono sufficienti. Salute e sicurezza del lavoratori e qualità dell’ambientevanno tutelati fornendo alle imprese specifici incentivi, sia diretti che indiretti. Questi ultimipotrebbero consistere nell’attribuire alle imprese virtuose (ad esempio, quelle con un rating elevatoin termini di sicurezza del posto di lavoro) una premialità nella distribuzione di incentiviall’innovazione e nell’assegnazione di appalti pubblici.

Anche alla luce della complementarietà con le attività di innovazione, privilegiare l’obiettivo dielevare la qualità del lavoro non implica sacrificare quello della quantità dei posti di lavoro. Lestrategie di corto respiro basate sulla riduzione del costo del lavoro (in senso ampio e quindi nonsolo dei salari) vanno quindi disincentivate.

A questo fine sarebbe opportuno che, anche in Italia, vengano stabiliti standard minimi di qualitàdel lavoro a cui le imprese si devono attenere non tanto per ottemperare a delle norme quanto perpartecipate alle gare di appalto pubblico e accedere alle diverse misure di incentivazionepredisposte dal governo centrale e da quelli regionali. L’applicazione di tali standard dovrebberiguardare in primo luogo il settore pubblico il quale deve agire da modello per il settore privato.

5.3 Gli appalti pubblici

Nel punto precedente abbiamo già trattato del ruolo che possono giocare gli appalti pubblici nelfavorire, in modo indiretto (vale a dire tramite criteri di premialità o di ammissibilità), i soggettiprivati che investono nelle innovazioni socialmente responsabili o che soddisfano requisiti minimidi qualità del lavoro.

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In modo più diretto, le pubbliche amministrazioni possono ricorrere ad appalti innovativi quando unbene o servizio ritenuto rilevante per la collettività non viene offerto dal mercato oppure non risultaancora diffuso in modo adeguato nel contesto socio-economico di riferimento. Non si tratta quindinecessariamente di innovazioni di natura radicale.

Gli Appalti Pubblici Pre-commerciali risultano assai poco diffusi in Italia e vanno quindiincentivati. Ovviamente, non si tratta di raggiungere grandi numeri, ma di favorirne un maggiore epiù diffuso utilizzo a livello territoriale, soprattutto da parte delle amministrazioni locali. Le recentiprocedure di APP intraprese dalla Regione Lombardia rappresentano delle buone pratiche daestendere in altri contesti regionali.

Infatti, è soprattutto a livello locale che le pubbliche amministrazioni hanno migliori opportunità dicoinvolgere i cittadini nella identificazioni dei bisogni socialmente rilevanti poco o per nullasoddisfatti dal mercato. Queste consultazioni pubbliche forniscono alle amministrazioni lalegittimità a operare con procedure innovative. Grazie a queste esperienze locali le organizzazionidella società civile possono cumulare competenze per incidere in modo efficace nelle scelte operatea livelli di governo più alti (si veda il punto 5.1.).

Il coinvolgimento dei cittadini va quindi esteso, anche tramite l’impiego di piattaforme digitali. Atale riguardo, gli appalti pubblici che coinvolgono tecnologie digitali dovrebbero includere requisitid i open source e open standard al fine di consentire il riutilizzo di soluzione innovative in altriambiti territoriali.

Il maggior ostacolo alla diffusione di appalti pubblici innovativi in Italia risiede nella scarsaconoscenza e dotazione di capacità e competenze delle amministrazioni pubbliche. Occorre quindiinvestire, in primo luogo, nella informazione e divulgazione delle esperienze esistenti e, quindi,nella formazione e nel ringiovanimento dei funzionari pubblici, soprattutto quelli che operano nelleamministrazione locali.

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INNOVAZIONE FARMACEUTICA E ACCESSO AI

MEDICINALI

Stefano Vella1 & Carlo Petrini2

Centro Nazionale per la Salute Globale1 & Unità di Bioetica2

Istituto Superiore di Sanità

CAPITOLO 1.

LE CRITICITA’ DELLE REGOLE SULLA PROPRIETA’

INTELLETTUALE (IPR) APPLICATE AL SETTORE

FARMACEUTICO

1. PROPRIETÀ INTELLETTUALE E ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

In molte aree del mondo ampie parti della popolazione non hanno accesso ai farmaci. Le

motivazioni per cui centinaia di milioni di persone non ricevono l’assistenza sanitaria di cui

hanno necessità sono diverse e molteplici.

Nel corso degli anni sono state sviluppate politiche sull’accesso ai medicinali e alle tecnologie

sanitarie. Tali politiche sono associate ai diritti di proprietà intellettuale (DPI), al commercio e

ai diritti umani [1]. Esse mostrano la difficoltà di conciliare il diritto di proprietà intellettuale

con la necessità di un accesso globale alle cure [2].

Diversi documenti affermano che l'accesso ai medicinali, e in particolare ai medicinali

essenziali, è una componente fondamentale del diritto alla salute [3]. Il diritto al più alto livello

di salute raggiungibile è affermato nel preambolo della costituzione dell’Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS), dove viene descritto come "uno dei diritti fondamentali di ogni

essere umano senza distinzione di razza, religione, credo politico, condizione economica o

sociale"[4].

Il diritto alla salute è anche sancito dall'articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani del 1948 [5], dall'articolo 12 del Patto Internazionale sui Diritti economici, sociali e

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culturali (ICESCR) del 1966 [6] e da varie costituzioni nazionali [7].

La Dichiarazione di Alma Ata (12 settembre 1978) descrive la salute come un "obiettivo sociale

la cui realizzazione richiede l'azione di molti altri settori sociali ed economici oltre al settore

sanitario" (articolo 1) [8]. Analoghe considerazioni, nel quarantesimo anniversario della

Dichiarazione di Ala Ata, sono stati ripresi nella Dichiarazione di Astana (26 ottobre 2018),

nella

quale, all’art. 1, si afferma: “Affermiamo con forza il nostro impegno per il diritto

fondamentale di ogni essere umano al godimento del più alto standard di salute raggiungibile

senza distinzione di alcun tipo. Radunati nel quarantesimo anniversario della Dichiarazione di

Alma Ata, riaffermiamo il nostro impegno a tutti i suoi valori e principi, in particolare alla

giustizia e solidarietà, e sottolineiamo l'importanza della salute per la pace, la sicurezza e lo

sviluppo socioeconomico, e la loro interdipendenza” [9].

Dal punto di vista giuridico, due questioni hanno particolare rilevanza e sono strettamente

collegate nel dibattito attuale sul legame tra i brevetti in ambito medico e il diritto umano alla

salute: la questione dell'accesso ai farmaci, centrale in ogni considerazione del diritto umano

alla salute, e la questione se i farmaci possano e debbano essere brevettabili [10].

Nel 1997 l'OMS ha pubblicato il primo elenco dei medicinali essenziali (EML) in risposta alla

risoluzione dell'Assemblea mondiale della sanità WHA28.66, la quale invitava l'OMS stessa ad

assistere gli Stati membri nella selezione e nell'acquisto di medicinali essenziali di qualità e a

costi accessibili. Sono state successivamente pubblicate diverse revisioni della lista, nelle quali

criteri di selezione si sono evoluti da un approccio basato sull'esperienza ad un approccio

basato sulle prove e che tiene conto della pertinenza, dell'efficacia, della sicurezza e

dell'efficienza economica per la salute pubblica [11].

La EML fornisce un modello per la maggior parte degli elenchi nazionali di medicinali nei vari

paesi, ed è una componente chiave delle politiche mediche nazionali e delle iniziative nazionali

per l'accesso ai medicinali. Le divergenze tra la EML e gli elenchi nazionali sono causate

principalmente dalle differenze nei modelli di morbilità locale e regionale, dagli sfasamenti

temporali dovuti a nuove aggiunte e dalle valutazioni del rapporto costo-efficacia a livello

nazionale. La maggior parte dei medicinali delle versioni della EML fino al 2015 è stata

storicamente non coperta da brevetto. L'inclusione nella EML 2015 di nuovi trattamenti

brevettati ad alto costo per l'epatite C, la tubercolosi multi-farmacoresistente e i tumori ha

costituito un’importante evoluzione [12, 13].

Nel settembre 2016 il gruppo di lavoro di esperti del Segretariato Generale delle Nazioni Unite

sull'accesso ai medicinali ha pubblicato il rapporto "Promoting innovation and access to health

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technologies"[14]. Il rapporto affronta quattro aree principali: innovazione e accesso alle

tecnologie sanitarie; leggi sulla proprietà intellettuale e accesso alle tecnologie sanitarie; nuovi

incentivi per la ricerca e lo sviluppo delle tecnologie sanitarie; governance, responsabilità e

trasparenza. Il gruppo di lavoro ha emanato 30 raccomandazioni destinate alle Nazioni Unite,

ad altre organizzazioni multilaterali, ai governi dei paesi membri e a imprese private.

Nel novembre 2016 la Commissione di The Lancet sulle politiche dei farmaci essenziali ha

pubblicato il rapporto "Medicinali essenziali per la copertura sanitaria universale" [15]. La

Commissione ha mostrato che l'accesso ai medicinali è fonte di preoccupazione a livello

globale ed ha approfondito vari aspetti connessi alla proprietà intellettuale. Secondo alcuni

autori "la proprietà intellettuale non ha alcun ruolo nella mancanza di accesso" ai medicinali

che figurano nell'elenco dei medicinali essenziali, per cui "le soluzioni basate sulla proprietà

intellettuale non saranno utili"[16].

Mentre il gruppo di esperti delle Nazioni Unite sull'accesso ai medicinali è stato incaricato di

proporre soluzioni per affrontare l'accesso ai medicinali dal punto di vista dell'allineamento dei

diritti umani, del commercio, della proprietà intellettuale e degli obiettivi di sanità pubblica, la

commissione di The Lancet (v. oltre), invece, aveva un mandato più ampio, ovvero esaminare

l'accesso ai medicinali in un’ottica esaustiva di un sistema sanitario, coprendo tutti gli aspetti

del finanziamento, dell'accessibilità economica, della qualità, dell'uso e dell'innovazione

essenziale.

L'immunoterapia per la cura del cancro e gli agenti antivirali ad azione diretta (DAA) per il

virus

dell'epatite C (HCV) sono esempi tipici di trattamenti straordinariamente innovativi ed efficaci,

con tuttavia costi proibitivi per i sistemi sanitari.

Il tema del costo dei farmaci DAA per il trattamento dell’HCV nei paesi sviluppati è

particolarmente significativo. Nell'ottobre 2016 l'OMS ha pubblicato il primo rapporto globale

in assoluto sull'accesso ai farmaci anti-HCV che evidenzia le sfide e le possibilità di un ampio

accesso ai trattamenti [17]. Il rapporto mostra come la volontà politica, il patrocinio della

società civile e le trattative sui prezzi stiano aiutando ad affrontare l'epatite C, una malatti

che, negli anni precedenti la disponibilità di farmaci DAA causava circa 700.000 decessall'anno.

Riviste autorevoli (ad es. The Lancet [18] e The Lancet Infectious Disease [19]) prestano

ininterrottamente attenzione a questo problema.

Se è improbabile che il problema del costo come ostacolo all'accesso alle cure sia totalmente

annullato nel mondo intero, è, invece, probabile che politiche lungimiranti possano

promuovere, nei prossimi anni, un accesso molto largo, se non universale, ai farmaci essenziali.

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2. L'ACCORDO SUI DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE ATTINENTI AL

COMMERCIO (TRIPS)

I brevetti forniscono al titolare mezzi legali per impedire ad altri di realizzare, utilizzare o

vendere una nuova invenzione per un periodo di tempo limitato, fatte salve alcune eccezioni.

Pochi argomenti del diritto di proprietà internazionale sono stati così controversi negli ultimi

anni come la concessione di licenze obbligatorie per interventi farmaceutici brevettati.

Negli anni Ottanta del secolo scorso decine di Stati non hanno concesso la tutela brevettuale di

prodotti farmaceutici [20].

L'accordo dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) sugli aspetti dei diritti di

proprietà intellettuale (DPI) attinenti al commercio (TRIPS) [21] ha aperto una nuova e inedita

era di regole globali in materia di proprietà intellettuale: è stato un punto di svolta

nell'evoluzione della protezione della proprietà intellettuale.

L’accordo è stato negoziato durante l'Uruguay Round ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1995

[22]. Esso stabilisce norme minime di protezione per una serie di DPI, che tutti gli Stati membri

dell'OMC sono tenuti a rispettare e ad attuare attraverso la loro legislazione nazionale. Una

disposizione chiave dell'accordo TRIPS obbliga i membri dell'OMC a fornire una protezione

brevettuale obbligatoria per le invenzioni in tutti i settori tecnologici per un periodo minimo di

venti anni. Inoltre i membri dell'OMC sono stati tenuti ad attuare l'accordo TRIPS come

condizione per la loro adesione.

L'accordo TRIPS offre ai governi la flessibilità necessaria per modulare la protezione concessa

al fine di raggiungere obiettivi sociali. Per quanto riguarda i brevetti, esso consente ai governi

di prevedere eccezioni ai diritti dei titolari dei brevetti, ad esempio in caso di emergenze

nazionali, pratiche anticoncorrenziali o nel caso in cui il titolare del diritto non fornisca

l'invenzione, sempre che siano soddisfatte determinate condizioni.

L'accordo TRIPS ha causato un dilemma politico: da un lato i governi hanno accettato l'accordo

per i benefici economici dovuti all’aumento del commercio, dall'altro, l'obbligo di concedere

brevetti su medicinali e altre tecnologie sanitarie incide sulla disponibilità e l'accessibilità delle

risorse sanitarie. Inoltre, sia i trattati internazionali, sia le norme nazionali richiedono ai

governi di realizzare progressivamente il più alto livello di salute raggiungibile [23]: questo

impegno chiesto ai governi rischia di configgere con le norme riguardanti i brevetti.

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Per affrontare queste tensioni, nell'accordo TRIPS sono state incluse misure di salvaguardia:

queste "flessibilità" consentono ai firmatari di adattare e utilizzare le leggi nazionali sulla

proprietà intellettuale, le leggi nazionali sulla concorrenza, i regolamenti riguardanti la sanità e

le leggi sugli appalti al fine di adempiere ai loro obblighi in materia di diritti umani e di salute

pubblica. L'articolo 7, ad esempio, stabilisce che i diritti di proprietà intellettuale debbano

promuovere l'innovazione tecnologica e la diffusione della tecnologia "a reciproco vantaggio

dei produttori e degli utenti [....] in modo da favorire un benessere sociale ed economico e un

equilibrio tra diritti e obblighi". L'articolo 8, paragrafo 1, stabilisce che "I membri possono, nel

formulare o modificare le loro leggi e regolamenti, adottare le misure necessarie per

proteggere la salute pubblica e l'alimentazione e per promuovere l'interesse pubblico in settori

di vitale importanza per il loro sviluppo socioeconomico e tecnologico, purché tali misure siano

coerenti con le disposizioni del presente accordo”.

In particolare, le flessibilità dell'accordo TRIPS comprendono:

- Importazioni parallele (art. 6): Le merci legittimamente immesse su un altro mercato possono

essere importate da un altro mercato senza l'autorizzazione del titolare del diritto a causa

dell'esaurimento dei diritti esclusivi di commercializzazione del titolare del brevetto.

- Criteri di brevettabilità (art. 27): I membri dell'OMC possono sviluppare le proprie definizioni

di "novità", "attività inventiva" e "applicazione industriale". I governi possono rifiutare di

concedere brevetti per tre motivi che possono riguardare la salute pubblica: invenzioni il cui

sfruttamento commerciale deve essere impedito per proteggere la vita o la salute umana,

animale o vegetale (art. 27.2); metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici per il trattamento

di esseri umani o animali (art. 27.3a); alcune invenzioni vegetali e animali (art. 27.3b).

- Eccezioni generali (art. 30): I governi possono prevedere limitate eccezioni ai diritti di

brevetto, purché siano soddisfatte determinate condizioni. Ad esempio, le eccezioni non

devono entrare "irragionevolmente" in conflitto con il "normale" sfruttamento del brevetto.

- Licenza obbligatoria (art. 31): Le licenze non volontarie possono essere concesse ad un terzo

da un organo amministrativo, para-giudiziario o giudiziario debitamente autorizzato a

utilizzare un'invenzione brevettata senza il consenso del titolare del brevetto,

subordinatamente al pagamento di un adeguato compenso a seconda delle circostanze. La

licenza obbligatoria è uno strumento particolarmente rilevante ed è brevemente discusso nel

paragrafo 4.

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- Uso pubblico (art. 31): Un'autorità governativa può decidere di utilizzare un brevetto, senza il

consenso del titolare del brevetto stesso, per scopi pubblici e non commerciali,

subordinatamente al pagamento di una remunerazione adeguata nelle circostanze di ciascun

caso.

- Disposizioni in materia di concorrenza (art. 8, 31(k), 40): I membri possono adottare misure

adeguate per prevenire o porre rimedio a pratiche anticoncorrenziali. Le misure

comprendono le licenze obbligatorie rilasciate sulla base di comportamenti

anticoncorrenziali e il controllo delle licenze anticoncorrenziali.

- Periodi di transizione (artt. 65, 66): I paesi meno sviluppati non sono tenuti a fornire brevetti o

protezione dei dati in generale fino al 1° luglio 2021 e, per i prodotti farmaceutici, non sono

tenuti a concedere o far valere brevetti o protezione dei dati fino al 1° gennaio 2033, o a una

data successiva, come convenuto dai membri dell'OMC.

3. LA DICHIARAZIONE DI DOHA (2001)

Alla fine degli anni '90, i crescenti tassi di infezione da HIV e i prezzi elevati delle terapie

contro

l'HIV indussero il governo sudafricano ad approvare l’emendamento n. 90/1997 sul controllo

dei farmaci e delle sostanze affini. La modifica ha permesso la sostituzione generica dei farmaci

non protetti da brevetto, prezzi trasparenti per tutti i farmaci e l'importazione parallela di

farmaci brevettati. In risposta, nel 1998, l'Associazione sudafricana dei produttori farmaceutici

e 40 (poi 39, a seguito di una fusione) ditte (prevalentemente multinazionali) intentarono una

causa contro il governo sudafricano, sostenendo che la legge violava sia l'accordo TRIPS, sia la

costituzione del paese. Le imprese erano sostenute dal governo degli Stati Uniti e dalla

Commissione Europea. In seguito, la forte pressione dell’opinione pubblica indusse il governo

degli Stati Uniti a ritirare l’appoggio al processo e conseguentemente, anche le ditte

rinunciarono alla causa [24].

La flessibilità in merito ai brevetti farmaceutici è stata chiarita e rafforzata a livello

internazionale dalla dichiarazione di Doha su TRIPS e sanità pubblica (2001) [25].

In quel periodo e a livello globale, la pandemia di AIDS aveva messo in risalto il fatto che i

membri dell'OMC non avessero ancora raggiunto un consenso su come interpretare e

applicare le flessibilità previste dall'accordo [26].

La quarta conferenza ministeriale dell'OMC, tenutasi a Doha, ha risposto alle preoccupazioni in

materia di sanità pubblica relative alle epidemie di HIV/AIDS e all'accesso alle cure. I firmatari

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della Dichiarazione di Doha hanno riconosciuto "la gravità dei problemi che affliggono la salute

pubblica di molti paesi in via di sviluppo e meno sviluppati, in particolare quelli risultanti da

HIV/AIDS, tubercolosi, malaria e altre epidemie"; hanno sottolineato la necessità che l'accordo

TRIPS "faccia parte dell'azione nazionale e internazionale più ampia per affrontare questi

problemi"; hanno riconosciuto "che la protezione della proprietà intellettuale è importante per

lo sviluppo di nuovi farmaci", ma anche espresso "preoccupazioni circa i suoi effetti sui prezzi".

La Dichiarazione di Doha è una pietra miliare nel dibattito sui diritti di proprietà intellettuale e

sull'accesso ai medicinali e evidenzia che i TRIPS "possono e devono essere interpretati e

attuati" per sostenere il "diritto di proteggere la salute pubblica [e] promuovere l'accesso ai

medicinali per tutti", compresa la determinazione sovrana dei motivi in base ai quali possa

essere rilasciata una licenza obbligatoria [27].

3.1. Licenze obbligatorie

Come riassunto sopra, nel quadro dell'accordo TRIPS, i membri dell'OMC hanno mantenuto

una notevole flessibilità in materia di sanità pubblica. La flessibilità può essere utilizzata per

adattare leggi locali, politiche e pratiche in materia di proprietà intellettuale al fine di

soddisfare gli obiettivi in merito a diritti umani e sanità pubblica. Esse includono la possibilità

di rilasciare licenze obbligatorie, determinare i criteri di brevettabilità, licenze volontarie,

autorizzare l'importazione parallela, applicare eccezioni generali e utilizzare il diritto della

concorrenza per limitare e porre rimedio all'abuso dei diritti di proprietà intellettuale nella

legislazione nazionale.

Le licenze obbligatorie sono uno strumento politico importante per le autorità governative per

promuovere l'accesso alle tecnologie sanitarie. Con una licenza obbligatoria, un governo

impone i termini in base ai quali una licenza su un prodotto brevettato possa essere utilizzata

in quel paese da terzi senza il consenso del titolare del brevetto. Mentre lo Stato nega ai

titolari del brevetto un monopolio, non nega loro un compenso in quanto il beneficiario della

licenza paga una royalty.

L'accordo consente la concessione di licenze obbligatorie nel quadro del tentativo generale

dell'accordo di trovare un equilibrio tra la promozione dell'accesso ai farmaci esistenti e la

promozione della ricerca e dello sviluppo di nuovi farmaci.

Va notato che l'espressione "licenza obbligatoria" non compare nell'accordo TRIPS.

L'espressione "altro uso senza autorizzazione del titolare del diritto" appare invece nel titolo

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dell'articolo 31. La licenza obbligatoria è solo una parte di ciò, poiché "altro uso" include l'uso

da parte dei governi per i propri scopi.

3.2. Licenze volontarie

Oltre alle flessibilità TRIPS, sono disponibili molti altri strumenti per migliorare l'accesso ai

trattamenti.

Le licenze volontarie possono essere uno strumento significativo per ampliare l'accesso ai

trattamenti [28]; esse sono contratti privati, tra titolari dei diritti e terzi, al fine di facilitare

l'ingresso sul mercato di terapie più economiche. Con le licenze volontarie il titolare dei diritti

mantiene in parte il controllo del mercato selezionando i paesi in cui le licenze volontarie sono

negoziate e concluse. I termini e le condizioni delle licenze volontarie includono, ad esempio, il

numero di pazienti da curare, i tipi di fornitori da cui devono essere acquistati i principi attivi

farmaceutici e l'importo dei diritti d'autore versati.

Spesso le limitazioni geografiche sono un aspetto negativo delle licenze volontarie: i titolari dei

diritti si riservano la prerogativa di individuare i paesi in cui intendano vendere il prodotto

direttamente o attraverso altri accordi. Nonostante l'incidenza delle malattie (e, in alcuni casi,

anche i livelli elevati di disuguaglianza di reddito), i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo

con livelli relativamente elevati di reddito pro capite sono di solito esclusi dal campo di

applicazione delle licenze.

4. PROPOSTE RELATIVE AI DIRITTI DI PROPRIETA’ INTELLETTUALE NEL

SETTORE

FARMACEUTICO

Poiché i medicinali protetti da brevetto hanno prezzi stabiliti dall’industria che li ha prodotti in

condizioni di monopolio, i loro alti margini di profitto li rendono inaccessibili per i pazienti che

vivono in Paesi con risorse limitate e comunque mettono a rischio la sostenibilità di sistemi

sanitari pubblici, anche di Paesi relativamente ricchi.

Dato che i sistemi di protezione della proprietà intellettuale impediscono ai produttori di farmaci

generici di offrire copie a basso costo dei nuovi farmaci prima della scadenza brevettuale, la

domanda è se il creatore di un farmaco salvavita debba avere l'autorità legale per negare

effettivamente questo farmaco a coloro che non possono permetterselo.

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D’altra parte va sottolineato come potrebbe essere il mondo se non premiassimo le innovazioni

farmaceutiche attraverso i brevetti. In un mondo del genere, è improbabile che una ricerca

farmaceutica innovativa da parte industriale abbia luogo, poiché gli investimenti in ricerca e

sviluppo si tradurrebbero quasi sempre in perdite economiche, non appena i concorrenti, liberi

dal sistema dei diritti di proprietà intellettuale, copiassero le loro invenzioni e offrissero

il prodotto a prezzi più bassi, non dovendo recuperare i costi di ricerca e sviluppo.

E' importante ricordare che esistono due ordini di problemi quando si parla di accesso ai farmaci

salvavita. In primo luogo, a causa dei poteri monopolistici in materia di prezzi concessi agli

innovatori per un periodo di tempo considerevole, le persone più svantaggiate non possono

permettersi medicinali che sono ancora protetti da brevetto. Si tratta di un problema di

accessibilità (cioè, i medicinali hanno un prezzo che va oltre la portata dei poveri). Tuttavia, la

tutela brevettuale non è l'unico problema che mette in pericolo la salute dei Paesi più poveri nel

contesto dell'innovazione farmaceutica. Dato che l'industria farmaceutica opera quasi

esclusivamente nel settore “profit”, scarseggiano i farmaci innovativi per malattie che colpiscono

in prevalenza gli abitanti di Paesi a risorse limitate, le cosiddette ''malattie neglette''.

Riconosciuto che il problema dell’accesso ai farmaci è un problema di giustizia sociale di tipo

globale, e appurato che il soddisfacimento del diritto alla salute necessita dell’effettivo accesso ai

farmaci essenziali da dei pazienti, sottolineando che si tratta di industrie che non producono o

vendono beni di consumo qualsiasi, ma medicine fondamentali per la realizzazione

del diritto universale alla salute. E indubitabile , che l’attuale disciplina brevettuale limita de

facto l’accessibilità ai farmaci nei Paesi a risorse limitate.

Che fare quindi ? Due decenni fa, "una coalizione unica di attivisti, scienziati, uomini politici,

economisti, celebrità e leader religiosi e di comunità di tutto il mondo ha sostenuto che a nessuno

dovrebbe essere negato il trattamento salvavita (HIV/AIDS/) a causa della residenza o del

reddito. Le economie di scala hanno sostenuto una spinta verso una produzione più efficiente e

meno costosa e hanno fatto scendere i prezzi. Poi, i principali donatori (soprattutto il Global

Fund) hanno acquistato farmaci generici hanno negoziato sconti sul prezzo e sul volume degli

acquisti in grandi quantità. Nuovi meccanismi (come il Medicines Patent Pool, di cui riferiamo

più oltre) facilitano l'accesso ai brevetti per consentire una produzione generica competitiva e lo

sviluppo di prodotti migliori. La lezione proveniente dalla risposta all'HIV potrebbe essere

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utilizzata per affrontare le altre disuguaglianze di salute e di accesso ai farmaci essenziali a

livello globale. C’è bisogno di approcci innovativi basati sul concetto che i medicinali salvavita

dovrebbero essere inquadrati come beni pubblici globali" [29].

Come si è detto, nel 2015, l'OMS ha incluso nell'Essential Medicines List (EML) diversi nuovi

farmaci ad alto costo (ad esempio, farmaci oncologici e antivirali ad azione diretta per l'epatite

C) [30]. Nonostante l'entusiasmo del pubblico per questa inclusione, l'accessibilità economica da

parte dei pazienti e dei sistemi sanitari resta un problema. I governi dei Paesi più poveri hanno

ricevuto dalle clausole di flessibilità del TRIPS una giustificazione per imporre misure volte a

migliorare l'accesso ai medicinali, come l’imposizione di licenze obbligatorie [31].

Come osservano Burci e Gostin, le proposte volte a promuovere l'innovazione per lo sviluppo

dei farmaci - aumentando al tempo stesso l'accessibilità economica "- propongono di separare i

prezzi dei farmaci dai costi di ricerca e sviluppo (R&S), riducendo così la dipendenza

dell'industria dall’imporre prezzi elevati per recuperare i costi di R&S (32). Gli autori

suggeriscono che un quadro globale per un'equa ripartizione dei benefici debba raggiungere tre

obiettivi: finanziamento sostenibile, migliore definizione delle priorità e coordinamento tra gli

attori.

4.1 I principi guida.

Nel 2016 la Lancet Commission sull’accesso ai farmaci essenziali ha pubblicato il rapporto sulle

politiche esistenti, sugli strumenti per la promozione della copertura sanitaria universale e su una

agenda per uno sviluppo globale sostenibile [15]. La Commissione ha individuato cinque settori

cruciali per le politiche in materia di medicinali essenziali: fornire un paniere di medicinali

essenziali; rendere accessibili i medicinali essenziali; garantire la qualità e la sicurezza dei

medicinali; promuovere l'uso di medicinali di qualità e ampliare l’offerta di medicinali essenziali

mancanti. Le raccomandazioni della Commissione sull’accesso ai medicinali essenziali sono

elencate di seguito:

I governi e i sistemi sanitari nazionali devono prevedere un finanziamento adeguato per

garantire l'inclusione dei medicinali essenziali nei pacchetti di prestazioni del settore

pubblico e in tutti i regimi di assicurazione sanitaria.

I governi e i sistemi sanitari nazionali devono attuare politiche che riducano l'ammontare

della spesa out-of-pocket per i medicinali.

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La comunità internazionale deve adempiere ai propri obblighi in materia di diritti umani per

sostenere i governi dei paesi a basso reddito nel finanziamento di un pacchetto di base di

farmaci essenziali per tutti, se questi non sono in grado di farlo a livello nazionale.

I governi e i sistemi sanitari nazionali devono investire nella capacità di monitorare

accuratamente la spesa per i farmaci, in particolare i farmaci essenziali, sia nel settore

pubblico che in quello privato, disaggregati tra spese prepagate e spese vive, e tra

importanti popolazioni chiave.

Le raccomandazioni della Commissione per rendere più accessibili i medicinali essenziali sono

le seguenti:

I governi e i sistemi sanitari devono creare e mantenere sistemi di informazione per un

monitoraggio sistematico dei dati sull'accessibilità economica dei farmaci essenziali, nonché

sui prezzi e sulla disponibilità, nei settori pubblico e privato.

I governi devono attuare una serie completa di politiche per ottenere prezzi accessibili per i

medicinali essenziali.

I governi e i sistemi sanitari devono sviluppare la capacità nazionale di creare sistemi che

portino all' acquisto e al rimborso di farmaci essenziali a prezzi accessibili.

I governi, i sistemi sanitari nazionali e l'industria farmaceutica devono promuovere la

trasparenza condividendo informazioni sanitarie e sui medicinali.

4.2. I Partenariati pubblico-privato per lo sviluppo di farmaci (PDP)

Malattie infettive e neglette quali tripanosomiasi, leishmaniosi, tubercolosi, colera, malaria,

HIV/AIDS, causano un immenso carico di sofferenza in tutto il mondo, affliggendo più della

metà della popolazione mondiale e in particolare quella che vive in Africa e in Asia. Milioni di

persone in queste aree in particolare, ma non solo, sono troppo povere per accedere ai prodotti

delle più moderne ricerche scientifiche: I Partenariati pubblico-privato per lo sviluppo del

prodotto (Product Development Partnership - PDP) sono per definizione delle organizzazioni

non governative che – in collaborazione con diversi partner provenienti dal mondo accademico,

dal mondo governativo, dall’industria privata e dal mondo della filantropia - sviluppano farmaci

e strumenti innovativi e a prezzi abbordabili per le popolazioni colpite da malattie legate alla

povertà e da malattie tropicali neglette, concentrandosi sui bisogni non soddisfatti dei pazienti e

progettando prodotti specifici per i paesi a basso e medio reddito con un elevato carico di

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malattia. Sebbene non abbiano come scopo principale il profitto, ma piuttosto il miglioramento

della salute pubblica, i PDPs utilizzano pratiche del settore privato (portfolio approach) nelle

loro attività di Ricerca & Sviluppo, per accelerare lo sviluppo di un prodotto e permettendo solo

ai prodotti più promettenti di andare avanti. I PDPs così consentono lo sviluppo e la fornitura di

nuovi farmaci, contribuendo a salvare milioni di vite umane e contemporaneamente offrendo alle

aziende farmaceutiche vantaggi in termini di reputazione (Corporate Social Responsibility,

CSR), connessioni con paesi in via di sviluppo, accesso a nuovi ed emergenti mercati.

Sebbene nati in origine per malattie legate alla povertà e malattie tropicali neglette – oggi i PDPS

non devono necessariamente esser limitati a queste, anzi: un loro auspicabile ed innovativo

utilizzo deve necessariamente includere anche le malattie cronico-degenerative quali ad esempio

cancro, diabete, malattie cardiovascolari.

4.3. Le flessibilità del trattato TRIPS

La Dichiarazione di Doha, come ricordato sopra, ribadisce il diritto sovrano dei governi a

prendere misure per la protezione della salute pubblica. Essa inoltre riconosce le crescenti

preoccupazioni per l'HIV e altre malattie; stabilisce la priorità delle preoccupazioni riguardanti la

salute pubblica rispetto ai DPI; sostiene le interpretazioni dei TRIPS che consentono ai governi

di adottare le misure necessarie per proteggere la salute delle loro popolazioni; definisce piani

per far fronte alla particolare situazione dei PMS e dei paesi che non hanno la capacità di

produrre i propri farmaci.

La Dichiarazione di Doha conferma che le flessibilità dei TRIPS non sono eccezioni ma,

piuttosto, una parte fondamentale del meccanismo dei TRIPS.

In particolare, nella Dichiarazione si riconosce che "ogni membro ha il diritto di concedere

licenze obbligatorie e la libertà di determinare i motivi su cui tali licenze sono concesse" e "per

stabilire cosa costituisca un'emergenza nazionale o altre circostanze di estrema urgenza". Le crisi

sanitarie pubbliche comprendono "quelle relative all'HIV/AIDS, alla tubercolosi, alla malaria e

ad altre epidemie" e "altre circostanze di estrema urgenza". La Dichiarazione di Doha presta

particolare attenzione ai membri dell'OMC con capacità di produzione insufficienti o inesistenti

nel settore farmaceutico e riconosce che "potrebbero incontrare difficoltà nell'uso effettivo delle

licenze obbligatorie nell'ambito dell'accordo TRIPS".

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4.4. Il modello del Medicines Patent Pool

Il Medicines Patent Pool (MPP) [https://medicinespatentpool.org] è un'organizzazione

internazionale di sanità pubblica che opera per aumentare l'accesso ai medicinali salvavita per i

paesi a basso e medio reddito attraverso un modello di concessione volontaria di licenze e di

pooling dei brevetti. Il meccanismo di finanziamento globale per la salute UNITAID, ha istituito

il MPP nel 2010 su richiesta della comunità internazionale.

Attualmente, MPP negozia con i titolari di brevetti per ottenere licenze per i medicinali contro

l'HIV, l'epatite C e la tubercolosi. Queste licenze consentono alle aziende farmaceutiche

generiche di produrre e vendere, nei paesi in via di sviluppo, medicinali brevettati. Le licenze

offrono anche la libertà di sviluppare nuovi trattamenti più adatti a contesti con risorse limitate,

come le formulazioni pediatriche e le combinazioni a dosaggio fisso. La concorrenza tra molti

produttori fa scendere i prezzi, il che a sua volta favorisce l'aumento della scala dei trattamenti.

Il lavoro del MPP pool di brevetti sui medicinali dipende da partenariati con un'ampia gamma di

soggetti interessati, tra cui la società civile, le organizzazioni internazionali, l'industria, i governi

e i gruppi di pazienti. La collaborazione con le società holding di brevetti, le università e gli

istituti di ricerca è fondamentale per il suo successo. Finora il MPP ha firmato licenze con nove

titolari di brevetti a livello mondiale.

Il MPP è partner di organizzazioni internazionali, governi e società civile. Il MPP e

l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ad esempio, preparano previsioni congiunte per

prevedere le future esigenze di trattamento.

MPP lavora a stretto contatto con i governi, la società civile e i gruppi di pazienti per

comprendere le esigenze terapeutiche, gli attuali ostacoli all'aumento delle cure, i prezzi correnti

sul mercato e le opzioni di acquisto.

MPP lavora per affrontare una sfida fondamentale per garantire un'equa distribuzione delle cure

nei paesi a basso e medio reddito - la necessità di un modello collaborativo che consenta la

condivisione della proprietà intellettuale.

- I brevetti hanno lo scopo di premiare la scoperta del trattamento fornendo agli innovatori

l'esclusività.

- Le licenze su prodotti brevettati consentono la produzione o la vendita di medicinali a prezzi

accessibili e di qualità garantita da più produttori per l'uso nei paesi in via di sviluppo.

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- Le licenze facilitano inoltre lo sviluppo di nuove formulazioni e combinazioni a dosaggio

fisso per adulti e bambini.

- MPP negozia licenze volontarie per i medicinali brevettati per incoraggiare il massimo

impatto sulla salute pubblica.

- I termini e le condizioni vanno a vantaggio di un'ampia fascia di paesi in via di sviluppo. Le

licenze non sono esclusive, non restrittive per incoraggiare la concorrenza dei generici,

abbassare i prezzi e sostenere l'aumento delle cure.

- I titolari di brevetti e gli sviluppatori di prodotti hanno un modo efficace di condividere i

loro prodotti innovativi con i paesi a risorse limitate attraverso accordi di licenza volontaria

con MPP.

- Oltre ad avere la possibilità di ricevere royalty eque, le imprese possono contare sul MPP

per gestire efficacemente i progetti di sviluppo dei loro sublicenziatari, garantendo versioni

generiche di qualità dei prodotti originator.

- Le licenze comprendono deroghe all'esclusività dei dati e trasferimenti di tecnologia per

accelerare la registrazione dei prodotti generici. Per le aziende farmaceutiche generiche, una

licenza dell'MPP consente l'accesso a un ampio mercato nei paesi a basso e medio reddito.

- L'MPP elimina inoltre la necessità per le aziende di condurre trattative separate con più

titolari di brevetti, fornendo uno "sportello unico" per ottenere licenze per i farmaci contro

l'HIV, l'epatite C e la tubercolosi.

MPP concede in licenza i diritti di produrre e vendere i farmaci generici equivalenti a produttori

e sviluppatori di prodotti farmaceutici generici di alta qualità. A differenza di alcuni accordi

bilaterali, le licenze MPP non sono esclusive e favorevoli alla concorrenza. Le licenze sono

compatibili con l'uso della flessibilità dell'accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale

attinenti al commercio (TRIPS) e comprendono nella maggior parte dei casi disposizioni che

consentono alle imprese generiche di vendere al di fuori del territorio concordato se non violano

un brevetto.

I termini e le condizioni di licenza sono trasparenti e sono pubblicati sul sito web di MPP. Le

società di origine che concedono una licenza MPP sono tenute a divulgare le informazioni sui

brevetti aziendali. Infine, le licenze non sono restrittive, consentendo ai partner generici di

combinare farmaci diversi e di sviluppare combinazioni a dosaggio fisso.

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Infine, MPP sostiene l'obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per la salute

accelerando l'accesso alle versioni generiche dei medicinali essenziali nei paesi a basso e medio

reddito.

Nel maggio 2018, il MPP ha lanciato la sua strategia 2018-2022 per migliorare i risultati sanitari

nei paesi a basso e medio reddito. Approvata dal Consiglio di MPP, la nuova strategia

quinquennale fissa obiettivi ambiziosi per aumentare l'accesso ai farmaci contro l'HIV, l'epatite

C e la tubercolosi nei paesi in via di sviluppo. Sulla base dei risultati di uno studio di fattibilità, il

piano prevede anche l'estensione del mandato del MPP ad altri farmaci brevettati ad alto

valore medico, a cominciare dalle molecole che figurano nell'elenco dei medicinali

essenziali (EML, Model List of Essential Medicines) dell'Organizzazione mondiale della sanità.

E’ intuitivo che il sistema utilizzato da MPP per farmaci diretti contro grandi epidemie potrebbe

essere esteso anche per creare accesso ad altri farmaci essenziali, inclusi quelli per le malattie

croniche non trasmissibili.

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CAPITOLO 2. IL PROBLEMA DELL’ELEVATO PREZZO DEI

MEDICINALI

2.1 I FARMACI SERVONO, L’INDUSTRIA FARMACEUTICA PURE. TUTTAVIA…

Negli ultimi decenni, l’introduzione di nuovi farmaci innovativi ha migliorato la sopravvivenza e la

qualità vita di milioni di pazienti in tutto il mondo. Farmaci straordinari hanno cambiato la storia

naturale di malattie come l'AIDS e promettono di modificare la storia naturale di molte malattie

infettive (come l’epatite virale da virus HCV) e di molte malattie croniche, inclusi alcuni tipi di

cancro. Negli ultimi 15 anni, ad esempio, il tasso di sopravvivenza a 5 anni di pazienti con leucemia

mieloide cronica è passata da meno del 20% a oltre il 90%. Tra l’altro, alcuni farmaci sono in grado

di abbattere i costi sanitari a valle della malattia, prevenendo le complicazioni evitabili o

ritardandone la progressione, con impatti importanti su occupazione e produttività.

Nonostante questi innegabili progressi, sia i responsabili politici dei Paesi che hanno sistemi sanitari

che rimborsano i medicinali utilizzati dai pazienti sono sempre più preoccupati dalla reale

sostenibilità del sistema. D’altra parte, se è vero che il processo di R&S è costoso e complesso ma

non c’è dubbio che i costi affrontati dall’industria sono spesso illustrati in modo opaco. E che ci

sono domande legittime sul grado di reale innovazione offerto da alcuni trattamenti.

E, infine, che alcuni prezzi sono e saranno stabiliti in base al prezzo pagato da operazioni

finanziarie, cioè dall’acquisizioni da parte di grandi industrie farmaceutiche, di aziende più piccole

che però hanno sviluppato farmaci innovativi. Sono storia recente acquisizioni costate fino 74

miliardi di dollari. E’ ovvio che il prezzo di molti farmaci innovativi sono e saranno collegati alle

operazioni finanziarie, alla necessità di “rientrare” dall’investimento, e non a un reale processo di

“drug discovery” seguito da una effettiva attività di ricerca e sviluppo.

Insomma, come garantire, insieme, lo sviluppo di importanti innovazioni farmaceutiche, garantendo

nel contempo un accesso sostenibile. In altre parole, come garantire un accesso adeguato ai nuovi

medicinali a tutti coloro che ne hanno bisogno (ad un costo ragionevole) pur mantenendo gli

incentivi all'innovazione ?

L'industria farmaceutica svolge un ruolo importante in diverse economie dell'OCSE,

e dà lavoro a più di 1,2 milioni di persone. L'industria rappresenta quindi una quota significativa

(0,8-0,9%) del totale dell'occupazione. Nel 2016, la spesa farmaceutica al dettaglio in Europa ha

rappresentato il 16,5% della spesa sanitaria corrente. In media, nei paesi OCSE, ciò rappresenta

l'1,4% del PIL.

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E’ noto che l’attività di R&S farmaceutica è soggetta a rischi, è costosa, e che il tempo medio tra la

deposizione di un brevetto fino all’entrata in commercio del farmaco è di circa 10 anni. Anche se il

contributo del settore pubblico è significativo, gran parte del rischio e dei costi sono a carico di

imprese private e investitori. Anche perché la probabilità di ottenere l'autorizzazione all'immissione

in commercio di un farmaco che entri nella fase I di sperimentazione clinica varia dal 7% al 45%, a

seconda del tipo di farmaco e del processo di approvazione. Insomma, la produttività della R&S

farmaceutica, misurata sull’ investimento per ogni farmaco approvato, è diminuita nel tempo.

Tuttavia, va segnalato che l’arrivo della medicina di precisione e l’individuazione di target

molecolari specifici potrebbe paradossalmente far calare i prezzi, perché la ricerca farmaceutica

diventerà più mirata, sia in termini di potenziale efficacia che in termini di tossicità, che oggi è più

prevedibile grazie alla in silico toxicology.

Nonostante un rallentamento della crescita negli anni 2000, la spesa farmaceutica è in

forte aumento, soprattutto in alcune aree terapeutiche, come l'oncologia e le malattie rare. Per

l’anno 2024 è prevista una spesa globale che supera 1200 miliardi di dollari.

I principali determinanti dell’aumento della spesa farmaceutica sono rappresentati da:

o Arrivo di innovazioni straordinarie, tuttavia associate a prezzi esorbitanti (ad esempio

nell’area oncologica, onco-ematologica e nell’area delle malattie rare);

o Schemi terapeutici che associano più farmaci ad alto costo con conseguente raddoppio della

spesa;

o Invecchiamento della popolazione;

o Incremento del numero dei pazienti in trattamento in linee terapeutiche successive alla

prima;

o Cronicizzazione dei pazienti in trattamento;

o Fenomeni di non appropriatezza prescrittiva ;

o Invarianza dei prezzi dei farmaci per una insufficiente concorrenzialità nel mercato.

D’altra parte, l'innovazione è ancora carente in alcune aree ad alto fabbisogno, come ad esempio i

nuovi farmaci antimicrobici (per contrastare il preoccupante fenomeno globale della resistenza agli

antibiotici), l’Alzheimer e altre demenze non vascolari, e alcune malattie rare.

2.2. CENNI SULLA DETERMINAZIONE DEL PREZZO DEI FARMACI

Nei Paesi, come gli Stati Uniti, la cui sanità è prevalentemente “privata”, in cui il prezzo del

farmaco è libero, cioè non soggetto a contrattazione con le istituzioni deputate a rimborsarlo, il

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prezzo di un nuovo farmaco viene stabilito dall’azienda produttrice che ne detiene il brevetto in

base a regole che si avvicinano a quelle usate per qualsiasi altro bene di consuma: da una parte il

valore percepito (in genere dagli utilizzatori, in questo caso medici e pazienti), dall’altra il margine

di guadagno che l’industria intende ottenere. Oltre al cosiddetto “burden of disease”, cioè al numero

di potenziali utilizzatori (vastissima per i farmaci cardiovascolari, minima per alcune malattie rare).

Infine, ovviamente, a quella che si chiama “ability to pay”, cioè che ci sia la possibilità di pagare

per quel prodotto farmaceutico. E’ chiaro che questa determinazione del prezzo è solo in parte

collegata ai reali costi dell’invenzione, alle attività di ricerca e sviluppo e ai costi di produzione. Nei

casi limite già ricordati nei quali la disponibilità del farmaco derivi da un investimento finanziario

importante, il prezzo sarà determinato soprattutto dalla necessità di recuperare il capitale investito.

Un esempio ormai paradigmatico è quello del primo farmaco contro l’epatite C.

Gli Stati che invece dispongono di un Sistema Sanitario che rimborsa i farmaci, è il caso del nostro

Paese che si è dotato di uno straordinario Sistema Sanitario Nazionale universalistico, la situazione

è diversa. Perché viene utilizzata una combinazione di strumenti per regolare i prezzi e determinare

il rimborso delle medicine, che è a carico della fiscalità generale, in pratica a carico dei contribuenti

che pagano le tasse.

Questi Paesi utilizzano una combinazione di diversi strumenti, il più comune dei quali è quello del

benchmarking internazionale (basando il prezzo che un paese paga per un farmaco su quello che

altri Paesi stanno pagando). Tuttavia il prezzo rimborsato è spesso diverso da Paese a Paese, in

quanto risulta da un insieme di fattori quali il sistema assicurativo di accesso al farmaco, il

consumo, la ricchezza nazionale. La media, aritmetica o ponderata sulla popolazione, dei prezzi

europei non può quindi misurare l’equità di un prezzo, ma è semplicemente una misura statistica

utile per informarci circa la variabilità nel tempo e nello spazio dei prezzi in ambito comunitario. E’

ovvio che questa modalità di definire il prezzo di rimborso non può valere in modo assoluto, perché

diversa è la possibilità di rimborsare tra Paesi con economie diverse. E il cosiddetto “prezzo medio

europeo” male si attanaglia ai farmaci innovativi che arrivano per la prima volta. Non si può sempre

aspettare che altri Paesi lo rimborsino per capire come muoversi.

Gli strumenti più avanzati utilizzano le analisi costo-beneficio, spesso realizzate attraverso l’Health

Technology Assessment (HTA), valutando aspetti come il “place in therapy” (cioè la valutazione di

come si pone il nuovo farmaco rispetto ai farmaci già sul mercato) e la capacità di un nuovo

farmaco di aumentare la sopravvivenza di un paziente, aggiustata sulla qualità di vita. Alcuni Paesi,

ad esempio il Regno Unito, utilizzano un prezzo massimo di riferimento, basato sull’entità del

beneficio osservato negli studi registrativi, basato sul QUALY (Quality Adjusted Life Years): ad

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ogni QUALY riconosco un valore economico massimo. La difficoltà a questo punto è nella

misurazione e comparazione dei QUALY, quando non si tratti semplicemente di valutare l’aumento

della sopravvivenza.

Un’altra modalità di negoziare il prezzo di un farmaco innovativo è basata sui cosiddetti Managed

Entry Agreements (MEA), strumenti sia finanziari (tipo la metodica del prezzo/volume o il

payback), sia “clinici”, nel senso che prevedono la rimborsabilità di un farmaco a determinate

condizioni: ad esempio che risulti effettivamente efficace a costo di non essere più rimborsato o

rimborsato in misura minore se si rivelasse meno efficace di quanto atteso (payment by result). I

MEA sono utilizzati in molti Paesi, ma la loro attuazione non è sempre ideale, per la difficoltà della

misurazione dei risultati e sono limitati a prodotti innovativi il cui rapporto costo/efficacia sia

incerto al momento dell’autorizzazione all’immissione in commercio, mentre prove aggiuntive

raccolte nel corso della commercializzazione possono far luce sul loro effettivo valore. In pratica,

si concordano prezzi di default inizialmente bassi, con eventuali aumenti di prezzo o pagamenti

supplementari, se e quando saranno disponibili elementi di prova ulteriori che dimostrino che gli

obiettivi prestazionali predefiniti sono stati raggiunti. Idealmente, questi accordi incentivano le

imprese a dimostrare, con dati solidi, spesso ottenuti in studi nel “mondo reale”, cioè nella pratica

clinica, le “prestazioni” dei loro prodotti. Ovviamente, questo allargamento delle prove “a favore”

non dovrebbero soppiantare il valore degli studi randomizzati e controllati che restano la fonte

primaria delle prove da cui valutare efficacia, sicurezza ed economicità.

Più recentemente, sta prendendo piede il cosiddetto “value-based pricing” cioè la valutazione del

prezzo basato sul valore complessivo del farmaco in termini di salute, parametrando il tutto anche

sulla possibilità di abbattere costi sanitari che stanno a valle della malattia. Si tratta di introdurre

una prospettiva di "sistema", con una valutazione che include anche il valore sociale del farmaco e

il suo impatto sulla salute di popolazione. Certo, se non bilanciato anche da una valutazione dei

costi sostenuti, e del potenziale bacino di utilizzatori, il value-based pricing potrebbe portare (e in

qualche caso è successo) alla fissazione di prezzi straordinariamente alti.

Infine, occorre tener presente la frequente evoluzione della storia “clinica” di un farmaco, che

spesso “entra” per una specifica indicazione, che, nel tempo evolve, allargando la platea dei

possibili utenti. E’ il caso di molti farmaci, inizialmente registrati e rimborsati a prezzi altissimi per

una malattia rara (i cosiddetti orphan drugs), che poi allargano il bacino dei potenziali utenti con

nuove indicazioni cliniche. E’ chiaro che in questo caso il prezzo di rimborso fissato all’inizio

andrebbe rinegoziato.

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Poi, ovviamente, molti Paesi, il nostro non ancora in modo sostanziale, utilizzano la leva della

scadenza brevettuale, cioè l’arrivo di farmaci equivalenti o generici (per i farmaci chimici) o di

farmaci biosimilari (per i farmaci biologici) che ovviamente hanno costi più bassi.

2.3. PROPOSTE GENERALI PER IL FUTURO, A VALENZA CONTINENTALE

o Promuovere l’impiego utilizzo di farmaci generici e biosimilari.

o Valutare la possibilità di gare d’appalto congiunte.

o Creare una “Clearing House" europea con informazioni sul reale prezzo di rimborso dei

farmaci, che condivida in modo anonimo e aggregato i dati dei diversi Paesi.

o Migliorare lo scambio di informazioni tra diverse autorità per condividere le informazioni

legate ai diversi tempi di del ciclo di vita di un medicinale.

o Creazione di modelli alternativi di finanziamento per la R&S, che prevedano l’ingresso

di finanziatori pubblici in termini di Ricerca e Sviluppo (l’esempio delle Partnership

Pubblico-Privato utilizzate per le malattie neglette, che potrebbero essere estese ad altri

ambiti terapeutici).

o Introdurre il concetto di Prezzo uniforme, ad esempio, per tutti gli Stati membri dell'UE

che poi potranno settarlo in base ai diversi livelli di reddito e alla capacità contributiva dei

Paesi.

o Accelerare l'accesso al mercato per i medicinali che presentano vantaggi potenziali

significativi.

o La Food & Drug Administration (FDA) statunitense e l'Agenzia europea per i medicinali

(EMA) hanno già attuato vari percorsi di approvazione per accelerare l'accesso

al mercato per trattamenti potenzialmente in grado di modificare la storia naturale di una

malattia in modo significativo (i cosiddetti farmaci breakthrough).

o Facilitare la cooperazione nella valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA).

o Incoraggiare la cooperazione nelle trattative sui prezzi, nei contratti o negli appalti.

Questo è già in atto in una certa misura (ad esempio, l'accordo BeNeLuxAI e l’accordo di La

Valletta) aumentando il potere negoziale degli acquirenti, la concorrenza tra i venditori e

imporre una maggiore disciplina nei processi di negoziazione e di determinazione dei prezzi.

o Promuovere la concorrenza sui mercati dei brevetti.

o Esplorare la possibilità di rimborsi “a pacchetto” per patologia o area di cura, ad

esempio in oncologia.

o Promuovere la concorrenza sui mercati non coperti da brevetto.

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o Perfezionare e uniformare la metodica del Value Based pricing.

o Norme speciali quando il previsto l'impatto sul bilancio è elevato. Un esempio è il

sistema che l’Australia ha messo in atto, che prevede un approccio “all you can eat” sulle

terapie HCV, negoziando un prezzo complessivo massimo e garantito, stimato sulla platea

dei possibili beneficiari (che tuttavia possono anche aumentare, senza aggarvio di spesa).

Determinando in anticipo la magnitudo, si da’ certezza sia all’industria che alle autorità

preposte al rimborso. Si potrebbe anche cominciare a pensare a un sistema simile riflettendo

sull'auspicato avvento di uno o più trattamenti efficaci per la cura di una condizione

altamente prevalente come il morbo di Alzheimer.

o Sviluppare nuovi incentivi "push and pull" per l'innovazione, ad esempio per

incoraggiare l'innovazione in settori con “unmet needs”, come i nuovi antimicrobici che

contrastino il problema globale delle resistenze, la demenza non vascolare e le malattie rare.

o Creare Partenariati pubblico-privati per lo sviluppo di nuovi prodotti, dando priorità a

investimenti nella ricerca che non attraggono il settore privato, ma dove il settore pubblico

può contribuire in modo sostanziale allo sviluppo di prodotti specifici. In questo caso,

l'accesso a prezzi accessibili potrebbe essere garantito da licenze volontarie o dall'acquisto

di brevetti.

o Rafforzare la base informativa pubblica sui costi di ricerca e sviluppo, sganciandoli dai

costi che derivano da acquisizioni.

o Aumentare la trasparenza dei prezzi nei mercati farmaceutici. L'opacità dei mercati

farmaceutici è elevata e in aumento, sia all'interno che all'esterno delle aziende. Anche a

causa del proliferare di accordi riservati tra l'industria e gli enti pubblici che si occupano dei

rimborsi

o Horizon Scanning. Questa è un’attività essenziale affinchè gli enti e le agenzie pubbliche

che rimborsano i prezzi dei farmaci non si facciano trovare impreparati all'immissione sul

mercato e alla diffusione di nuovi medicinali: si tratta di capire per tempo “cosa sta

arrivando” in termini di medicinali innovativi (le cosiddette “pipe-line” farmaceutiche), per

valutarne e prevederne l’impatto in termini di spesa e soprattutto in termini di salute delle

persone, ma anche del potenziale impatto sui sistemi sanitari. Molti Paesi sono stati

certamente colti di sorpresa quando il primo farmaco contro l’HCV è arrivato sul mercato e

non aveva accantonato le risorse necessarie. Anche l’arrivo di nuove combinazioni di

farmaci anti-HCV andava prevista per tempo, perché ha ovviamente indotto una drastica

riduzione dei prezzi.

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2.4. PROPOSTE SPECIFICHE PER L’ITALIA

Ecco alcune idee su ciò che l'Italia può fare a livello europeo (in linea con gli ultimi sviluppi nel

dibattito sull'accesso ai farmaci in Europa):

1) Mantenere viva la discussione critica sui diritti di proprietà intellettuale.

L'attuale guerra aperta tra generici e originatori sulla recente proposta della CE per la rinuncia al

certificato protettivo complementare (SPC) in Europa e i rispettivi sforzi di lobbying che hanno

portato a questa proposta parlano di quanto sia controverso e acceso il dibattito sulla proprietà

intellettuale. Gli Stati membri dell’Europa istruire la (prossima) Commissione sui passi successivi,

compresa un'eventuale revisione della legislazione, ad esempio sull'esclusività dei dati e/o sugli

incentivi per gli orfani. Nessuno Stato membro può farlo da solo: L'Italia dovrebbe schierarsi a

favore di Stati membri come i Paesi Bassi nel sostenere il seguito da dare alle revisioni critiche di

alcuni aspetti del quadro UE in materia di proprietà intellettuale. l'Italia, insieme ad altri Stati

membri, dovrebbe valutare il costo delle esclusività e dei monopoli basati sui brevetti.

2) La disponibilità di farmaci autorizzati a livello centrale che non arrivano mai sul mercato

in numerosi paesi dell'UE è un'altra questione in cui sono possibili azioni/iniziative politiche

nei prossimi mesi. Gli Stati membri dovrebbero modificare la legislazione esistente in modo da

obbligare le imprese a lanciare i loro prodotti in tutti gli Stati membri dell'UE e a contrastare

efficacemente la sequenza dei lanci secondo le strategie di marketing delle imprese. L'Italia può

sollevare la questione e ottenere il parere favorevole di altri Stati membri dell'UE di piccole e medie

dimensioni. Ciò riconfermerà la sua posizione di leader all'interno del Gruppo della Dichiarazione

di La Valletta.

3) Rivedere la legislazione sui farmaci orfani. C'è un chiaro consenso politico tra gli enti o le

istituzioni che si occupano di rimborsabilità, sul fatto che il sistema viene abusato, dato che

abbiamo un numero sempre maggiore di farmaci orfani che hanno poi raggiunto volumi da

blockbuster. La legislazione sui farmaci orfani in Europa è un successo, e il suo spirito deve essere

sostenuto, ma l'abuso deve essere scoraggiato. Anche su questo fronte è necessaria un'azione

politica comune di più di uno Stato membro dell'Unione europea.

4) Cogliere le opportunità offerte dalla recente proposta di regolamento CE sulla valutazione

delle tecnologie sanitarie. I negoziati in corso in seno al Consiglio possono servire a risolvere il

problema, dando forza al nuovo sistema HTA a livello europeo. Ciò ripristinerà l'HTA come

guardiano e abilitatore di un'autentica innovazione terapeutica basata sulle esigenze di salute

pubblica piuttosto che sull'imitazione.

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5) Lavorare alle iniziative intergovernative regionali come BeNeLuxAI e il Gruppo La

Valletta. Si tratta di scelte politiche pragmatiche, che devono essere considerate una risorsa e non

devono essere date per scontate. Non dovrebbero essere ridotti a semplici meccanismi di riduzione

dei prezzi, simili a bazar turchi. Ma Beneluxai e La Valletta sono importante per affrontare e

mitigare gli effetti dell'asimmetria informativa tra industria e governi.

6) Necessità di definire, mappare e tracciare il sostegno pubblico che va nella Ricerca &

Sviluppo di farmaci. Si tratta di un contributo sostanziale di conoscenze che spesso l’industria

farmaceutica utilizza e che andrebbe valutato. I ministeri della salute dovrebbero collaborare

con i ministeri della ricerca e delle finanze/economia per mappare l'ampio spettro di sostegno

offerto alle aziende farmaceutiche (ruolo delle università e degli istituti di ricerca, assistenza

finanziaria diretta, agevolazioni fiscali, crediti e incentivi, costi di esclusività per il pubblico,

contributi in natura, solo per citarne alcuni) dal settore pubblico.

7) Necessità di una riforma normativa dell’EMA. L'EMA è in primo luogo un organismo

scientifico, ma le sue decisioni e priorità hanno senza dubbio implicazioni economiche,

commerciali e politiche di vasta portata. L'EMA è in effetti il fiore all'occhiello dell'UE, ma ciò non

dovrebbe impedirci di esaminare criticamente le lezioni apprese e gli errori commessi nel corso dei

23 anni di esistenza dell'EMA. Altrettanto importante per discutere di questioni di cattura

normativa, come migliorare la trasparenza nei rapporti dell'autorità di regolamentazione con le

aziende farmaceutiche.

8) L’Italia e gli li Stati membri dovrebbero incoraggiare la DG Concorrenza a mostrare i

propri denti e a fare di più nel settore farmaceutico. Il diritto e la politica di concorrenza sono

strumenti potenti. Gli Stati membri devono promuovere una sana e solida concorrenza con i

generici e i biosimilari.

9) Infine, ma non meno importante, ci deve essere spazio per sperimentare modelli alternativi

di sviluppo di farmaci. Abbiamo un disperato bisogno di “blue sky”, di idee fuori dagli schemi di

pensiero corrente. Le casse malattia, i fondi pensione, i contribuenti, i ministeri della sanità

dovrebbero mettere in comune le risorse e le competenze per lanciare studi di fattibilità e possibili

progetti pilota per provare nuovi modelli che affianchino le esclusività monopolistiche basate sui

brevetti.

10) Si dovrebbe riflettere sullo sviluppo di modelli di rimborso dei prezzi veramente innovativi

a breve e medio termine. Gli strumenti a nostra disposizione, come i MEA, hanno già mostrato i

loro limiti (anche se devono comunque essere difesi in assenza di altre idee).

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In conclusione, così come riportato dal Panel della Commissione Europea sulle azioni da

intraprendere per affrontare il problema degli elevati costi dei farmaci innovativi, ecco le sfide

future e le azioni che potrebbero essere intraprese:

Le sfide:

La crescita della spesa farmaceutica dovuta all’ingresso di nuovi farmaci innovativi ad alto

costo, nell'attuale quadro istituzionale, crea sfide finanziarie per i sistemi sanitari.

E’ probabile che l'attuale percorso di crescita non possa essere proseguito a tempo

indeterminato.

E’ necessario disegnare nuovi modelli per garantire che a) l'innovazione "che conta" sia

prodotta; b) che i pazienti abbiano accesso all'innovazione; e c) che i sistemi sanitari restino

finanziariamente sostenibili.

Questo contesto necessita di modelli di rimborsabilità innovativi per i nuovi farmaci che

permettano di raggiungere questi tre obiettivi.

Le azioni:

La necessità di premiare la ricerca e lo sviluppo di prodotti farmaceutici innovativi è fuori

discussione. Tuttavia, i Paesi che dispongono di un sistema sanitario fiannziato dalla fiscalità

generale devono necessariamente:

Richiedere una maggiore trasparenza dei prezzi e dei costi, compreso il riconoscimento che

prezzi elevati non sempre corrispondono a elevati costi di Ricerca e Sviluppo.

Rivedere i meccanismi che premiano l'innovazione, oltre alla protezione della proprietà

intellettuale, per promuovere e premiare le innovazioni di alto valore possono essere

sviluppati. Ciò è particolarmente vero quando vengono prese in considerazione le aree

terapeutiche trascurate o mancanti.

In pratica occorre esplorare nuovi modelli di promozione dell'innovazione, prevedendo

premi significativi a fronte di un maggiore valore aggiunto terapeutico, sviluppando

metodologie appropriate per misurare il valore sociale dei prodotti farmaceutici.

I sistemi di rimborsabilità dovrebbero evolvere nella direzione di pagare il dovuto per

l'acquisizione di un “pacchetto terapeutico”, non di un singolo prodotto (cioè il solo

farmaco).

Infine, è ovvio che occorre creare piattaforme di dialogo che coinvolgano tutte le parti

interessate, inclusa l’industria farmaceutica.

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Bibliografia essenziale sul drug pricing

Paris, V. and A. Belloni (2013), “Value in Pharmaceutical Pricing”, OECD Health Working Papers,

No. 63, OECD Publishing, Paris. http://dx.doi.org/10.1787/5k43jc9v6knx-en

OECD (2018), Pharmaceutical Innovation and Access to Medicines, OECD Health Policy Studies,

OECD Publishing, Paris. https://doi.org/10.1787/9789264307391-en

Expert Panel on effective ways of investing in Health (EXPH) (2017). Opinion on Innovative

payment models for high-cost innovative medicines.

Available at: https://ec.europa.eu/health/expert_panel/sites/expertpan

el/files/019_innovative_payment_models_en.pdf

Unitaid (2016). An economic perspective on delinking the cost of R&D from the price of

medicines. Geneva, World Health Organization. Available at:

https://unitaid.eu/assets/Delinkage_Economic_Perspectiv

e_Feb2016.pdf

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Parte II. Un lavoro con più forza per contare1

Francesco Denozza e Alessandra Stabilini - Ribilanciare il potere del lavoro e la democratizzare

l'economia

Andrea Garnero - Un salario minimo per legge in Italia? Una proposta per il dibattito

1

Contributi presentati al Seminario aperto “Fase II” del Programma Atkinson, sul Tema “Un Lavoro con piùforza per contare”, il 30 ottobre 2018 a Milano, presso la Casa della Cultura (cfr Capitolo 3 di questo e-book).

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Paper presentato al seminario: Ribilanciare la distribuzione del reddito, del potere negoziale e del

controllo a favore del lavoro, organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità, presso la Casa della Cultura, Milano, 30 ottobre 2018.

FRANCESCO DENOZZA e ALESSANDRA STABILINI

Università di Milano

Ribilanciare il potere del lavoro e democratizzare l’economia.

1. Il superamento dell’impostazione di Berle & Means: la dissociazione tra proprietà e

controllo da problema a risorsa.

Il movimento di pensiero che negli anni settanta del secolo scorso sviluppò la teoria dell’agency, e

propose la tesi dello shareholder value, parte da un rovesciamento della prospettiva ereditata dalle

famose ricerche di Berle e Means. Questi ultimi avevano identificato come un problema, forse il

principale problema della società per azioni, il fatto che si fosse prodotta una dissociazione della

proprietà (oramai diffusa tra un numero enorme di piccoli investitori) dal potere di gestione,

affidato a managers. 1 Con la conseguenza che le imprese, anziché essere gestite da un proprietario

economicamente coinvolto e totalmente responsabile, sono ormai amministrate da soggetti non

proprietari, o proprietari solo in parte e spesso, nelle società a capitale molto diffuso, neppure

indirettamente legittimati da un significativo consenso dei “proprietari”.

Non è il caso di ripercorrere qui la storia dei molti problemi, anche politici, aperti da questa

constatazione. Basterà ricordare che tali problemi erano rimasti in sostanza irrisolti fino a quando

(come ho detto, nel corso degli anni settanta del secolo scorso) la dottrina americana operò un vero

e proprio rovesciamento del problema. La dissociazione tra, da una parte, la proprietà, e quindi la

funzione di investimento finanziario e, dall’altra, le capacità manageriali, e quindi la funzione di

amministrazione, venne presentata da questi autori non più come una possibile fonte di molti gravi

inconvenienti, ma come manifestazione di un fenomeno assolutamente positivo, e ampiamente

diffuso in una economia di mercato (di cui è anzi in un certo senso il complemento) (2). Si tratta di

quella divisone sociale del lavoro, e conseguente specializzazione, che, almeno da Adam Smith in

1� Che Berle e Means immaginavano soprattutto come professionisti, ma che ben possono essere essi stessi soci o

espressione di un gruppo ristretto di soci, come (fuori dagli Stati Uniti e dal Regno Unito) più frequentemente avviene.2

(�) Cfr. almeno Michael C. Jensen e William H. Meckling, “Theory of the firm: Managerial behavior, agencycosts and ownership structure”, Journal of financial economics 3.4 (1976): 305-360; Frank H. Easterbrook & Daniel R.Fischel, “The Corporate Contract”, 89 Columbia L. Rev. 1416 (1989).

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poi, è considerato il motore principale dello sviluppo capitalistico. Quindi un fenomeno, quello

della dissociazione, che non deve essere deplorato, o addirittura combattuto, ma che deve essere

messo semplicemente in condizioni di potersi sviluppare al meglio, e di produrre tutta l’utilità che

può essere ricavata da una specializzazione di questa portata.

Posta la questione in questi termini, l’obiettivo è, in teoria, facilmente delineabile. Si tratta di fare in

modo che i managers siano complessivamente in grado di attirare la maggiore massa di risorse

possibile e che queste risorse siano effettivamente indirizzate verso i managers in grado di gestirle

con la maggiore abilità. Ciò può produrre un sistema delle imprese quantitativamente robusto e

qualitativamente efficiente.

In condizioni ideali, il raggiungimento di questi obiettivi non dovrebbe richiedere ad un benevolo

legislatore particolari sforzi. I due sotto-obiettivi (raccolta della maggior quantità di risorse

possibile / indirizzo delle risorse verso le imprese più efficienti e verso gli impieghi più redditizi),

lungi dall’essere in contraddizione, si sostengono a vicenda e ciascuno di essi corrisponde

perfettamente ai migliori interessi di ciascuna delle varie parti in causa. Basterebbe fare quindi

affidamento sulle spontanee tendenze dei soggetti privati coinvolti e lascarli liberi di contrattare

come meglio credono. Basterebbe, in una parola, lasciare fare al mercato.

Sfortunatamente siamo qui in presenza di una di quelle situazioni nelle quali non c’è garanzia che il

mercato possa funzionare in maniera ottimale. Siamo cioè in presenza di potenziali market failures

originati qui da una serie di costi di transazione, a cominciare dai costi di transazione che sono

caratteristici di tutte le situazioni di agency(3).

Si tratta, come oramai è arcinoto, delle difficoltà che in un rapporto di agency sorgono

dall’esistenza di un potenziale conflitto di interessi tra colui / coloro che agiscono (l’agente) e

colui / coloro che sono i destinatari degli effetti dell’azione dell’agente (il principal). Questo tipo di

rapporto (uno agisce, un altro sopporta in via principale le conseguenze dell’azione) ingenera un

conflitto di interessi che a livello più elementare può assumere la forma di un contrasto tra

l’interesse dell’agente ad ottenere la massima remunerazione con il minimo sforzo, e l’interesse del

principal ad ottenere il massimo impegno dell’agente con il minimo sacrificio suo personale

(pagandolo quindi il meno possibile).

A partire da questa forma elementare, è poi evidente che il conflitto può assumere nelle varie

situazioni caratteristiche diverse e presentarsi in maniera molto più raffinata e complessa.

3(�) Cfr. Armen A. Alchian and Harold Demsetz, “Production, information costs, and economic organization”,

The American economic review 62.5 (1972): 777-795; K. J. Arrow, The Economics of Agency, in Pratt and Zeckhauser,Principals and Agents, the Structure of Business, Harvard, 1985, 37; E. Fama, Agency Problems and the Theory of theFirm, J. Pol. Econ. 1980, 288; E. Fama & M. Jensen, Separation of Ownershipand Control, J.L. & Econ. 1983, 301;Michael C. Jensen e William H. Meckling, “Theory of the firm: Managerial behavior, agency costs and ownershipstructure”, cit..

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Nel caso della gestione di una impresa, il conflitto può diventare particolarmente acuto perché, da

una parte, l’agente può sfruttare molti e diversi meccanismi per realizzare il proprio interesse a

scapito di quello del principal e, dall’altra, quest’ultimo incontra molte difficoltà a realizzare una

adeguata sorveglianza dell’agente in modo da essere in grado di stabilire se i successi e gli

insuccessi dell’impresa dipendono dalle capacità e dall’impegno dell’agente o dipendono invece

dalla fortuna e dal caso. E ciò ancora di più quando, come avviene in molte società per azioni,

persino in quelle di grandi dimensioni, l’agente partecipa anche di alcune caratteristiche di un

principal: è, cioè, anche socio, o strettamente legato ad uno specifico gruppo di soci.

La ricerca della via migliore per superare questo fallimento del mercato e garantire in qualche modo

il raggiungimento dell’obiettivo individuato (massimizzazione degli investimenti / loro indirizzo

verso i managers in grado di farli fruttare di più) finisce allora per apparire come il compito più

urgente cui la dottrina deve assolvere, e a ciò si dedicarono tutti i migliori studiosi dell’epoca.

I grandi problemi politico-sociali sollevati dalla ricerca di Berle e Means sono così definitivamente

accantonati come pressoché irrilevanti, e l’attenzione si può concentrare sulle varie transazioni con

cui i soggetti che dispongono delle diverse, specializzate, risorse necessarie al funzionamento

dell’impresa sociale si accordano per fornirle. I temi della disciplina della società per azioni sono

allontanati dalla politica e dal diritto pubblico e definitivamente riconsegnati al diritto privato, che è

appunto quello che si occupa di favorire la realizzazione delle più efficienti transazioni tra soggetti

privati.

2. L’ Agency theory e il network of contracts.

A partire dagli anni ‘70 del secolo scorso è diventata perciò progressivamente dominante una

peculiare concezione della società per azioni, che la considera come una semplice rete di contratti.

In questa concezione si suppone che ciascuno dei vari soggetti che fornisce qualche risorsa

all’impresa, e che è in qualche modo interessato alle sue sorti, si ponga con gli altri soggetti

interessati in una relazione di tipo contrattuale, e che solo dal concreto configurarsi di questa

relazione possano derivare i diritti e gli obblighi di tutti.

Qui la legge ha perciò la limitata funzione di offrire a queste relazioni di tipo contrattuale il quadro

istituzionale in cui possano essere definiti e stipulati i singoli concreti contratti ed eventualmente

quello di ovviare alla impossibilità materiale di stipulare effettivi contratti che può verificarsi nei

rapporti tra certe categorie di soggetti (è ad es. difficile pensare che l’impresa possa stipulare

contratti con tutti i soggetti potenzialmente interessati agli effetti delle politiche ambientali

dell’impresa stessa) provvedendo a dettare direttamente regole i cui contenuti tentino di rispecchiare

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i contenuti dei contratti che i soggetti in questione avrebbero stipulato, se avessero potuto

contrattare direttamente tra di loro.

In questo contesto di infinite relazioni bilaterali, quella che viene valutata come la più importante è

quella che intercorre tra i soci e i gestori (nella nozione di gestori sono ovviamente ricompresi

anche quei soci che amministrano la società come managers o attraverso managers di loro

personale fiducia).

Le ragioni di questa valutazione sono varie e possono andare dalla realistica osservazione suggerita

dal buon senso per cui se non c’è un soddisfacente accordo tra investitori e managers le società

neppure si costituiscono, e non si crea perciò materia per occuparsi di nessun’altra possibile

relazione d’impresa, fino alla più tecnica (e controversa) considerazione per cui i soci sarebbero i

c.d. residual claimants (nessun dividendo può essere distribuito loro se prima non sono state

soddisfatte le pretese legali di tutti gli altri stakehoders). In ogni caso, la conseguenza della

centralità attribuita alla relazione contrattuale tra i soci e gli amministratori è stato lo sviluppo della

teoria dello shareholder value che si è posta come naturale complemento ed integrazione della

teoria dell’agency.

Nella versione di questa teoria che è stata dominante nell’ultimo mezzo secolo o quasi, il principal

(e cioè, come si è detto, il soggetto i cui interessi devono essere curati dagli amministratori) è stato

identificato nei soci (intesi peraltro molto più come investitori che non come partecipanti ad una

impresa comune) e nei soci soltanto (4).

3. La posizione degli stakeholder non finanziari.

Riassumiamo allora i passaggi essenziali dell’ agency theory: l’impresa è una rete di relazioni di

tipo contrattuale tra tutti i soggetti interessati; quella tra investitore-principal e manager- agente è la

più importante tra queste relazioni; la peculiare posizione dei soci-investitori e l’importanza del loro

ruolo giustificano il fatto che agli amministratori sia imposto il dovere di massimizzare solo ed

esclusivamente il benessere dei soci.

L’interpretazione dominante di questa tesi ha derivato da queste premesse una drastica conclusione,

e cioè che gli amministratori, una volta adempiuti gli stretti obblighi nei confronti di terzi derivanti

dalla legge, o dai contratti con questi terzi stipulati, devono orientare tutta la libertà d’azione che ne

residua (quindi tutte le scelte che non siano vincolate dai suddetti leggi e contratti) in direzione di

un unico obiettivo: la massimizzazione del valore delle azioni e quindi del benessere dei soci.

4(�) Senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, cfr. Frank H. Easterbrook & Daniel R. Fischel, “The

Corporate Contract”, cit.; Stephen M. Bainbridge, “In Defense of the Shareholder Wealth Maximization Norm: A Replyto Professor Green”, 50 Wash. & Lee L. Rev. 1423 (1993). Cfr. Anche la teoria dello “enlightened shareholder value”proposta da Michael C. Jensen in “Value Maximization, Stakeholder Theory, and the Corporate Objective Function”,Journal of Applied Corporate Finance, Fall 2001, http://papers.ssrn.com/abstract_id=220671.

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In questo senso non c’è qui alcuno spazio per la cura degli interessi di altri stakeholders e per lo

sviluppo della c.d. corporate social responsibility, se la si intende non come un fenomeno

puramente volontario, ma come un obbligo di tenere conto degli interessi di tutti i soggetti, anche

quelli diversi dai soci, che sono comunque coinvolti nell’esercizio dell’impresa sociale (5). In questa

prospettiva ciò che può proteggere gli interessi dei vari stakeholders non è l’attenzione da parte

degli amministratori alle implicazioni sociali delle politiche dell’impresa che amministrano, ma

soltanto i vincoli imposti dalla legge o quelli che i vari stakeholders riescano a contrattare e a

formalizzare in accordi legalmente validi. Al di fuori dei confini in questo modo segnati, gli

stakeholders diversi dai soci non possono e non devono aspettarsi nulla da una possibile benevola

attitudine degli amministratori nei loro confronti. Una simile attitudine non è assolutamente

richiesta agli amministratori ed anzi è loro tendenzialmente preclusa (a meno che non siano in grado

di dimostrare che, in certe date circostanze, un benevolo trattamento degli stakeholders, pur non

imposto da legge o da contratto, potrebbe comunque giovare all’impresa e quindi in definitiva ai

soci stessi e al valore delle loro azioni).

Questa sistemazione, che ha un suo fascino astratto6, in quanto costruisce un ordine in cui ciascuno

sembra ricevere quello che gli spetta, ha però un enorme tallone di Achille, che i progressivi

sviluppi dello studio della c.d. incompletezza contrattuale hanno reso sempre più evidente. Il fatto è

che né le leggi, né i contratti sono in grado di regolare completamente tutte le possibili contingenze

future. Si tratta in entrambi i casi di strumenti di regolazione che, soprattutto quando riferiti ad

attività complesse che si proiettano in lunghi futuri (come succede tipicamente all’ impresa)

lasciano ampi margini di incertezza e perciò di discrezionalità in capo a coloro che queste regole

sono chiamati ad applicare.

Se si tiene conto di ciò, ci si rende conto che la teoria esposta non è così razionale ed equilibrata

come potrebbe a tutta prima sembrare. Di fatto tutto l’amplissimo, discrezionale potere che leggi e

contratti lasciano agli amministratori delle imprese (e ai soci che li controllano) viene univocamente

vincolato ad esclusivo beneficio di una sola delle varie componenti, e cioè quella dei soci

investitori. Quindi nessun equilibrio, ma una situazione decisamente sperequata a favore dei soci.

Mentre tutti gli altri stakeholders devono preoccuparsi di procurarsi strumenti di tutela così

completi da prevenire ogni possibile opportunismo degli amministratori, i soci godono del

privilegio per cui gli agenti (gli amministratori che prendono le decisioni imprenditoriali più

5(�) Per una critica alle concezioni volontaristiche della CSR, e per riferimenti al dibattito in argomento, cfr. il

nostro The Shortcomings of Voluntary Conceptions of CSR, in Orizzonti del diritto commerciale, rivista telematica, n.2/2013, http://odc.seminabit.com/edizioni/2013/2/saggi/the-shortcomings-of-voluntary-conceptions-of-csr/.6

� Recentemente sottolineato da C. Angelici, Divagazioni sulla “responsabilità sociale” d’impresa, in Riv. soc.,2018, 3 ss..

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rilevanti) hanno nei loro confronti obblighi che non solo vanno oltre quanto espressamente previsto

nel contratto (lo statuto della società) ma che arrivano ad imporre di approfittare di ogni occasione

favorevole per la soddisfazione dell’interesse dei soci, anche a scapito dell’ interesse di altri

stakeholder.

In (relativa) alternativa a queste impostazioni, ma pur sempre all’interno di una visione attenta ai

temi dell’agency e della rete di contratti, altre teorie tentano di valorizzare l’interesse che tutti gli

stakeholder, compresi i soci, hanno al migliore successo dell’impresa cui tutti in qualche modo

partecipano. Nasce così l’idea che un trattamento non opportunistico degli stakeholder diversi dai

soci sia nell’interesse anche di questi ultimi. L’intuizione è che un atteggiamento pronto ad

approfittare di ogni possibilità di procurare ai soci vantaggi a scapito degli altri soggetti interessati

all’impresa non sia in linea di massima idoneo ad incentivare il massimo impegno e la massima

collaborazione da parte di tutti. Al contrario, gli altri stakeholder, consapevoli dell’esistenza del

rischio di essere vittime di comportamenti opportunisti tutte le volte che se ne dia l’opportunità,

tenderanno a limitare il loro impegno allo stretto dovuto o allo stretto inevitabile, in modo da

minimizzare il danno che un qualche approfittamento da parte degli agenti dei soci può arrecare

loro.

Sul piano giuridico, questa impostazione si traduce nel tentativo di dare all’ interesse della società, e

al conseguente obbligo dell’amministratore di perseguirlo, una configurazione tale che sia in grado

di porre limiti alla possibilità di sfruttare circostanze occasionalmente favorevoli per approfittare a

vantaggio dei soci della vulnerabilità di altri stakeholder.

Nascono così, per fare un paio di esempi, teorie come la c.d. “team production theory” (7) o come

l’enlightened shareholder value (8) che ispira il par. 172 del Companies Act Inglese del 2006 (9).

I problemi fondamentali di queste impostazioni sono soprattutto due. Il primo è che gli

amministratori dipendono, dove più dove meno, ma comunque dai soci e non da altri. Aspettarsi che

gli amministratori possano tenere a lungo comportamenti sgraditi ai soci attuali e agli investitori,

soci potenziali, non è in genere realistico. Quindi, o si pensa che l’opportunità di non comportarsi in

maniera opportunistica sia condivisa dai soci, o almeno dalla maggioranza di loro, oppure le

probabilità che gli amministratori possano stabilmente tenere un comportamento lungimirante, che

7(�) M. Blair, L.A. Stout, A Team Production Theory of Corporate Law, 85 Virginia Law Review, No. 2, March

1999; M.M. Blair, L.A. Stout, Director Accountability and the Mediating Role of the Corporate Board, available athttp://papers.ssrn.com/abstract=266622; L.A. STOUT, The Mythical Benefits of Shareholder Control, 9 3 Virginia LawRev., 2007, 789; L. Stout, The Shareholder Value Myth: How Putting Shareholders First Harms Investors, Corporations,and the Public, Berret Keohler Publications, 2012. 8

(�) Michael C. Jensen, “Value Maximization, Stakeholder Theory, and the Corporate Objective Function”, cit.9

(�) Abbiamo sviluppato gli argomenti critici delle due impostazioni riassunti di seguito nel testo in CSR andCorporate Law: The Case for Preferring Procedural Rules, 2008, Social Science Research Network (www.ssrn.com).

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però scontenta la maggioranza degli investitori, sono in genere molto scarse. Non esiste cioè la

possibilità di fare affidamento su una tecnocrazia quasi imparziale (come pensa invece soprattutto la

team production theory) in grado di imporsi sui soci e di prendere decisioni magari nell’immediato

ad essi non gradite, ma destinate a ridondare, nel lungo termine, anche a loro vantaggio.

Il fatto di non poter contare su una tecnocrazia relativamente indipendente (la tecnocrazia della

società per azioni dipende necessariamente da quei soci che possono decidere nomine ed eventuali

rinnovi) aggrava un altro problema tipico di queste costruzioni. Esse infatti fanno, alla fin fine,

affidamento su meccanismi reputazionali. È infatti un meccanismo di tipo reputazionale che

dovrebbe rassicurare gli altri stakeholder in ordine alla possibilità che i loro interessi siano trattati

dagli amministratori in modo imparziale e non opportunistico. Poiché non esistono in genere azioni

legali esercitabili dagli stakeholder non finanziari nei confronti di amministratori autori di

comportamenti opportunistici a loro danno, l’affidamento di questi stakeholder può alla fine basarsi

solo sulla convinzione che gli amministratori eviteranno comportamenti opportunistici nei loro

confronti per timore che altrimenti la loro credibilità generale venga irrimediabilmente

compromessa e che in conseguenza non potranno più godere della fiducia non solo degli

stakeholder che nell’immediato soffrono le conseguenze dei loro comportamenti, ma neppure della

fiducia di altri stakeholder che siano venuti a conoscenza degli eventi.

Il problema per le tesi che stiamo esaminando nasce dal fatto che un meccanismo reputazionale di

questo genere può forse funzionare con riferimento agli amministratori, preoccupati di preservare la

loro carriera di managers, ma può essere molto meno efficace nei confronti di investitori

relativamente anonimi e comunque abituati a comporre e scomporre variabili collaborazioni.

Insomma, la reputazione può avere rilevanza in condizioni di stabilità proprietaria e manageriale.

Ne ha molta meno nel contesto di un capitalismo dominato dal capitale finanziario e dalla sua

naturale mobilità.

Da un altro punto di vista, l’affidamento agli amministratori del compito di garantire uguale rispetto

di tutti gli stakeholder e comportamenti non opportunistici, presenta aspetti problematici ove si

consideri che gli amministratori non sono dei soggetti disinteressati, in grado di dare giudizi come

un terzo imparziale che non ha messo in gioco nessuna posta personale.

Qui potrebbe essere forse rilevante una distinzione tra managers e amministratori non esecutivi,

ovvio essendo che i primi hanno interessi personali in gioco in misura molto superiore ai secondi.

Considerate tuttavia le possibilità che i managers hanno di sfuggire al controllo dei non esecutivi o

addirittura di “corromperli”, non crediamo che la distinzione, salvo ulteriori approfondimenti, sia a

prima vista molto promettente. Quindi, anche nell’ipotesi che i soci si convincano della necessità di

lasciare agli amministratori la possibilità di operare le opportune mediazioni tra gli interessi loro e

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quelli degli altri stakeholder, resterebbe pur sempre da vedere se agli amministratori convenga

assolvere questo compito in maniera effettivamente imparziale, o se esista il rischio che

amministratori in grado di giustificare le loro scelte invocando, di volta in volta, o l’interesse dei

soci, oppure quello degli altri stakeholder, non finiscano per acquisire un potere praticamente

insindacabile, facilmente orientabile verso la cura dell’interesse loro proprio, più che di quello di

chiunque altro.

Tirando un bilancio delle varie posizioni maturate nell’ambito generico della problematica sollevata

dall’agency theory a noi sembra che tutte finiscono per essere accomunate dalla convinzione che la

strada maestra di ogni intervento volto a modificare il comportamento delle società per azioni, passi

attraverso la valorizzazione di meccanismi di mercato (come, lo si è visto da ultimo, la reputazione)

magari sostenuti da interventi legislativi di tipo propulsivo o facilitante (come il par. 172 del

Companies Act inglese del 2006) evitando comunque di istituzionalizzare forme di dialogo diretto

con gli stakeholder diversi dai soci, e ancor più (e ciò vale, con le debite eccezioni, anche per i soci)

evitando di creare la possibilità che qualche stakeholder possa interferire con l’esercizio dei poteri

gestionali degli amministratori.

Nel complesso, a dispetto della retorica dello shareholder value, il compromesso raggiunto con la

svolta degli anni settanta del secolo scorso (e rimasto non senza qualche modifica, in vigore per

alcuni decenni) era in definitiva nel senso di assicurare ai soci-investitori una fetta della torta più

grande di quella spettante ad altri stakeholder, in cambio di una potestà dei managers di gestire

l’impresa senza troppi intralci legali, potestà che non è stata ridotta nei rapporti tra gestori e soci

(nell’immediato la primazia assegnata all’interesse dei soci dalla teoria dello shareholder value non

si è in genere tradotta in un aumento dei loro poteri legali) mentre è stata addirittura ampliata nei

confronti degli altri stakeholder, respinti nel limbo di soggetti estranei all’ interesse che i gestori

sono tenuti a perseguire, e dei quali si può (forse si deve) legittimamente approfittare in tutti i casi

in cui nessun vincolo giuridico obbliga a comportarsi diversamente.

4. La posizione dei soci.

Come si è appena rilevato, l’ esaltazione dell’importanza del ruolo dei soci-investitori non ha

comportato una generalizzata spinta verso un aumento dei poteri giuridici dei soci. Anzi, sul piano

della libertà decisionale il potere degli amministratori è stato preservato e forse, complessivamente,

aumentato.

La soluzione trovata al problema dei costi di transazione presenti nel rapporto di agenzia, si è basata

non sull’aumento dei poteri del principal, ma, essenzialmente, sull’ idea di favorire il

funzionamento di alcuni meccanismi di mercato (i mercati finanziari e la loro supposta capacità di

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misurare, con il prezzo di borsa delle azioni, la qualità della performance dei managers; il c.d.

mercato del controllo supposto in grado di assicurare il continuo ricambio dei managers meno

capaci con managers più capaci; il mercato delle carriere dei managers, supposto in grado di

assicurare miglior remunerazione ai managers migliori, e di sollecitarne perciò il massimo impegno

anche in assenza di minuziosi controlli da parte del principal, ecc.), valorizzando qualche vincolo

giuridico (l’obbligo per i managers di fare riferimento allo shareholder value, l’inderogabilità degli

obblighi fiduciari degli amministratori, estesi doveri di informazione, ecc.) con finalità

sanzionatorie e di controllo, evitando però che tutto ciò potesse tradursi in interferenze dirette con i

poteri decisionali degli amministratori.

5. L’evoluzione dei mercati finanziari e la crisi del modello dell’agency.

Come è ben noto i vari ricordati meccanismi escogitati per garantire una gestione efficiente

dell’impresa (meccanismi cui si è aggiunto col tempo il ricorso a sistemi di remunerazione dei

managers che avrebbero dovuto garantire un migliore allineamento dei loro interessi con quelli dei

soci e che si sono però concretizzati in sistemi di remunerazione sempre più complicati e

potenzialmente onerosi per le società gestite) hanno mostrato, specialmente durante l’ultima grande

crisi finanziaria, i loro limiti e la loro sostanziale incapacità di assicurare una gestione delle imprese

corretta e lungimirante.

Questo secondo noi non è altro che il punto di emersione della sostanziale inadeguatezza di tutto

l’armamentario concettuale della teoria dell’agency, inadeguatezza che esplode nell’incapacità di

comprendere e affrontare le profonde modifiche che sono nel frattempo intervenute sui mercati

finanziari.

Non intendiamo ripercorre qui la dimostrazione e spiegazione dell’inadeguatezza sul piano teorico

della dottrina in questione (10). Vorremmo qui soffermarci su quello che dal punto di vista giuridico

consideriamo l’elemento più obsoleto di tutto l’impianto. Tale elemento è costituito a nostro avviso

da una sostanziale ambiguità nella analisi dei rapporti di potere interni ed esterni alla società per

azioni e conseguentemente dalla insoddisfacente configurazione data agli istituti giuridici che tali

rapporti dovrebbero governare.

Come si è sottolineato alla fine del paragrafo precedente, l’assetto di poteri della società per azioni

conserva formalmente ai managers un ruolo diverso, ma nel complesso non meno decisivo di quello

che avevano nella precedente fase del capitalismo c.d. manageriale. Il loro potere viene sottoposto

ad un vincolo stretto sul piano redistributivo, là dove si impone di riservare agli azionisti la maggior

10(�) Lo abbiamo fatto, insieme ad una più diffusa esposizione degli argomenti di cui nel prosieguo del testo, nel

nostro Principals vs Principals: The Twilight of the “Agency Theory”, in 3 The Italian Law Journal No. 2 (2017),http://www.theitalianlawjournal.it/denozzastabilini/.

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quota possibile del surplus prodotto dall’impresa sociale, ma resta amplissima la loro libertà di

scegliere i modi con cui massimizzare il surplus. L’esercizio di questa libertà potrà essere sindacato

a posteriori al momento della rielezione, o quando si ponga il problema di un’eventuale revoca, ma

non è legalmente influenzabile 11 da soggetti che possano vantare un contro-potere giuridicamente

riconosciuto e tutelato.

Poco alla volta, la realtà si è incaricata di mettere questo modello in profonda tensione. E’ successo

anzitutto che la pressione concorrenziale ha costretto gli investitori, oramai quasi tutti istituzionali,

e per gran parte intermediari, a pretendere un aumento sempre più grande, anche al di là delle

possibilità sostenibili dell’impresa, del surplus a loro spettante. Questo è un processo ovvio e

naturale: investitori privati retail possono avere orizzonti temporali diversi e diverse propensioni a

pretendere immediate massimizzazioni dei loro investimenti, ma non sono in genere ossessionati

dalla necessità di immediata massimizzazione dei rendimenti del loro investimento. Per investitori

sottoposti alla pressione della concorrenza nella raccolta di fondi da investire, la massimizzazione

diventa invece questione di sopravvivenza, legata alla possibilità di dimostrare continuamente che i

loro investimenti sono particolarmente redditizi e possibilmente più redditizi di quelli dei loro

concorrenti.

Altra conseguenza del passaggio dal capitalismo degli investitori retail al capitalismo degli

investitori intermediari, è rappresentata da una strisciante modificazione dei rapporti di potere tra le

due categorie (investitori e managers delle società destinatarie degli investimenti). In effetti, al

contrario dei risparmiatori investitori diretti, gli intermediari investitori istituzionali sono anzitutto

in grado di sfruttare con molta maggiore incisività gli strumenti giuridici (pur limitati) che

l’ordinamento mette a loro disposizione e sono anche in grado di premere per ottenere correzioni

delle regole che appaiono maggiormente preclusive della loro possibilità di esercitare potere

all’interno della società. Si pensi con riferimento agli Stati Uniti alle molte battaglie per modificare

le regole che limitano l’effettiva incidenza dei poteri di voto dei soci, sino alla più recente polemica

contro le c.d., dual-class companies e in favore del principio one share one vote.

A ciò va aggiunto il potere che gli investitori in questione possono esercitare al di fuori del contesto

istituzionale della società, e in particolare con la loro presenza attiva sul mercato. L’elevato grado di

dipendenza dai mercati finanziari che caratterizza oggi le imprese, e che rappresenta un’altra novità

11

� Ovviamente resta fermo quanto già osservato in precedenza in ordine al potere che i soci possono esercitare difatto sugli amministratori ( come osservava già molti anni fa F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica,Zanichelli, 1974, p. 89, “ L’autonomia dell’organo amministrativo rispetto all’assemblea ….non è una autonomiaeffettiva… è una autonomia strumentale rispetto agli interessi del gruppo assembleare di controllo della società. Gliamministratori se non ricevono più direttive dall’assemblea obbediscono pur sempre alle direttive del gruppo di comandoal quale debbono la propria elezione e la determinazione del proprio compenso e dal quale potrebbero non esserericonfermati alla scadenza della carica. Il fatto che l’assemblea non possa più come in passato dare ordini agliamministratori produce questa sola differenza rispetto al passato: il gruppo di comando dà oggi ordini agli amministratorial di fuori dell’assemblea e, quindi, al di fuori di ogni controllo della minoranza”.

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rispetto al più variegato panorama di alcuni decenni fa, quando molte imprese riuscivano a farsi

finanziare dalle banche in maniera tutto sommato adeguata alle necessità di allora, implica

ovviamente che gli attori principali del mercato abbiano oggi la possibilità di esercitare una

pressione sugli amministratori delle società molto maggiore di quella di un tempo.

Nel complesso sembra quindi che il ruolo svolto degli azionisti-investitori abbia subito una

modifica molto rilevante rispetto a quello che era al momento in cui vennero elaborati i pilastri

teorici portanti dell’agency theory. Quest’ultima ha chiaramente dimostrato di non possedere gli

strumenti teorici in grado di cogliere l’essenza di questa modifica di ruolo e men che meno di

suggerire misure atte a fronteggiarne le conseguenze.

6. Le radici dell’impostazione dell’ agency theory e le prospettive del suo superamento.

I limiti pratici illustrati nel paragrafo precedente, e gli effetti catastrofici che hanno avuto nello

sviluppo della crisi finanziaria e successiva depressione, suggeriscono l’opportunità di un

ripensamento dell’impianto complessivo su cui la teoria dell’agency si basa.

Prima di procedere in questa direzione sembra necessario un ulteriore passo e cioè l’identificazione

dei fondamenti teorici più profondi che non sono esplicitati nella teoria ma che in definitiva ne

ispirano l’intero approccio ai vari problemi.

Come si è detto, il punto di partenza dell’impostazione dei sostenitori dell’ agency theory è l’idea

che la divisione del lavoro tra investitori e managers sia un fenomeno potenzialmente produttivo di

ricchezza che deve essere adeguatamente sfruttato nella maniera possibilmente più efficiente e cioè

minimizzando i costi inevitabilmente prodotti dalla separazione tra una massa più o meno dispersa

di proprietari e un ristretto numero di soggetti (managers di professione e soci di comando) che ne

amministrano gli investimenti.

Si tratta anzitutto degli agency costs in senso stretto, che riguardano i rapporti tra investitori e

managers. Esiste poi un problema di costi da azione collettiva, che riguarda i rapporti dei soci tra

loro, e infine un problema, ancora più complesso, che riguarda i costi di organizzazione della

collaborazione con tutti gli altri stakeholder (12).

Come abbiamo già detto, uno degli effetti del dominio intellettuale dell’ impostazione in termini di

agency theory è stato quello di ricondurre tutti i problemi della corporate governance all’interno di

uno schema concettuale che focalizza l’attenzione esclusivamente sulle difficoltà di coordinare le

azioni di individui che collaborano per il raggiungimento di uno scopo comune (che nella

prospettiva dell’agency theory è identificato con la massimizzazione del surplus ricavabile dalla

12(�) Per una illustrazione particolarmente chiara di quanto nel testo, senza necessariamente aderire alle premesse

ideologiche della costruzione, cfr. Reiner Kraakman e al., The Anatomy of Corporate Law: A Comparative and FunctionalApproach, 3d ed., Oxford University Press, Oxford, UK, 2017.

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collaborazione). Gli autori influenzati da questa impostazione vedono il problema del rapporto tra

soci ed amministratori come un problema di ottimizzazione dei risultati della divisione del lavoro

implicata dalla presenza di soggetti che forniscono capitale e soggetti che forniscono competenze

manageriali. Per ottimizzare i risultati occorre che queste due attività “specializzate” si coordinino

adeguatamente e la realizzazione di questo adeguato coordinamento diventa l’obiettivo di ogni

proposta di soluzione dell’agency problem. I costi che possono derivare dalle diverse soluzioni

dell’agency problem vengono poi confrontati con i costi che possono derivare dal fatto di dovere

eventualmente affrontare altri problemi di coordinamento, come ad es. quello relativo ai rapporti tra

le diverse azioni dei diversi soci.

Esemplificando (e un po’ banalizzando): l’aumento del potere dei managers, e della loro

indipendenza rispetto ai soci, comporta un potenziale aumento dei costi derivanti dall’aumento della

possibilità che i managers si procurino benefici privati, possibilità che a sua volta può ridurre

l’offerta di capitale disponibile all’investimento in società per azioni.

Viceversa, l’aumento del potere dei soci, e quindi della loro possibilità di condizionare i

comportamenti dei managers, può creare costi derivanti dalla difficoltà di raggiungere un ottimale

coordinamento tra le azioni dei vari soci, inevitabilmente portatori di interessi e di valutazioni

diverse e magari addirittura confliggenti.

In questa prospettiva i problemi prendono la forma di un trade-off tra i costi e i benefici di diversi

modelli di coordinazione.

Spariscono sostanzialmente dall’orizzonte rilevante i problemi connessi non a semplici

bilanciamenti tra i vantaggi e gli svantaggi delle diverse soluzioni che possono condurre alla

massimizzazione del surplus, e connessi invece ai conflitti tra i portatori di diversi interessi (tutti

magari in astratto legittimi, ma tra loro confliggenti) in ordine al modo di produrre e di spartire il

surplus derivante dalla collaborazione.

Questo modo di vedere i problemi ha una immediata conseguenza sul piano dell’ingegneria

istituzionale e, quindi, dell’impostazione dei problemi giuridici. Si tratta infatti di una impostazione

che naturalmente orienta verso una sopravvalutazione del ruolo dell’organo amministrativo e dei

managers. In una visione in cui i soli problemi rilevanti sembrano essere problemi di pura

coordinazione, un organo come quello amministrativo, pensato come relativamente compatto e

come tendenzialmente non portatore di rilevanti interessi propri, si presenta come il candidato

naturale a svolgere un ruolo di mediazione e di equilibrio.

Questo orientamento, che assume come un dogma la centralità della posizione dell’organo

amministrativo, e che perciò concentra la discussione sulle finalità e gli strumenti di un’azione volta

a favorire il miglior uso da parte di tale organo di un potere destinato comunque a rimanere

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ampiamente discrezionale, ha finito per condizionare anche l’impostazione del dibattito sulla

responsabilità sociale dell’impresa. La maggior parte di questo dibattito ha riguardato ( lo si è già

notato) non il potenziamento dei poteri degli stakeholders (con conseguente inevitabile diminuzione

del potere dei managers) ma l’opportunità, la modalità e i limiti di una presa in considerazione degli

interessi di costoro da parte degli amministratori. Non, quindi, un miglioramento della capacità di

autotutela dei propri interessi da parte dei soggetti portatori degli interessi rilevanti, ma una tutela

indiretta di questi interessi ottenuta intervenendo sui criteri di esercizio della (per il resto intatta)

discrezionalità degli amministratori.

La concentrazione del potere di gestione sui managers, accompagnata da vincoli che impediscano a

costoro di appropriarsi di risorse che a loro non spettano, la limitazione dei poteri collettivi dei soci,

l’espulsione degli stakeholder dal novero dei collaboratori e la loro trasformazione in pure

controparti contrattuali, è sembrata la soluzione in grado di realizzare la miglior sistemazione dei

vari possibili trade- offs. L’ambito di competenza legalmente attribuito ai managers tiene sotto

controllo il problema di azione collettiva dei soci restringendone di fatto l’ambito rilevante, mentre

il riferimento allo shareholder value vincola gli amministratori nei confronti dei soci e semplifica al

massimo gli aspetti discrezionali della gestione dei rapporti con gli altri stakeholder.

In questo modo sembra che i vari soggetti coinvolti (investitori, altri stakeholders e managers)

riescano a coordinarsi tra di loro con potenziali costi di transazione relativamente bassi.

Non intendiamo affrontare qui il problema se in questo modo si raggiunga il coordinamento più

efficiente possibile e se siano ipotizzabili altre forme di coordinamento ancor più convenienti in

termini di costi di transazione risparmiati.

La nostra critica vuole essere più radicale e a questo fine intendiamo fare riferimento ad una

distinzione concettuale elaborata da Rawls (13). Nell’esaminare nelle sue lezioni di Storia della

filosofia politica il pensiero di Hobbes, Rawls sviluppa una distinzione tra due forme di

collaborazione che chiama rispettivamente coordinazione e cooperazione. La coordinazione è quella

che si verifica in un alveare o in una fabbrica, dove i vari partecipanti rispettano certe leggi o certi

ordini e in tal modo coordinano le loro azioni, con l’effetto di aumentarne la produttività.

La cooperazione, secondo Rawls, implica qualcosa di più del semplice coordinamento. Implica in

particolare l’idea che ciascuno partecipa all’attività comune in funzione di un vantaggio che può

ricavare dalla sua partecipazione alla collaborazione e che perciò, nella cooperazione non solo si

definiscono le regole di una qualche, più o meno efficiente, coordinazione, ma si discutono anche i

13(�) J. Rawls, Lectures on the History of Political Philosophy, Samuel Freeman (ed.), Harvard University Press,

2007, 56 ss.

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termini di una giusta ed equa cooperazione e che implicano necessariamente la concretizzazione di

una qualche nozione di mutualità o di reciprocità.

Derivano da questa impostazione due corollari. Il primo è che i termini della giusta cooperazione

operano anche come vincoli, come “… constraints that fair terms impose on efficient and

productive and coordinated social activity so that this activity is also fair social cooperation.” Il

secondo, meno sottolineato da Rawls, è che mentre la coordinazione può essere ottenuta in forza di

meccanismi automatici, o di regole che sono poste da una autorità esterna, e che i partecipanti

devono semplicemente subire, la cooperazione suppone che le regole che la governano debbano

essere discusse, motivate e in definitiva sempre pronte a resistere ad attacchi che ne contestino la

ragionevolezza (dal punto di vista dell’equità e della giustizia) e non solo la razionalità, intesa come

l’attitudine a produrre la coordinazione più efficiente.

Se ora caliamo questo schema concettuale nell’analisi dei problemi della società per azioni risulta

abbastanza evidente che l’impostazione proposta dall’agency theory privilegia decisamente aspetti

che potremmo definire di coordinazione rispetto ad aspetti che potremmo definire di cooperazione.

In concreto, infatti, la maggior preoccupazione degli autori che seguono questa impostazione è

quella di massimizzare l’efficienza della coordinazione inventando alchimie istituzionali

(distribuzione dei poteri) e attivando meccanismi impersonali (i vari mercati di cui abbiamo detto),

a discapito dei profili di cooperazione che richiederebbero invece il dialogo tra i diversi soggetti

interessati e la fissazione di regole non solo razionali, in quanto in grado di minimizzare i costi, ma

anche ragionevoli, in quanto in grado di assicurare a ciascuno la possibilità di partecipare secondo

criteri di giustizia e di equità ai proventi della collaborazione.

Al di là delle differenze, che pure esistono tra le varie impostazioni, il tratto decisivo comune a tutte

le teorie che variamente si richiamano allo schema dell’agency è probabilmente questo, e cioè l’idea

che sia possibile e produttiva una visione che privilegia le esigenze di coordinazione, e la

minimizzazione dei relativi costi, rispetto ad una visione che valorizza adeguatamente anche i

profili di cooperazione e si preoccupa perciò di creare l’ambiente istituzionale in cui possano essere

elaborate regole concordate e giuste.

È questa visione efficientistica, in cui la dialettica tra i vari interessi e persino il solo dialogo sono

considerati con sospetto, e trattati alla stregua di puri “costi” (di transazione), che induce a

privilegiare il ruolo degli amministratori, e ad affidare loro un ruolo centrale (sia quello di agenti

dei soci, come nella teoria dello shareholder value, sia quello di gerarchi mediatori, come nella

teoria della team production) nell’insieme dei meccanismi con cui si pensa di realizzare la

coordinazione tra i vari soggetti in maniera più o meno automatica, prevenendo ogni più costosa

mediazione tra i vari interessi confliggenti.

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Un superamento dell’ agency theory passa quindi attraverso un ripensamento del suo impianto

generale di prevalenza dei profili di coordinazione su quelli di cooperazione, e una correzione della

principale conseguenza di questa impostazione, e cioè l’ enfatizzazione del potere degli

amministratori (e, ovviamente, di coloro che li nominano).

7. Una prospettiva di superamento dell’agency theory.

Segnali, pur molto timidi, di un ripensamento di alcuni aspetti della teoria dell’ agency possono

essere registrati a vari livelli.

A livello europeo, sembra farsi strada l’idea che la predicata centralità dei soci non debba avere una

ricaduta esclusivamente monetaria in termini di massimizzazione della resa dei loro investimenti,

ma che debba anche tradursi in un maggiore diretto controllo dell’operato degli amministratori. Il

ragionamento e le prospettive di intervento che esso apre sono alquanto complessi. Le riflessioni in

sede europea prendono infatti necessariamente atto del fatto che i soci sono oramai costituiti in

massima parte da investitori istituzionali e soprattutto da intermediari (da gestori cioè di denaro

raccolto in un modo o nell’altro tra il pubblico). Ciò complica evidentemente la situazione, e pone

un problema di duplici rapporti: quelli tra i risparmiatori che hanno affidato le loro sostanze ad

intermediari ed i managers degli intermediari stessi, e quello tra questi managers e quelli delle

società in cui hanno investito.

Nel complesso l’orientamento dell’Unione sembra volere agire su entrambi i fronti. Sul primo

(quello dei rapporti tra risparmiatori e intermediari) l’obiettivo sembra essere quello di richiamare i

gestori ad una maggior consapevolezza che i loro doveri nei confronti dei risparmiatori includono

anche l’obbligo di diligentemente sorvegliare l’impiego che delle risorse dei risparmiatori fanno

coloro (i managers delle società in cui gli intermediari investono) ai quali le hanno affidate.

Sul secondo fronte, quello del rapporto tra intermediari e gestori delle società in cui i primi hanno

investito, la politica europea sembra ispirata dall’idea che un maggiore coinvolgimento dei soci

nella vita delle società, e una conseguente riduzione del potere degli amministratori, sia una

soluzione praticabile ed opportuna.

E’ difficile dire quanto queste idee siano giuste e realistiche. La prima (sensibilizzazione dei money

managers sulla necessità di intervenire nelle società in cui investono) corre il rischio di scontrarsi

con una realtà in cui gli investitori sembrano sempre più convinti di potere accrescere i propri

guadagni meno attraverso la promozione di un accorta gestione delle società in cui investono, e più

attraverso una continua e intelligente attività di trading, spesso affidata allo sfruttamento di

sofisticati algoritmi e della potenza di calcolo dei relativi macchinari. Ovviamente si può facilmente

obiettare che se le imprese delle società destinatarie dell’investimento e dell’attività di trading

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cominciassero ad andare tutte male, anche il più intelligente dei trader avrebbe difficoltà a

mantenere a lungo una elevata profittabilità. Resta comunque da vedere se sia realistica la

prospettiva di intermediari disposti ad affrontare spese per aumentare il valore di singole

partecipazioni, anziché il valore dei loro complessivi portafogli.

Ammesso che l’incentivo e la moral suasion volti a promuovere un maggior coinvolgimento degli

intermediari nelle società in cui investono abbia successo, resta da vedere se effettivamente questo

coinvolgimento prometta di produrre i risultati sperati.

La prospettiva positiva che gli organi dell’Unione sembrano intravedere è sostenuta da una seconda

idea, basata sulla convinzione che un fattore decisivo nel provocare la crisi del 2007- 2008 sia stato

lo scarso impegno dei soci nel sorvegliare gli amministratori e nell’ impedire, o almeno contenere,

le politiche che hanno condotto costoro ad assumere l’eccessiva quantità di rischi che si è poi

rivelata fatale per l’intero sistema14. Come si sa esistono però al riguardo convinzioni ben diverse,

sostanzialmente opposte, che attribuiscono alla pressione esercitata dalla fame di guadagni dei soci

la responsabilità di avere spinto gli amministratori verso le suddette politiche.

Ovviamente è difficile stabilire quale delle due tesi sia esatta e non è questo il luogo per affrontare il

problema.

Ciò che qui conta è registrare il potenziale mutamento di prospettiva che queste impostazioni

comportano. Il centro dell’attenzione non è più concentrato sugli amministratori, ed eventualmente

sulla configurazione dei loro doveri, ma sembra invece spostarsi verso una visione più dialettica, in

cui il momento decisivo è piuttosto quello della interazione tra soci e amministratori, nella

prospettiva dell’esercizio da parte dei primi di un’azione volta a prevenire non solo comportamenti

opportunistici, ma anche politiche inopportune, come quelle che comportano l’assunzione di rischi

eccessivi15.

Significativa è a anche la presenza di accenni alla possibilità che un ruolo simile sia svolto non solo

dai soci, ma anche da altri stakeholder e in particolare dai lavoratori16.

14� Directive 2017/ 828 Encouragement of long-term shareholder engagement: “ The financial crisis has revealed

that shareholders in many cases supported managers’ excessive short-term risk taking” (Rec.2)

15� Ibidem, “There is clear evidence that the current level of ‘monitoring’ of investee companies … is often

inadequate … which may lead to suboptimal corporate governance and performance”( Rec 2)

16� Ibidem, “Greater involvement of all stakeholders, in particular employees, in corporate governance is an

important factor in ensuring a more long-term approach by listed companies that needs to be encouraged and taken intoconsideration” ( rec. 14). V. anche Action plan 12.12. 2012, n. 3.5 “The Commission believes that employees’interest in the sustainability of their company is an element that ought to be considered in the design of any well-functioning governance framework”.

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Quello dell’Unione non è l’unico ordinamento in cui è forse in atto un ripensamento dei rapporti tra

stakeholder e amministratori. Significativo è anche l’esempio dell’ordinamento inglese, tra l’altro

uno dei pochi ordinamenti europei, insieme a quello italiano, a non avere al suo interno nessuno

strumento di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese (al di là ovviamente di

quelli previsti per tutti dall’ Unione).

Dopo il tentativo di modificare i rapporti tra gestori e stakeholder sfociato nell’emanazione del già

ricordato par. 172 del Companies Act , tentativo che non sembra avere dato frutti rilevanti,

l’attenzione dei legislatori inglesi sembra essersi spostata verso la possibile adozione di misure di

natura completamente diversa. Prescindendo dai programmi dell’opposizione laburista, in cui il

coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e il sostegno alle cooperative sono

considerati punti fondamentali, va ricordato l’importante tentativo del governo conservatore di

avviare un processo che possa condurre ad una rilevante modifica della governance societaria.

Proposte in un Green paper del 2017 e oggetto di un’ampia consultazione pubblica, sono al

momento allo studio tre proposte che propongono tre modelli diversi (ma non necessariamente

alternativi) di coinvolgimento degli stakeholder. Modelli che vanno da una speciale

responsabilizzazione di una parte del board (affidare ad uno o più amministratori il compito di

curare particolarmente gli interessi di una o più categorie di stakeholder e di rappresentarne le

esigenze all’intero consiglio) alla creazione di comitati rappresentativi dei vari stakeholder chiamati

ad interloquire stabilmente con il consiglio, fino alla istituzione di meccanismi di vera e propria

rappresentanza e alla nomina di uno o più membri del board da parte di stakeholder diversi dai

soci17.

Al di là della valutazione di merito di ciascuna delle strade ipotizzate, ciò che preme sottolineare è il

significativo mutamento di rotta rispetto al percorso ipotizzato nel Companies Act, ancora legato ad

una idea di centralità degli amministratori e alla convinzione di poter incidere semplicemente

modificando la definizione degli interessi che costoro devono assumere come punto di riferimento

delle loro scelte. Le più recenti proposte cui abbiamo poco fa accennato si caratterizzano invece per

il fatto di valorizzare una diretta rappresentazione, e almeno in uno degli strumenti proposti

addirittura una diretta rappresentanza, degli interessi degli stakeholder la cui identificazione e

valutazione non è più rimessa alla semplice benevolenza (più o meno legalmente obbligatoria) dei

managers.

17 � Queste indicazioni generali trovano una prima concretizzazione nell’ UK Corporate Governance Code emanato

dal Financial Reporting Council nel luglio 2018, che al punto 5 stabilisce che “ For engagement with the workforce, one or a combination of the following methods should be used: a director appointed from the workforce; a formal workforce advisory panel; a designated non-executive director. If the board has not chosen one or more of these methods, it should explain what alternative arrangements are in place and why it considers that they are effective”.

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8. Da una prospettiva di corporate governance ad una prospettiva di democratizzazione

dell’economia.

Nei paragrafi precedenti ci siamo mossi in una prospettiva circoscritta ai problemi della c.d.

corporate governance ed abbiamo cercato di delineare le prospettive teoriche e pratiche di un

passaggio da una sua concezione come mezzo di semplice coordinamento tra i proprietari delle

diverse risorse, per lo più specializzate, che sono utilizzate nello svolgimento dell’attività

dell’impresa sociale, ad una concezione che pone al centro i problemi di cooperazione tra tali

soggetti e quindi la necessità che un dialogo tra costoro stabilisca non solo i compiti di ciascuno

(coordinazione) ma anche legittime regole che assicurino a ciascuno una giusta quota del surplus

prodotto dall’attività comune (cooperazione).

La prima implicazione pratica dell’adozione di questa diversa prospettiva è, come si è visto,

l’abbandono di una visione che pone al centro della società per azioni il potere dei managers e

ovviamente, là dove esiste (ed è tuttora l’ipotesi più diffusa nella maggior parte degli ordinamenti),

dello stabile gruppo dei soci che li ha nominati, e sposta invece l’attenzione sulla necessità di dare

agli stakeholder la possibilità di presentare direttamente i loro interessi ed esigenze, e magari anche

di incidere sulle scelte dei managers, senza doversi limitare a fare affidamento sulla più o meno

legalmente dovuta benevolenza di costoro.

Vorremmo qui inoltre sottolineare che l’adozione di questa diversa prospettiva offre la possibilità di

andare al di là dell’orizzonte della corporate governance e di porre un più generale tema di

democratizzazione dell’economia. Il tema è ovviamente troppo complesso per potere essere

affrontato in questa sede. Si può comunque osservare che tra il livello specifico e in un certo senso

micro della corporate governance e i problemi sociali più generali esiste oggi un collegamento

ancora più stretto di quello che esisteva nel passato. Ciò è secondo noi dovuto a due fenomeni

connessi e paralleli che sono, da una parte, la oramai molto ridotta capacità dello Stato di

intervenire efficacemente sulla realtà sociale, e dall’altra l’assunzione da parte delle grandi imprese

di un ruolo sempre più rilevante anche sul piano politico, oltre che su quello economico.

In questa situazione, l’idea di una democrazia economica realizzata attraverso l’intervento dello

Stato nell’economico e nel sociale non sembra più in alcun modo proponibile, data l’assenza di

mezzi e di capacità impiegabili in un simile progetto di cui soffre lo stato contemporaneo. Sembra,

in particolare, improbabile che l’intervento dello stato correttivo dei risultati economici e sociali

prodotti dai meccanismi di mercato possa spingersi al di là di un certo limitatissimo livello. L’idea,

quindi, di combattere l’oramai diffusamente riconosciuta enorme crescita delle disuguaglianze

sociali attraverso un intervento redistributivo affidato sostanzialmente alla fiscalità generale, sembra

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assolutamente irrealistica. Ciò incide anche sulle possibilità e sugli esiti di un’azione orientata

esclusivamente ad un livello in un certo senso opposto, che privilegiasse, cioè, l’intervento a livello

di singole imprese. Si tratterebbe alla fine di un intervento che correrebbe il forte rischio di essere

affidato a soggetti sociali i cui potere e capacità di intervento pratico rifletterebbero inevitabilmente

le asimmetrie e le disuguaglianze esistenti nella società nel suo complesso, e si può anche dubitare

che in un simile contesto gli interventi a livello di governance delle single società possano avere

come esito la produzione di nuove localizzate disuguaglianze e quindi, nel complesso, un aumento

invece di una diminuzione delle disuguaglianze complessive.

Ciò premesso, la principale implicazione pratica che secondo noi dovrebbe avere il passaggio ad

una visione non solo di miglioramento della corporate governance ma di democratizzazione

dell’economia, è quella di immaginare e introdurre forme di collegamento istituzionalizzato tra le

diverse azioni che i diversi stakeholder potranno porre in essere utilizzando, ciascuno nel proprio

ambito, gli strumenti che l’ordinamento potrà porre a loro disposizione.

Occorrerebbe in questa prospettiva pensare a forme istituzionalizzate di collegamento tra

rappresentanze di diversi stakeholder e di queste con autorità pubbliche, a cominciare da quelle

affidatarie di specifici compiti, come ad es. le Autorità indipendenti. Dal primo punto di vista,

quello del dialogo tra i diversi stakeholder, non è difficile immaginare i vantaggi che potrebbero

derivare anche solo da scambi di punti di vista e informazioni (è interessante cercare di immaginare,

per esempio, l’incidenza che uno stabile contatto tra clienti e dipendenti della banca avrebbe potuto

avere sull’evoluzione delle recenti crisi bancarie italiane). Né è difficile immaginare l’incidenza che

potrebbe avere un’ opportuna istituzionalizzazione e disciplina dei rapporti tra Autorità

indipendenti, soprattutto quelle settoriali, e i rappresentanti dei dipendenti delle imprese soggette

alla loro autorità.

Va rilevato infine che esiste anche una non irrilevante prospettiva di allargamento della

collaborazione ad investitori che sono, o dovrebbero essere, particolarmente sensibili alle esigenze e

alla tutela degli interessi degli stakeholder. Pensiamo, in particolare, al fenomeno del c.d. socially

responsible investing e ai fondi pensione. Entrambe queste categorie di investitori sono, sia pure per

motivi diversi, interessati a prospettive di sostenibilità nel lungo periodo e quindi al dialogo per lo

meno con tutti gli stakeholder che condividono questo interesse.

9. Ribilanciare il potere del lavoro.

E’ ovvio che nell’ambito degli stakeholder non finanziari un ruolo centrale non possa non spettare

ai lavoratori dipendenti dell’impresa. I motivi di questa centralità sono molti e per lo più evidenti.

Ne vorremmo sottolineare solo uno, che si è materializzato in tempi relativamente recenti, e che qui

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non potremo approfondire come meriterebbe. Si tratta della oramai massiccia presenza dei

lavoratori, per il tramite dei fondi che amministrano le risorse destinate a coprire le loro pensioni,

anche sui mercati finanziari. I problemi e le opportunità che nascono da questa duplice presenza

(dal lato degli stakeholder a livello di impresa, da quello degli investitori, a livello di mercati

finanziari e società per azioni) non possono essere esplorati in questa sede, ma non se ne può certo

sottovalutare l’importanza.

Si tratta di un ruolo peculiare che appare già largamente riconosciuto, almeno in Europa, dove

esistono da tempo molteplici forme di coinvolgimento dei lavoratori, forme che vanno dalla

semplice possibilità di ottenere informazioni, fino alla presenza, anche rilevantissima (come nel

caso della Germania) di rappresentanti dei lavoratori negli organi societari. Un dato indicativo

dell’importanza del fenomeno è l’esistenza di forme (variegate) di c.d. di BLER (Board Level

Employee Participation) in ben 19 Paesi europei.

Alcune di queste esperienze sono state indotte dalla legislazione dell’Unione Europea. Molte sono

invece frutto di interventi peculiari ai singoli Paesi.

SI tratta comunque di esperienze di partecipazione che possono assumere forme molto diverse. Una

classificazione delle varie forme di coinvolgimento dei lavoratori è contenuta nella direttiva sulla

società europea e spazia dal semplice “involvement” sino alla “participation”, passando per i diritti

di informazione, consultazione, ecc.

I giudizi sugli effetti prodotti dalle diverse forme di coinvolgimento sperimentate nei vari paesi non

sono univoci, e spesso discusse sono anche le prospettive di sviluppo o di involuzione di ciascuna.

Un giudizio complessivo ragionato è difficile da formulare in assenza di una analisi dettagliata di

ciascuna situazione, tanto più che viene spesso segnalata l’esistenza di un notevole scarto tra la

disciplina formalmente vigente e la sua effettiva applicazione.

In ogni caso sembra che tutte queste esperienze abbiano finito per collocarsi all’interno di

prospettive in cui prevalgono esigenze di governo delle relazioni industriali, anche se queste

assumono talvolta un configurazione allargata, fino a comprendere visioni più prospettiche e

progettuali.

La prospettiva che qui si intende proporre è alquanto diversa in quanto la partecipazione dei

lavoratori andrebbe ad inquadrarsi nel più generale discorso che abbiamo sviluppato pocanzi con

riferimento in generale a tutti gli stakehoder. L’ empowerment di tutti gli stakeholder, compresi i

lavoratori, dovrebbe essere considerato, come abbiamo detto, parte di un progetto di miglioramento

della qualità della corporate governance e, in prospettiva, di democratizzazione dell’economia. E’

ovvio che ciascun stakeholder presenta proprie peculiarità (ad es., alcuni come i consumatori hanno

spesso una facile possibilità di esercitare la c.d. facoltà di exit, possibilità che altri, si pensi ad es.,

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all’ambiente, non hanno). E’ conseguentemente ovvio che ogni stakeholder userà gli strumenti di

partecipazione posti a sua disposizione anche per la difesa delle proprie peculiari posizioni e così

potrà succedere anche per i lavoratori. Ci sembra tuttavia comunque importante che l’elaborazione

dell’architettura istituzionale avvenga nella prospettiva di favorire al massimo una partecipazione

coordinata degli stakeholder.

Se si adottano queste prospettive (miglioramento della corporate governance / democratizzazione

dell’economia) del resto naturalmente convergenti, il coinvolgimento dei lavoratori può essere

ripensato all’interno di un quadro che, oltre a fare riferimento alle ovvie istanze di autotutela degli

interessi dei lavoratori, valorizzi sia quegli aspetti del loro coinvolgimento che possono ridondare a

vantaggio di tutti gli stakeholder, sia i possibili diretti collegamenti tra tutti gli stakeholder, a

partire dai lavoratori stessi.

Passando all’esame di qualche strumento concreto distingueremo per comodità di esposizione tra

strumenti che comportano una corresponsabilizzazione all’interno dell’attuale organizzazione

societaria e strumenti che invece privilegiano un’influenza dall’esterno o attraverso organi

appositamente creati.

Iniziando dai primi, riteniamo anzitutto che una prospettiva sensibile alle istanze esposte nel corso

del presente lavoro dovrebbe decisamente superare l’idea, apparentemente abbastanza diffusa in

Italia (ma non solo da noi), secondo cui il luogo di elezione per la partecipazione dei lavoratori

sarebbe il consiglio di sorveglianza delle società per azioni che hanno adottato il sistema dualistico.

A parte la stranezza di far dipendere la partecipazione dei lavoratori dal fatto che la società abbia

scelto l’una o l’altra forma giuridica, a parte il sapore beffardo di un riferimento ad una forma

giuridica che nel nostro ordinamento è utilizzata da una percentuale pressoché insignificante di

società per azioni, ciò che appare altamente contestabile è proprio l’idea di fondo che sta alla base

di questa convinzione e cioè l’idea che il ruolo appropriato per i lavoratori sia esclusivamente

quello dei controllori. Al di là delle complesse questioni relative alla natura e alle possibili

competenze che il nostro ordinamento assegna al consiglio di sorveglianza, ci sembra che l’idea di

privilegiare un organo che comunque è molto lontano dalla gestione ordinaria dell’impresa, sia

espressione di una mentalità che per la ragioni esposte nel corso del lavoro deve essere

assolutamente superata.

Una seria riflessione merita di essere compiuta, da ben diverso punto di vista, anche con riguardo

allo strumento apparentemente più impegnativo di empowerment dei lavoratori e cioè la c.d. BLER,

che prevede la presenza nel consiglio di amministrazione di consiglieri nominati direttamente dai

lavoratori.

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Questa che sembra la misura più semplice e radicale porta in realtà con sé alcuni rilevanti problemi.

Il principale è che nel nostro ordinamento, come in tutti quelli simili, si suppone che gli

amministratori, da chiunque e in qualsiasi modo nominati, siano poi tenuti a orientare la loro azione

sociale verso il perseguimento della soddisfazione dello stesso interesse, uguale e ugualmente

vincolante per tutti. Si tratta di un interesse la cui precisa definizione è tradizionalmente discussa (si

va, come è ben noto, dalle tesi che considerano la società per azioni come un organismo dotato di

un proprio interesse distinto da quello di tutti i soggetti che vi partecipano, a quelle che, all’estremo

opposto, considerano rilevante il solo interesse degli investitori alla massimizzazione del valore dei

loro apporti). Al momento non sembra però agevole una riformulazione della nozione di interesse

sociale in cui gli interessi dei diversi stakeholder possano trovare una sistemazione effettivamente

equilibrata e non mistificatoria come nelle dottrine che fanno in qualche modo riferimento all’

Unternehmen an sich.

Il rischio è quindi quello di una partecipazione in cui le specifiche esigenze dei lavoratori (o di

qualsiasi altro stakeholder diverso dai soci) finiscano non solo per essere aprioristicamente

subordinate all’interesse dell’impresa, ma per essere addirittura ignorate, quando ritenute irrilevanti

dal punto di vista dell’ interesse sociale ( comunque definito). In termini più bruschi il rischio è

quello che gli amministratori nominati dai lavoratori siano risucchiati in una logica non molto

diversa da quella che ispira l’azione di tutti gli altri amministratori.

Non va neanche sottovalutata l’inevitabile limitazione della libertà di azione che consegue

all’assunzione della qualità di amministratore, a cominciare dagli obblighi di riservatezza che

possono compromettere qualsiasi dialogo tra i consiglieri di amministrazione e coloro che li hanno

nominati.

È ovvio che da un punto di vista strategico la ridefinizione dell’interesse dell’impresa nel senso di

una paritaria considerazione di tutti gli stakeholder rappresenta un obiettivo irrinunciabile. È però

più che probabile che da un punto di vista tattico la centralizzazione del dibattito sul tema della

ridefinizione dell’interesse sociale finirebbe per avere effetti controproducenti. Pressoché

inevitabile sarebbe un impantanamento della discussione nella rievocazione di tutte le infinite

varianti che sono state storicamente proposte della nozione di interesse sociale. Sembra quindi

praticamente più opportuno che la discussione sulla nozione di interesse sociale segua anziché

precedere la sperimentazione di concrete forme di partecipazione dei lavoratori al governo

dell’impresa.

In questa prospettiva la diretta partecipazione di rappresentanti dei lavoratori ai consigli di

amministrazione delle società per azioni va valutata con particolare cautela.

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Come anche l’esperienza inglese suggerisce, oltre alla partecipazione nel board molte altre

possibilità di coinvolgimento dei lavoratori all’interno della società esistono o possono essere

inventate.

Inutile probabilmente esercitare qui la fantasia immaginando tutte le varie possibilità concepibili

(comitati misti composti da consiglieri di amministrazione e rappresentanti di lavoratori o di

stakeholder più in generale; comitati composti solo da stakeholder, misti o ciascuno composto solo

da una specifica categoria; poteri: consultazione obbligatoria, proposte al consiglio, poteri di

approvazione di certe decisioni o di veto su altre, potere di consultazione di componenti societarie

come i revisori, i managers , occasionale presenza alle discussioni e votazioni del consiglio, ecc.).

Probabilmente solo una sperimentazione diversificata e decentrata potrà selezionare gli strumenti

migliori, che ovviamente non è detto che debbano essere i medesimi per tutte le diverse situazioni.

Tenendo anche presente la possibilità di combinare diversi tra questi strumenti e anche uno o più di

questi con altri.

Esiste infine la possibilità di pensare a forme di partecipazione che passano attraverso strumenti

esterni la cui funzione e poteri vengono però almeno parzialmente istituzionalizzati. L’esempio più

immediato è offerto dalla variegata esperienza dei work councils.

Qui il rischio nasce dal fatto che si tratta di un istituto particolarmente esposto ad essere interpretato

come un mezzo di rivendicazione aziendale del ruolo del lavoro, più che come uno strumento di

democratizzazione della gestione dell’impresa.

Si può anche pensare di dargli poteri istituzionali, come in parte succede in Germania, ma è difficile

pensare che questi poteri possano andare al di là di quanto strettamente necessario a realizzare una

protezione dei lavoratori della specifica impresa a fronte di eventi che riguardano quella impresa.

Si tratta peraltro di uno strumento più duttile della partecipazione al board, che potrebbe aggirare i

problemi che affliggono la rappresentanza dei lavoratori nel board e che potrebbe essere ripensato

in modo da evitare i limiti ed i difetti sinora emersi nei vari ordinamenti europei.

In particolare se si riuscisse a realizzare un opportuno raccordo tra l’istituzione di works council e

appropriate innovazioni nel funzionamento degli organi sociali.

Molti degli strumenti esaminati potrebbero essere ripensati in una prospettiva non isolata, ma di

collegamento con l’azione dei works council.

Per esempio, delegati dei consigli potrebbero essere chiamati a partecipare alle sedute del board ,

magari con voto solo su determinati argomenti, senza essere assoggettati allo statuto giuridico dei

membri ordinari, oppure uno o più rappresentanti del consiglio dei lavoratori potrebbero partecipare

a tutte le riunioni del board:

- senza diritto di intervento;

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- con diritto di intervento generale;

- con diritto di intervento solo su alcune materie.

Quanto alle concrete prospettive di attivare iniziative regolatorie nel senso qui auspicato, è anzitutto

da sottolineare che significativi interventi autoritativi sembrano al momento impensabili e

improponibili.

Rispetto alla delega pressoché totale all’autonomia privata presente negli attuali progetti si potrebbe

però pensare a interventi di c.d. soft law:

- definire un regime completo (quindi non solo dei principi), senz’altro applicabile salvo diversa

volontà dell’ impresa (o delle parti in generale?) [c.d. opt-out];

- definire più regimi alternativi sempre con il sistema dell’opt–out, oppure con il sistema dell’opt-

in;

- stabilire diversi gradi di vincolatività dei “modelli” (le parti decidono se entrare, ma se entrano

non possono cambiare il modello oltre un certo limite);

- accompagnare con un vincolo c.d. di complain or explain.

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Un salario minimo per legge in Italia?Una proposta per il dibattito

Andrea Garnero1

Presentato al seminario organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità

30 ottobre 2018, Milano

presso la Casa della Cultura

(in corso di pubblicazione sulla rivista Diritto delle relazioni industriali)

Riassunto

La proposta di introdurre un salario minimo per legge, a complemento deiminimi salariali negoziati da sindacati e associazioni datoriali con i contratticollettivi nazionali di lavoro, si scontra da anni con l’opposizione delle partisociali e in particolare dei sindacati. Il timore è che un minimo legale porti auno schiacciamento dei salari al ribasso e alla fine della contrattazionecollettiva. Complice la crisi economica e l’esperienza di altri paesi, però,diversi partiti politici di tutto lo spettro parlamentare hanno fatto proprial’idea. Partendo da una rapida descrizione del funzionamento di questostrumento negli altri paesi OCSE, questa nota elabora una proposta per ildibattito in corso con l’obiettivo di garantire l’efficacia del salario minimo e diconciliarlo con i contratti collettivi esistenti. Perché questo sia possibile ilsalario minimo legale deve essere lasciato nelle mani di una commissionetripartita e accompagnato da un’estensione erga omnes dei contratti collettiviche sono firmati da organizzazioni rappresentative e che garantisconoadeguati margini di flessibilità per adattare i termini del contratto alle esigenzeaziendali e/o locali sul modello dei contratti quadro nei paesi scandinavi.

1 Economista presso l’OCSE, ricercatore affiliato all’Université libre de Bruxelles eall’Institute of Labor Economics di Bonn (IZA). L’articolo è in corso di pubblicazione sulla rivista Diritto delle relazioni industriali.L’autore desidera ringraziare Ilaria Armaroli, Fabrizio Barca, Roberto Benaglia,Tiziana Bocchi, Tito Boeri, Daniele Checchi, Marco Leonardi, Franco Martini,Massimo Pallini, Michele Tiraboschi e Paolo Tomassetti per i loro commenti sullebozze precedenti. Le idee e le opinioni espresse rappresentano esclusivamente ilpunto di vista dell’autore e non necessariamente quelle dell’OCSE e dei suoi Statimembri o del Forum Disuguaglianze Diversità e dei suoi componenti.

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ANDREA GARNERO

1. Introduzione

Da diversi decenni in Italia si discute sull’opportunità e sugli strumentinecessari per rendere il sistema di contrattazione collettiva piùfunzionale e flessibile in un paese con differenze importanti tra territorie imprese. I cambiamenti avvenuti negli ultimi venti anni in Germaniasono spesso portati ad esempio. Inoltre, durante la crisi, tutti i paesieuropei che hanno fatto riforme importanti del mercato del lavorohanno anche modificato le norme che regolano la contrattazionecollettiva: con alterni successi, riforme profonde sono state fatte inFrancia, Grecia, Spagna e Portogallo.In Italia, invece, in assenza di cambiamenti sostanziali nelle norme enella pratica di contrattazione collettiva, i margini di flessibilità sonostati in larga parte ritagliati da imprese e sindacati in maniera informalee ad hoc. Un indebolimento delle parti sociali tradizionali (a voltesconfessate dai propri stessi membri), un numero crescente di contratticosiddetti pirata e un numero significativo di lavoratori pagati meno deiminimi contrattuali sollevano dubbi sulla capacità del sistema dicontrattazione collettiva italiano di proteggere i lavoratori più deboli edifendere le imprese da concorrenti spregiudicati. Negli ultimi quindici anni, inoltre, anche in Italia si è cominciato adiscutere sull’opportunità di un salario minimo per legge el’introduzione del salario minimo in Germania ha reso la questionepoliticamente più interessante. In quasi tutti i paesi del mondo esisteuna forma di salario di base per proteggere i lavoratori più deboli egarantire condizioni di parità salariale tra le imprese. In Italia, come inAustria e nei paesi scandinavi, i minimi salariali non sono fissati perlegge ma solo nei contratti collettivi nazionali, settore per settore. Conuna copertura elevata dei contratti collettivi, un salario minimo legale ominimi settoriali possono essere considerati strumenti equivalenti. Conl’indebolimento delle parti sociali e della contrattazione collettiva,però, i lavoratori più deboli rischiano di trovarsi senza un salario dibase e a dover accettare minimi al di sotto di quelli previsti dai contratticollettivi.Nella legge delega del Jobs Act, il Parlamento italiano aveva datomandato al Governo di introdurre un salario minimo legale per ilavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva. Il Governo, perl’opposizione delle parti sociali, alla fine decise di non procedere.Tuttavia, alle ultime elezioni il salario minimo è stato uno dei non moltitemi trasversali in ambito di lavoro tra diversi partiti: la proposta erapresente nei programmi di Lega, Movimento 5 Stelle e Partito

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

Democratico (2). In seguito, il salario minimo è entrato anche nelcontratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle.Le parti sociali rimangono fermamente opposte. I sindacati, inparticolare, temono che un salario minimo legale svuoti lacontrattazione collettiva. Tuttavia, l’esperienza di altri paesi OCSE, inparticolare Regno Unito e Germania in cui il salario minimo è statointrodotto di recente, mostra come il salario minimo sia piuttosto unrisultato dell’indebolimento della contrattazione collettiva e non lacausa.Non è improbabile, dunque, aspettarsi che a un certo punto il Governoo il Parlamento (di qualunque colore) procedano autonomamente datoche si tratta di un intervento a costo zero (o molto limitato) per le cassedello Stato e di relativa semplicità comunicativa. Decreti affrettati einvisi alle parti sociali (che sul terreno, poi devono appropriarsi deglistrumenti previsti dalle leggi e vigilare sul loro rispetto) sono raramenteil metodo migliore per riforme del mercato del lavoro efficaci edurature. Il solo strumento del minimo legale, senza modifiche alsistema di contrattazione collettiva, potrebbe, poi, avere effetti limitatirispetto alle ambizioni proclamate.Per evitare decreti affrettati, è necessario, però, che il dibattito entri neidettagli e includa anche il sistema di contrattazione collettiva più ingenerale. L’introduzione di un salario minimo per legge, infatti, puòdiventare l’occasione per rafforzare la copertura effettiva dei contrattinazionali in cambio di margini di flessibilità più chiari e regolamentatia beneficio dei lavoratori più deboli e delle imprese menorappresentate.

2. Che cos’è e come funziona il salario minimo negli altri paesiOCSE?

Il salario minimo è la remunerazione base che un datore di lavoro ètenuto a pagare a un lavoratore dipendente per il lavoro svolto duranteun determinato periodo. Il salario minimo non va confuso con il redditominimo che è uno strumento di sostegno al reddito nonnecessariamente collegato al lavoro.Un salario minimo può essere fissato per legge o dalla contrattazionecollettiva. 28 dei 36 paesi OCSE hanno un salario minimo fissato leggesotto varie forme (v. Figura 1). In alcuni paesi il minimo legale è fissatoa livello nazionale, come in Francia, Germania (dal 2015) o Regno

2 E. MASSAGLI, F. NESPOLI e F. SEGHEZZI, Elezioni 2018: il lavoro nei programmi deipartiti, ADAPT Labour Studies, e-Book series n. 71, 2018.

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ANDREA GARNERO

Unito. In altri paesi è fissato a livello sub-nazionale: come negli StatiUniti, Messico, Giappone, Cina o Brasile. In alcuni casi il salariominimo legale può essere definito anche solo per alcuni settori (comenel caso della Germania prima dell’introduzione del minimo nazionalenel 2015) o per specifiche occupazioni (come a Cipro). In alcuni paesi, il valore del salario minimo è definito per sceltapolitica, come negli Stati Uniti, e quindi soggetto alle maggioranze delmomento. In altri paesi è lasciato alle parti sociali (tipo in Belgio), inaltri ancora è nelle mani di una commissione specifica (tipo la Low PayCommission britannica o la Mindestlohn Kommission tedesca) che, conil coinvolgimento di parti sociali ed esperti, hanno il ruolo dipromuovere un dibattito informato e non politico e dare consigli,normalmente seguiti, al Governo o Parlamento.Il valore del salario minimo varia fortemente tra i paesi OCSE (v.Figura 1). Va dal 35% del salario mediano negli Stati Uniti a oltre il70% in Cile o Turchia (dove, però la parte di lavoratori informalispinge il salario mediano al ribasso). Tuttavia, questi valori lordi delsalario minimo non forniscono un quadro accurato della retribuzionenetta dei lavoratori, né dei costi derivanti dall'assunzione di lavoratoricon salario minimo per le imprese. Infatti, per ridurre i costi dei datoridi lavoro e il rischio di perdite occupazionali, alcuni paesi, inparticolare la Francia, hanno introdotto consistenti riduzioni deicontributi previdenziali per i datori di lavoro per le imprese cheimpiegano lavoratori con salario minimo. Altri paesi hanno tentato diaumentare l'efficacia del salario minimo utilizzando riduzioni miratedelle imposte sul reddito o dei contributi sociali dei dipendenti per ilavoratori a basso reddito. Alcuni paesi offrono crediti d'imposta osussidi ai lavoratori a basso reddito (ad esempio Belgio, Messico,Regno Unito), mentre altri si basano su imposte progressive sul redditoper mantenere gli oneri fiscali dei lavoratori a basso reddito ben al disotto di quelli applicabili al lavoratore medio (es. Nuova Zelanda).

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

Figura 1: Salari minimi lordi e netti e costo del lavoro al salario

minimo nei paesi dell'OCSE con salario minimo legale, 2016

In % della retribuzione media lorda, della retribuzione media netta e del

costo medio della manodopera rispettivamente

Nota: Il costo del lavoro è calcolato come il salario minimo lordo a cui si aggiungono icontributi previdenziali del datore di lavoro. I dati si riferiscono a una persona sola senza figlidi 40 anni che lavora a tempo pieno. Si includono anche i sussidi in denaro per assistenzasociale e alloggio se disponibili.

Fonte: Database delle politiche del mercato del lavoro dell'OCSE e modello TaxBendell'OCSE. Il Messico non è incluso perché assente nel modello TaxBen dell’OCSE.

Infine, diversi paesi OCSE prevedono minimi legali inferiori per igiovani (sotto i 18 o anche sotto i 25 come in Grecia) e gli apprendisti.Differenziazioni regionali, invece, sono presenti solo in paesi federalicome il Canada, il Messico o gli Stati Uniti (in cui addirittura puòessere stabilito a livello di città) e in Giappone. In Germania è previstaanche la possibilità di un minimo ridotto per i disoccupati di lungoperiodo per aiutarli a ritrovare lavoro (3).

3 Dalle prime analisi sembra però che le aziende non usino molto questa possibilitàper questioni di praticità (differenziare i salari implica costi di gestione del personalepiù elevati) ed equità (pagare in maniera differenziata i lavoratori può creare inutilitensioni sul posto di lavoro), si veda, per esempio, UMKEHRER, M. e P. VOM BERGE,When employers don’t pick up the 20 euro bills – Evaluating the minimum-wageexemption of the long-term unemployed in Germany, 2018, mimeo.

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ANDREA GARNERO

Tabella 1: Differenziazione del minimo legale nei paesi OCSE

Giovani Disoccupati di lungoperiodo

Regioni

Australia, Cile, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Israele, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Portogallo, Slovacchia, Regno Unito, Stati Uniti

Germania Canada, Giappone, Messico, Stati Uniti

Fonte: Elaborazione a partire da OCSE, “Recent labour market developments with a focus onminimum wages”, Capitolo 1 dell’OECD Employment Outlook 2015, 2015, OECD Publishing,Paris.

3. L’impatto del salario minimo su occupazione, disuguaglianze epovertà

I salari minimi sono la leva politica più diretta che i governi hanno perinfluenzare il salario e hanno l’obiettivo di proteggere i lavoratori dasalari eccessivamente bassi. Il loro impatto sul mercato del lavoro è, dadecenni, fonte di controversie acute tra gli economisti. Nel modellobase di domanda e offerta del mercato del lavoro, un salario superiore aquello di mercato (cioè quello che spontaneamente sorge dall’incontrotra domanda e offerta) genera disoccupazione. Però i risultati deglistudi empirici hanno messo in dubbio questa semplice ipotesigenerando un ampio e duraturo dibattito. Gli economisti americaniCard e Krueger (4), per esempio, sono stati tra i primi a evidenziare che,in realtà, il salario minimo potrebbe non avere effetti negativisull’occupazione. Neumark e Wascher (5), invece, rimangono convintiche si tratti di uno strumento che rischia di danneggiare più chebeneficiare i lavoratori deboli; e il dibattito continua. Da un’analisi della letteratura disponibile, si può concludere che, stantigli attuali livelli di salario minimo, l’effetto sull’occupazione sia onullo o limitato e circoscritto alle fasce più deboli come giovani alleprime esperienze o lavoratori poco qualificati. Questo risultato in

4 D. CARD e A.B. KRUEGER, Minimum Wages and Employment: A Case Study of theFast-Food Industry in New Jersey and Pennsylvania, in American Economic Review,1994, Vol. 84/4, pp. 772-793.5 D. NEUMARK e W. WASCHER, Minimum Wages, MIT Press, Cambridge,Massachusetts, 2018.

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

contraddizione con un modello di mercato del lavoro in concorrenzaperfetta può essere il risultato di un funzionamento non perfettamentecompetitivo del mercato del lavoro (anche il libro di microeconomiabase suggerisce che in caso di monopsonio, cioè di potere di fissazionedel salario unilaterale da parte dell’impresa, un salario minimo puòaumentare l’occupazione invece di ridurla) oppure dovuto alla presenzadi altri canali di aggiustamento oltre all’occupazione, come minoriprofitti, maggiore produttività o incremento dei prezzi che hannotrovato qualche conferma nella letteratura (6).Quale ruolo può giocare il salario minimo contro la disuguaglianza e lapovertà? Retribuzioni minime più elevate sono associate a unadisuguaglianza salariale più bassa (7). Questo avviene per un effettomeccanico dato che un minimo legale tronca la parte bassa delladistribuzione salariale (o perché i lavoratori pagati del minimo vedonoil loro salario aumentare o perché vengono licenziati) ma anche per uneffetto “onda” sul resto della distribuzione: per mantenere un minimodi differenziale tra lavoratori con diversi ruoli e competenze anche isalari superiori al minimo tendono ad aumentare. Un salario minimolegale, poi, può anche ridurre la crescita dei salari nella parte superioredella distribuzione (perché i datori di lavoro non possono permettersiaumenti equivalenti), contribuendo a ridurre ulteriormente la disparitàsalariale (8). Se si considera l’intera vita lavorativa, l’effetto “pre-distributivo” del salario minimo è sempre presente ma è inferiore pereffetto della mobilità salariale oltre ai minimi nel corso della carriera(9).In compenso un salario minimo legale è uno strumento solo parzialenella lotta alla povertà, anche limitatamente alla povertà lavorativa.Situazioni di povertà possono emergere da paghe orarie basse, ma sonosoprattutto determinate dall’avere un lavoro o meno, dall’intensità diquesto lavoro (poche ore o a tempo pieno) e dalla composizione

6 Si vedano, per esempio, S. ALLEGRETTO e M. REICH, Are local minimum wagesabsorbed by price increases? Estimates from internet-based restaurant menus, in ILRReview, 2018, 71(1), pp. 35–63.; M. DRACA, S. MACHIN e J. VAN REENEN, MinimumWages and Firm Profitability, in American Economic Journal: Applied Economics,2011, vol. 3, pp. 129-151; R. RILEY e C. ROSAZZA-BONDIBENE, Raising the standard:Minimum wages and firm productivity, in Labour Economics, 2017, 44(C), pp. 27–50.7 OCSE, The quality of working lives: Earnings mobility, labour market risk andlong-term inequality, Capitolo 4 in OECD Employment Outlook 2015, OECDPublishing, Paris, 2015.8 B. HIRSCH, B.E. KAUFMAN e T. ZELENSKA, “Minimum Wage Channels ofAdjustment”, in Industrial Relations, 2015, vol. 54/2, pp. 199-239.9 OCSE (2015), op. cit..

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familiare. Un salario minimo legale può “solo” assicurare un minimoorario, ma niente di più. Inoltre, il salario minimo non semprecorrisponde a quello che gli inglesi chiamano un living wage, cioè unsalario sufficiente per vivere. Così, un salario minimo legale, uguale intutto il Paese può permettere di vivere dignitosamente in una zona dicampagna ma essere del tutto inadeguato nel centro della capitale.Inoltre il salario minimo non riguarda solo i poveri. In Francia, peresempio, solo il 19% dei lavoratori pagati al salario minimo è povero. In un’ottica di lotta alla povertà, quindi, un salario minimo deve esserecompletato da altri strumenti e in particolare forme di prestazionisociali per chi lavora (in-work benefits) che sostengano il reddito senzadisincentivare il lavoro.

4. Minimi salariali in ItaliaNel 2015 il salario minimo orario lordo fissato nei contratti collettivinazionali di lavoro (CCLN), cioè il minimo tabellare più basso,includendo eventuali tredicesime e quattordicesime, ma escludendoanzianità o supplementi salariali per turni notturni o attività particolario bonus, era in media di 9,41 euro, 17,7 per cento in più rispetto al2008 quando si fermava a circa 8 euro l’ora (10). Si tratta di cifrerelativamente alte rispetto al salario mediano che era di 11,77 eurolordi. Il rapporto minimo/mediano in Italia è di circa l’80 per centoquando in Francia il salario minimo nazionale lordo, che in molti casiequivale ai minimi negoziati negli accordi settoriali, è circa il 60 percento e in Germania è intorno al 50 per cento.Gli stessi minimi, poi, si applicano sull’intero territorio nazionale.Tuttavia, come mostra la Figura 2, dati i ben noti diversi livelli disviluppo tra le regioni, il peso relativo dei minimi tabellari è diverso siache li si compari al potere d’acquisto regionale (del capoluogo diregione nella Figura 2) sia rispetto al salario mediano regionale (ilcosiddetto indice di Kaitz).

10 Si veda anche la ricognizione di L. BIRINDELLI, I «minimi» nei Contratti CollettiviNazionali di Lavoro, in BIRINDELLI, L., S. LEONARDI e M. RAITANO, Salari minimicontrattuali e bassi salari nelle imprese del terziario privato, Ediesse, Roma, 2017.

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Figura 2 – Minimi tabellari per regione

Fonte: A. GARNERO, The Dog That Barks Doesn't Bite: Coverage and compliance of sectoralminimum wages in Italy, in IZA Journal of Labor Policy, 2018, vol. 7 (3).

I minimi tabellari italiani appaiono elevati sulla carta. La situazione sulterreno, però, è un po’ diversa. Incrociando i dati sui minimi tabellariraccolti dall’Istat con i salari contenuti nelle Rilevazione sulle forze dilavoro si scopre che in media circa il 10 per cento dei lavoratori riceveun salario orario del 20 per cento in meno rispetto al minimo settoriale.Una stima precisa dei lavoratori sottopagati è complessa a causa dierrori di misurazione e di campionamento, ma i risultati ottenutiutilizzando la Rilevazione sulla struttura dei redditi da lavoro o i datiInps mostrano tendenze simili così come altre stime (11). In sostanza, lacontrattazione collettiva offre minimi elevati, ma di fatto, una fettaimportante di lavoratori dipendenti (senza contare autonomi vari a cui icontratti collettivi ovviamente non si applicano) ne è esclusa, inparticolare al Sud (v. Figura 3) e nelle piccole imprese (v. Tabella 2).

11 Si vedano A. GARNERO, op.cit. e C. LUCIFORA, Il salario minimo: contrattazione ominimo legale? in C. DELL’ARINGA, C. LUCIFORA e T. TREU (eds.), Salari,produttività, diseguaglianze, 2017, AREL, Il Mulino

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Figura 3 – Percentuale di lavoratori pagati meno del minimo

tabellare di riferimento per regione

Fonte: A. GARNERO, op.cit.

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

Tabella 2: Percentuale di lavoratori pagati meno del minimo

tabellare di riferimento per taglia di impresa

Fonte: A. GARNERO, op. cit.

Com’è possibile che i contratti collettivi non siano rispettati? Ci sonotanti modi in cui un datore di lavoro può sottopagare i dipendenti.Alcuni illegali, a partire dal nero, oppure chiedendo ai dipendenti dilavorare ore extra non retribuite; oppure si possono sotto-inquadrare ilavoratori. Ma ci sono anche modi legali (o quasi), come sostituireimpiegati dipendenti con partite Iva (o parasubordinati) a cui i terminidei contratti collettivi non si applicano. Oppure ancora firmando unaccordo “pirata” con un sindacato poco rappresentativo con l’obiettivoesplicito di pagare salari più bassi (12). Infine, è possibile che in alcunicasi la complessità del sistema porti i datori di lavoro, in particolarenelle piccole imprese, a fare riferimento a un contratto errato. Infatti,dal 2012 (da quando comincia la serie storica) il numero di contrattidepositati presso il CNEL è aumentato del 60% (v. Figura 4). Oltremetà sono scaduti.

Figura 4: Numero di contratti collettivi nazionali di lavoro

vigenti depositati al CNEL

Fonte: CNEL, Rapporto su Mercato del Lavoro e Contrattazione collettiva 2016-2017.

Questi numeri in parte riflettono la ripresa della contrattazione dopola fine della crisi, in parte una cresciuta specializzazione settoriale.Tuttavia, sono anche un chiaro indizio di crescente frammentazione,come sottolineato da D’Amuri e Nizzi (13). Il CNEL, infatti, ci dice12 P. TOMASSETTI, La nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo neldecreto legislativo n. 81/2015, in DLRI, 2015, vol. 26(2), pp. 368–392.; G. OLINI,Invertire la tendenza alla proliferazione dei contratti nazionali di lavoro, in C.DELL’ARINGA, C. LUCIFORA e T. TREU, op. cit., 2017.13 D’AMURI, F. e R. NIZZI (2017), I recenti sviluppi delle relazioni industriali inItalia, in Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) n. 416, Banca

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che dei contratti vigenti solo il 33% è firmato dalla CGIL, CISL e/oUIL. Confindustria da parte sua firma solo il 14% dei contrattivigenti. Nel settore del commercio, per esempio, esistono 192contratti vigenti, dei quali solo 23 firmati da CGIL, CISL e/oUIL(14).In assenza di regole chiare sulla rappresentanza (gli accordiinterconfederali sul tema sono rimasti lettera morta, ma si attendel’attuazione del Patto della Fabbrica firmato nel marzo 2018 e illavoro del CNEL e dell’INPS al riguardo), la frammentazione apre laporta ad abusi e alla firma di “contratti pirata”, cioè contratti siglatida parti sociali non rappresentative con l’obiettivo esplicito di fissarecondizioni “al ribasso”. Questa flessibilità può servire da scappatoiaper chi non riesce a sottostare ad accordi troppo stringenti, madiventa anche uno strumento di concorrenza sleale. La reazioneistintiva di fronte a questi dati è di chiedere più controlli e penemaggiori. Può certamente aiutare, ma è anche necessario agire sugliincentivi degli attori e ridurre l’oggettiva complessità del sistema. La moltiplicazione degli accordi, anche non pirata, aggiungecomplessità a un sistema già non facilmente leggibile. In alcuni casi,infatti, determinare il perimetro dei diversi settori non è semplice ele imprese possono scegliere di applicare un CCNL in luogo di unaltro.

5. Il dibattito sul salario minimo in Italia

5.1 Le proposte politicheIn Italia l’idea di un salario minimo nazionale è discussa da molti anni(15). Il tema però è stato a lungo ai margini del dibattito e maiapprofondito fino in fondo. Come ricorda Mariella Magnani16, laproposta di inserire un salario minimo legale affiorò anche nel corso deilavori dell’Assemblea Costituente. La proposta fu respinta per ladifficoltà di legiferare in presenza di una grande eterogeneità dei settoriproduttivi.La crisi economica e l’introduzione del salario minimo in Germania,però, hanno attirato l’attenzione della politica su questo strumento. Nel

d’Italia.14 Per un’analisi dettagliata della proliferazione dei contratti di lavoro si veda G.OLINI, op. cit., 2017.15 Si veda il ricco riassunto del dibattito accademico e politico in M. MAGNANI, Ilsalario minimo legale, Riv. it. dir. lav., fasc. 4, 2010.16 M. MAGNANI, op.cit.

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2014 il tema è entrato nella legge 183/2014 (la legge delega del JobsAct) in cui il Parlamento delegava il Governo a introdurre:

(…) eventualmente anche in via sperimentale, (…) un compensoorario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto unaprestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al lorosuperamento, ai rapporti di collaborazione coordinata econtinuativa, nei settori non regolati da contratti collettivisottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datoridi lavoro comparativamente più rappresentative sul pianonazionale, previa consultazione delle parti socialicomparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Il Governo, anche per l’opposizione dei sindacati, decise di non dareseguito alla delega, neanche in via sperimentale.La proposta, però, è tornata nei programmi elettorali del 2018 inmaniera sorprendentemente trasversale. Secondo l’analisi di ADAPT(17), il salario minimo è uno dei pochi temi a mettere d’accordo inmateria di lavoro Lega, Movimento 5 Stelle e Partito Democraticoseppure con sfumature diverse: in particolare il Partito Democratico, inlinea con la legge delega del Jobs Act, prevede di utilizzare lostrumento solo per i lavoratori esclusi dalla contrattazione, mentre laLega scrive chiaramente che lo strumento si applicherebbeindipendentemente dai contratti collettivi (v. Tabella 3).

Tabella 3: Il salario minimo legale nei programmi elettorali 2018

Partito Proposta

Lega Introduzione per legge di un “salariominimo” orario da applicareindipendentemente dai contratti nazionalie da quanto concordato dalle cosiddetteparti sociali.

Movimento 5 Stelle Garantire una retribuzione equa allavoratore in modo da assicurargli unavita e un lavoro dignitoso in condizionidi libertà, equità, sicurezza e dignità,introducendo la retribuzione oraria lorda,applicabile a tutti i rapporti aventi peroggetto una prestazione lavorativa, noninferiore ai nove euro l’ora. Il salario

17 E. MASSAGLI, F. NESPOLI e F. SEGHEZZI, op. cit.

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minimo orario si applica a tutti ilavoratori, subordinati e parasubordinati,sia nel settore privato, sia in quellopubblico.

Partito Democratico Si propone l’adozione di un salariominimo garantito, da applicare in assenzadi un contratto collettivo. Il controllo delgiusto salario sarà svolto in viaamministrativa e non sarà più necessarioricorrere al giudice.

Fonte: E. MASSAGLI, F. NESPOLI e F. SEGHEZZI, op. cit.

Il salario minimo è anche il primo tema menzionato nel capitolodedicato al lavoro del contratto di governo tra Lega e Movimento 5Stelle:

Sul tema del lavoro appare di primaria importanza garantire unaretribuzione equa al lavoratore in modo da assicurargli una vita eun lavoro dignitosi, in condizioni di libertà, equità, sicurezza edignità, in attuazione dei principi sanciti dall'articolo 36 dellaCostituzione. A tal fine si ritiene necessaria l'introduzione di unalegge salario minimo orario che, per tutte le categorie di lavoratorie settori produttivi in cui la retribuzione minima non sia fissatadalla contrattazione collettiva, stabilisca che ogni ora dellavoratore non possa essere retribuita al di sotto di una certa cifra.(18)

Due diversi emendamenti al c.d. Decreto Dignità da parte di Fratellid’Italia (Rizzetto) e del PD (Gribaudo) che prevedevano l’introduzionedel salario minimo, però, sono stati ritenuti inammissibili dallecommissioni Finanze e Lavoro. L’emendamento del PD è stato, poi,trasformato in una proposta di legge(19) per un salario minimo a 9 euronetti “a beneficio dei lavoratori la cui retribuzione non sia conforme aquella prevista dai contratti collettivi”.

5.2 Le obiezioniQueste proposte d’introduzione di un salario minimo legale hannoincontrato fin da subito la resistenza delle parti sociali e in particolaredei sindacati che temono che esso porti a uno svuotamento della

18 Pag. 29, Contratto per il Governo del cambiamento, Movimento 5 Stelle e Lega. 19 Proposta di legge DELRIO e ALTRI: Istituzione del salario orario minimo legale(947).

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

contrattazione collettiva. L’Italia è “un paese con un sistema direlazioni industriali a bassa e debole regolazione legale” (20), “che nonconosce pari a livello internazionale” (21). Ancora oggi, il volontarismoe l’astensionismo legislativo dai temi sindacali e del lavoro rimangonoprincipi diffusi tra le parti sociali e gli esperti. Pertanto l’introduzionedi un minimo per legge è vista come un’indebita (e potenzialmentedannosa) interferenza nella libertà negoziale delle parti. Tuttavia, comericorda Mariella Magnani (22), esistono già varie determinazioni legalidel salario, dall’indennità di disponibilità per il lavoro somministrato ointermittente ai cosiddetti voucher il cui valore nominale è fissato condecreto del Ministro del lavoro.I sindacati, in particolare, reputano che il salario minimo sia alternativoalla contrattazione collettiva. Se guardiamo all’esperienza degli altripaesi OCSE, dove la contrattazione collettiva è assente o pocosviluppata, un salario minimo per legge è l’unico strumento per ilavoratori con una posizione contrattuale debole. Nei paesi in cui lacontrattazione è ancora forte un salario minimo può essere un utilecomplemento. In Belgio, Francia, Olanda, Spagna per esempioconvivono alta copertura dei contratti collettivi e salario minimo (divalore elevato in Belgio e Francia, moderato in Olanda, basso inSpagna, v. Tabella 4). È vero, però, che, dove il salario minimo èelevato e legato ad una regola di rivalorizzazione automatica, come inFrancia, i margini di negoziazione dei contratti collettivi sono piùridotti.

Tabella 4: Copertura dei contratti collettivi e salario minimo

legale nei paesi dell’Unione europea

Copertura deicontratti collettivibassa

Coperturamedia

Copertura alta

Salari miniminellacontrattazionecollettiva

-

Cipro Austria,Danimarca,Finlandia, Italia,Svezia

20 Pag. 134 in T. TREU, Contrattazione e rappresentanza in C. DELL’ARINGA, C.LUCIFORA e T. TREU (eds.), op. cit., 2017.21 Pag 112 in S. LEONARDI, Il salario minimo, fra legge e contrattazione. Unacomparazione europea in L. BIRINDELLI, S. LEONARDI e M. RAITANO, Salari minimicontrattuali e bassi salari nelle imprese del terziario privato, Ediesse, Roma, 2017.22 M. MAGNANI, op.cit.

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Salario minimoper legge

Estonia, Lettonia,Lituania, RegnoUnito, Irlanda,Bulgaria, Ungheria,Polonia, RepubblicaCeca, Slovacchia,Slovenia.

Croazia,Grecia,Germania,Lussemburgo,Malta,Portogallo,Romania.

Belgio, Francia,Olanda, Spagna

Fonte: Elaborazione su dati OCSE e EUROFOUND.

Sempre in merito alla relazione tra minimo legale e contratti collettivi, isindacati temono anche che un salario minimo troppo basso inciti leimprese a uscire dai CCNL e pagare di meno. Se fissato intorno ai 5-6euro le imprese potrebbero uscire dai contratti nazionali che prevedonosalari più alti e pagare il minimo. In Germania, l’introduzione delsalario minimo nel 2015 non ha portato a uno schiacciamento dei salariverso il minimo e il declino della copertura dei contratti collettivi non èstato una conseguenza del salario minimo ma una causa(23). In Francia,Belgio e Olanda un minimo legale e contratti collettivi coesistono e sirafforzano a vicenda. In Italia, tuttavia, non esiste un’estensione ergaomnes dei contratti e la proliferazione dei CCNL dimostra che ècomunque possibile aggirare il sistema anche in assenza di un minimolegale.Le parti sociali e alcuni studiosi considerano che non sia necessarioricorrere ai salari minimi per combattere contro i contratti pirata eassicurare una copertura contrattuale a tutti i lavoratori ma che bastiapplicare le norme vigenti sui rinvii di legge ai sistemi di contrattazionecomparativamente più rappresentativi. Se, poi, il salario minimo legalefosse solo un pretesto per favorire il decentramento effettivo dellastruttura salariale, e non quindi uno strumento per coprire i lavoratoriscoperti, allora valide alternative si potrebbero trovare nell'autonomiacollettiva che può autorizzare la possibilità di adattamenti anche alribasso a livello aziendale e territoriale, come già avviene in alcunisettori (24). Si tratta sicuramente di opzioni a disposizione delle partisociali, ma finora sono state usate poco e comunque non sono incontraddizione con l’introduzione di un minimo legale.

23 Il fenomeno di fuoriuscita dai contratti collettivi da parte delle imprese tedesche ècominciato almeno 15-20 anni prima dell’introduzione del minimo legale nel 2015.24 P. TOMASSETTI, Contrattazione collettiva, sostenibilità del lavoro e concorrenzanel mercato globale, oggi. Verso un nuovo contratto sociale?, in G. RIZZUTO, P.TOMASSETTI (a cura di), Il dumping contrattuale nel settore moda al tempo diIndustria 4.0. Cause, conseguenze, rimedi, ADAPT University Press, 2018.

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Nello spirito di salvaguardare l’astensionismo legislativo sui temi dellerelazioni industriali, un compromesso si è trovato specificando che unsalario minimo legale possa essere introdotto solo se si applicaesclusivamente ai lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva.Tuttavia, rispetto al sistema italiano attualmente in vigore non è chiarocome questa restrizione si declini in termini concreti. Attraversol’articolo 36 della Costituzione tutti i lavoratori dipendenti in Italiasono formalmente coperti da un contratto o direttamente oindirettamente come riferimento per il giudice. Se, invece, con questarestrizione s’intende la necessità di fissarlo a un livello sotto quellodegli attuali minimi tabellari allora andrebbe detto esplicitamente che siparla del valore monetario e non del campo di applicazione.Infine, alcuni osservatori sollevano dubbi sulla validità dello strumentostesso in un mondo del lavoro che è sempre meno organizzato secondole definizioni standard di “lavoratore dipendente”, “datore di lavoro” e“posto di lavoro” o in cui la dissociazione tra “norma e luoghi” (25)indebolisce le tradizionali tecniche di tutela del diritto del lavoroclassico. Anche i concetti stessi di retribuzione, tra le varie voci inbusta paga e il welfare aziendale, oppure quello di orario di lavoro, tralavoro agile e connessione 24 ore su 24, sono diventati meno facili dadefinire e misurare. Il salario minimo, con l’implicita spinta a unostandard minimo, rischierebbe, quindi, di essere più una risposta aiproblemi del “vecchio mercato del lavoro” che a quello di oggi (26).Tuttavia, nel Regno Unito la Taylor Review (27) passando in rassegna ilfunzionamento del mercato del lavoro inglese alla luce dei cambiamentiin corso e pur sollevando queste criticità, non ha rinnegato la necessitàdi un salario minimo per legge. Anzi, ha invitato il Governo ad adattarela legislazione per garantire che anche i lavoratori delle piattaforme diinternet siano coperti da questo strumento.In conclusione, è importante che la discussione italiana tenga presentele obiezioni che sono fatte allo strumento, anche per evitare dialimentare false aspettative. Sicuramente serve “ben altro” per risolverei problemi della contrattazione collettiva o del nostro mercato dellavoro. Inoltre, è innegabile che l’autonomia e l’auto-organizzazionedelle parti siano ingredienti importanti per relazioni industriali disuccesso e che esista il rischio che un salario minimo, soprattutto setroppo elevato riduca gli spazi di negoziazione. Tuttavia, anche neipaesi scandinavi dove l’autonomia è forte, l’intervento legislativo (o la

25 N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, 2006.26 P. TOMASSETTI, op. cit., 2018.27 M. TAYLOR, Good work. The Taylor Review of Modern Working Practices, 2017.

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minaccia di intervento) sono strumenti necessari quando lacontrattazione non riesce a fare i passi avanti necessari.

6. Una proposta per il dibattitoPer promuovere una discussione più dettagliata sull’opportunità e ilfunzionamento di un salario minimo legale in Italia è quindi necessarioallargare lo sguardo e considerare anche il funzionamento dei CCNL.In particolare, per conciliare (e migliorare) il funzionamento dellacontrattazione collettiva con un minimo legale è necessario unpacchetto che, insieme ad un’azione più incisiva per garantire il rispettodei minimi stabiliti per legge o per contratto, preveda due elementi:

1. Il primo è un salario minimo legale lasciato nelle mani di una

commissione composta da parti sociali ed esperti che sia

incaricata di fissare gli aumenti annuali sulla base della

situazione economica e dell’andamento dei salari contrattuali.

2. Il secondo è la possibilità di estendere l’efficacia dei CCNL

firmati da organizzazioni rappresentative erga omnes, cioè a

tutti i lavoratori, anche quelli che non lavorano in imprese

facenti parte di un’associazione datoriale firmataria. Per evitare

un irrigidimento ulteriore del sistema di negoziazione salariale

(e quindi una probabile inefficacia nel proteggere i lavoratori

più deboli), però, i contratti devono poter essere estesi solo in

presenza di adeguati margini di flessibilità per adattare i termini

del contratto alle esigenze aziendale (sul modello dei contratti

quadro nei paesi scandinavi).Oltre a rafforzare le protezioni per i lavoratori e rendere il sistema dinegoziazione collettiva più chiaro anche per le imprese, questa propostadi riforma permetterebbe di mettere un freno alla proliferazione deicontratti pirata e introdurrebbe forme di “decentralizzazione

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

organizzata”(28) del sistema di contrattazione collettiva italiano di cui sidiscute da anni senza passi avanti significativi (29).Nei paragrafi successivi gli elementi di questa proposta sono discussinel dettaglio.

6.1. Un salario minimo legaleCome e a che livello dovrebbe essere fissato un salario minimo legalein Italia? I salari minimi nei paesi OCSE variano tra il 40% e il 60% delsalario mediano. In Italia questo vorrebbe dire tra i 5 e i 7 euro l’ora.Questo livello sarebbe anche compatibile con i minimi tabellari fissatidalla contrattazione collettiva che partono attualmente dai 7 euro circaper i contratti principali. La scelta del livello, però, non deve essere (interamente) politica malasciata nelle mani di una commissione ad hoc composta da esperti eparti sociali e assistita da personale dei Ministeri (Lavoro edEconomia), dell’INPS e dell’ISTAT che sulla base di evidenzescientifiche (quantitative ma anche qualitative), formuli una

28 La “decentralizzazione organizzata” avviene quando sono mantenuti i contrattinazionali/settoriali ma consentendo agli accordi a livello d’impresa e/o territorio diadattare i termini del contratto (o parte di essi) all'interno di un quadro definito. Sioppone al concetto di “decentralizzazione disorganizzata” che avviene quando aicontratti a livello aziendale prevalgono su quelli nazionali o settoriali (il primo a usarequesti termini fu F. TRAXLER in Farewell to labour market associations? Organizedversus disorganized decentralization as a map for industrial relations, in C. CROUCHand F. TRAXLER (eds.), Organized industrial relations in Europe: What future?, 1995,Aldershot, Avebury. Per maggiori dettagli si vedano OCSE, Collective bargaining ina changing world of work, Capitolo 4 in OECD Employment Outlook 2017, OECDPublishing, Paris, 2017 e OCSE, The role of collective bargaining for good labourmarket performance, Capitolo 3 in OECD Employment Outlook 2018, OECDPublishing, Paris, 2018.29 Una proposta alternativa è quella del “salario di garanzia” di FEDERMECCANICA,Proposte per il rinnovamento contrattuale per il triennio 2016-2018, 2016 e C.DELL'ARINGA, Dai minimi tabellari ai salari di garanzia in C. DELL’ARINGA, C.LUCIFORA e T. TREU (eds.), op. cit., 2017. Secondo questa proposta, le partidovrebbero definire la retribuzione individuale fissa (RIF) che sarebbe assorbita daeventuali salari più elevati a livello aziendale e diventerebbe il nuovo livello minimodi riferimento per i giudici (e non più un “aumento minimo per tutti” come avvieneper gli attuali minimi tabellari). La proposta ha il merito di inserirsi nel sistemaattuale, non richiede un intervento legislativo (e quindi l'opposizione delle partisociali) e risolverebbe un problema molto specifico e cioè il disincentivo allacontrattazione di secondo livello derivante dal rischio di cumulo di aumenti dicarattere fisso a livello aziendale e nazionale. Tuttavia in mancanza di un'estensioneamministrativa dei contratti e di regole chiare sulla rappresentanza non impedirebbe ilpersistere di rapporti di lavoro sotto i minimi previsti dai contratti principali e laleggibilità del sistema rimarrebbe alquanto difficile ai non specialisti.

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raccomandazione sul livello iniziale e i successivi aumenti del salariominimo legale prendendo in attenta considerazione la situazioneeconomica generale, l’andamento dei salari contrattuali e l’interazionecon il sistema d’imposizione e trasferimenti sociali. La Low PayCommission britannica è considerata un modello positivo al riguardo.Inoltre, il salario minimo per legge non dovrebbe definire solo ilminimo orario per i lavoratori subordinati standard, ma anche i minimiper chi è pagato al pezzo o a consegna, una volta ancora ispirandosi almetodo proposto dalla Low Pay Commission (30).È consigliato, come avvenuto nel Regno Unito, cominciare da unlivello relativamente basso (il minimo degli attuali minimi contrattualirimane alto in termini relativi rispetto al salario mediano) per poiprocedere ad aumenti, anche a ritmo sostenuto, se le condizionieconomiche lo permettono. Un monitoraggio e un’analisi degli effettidel salario minimo legale sono fondamentali per promuovere undibattito informato e aiutare la Commissione nella sua decisione.Il salario minimo legale non potrà essere derogabile dai contratticollettivi, né a livello settoriale né a livello aziendale. Tuttavia, in unpaese con livelli di sviluppo territoriale così diversi come l’Italia, ènormale chiedersi se un minimo legale debba essere lo stesso in tutto ilpaese. È una questione che, fin dall’abolizione delle gabbie salariali,torna spesso anche rispetto ai contratti collettivi e che merita di esserevalutata attentamente. Da una parte, un salario minimo differenziato perregione permetterebbe di avere minimi più pertinenti nelle diverse areedel paese (non troppo alti al Sud, non troppo bassi al Nord). Peròaumenterebbe la complessità del sistema. Inoltre non è detto che ilcalcolo del costo della vita per regione sia così semplice. Inoltre, ilcosto della vita varia molto anche all’interno delle regioni tra centrocittà, periferia e campagna. Solo i grandi paesi federali come il Canada,Messico e gli USA (e il Giappone) hanno salari minimi legali chevariano per regione. Questo è tipico anche in altri grandi paesiemergenti come Brasile, Cina e India. In paesi comparabili con l’Italia,anche con variazioni regionali importanti come la Germania (qualcheeccezione temporanea fu prevista al momento dell’introduzione per30 Nel Regno Unito, la Low Pay Commission fornisce indicazioni precise per ilcalcolo del minimo per chi è pagato a pezzo: si parte dal numero medio di pezziprodotti o di consegne fatte in un’ora, lo si divide per 1,2 per evitare di svantaggiare inuovi arrivati più lenti e infine si usa quel numero per dividere il salario minimoorario e ottenere il minimo a pezzo o consegna. Un esempio: se il minimo contrattualenel settore della logistica è di circa 7 euro netti all’ora e in media i fattorini fanno unaconsegna e mezza all’ora (40 minuti per consegna), il minimo sarebbe di 7/(1,5/1,2)=5,6 euro a consegna.

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

qualche settore) e la Spagna, il salario minimo ha lo stesso valore sututto il territorio nazionale. Visto l’alto tasso di disoccupazione giovanile, l’Italia potrebbeconsiderare minimi legali inferiori per i giovani e gli apprendisti oppureper chi ha scarsa esperienza lavorativa negli anni recenti a prescinderedall’età così da coprire sia i giovani alle prime esperienze ma anchedisoccupati o inattivi di lungo periodo anche se non giovani.Infine, come discusso nella sezione 1, è fondamentale che il valore delminimo legale e i futuri incrementi siano fissati prendendo inconsiderazione il sistema fiscale e i trasferimenti sociali per evitare cheaumenti del salario minimo non vadano persi in tasse o minori beneficisociali (in gergo tecnico, per evitare trappole di povertà o tassimarginali di imposizione effettiva molto elevati).

6.2. Estensione amministrativa dell’efficacia dei contratticollettivi

Insieme alla questione del salario minimo legale, da alcuni anni sidiscute di una legge sulla rappresentanza per combattere contro laproliferazione dei “contratti pirata”. Giuliano Cazzola (31) ha ipotizzatodi legare la rappresentanza, su cui CNEL, INPS e parti sociali stannolavorando, alla questione dell’efficacia dei contratti collettivi.Un’estensione per legge dei contratti collettivi firmati da partirappresentative sarebbe la via preferita dei sindacati rispetto a unsalario minimo legale (32). Tuttavia, secondo il mai attuato articolo 39della Costituzione (33), solo i contratti firmati da sindacati registratipossono avere un’efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti allecategorie alle quali il contratto si riferisce (quindi non solo per ilavoratori iscritti al sindacato o le aziende parte di un’associazionefirmataria). In assenza di questa registrazione, mai avvenuta dal 1948, èvalso l’uso di considerare i minimi tabellari fissati dai contratticollettivi quale riferimento per definire a quanto ammonta una“retribuzione proporzionata e sufficiente” prevista dall’articolo 36. Si

31 G. CAZZOLA, I contratti pirata: quando la moneta cattiva caccia quella buona, inBollettino ADAPT, 13 novembre 2017.32 Si veda per esempio G. POGLIOTTI, I sindacati: «Salario minimo contrattuale, in ilSole 24 Ore, 15 gennaio 2016.33 Un’estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi avvenne nel 1959con i cosiddetti decreti Vigorelli emanati in base alla legge 741/1959 che estesero icontenuti dei contratti collettivi stipulati sino a quel momento. La CorteCostituzionale accettò la norma perché “provvisoria, transitoria ed eccezionale”. Laproroga votata dal Parlamento l’anno successivo, invece, fu dichiarata illegittima aisensi dell’art. 39.

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tratta, tuttavia, di una soluzione di “carattere di supplenza transitoriaextralegislativa”, che per esplicita ammissione degli stessi costituenti“non esclude un possibile intervento legislativo a garanzia dei minimisalariali” (34). In questo modo l’Italia è uno dei pochissimi paesi OCSEin cui (formalmente) i contratti collettivi coprono (in teoria almeno)tutte le imprese, anche quelle che non hanno firmato (v. Tabella 5).Un sistema di estensione formale dei contratti, al momento assenteperché incostituzionale rispetto all’articolo 39, aiuterebbe a combattereil fenomeno dei contratti pirata, a ridurre le disparità di trattamento tra idipendenti e a stabilizzare il sistema di contrattazione. Al di là di unminimo legale, contratti collettivi nazionali firmati da partirappresentative, infatti, sono utili non solo per ragioni di equità maanche per correggere fallimenti del mercato (soprattutto nei casi di“monopsonio”, cioè eccessivo potere contrattuale del datore di lavoro)e ridurre i costi di transazione per piccole e medie imprese che nondevono così sedersi ognuna al tavolo di contrattazione. Tuttavia, iCCNL possono rappresentare anche uno strumento a disposizione degliinsider (tipicamente le grandi imprese) contro gli outsider (piccoleimprese, start-up e concorrenti internazionali) con un potenziale effettonegativo su prezzi e occupazione.Per evitare un ulteriore irrigidimento del sistema di fissazione dei salari,però, l’efficacia dei contratti rappresentativi (così definiti secondo icriteri stabiliti nei recenti protocolli tra le parti sociali) non dovrebbeessere estesa in maniera automatica, ma in base a una valutazione deglieffetti economici e sociali che tale estensione può avere. In alcuni paesiper avere efficacia generale, i contratti devono coprire all’atto dellafirma una maggioranza, o almeno una quota significativa, di lavoratorinel settore. In mancanza di dati affidabili, un comitato indipendente (ilCNEL per esempio) potrebbe essere incaricato di consultare le partiinteressate ed effettuare una valutazione degli effetti economici esociali(35).

Tabella 5: Estensione amministrativa dell’efficacia dei contratti collettivi

nei paesi OCSE

34 M. MAGNANI, op.cit.35 La Francia, che aveva fino all’ultima riforma un sistema di estensione quasiautomatico dei contratti nazionali, ha recentemente istituito una commissioneincaricata di valutare i potenziali effetti dell’estensione dei contratti nazionali e dareun’opinione al Ministro che ne firma l’atto amministrativo.

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

Nota: Meccanismi di estensione non esistono in Australia, Canada (eccetto in Québec dovesono rari), Cile, Colombia, Costa Rica, Danimarca, Grecia, Irlanda, Corea, Nuova Zelanda,Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. Le cifre in parentesi si riferiscono al tasso di coperturasupplementare (in percentuale dei dipendenti) legato alle misure di estensione. Per maggiori

dettagli si veda la pagina http://www.oecd.org/employment/collective-bargaining.htm e in

particolare la tabella dettagliata sulle procedure di estensione.

L’estensione dei contratti, poi, potrebbe essere condizionata allapresenza di strumenti adeguati per riflettere l'eterogeneità in termini didimensioni, età e regione. Questo potrebbe prendere la forma dicontratti quadro che lascino la possibilità di rinegoziare i termini delcontratto a livello di impresa entro certi limiti come in alcuni paesiscandinavi36. Oppure, introducendo la possibilità di esenzionedall'estensione in determinate condizioni (in caso di crisi aziendale oper aziende localizzate in aree economicamente depresse). Con un’estensione erga omnes dei contratti collettivi, il salario minimocoprirebbe i lavoratori di quei settori senza un contratto collettivoperché privi di parti sociali rappresentative. Inoltre, seppure in manierainformale, esso rappresenterebbe anche un valore di riferimento perquei lavoratori ufficialmente autonomi, ma con scarso o nullo potere dinegoziazione (finti autonomi o autonomi economicamente dipendenti).

36 Concretamente, i contratti quadro possono prendere la forma di contratti chestabiliscono solo dei minimi essenziali (non intere griglie salariali) oppure limitiminimi e massimi entro cui il contratto aziendale può muoversi. Altri tipi di contrattiquadro sono “contratti default”, che valgono solo in assenza di un contratto disecondo livello e, in genere, incentivano la rinegoziazione aziendale oppure ancoracontratti senza indicazioni salariali, lasciati interamente al livello aziendale. Si vedadiscussione dettagliata nell’Employment Outlook dell’OCSE, op.cit., 2017 e 2018.

Criteri relativamente stringenti Criteri limitati Nessun criterio

Procedura

comune

Finlandia (16.0% in 2014)

Olanda (9.3% in 2015)

Slovenia (9.0% in 2012)

Svizzera (13.7% in 2014)

Belgio (14.0% in 2013)

Francia (22.6% in 2013)

Portogallo (38.3% in 2011)a

Islanda* (24.0% in 2013)

Italia*

Spagna* (6.6% in 2013)

Procedura rara Austria

Repubblica ceca (5.7% in 2013)

Germania (0.4% in 2008)

Ungheria (2.5% in 2012)

Israele

Giappone

Lettonia

Norvegia (4.0% in 2013)

Republica slovacca (0% in 2013)

Turchia

Estonia (1.0% in 2012) Corea

Lituania

Lussemburgo

Messico

Polonia

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6.3. Strumenti contro il non rispetto dei minimi salarialiAnche con l’introduzione di un salario minimo per legge, è probabileche una quota di lavoratori continui ad essere pagata meno del dovuto.Fenomeni di sotto pagamento, a livelli, però, molto inferiori di quellievidenziati nella sezione 3, sono presenti anche negli altri paesi OCSEper cui si dispone di una stima (37). Una semplificazione del quadro attuale lungo le linee proposte nellesezioni precedenti potrebbe aiutare a rendere il sistemo più chiaro e lalotta contro il sotto pagamento più semplice. Tuttavia, questo nonbasterà. Ispezioni rese più efficaci con l’uso di dati e tecnologierimangono lo strumento principale. Tuttavia, si possono perseguirestrategie alternative e dal costo relativamente limitato.Innanzitutto è necessario rendere le informazioni sui salari minimi,siano essi stabiliti nei contratti collettivi o per legge, pubblicamente efacilmente disponibili. Le imprese oggi hanno l’obbligo di renderedisponibile il testo del contratto ai propri lavoratori e i sindacatiforniscono assistenza a chi lo richiede. È possibile, però, fare unmaggiore e migliore uso degli strumenti informatici disponibili. Peresempio, le parti sociali, anche senza aspettare l’intervento dello Stato,potrebbero istituire un unico numero telefonico e/o un modulo onlineper fornire consulenza gratuita e riservata ai datori di lavoro, aidipendenti e ai loro rappresentanti. Le esperienze al riguardo nel RegnoUnito38 e in Germania39 sono da valutare attentamente anche in Italia. Inoltre, specifiche campagne di sensibilizzazione in tutto il paesepotrebbero contribuire a rendere più chiara l'importanza del rispetto deiminimi salariali e a pubblicizzare gli strumenti disponibili ai datori di

37 Si vedano A. GARNERO, S. KAMPELMANN e F. RYCX, Minimum Wage Systems andEarnings Inequalities: Does Institutional Diversity Matter?, in European Journal ofIndustrial Relations, 2015, vol. 21 (2), pp. 115-130 e A. GARNERO, S. KAMPELMANN eF. RYCX, Sharp Teeth or Empty Mouths? Revisiting the Minimum Wages Bite withSectoral Data, in British Journal of Industrial Relations, 2015, vol. 53 (4), pp. 760-788.38 Nel Regno Unito la linea di assistenza telefonica ha ricevuto circa 1000 chiamate asettimana nel 2006/2007 e 670 nel 2008/2009, ma solo circa 50 a settimana inrelazione a denunce di pagamenti insufficienti (dati HMRC riportati da C. BENASSI,The implementation of minimum wage: challenges and creative solutions, in ILOWorking paper no. 12, Geneva, 2011.). Si veda https://www.gov.uk/pay-and-work-rights e http://www.acas.org.uk/index.aspx?articleid=2042.39 In Germania, le chiamate alla linea di assistenza erano circa 4000 alla settimananelle prime settimane dell'applicazione del nuovo salario minimo nel gennaio 2015 epoi si sono stabilizzate attorno a 500 chiamate a settimana dalla metà del 2015(MINDESTLOHN KOMMISSION, Erster Bericht zu den Auswirkungen des gesetzlichenMindestlohns, Berlino, 2016).

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UN SALARIO MINIMO PER LEGGE IN ITALIA? UNA PROPOSTA PER IL DIBATTITO

lavoro e ai lavoratori per garantire il pagamento corretto (campagnesimili sono state fatte nel Regno Unito40 e in Costa Rica). Infine, lo strumento del “naming and shaming” è stato utilizzato inalcuni paesi emergenti (Indonesia e Brasile) ma anche nel RegnoUnito41 per divulgare pubblicamente i nomi delle imprese che nonrispettano la regolamentazione sui salari minimi (la Confindustria fecequalcosa di simile con le imprese che pagano il “pizzo”).

7. ConclusioneAl momento l’opportunità e l’urgenza di introdurre un salario minimoper legge in Italia restano fonte di dibattito. Tuttavia, di fronte allosfilacciamento della contrattazione collettiva e all'incapacità delle partisociali di azioni significative per contrastare l'esplosione dei contratti ela disaffezione di lavoratori e imprese verso il sistema e gli attori dellarappresentanza attuale, non è improbabile pensare che il legislatoredecida di procedere autonomamente. L'obiettivo di questo articolo nonè sostenere una tesi a senso unico ma promuovere una discussione piùdettagliata e informata che tenga conto anche delle possibili interazionitra un minimo legale e i contratti collettivi esistenti. Ritrosie all'intervento legislativo negli ambiti di autonomia negozialedelle parti sociali sono comprensibili e, in parte, fondate. Il rischio diprovvedimenti affrettati sul tema, però, può essere evitato solo con undibattito chiaro e seguito da azioni concrete sugli strumenti necessariper garantire che i minimi contrattuali svolgano davvero il loro ruolosenza essere, però, un disincentivo all'impiego delle persone stesse chei minimi dovrebbero proteggere.Un minimo per legge non è l’uovo di Colombo, tanto più in un paesecon forti differenze territoriali, sociali e culturali e in cui gli obiettividel legislatore si scontrano sempre con notevoli difficoltà pratiche diimplementazione sul terreno. Però potrebbe essere un tassello per farfare un passo avanti al nostro sistema di contrattazione collettiva.

40 C. BENASSI (2011), op. cit., riporta che tra ottobre 2007 e marzo 2008, il governodel Regno Unito ha intrapreso cinque campagne, utilizzando diversi mezzi dicomunicazione come radio, manifesti, volantini, un autobus pubblicitario e internet eha portato a un aumento delle chiamate a la linea di assistenza HMRC del RegnoUnito del 400% e la conoscenza dei minimi salariali per le diverse fasce di età dal 10al 70%.41 L'elenco più recente di aziende che hanno omesso di pagare ai propri lavoratori ilsalario minimo nazionale nel Regno Unito può essere trovato sul sito del Governoall’indirizzo https://www.gov.uk/government/news/record-number-of-employers-named-and-shamed-for-underpaying

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Parte III. Un passaggio generazionale più giusto1

Diego Piacentino – La tassazione dei trasferimenti di ricchezza tra generazioni: una difesa, con

qualificazioni

Chiara Rapallini - Ripensare la proposta di un fondo per l’accesso alla vita adulta

1

Contributi presentati al Seminario aperto “Fase II” del Programma Atkinson, sul Tema “Un passaggiogenerazionale più giusto”, il 5 dicembre 2018 a Roma presso la Città dell’Altra Economia (cfr Capitolo 3 di questo e-book).

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LA TASSAZIONE DEI TRASFERIMENTI DI RICCHEZZA TRA GENERAZIONI:

UNA DIFESA, CON QUALIFICAZIONI

Diego Piacentino ( ), Università di Macerata

1.- Premessa: la tassazione dei trasferimenti di ricchezza nella discussione e nell’esperienza

internazionale

Le imposte sui trasferimenti intergenerazionali di ricchezza (a titolo gratuito, ossia mortis causa, persuccessione ereditaria, e inter vivos, per donazione) hanno avuto, sul piano della storia intellettuale, unavicenda notevole. A partire dalle prese di posizione di Stuart Mill (1848) sulle imposte di successione, disignificato fondativo, esse hanno trovato il favore di molti studiosi – le eccezioni essendo soprattutto quelledi studiosi di orientamento molto conservatore e tendenzialmente libertario; in anni recenti sono anche stateriproposte con forza dagli studiosi più attenti alle, e preoccupati dalle, diseguaglianze (segnatamente, Piketty2013; Atkinson 2015).

Sul piano degli sviluppi effettivi, queste imposte hanno trovato posto in molti ordinamenti, da molto tempo(ad es., in Italia, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Svezia, dagli anni di fine ottocento e inizio novecento).Esse sono però state tendenzialmente – nonostante le aliquote spesso elevate, e a motivo di esenzioni,agevolazioni, elusione ed evasione – all’origine di gettiti relativamente contenuti; inoltre, negli ultimi dieci-quindici anni, sono state, in diversi paesi (Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia) oggetto di manovre diridimensionamento, e, in qualche caso, di abolizione.

Sul piano delle opinioni pubbliche, infine, nei confronti di queste imposte, sono venute prendendo forza unaostilità accesa e molto vocale, e, assieme, una richiesta insistente di abolizione; l’una e l’altra hanno trovatoattenzione e sostegno nei mass media, e, spesso, forze politiche e governi ben disposti (circostanze nellequali è naturalmente facile vedere le determinanti del ridimensionamento o abolizione delle imposte di cui siè detto appena sopra).

Da questa situazione contrastata prende spunto la presente nota, per dare una introduzione riassuntiva aimaggiori aspetti e problemi della tassazione dei trasferimenti di ricchezza. Si mostrerà che questa tassazionepresenta sfaccettature numerose, nei presupposti, condizioni di realizzazione, possibili modalità, ed effetti; esi cercherà anche di mostrare che è una buona tassazione (nei profili dell’equità, efficienza, e praticitàamministrativa). In sede di conclusione, si svolgeranno anche alcune osservazioni sul potenziale di questatassazione, dal punto di vista della fattibilità politica.

2.- Sullo sfondo: le diseguaglianze crescenti nei paesi ricchi

Sullo sfondo di questa nota sta l’intenso dibattito che da qualche anno si rivolge alle diseguaglianze direddito e di ricchezza, e al processo di crescita che le ha caratterizzate, nei paesi ricchi, a partire grosso mododal 1980-90, con un capovolgimento del processo inverso, di decrescita, che le aveva invece caratterizzatenei decenni precedenti, a partire dal secondo dopoguerra.

Tra gli aspetti del primo processo, è prominente, e di maggiore rilievo in questa occasione, la crescita dellaconcentrazione della ricchezza, quale misurata dai vari indicatori in uso (indice di Gini, quote della ricchezzacomplessiva detenute dal 10 %, 1% e 1 ‰ più ricchi della popolazione – Piketty 2013; Atkinson 2015;Atkinson et al. 2017).

( ) – Nota preparata per il seminario “Diritto universale all’eredità di cittadinanza” organizzato dal Forum diseguaglianze diversità-Progetto Atkinson (Roma, Città dell’Altra economia, 5 dicembre 2018). Versione rivista del lavoro presentato al seminario “Diritto universale all’eredità di ricchezza”, tenutosi il 10 luglio 2018 presso la Fondazione Lelio Basso di Roma. Desidero ringraziare, sollevandoli allo stesso tempo, come d’uso, da ogni responsabilità per gli errori e difetti dell’esposizione: per i commenti e suggerimenti preziosi, i coordinatori del seminario, Elena Granaglia e Salvatore Morelli, e i partecipanti al seminario del 10 luglio; perl’aiuto con i dati dell’indagine di Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, Riccardo De Bonis, Romina Gambacorta e Alfonso Rosolia. Per la corrispondenza: [email protected].

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Questa crescita è dovuta in parte all’accumulazione per così dire originaria di ricchezza, risultante da attivitàdi risparmio; per un’altra parte, può essere dovuta a fenomeni di lungo periodo di aumento di valore di talunicespiti patrimoniali; ma per una parte ampia, e a quanto pare crescente, è dovuta invece al sommarsi ai duefattori precedenti del fattore costituito dai lasciti ereditari. Ma ricchezza crescente e concentrazione crescentevogliono anche dire, in assenza di correttivi, quale può essere l’imposta sui trasferimenti di ricchezza, ereditàcrescenti, in un processo autorinforzantesi.

3.- Aspetti tecnici della tassazione dei trasferimenti di ricchezza

La tassazione dei trasferimenti di ricchezza può avvenire, e avviene in concreto, secondo formule variate, inrelazione alla possibilità di dare diverse soluzioni a suoi aspetti specifici. Restando agli aspetti maggiori:

(i) La tassazione dei trasferimenti di ricchezza, quando esiste, viene effettuata mediante il ricorso ad appositeimposte; non viene invece effettuata, ma almeno in linea di principio potrebbe esserlo, tramite la suaintegrazione all’interno della tassazione del reddito, e allora secondo una delle due concezioni chevorrebbero tassato il reddito come spesa oppure come entrata, nel primo caso assimilando i lasciti ereditariad attività finali di consumo, nel secondo assimilando invece le entrate da eredità ad ogni altra entrata.

(ii) Per altro, di questa alternativa è visibile un riflesso concreto nelle due diverse pratiche di prendere comebase imponibile per le imposte sui trasferimenti le donazioni e lasciti ereditari in capo ai donatori edereditandi (vedendoli in sostanza come spese – è il modello delle statunitensi estate tax e gift tax e dellabritannica inheritance and gift tax), oppure le donazioni ed eredità in capo agli eredi e donatari (vedendoliquindi come entrate – è il modello delle imposte sulle successioni donazioni prelevate in molti paesidell’Europa continentale). Sul piano della sostanza, se si guarda alla distribuzione degli oneri di imposta tra ibeneficiari, la prima formulazione, in presenza di esenzioni e progressività, è neutrale rispetto all’ammontaredelle eredità, singolarmente prese, ma non al loro frazionamento tra diversi beneficiari; la seconda,viceversa.

(iii) Le due formule hanno anche conseguenze diverse dal punto di vista della possibilità di aggregazionedelle donazioni ed eredità in capo ai beneficiari. La prima esclude questa possibilità, potendo inveceeffettuare soltanto l’aggregazione di donazioni ed eredità risalenti a medesimi soggetti, donatori edereditandi; la seconda può aggregare donazioni ed eredità in capo a ciascun beneficiario, trattandoseparatamente quelle provenienti da donatori-ereditandi diversi, o invece spingendosi a ricostruire la sommacomplessiva delle donazioni ed eredità ricevute da ciascun beneficiario, da qualsivoglia provenienza.Quest’ultima possibilità non viene sfruttata, negli ordinamenti tributari che adottano la seconda formula, conla sola eccezione della irlandese capital acquisition tax (CAT); ma essa è proprio quella che vorrebberoutilizzata le proposte recenti di riforma della tassazione dei trasferimenti di ricchezza, che prospettanol’opportunità di sostituire le attuali imposte su successioni e donazioni con un’unica imposta, sulla sommadei trasferimenti ricevuti individualmente, a titolo di donazione o successione, indifferentemente, lungol’intero arco di vita (Atkinson 2015, spec. 194-6; similmente, Dherbécourt 2017, 10-12). Il ricorso a questaimpostazione richiede che si tengano contabilità cumulative dei trasferimenti ricevuti da ciascuno nel corsodel tempo, e si calcolino, sulla base di tale contabilità, le imposte dovute, applicando le esenzioni e laprogressività, se previste, in occasione di ogni donazione o eredità.

(iv) La tassazione dei trasferimenti mortis causa e quella dei trasferimenti inter vivos sono complementari, inquanto vi è possibilità di sostituzione delle donazioni alle successioni. Per questa ragione, negli ordinamentitributari contemporanei vi è in genere compresenza e coordinamento della tassazione di successioni edonazioni; per altro, spesso, il coordinamento non è completo, e le donazioni vengono tassate piùleggermente, per esempio accordando esenzioni o agevolazioni in favore di quelle di esse effettuate conampio anticipo rispetto al decesso (p. es., più di sette anni prima nel Regno Unito, più di quindici anni primain Francia).

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(v) Infine, nel tassare eredità e donazioni, possono venire riconosciuti – è pratica comune internazionalmente– trattamenti differenziati agli eredi e donatari a seconda che vi sia, o non vi sia, parentela o affinità traereditando o donatore ed eredi e donatari, e poi, essendovi parentela o affinità, a seconda del grado di queste.

Da queste varie possibilità, tramite combinazioni, possono essere generate imposte anche molto differenti.Nel prosieguo, l’esposizione verrà condotta prendendo a riferimento una formula di tassazione deitrasferimenti che tenga separata questa tassazione da quella del reddito, ritendendola preferibile, per dueragioni – di carattere equitativo, poiché per le entrate da donazioni e successioni, non guadagnate, sembranodover valere principi distributivi diversi da quelli rilevanti per le altre entrate, invece guadagnate (e leopinioni pubbliche, del resto, sembrano distinguere tra fortuna e merito, all’origine, rispettivamente, dei duetipi di entrate); di carattere tecnico, poiché la separazione permette libertà d’azione, e quindi possibilità ditrattamento differenziale (nei due profili delle esenzioni e della progressività), con riguardo ai due tipi dientrate.

Inoltre, si farà anche riferimento a una formula di tassazione che si rivolga alle donazioni e successioni inquanto percepite dai beneficiari, e poi con piena ricostruzione cumulativa di esse lungo l’intero arco di vitadi ciascuno. Questa formula, infatti, in presenza di esenzioni e progressività, assicura, e soltanto essa lo fa, ilcoordinamento completo della tassazione di donazioni ed eredità, in quanto ricevuti da ciascuno eindipendentemente dalla loro origine nel tempo e da donatori ed ereditandi diversi, e, con questo, equitàorizzontale ed equità verticale (ossia che beneficiari di somme identiche siano tassati nella medesima misura,e beneficiari di somme diverse siano tassati in misure diverse in accordo con la struttura di esenzioni ealiquote).

4.- Alcuni dati

La tabella 1 informa sull’andamento del gettito derivante dalla tassazione dei trasferimenti intergenerazionalinei maggiori paesi europei e negli Stati Uniti, nell’ultimo cinquantennio e a cadenza decennale. Gli indicatoriutilizzati sono quelli del gettito di questa tassazione in percentuale del gettito totale e in percentuale del Pil.

Tabella 1 – Gettito delle imposte sui trasferimenti intergenerazionali di ricchezza (*) in percentuale delgettito totale e del Pil. Maggiori paesi europei e Stati Uniti. Anni 1965-2015.

1965 1975 1985 1995 2005 2015

FranciaGettito della tassaz. dei trasferim.- in % del gettito totale 0,6 0,7 0,6 0,8 1,1 1,2- in % del Pil 0,2 0,3 0,3 0,3 0,5 0,5

GermaniaGettito della tassaz. dei trasferim.- in % del gettito totale 0,2 0,1 0,2 0,3 0,5 0,6- in % del Pil n.d. .. .. 0,1 0,2 0,2

ItaliaGettito della tassaz. dei trasferim.- in % del gettito totale 0,9 0,2 0,2 0,1 .. ..- in % del Pil n.d. 0,1 0,1 0,1 .. ..

Regno UnitoGettito della tassaz. dei trasferim.- in % del gettito totale 2,6 0,8 0,7 0,7 0,7 0,7

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- in % del Pil 0,8 0,3 0,2 0,2 0,2 0,2

Stati UnitiGettito della tassaz. dei trasferim.- in % del gettito totale 2,0 1,5 0,8 1,0 0,9 0,5- in % del Pil n.d. 0,4 0,2 0,2 0,2 0,1

Fonte: elaborazioni su dati in OECD, Global Revenue Statistics Database, http://www.oecd.org/tax/tax-policy/global-revenue-statistics-database.htm, e Oecd, National Accounts Statistics, https://www.oecd-ilibrary.org/economics/data/oecd-national-accounts-statistics_na-data-en.

Nota(*) – Imposte definite dall’Oecd Estate, Inheritance and gift taxes, n. 4300 della OECD Classification oftaxes, in Oecd, Revenue Statistics 1965-2016, Parigi, Oecd, 2017, Annex A.

Come si può vedere, in questi paesi, la tassazione dei trasferimenti di ricchezza è stata sempre esigua.Tuttavia, in Francia e Germania vi è stata difesa e rafforzamento di questa tassazione; mentre in Italia,Regno Unito e Stati Uniti vi sono stati al contrario suoi sostanziosi ridimensionamenti.

Per alcuni di questi paesi, è anche possibile dare stime (molto approssimative, in ragione della sostanzialemancanza di rilevazioni sulla consistenza complessiva delle eredità) del peso percentuale, ossia dell’aliquotamedia effettiva, dei prelievi a titolo di imposta di successione sul totale delle eredità per il 2015. Per laFrancia, Piketty (2011) stima che nel 2008 le eredità complessive ammontassero al 15% circa del Pil, e chela percentuale fosse in aumento; applicando prudenzialmente la stessa percentuale del 15% al Pil del 2015, leeredità ammonterebbero a 300 miliardi di euro, e l’aliquota media sarebbe del 4,1%. Per la Germania, Bach eThiemann (2016) stimano che nel 2015 le eredità siano state pari a 200-300 miliardi; l’aliquota mediasarebbe allora delll’1,8-2,8%. Per il Regno Unito, la Resolution Foundation (2018) stima che nel 2015-16 leeredità siano state pari a 127 miliardi di sterline; l’aliquota media sarebbe allora del 3,5%.

Queste aliquote medie effettive molto contenute, come del resto i gettiti similmente contenuti che esseproducono, sono generate da aliquote nominali che sono viceversa, spesso, sostanziose o molto alte. Lo sipuò vedere dalla Tab. 2 nella quale sono riportate, esemplificativamente, alcune informazioni relativamenteal trattamento tributario nominale dei trasferimenti mortis causa in linea diretta – ossia dei trasferimenti checostituiscono la parte maggiore dei trasferimenti complessivi.

Le esenzioni previste in taluni ordinamenti nazionali (in particolare, nella tabella, in quelli di Stati Uniti,Italia, Regno Unito) spiegano almeno in parte il divario tra aliquote nominali ed effettive. Due altrecircostanze, tuttavia, sembrano dover entrare in una spiegazione più completa – i metodi di valutazione deicespiti patrimoniali (che chiamano in causa, spesso in combinazione tra di loro, riferimenti a valori dimercato, valori di costo storico e valori catastali), e, soprattutto per i patrimoni di maggiori dimensioni, iprocessi di elusione messi in atto dalle pratiche di pianificazione fiscale (che, se si accetta un’osservazionedettata da casual empiricism, a vedere l’attivismo degli studi legali internazionali sulla materia, sembranoavere larga diffusione). Infine, non si può escludere (almeno in alcuni paesi -- ma se ne sa poco) l’interventodi processi di evasione.

Tab. 2 - Caratteristiche principali delle imposte sulle successioni in linea diretta. Maggiori paesi europei eStati Uniti. Valori espressi nelle monete nazionali. Anni circa 2015.

Imposta Base imponibile Esenzioni Aliquote min/max

Francia Droits de mutation Eredità 100 k 5% fino a 8,1 k

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à titre gratuit pardécès ou entre vifs

45% da 1,8 mln

Germania Erbscha f t - undSchenkungsteuer

Eredità 12 k 15% fino a 76 k43% da 1,9 mln

Italia I m p o s t a d is u c c e s s i o n e edonazione

Eredità 1 mln 4%

Regno Unito Inheritance tax Asse ereditario 325 k 40%

Stati Uniti Estate tax Asse ereditario 11,18 mln 18% fino a 1,0 mln40% da 1,0 mln

Fonti: EY (Ernst and Young), Cross-country Review of Taxes on Wealth and Transfers of Wealth, EuropeanCommission, 2014; EY (Erns and Young), Worldwide Estate and Inheritance Tax Guide 2018,

5.- L’imposta sui trasferimenti di ricchezza e le teorie della giustizia

La posizione di John Stuart Mill, di favore per tassazione delle successioni (se riguardanti fortuneconsistenti), rappresenta una rottura rispetto alla posizione di Locke sulla materia, e un superamento di quelladi Bentham. Locke riteneva, infatti che il diritto a lasciare e il diritto a ricevere in eredità fossero conseguential diritto (naturale) di proprietà, e quindi, come questo, assoluti e intangibili, anche per lo stato (Locke 1689,I, par. 87; II, par. 72-73, 87); per una messa a punto di questo e altri aspetti della teorizzazione di Locke sullamateria, come p. es. la divisione delle eredità tra i discendenti, nonché per una discussione della letteraturaprecedente, cfr. Kendrick, 2011). Bentham, per il quale non vi erano diritti assoluti, ma unicamente dirittideterminati dal calcolo utilitaristico (in questo caso, di minimizzazione della penosità della tassazione),propose due limitazioni ai diritti di lasciare e ricevere in eredità. La prima era che, in assenza di testamento edi parenti prossimi (coniuge, discendenti, genitori e discendenti di questi), vi dovesse essere devoluzione(escheat) del patrimonio dei defunti allo stato; la seconda, che, in assenza di parenti prossimi, ai testatorifosse permesso di disporre soltanto della metà del proprio patrimonio, l’altra metà dovendo andare allo stato(Bentham 1795, 284-5; cfr. anche Dome 1999).

Mill riprese la proposta di Bentham, dandone però una versione di portata molto più ampia. Mill, muovendodalla distinzione tra il diritto a ricevere in eredità e quello a lasciare in eredità, suggeriva che le fortune nonguadagnate dovessero, per il bene pubblico, essere sottoposte a limiti, in quanto “ottenute senza nessunosforzo”, ossia in virtù di “un privilegio [dovuto] all’esistenza della legge e della società, al quale lo stato[aveva] il diritto di apporre condizioni”; di qui la sua proposta di sottoporre a tassazione progressiva leeredità che superassero un certo ammontare (Mill 1848-1871, 218, 220, 810-11; cfr. anche Dome 1999,Cappelen e Pedersen 2018). Per altro, Mill suggeriva anche che, per evitarne l’evasione, le imposte disuccessione dovessero contemplare aliquote contenute (Mill 1873, 702; Cappelen e Pedersen 2018, 335).

Successivamente, la proposta di tassare le successioni è ritornata in modo ricorrente nella discussione,venendo soprattutto avanzata a partire da posizioni e teorie della giustizia di ispirazione egualitaria,preoccupate dalla lesione che i lasciti ereditari provocano all’eguaglianza di opportunità (eguaglianza dirisorse, o eguaglianza ex ante, in contrapposizione all’eguaglianza ex post, di condizioni di vita). Senzapretendere di riassumere una letteratura (filosofico-legale) abbastanza ampia, sembrano esserci tre aspetti dasegnalare come maggiormente rilevanti:i

(i) La teoria di Rawls (1971), che è stata il punto di riferimento fondamentale della discussione sulla giustizianegli ultimi cinquant’anni, fa affidamento, basilarmente, sulla tassazione del reddito quale strumentoattuativo del proprio principio di giustizia, noto come principio di differenza o di eguali opportunità (secondoil quale le diseguaglianze sono accettabili unicamente a condizione di portare beneficio a chi è più

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svantaggiato nella società); nell’attuazione di tale principio, però, la tassazione dei trasferimenti di ricchezzasembrerebbe poter aiutare, e quindi potersi affiancarsi con vantaggio alla tassazione del reddito (Bird-Pollan2013b).

(ii) Nella prospettiva dell’eguaglianza di opportunità, la tassazione dei trasferimenti di ricchezza compie unlivellamento verso il basso delle condizioni economiche dei membri della società beneficiari di lascitiereditari. Ma questo chiama immediatamente in causa l’esigenza di un simmetrico livellamento verso l’alto,da farsi mediante trasferimenti in favore di coloro che non beneficiano, o beneficiano in misura modesta, disimili lasciti. Atkinson (2015) si colloca proprio in questa prospettiva, accompagnando la propria proposta diintroduzione di un’imposta sulla somma dei trasferimenti lungo l’intero arco di vita, ricordata più sopra, conla proposta di introduzione, parallelamente, del pagamento a tutti, al raggiungimento dell’età adulta, di unadotazione di capitale (ossia di un’eredità minima sociale) (nello stesso senso, anche Alstott 2007).

(iii) L’eguaglianza delle opportunità (ex ante) è un criterio sufficiente per taluni commentatori, ma non peraltri, che sono preoccupati invece (anche) dalle diseguaglianze nei risultati (ex post), dovute a differenze neitalenti e nelle preferenze; questa preoccupazione porta al convincimento della necessità correttivi, ossia dimisure – di sicurezza sociale – che si aggiungano alla tassazione dei trasferimenti di ricchezza e all’eventualeerogazione di trasferimenti pubblici a titolo di eredità sociale (per una discussione, da un punto di vistafavorevole all’eguaglianza ex ante, cfr. Alstott 2007).

Dunque, per le teorie della giustizia distributiva egualitaria, ex ante come ex post, sembra valere la comuneconclusione che la tassazione dei trasferimenti è misura necessaria ed essenziale – anche se plausibilmente,non sufficiente, e da integrarsi con altre misure rafforzative di spesa pubblica.

Per trovare posizioni diverse, e allora completamente opposte, a quelle favorevoli alla tassazione deitrasferimenti di ricchezza alle quali giungono le teorie della giustizia distributiva, occorre rivolgersi alleteorie della giustizia basate sui diritti, riportabili, in genere, nella discussione contemporanea, a orientamenticonservatori-libertari. Sovente richiamandosi a Locke, queste teorie accordano un valore prioritario eassoluto alla libertà individuale, e facendo rientrare in questa le specifiche libertà di accumulare, donare elasciare in eredità, conducono a una conclusione di intangibilità (perfino sacralità) della proprietà privata,talché l’imposta sui trasferimenti rappresenta un abuso del potere statale e non dovrebbe trovare postonell’armamentario della politica tributaria. In realtà “[o]gni governo che imponga una imposta sulledonazioni o una imposta sulle successioni viola i diritti, dal momento che coloro che hanno acquisitoproprietà mediante il guadagno o lo scambio volontario hanno sempre un diritto superiore rispetto a coloro,individui o governi, che non le hanno acquisite allo stesso modo” (McGee 2004, 90).

In forza di questi argomenti, la tassazione dei trasferimenti sembra dover essere messa sullo stesso piano diogni altra formula di tassazione, e riportata alla generale visione libertaria secondo la quale la tassazione èfurto, o lavoro forzato (Nozick 1974, 169). Ma poi, data la necessità, solitamente riconosciuta, di uno statominimo (che protegga gli individui da violenza, frodi e furti, e assicuri il rispetto dei contratti), da taluni siritiene che nel finanziamento di tale stato si debba contare unicamente sui contributi volontari; da altri,viceversa, si ammette che alla tassazione si possa ricorrere per quanto richiesto da tale finanziamento. Questaseconda opinione solleva, naturalmente, la questione della o delle specifiche imposte da utilizzarsi dipreferenza; e allora sembra di potersi notare che l’imposta sui trasferimenti è abbastanza generalmenteavversata, anche se per ragioni non sempre interamente chiarite, e nelle quali sembrano entrare il suo valoresimbolico e la sua visibilità (per altro, per un’opinione contraria, secondo la quale l’imposta dovrebbe essereinvece favorita, cfr. Bird-Pollan 2013a).

6.- Effetti della tassazione, motivi per l’accumulazione e i trasferimenti di ricchezza, e tassazione di

patrimoni di diverso ammontare

Le teorie della giustizia, interessate ai principi generali, trascurano gli effetti che la tassazione deitrasferimenti di ricchezza ha nell’economia, come conseguenza delle reazioni di adattamento degli agenticoinvolti, i potenziali ereditandi e donatori, da una parte, e, dall’altra, gli eredi e i donatari.

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Alle reazioni degli ereditandi e donatori, e ai loro effetti sui processi di accumulazione della ricchezza, èstato dedicato un numero non grande di studi empirici, con risultati che la discussione tende a ritenereparziali e alquanto incerti (secondo un giudizio ricorrente lungo la successione di rassegne condotte sullamateria – cfr., p. es., Cremer-Pestieau 2006, 2013; Kopczuk 2009; Boadway et al. 2010). Allo stesso tempo,tuttavia – si vorrebbe sostenere –, questi studi hanno portato anche a qualche risultato interessante e a unaconvergenza di orientamenti nel ritenere decisivo, per l’analisi degli effetti dell’imposta, l’aspetto dellamotivazione degli agenti, donatori ed ereditandi, che li porta all’accumulazione della ricchezza e allatrasmissione di questa mediante donazioni e lasciti ereditari.

Il risultati interessanti stanno nell’indicazione, comune a vari studi, secondo la quale l’effetto dell’impostasui trasferimenti (in particolare, dell’imposta di successione) è quello di ridurre l’accumulazione diricchezza, e quindi l’ammontare complessivo delle eredità, ma di farlo in misura piuttosto limitata, con unvalore dell’elasticità dell’ammontare delle eredità rispetto all’aliquota marginale dell’imposta compreso tralo 0,1 e lo 0,2% (Holtz-Eakin e Marples 2001; Kopczuk e Slemrod 2001; Joulfaian 2006; Jappelli et al.

2014). Per altro, per livelli diversi delle eredità possono esservi, e plausibilmente vi sono, effetti diversi.

Sulla motivazione degli agenti, è emersa nella letteratura una classificazione delle principali circostanzepotenzialmente rilevanti, non reciprocamente escludentisi:

(i) accumulazione motivata dal desiderio di provvedere con i risparmi della vita lavorativa ai consumisuccessivamente alla cessazione dal lavoro (ossia, di dar luogo a consumption smoothing lungo l’arco dellavita), e trasferimenti determinati in via residuale e accidentale;

(ii) accumulazione e trasferimenti motivati da un interesse nel benessere di donatari ed eredi, e dallaconseguente gioia di donare – ossia da puro altruismo;

(iii) accumulazione e trasferimenti motivati dal piacere dell’atto di donare (egoistico, perché provato senzaconsiderazione degli effetti sul benessere dei beneficiari) – warm glow giving;

(iv) accumulazione e trasferimenti motivati dal proposito di ottenere l’attenzione e le cure (e magaricondizionare i comportamenti) dei donatari e potenziali eredi – ossia da un intento strategico di attivazione emantenimento di una relazione di do ut des intergenerazionale;

(v) accumulazione motivata da un apprezzamento della ricchezza, in ragione delle varie circostanze che laaccompagnano (successo, potere, notorietà, attenzione da parte degli altri); in questo caso, donazioni e lascitisono plausibilmente, almeno in larga parte, residuali, ancorché poi, in subordine, magari indirizzati abeneficiari individuati sulla base delle valutazioni suggerite dai motivi (ii)-(iv) supra.

Questa classificazione è, nella letteratura, largamente il frutto di esercizi congetturali, mancando, per quantoè a conoscenza di chi scrive, sondaggi di opinione in materia, ed essendo d’altronde le indagini empirichecondotte sulla materia dei comportamenti effettivi di trasmissione della ricchezza, per parere comune,piuttosto carenti.

Tuttavia, rimanendo sul piano delle congetture, i diversi motivi sembrano avere diversa validità e forza sulpiano soggettivo -- p. es., il motivo (i) del consumption smoothing è plausibilmente rilevante soprattutto perindividui e categorie che non beneficiano, o beneficiano limitatamente, della protezione dei sistemi disicurezza sociale; i motivi (ii)-(iv) – altruismo, warm glow giving e strategico – potrebbero valerediversamente per patrimoni di diversa consistenza, con il primo e il terzo via via meno rilevanti al cresceredel patrimonio, e il secondo viceversa via via più rilevante; il motivo (v), relativo all’apprezzamento dellaricchezza di per sé, infine, potrebbe valere per i patrimoni sostanziosi (in particolare per le grandi egrandissime fortune).

D’altra parte corroborano quest’ultimo punto, sulla valenza del motivo (v) per i patrimoni sostanziosi, alcuniindizi in ordine a comportamenti e atteggiamenti di grandi capitalisti-investitori – la propensione a investire eaccumulare indipendentemente dalla ricchezza già raggiunta; la mancanza di evidenze circa differenze dicomportamento tra chi ha eredi e chi non ne ha; la disponibilità, almeno di taluni, a indirizzare frazioniimportanti e talora preponderanti dei propri patrimoni a iniziative e fondazioni benefiche, a scapito dei propri

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eredi naturali (Sadeh et al. 2016); la preoccupazione talora visibile di garantire la sopravvivenza e continuitàdelle proprie iniziative imprenditoriali e finanziarie; la propensione a mettere mano soltanto in età avanzatae/o a séguito dell’insorgenza di malattie gravi a iniziative di pianificazione fiscale volte alla minimizzazionedei costi di imposta delle successioni.

Le considerazioni svolte sembrano, alla fine, permettere la derivazione di qualche prima conclusione. Inprimo luogo, la tassazione dei trasferimenti, con riguardo alle fortune più grandi, potrebbe non produrrerilevanti effetti di distorsione dei comportamenti di accumulazione e trasmissione della ricchezza; in secondoluogo, gli effetti della tassazione sono più incerti per gli altri patrimoni – plausibilmente presenti, potrebberoessere maggiori rispetto ai precedenti, e magari significativi per taluni – più bassi? -- livelli patrimonio; interzo luogo, infine, da questi punti di vista, potrebbe trovare giustificazione una formula di tassazione che sirivolgesse, essenzialmente o principalmente, alle grandi fortune.

7.- Altre considerazioni sulla tassazione delle grandi fortune (e degli altri patrimoni)

Ulteriori elementi, suggeriti da differenti punti di vista, sembrano, d’altronde, poter dare sostegno a questeprime conclusioni.

Vi è in primo luogo la congettura di Carnegie, così designata dal nome del miliardario e filantropo americanodi origini scozzesi Andrew Carnegie, secondo la quale i lasciti ereditari indeboliscono gli incentivi al lavoro,al risparmio e all’iniziativa degli eredi; nelle sue parole, “il genitore che lascia a suo figlio una ricchezzaenorme ne smorza le energie e i talenti, e lo spinge a condurre una vita meno utile e degna di quanto farebbealtrimenti” (Carnegie 1891). Questa congettura è stata sottoposta a verifiche empiriche che sembranoconfermarne la validità (Holtz-Eakin et al. 1992; Elinder et al. 2011; Kindermann, Mayr e Sachs 2018), equindi confermare anche la validità della tassazione delle successioni in quanto produttiva di effetti diefficienza.

In secondo luogo, la tassazione dei trasferimenti intergenerazionali di ricchezza, e tanto più se con riguardoalle grandi fortune, rappresenta una misura diretta di contrasto alla concentrazione della ricchezza e alle(grandi) diseguaglianze economiche – e una misura tanto più attrezzabile in quanto si ritenga, con un riccofilone recente del dibattito economico, che concentrazione e diseguaglianze economiche rappresentino unacircostanza dannosa – in effetti, disgregatrice – per le società contemporanee.

In terzo luogo, con riguardo invece ai patrimoni di ammontare relativamente contenuto, gli argomenti sonodi nuovo più incerti. Per un verso, quando da questi patrimoni, tramite donazioni o successioni, viene dato unaiuto all’acquisto di abitazioni (è il caso più frequente) o all’avviamento di iniziative imprenditoriali, siproduce una circostanza che, nell’opinione pubblica, riceve in genere un giudizio di meritorietà (nondissimile da quello che ricevono le spese familiari sostenute ad accrescimento o conservazione del capitaleumano). Per un altro verso, quando in questi patrimoni entrano piccole imprese familiari, ci si trova di nuovodi fronte a un giudizio di meritorietà, che vorrebbe salvaguardata la trasmissione in via di discendenza talipiccole imprese familiari sembra, e soprattutto delle aziende agricole familiari (salvo dover notare, anche, inuna prospettiva schumpeteriana, che simile trasmissione non aiuta i processi di rinnovamento aziendaleefficientatore).

8.- Problemi concreti della tassazione dei trasferimenti di ricchezza

Il prelievo dell’imposta sembra andare incontro, in concreto, a due problemi, o limitazioni.

La prima è l’elusività, dal punto di vista dell’accertamento tributario, di talune forme di ricchezza, contanti,preziosi, e almeno in certa misura, opere d’arte. È un problema che comporta in qualche misura una lesionedell’equità, e che è d’altra parte difficilmente rimediabile; che si desidererebbe poter afferrare nella suarilevanza empirica; ma che forse alla fine non è neppure troppo grave, se lo si confronta con le imperfezioniche in modo generale caratterizzano la misurazione delle basi imponibili delle imposte.

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La seconda è il pericolo rappresentato per l’imposta sui trasferimenti dall’esistenza di paradisi fiscali ecapitalisti nomadi (ossia capitalisti che scelgono, e spostano, la propria residenza in ragione dellaconvenienza fiscale – mutuo la terminologia da Henderson 2018, una sorta di peana e guida al fenomeno). Ilgrado di pericolo, e di rimediabilità, sembra essere diverso nei due casi. Il pericolo è certamente grave nelcaso dei paradisi fiscali (come documentato da Zucman 2013); ma opportune iniziative internazionalipossono ridurlo, come già è stato in parte fatto, e come ancora c’è spazio per fare (Gravelle 2105). Nel casodei capitalisti nomadi, la situazione è più incerta: p. es., nel loro studio elogiativo dell’abolizionedell’imposta di successione in Svezia, Ydstedt e Wollstad (2015), vedono nella precedente esistenzadell’imposta un motivo fondamentale per l’emigrazione all’estero di taluni grandi capitalisti svedesi (tra iquali il fondatore di Ikea); tuttavia, sembrerebbe che, in quel caso, almeno, il problema potesse stare nell’altolivello generale di tassazione dei capitali, piuttosto che specificamente nella tassazione delle successioni. Inrealtà, da questo punto di vista, la tassazione delle successioni, si può congetturare, in quanto rivolta allegrandi fortune, potrebbe essere meno pericolosa della tassazione dei rendimenti e dei guadagni di capitale,viventi i beneficiari di questi.

9-. Impopolarità delle imposte sui trasferimenti (specialmente sulle successioni)

Resta, a questo punto, da guardare alla questione degli atteggiamenti collettivi sulla materia della tassazionedei trasferimenti di ricchezza, e, più in particolare, alle ragioni per le quali imposte che sono pagate da pochi(e in misura contenuta) sono avversati da molti, e tanto da trovare governi e parlamenti disposti aridimensionarle o eliminarle.

Un aspetto generale sembra poter rilevare, già a prima vista. Esso riguarda il fatto che l’ostilità deicontribuenti tende a rivolgersi alle imposte da essi più visibili, ossia alle imposte per le quali non vi è, o vi èmolto limitatamente, la possibilità dei fenomeni di illusione individuati a suo tempo da Amilcare Puviani(1903). Tra queste imposte rientrano certamente quelle che tassano i trasferimenti di ricchezza, cherichiedono il materiale ed esplicito pagamento da parte dei contribuenti, non essendo incorporate nei prezzicome sono in maggioranza le altre imposte. Del resto, sembra potersi vedere, per questo, un parallelismo conl’impopolarità delle imposte sulla proprietà immobiliare, anch’esse pagate out of the pocket, che ha dato, p.es., occasione alla rivolta californiana contro la property tax del 1978 e alla vicenda che, in Italia, tra il 2006e il 2011, portò al ridimensionamento dell’Ici e all’introduzione dell’Imu. Conseguenza della visibilità eimpopolarità delle imposte sui trasferimenti, è, poi, naturalmente, una esposizione e vulnerabilità allecampagne dei movimenti contrari alla tassazione (e, spesso, allo stato).

Studi condotti sulla campagna contro l’estate tax, che, negli Stati Uniti, condusse a un forteridimensionamento dell’imposta, nel 2001, mostrano anche il rilievo di altre circostanze, inerenti apercezioni distorte dell’imposta da parte dei contribuenti, e a modalità di conduzione della campagna, che,spesso, sfruttavano tali distorte percezioni.

Riassumendo selettivamente: nella campagna, l’imposta venne etichettata death tax, e poi dipinta comeun’imposta che colpiva il momento doloroso del lutto, interferiva con la solidarietà familiare e i valorifondativi della famiglia, metteva a rischio la sopravvivenza e trasmissione familiare delle piccole imprese,specialmente quelle agricole, e, infine, comprendeva nel proprio campo di applicazione, prospetticamente,un’ampia maggioranza della popolazione.

Le percezioni distorte che offrivano terreno fertile alla campagna erano poi, documentate da studi empirici eindagini di opinione: una tendenza maggioritaria a vedere la propria posizione economica come più elevatadi quanto fosse in realtà; una generale incomprensione dell’effetto anti-egualitario del ridimensionamentodell’imposta; una incomprensione similmente generale della connessione tra ridimensionamento dell’impostae venir meno di una fonte di finanziamento della spesa pubblica (Bartels 2005; Graetz e Shapiro 2005,Runciman 2005).

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10.- Una digressione sul caso dell’imposta di successione in Italia

Nella prospettiva del confronto internazionale, i dati disponibili ai fini dello studio dell’imposta suitrasferimenti di ricchezza in Italia sono relativamente pochi.

Tra questi, preziosi, sono quelli prodotti biennalmente dall’indagine campionaria sui bilanci delle famiglieitaliane che la Banca d’Italia conduce dal 1965, e che da allora si è venuta via via arricchendo. Più sopra, sene è ricordata l’utilizzazione fattane da Jappelli, Padula e Pica (2014); per ciò interessa qui, ci sono, almenodue aspetti del processo di generazione e trasmissione della ricchezza che questi dati permettono di portare inluce, e che sembrano dare sostegno alla linea della presente discussione. Essi, infatti, danno evidenzarelativamente:

(i)- all’importanza notevole della trasmissione ereditaria nella formazione della ricchezza delle famiglie.L’indicazione che si ha su questo è limitata alla trasmissione delle abitazioni di residenza, ma dato il pesodelle abitazioni nei patrimoni delle famiglie, è un’indicazione importante: se il 71,9% degli intervistatirisiede in una abitazione di proprietà, il 27,8% di questi, poi, ne ha derivato la proprietà in tutto o in parte dalasciti ereditari.

(ii)- al rilievo non secondario, ma neppure preponderante, del motivo al risparmio dovuto al proposito dilasciare a figli e nipoti un patrimonio eredità. Come si vede dalla Tabella 3, questo motivo figura al quartoposto per frequenza di indicazione da parte degli intervistati: molto distanziato dai motivi indicati piùfrequentemente, la gestione di eventi inattesi e l’accumulo in vista della vecchiaia; preceduto dal motivodovuto al proposito di provvedere all’istruzione e al sostegno economico di figli e nipoti (non dissimilenell’ispirazione, ma di notevolmente diverso contenuto sostanziale); e seguito, sia pure a una certa distanza,dal motivo, di inclinazione voluttuaria, dovuto al proposito di finanziare viaggi e vacanze.

Tabella 3 - Motivi per il risparmio indicati tra i tre i più importanti da un campione di famiglie italiane, inordine decrescente di frequenza. Anno 2016.

Motivo Frequenza

Gestione di eventi inattesi 4.325Accumulo in vista della vecchiaia 3.840Istruzione/sostegno economico di figli e nipoti 1.941Eredità per figli e nipoti 1.290Viaggi e vacanze 832Acquisto dell’abitazione di residenza 741Pagamento di debiti 705Altre spese di ammontare rilevante (altre abitazioni,veicoli, mobili ecc.

449

Fondazione di un’impresa o finanziamento diinvestimenti in un’impresa esistente

90

Altro 71

Fonte: Banca d'Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Archivio storico 2016, Roma, 2018.

11.- Commenti conclusivi: il futuro dell’imposta sui trasferimenti di ricchezza?

Si può sostenere, in conclusione, che l’imposta sui trasferimenti di ricchezza sia una buona imposta, ma sidovrebbe anche riconoscere che allo stato la sua introduzione, dove non c’è (perché mai esistita oabbandonata), e il suo rafforzamento, altrove (rispetto ai livelli attuali di prelievo, in primo luogo mediante lalimitazione delle agevolazioni), sono un non-starter.

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Ma come potrebbe l’imposta trovare possibilità migliori?

Una precondizione, perfino ovvia, è che trovi forze politiche che ne facciano un proprio fondamentale temadi attenzione e propaganda, a seguito di un impegno esplicito e determinato alla riduzione dellediseguaglianze, quale sembrerebbe necessario e importante, ma, allo stesso tempo, assente da lungo tempodal dibattito politico e dalle pratiche di governo.

Sul diverso piano della progettazione dell’imposta, alcuni aspetti sembrerebbero distinguersi – valendo leconclusioni della precedente discussione – come particolarmente importanti:

(i) occorrerebbe utilizzarla in sostituzione, e dunque in riduzione, di altre imposte.

(iI) occorrerebbe farne, mediante esenzioni alla base e progressività, un’imposta che risparmi i patrimoni dientità relativamente limitata, e che sia poi per un tratto abbastanza leggera, ancorché di peso crescente;

(iii) ancora, plausibilmente, occorrerebbe prevedere, come già fanno, in genere, le imposte in vigore, e inrelazione a un favore che pare diffuso, un trattamento più leggero per i trasferimenti di ricchezza in lineadiretta.

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Elena Fazio
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Contributo presentato al seminario organizzato dal

Forum Disuguaglianze diversità

5 dicembre 2019, Roma

Presso la Città dell’Altra Economia

Ripensare la proposta di un fondo per l’accesso alla vita adulta

Chiara Rapallini Prof.ssa Scienza delle Finanze e Behavioral Economics,

Dipartimento di Economia e Management, Università degli Studi di Firenze Via delle Pandette, 21. 50127 Firenze. E-mail: [email protected]

In questo lavoro discutiamo la proposta di assegnazione di una somma di denaro ai

giovani diciannovenni. Il fondo per l’accesso alla vita adulta, o dote di cittadinanza (d’ora in poi semplicemente fondo) è una misura che rientra nella c.d. asset-welfare agenda e ha come principale obiettivo il superamento, almeno parziale, delle differenze che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità. Nel caso italiano, la discussione dei pro e dei contro del fondo è volta ad evidenziarne l’importanza in una società che sta rapidamente invecchiando. Infatti, se, da una parte, il superamento delle differenze che ostacolano l’uguaglianza delle opportunità è un obiettivo particolarmente difficile da raggiungere, e che richiede un complesso di misure, d’altra parte, l’incremento delle aspettative di vita –ed il conseguente invecchiamento della popolazione- è un fenomeno, comune a molti paesi occidentali, da tener conto nel design del welfare.

Il fondo dovrebbe essere universale e vincolato alle spese per istruzione, per l’avvio di un’attività imprenditoriale, o per le necessità legate alla formazione di una nuova famiglia -come la somma iniziale necessaria ad acquistare l’abitazione-. In Italia i possibili destinatari sono poco più di 590 mila giovani. Se si ipotizzasse un fondo pari a 12 mila euro a testa, il costo per la finanza pubblica sarebbe pari a poco più di 7 miliardi di euro. Il fondo potrebbe essere finanziato riducendo la franchigia dell’imposta di successione e aumentandone l’aliquota. Ad oggi, infatti, il gettito dell’imposta sulle successioni e donazioni è pari a poco meno di 800 milioni di euro (MEF, 2017) e, quindi, se fosse interamente destinato a questo scopo potrebbe coprire poco più di un decimo delle risorse necessarie. Una parte del costo del fondo potrebbe essere coperto con una revisione delle detrazioni dei carichi familiari IRPEF; in particolare, il diritto alle detrazioni potrebbe essere limitato a coloro che hanno figli con

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meno di 19 anni. Il mancato gettito IRPEF per le detrazioni per carichi familiari nel 2017 è stato pari a 12,6 miliardi di euro (MEF, 2018), ma è difficile stimare quanta parte del fondo potrebbe essere finanziata con questa rimodulazione perché non sono disponibili informazioni sull’età dei figli dei beneficiari.

A parere di chi scrive, la riflessione sulle politiche a favore dell’uguaglianza delle opportunità dovrebbe sempre considerare prioritarie le risorse impiegate nel sistema di istruzione pubblico, dagli asili nido all’istruzione universitaria, e la principale argomentazione a favore di un fondo per l’accesso alla vita adulta sta nella distribuzione delle risorse tra generazioni. I dati sinteticamente riportati in questo contributo evidenziano, infatti, la necessità di individuare uno strumento per spostare risorse che oggi sono a disposizione di persone in età avanzata, nella disponibilità di individui che si trovano in una fase dell’esistenza nella quale si fanno scelte che hanno un impatto duraturo sia per chi le compie sia per la collettività. In altre parole, i giovani adulti dovrebbero poter scegliere quanto tempo e denaro investire in formazione, se avviare un’attività professionale e/o se formare una propria famiglia in autonomia - materiale e psicologica- dalle famiglie di origine.

Nei primi due paragrafi di questo contributo si precisa l’accezione con cui è utilizzata l’espressione uguaglianza delle opportunità, e si riportano alcuni dati circa la mobilità sociale in Italia. Nel terzo paragrafo si illustrano alcuni dati sulla distribuzione delle risorse tra generazioni in Italia e –per brevi cenni- negli altri paesi europei. Il quarto paragrafo è dedicato ad una sintetica presentazione dell’asset-welfare agenda e, quindi, alle giustificazioni teorico-politiche di un fondo per l’accesso alla vita adulta, evidenziando i pro e contro della misura e le diverse modalità con cui può essere adottata. Il quinto paragrafo presenta i principali argomenti del dibattito politico che ha accompagnato l’adozione di misure assimilabili al fondo in alcuni paesi, principalmente anglosassoni. Il sesto paragrafo conclude.

1. Uguaglianza delle opportunità: dal principio alle politiche

L’obiettivo delle misura proposta è l’uguaglianza delle opportunità, che è un principio di giustizia sociale diverso dall’eguaglianza dei risultati. La necessità di promuovere l’uguaglianza delle opportunità è largamente condivisa nelle democrazie liberali per diverse ragioni. La prima è che se una società riuscisse ad assicurare l’uguaglianza delle opportunità, sarebbero più accettabili le disuguaglianze di reddito e ricchezza perché sarebbero considerate la conseguenza dello sforzo individuale e/o merito, e non di tutte le circostanze che si ritengono indipendenti dalla volontà individuale, come l’etnia o la famiglia di origine. Una seconda ragione che spiega il consenso su questo principio è che, così espresso, è piuttosto generale, e può includere accezioni anche distanti tra loro. L’interpretazione più restrittiva è la non discriminazione secondo cui “in the competition for positions in a society, all individual who possess the attributes relevant for the performance of the duties of the position in question have to be included in the pool of eligible candidates”1. Ed infatti nella stragrande maggioranza delle democrazie occidentali la competizione per le posizioni, sia nel settore pubblico sia nel settore privato, è regolamentata nel rispetto del principio della non discriminazione. Un’accezione alternativa richiederebbe alla società di adoperarsi per “level the playing field” tra individui che sono in competizione per una data posizione. In questo caso, se le opportunità di ricevere una buona istruzione -ad esempio- non sono uguali per tutti i bambini, il principio di non-discriminazione quando questi stessi bambini saranno adulti e saranno in competizione per una data posizione, non è sufficiente. Al di là delle possibili accezioni, nel caso dell’uguaglianza delle opportunità, il punto di partenza nel quale si trova ciascun individuo è cruciale e l’idea è

1 Roemer (1998), pag. 1

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quella di mitigare gli effetti di fattori che sono fuori dal suo controllo, ma che sono rilevanti per competere per le posizioni migliori.

L’istruzione è probabilmente considerato il principale canale di trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza, e da questa convinzione deriva una delle giustificazioni al finanziamento pubblico della formazione, almeno nei principali paesi europei. Ma non c’è solo l’istruzione: cruciale è il funzionamento del mercato del lavoro e la relazione tra mercato del lavoro e istruzione. Infatti, se il sistema di istruzione non promuove l’uguaglianza delle opportunità, anche se il mercato del lavoro remunera il merito ed il livello di istruzione, il risultato finale è una società con scarsa mobilità sociale perché non tutti i bambini hanno le stesse possibilità di competere. Al contrario, ci sono società nelle quali diffusi e buoni sistemi di istruzione pubblica sono correttamente considerati il primo gradino per assicurare una certa mobilità sociale, che invece è ostacolata da un mercato del lavoro che non remunera correttamente il merito e gli investimenti in capitale umano. Di recente, la sempre scarsa mobilità sociale e la disuguaglianza crescente nei paesi occidentali, hanno portato gli studiosi a pensare che istruzione pubblica e mercato del lavoro non siano gli unici canali di trasmissione della disuguaglianza tra generazioni che meritano di essere studiati. Peraltro è stato mostrato che, a parità di livello di istruzione raggiunto, ci sono paesi –tra cui l’Italia- in cui parte dei differenziali salariali sono comunque spiegati dal background economico della famiglia di origine2.

Tra le possibili spiegazioni di queste evidenze, la letteratura economica si è recentemente focalizzata sul ruolo svolto dai contesti sociali, ed in particolare dai network di relazioni necessari sia ad avere una buona istruzione sia ad accedere a buone posizioni nel mercato del lavoro, e dalle capacità non cognitive. Si tratta di due fattori molto diversi ma trasmissibili dai genitori ai figli e sui quali i secondi non hanno il controllo. In particolare, le evidenze circa il ruolo svolto dalle capacità non cognitive, sia nello studio che nella carriera, sono, da un lato, il risultato di studi che adottano tecniche econometriche sempre più robuste3, dall’altro, stanno facendo spostare sempre più l’attenzione alle politiche indirizzate ai primissimi anni di vita4.

2. Il peso della disuguaglianza di opportunità in Italia e la mobilità sociale

Ai fini di questo lavoro, che non ha per obiettivo una completa rassegna della letteratura sulla trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza in Italia, può essere utile ricordare che si tratta di un paese in cui il 20 per cento della disuguaglianza complessiva è spiegata dalla disuguaglianza delle opportunità (Checchi e Peragine, 2010). Per stimare questa misura i due autori utilizzano il salario come indicatore della posizione raggiunta dal singolo, e il livello di istruzione dei genitori come misura del background familiare. Questo fattore –o circostanza- è infatti nota ai ricercatori, e fuori dal controllo individuale. Nella letteratura economica, la mobilità sociale – che è l’altra faccia dell’uguaglianza delle opportunità- è generalmente misurata con una regressione che ha il salario individuale come variabile dipendente e il reddito dei genitori tra le variabili esplicative. Il coefficiente della regressione è un indicatore di quanto in media le risorse dei figli dipendano da quelle dei loro genitori in una data società5. Molti lavori empirici hanno stimato questo coefficiente per uno o più paesi6, arrivando alla conclusione –largamente condivisa- che i risultati migliori sono stati raggiunti dai paesi 2 A questo proposito si veda, ad esempio, Franzini e Raitano (2010) 3 Rustichini et al. (2017) 4 Heckman e Raut (2016). 5 Mocetti (2008), pag. 42. 6 Solon (2002).

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Scandinavi, la gran parte dei paesi europei continentali raggiunge risultati intermedi, mentre negli Stati Uniti e in Gran Bretagna la mobilità sociale si è molto ridotta nel tempo, e l’uguaglianza delle opportunità è un obiettivo molto lontano. L’Italia è uno dei paesi europei con i risultati peggiori, molto simili a quanto fatto dai paesi anglo-sassoni citati. In particolare, Mocetti (2008) mostra –utilizzando dati che vanno dagli anni ’70 al 2004- che il coefficiente della regressione appena illustrata è pari a 0.48: ciò significa che metà del vantaggio economico dei genitori si trasferisce ai figli. Analizzando i due principali canali di mobilità scoiale, l’istruzione ed il mercato del lavoro, Mocetti (2008) mostra che la probabilità di un giovane di laurearsi è del 56 per cento se è figlio di una persona che ha raggiunto lo stesso livello di istruzione, e del 4,7 per cento se il padre ha la licenza elementare. Risultati molto simili emergono da analisi della mobilità sociale nel mercato del lavoro: la probabilità del figlio di un operaio di essere operaio a sua volta è del 50 per cento, mentre la probabilità del figlio di un manager di essere operaio è del 4,2 per cento.

3. La distribuzione delle risorse tra generazioni: il caso italiano non è isolato Le opinioni pubbliche di 22 paesi -di più o meno recente sviluppo e di diverse regioni

del mondo-7, interrogate nel 2016 circa le prospettive di vita dei giovani di oggi8, sono divise in maniera piuttosto netta tra chi crede che i giovani vivranno in condizioni migliori rispetto a quelle sperimentate dai propri genitori e chi, invece, pensa che questo non sia vero9. La risposta pessimista è prevalente nelle opinioni pubbliche europee (Regno Unito, Germania, Italia, Spagna, Belgio e Francia) e in quella statunitense, mentre l’ottimismo è più diffuso in Cina, India e Indonesia, nel Centro ed in parte del Sud America. Quando interrogati sulle aspettative circa i singoli aspetti dell’esistenza, gli adulti –inclusi gli europei e gli statunitensi- si sono mostrati ottimisti per ciò che riguarda le prospettive dei giovani per l’accesso alle informazioni, l’opportunità di viaggiare e di ricevere una buona istruzione, mentre il pessimismo riguarda la possibilità di avere un lavoro, una casa e una pensione adeguati.

Per capire se questo pessimismo è fondato, è utile ricordare alcuni dati circa il reddito, il possesso di immobili e le prospettive pensionistiche delle generazioni più giovani, confrontandoli con quelli relativi alle generazioni precedenti. In questo contributo questo confronto è fatto con particolare riferimento all’Italia.

La Commissione di studio sulle disuguaglianze intergenerazionali della Resolution Foundation, think-tank britannico, ha calcolato il reddito familiare equivalente, reale e disponibile, mediano per cinque generazioni e 3 fasce di età. Reddito familiare equivalente reale e disponibile è una misura che tiene conto della dimensione del nucleo familiare, è calcolato al netto delle imposte e a parità di potere di acquisto10. Le generazioni considerate

7 Cina, Perù, Indonesia, Brasile, Sud Africa, Messico, Russia, Polonia, Argentina, USA, Turchia, Italia, Germania, Giappone, Svezia, Australia, Sud Corea, Regno Unito, Spagna, Belgio e Francia. 8 La domanda posta in maniera omogenea nei diversi paesi è la seguente: “Lei pensa che i giovani di oggi avranno una vita migliore, o peggiore, rispetto ai loro genitori, o pensa che sarà più o meno la stessa?” 9 Il dato è stato elaborato dalla Commissione di studio sulle disuguaglianze intergenerazionali, la Intergenerational Commission, della Resolution Foundation, think-tank britannico sulla base di indagini comparabili svolte nei paesi menzionati. 10 I confronti sono fatti sulla base dell’età del capofamiglia, come individuato nelle indagini nazionali. Ai fini di questa elaborazione, il reddito della famiglia è assegnato al capofamiglia ed il confronto è quindi tra reddito equivalente individuale. Questo significa che si tiene conto del numero di persone che fanno parte della famiglia ma non si tiene conto della diversa composizione della famiglia nei diversi paesi. Ad esempio, se l’alta disoccupazione verificatasi nei paesi del Sud dell’Europa ha comportato che molti giovani siano rimasti a vivere

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sono quella dei nati tra il 1911 ed il 1925 (la più grande); quella dei nati tra il 1926 ed il 1945 (la silente); quella dei nati tra il 1946 ed il 1965 (i Baby-boomers); quella dei nati tra il 1966 ed il 1980 (la X) e i Millenials, che sono i nati tra il 1981 ed il 2000. Le fasce di età sono i 30-34 anni; tra i 45 e i 49 anni e tra i 65 e i 69 anni. L’obiettivo di una tale misura è confrontare il reddito disponibile di individui che hanno vissuto le fasi importanti della loro vita -l’inserimento nel mercato del lavoro e la formazione della propria famiglia, il consolidamento della posizione lavorativa e l’uscita dal mercato del lavoro con il passaggio alla pensione- facendo parte di generazioni diverse. Il confronto tra redditi mediani consente di considerare ipotetici individui rappresentativi della propria generazione proprio perché collocati nella parte centrale della distribuzione dei redditi. Così, se si confronta il reddito dei Millenials italiani nella fascia di età 30-34 anni con quello di coloro che sono nati in Italia tra il 1966 e il 1980 (la generazione X) quando erano nella stessa fase di vita, ossia avevano tra i 30 e i 34 anni, si scopre che i primi dispongono di risorse inferiori rispetto ai secondi del 17 per cento. Ma anche la generazione X ha visto peggiorare la propria condizione rispetto alla generazione precedente: se –infatti- il confronto si fa tra loro e i Baby-boomers italiani, si può constare che nella fascia di età 30-34 anni, i primi disponevano di un reddito superiore a quello dei secondi dell’8 per cento, ma se i due gruppi si confrontano nella fascia di età 45-49 si scopre che la generazione X dispone di minori risorse pari all’11 per cento rispetto ai Baby-boomers. Al contrario, se i Baby-boomers si confrontano con le due generazioni precedenti, risulta che i primi hanno redditi superiori ai secondi per un ammontare che varia tra l’8 e il 14 per cento a seconda della fascia di età considerata. Lo stesso andamento si è verificato in Germania, in Spagna e negli Stati Uniti, anche se con percentuali diverse. Al contrario, nel Regno Unito, in Svezia, Finlandia e Danimarca le generazioni più giovani dispongono, in tutte le fasce di età, di risorse superiori alla generazione precedente.

Questa evidenza può avere due spiegazioni: da un lato, la riduzione delle risorse disponibili per le generazioni più giovani può essere la conseguenza di tassi di crescita più contenuti rispetto al passato, quali quelli che hanno caratterizzato tutte le economie avanzate europee con la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio. Dall’altro, la crisi finanziaria del 2008 potrebbe aver inciso maggiormente sulle generazioni che stavano, proprio allora, entrando nel mercato del lavoro, o ci erano entrati da poco. Infine, può essere che gli effetti negativi della crisi del 2008 e della ridotta crescita si siano sommati.

Per l’Italia, in particolare, guardando all’Indagine sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane11, e fatto pari a 100 il reddito famigliare medio dei nuclei con capofamiglia ultra-sessantacinquenne, si può calcolare che nel 1987 tutti coloro che vivevano in nuclei più giovani avevano risorse maggiori. Si trattava del 67 per cento in più se il capo-famiglia aveva fino a 30 anni, del 70 per cento in più se il capofamiglia aveva tra 31 e 40 anni, dell’84 per cento in più se il capofamiglia aveva tra i 41 e i 50 anni e del 72 per cento in più se il capofamiglia aveva tra i 51 e i 65 anni. Al contrario, nel 2016, i nuclei con capofamiglia con meno di 30 anni dispongono di risorse pari all’86 per cento dei nuclei di ultra-sessantacinquenni, del 98 per cento se il capofamiglia è tra i 31 e i 40 anni; se il capofamiglia ha tra i 41 e i 50 anni, invece, i nuclei dispongono di un reddito famigliare più alto dei nuclei di ultra-sessantacinquenni del 22 per cento, o del 34 per cento se il capofamiglia ha tra 51 e i

con i loro genitori, il cambiamento che si è verificato nella composizione delle famiglie, nella composizione della generazione più giovane e nel suo reddito mediano non è stato qui considerato. 11 Indagine relativa ai redditi 2016 (http://www.bancaditalia.it/statistiche/tematiche/indagini-famiglie-imprese/bilanci-famiglie/index.html)

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65 anni. Se si considera solo il reddito da lavoro, si può verificare che la retribuzione media oraria dei dipendenti nel 1987 era pari a 3.52 euro per coloro che avevano meno di trent’anni, ma per tutti gli altri era di poco superiore ai 4 euro. Erano retribuiti in media 4.49 euro l’ora i lavoratori dipendenti con età compresa tra i 31 e i 40 anni; 4.46 euro quelli che avevano tra i 41 e i 50 anni; 4.53 euro per chi era nella fascia di età tra 52 e 65 anni e 4.71 euro per i lavoratori con più di 65 anni. Nel 2016 la retribuzione media oraria più alta è quella dei lavoratori tra i 51 e i 65 anni (10.63 euro in media), mentre coloro che hanno meno di trent’anni si fermano a 7.34 euro; quelli tra 31 e 40 anni a 8.98 euro; nella fascia di età tra i 41 e i 50 anni si arriva mediamente a 10.02 euro l’ora, per poi tornare a 9.19 per gli ultra-sessantacinquenni. Questa evoluzione è probabilmente dovuta al fatto che nel 1987 c’erano nel mercato del lavoro italiano delle coorti di lavoratori con livelli di istruzione molto diversificati, con i meno istruiti plausibilmente concentrati nelle coorti più anziane. Nel 2016, al contrario, i differenziali in livello di istruzione per coorte di età sono ridotti e, quindi, l’esperienza e la permanenza nel mercato del lavoro sono i fattori che più contribuiscono ad aumentare le retribuzioni, premiando le coorti di lavoratori in età avanzata.

Quale peso ha avuto la crisi del 2008 nei paesi, come l’Italia, che già avevano visto rallentare il tasso di crescita e nei quali l’istruzione stava progressivamente perdendo il suo ruolo nella differenziazione delle retribuzioni?

Per capire se la crisi ha avuto un effetto diverso sulle diverse generazioni può essere utile confrontare il tasso di disoccupazione giovanile prima e dopo a crisi. Dai dati elaborati dalla Resolution Foundation emerge che l’Italia, insieme a Spagna e Grecia, non solo avevano i tassi di disoccupazione giovanile pre-crisi più alti, ma hanno raggiunto i picchi più alti durante la crisi (l’Italia con il 32 per cento, la Spagna con il 42 per cento e la Grecia con il 48 per cento) e nel 2016 sono rimasti con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25 per cento (27 l’Italia, 32 la Spagna e 38 la Grecia). Limitando l’analisi al periodo 2006-2014 emerge che i lavoratori sotto i trent’anni in Italia hanno sofferto di una riduzione dei salari reali pari al 5 per cento e un incremento del tasso di disoccupazione di oltre 15 punti percentuali. In sintesi, le limitate risorse di cui godono le generazioni più giovani in Italia sono non solo il risultato di un rallentamento della crescita di un’economa avanzata e della diffusione dell’istruzione in tutte le coorti di lavoratori, ma anche del fatto che le ristrutturazioni del mercato del lavoro -avvenute prima e dopo la crisi- hanno gravato principalmente sugli outsiders.

Una delle principali conseguenze della debolezza delle ultime generazioni sul mercato del lavoro è la loro difficoltà ad acquistare l’immobile di residenza. Dai dati della Banca d’Italia emerge che nel periodo che va dal 1977 al 2014 la percentuale di famiglie proprietarie della casa di abitazione è salita dal 30 per cento al 50 per cento e c’è stato un periodo -tra la fine degli anni ‘90 fino a prima della crisi- in cui le differenze per età del capofamiglia erano molto ridotte. Ad esempio, nel 2001 erano proprietari della prima casa circa il 40 per cento dei nuclei con capofamiglia di età inferiore ai trent’anni; intorno al 42 per cento dei nuclei con capofamiglia tra i 31 e i 50 anni ed il 52 per cento di coloro che avevano oltre 50 anni. Nel 2015 invece il quadro era notevolmente cambiato: la quota dei proprietari dell’abitazione è scesa al 30 per cento per coloro che hanno meno di trent’anni, mentre è rimasta stabile per le fasce di età superiori. Specularmente, se si guarda al numero degli affittuari per età del capofamiglia si trova che nel 2014 poco meno del 40 percento dei trentenni e quasi il 36 per cento di coloro che hanno tra i 31 e i 40 anni sono in affitto. Nel 1998 la situazione era invece molto più omogenea rispetto all’età: erano in affitto il 29,7 per cento dei nuclei con capofamiglia trentenne; il 28.4 per cento di coloro che avevano tra 31 e 40 anni; il 22 per cento

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dei nuclei tra i 41 e i 50 anni; il 20 per cento di quelli che avevano tra 51 e 65 ed il 19 per cento degli ultra-sessantacinquenni. In sintesi, se l’acquisto dell’abitazione richiede una disponibilità di risorse e una posizione lavorativa difficili da raggiungere nei primissimi anni di ingresso nel mercato del lavoro, vero è che in Italia ci sono stati periodi in cui questo passaggio non era precluso nella fase della vita –ossia tra i 25 e i 40 anni- durante la quale si forma una famiglia, come sembra esserlo oggi.

Infine, non ci sono dubbi che gli interventi fatti nei primi anni ‘90 sul sistema pensionistico italiano, indispensabili per riportarlo in equilibrio, si siano tradotti in una sostanziale riduzione delle prestazioni destinate a coloro che hanno cominciato a lavorare nel 199612. Infatti, questa coorte di lavoratori, e quelle successive, avranno una pensione interamente calcolata con il sistema contributivo, mentre per le coorti precedenti il calcolo sarà fatto pro-quota. Ne segue che, il tasso di sostituzione lordo tra la prima rata pensionistica e l’ultima retribuzione per coloro che hanno cominciato a lavorare nel 1996, e che avranno 40 anni di contributi nel 2036 era, prima della Legge Fornero di poco superiore al 50 per cento. Un parziale aggiustamento rispetto a questo squilibrio è stato fatto con l’intervento della Legge Fornero, che ha portato il tasso di sostituzione intorno al 62-63 per cento13.

Per concludere, il pessimismo dichiarato dalle opinioni pubbliche europee, ed in particolare di quella italiana, sulle opportunità delle generazioni future circa il lavoro, il possesso dell’abitazione e la prospettiva pensionistica non può essere considerato privo di fondamento.

4. L’asset-welfare agenda e le giustificazioni teorico-politiche del fondo per un

accesso alla vita adulta.

L’espressione “assets agenda” o “asset-welfare agenda” è qui impiegata, come in Prabhakar (2008), per indicare i contributi che sottolineano l’importanza -nel disegno del welfare state- della redistribuzione della ricchezza, in aggiunta a quella del reddito. L’idea di redistribuire la ricchezza non è nuova ed è stata sostenuta da studiosi e policy makers anche di schieramenti politici diversi. Negli ultimi due decenni, in particolare, più d’una riforma del welfare state nei paesi occidentali è stata disegnata ispirandosi a questo approccio. Una rassegna completa di questa letteratura, e del dibattito politico ad essa collegato, non è l’obiettivo di questo lavoro. In questo paragrafo ci limiteremo a ricordare i principali contributi accademici, mentre nel prossimo sarà brevemente ricordato il dibattito politico e i casi di adozioni di misure ispirate a questo approccio.

Thomas Paine è il più noto antesignano dell’asset-agenda, ed in particolare di un fondo per l’accesso alla vita adulta. Secondo il filosofo anglo–americano è necessario distinguere tra lo stato di natura -quando la terra era incolta- e la civilizzazione -quando gli uomini si sono dedicati alla coltivazione della terra- e riconoscere agli individui il diritto al frutto del proprio lavoro, ma non quello di illudere gli altri sull’eredità delle risorse naturali14. Tutti hanno diritto alle risorse naturali e deve valere il principio per cui nello stato di civilizzazione nessuno deve stare peggio rispetto allo stato di natura. Da qui la proposta di un fondo nazionale “to pay to every person, when arrived at the age of twenty-one years, the sum of fifteen pounds sterling, to enable him or her to begin the world”, finalizzato alla realizzazione di questi principi.

12 Per una valutazione complessiva dell’impatto delle politiche fiscali sulla distribuzione delle risorse tra generazioni in Italia si veda Pertile et al. (2015). 13 Marano, Mazzaferro, Morciano (2012) 14 Agrarian Justice (1797)

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Secondo le stime di Lindert e Williamson15, fifteen pounds equivalevano a circa metà del salario annuale di un bracciante agricolo di Inghilterra e Galles nel 1797, e la tassazione delle eredità era la modalità ipotizzata dall’autore per finanziare la misura. Con Paine la povertà non è più considerata un dato naturale, bensì il frutto della civilizzazione, e –quindi- l’uguaglianza delle opportunità è un obiettivo che la collettività deve perseguire con interventi di giustizia distributiva. La ricchezza di una generazione deve essere considerata un bene comune per la generazione che segue, e l’idea che gli individui che hanno creato una determinata ricchezza debbano essere liberi di lasciarla interamente ai loro figli è da superare. Il diritto di proprietà sul frutto del proprio lavoro non persiste dopo la morte, specialmente se ci sono persone che, per mancanza di un capitale di partenza, si vedono negata l’opportunità di realizzare il loro progetto di vita.

Il dibattito accademico intorno a questa proposta è rimasto vivo per tutto il XX secolo, articolandosi intorno a quesiti quali: a che età dovrebbe essere accordata questa somma? Con quale gradualità dovrebbe essere introdotta la misura? Chi dovrebbe averne diritto? A quanto dovrebbe ammontare? Come dovrebbe essere finanziata? L’impiego deve essere vincolato? Se si, per quali scopi?

In questo paragrafo analizzeremo le risposte fornite a questi interrogativi dagli autori di tre proposte tra le più recenti: lo stake di Ackerman and Alstot (The Stakeholder Society, 1999, d’ora in poi AA), lo Start-up grants for young people di Le Grand e Nissan (A Capital Idea: Start-up grants for young people, 2000, d’ora in poi LGN) e il Capital Endowment di Atkinson (Inequality: what can be done, 2015, d’ora in poi A).

Gli autori di queste tre proposte prendono le mosse dalla constatazione che i paesi occidentali hanno visto crescere al loro interno –negli ultimi 30 anni- la disuguaglianza di reddito, e ancor più quella relativa alla distribuzione della ricchezza. Gli stessi convengono che sia necessario redistribuire non solo il reddito ma anche la ricchezza per favorire la mobilità sociale e ridurre la povertà16. La proposta di stake di AA e lo start-up grant di LGN, inoltre, sono pensate in maniera tale da incoraggiare la responsabilità individuale. Nel presentare la stakeholder society, AA dicono: “our goal is to transcend the welfare state mentality, which sets conditions on the receipt of “aid”. In a stakeholder society, stakes are a matter of right, not a handout”17. In altre parole, l’assegnazione ai giovani un fondo è un intervento volto non solo ad equiparare per quanto possibile le condizioni di partenza, ma anche un modo per provare a cambiare l’atteggiamento di chi si attende, in caso di disoccupazione o se il reddito familiare è scarso, continui trasferimenti di denaro da parte dello Stato, incoraggiando i giovani a preoccuparsi del proprio futuro fin da subito. Coerentemente con questa impostazione, alla domanda se sia preferibile assegnare ai singoli una cifra nell’arco della vita -nella forma di reddito di cittadinanza- invece di un’unica somma al momento del passaggio alla maggiore età, AA ribattono “any stakeholder can switch to basic income simply by buying an annuity policy from an insurance company and asking it to send a monthly check”.

A proposito dell’ammontare e del vincolo all’utilizzo, LGN suggeriscono di assicurare ai giovani -al compimento dei 18 anni di età- 10.000 sterline da utilizzare per finanziare la propria istruzione, per comprare un immobile (come somma iniziale18) o per iniziare un’attività imprenditoriale. Nella loro proposta questa somma deve essere depositata in un conto bancario, l’Accumulation of Capital and Education (ACE), che può essere gestito da amministratori fiduciari, incaricati di approvare il piano individuale di impiego. Gli autori considerano questa 15 Atkinson (2015), pag. 169 16 Brandolini, Magri and Smeeding (2010) 17 Ackerman e Alstot (1999), pag. 9 18 Considerando la somma proposta, il fondo dovrebbe essere usato dal giovane per avere un credito più consistente da una banca.

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modalità di assegnazione e di gestione del denaro un “required minimal paternalism”. Su un vincolo alle modalità di impiego della dotazione di capitale concorda A, che stima l’ammontare del trasferimento tra le 5000 e le 10000 sterline. AA propongono di assegnare ai giovani adulti una somma pari a 80.000 dollari che, secondo le stime di A, si equivalgono al doppio del reddito mediano negli Stati Uniti a fine anni ’90. AA lo assegnerebbero al compimento del 21 esimo anno di età e prevedono che il giovane rimanga l’unico responsabile della gestione del denaro non stabilendo nessun vincolo all’impiego. Le sole due condizioni che pongono sono che il ricevente abbia conseguito il diploma di scuola superiore e che abbia la fedina penale pulita. Per coloro che non hanno ancora conseguito il diploma, lo stake viene assegnato con più gradualità negli anni e, finché non si diplomano, possono usare le risorse solo per tornare a scuola, comprare una casa o per spese mediche. Il rischio che il denaro venga impiegato male (the risk that someone “wastes the money in Las Vegas”) non è escluso dagli autori, che però sono fiduciosi che tra gli effetti della stakeholder society ci possa essere la promozione della responsabilità nell’impiego dello stake19 con la cooperazione di scuole, genitori e pari. Su quanto l’ammontare – più o meno consistente- del trasferimento possa influire sull’uso più o meno virtuoso non c’è accordo tra gli autori delle diverse proposte20, né ci sono evidenze empiriche che testino i diversi comportamenti individuali.

AA sono i primi ad indicare, tra le ragioni della loro proposta, la considerazione degli effetti della longevità sulla distribuzione delle risorse21. In effetti, la distribuzione della ricchezza genera enormi differenze di opportunità tra gruppi di giovani ma, anche tra i più abbienti, le successioni ereditarie tra genitori e figli avvengono oggi molto più tardi che nel passato. Se un tempo potevano arrivare quando i figli erano giovani adulti e influire in modo significativo su alcune loro scelte fondamentali, oggi riguardano per lo più cinquantenni e sessantenni. In Italia, il dato più preciso su questo aspetto risale all’indagine sui Bilanci dei redditi e della ricchezza delle famiglie italiane condotta nel 2002 dalla Banca d’Italia nella quale si chiedeva di indicare il valore dei trasferimenti di capitale (eredità e regali) fatti e ricevuti nel corso della vita, e quelli che si attendevano di fare e ricevere nel futuro. Da quell’indagine emerse che la fase della vita in cui è più alta la probabilità di ricevere eredità, pari al 43,5 per cento, è tra i 51 e i 60 anni22.

Tutte e tre le proposte qui considerate sono universali, ossia non sono vincolate al livello di reddito né del ricevente né della sua famiglia di origine e sono considerate come una sorta di dote di cittadinanza, fondate sull’idea che “each individual citizen has a right to a fair share of the patrimony left by preceding generations”.23 La famiglia è, infatti, l’istituzione che ha il peso maggiore nel trasferimento della ricchezza, e più in generale nel definire le opportunità di ciascuno. Le proposte illustrate non vengono assegnate in misura diversa a seconda del reddito, o della ricchezza, della famiglia di origine proprio con l’idea di indebolire il ruolo di quest’ultima nel futuro dei giovani adulti. Una misura così disegnata, da un lato, consente di abbandonare un’impostazione che vede i figli o come bene pubblico o come progetto privato (sia esso inteso come bene di consumo, bene d’investimento o bene relazionale)24, dall’altro può aiutare i più ricchi ad accettare l’idea di finanziarla. AA considerano il diritto di cittadinanza come segue: […] “we do believe that modern stakeholding will create a certain space for civic reflection in millions of lives now dominated by economic anxiety. Fewer Americans will be living on the economic edge; stakeholders will have more energy left to turn

19Ackerman e Alstot (1999), pag. 75 20 Atkinson (2015), pag. 171 21 Ivi, pag. 8 22 Cannari e D’Alessio (2006) 23 Ivi, pag. 9 24 Casalini e Rapallini (2010)

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their attention to larger things, including the fate of the nation. Property will also breed sobriety, a resistance to the charismatic appeals of the demagogue, a willingness to consider the longer term. Broadening the property base enhances the stability and the quality of political life of the republic”25.

Infine, a proposito del finanziamento, AA ipotizzano due fasi: nel primo periodo gli stakes sono finanziati con un’imposta che grava sui patrimoni superiori a 230.000 dollari con un’aliquota del 2 per cento. In una seconda fase, il fondo può essere o meno accettato dal giovane che, se lo accetta, si impegna a restituirlo alla fine della propria vita. LGN ipotizzano un finanziamento con le imposte di successione, mentre A pensa ad una tassazione del capitale i cui introiti siano vincolati a questo scopo.

5. Il dibattito politico, il Child Trust Fund britannico e la proposta di Livi Bacci

per l’Italia

L’interesse per le misure destinate a redistribuire la ricchezza si è sviluppato soprattutto

nei paesi anglosassoni, accomunando politici sia di sinistra sia di destra, anche se le proposte avanzate dagli uni e dagli altri differiscono perché sono concepite avendo in mente diversi tipi di società. L’elemento condiviso dalla destra è l’enfasi posta sulla responsabilità individuale, anche se sono numerosi gli esponenti del partito laburista inglese e tra i democratici americani ad aver sottolineato l’importanza di questo aspetto. Ad esempio, l’ex Ministro degli Interni del Governo Blair, David Blunkett, sosteneva “owning an asset helps develop individual character and responsibility; assets holding offer positive behavioural benefits. People who have material stake in society are more likely to plan ahead for themselves and their children and to care what happens in the community around them”26. Lo stesso Bill Clinton nel 1999 aveva proposto l’apertura di conti di deposito individuali prevendendo la detassazione del risparmio con il chiaro intento di aumentare la propensione al risparmio degli statunitensi. Nel 2005 in Nuova Zelanda, il Primo Ministro laburista Helen Clark dichiarava “asset ownership is important for enabling people to participate fully in society. Assets provide people with greater security, control and independence”27. Negli stessi anni, George W. Bush aveva fatto dell’idea della “ownership society” una parte centrale del suo programma elettorale, prevedendo conti di deposito detassati se destinati a far fronte alle spese sanitarie o alla pensione. In Australia il leader del Partito Laburista, Mark Latham, può essere considerato uno dei fautori di un programma di co-finanziamento del risparmio: in questo caso le persone erano incoraggiate a risparmiare assicurando loro una somma di cofinanziamento pubblico.

Se forme di co-finanziamento del risparmio, o detassazione dello stesso se destinato alle spese sanitarie, previdenziali o per l’istruzione dei figli, si sono ormai diffuse in tutti i paesi anglosassoni, la misura più vicina ad un fondo per l’accesso alla vita adulta, così come discusso finora, è il Child Trust Fund (CTF) adottato dal Governo Blair nel 2003.

Il CTF era destinato a tutti i bambini nati dal 1 settembre 2002, che hanno ottenuto alla nascita 250 sterline, aumentate fino a 500 se nati in famiglie più povere. I soldi sono stati depositati dai genitori in un conto intestato al figlio nel quale genitori e altri famigliari potevano versare ogni anno fino a 1.200 sterline. La somma non poteva essere impiegata prima del compimento del 18 anno di età. Nel 2010-2011 il CTF è stato trasformato nel Junior Individual Savings Accounts (ISA) che è definito dal governo britannico come un “long-term, tax-free

25Ackerman and Alstot (1999), pag. 185 26 Blunkett (2001) citato in Prabhakar (2008). 27 Prabhakar (2008), pag. 2.

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savings accounts for children”. Mentre il CTF era universale, l’ISA è facoltativo, non è co-finanziato dal governo e non ha tetti massimi di accumulo.

Negli stessi anni in cui il Governo laburista di Tony Blair introduceva il CTF, Livi Bacci (2004), allora Senatore, proponeva per l’Italia un fondo destinato ad ogni nuovo nato, da alimentare con contributi pubblici e dei familiari. In particolare, i genitori avrebbero potuto utilizzare fino al 50 per cento del fondo per le spese di cura prima dei 18 anni, ed il restante doveva essere speso al compimento della maggiore età, e/o nei successivi 10 anni, con precise finalità. Tra queste rientravano l’acquisto di beni strumentali, l’istruzione e la formazione, l’avvio di un’attività professionale, artigianale o imprenditoriale. In termini di finanziamento, una parte di questo fondo avrebbe dovuto essere inteso come un prestito e quindi restituito nel corso della vita adulta, mentre l’altra parte del finanziamento poteva essere assicurato abolendo la disordinata congerie di trattamenti erogati per il supporto delle famiglie con figli (assegni, detrazioni, bonus, etc.). Il principale obiettivo era supportare i giovani italiani ad uscire dalla casa dei genitori, nell’idea di invertire la tendenza -prevalente della società italiana- di delegare alla famiglia le funzioni di protezione e di trasferimento del reddito. Questa tendenza ha, infatti, due effetti negativi: prolungare fino a tarda età la permanenza dei figli a casa dei genitori, impedendo lo sviluppo di un’indipendenza materiale e psicologica dei primi, e aumentare le diseguaglianze. La proposta era quella di articolare il fondo in relazione alle condizioni economiche della famiglia di origine, così da tener conto sia del vincolo di bilancio pubblico, sia della relazione che esiste in Italia tra numero di minori presenti nelle famiglie e diffusione della povertà. Nonostante la previsione di un’articolazione in base al reddito, la proposta di Livi Bacci è stata criticata per il suo possibile impatto distributivo, se fosse stata mantenuta la possibilità per genitori e parenti di integrare il fondo (Brandolini, 2007). Detto altrimenti, si temeva che al compimento del 18 esimo anno di età il fondo avrebbe potuto essere molto diverso per i giovani nati in contesti familiari, e relazionali in senso ampio, più favorevoli rispetto ai nati in contesti svantaggiati. Nessuno degli interventi adottati negli anni successivi ha mai avuto le caratteristiche della proposta illustrata, nonostante l’ampio uso del temine “baby bonus” –o similari- fatto per indicare le misure di sostengo all’infanzia.

6. Conclusioni

Dai dati brevemente illustrati in questo contributo l’Italia emerge come un paese caratterizzato sia da una marcata disuguaglianza delle opportunità, e che si traduce in una scarsa mobilità sociale, sia da una distribuzione delle risorse che si sono progressivamente concentrate nelle fasce di popolazione di età avanzata a discapito dei più giovani. Questo fenomeno è senza dubbio la conseguenza delle riforme del sistema pensionistico e del mercato del lavoro avviate all’inizio degli anni ’90, che hanno inciso in maniera diversa sulle diverse coorti di lavoratori, nonché dell’impatto della crisi del 2008. Ad ogni modo, tassi di crescita economica contenuti e tassi di fecondità bassi portano necessariamente ad assetti distributivi in cui le coorti più giovani sono numericamente minoritarie ed economicamente più deboli. Questo processo può diventare particolarmente dannoso se la debolezza numerica e nel mercato del lavoro è anche una debolezza nel mercato politico, e nella individuazione delle priorità nelle politiche economiche e nelle riforme del welfare. In questo quadro, la discussione sulle riforme del welfare dovrebbe, a parere di chi scrive, individuare uno o più strumenti per far sì che i giovani adulti siano messi in condizione, indipendentemente dallo status-socio economico della famiglia di origine, di scegliere quanto tempo e denaro investire in formazione, se avviare un’attività professionale e/o se formare una propria famiglia. In questo contributo sono state illustrate le caratteristiche di una delle possibili misure, ma numerose sono le ipotesi

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alternative. Solo per fare alcune esempi, si potrebbe ipotizzare il co-finanziamento pubblico del credito necessario per avviare attività imprenditoriali e/o percorsi di formazione ed istruzione, o forme di supporto pubblico per il pensionamento di chi ha avuto carriere instabili e discontinue.

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Capitolo 2. Materiali di lavoro

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Consentendo di tenere conto, anche in tempo reale, di uno straordinario volume di informazione e offrendo nuove e talora straordinarie opportunità di profitto a chi li impiega, gli algoritmi si sono diffusi in tutti i campi della nostra vita. Dal punto di vista dei cittadini e consumatori, essi hanno ampliato la gamma, ridotto i tempi e spesso ridotto il prezzo di servizi di cui quotidianamente molti si avvalgono: dall’ordine di prodotti via rete all’affitto di stanze, dal trasporto alla selezione delle opportunità di lavoro, fino alla ricerca di dozzine di materiali utilizzati per scrivere queste pagine. Dal punto di vista dell’impatto sulla giustizia sociale, come molte altre “tecniche”, gli algoritmi non sono in sé né “giusti” né “ingiusti”. Dipende da come sono utilizzati e precisamente: dal fatto che considerazioni di giustizia sociale (incluse considerazioni a favore della concorrenza sul mercato) siano incorporate nei valori e obiettivi del modello e nella scelta dei dati; dalla possibilità che chi sarà poi influenzato dall’uso delle loro previsioni possa pesare sulla scelta di quei valori e di quei dati; e, prima ancora, che egli/ella possa controllare l’uso dei dati che fornisce. Ma rispetto ad altre tecnologie sviluppate nell’ultimo decennio, la biforcazione aperta dal sistema tecnologico di

decisioni automatiche fondato su algoritmi e big data appare oggi sbilanciata a sfavore della giustizia

sociale.

Il paradosso e gli effetti sistemici degli AAA

Gli algoritmi di apprendimento automatico sono al centro di un paradosso. In molti casi essi sono stati introdotti come strumenti, non solo per accrescere l’efficienza nel prendere decisioni, ma proprio per evitare ingiustizie sociali: discriminazioni soggettive nelle assunzioni, nell’erogazione del credito o nella comminazione di pene. La motivazione era semplice: sottraendo tali decisioni a una valutazione soggettiva, avolte prona a discriminazioni (di genere, di origine etnica, di apparenza, etc.) e a favoritismi, e affidandole a “meccanismi automatici”, si avranno meno iniquità.

Le cose hanno preso una diversa piega, per motivi insiti nella natura stessa degli algoritmi. Se nell’elaborare i dati del passato, le caratteristiche personali che appaiono correlate negativamente con l’obiettivo fissato (luogo di vita, persone frequentate, livello di istruzione) risulteranno concentrate proprio fra i ceti deboli, è fra essi che gli algoritmi condurranno a concentrare le non-assunzioni, il rifiuto del credito, le pene più elevate. Dal momento che gli algoritmi suggeriscono decisioni per il futuro che ricalcano il passato, in un contesto di elevate disuguaglianze essi tendono a riprodurre e rendere sistematiche quelle disuguaglianze. Adesempio, negando sistematicamente credito ai poveri – leggi: a persone le cui caratteristiche risultano coincidere con questo gruppo sociale – dal momento che essi risultano in passato più proni a non restituire crediti, gli algoritmi accrescono la loro incapacità di onorare i crediti. Ma questa è solo una parte della storia.

La riproduzione delle disuguaglianze attraverso i meccanismi decisionali è sempre esistita. Non è questa la novità degli algoritmi di apprendimento automatico, che anzi, come visto, possono eliminare discriminazionisoggettive. La novità e i rischi per la giustizia sociale stanno nella scala e nell’incontrollabilità del meccanismo decisionale automatico (le correlazioni non hanno “motivazione” o “logica”) e in alcuni altri tratti che possiamo così riassumere:

Crisma di oggettività. L’apparente natura “tecnica” degli algoritmi e la potenza elaborativa dona loroun crisma di oggettività che ne impone le previsioni come fossero “leggi” da eseguire senza discussione, indipendenti da scelte soggettive, tendendo a precludere confronto e partecipazione2.

Scala sistemica degli effetti perversi. La scala di applicazione degli algoritmi e la loro replicabilità sono talmente forti da poter produrre effetti sistemici che convalidano ex-post le previsioni fatte: ad esempio la negazione del credito o dell’assunzione a una categoria di persone classificate come inaffidabili, peggiora le condizioni di quella categoria producendo comportamenti che confermano leprevisioni. Questo fenomeno, tipico anche dei meccanismi decisionali tradizionali, può assumere unadiffusione e una rapidità tali da avere effetti sistemici. Il potere che algoritmi impiegati in modo cieco a considerazioni di giustizia sociale hanno di autorealizzare le proprie previsioni è assai elevato.

Pregiudizi istintivi replicati e amplificati. E’ stato argomentato e dimostrato che gli algoritmi tendono a replicare i pregiudizi istintivi che sono racchiusi nel linguaggio che alimenta gli algoritmi

2 Sulla retorica dell’automazione e dell’intelligenza artificiale e il suo ruolo ideologico, cfr. A. Taylor, The Automation Charade, Logic Magazine, oct 2, 2018.

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stessi.3 Il nostro comportamento, le nostre opinioni e i nostri orientamenti possono assumere forme che si allontanano da tali pregiudizi istintivi; ma se le decisioni sono invece affidate a meccanismi automatici che replicano quei pregiudizi, le distorsioni in termini di giustizia sociale vengono amplificate.

“Scatola nera” non verificabile. Gli algoritmi sono di proprietà di chi li ha costruiti e la logica delle previsioni (e “decisioni”) che producono, non essendo fondate su teorie, non sono comprensibili neppure agli utilizzatori: sono vere e proprie “scatole nere” (black box). Assai più che con i modelli previsivi del passato, gli utilizzatori stessi (imprese, scuole, tribunali, banche, etc.) non ne conosconoil funzionamento: essi divengono così impermeabili a richieste di chiarimento o di contestazione. A questa perdita di verificabilità corrisponde il profitto di chi è proprietario dell’algoritmi.

Disumanizzazione delle politiche e negazione del “riconoscimento”. La natura di “scatola nera” produce conseguenze ancor più gravi quando gli algoritmi sono utilizzati per la produzione di servizidi mercato o, peggio, di servizi di cura della persona in cui la persona stessa cerca nel rapporto con ilfornitore del servizio il “riconoscimento” delle proprie personali condizioni. Nel caso delle politiche per la povertà, la relazione con gli assistenti pubblici incaricati di verificare la natura e il merito dell’intervento è parte integrale del servizio: se tali funzioni sono affidate a un “robot” che classifica e giudica (o anche dialoga con) ogni persona come un anonimo membro del gruppo in cui gli algoritmi la collocano, quel riconoscimento umano, fra persone, viene meno; la natura del servizio ne risulta stravolta.

Segmentazione in micro-gruppi destinatari di messaggi dedicati. Sia nel mercato che nell’arena politica, è da sempre invalsa la pratica di segmentare il pubblico in gruppi in relazione alle loro supposte preferenze, per renderli destinatari di messaggi (pubblicitari o politici) dedicati. L’utilizzo degli algoritmi applicati a grandi masse di dati consente di rendere estremamente granulare la segmentazione. Abbinata al rapporto 1 a 1 fra destinatario e produttore del messaggio, consente di isolare ogni destinatario o gruppo di destinatari dagli altri, scoraggiando un confronto di messaggi, laloro contestabilità e il confronto pubblico e aperto su di essi.

Uso non retribuito dei dati identitari immessi dagli utenti nella rete. Della massa di dati utilizzati dagli algoritmi fa parte la mole di informazioni sulla nostra identità che ogni giorno riversiamo, spesso inconsapevolmente, in rete. Essi sono impiegati non solo dai giganti che controllano gran parte del social network – Google e Facebook, in testa – ma anche da tutte le imprese che li acquisiscono direttamente dagli utenti della rete o da altre fonti per poi impiegarli negli algoritmi. Si compie in questo modo uno “scambio ineguale”, o comunque né negoziato né regolato, fra utenti e imprese, che concorre ad accumulare in poche mani enormi profitti. Ma non basta. L’ingiustizia sociale si manifesta nell’assenza di qualunque forma di controllo dei produttori di dati personali sul modo in cui essi saranno impiegati.

Siamo in conclusione in presenza di profonde ragioni fisiologiche per cui, anche trascurando ogni patologia, l’uso degli algoritmi può produrre gravi effetti negativi sulla giustizia sociale. E veniamo all’uso dei dati identitari, che degli algoritmi sono l’alimento.

Il sistema di produzione e utilizzo dei dati identitari in rete

Il tema della produzione, dell’utilizzo e del controllo dei dati identitari – dati connessi alla nostra cittadinanza o a servizi pubblici di cui ci avvaliamo, altri dati identificativi, opinioni, immagini, contatti, itinerari, etc - che riversiamo in rete rappresenta, come noto, uno degli aspetti più delicati e controversi dell’impatto dell’attuale cambiamento tecnologico sulla giustizia sociale, strettamente legato allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

La tecnologia dell’informazione modifica radicalmente le modalità della nostra “identificazione” nella partecipazione ai doveri e diritti di cittadinanza, ai mercati (lavoro, consumo, credito) e a ogni sistema complesso di relazioni. Da un lato, essa rende più facile e ha incoraggiato l’attribuzione di “identità” a milioni di essere umani che non l’avevano e che di conseguenza non avevano diritti4. E, come si è ricordato,

3 Cfr. Caliskan-Islam, J.J. Bryson, A. Narayanan, Semanthics derived automatically from language corpora necessarily contain human biases, mimeo, Princeton University-University of Bath, August, 2018. Ci ritorniamo più Avanti nel testo.

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ha consentito lo sviluppo di nuovi servizi, tempestivi e mirati sulle esigenze personali. Dall’altro, ha aperto problemi nuovi per la giustizia sociale:

l’accresciuta possibilità di contraffazione di questi dati; l’opacità e non verificabilità del loro uso da parte di “centri” di gestione, privati o pubblici; Le violazioni della privacy e i rischi personali derivanti dalla rilevazione dei dati relativi ai nostri

spostamenti georeferenziati raccolti attraverso App - con scarsa possibilità di evitarlo e l’assenza di protezioni formali sull’uso;5

la difficoltà o l’impossibilità di accedere al complesso di questi dati – i “centri” possono farlo, non lepersone che li forniscono;

la difficoltà o l’impossibilità di sanzionare contraffazioni, errori, utilizzi o cessione a terzi dei dati, anche se espressamente vietati6;

l’elevato standard dell’onere di prova, e il costo e la complessità necessari per provare un “errore” che risulti contenuto nei dati identitari utilizzati da un algoritmo e che abbia condotto a una decisioneavversa - nell’ottenere un credito o nella selezione per un lavoro – rispetto allo standard richiesto allo stesso algoritmo per le sue previsioni;

i rischi, solo in parte già apprezzabili, di essere – noi utenti della rete - suddivisi in micro-gruppi target di cui vengono monitorati i comportamenti e che ricevono messaggi di mercato o politici differenziati, inconsapevoli gli uni degli altri7.

Il tema della proprietà e del controllo dei dati identitari utilizzati dagli algoritmi è dunque centrale.

Utilizzando dati in larga misura personali, i giganti della rete e altre imprese che acquisiscono tali datirealizzano straordinari profitti e un forte ed esclusivo potere di controllo, di ricerca e di sviluppo di nuoveapplicazioni. Il vantaggio acquisito nell’accesso al patrimonio comune di dati identitari concede loro unaposizione monopolistica difficilmente scalfibile. E qui nasce lo scambio ineguale con gli utenti. Nei loroconfronti le imprese possono così agire, come scrivono due esponenti del pensiero liberale radicale, EricPosner e Glen Weyl, come “tecno-feudatari”: come “gli aristocratici si impossessavano della parte di qualitàdel prodotto agricolo dei propri servi”, “lasciando loro abbastanza per sopravvivere”, le “sirene dei server –come le definiscono – offrono servizi utili e godibili, impossessandosi del valore di mercato che noi incambio produciamo”.8 E c’è altro. Il sistema così costruito, per verificare, decodificare e completare leinformazioni fornite, integra il lavoro non remunerato degli utenti con lavoro mal pagato di grandi masse diprecari (crowd workers), la cui attività viene tenuta in un cono d’ombra, per non rovinare l’immagine pulita emagica dell’”intelligenza artificiale”.9

La sovranità digitale è insomma trasferita ad alcuni grandi monopoli, configurando un vero e propriomodello di “sovranità dei monopoli” che ha negli USA il suo punto più avanzato. L’alternativa di una“sovranità dello Stato” che viene dalla Cina appare altrettanto pericolosa. Il regime è di nuovo di assolutacentralizzazione, ma in questo caso è l’apparato dello Stato a governare dati e algoritmi. Il piano 2014-2020per costruire il Sistema del Credito Sociale prevede di utilizzare dati e algoritmi per classificare lareputazione dei cittadini e delle imprese, in tutti i campi. La sua sperimentazione ha già permesso al governocinese di negare nel 2018 a oltre 17 milioni di cittadini cinesi l’acquisto di un viaggio aereo e a oltre 5milioni l’acquisto di un viaggio in treni ad alta velocità come sanzione per violazioni, come la falsapubblicità, l’abuso di droghe o il mancato pagamento di multe10.

4 Come osserva AI-Now Report 2018 – AI Now è un istituto di ricerca USA che studia gli effetti sociali dell’intelligenza artificiale - l’importanza di questo obiettivo per la giustizia sociale è rimarcato dal fatto che esso è previsto espressamente dai Sustainable Development Goals dell’ONU (obiettivo 16.9).

5 Cfr. ad esempio: https://www.nytimes.com/interactive/2018/12/10/business/location-data-privacy-apps.html.

6 Per il peso crescente di questo aspetto, esploso nel 2018, cfr. AI-Now Report 2018.

7 Su questo punto cfr. Il caso estremo riportato in C. O’Neil, Weapons of Math Destruction, Broadway Books, 2016, pp. 171-173.

8 Cfr. E.A.Posner, E.G. Weyl, Radical Markets, Princeton University Press, 2018, p. 231.

9 Cfr. M.L.Gray, S. Suri, The Humans Working Behind the Curtains, Harvard Business Review, jan 2017 e A. Taylor(2018). Sulle condizioni di questi lavoratori e lavoratrici, cfr. AI Now – Report (2018).

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Per tutte queste ragioni, è necessario intervenire. Il “sistema tecnologico di decisioni automatiche” costituito dagli algoritmi e dall’uso dei nostri dati identitari può produrre profondi e crescenti effetti negativi sulla giustizia sociale, concorrendo a concentrare grandi poteri in poche mani e a polarizzare la società. È utile richiamare brevemente gli effetti che possono prodursi in quattro distinte dimensioni della nostra vita

Per tutte queste ragioni, è necessario provvedere. Gli algoritmi e i nostri dati identitari formano oggi un “sistema tecnologico incontrollato” che può produrre profondi e crescenti effetti negativi sulla giustizia sociale, concorrendo a polarizzare la società fra vincitori e perdenti. La crescita di questo sistema tecnologicoha un ritmo esponenziale, toccando tutti i campi della nostra vita. La consapevolezza di questo stato di cose ècresciuta, come mostrano le ricerche a cui questa nota ha potuto fare riferimento. Il confronto è cresciuto, così come le idee volte ad affrontare la questione e la sperimentazione dei rimedi, specie nei paesi che sono sulla frontiera dell’uso di questi modelli. E’ necessario che ciò avvenga anche in Italia.

Prima di valutare strade e ipotesi diverse di intervento che si vanno configurando, è utile richiamare, con alcuni esempi tratti dal dibattito internazionale in atto, le principali modalità con cui il problema si manifesta oggi in quattro distinte dimensioni della nostra vita.

I rischi per la giustizia sociale in tutte le dimensioni di vita

Lavoro

La raccolta di dati personali e il loro utilizzo da parte di algoritmi di apprendimento automatico si stannodiffondendo in modo massiccio in tutti i profili del lavoro e del non-lavoro: nelle diverse fasi della selezionedel personale, nella sua valutazione (a fini di carriera o di licenziamento), nella determinazione dell’orario dilavoro; ma anche nel modo in cui utilizziamo il nostro tempo di vita, consumando, viaggiando,intrattenendoci, imparando, prendendoci cura di altro e altri. Trattiamo di questo secondo aspetto più avanti,parlando di consumo (visto che larga parte di queste attività avvengono attraverso il mercato)

In forte diffusione da tempo è il ricorso ad algoritmi nella prima fase dei processi di selezione del personale,per restringere la lista di coloro che verranno sottoposti a più attenta verifica. Dal punto di vista dellagiustizia sociale, tale ricorso presenta il vantaggio di superare i giudizi soggettivi discriminatori o influenzatida relazioni. Ma a fronte di ciò sta il rischio di reintrodurre de facto, come si è visto in generale, talidiscriminazioni per via delle caratteristiche degli offerenti che vengono considerate nelle elaborazioni:prescindendo dai tratti unici di ogni singolo candidato, questo viene attribuito a un dato “gruppo”, ritenutopiù o meno adatto alle esigenze dell’impresa. Questi rischi si accentuano in particolare con il ricorso, fra idati impiegati, agli esiti di test sulla personalità11 o di colloqui condotti da “simulatori di conversazione”(chat bot), come avviene già anche in Italia.

Nella fase successiva delle selezioni, il ricorso ad algoritmi nella lettura e valutazione dei Curriculum Vitae odi altra documentazione può esasperare la tendenza ad affidarne la redazione a soggetti specializzati in gradodi anticipare i criteri di raggruppamento automatico degli algoritmi: ne risultano favoriti i candidati chedispongono dei mezzi finanziari e delle relazioni per avvalersi di tali servizi. Più in generale, la tendenza aimpiegare questi metodi solo per le posizioni con minori competenze (o comunque con maggiore offerta)crea un divario rispetto alle posizioni più elevate, per le quali permane il ricorso a metodi basati su relazioniumane.

L’utilizzo degli algoritmi nella valutazione del personale incorre in rischi connessi ai dati utilizzati. Se, adesempio, si valuta la capacità innovativa sulla base delle “nuove idee” rintracciate in forme codificate (note oproposte registrate in momenti collettivi) si rischia di penalizzare soggetti magari più innovativi ma chemanifestano le loro idee in modo “anomalo” o cooperativo, condividendole informalmente con gli altri.L’”ingiustizia” non riguarda in questi casi una discriminazione sociale o di genere, ma il fatto che a soggetti

10 Cfr. South China Morning Post, 19 febbraio 2019 (https://www.scmp.com/economy/china-economy/article/2186606/chinas-social-credit-system-shows-its-teeth-banning-millions).

11 Cfr. O’Neil (2016), p.108.

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con alcuni tratti comportamentali non viene data la stessa opportunità che ad altri. Decisamente allarmante è,poi, l’utilizzo che può essere fatto di informazioni raccolte in tempo reale attraverso strumenti disorveglianza. Si tratta di strumenti che iniziano a essere impiegati12 e che consentono di registrare, per ognidipendente, conversazioni, movimenti, posture e prossimità ad altri, combinandoli con i messaggi su reteeffettuati da ogni singolo lavoratore: alle minacce per la privacy, si aggiunge la possibilità di costruire sullabase di questi dati metodi o pressioni coercitive sul lavoro.

Già assai manifeste e gravi sono, infine, le conseguenze che tende ad avere l’applicazione degli algoritminella determinazione degli orari di lavoro. La disponibilità di dati sulla dinamica della domanda inun’attività di servizio rivolta al pubblico e di tutte le variabili che si presume la influenzino e la loroelaborazione continua attraverso algoritmi rendono possibile prevedere l’offerta di lavoro necessariamomento per momento durante ogni giornata e aggiornare continuamente tale previsione. Ne possonoderivare e in molti contesti del comparto terziario ne sono già derivati, non solo l’intensificazione dei ritmi dilavoro – non ci sono più momenti “tranquilli” – ma soprattutto la pratica di comunicare ai/alle dipendenti conbrevissimo periodo di preavviso le necessità di presenza, rendendo per essi/esse impossibile laprogrammazione dei tempi di vita. E’ evidente che questo just in time del lavoro è dettato dall’avereassegnato agli algoritmi utilizzati il solo obiettivo del massimo profitto, senza alcuna attenzione per la qualitàdi vita (e di lavoro) dei lavoratori: il problema non sta, quindi, ancora una volta, nello strumento ma negliobiettivi a cui viene piegato. E’ un impiego che colpisce ovviamente solo i lavoratori con minoricompetenze, addetti a questi lavori, e le loro famiglie.13

Servizi pubblici essenziali e politiche di assistenza sociale

In questo ambito i segnali di rischio venivano finora soprattutto dagli USA14. Ma i primi utilizzi di un software di riconoscimento facciale denominato Sistema automatico di un riconoscimento immagini (SARI), costruito in un’ottica anti-terrorismo e in dotazione alla polizia italiana e la raccolta massiccia di informazioni identitarie per il nuovo cosiddetto reddito di cittadinanza con finalità di sorveglianza per evitareabusi nell’uso dello strumento, fanno intravedere un crescente impiego degli algoritmi nell’azione pubblica. E’ dunque utile avere ben presenti le lesioni per la giustizia sociale indotte negli USA dal ricorso agli algoritmi nelle politiche del welfare. Consideriamo in particolare gli ambiti della giustizia, della sicurezza e dell’assistenza sociale (a persone con disabilità o in condizioni di povertà).

Nel caso della giustizia, è noto l’impiego in molti Stati USA degli algoritmi per prevedere la probabilità di recidiva di un soggetto che ha commesso un reato, legando a questa previsione la misura della sentenza. Si esasperano qui i rischi di discriminazione (derivanti dalla correlazione delle variabili considerate con l’origine sociale o etnica delle persone) e di autorealizzazione delle previsioni. Tale utilizzo è impedito in Italia sia dal Codice penale (art. 220, comma 2), sia dal Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali, secondo cui nessun atto che implichi la valutazione di comportamenti può essere fondato unicamente sul trattamento automatico di dati personali volti a definire profilo e personalità della persona (art.22).

Per quanto riguarda la sicurezza, è diffuso, sempre negli USA, l’impiego degli algoritmi per identificare le zone di una città dove concentrare il contrasto della criminalità. A utilizzi efficaci e di successo, che non toccano profili di giustizia sociale, si accompagnano degenerazioni quando fra i dati sono stati inseriti illegalità minori (conducendo a esacerbare tensioni sociali), o quando l’identificazione delle aree ha condottoa vere e proprie azioni preventive intimidatorie. Quest’ultima opzione rischia di essere accentuata gravemente dal ricorso ad algoritmi per il riconoscimento facciale.15 In Italia, come si accennava,

12 Si veda in proposito The Economist, in un breve servizio (https://www.facebook.com/TheEconomist/videos/602515400213741/) sugli strumenti di sorveglianza prodotti dalla società paradossalmente denominata “Humanize”.

13 Cfr. O’Neil (2016), p. 129, anche per gli effetti sui figli di lavoratori in questa situazione.

14 Cfr. V. Eubanks, Automating Inequality, St. Martin’s Press, 2018.

15 Cfr. AI-Now Report 2018, pp. 12-17.

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nell’ottobre 2018, ha avuto luogo un arresto grazie al fatto che il suo volto ripreso da una telecamera è stato associato al suo nome dalla polizia grazie a un software di riconoscimento facciale denominato Sistema automatico di un riconoscimento immagini (SARI), costruito in un’ottica anti-terrorismo e in dotazione alla polizia: un'interrogazione parlamentare (alla quale non risulta sia stata data risposta, https://parlamento18.openpolis.it/atto/documento/id/177337/) ha chiesto chiarimenti sulla dimensione dei soggetti schedati, sull’impiego, sulla sua compatibilità con la Regolamentazione Europea (di cui oltre).

La diffusione nell’uso dei sensori collocati nelle auto e nelle strade per monitorare il traffico e le modalità di guida può avere effetti positivi sulla mobilità e sugli incidenti stradali. Ma se anche questa massa di dati in tempo reale dovessero esseri appropriata da poche imprese digitali, esse acquisirebbero un potere che si presta a ogni possibile utilizzo e che tende a trasferire decisioni pubbliche in mani private.

Per quanto riguarda l’assistenza sociale, il caso USA mostra come, sotto la pressione dei tagli di bilancio, glialgoritmi possono essere impiegati per tagliare trasferimenti alle persone e stravolgendo la natura stessa del servizio di assistenza. E’ il caso di riduzioni sistematiche del numero di ore di assistenza a persone con disabilità, che avviene senza darne le motivazioni, motivazioni che restano racchiuse nella “scatola nera” di un algoritmo16. Più in generale, l’analisi sistematica dell’impatto dell’uso di algoritmi nella gestione dell’assistenza ai poveri, a persone senza abitazione o in condizioni di indigenza17, mostra che, sempre con l’obiettivo di realizzare tagli delle spese, gli lgoritmi hanno finito per assecondare un atteggiamento punitivo nei confronti delle persone povere.

Ad una sistematica violazione della privacy, si associa il venire meno di un rapporto personale fra assistente e assistito e dunque di un’attenzione umana in grado di valutare i singoli casi e di segnalare empatia e riconoscimento delle condizioni della persona: se questo, come per altre applicazioni, elimina il rischio che l’erogazione del servizio sia soggetta a favoritismi, elimina anche e più gravemente una componente fondamentale del servizio stesso (il riconoscimento e la relazione umana) e produce mortificazione sistematica. Ogni persona è ben consapevole che non verrà considerata per ciò che è, per la propria unicità, ma perché, in base alle proprie caratteristiche, essa risulta appartenere a un dato micro-gruppo sociale, che merita o non merita l’intervento.

Consumo di servizi e beni sul mercato

Qui siamo nel campo di massimo utilizzo degli algoritmi di apprendimento automatico. Una larga parte del nostro tempo di vita non dedicato al lavoro avviene “attraverso il mercato”: scegliendo, acquistando, consumando beni e servizi, viaggiando, intrattenendoci, imparando, prendendoci cura di altro e altri. E’ questo il campo dove l’impiego del “sistema tecnologico delle decisioni automatiche” ha la sua massima e più manifesta applicazione. E’ su questo terreno che esso ha accresciuto il nostro “benessere” e ha dunque comprato il nostro consenso, permettendoci di: conoscere all’istante le opzioni disponibili di un prodotto desiderato e poi di acquisirlo con tempestività; offrire sul mercato prodotti e incontrare la “propria” domanda; intrattenersi (due terzi dei bytes in rete sono destinati a intrattenimento).

Ma questo è anche il campo dove si manifestano molteplici gravi rischi: In primo luogo, si manifesta qui in modo eclatante lo scambio ineguale e comunque non negoziato,

di cui si è detto, fra utenti della rete che forniscono informazioni e imprese che in cambio erogano servizi.

In secondo luogo, è il campo dove il ricorso agli algoritmi consente un forte condizionamento delle nostre preferenze: le imprese che controllano i principali canali informativi della rete e in genere tutte quelle che offrono prodotti in rete utilizzano le informazioni derivanti dalle nostre decisioni o che ci vengono all’uopo richieste per profilare le nostre caratteristiche e suddividerci in modo granulare in gruppi che saranno poi destinatari inconsapevoli di messaggi differenziati volti a influenzare le preferenze.

16 Cfr. AI-Now Report 2018, pp. 18-19.

17 Si vedano le cronache e analisi di V. Eubanks, Automating Inequality, St. Martin’s Press, 2017.

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In terzo luogo, nel campo della cultura e dell’intrattenimento, il processo di fortissima concentrazione dell’industria creativa, nel determinare un condizionamento sistematico delle preferenze (che si legano fortemente ai rischi sotto richiamati sul terreno dell’informazione della politica), può ridurre la diversità culturale e condizionare artisti, creativi e in genere l’offerta culturale.

In quarto luogo, il ricorso ad algoritmi per la determinazione dei prezzi può favorire una collusione oligopolistica fra le imprese a danno dei consumatori.

Infine, nel caso di alcuni servizi di mercato costruiti su relazioni fiduciarie, segnatamente credito e assicurazioni, il ricorso agli algoritmi può condurre a discriminazioni sistematiche (fino alla negazione de facto del servizio) e ad un vero e proprio stravolgimento della natura del servizio stesso.

Gli ultimi tre rischi meritano particolare attenzione.

Anche nell’industria creativa, il processo di concentrazione della produzione attraverso piattaforme(cresciute, come sempre, prima disintermediando e poi re-intermediando il mercato) è stato potente: prima ditutto Netflix e poi Amazon, Disney, Comcast, Baidu, Tencent, Youku/Alibaba dominano il mercato. Glialgoritmi servono a queste mega-imprese soprattutto per ricercare, selezionare e governare i veri produttori(gli artisti, i creativi) e per analizzare il mercato e distribuire i prodotti che sembrano maggiormentesoddisfarne (o di cui sono in grado di orientarne) i gusti (discovery). La scala raggiunta da queste piattaformedà loro una forte e difficilmente scalabile posizione oligopolistica. Come scrivono XXX, da cui sono trattequeste considerazioni: “Quando decide di prolungare una serie TV, Netflix elabora i dati pregressi: il numeroe la durata delle visioni per ciascun paese e cluster di spettatori, l’incidenza sugli abbonamenti, leperformance di ciascun episodio a seconda del regista, attori, sceneggiatori, le scene più appassionati e quellepiù fiacche, le reazioni al sonoro a ai colori. Conosce i costi e le performance del produttore e dei produttoriconcorrenti che in tutto il mondo possono sostituirlo. È in grado di prevedere con discreta approssimazione irisultati della prossima stagione, in relazione ai costi e alle scelte produttive e artistiche. La contropartenegoziale non ha nessuna di queste informazioni.”

Anche senza immaginare scenari distopici nell’uso di questo potere (combinato con le finalità politiche di cuioltre), ne risulta un forte potere dei pochi che controllano le piattaforme nel fissare prezzi, ripartire ritorni estabilire i contenuti.

Ma gli effetti restrittivi sulla concorrenza e dunque sui prezzi riguardano tutti i mercati. La possibilità che glialgoritmi conducano a una sistematica violazione della concorrenza è tema su cui è di recente maturatal’attenzione delle Autorità preposte alla tutela della concorrenza. Un recente studio ha dato corpo a questepreoccupazioni18. Gli algoritmi per la definizione dei prezzi di vendita hanno un semplice obiettivo:massimizzare i profitti; sulla base dei dati progressivamente raccolti, gli algoritmi, senza che venga loro dataalcuna istruzione, simulano strategie e sulla base delle reazioni degli altri soggetti offerenti e dei consumatoriindividuano la strategia di prezzo ottimale. La simulazione delle decisioni di due algoritmi attivi, per dueconcorrenti, sullo stesso mercato realizzata dai ricercatori ha mostrato che i due algoritmi imparano acolludere nella fissazione del prezzo: essi apprendono l’uno dall’altro, imparano a non lanciarsi in “guerre diprezzo” e si accomodano su un prezzo di oligopolio, superiore a quello concorrenziale, anche se inferiore aquello monopolistico. La gravità di questo risultato sta nel fatto che la collusione avviene in assenza diqualunque interazione fra i due algoritmi (se non attraverso i dati forniti dal mercato), senza alcuna istruzionea realizzarla e dunque senza alcuna traccia normalmente perseguita dalle Autorità che tutelano laconcorrenza.

Nello specifico caso del credito e delle assicurazioni, il ricorso agli algoritmi, oltre a creare rischi per laconcorrenza e la stabilità finanziaria, può produrre una trasformazione di natura strutturale del servizio.

18 Cfr. E. Calvano, G. Calzolari, V. Denicolò, S.Pastorello, Artificial Intelligence, algorithmic pricing and collusion, CEPRDiscussion Paper, 13405, 2018.

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Nel campo generale dei servizi finanziari, il ricorso agli algoritmi è cresciuto progressivamente fino aesplodere poi a partire dal 2012-13 - anche in Europa, specie in Gran Bretagna e Germania19 - con l’obiettivoprimario di ridurre i costi unitari e accrescere l’efficienza. Combinati con il ricorso massiccio a dati identitaridi ogni fonte, gli algoritmi trovano applicazione: nella identificazione dei segnali di più elevati rendimenti;nella valutazione del merito di credito; nella fissazione dei premi assicurativi; nella relazione con i clienti;nella sorveglianza, valutazione qualità dei dati e nell’identificazione delle frodi. Il loro impiego ha consentitola rapida crescita di un settore cosiddetto FinTech (e InsurTech) di imprese che competono con le impresefinanziarie tradizionali costruendo un ponte fra offerta e domanda di risorse finanziarie attraversopiattaforme digitali senza la necessità di immobilizzi finanziari (thin layer fin-firms)20. I regolatori avvertonocrescenti preoccupazioni soprattutto per la stabilità finanziaria e perché le nuove imprese ricadono ai limiti ofuori della possibilità di intervento dei regolatori stessi.

Anche prescindendo dai rischi per la stabilità, consideriamo questa tendenza dal punto di vista deiconsumatori/utenti dei servizi. In termini medi, cioè con riferimento a un utente finale medio, la valutazionedegli esperti del settore è che non esiste alcuna garanzia che alcun beneficio derivante da questo aumento diefficienza arrivi all’utenza21. Si confermerebbe così la tendenza stimata in un arco di 130 anni, per cui ilcosto unitario dei sevizi per l’utenza non sarebbe mai cambiato: i benefici degli aumenti di efficienza sonostati interamente appropriati dalle imprese finanziarie22. Sono invece chiari i rischi in termini di diversotrattamento degli utenti stessi, e di giustizia sociale in genere. Consideriamoli separatamente per i due servizidi massimo interesse: credito e assicurazioni.

Nel caso del credito, il ricorso agli algoritmi nasce originariamente negli USA, come per altri impieghi,anche per evitare discriminazioni soggettive nella concessione del servizio. E in molti contesti il loroimpiego, con l’utilizzo di dati di svariata origine, come la frequenza e regolarità dei pagamenti, ha consentitodi valutare il comportamento dei clienti e il loro merito di credito quando essi erano privi di qualunqueprecedente record e un tempo non avrebbero quindi ricevuto un affidamento23. Ma c’è il rovescio dellamedaglia. Ci riferiamo, in primo luogo, agli effetti già discussi per cui alle discriminazioni soggettive sisostituiscono discriminazioni sistematiche e al fatto che gli utenti, per via dell’effetto “scatola nera” deglialgoritmi, non hanno modo di verificare e contestare le condizioni contrattuali offerte. Vi è poi l’elevatorischio di una politica di prezzo mirata su ogni singolo debitore. “Applicare gli algoritmi consente di valutare… la disponibilità a pagare dei clienti”24 e altri aspetti del loro comportamento: diventa così possibilechiedere tassi più elevati ai prenditori più affidabili e meno elevati ai meno affidabili 25. E’ questa una dellestrade con cui i benefici della maggiore efficienza vengono appropriati dalle imprese.

Ma c’è altro. I rischi toccano la natura stessa del servizio del credito. Il crescente ricorso a informazioniidentitarie di ogni natura (anche provenienti dalla rete) produce una crescente distorsione: quella diinterrogarsi non sul merito di credito del richiedente, ma sul merito di credito del particolare gruppo al qualele correlazioni statistiche lo associano. Questa è la caratteristica generale degli algoritmi, ma nel valutare ilcredito essa produce effetti particolari: essa infatti allontana definitivamente il servizio del credito dallanatura personale della relazione affidato-banca, dalla costruzione di un rapporto che non solo consenta dimeglio prevedere i comportamenti dei richiedenti, ma che possa modificarli. E’ questa frattura che puònegare opportunità e accentuare disuguaglianze.

19 Cfr. FSB, Artificial intelligence and machine learning in financial services, November, 2017. 20 M. Bofondi e G. Gobbi (The big promise of FinTech, in European Economy, n.2, 2017), citano la frase significativa di un manager del settore: ““Uber, the world’s largest taxi company, owns no vehicles. Facebook, the world’s most popular media owner, crates no content. Alibaba, the most valuable retailer, has no inventory. And Airbnb, the world’s largest accommodation provider, owns no real estate.”

21 Cfr. ancora M. Bofondi, G. Gobbi (2017)

22 Cfr. T. Philippon, The FinTech opportunity, NBER Working Papers, n. 22476, 2016.

23 Cfr. FSB (2017), p.12.

24 Idem.

25 Cfr. M. Bofondi, G. Gobbi (2017), p. 112.

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Anche nel caso dei servizi assicurativi, l’uso degli algoritmi, a parte la riduzione dei costi per la valutazione o per l’assistenza ai clienti, può consentire benefici: identificando in anticipo le condizioni che possono facilitare incidenti (in ambito industriale, nelle abitazioni, nell’uso dei mezzi di trasporto, etc.), scoraggiando comportamenti che favoriscono incidenti o comunque le condizioni oggetto di assicurazione e, come nel casodel credito, consentendo di ridurre i premi assicurativi a soggetti senza record ma identificati come “a basso rischio” sulla base di una moltitudine di altri dati. Ma anche qui i rischi per la giustizia sociale sono significativi26.

La raccolta di informazioni personali a cui viene subordinato il contratto può essere fortemente lesiva della privacy27. La determinazione di contratti disegnati sulla persona (customization) “può determinare una minore comparabilità fra assicuratori, limitando così le possibilità di scelta”28. Ma soprattutto l’applicazione degli algoritmi alla determinazione dei premi assicurativi può essere lesiva di una finalità sociale insita nello strumento assicurativo dalla sua nascita: la logica del bilanciamento dei rischi, per cui alla diversa rischiosità dello stesso evento assicurato per diverse persone corrisponde un premio assicurativo simile, calcolato sulla media degli assicurati.

Si tratta di un principio che mira a riequilibrare le circostanze diverse di vita, affinché i meno fortunati nella roulette della vita vedano in parte compensata questa circostanza da parte dei più fortunati. E’ evidente che, quando il rischio dipende (come nella guida di un’auto o nella salute) anche dall’impegno delle persone a evitare rischi, questo principio andrà corretto – e da sempre è stato corretto - fino a condurre a premi differenziati, legati. Ma il ricorso agli algoritmi alimentati con masse di dati biometrici dell’utente può condurre allo stravolgimento di quell’originario principio, facendo pesare su ogni persona la diversa speranza di vita misurata su quei dati. Scrive a riguardo l’OCSE (p.27): “Sarebbe importante che le imprese di assicurazione distinguessero fra i casi in cui un cattivo stile di vita provoca cattiva salute e quelli in cui una persona nasce con problemi di salute che non possono essere in alcun modo affrontati dallo stile di vita”.Ma le cose sono più complesse di così. Perché la distinzione non è facile. E soprattutto perché il “cattivo stiledi vita” può essere il risultato di circostanze sociali che conducono ad accettare lavori usuranti o che producono maggiori rischi. E’ una questione non nuova, ma, come in molti altri casi, la potenza, sistematicitàe non-verificabilità degli algoritmi la esaspera.

Informazione e opinioni politiche

Come nella formazione delle preferenze di consumo, anche nella formazione delle opinioni politiche (o sulle politiche) gli algoritmi di apprendimento automatico hanno radicalmente modificato lo stato delle cose, avviando un processo di trasformazione della comunicazione, della cultura e della politica di cui non è anticipabile l’esito. Gli algoritmi hanno accresciuto in modo straordinario la capacità di accumulare e reperire informazione – Google Search, il più grande motore di ricerca sul web, indicizza e rende accessibili, in relazione alle parole cercate, centinaia di miliardi di pagine web in 150 linguaggi. Mai prima nella storia è esistita una tale capacità di estrarre informazioni e di renderle disponibili al pubblico confronto. Ma molteplici sono gli usi che costituiscono un rischio per la democrazia e quindi per la giustizia sociale. Abbiamo già indicato i rischi connessi ad un abuso degli algoritmi per sorvegliare e intimidire le persone. Ci sono altri rischi.

Il rischio più eclatante consiste in un utilizzo degenerato e illecito dei dati personali identitari da noi forniti. Il caso che ha coinvolto Cambridge AnaIytica e Facebook è quello della violazione da parte del gestore di un’applicazione operante su Facebook (thisisyourdigitallyfe) dell’impegno a non trasferire la massa di informazioni raccolte: che sono poi state utilizzate da Cambridge Analytica per influenzare le campagne

26 Cfr. OECD, Technology and innovation in the insurance sector, 2017.

27 “Face recognition technology is used to predict factors such as chronological age, gender, smoking habits and body mass index (BMI). Based on this data, and accompanied by an activity sensor, such a FitBit or physical activity tracker on a mobile phone, your expected life expectancy is provided. A term life offer is made based on this, and the term period can be selected by the policyholder.” (OECD(2017), p. 26. Cfr. anche https://www.forbes.com/sites/parmyolson/2014/06/19/wearable-tech-health-insurance/#47c0083418bd.

28 Cfr. IAIS, FinTech Developments in the insurance industry, feb. 2017.

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elettorali britannica e statunitense. Ma abusi ancora più gravi potrebbero essere commessi se i giganti della rete o altre società che entrino in possesso dei nostri dati identitari, scegliessero di selezionare in modo politicamente distorto ma a noi ignoto le notizie che leggiamo, le informazioni che troviamo, i video che vediamo. Questa possibilità rappresenta una minaccia grave, accentuata dal fatto che nulla garantisce, qualora si manifestasse, che verremmo a saperlo e comunque entro quanto tempo29.

Ma accantoniamo pure queste degenerazioni patologiche. Nella fisiologia del sistema sono racchiusi tre effetti negativi sistematici per la democrazia. Il primo effetto negativo di natura sistematica riguarda la moltiplicazione della “falsa informazione” che, anche in assenza dell’azione di vere e proprie organizzazioni eversive, può diventare il frutto del sistema di incentivi che muove la selezione dell’informazione sulla rete. Vediamo.

Scopo dei servizi offerti su rete è di massimizzare il tempo trascorso dagli utenti nell’uso del servizio così da massimizzare la pubblicità. Come osserva il recente Rapporto del Parlamento britannico Disinformation and

Fake News, “gli algoritmi daranno sempre priorità alle storie negative dal momento che sono condivise con più frequenza rispetto alle storie positive.” Fin qui si tratta dell’amplificazione – tipica dell’uso degli algoritmi – di tendenze del passato. La novità sta nel fatto che la distorsione a favore della “frequenza di condivisione” si estende alle false informazioni. Si pensi a YouTube e al suo algoritmo (segreto) che seleziona i video raccomandati all’utente che accede al servizio. Le sue raccomandazioni saranno influenzatedagli utilizzatori compulsivi; se tali utilizzatori sono ossessionati dal fatto che la terra è piatta e compulsivamente guardano video che diffondono questa informazione, essi verranno “copiati” dall’algoritmo che diffonderà in maniera massiccia quelle stesse raccomandazioni (perché “sa” che hanno successo). E’ esattamente ciò che avviene: infatti i video sulla terra piatta risultano promossi dieci volte di più di quelli sulla terra rotonda30.

In prospettiva, la produzione sistematica di falsa informazione sarà ulteriormente accresciuta dallo sviluppo dei synthetic media, ossia dalla diffusione di informazioni (testi, immagini, video) create o modificate da algoritmi e non distinguibili da quelle create da umani. L’esasperazione della frammentazione dei media verso cui spingerà questa forma di comunicazione potrebbe minare in modo ancora più profondo la “fiducia”nelle informazioni che ci arrivano. L’evoluzione possibile di questo stato di cose è oggetto di dibattito. Si può immaginare uno scenario di caos e di scetticismo assoluti; ovvero uno scenario di ritorno a centri o filiere di legittimazione delle informazioni, il resto delle informazioni essendo relegato a intrattenimento; ovvero, ancora, uno sviluppo di sistemi che, per ogni “fatto” o “luogo”, assemblino l’intero patrimonio informativo esistente costruendo una sorta di standard di riferimento di cosa sia “vero”; o infine, all’opposto,a forme decentralizzate di verifica e di ricostruzione di fiducia all’interno di singole comunità in rete (usandoblockchain), con problemi di costruzione di fiducia fra le comunità31.

Il secondo effetto perverso di natura sistematica riguarda la possibilità, in uso da almeno un decennio, di usare algoritmi per segmentare il potenziale elettorato in gruppi, così da renderli poi destinatari, in modo

29 Cfr. C. O’Neil (2016), pp.179-185. Di frequente vengono raccolti indizi che manipolazioni sistematiche siano già in atto. Un esempio riguarda le raccomandazioni che YouTube (Google) sottopone a ogni singolo utente ogni volta che si apre un video e che sono governate da un AAA la cui finalità dovrebbe essere quella di massimizzare il tempo trascorso su YouTube per accrescere il volume di pubblicità. Sulla base dei dati raccolti (attraverso una simulazione) durante la Campagna elettorale americana del 2017 da un ex-programmatore di YouTube, Guillame Chaslot, il Guardian ha stimatoche, considerando i video raccomandati a persone che avevano raggiunto YouTube alla ricerca dei termini “Trump” o “Clinton” e prendendo quelli che mostravano una chiara inclinazione per uno dei due candidati, i video che risultavano a favore di Trump erano ben l’86% del totale. Suggerendo una manipolazione (non provata) dell’algoritmo che presiede alle raccomandazioni (cfr. https://www.theguardian.com/technology/2018/feb/02/youtube-algorithm-election-clinton-trump-guillaume-chaslot). Per una “risposta” a queste preoccupazioni, si veda, nel caso di Google, il Documento https://www.blog.google/around-the-globe/google-europe/fighting-disinformation-across-our-products/.

30 Si vedano le informazioni fornite dal sito https://algotransparency.org/?date=16-02-2019&keyword=. E’ significativo che nel gennaio 2019, a seguito di una vasta campagna di pressione, YouTube abbia annunciato un intervento sull’algoritmo che stabilisce le raccomandazioni per ridurre le raccomandazioni di video con “contenuto ai limiti dell’accettabile (borderline) o che potrebbe disinformare gli utenti con esiti dannosi”. Nel febbraio 2019 Google ha pubblicato un Documento su come combattere la disinformazione: https://www.blog.google/around-the-globe/google-europe/fighting-disinformation-across-our-products/ .

31 Questi quattro scenari sono descritti in https://render.betaworks.com/synthetic-media-d0adcc53800a, dove si argomenta che è anche possibile immaginare una combinazione degli scenari descritti e si sollecita a un confronto serrato su di essi.

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inconsapevole, di messaggi politici differenziati da parte di un dato candidato. Di nuovo, siamo in presenza di una tattica politica antica quanto il mondo. La novità sta nella scala e nella granularità con cui gli algoritmi consentono di realizzarla, frammentando l’elettorato in minute categorie; e nella sistematica capacità di indirizzare a ognuna di queste categorie, in modo massiccio, un messaggio diverso, ricevuto in modo individuale al di fuori di un contesto collettivo. Questa iper-segmentazione, che esaspera il processo diframmentazione sociale comunque in atto, contribuisce a rendere opaco e indistinto il progetto politico del candidato – che apparirà ad ognuno in modi diversi - e mina il confronto collettivo e quindi il processo di formazione di opinioni condivise.

Il che ci porta al terzo effetto, il più subdolo, che opera quotidianamente e che può spostare il “senso comune” in una direzione che spiazza il confronto democratico. Questo rischio è racchiuso dentro quello che si presenta come un vantaggio: l’estrazione attraverso gli algoritmi di opinioni e orientamenti politici diffusi dal rumore della rete. Il giudizio positivo su questa funzione deriva dall’assunto che le affermazioni che noi utenti affidiamo alla rete riflettano le nostre opinioni e i nostri orientamenti. Ma è così?

In realtà, il nostro linguaggio quotidiano, il significato delle nostre parole, riflette le nostre distorsioni o pregiudizi istintivi, che sono latenti nella nostra personale cultura32. Ma il nostro comportamento, le nostre opinioni e i nostri orientamenti possono assumere forme che si allontanano da tali pregiudizi istintivi, che tuttavia lasciano traccia nel linguaggio. Questo allontanamento avviene attraverso processi di cui è parte importante il confronto acceso e aperto con opinioni diverse, dove si manifesta la pressione dei sentimenti degli altri sui nostri sentimenti, e viceversa33. Ma non è questo che gli algoritmi colgono quando elaborano milioni di parole raccolte in rete. Essi colgono piuttosto le distorsioni istintive racchiuse nel linguaggio, che in questa fase storica sono particolarmente forti, viste le disuguaglianze, la rabbia, il risentimento. Ecco allora, come è stato provato, che l’applicazione degli algoritmi al linguaggio ordinario raccolto dalla rete li induce a “incorporare le stesse distorsioni che sono implicite nel linguaggio umano”34.

Ma questo esito ci viene restituito come se si trattasse delle nostre opinioni e dei nostri orientamenti. Ammantato dal crisma di un’elaborazione oggettiva, questo messaggio viene da tutti noi interpretato come l’”opinione prevalente”, il “nuovo senso comune”. L’effetto distorsivo è grave, anche senza immaginare alcuna manipolazione. Insomma, l’uso degli algoritmi per estrarre messaggi dal rumore della rete finisce per sospingere il senso comune collettivo in una direzione che non corrisponde a ciò che emergerebbe da un confronto aperto, informato e ragionevole.

Questi tre effetti sistemici che possono alterare la formazione delle opinioni sono di particolare gravità perché non presumono attività illegali o abusi della rete. Non sono patologie, sono possibili fisiologie dell’uso degli algoritmi nella raccolta e diffusione delle informazioni. Per questa ragione contrastarle è una sfida necessaria e impegnativa.

Una diversa strada è possibile … ma quale?

Negli anni più recenti è rapidamente cresciuta la consapevolezza dei rischi per la giustizia sociale del “sistema tecnologico delle decisioni automatiche” costituito dagli algoritmi di apprendimento automatico e dalla moltitudine di dati identitari in rete, rischi che, come si è visto, toccano tutte le dimensioni della vita umana. E’ cresciuta la consapevolezza che è necessario sottrarsi alla deriva di questo modello centralizzato affidato al controllo di grandi monopoli digitali: una sorta di “capitalismo della sorveglianza” dove la sovranità su molte nostre decisioni di vita è stato trasferito a quei monopoli. E che l’alternativa non possa essere costituita da un altro modello centralizzato, quello della “sorveglianza di stato”, sperimentato dal sistema cinese del social credit scoring, con l’attribuzione di punteggi individuali (e penalizzazioni) in relazione al grado di aderenza a norme sociali mostrato dalle singole persone nella vita quotidiana35.

32 Cfr. in particolare Caliskan-Islam, J.J. Bryson, A. Narayanan, Semanthics derived automatically from language corpora necessarily contain human biases, mimeo, Princeton University-University of Bath, August, 2018.

33 Su questo punto cfr. J.Heidt, Why Good People Are Divided by Politics and Religion, Pantheon Books, 2012

34 Cfr. ancora Caliskan-Islam et al (2018), p.11.

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La reazione si manifesta in una crescente letteratura specialistica sull’argomento, dalla quale abbiamo tratto le precedenti illustrazioni, in studi e analisi e nel moltiplicarsi di corsi sull’etica dell’intelligenza artificiale. L’impegno di ricerca e poi di denuncia ha riguardato lo stesso mondo dell’informatica, con un ruolo particolarmente importante delle donne.

Alla sensibilità della tradizione femminista per il tema del lavoro non pagato o sottopagato, fenomeno così eclatante nell’economia digitale, si accompagna una reazione al processo di maschilizzazione di questo comparto iniziato a inizi anni ’80. Fino a quel periodo gli stereotipi di genere avevano agito nel senso opposto, contribuendo ad una forte femminilizzazione delle attività informatiche: la “pignoleria” e “precisione” richiesta negli anni ’50 per controllare le righe di codice e immaginare come le macchine le avrebbero eseguite quadrava con l’immagine del “lavoro per le donne”36. Ma allora entra nelle Università e poi nel lavoro una leva in cui i maschi, assai più delle femmine, erano stati indotti, prima nelle famiglie poi dalla cultura, a spendere ore con gli “apparecchi elettronici” e a considerare inadeguato chi non lo faceva37. Fra il 1990 e oggi la percentuale di femmine occupate in ruoli di programmazione informatica scende negli USA dal 35% al 26%; è fra il 17 e il 20% nelle società Facebook, Twitter, Google e Microsoft. Contro uno squilibrio di genere così mercato e le sue conseguenze si osserva oggi mobilitazione di molte donne informatiche, specie nei paesi anglosassoni.

La reazione coinvolge oggi anche figure che hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della rete e degli algoritmi. Ha iniziato a coinvolgere le autorità di regolazione della finanza. A seguito, poi, di vicende eclatanti che hanno toccato la democrazia e la politica, la reazione ha coinvolto le autorità di governo.

L’Unione Europea ha approvato nel 2016 ed è in vigore un Regolamento generale sulla protezione dei dati ed è fortemente impegnata su questo terreno (ci ritorniamo). I principali paesi europei, con l’esclusione dell’Italia, sono in movimento, soprattutto sul terreno delle false informazioni. La Germania, dopo un tentativo non riuscito di autoregolazione, dal gennaio 2018 prevede una sanzione di 20 milioni di euro per le società digitali che non rimuovono entro 24 ore espressioni di odio dal web: il risultato è che Facebook concentra oggi un sesto di tutti i suoi “moderatori” al mondo proprio in Germania. La Francia prevede dal novembre 2018 la possibilità per i giudici di rimuovere articoli che siano considerati “disinformazione”. E haavviato, sempre nel 2018, un’offensiva nei confronti dei giganti del web: prima portando Google e Apple in giudizio con l’accusa di praticare condizioni contrattuali abusive nei confronti di sviluppatori o start-up francesi; poi con l’annuncio che l’Assemblea nazionale e il Ministero della Difesa non utilizzeranno più Google come motore di ricerca. La Gran Bretagna, dopo avere costituito nel 2017 un Centre for Data Ethics and Innovation, ha preso attraverso la Commissione parlamentare per digitale, cultura, media e sport una posizione molto dura su Facebook, sostenendo che materiali interni di quella società dimostrano che la piattaforma ha “intenzionalmente e consapevolmente” violato sia la privacy dei dati, sia le regole della concorrenza.

Sono così cresciute le proposte per correggere l’attuale stato delle cose, per imboccare una strada diversa. Possiamo raggrupparle in due vie di fuga che chiameremo: Riequilibrare il mercato e organizzare gli utenti

per trasformarli in lavoratori remunerati; Costruire comunità sicure e chiuse fondate su Blockchain. E in una strategia: Sperimentare soluzioni che modifichino il sistema tecnologico esistente.

Le proposte su cui invitiamo a discutere e lavorare sono quelle racchiuse nella strategia. Ma le prime due viedi fuga ci aiutano a inquadrarla, perché indicano percorsi internamente coerenti che colgono la naturaradicale dei problemi da affrontare e in un caso sono di ispirazione per i tentativi in atto.

Via di fuga n.1 Riequilibrare il mercato e organizzare gli utenti per trasformarli in lavoratori remunerati

35� Cfr. Y.J. Chen et al., Rule of Trust: The Power and Perils of China’s Social Credit Megaproject, 32 Columbia J. AsianLaw 1, 2018.

36 Cfr. Clive Thompson, The secret history of women in coding, febbraio 2019, ripubblicato in Internazionale, n. 1297.

37 Idem.

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A proporre questa prima via di fuga sono gli esponenti radicali del pensiero liberale, che credono fortemente nella capacità del mercato, purché si tratti di un mercato concorrenziale, dove il lavoro sia organizzato, concorra a impedire posizioni di monopolio ed extra-profitti e sia così anche incentivato a meglio contribuirealla produzione. L’enunciazione di questa opzione ha trovato una forte espressione nel recente volume Radical Markets di Eric Posner (Chicago University) e Glen Weyl (Microsoft), nel quale, di fronte all’esplosione delle disuguaglianze, gli autori propongono molteplici riforme radicali.

Il punto di partenza è lo scambio ineguale fra utenti della rete che forniscono dati e imprese che li utilizzano: queste concedono ai primi servizi utili e godibili, ma si impossessano del valore di mercato di quel contributo di lavoro. L’argomento tradizionale che il valore marginale di ognuno di quei dati è infinitamente piccolo (rappresentando un infinitesimo contributo aggiuntivo rispetto a tutti gli altri dati) viene criticato, osservando che ogni contributo di informazione – il “lavoro” di ogni utente – non concorre ad alimentare un dato, unico processo produttivo, l’esecuzione di un dato algoritmo, ma alimenta un intero sistema di intelligenza artificiale dove ogni giorno si eseguono innumerevoli algoritmi e se ne testano altri, sempre più complessi, il cui valore di mercato cresce progressivamente (pp. 226-229). Gli extra-profitti che derivano da questo scambio ineguale – prosegue il ragionamento – non sono dunque giustificati. Mentre, al tempo stesso,viene sottoutilizzato il contributo degli utenti, la loro capacità di fornire in rete un contributo di competenza eidee.

La soluzione proposta sta nel completare il mercato, nel passare, per il sistema tecnologico - intelligenza artificiale + produzione di dati in rete – “dal feudalesimo al capitalismo”, come essi scrivono: remunerare il lavoro di produzione e fornitura dei dati da parte degli utenti/lavoratori della rete. L’esistenza di uno scambiodi mercato condurrà alla formazione un prezzo che corrisponderà alla quantità/qualità delle informazioni fornite nella transazione; l’utente/lavoratore potrà così (e sarà incentivato a) far valere le proprie competenze e informazioni. Infatti, nel colloquio virtuale con cui gli autori rappresentano lo scambio – fra l’utente/lavoratore e una voce automatica a nome dell’impresa – l’utente/lavoratore fornisce, a richiesta, informazioni private su sé stesso e sui propri amici.

Perché richiamare questa soluzione? Essa affronta solo uno, pure importante, dei molteplici rischi per la giustizia sociale dell’attuale sistema: lo scambio ineguale e i suoi effetti diretti sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e sull’efficienza produttiva. Mentre non tocca tutti gli altri rischi, relativi alle distorsioni e degenerazioni che gli AAA e il nostro mancato controllo sull’uso dei dati identitari possono produrre. Anzi liaggrava, prefigurando un mondo distopico in cui ognuno di noi vende o fabbrica informazioni private su tuttigli altri, consegnandole a piattaforme proprietarie38.

Nonostante ciò, la prima ragione per richiamare questa via di fuga è che essa sottolinea con forza l’iniquità insita nello scambio ineguale, un tema da cui ogni altra soluzione non può prescindere. La seconda ragione è che essa è meno lontana dalla realtà di quanto si pensi: fra il 2016 e il 2018, Facebook ha pagato a giovani fra 13 e 35 anni 20 euro al mese perché “vendessero la propria privacy”, cedendo attraverso un’app (Facebook Research) tutte le informazioni relative all’attività telefonica e su rete39. La terza ragione sta nel modo, nell’unico modo, in cui gli autori si immaginano che a questa soluzione si potrebbe arrivare, stante la forza delle “sirene dei server”: l’emergere di un sindacato mondiale che organizzi noi utenti/lavoratori, mobilitandoci per scioperi/boicottaggi, che interrompano a un tempo la fornitura di dati e il consumo di servizi. Non appare certo uno scenario realistico, ma ci restituisce il senso della potenza delle forze in campoed è significativo che, all’interno delle avanguardie del pensiero liberale, nella ricerca di un modo per spezzare i monopoli, si torni con coerenza a proporre il ritorno dei sindacati.

Via di fuga n.2 Costruire comunità sicure e chiuse fondate sul Blockchain

38 Su questo punto, cfr. fra gli altri N. Srnicek, The Social Wealth of Data, in AA.VV. Social Wealth Fund, june 2018.

39 L’app è stata interrotta nel gennaio 2019 quando il team di TechCrunch ha portato alla luce questa vicenda, che tra l’altro violava le regole di Apple: cfr. https://techcrunch.com/2019/01/31/facebook-researchgate/?guccounter=1&guce_referrer_us=aHR0cHM6Ly93d3cuZ29vZ2xlLmNvbS8&guce_referrer_cs=OTYK8uYNFfmx2QWTVHlOXg.

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Come la prima via di fuga si affida completamente al mercato, esasperandone il ruolo, così questa si affida completamente alla comunità, una comunità che non ha bisogno di relazioni fiduciarie perché è tenuta insieme da un unico destino, attorno alla tecnologia Blockchain.

La prima strategia non mette in discussione la concentrazione dei dati e della loro elaborazione in poche mani private, ma pensa di potere togliere loro i benefici monopolistici attraverso la costruzione di un mercatoconcorrenziale. Questa strategia, invece, mira a rendere i dati e la loro elaborazione “patrimonio comune”, patrimonio condiviso di una comunità. E’ il punto di partenza e di forza di questa impostazione, che ritroveremo anche nella nostra strategia: l’idea di un patrimonio comune delle informazioni, che sia a disposizione di tutti, con una tecnologia che non dia vantaggi competitivi a nessuno, che garantisca il nostro controllo e la sicurezza dei dati e che favorisca la collaborazione diretta fra utenti, senza passare attraverso alcun “centro” terzo, privato e pubblico che sia. Potremo disegnare e usare algoritmi, prosegue questa tesi, assieme agli altri soggetti che vi concorreranno con i propri dati, e secondo i principi che aderiscono ai valorinostri e degli altri. Si tratta chiaramente di una via di fuga dal presente sistema che cerca il ritorno allo spiritoiniziale, anti-statale e anti-capitalista, con cui partì la rete. Ma la comunità con cui si cerca di risolvere il problema è una comunità tutt’altro che universale, è piuttosto una comunità chiusa. E questo è scritto nella tecnologia che adotta.

Il Blockchain o catena di blocchi, è un'architettura di database distribuita: una stessa informazione viene immagazzinata su molteplici nodi, collegati in una rete. L'architettura è basata non sul riferimento a un'informazione originale autoritativa, ma sul consenso tra i nodi della rete. In queste caratteristiche risiedono tre possibilità. Primo: archiviare i propri dati personali, i descrittori della nostra identità, in modo non accessibile se non per nostra scelta. Secondo: realizzare un autogoverno distribuito di questi dati. Terzo: trasferire informazioni e realizzare transazioni fra due o più parti con una garanzia collettiva; un’opzione checonsente – è l’impiego iniziale e più noto – di creare moneta all’interno di una comunità di utenti40.

Ma nella natura della tecnologia sta anche il duplice limite di questa strategia. In primo luogo, la “comunità” costruita dal Blockchain non si regge sulla “fiducia”; il sistema è affidabile indipendentemente dall’affidabilità dei suoi singoli nodi, perché è il codice condiviso che stabilisce le regole interne. Questo tratto, in linea peraltro con l’ambiente anarco-libertario da cui la tecnologia nasce, mette la comunità al di fuori delle regole “esterne” ed è in questo senso la libera dalla sovranità di poteri privati o statali. Ma al tempo stessa la rende penetrabile da (e quindi attraente per) comportamenti opportunistici. Il secondo limite è legato al primo: la strategia non è adatta a permettere transazioni con l’”esterno”, con soggetti che non fanno parte della Blockchain stessa. Se la comunità decide di realizzare, per l’impiego delle proprie informazioni, un “contratto” con altre parti, essendo coinvolte informazioni replicate in ogni nodo, il contratto deve coinvolgere ogni nodo, senza tuttavia la garanzia che la reazione di ogni nodo sia la stessa. La sola soluzione per aggirare il problema è di affidarsi a un’entità terza di cui fidarsi per incorporare le informazioni esterne nella catena: ma questa strada mina lo stesso obiettivo del sistema decentralizzato41

Le obiezioni che vengono spesso mosse a questa soluzione riguardano la sua realizzabilità e sostenibilità. Ci si domanda perché la forza monopolistica dei giganti del web e delle altre imprese che acquisiscono dati gratuitamente e offrono o vendono servizi e che per farlo impiegano algoritmi dovrebbe cedere il passo a queste nuove forme? Perché l’attuale sistema di scambio ineguale non dovrebbe finire per trattenere gli utenti/lavoratori rispetto all’ipotesi di spostarsi sulle tante versioni dell’alternativa? E si sottolinea lo straordinario consumo di energia elettrica che il ricorso al Blockchain (con i suoi lunghi tempi di elaborazione degli scambi) richiede. Ma è piuttosto il duplice problema prima indicato a suggerirne i limiti.

40 Cfr. D. Tapscott, A. Tapscott, Blockchain Revolution, Penguin 2018. Gli autori scrivono che con il Blockchain, si può configurare un “autogoverno distribuito del sistema dei dati identificativi delle persone” in cui il modello a cui è affidata la tutela dei dati sia “distribuita fra, e conservata da, le stesse persone tutelate, in modo tale che gliincentivi di tutti sono allineati – un patrimonio comune di dati identificativi – con chiari diritti degli utilizzatori diprendersi cura dei propri dati, accedervi e consentire ad altri di accedervi, trarne ricavi e partecipare alla fissazione delle regole per il mantenimento e l’uso del bene comune” (p. xlvii).41 Su questo aspetto, cfr. https://www.the-blockchain.com/2016/04/12/beware-of-the-impossible-smart-contract/.

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Tuttavia, questa via di fuga rappresenta, come la prima, un utile punto concettuale di riferimento, e, ben più della prima, lo sprone per ricercare vie di uscita dallo stato attuale delle cose, e la fonte di sperimentazioni, da seguire e valutare.

Si pensi, nel campo della salute, al caso (riportato da Tapscott&Tapscott) di una rete universitario/ospedaliera che attiva un portale in cui ogni paziente può accedere all’intero materiale della propria storia medica di cui è proprietario e che può a propria discrezione decidere di condividere; prefigurando l’ipotesi di muoversi verso una vera e propria “proprietà dei dati da parte del paziente”, alleato con altri – della propria comunità, si intende - e con ricercatori in vere e proprie “cooperative della salute” capaci di esercitare un potere negoziale. O si pensi a una rete come Faircoop (https://fair.coop/it) che, utilizzando una versione di blockchain diversa e a minore consumo energetico, promuove e facilita esperimenti di scambio di risorse economiche, di spazi e di tempo di assistenza che tengono conto sia dei bisogni che della condizione economica e sociale dei contraenti. Questo tipo di sperimentazioni ci porta alla strategia da adottare.

Strategia: Sperimentare soluzioni che modifichino il sistema tecnologico esistente

La strategia qui descritta è in realtà un insieme di interventi individuali, collettivi, pubblici e privati che, muovendosi all’interno del “sistema tecnologico” esistente (fatto di algoritmi e dati identitari), convergono nella direzione di piegarlo a esigenze di giustizia sociale. In quanto segue, non si ha alcuna pretesa di “trovare una quadra” fra queste diverse ipotesi, che oggi non è alle viste. Si è piuttosto ritenuto utile raccoglierle e proporle all’attenzione della ricerca, dell’azione collettiva e dell’azione pubblica dell’Italia: nonostante singoli e significativi contributi, manca in Italia un confronto pubblico adeguato e una mobilitazione sociale, politica e culturale su questi temi. Il ForumDD ritiene che possa e debba essere compiuto da tutte le parti un salto di qualità.

La strategia si inquadra nell’ambito della regolamentazione europea in tema di protezione dei dati, si articola in un insieme di interventi integrati su piattaforme comuni e sistema tecnologico e dà impulso allo sviluppo delle comunità di innovatori in rete. Questa strategia può trovare un momento di coagulo e forza nelle città, come avanguardia dell’inversione di rotta.

Regolamentazione europea in tema di protezione dei dati

Con il Regolamento generale per la protezione dei dati in vigore dal maggio 2018, l’Unione europea,riconfermando la sua posizione di leader internazionale nel campo della regolazione, ha offerto un quadro diriferimento giuridico che tocca entrambi gli aspetti del “sistema tecnologico” in questione: come disciplinarela raccolta e l’uso dei dati; come regolare i processi decisionali che utilizzano algoritmi di apprendimentoautomatico. Il contributo di Giorgio Resta al ForumDD (raccolto nei Materiali), analizza ruolo e limiti diquesto importante passo.

Il Regolamento definisce i “diritti digitali” in merito al trattamento dei dati personali e alle decisioni chesiano assunte attraverso l’utilizzo di algoritmi di apprendimento automatico. Per quanto riguarda l’uso deidati personali, vengono stabilite condizioni che l’utilizzatore deve rispettare quando tale uso serva a“profilare” una persona (analizzare e prevedere aspetti della sua vita): informazione alla persona; correttezza,incluso un uso non discriminatorio; minimizzazione dei dati usati e del tempo di conservazione dei dati;restrizione delle finalità d’uso a quelle originariamente previste; valutazione dell’impatto dell’uso sullaprotezione dei dati stessi.

In tema di decisioni assunte sulla base di algoritmi, due sono le linee di intervento principali: il diritto diottenere informazioni circa “la logica utilizzata [dall’algoritmo], nonché l'importanza e le conseguenzepreviste di tale trattamento per l'interessato” (art.15); il “diritto [dell’interessato a] non essere sottoposto auna decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effettigiuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla persona” (art.22).

Si tratta di due questioni decisive per l’impatto sulla giustizia sociale delle nuove tecnologie: accedere allalogica delle decisioni, per poterla contestare; preservare una relazione umana nel processo decisionale. Il

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Regolamento europeo, individuandole con chiarezza, le mette al centro del pubblico confronto, dell’azionedegli Stati e dell’agire in sede giudiziaria e politica. Non può tuttavia dare loro soluzione, come osservaResta, perché la specificazione di quei diritti è complessa e perché essi entrano in conflitto con altri diritti.

Per quanto riguarda il diritto a informazioni sulla “logica”, esso si scontra (e rischia di soccombere) quandoincontra il diritto di tutela della proprietà intellettuale degli algoritmi stessi. E cozza contro il fatto che la“logica” degli algoritmi non è di natura “causale”, derivata da una teoria e come tale contestabile: si potrà almassimo – e già non è poco - comprendere da quali correlazioni è dominata una previsione/decisione, se essanasconda discriminazioni o errori. Quanto al diritto a relazioni umane, il riferimento agli “effetti giuridici” èlimitativo, mentre il divieto può essere aggirato prevedendo l’integrazione delle decisioni dell’algoritmo conuna presenza umana, magari non rilevante. Inoltre, lo stesso Regolamento prevede eccezioni al divieto, comenel caso in cui l’affidamento della decisione esclusiva all’algoritmo è stabilita da contratto. Con il “consensodella persona” gli algoritmi possono avvalersi anche di dati particolari altrimenti preclusi e relativi a: salute,orientamento sessuale, opzioni ideologiche e sindacali, appartenenza etnica, etc.

In conclusione, il Regolamento stabilisce una base di principi destinata a fare scuola nel mondo. Non può costituire “la soluzione”, per la natura collettiva e politica dei rischi derivanti dal “sistema tecnologico delle decisioni automatiche” e quindi delle soluzioni, che travalicano, come scrive Resta, la logica dei diritti individuali” del Regolamento. Ma costituisce un quadro di ordine e di riferimento per le altre azioni collettive e pubbliche necessarie.

Interventi integrati su piattaforme comuni e sistema tecnologico

Raggruppiamo qui tutti i diversi interventi, pubblici o collettivi, che, sfruttando il contesto regolatorio (e magari alimentandolo), non assumono come immodificabili le modalità di raccolta dei dati identitari e gli algoritmi che li utilizzano, ma mirano a valutare per quali obiettivi e con quali valori raccogliere i dati e impiegare gli algoritmi, in quali processi decisionali, con quali diritti riconosciuti a chi i dati fornisce o a chi comunque risente del loro uso. Le strade in questione riguardano “l’intera catena produttiva” necessaria a produrre e aggiornare gli algoritmi, incluso il “lavoro non riconosciuto e sottopagato” necessario a rendere i nostri dati identitari in rete utilizzabili.

All’interno di questa famiglia di interventi, possiamo individuare diverse linee di azione. La prima di esse incalza gli interventi dei giganti del web e delle altre imprese digitali e la ricerca tecnica interna agli algoritmi.

Sotto la pressione di una crescente attenzione agli effetti sociali e alle violazioni della privacy e di altri canoni etici da parte degli algoritmi di apprendimento automatico, i giganti del web – Google, Facebook, IBM, Microsoft, etc - si sono impegnate nella redazione di codici etici o nella costruzione e impiego di meccanismi per la riduzione delle discriminazioni.42 Di fronte alla diffusione delle false informazioni e in genere alle preoccupazioni per gli effetti sistemici negativi sulla formazione delle opinioni politiche (di cui siè detto), Google ha di recente sentito il bisogno di descrivere in un documento comprensivo “How Google

fights disinformation” le sue azioni in questa direzione: accanto a interventi più tradizionali - promozione di “giornalismo di qualità”, metodi per difendersi da attacchi informatici – emerge anche un impegno nella ricerca sui rischi dei synthetic media43, ad aprire le proprie ricerche all’esterno, a non dare rilievo a “pagine con contenuti palesemente inaccurati o tesi complottiste” e a contrastare tentativi di manipolazione della gerarchia delle segnalazioni (ranking system)44. E’ un segno positivo, coerente con le generali crescenti preoccupazioni delle classi dirigenti economiche per il risentimento indotto dalle crescenti disuguaglianze. Ma, come sempre, questi passi non possono promettere cambiamenti effettivi se la verifica di “eticità” continua a essere delegata a tecnici senza meccanismi di verifica esterna, garanzie di pubblicità e sanzioni.

42 Cfr. AI Now (2018), pp. 28-32. Nel codice etico di Google fra l’altro si legge l’impegno a “produrre un impatto sociale positivo” e “evitare di creare o rinforzare pregiudizi”.

43 Si legge: “investimenti in ricerca per comprendere come gli algoritmi possano aiutare a filtrare i ‘contenuti sintetici’, lavorando con esperti in tutto il mondo”.

44 Si veda anche la quasi contemporanea decisione di YouTube descritta prima descritta.

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L’allerta delle imprese e la pressione del confronto, anche all’interno del mondo della ricerca, hanno comunque promosso lo sviluppo di metodologie volte a tenere conto di obiettivi di giustizia sociale negli algoritmi. Le sperimentazioni e il dibattito sulla loro efficacia è in corso. Se ne segnalano due conclusioni particolarmente importanti. La strada di escludere dagli algoritmi le variabili che direttamente o indirettamente appaiono correlate con caratteristiche delle persone tradizionalmente sfavorite (per genere, gruppo etnico, ceto sociale) – o anti-classification strategies – danno risultati insoddisfacenti: su questa strada – è la conclusione che va emergendo - è meglio riconoscere espressamente il valore da tutelare, prevedendo per quelle caratteristiche soglie diverse.45 Se poi, come si è visto46, l’applicazione degli algoritmi al linguaggio ordinario raccolto dalla rete li porta a incorporare le stesse distorsioni che sono implicite nel linguaggio umano e che non necessariamente corrispondono ai nostri convincimenti, allora la strada non può essere quella di correggere gli algoritmi. Si tratta piuttosto di utilizzarne i risultati non come “decisioni” da adottare, ma come input di un processo decisionale da affidare ad altre valutazioni e strumenti che prevedanoil confronto aperto di opinioni diverse.

E’ dunque di primaria importanza esercitare una pressione sociale, politica e istituzionale sui giganti della rete e sulle altre imprese rilevanti nell’impiego degli algoritmi affinché aprano le loro piattaforme alla

ricerca esterna, rendano disponibili e verificabili esiti e materiali della ricerca interna, modifichino gli algoritmi e rendano monitorabili tale modifiche, accettino in genere una verifica della loro aderenza agli impegni etici assunti, e in prospettiva affinché rendano gli algoritmi open source. Ma la modifica dell’impatto sociale del sistema tecnologico può avvenire solo a seguito di interventi che tocchino il sistema intero, sia sul piano giuridico che sul piano delle azioni collettive. Veniamo dunque alle altre linee di azione della strategia:

1. Chiedere e promuovere una composizione diversificata dei gruppi di ricerca che elaborano gli algoritmi. Al fine di pesare sulla scelta di valori e obiettivi e dei dati, nei gruppi di ricerca deve essere assicurata un’”adeguata rappresentazione di punti di vista diversi”47 per disciplina, esperienza,sensibilità a temi di giustizia sociale, con ottica nazionale e internazionale. Di particolare importanza, per i motivi detti, è un radicale riequilibrio di genere. E’ il primo passo che rende evidente ed effettivo che gli algoritmi non sono “tecniche” oggettive.

2. Agire affinché la costruzione di ogni progetto di ricerca e di ogni algoritmo sia aperta al confronto

pubblico e informato con le persone che producono i dati impiegati o che risentono delle decisioni a cui gli algoritmi conducono (lavoratori, consumatori); e affinché tali decisioni siano anche esse oggetto di confronto. E’ questo l’obiettivo di Istituzioni come la citata AI Now negli USA o come Decode in Europa - di cui fa parte Il Politecnico di Torino – che mira allo “sviluppo di strumenti che diano alle persone controllo sui dati che forniscono per uso privato e collettivo” e come altre ancora48.

3. Costruire e utilizzare piattaforme digitali che ridiano “sovranità tecnologica” agli utenti/lavoratori della rete e in genere ai cittadini toccati dalle decisioni assunte sulla base dell’analisi dei dati. Come costruire piattaforme digitali comuni è al centro di un confronto con diverse impostazioni49 che hanno in comune, rispetto al modello Blockchain, la natura delle comunità che si avvalgono della piattaforma: comunità aperte e basate su relazioni di fiducia.

4. Moltiplicare la quantità dei dataset aperti, requisito indispensabile di piattaforme digitali comuni. Gli Stati nazionali e l’Unione Europea potrebbero dare un contributo ben superiore in questa direzione, tenendo conto che molti di questi dataset sono stati pagati dai contribuenti: dati catastali, dati sui trasporti pubblici, identificativi unici delle imprese, dataset legati a numeri civici.

45 Cfr. J. Kleiberg, J. Ludwig, S. Mullainathan, A. Rombachan, Algorithm Fairness, AEA Proceedings, 2018, 108.

46 Cfr. Caliskan-Islam et al (2018).

47 Cfr. in particolare R.Abebe, Why AI needs to reflect society, Forbes Insight, nov. 2018. I principi da lei sostenuti sono attuati dal Gruppo di ricerca Mechanism Design for Social Good da lei co-fondato.

48 Cfr. la descrizione di esempi in F.Bria, E.Morozov (2018), pp. 31-32.

49 Altre proposte di costituzione di Piattaforme collettive dei dati identitari sembrano viceversa fare affidamento su un “centro pubblico”: è il caso della proposta di un “National Data Fund” avanzata da N. Srnicek (2018). Anche in questa proposta sono le persone a decidere se condividere i propri dati, secondo “vincoli granulari” sul loro uso, ma tali dati sono anonimizzati. Proposte o tentativi di costruire piattaforme digitali che ridiano “sovranità tecnologica” agli utenti/lavoratori emergono in forme diverse nel confronto in corso: cfr. ad esempio E. Morozov, F. Bria, Rethinking the Smart City, Rosa Luxemburg Shiftung, january 2018.

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5. Realizzare azioni collettive e mettere sotto pressione le pubbliche autorità affinché venga data piena attuazione alla Regolamentazione europea, sfruttandone tutti gli spazi, e promuovere, ove necessario,nuova regolamentazione.

6. Promuovere e rimuovere gli ostacoli che prevengono le sperimentazioni realizzate dalle “comunità

di innovatori” che già oggi mettono in atto forme alternative di gestione e governo dei dati identitari.7. Realizzare campagne di sensibilizzazione dei cittadini e delle diverse categorie toccate dalla

monopolizzazione delle conoscenze (lavoratori, consumatori, richiedenti credito, assicurati, etc.) circa l’entità, le cause e le conseguenze di tale monopolizzazione, e circa i modi per contrastarla. Formare a questi stessi contenuti e soluzioni alternative i giovani studenti sin dai primi anni di scuola. Sono questi requisiti indispensabili affinché si crei una massa critica adeguata ad attivare gli strumenti precedenti.

L’insieme di queste iniziative configura i tratti di un modello di “sovranità collettiva” sui dati personali e glialgoritmi. Un modello che aspira a essere alternativo sia al modello-USA della “sovranità dei monopoli” siaal modello-Cina della “sovranità dello Stato”. Non si tratta, a differenza di questi due, di un modellocompiuto. Ma esso trova la sua cornice di riferimento nel punto di forza dell’Europa: essere andata più avantidegli altri nel costruire una cornice di regole. A esse si è aggiunta nel dicembre 2018 la strategia lanciatadalla Commissione Europea nel campo dell’intelligenza artificiale che comprende, tra le altre iniziative: i) ilProgetto di orientamenti etici per l’intelligenza artificiale, che ha proposto una serie di linee guida coerenticon il precedente gruppo di azioni raccolte attorno al principio di un’intelligenza artificiale consapevole deirischi e valutata in base agli effetti su diritti fondamentali, valori sociali e principi etici, e ii) gli orientamentisull’interpretazione della direttiva sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi alla lucedell’evoluzione tecnologica. Ora si tratta di sapere dar vita a queste regole e a questi indirizzi.

Le diverse tipologie di azione volte a sperimentare una sovranità collettiva possono trovare alimentofinanziario, promozione e un punto di raccordo nell’iniziativa lanciata dalla Commissione europea stessanell’autunno 2016, denominata Next Generation Internet. Il suo obiettivo è di influenzare il futuro di Internetnella direzione di una piattaforma interoperabile che incorpori i seguenti principi: apertura, protezione dellaprivacy e dei dati personali, cooperazione, decentralizzazione, controllo in mano agli utilizzatori, la personaal centro. A questi principi non corrispondono, nell’iniziativa, una diagnosi o una chiara strategia. Ma esistela volontà di ricercarle attraverso consultazioni pubbliche, progetti di ricerca (in particolare nel progetto NGIForward) e comunità on line di discussione.

Sviluppo di comunità di innovatori in rete

In questa ricerca di soluzioni un ruolo significativo può essere svolto dalle “comunità di innovatori in rete”50.Con questa espressione intendiamo forme neo-mutualistiche di impresa che utilizzano tecnologie di rete perprodurre piattaforme e serbatoi di conoscenza comune. Questa conoscenza consente a soggetti esterni di“entrare in azienda” e viene utilizzata da essi come un bene pubblico per raggiungere propri obiettivi e persoddisfare bisogni e aspirazioni con soluzioni innovative. In tal modo queste comunità sfidano la logica dellaproprietà privata delle idee e svolgono di fatto una funzione concorrenziale all’utilizzo monopolistico dellenuove tecnologie; nelle biforcazioni del cambiamento tecnologico possono aiutare ad imboccare strade cheaccrescono la giustizia sociale, anziché ridurla.

Si tratta di miriadi di innovatori/inventori – hackers o innovatori militanti, convinti che le idee non possanoessere oggetto di proprietà privata - che spesso lavorano in piccole comunità (crews), e che sfruttano lepossibilità di collaborazione su rete in comunità virtuali e la disponibilità e possibilità di elaborazione digrandi masse di dati. Si pensi, nel campo della salute, a chi sviluppa e offre in open-source laboratori perprodurre farmaci a prezzi stracciati, o a esperienze di “scienza partecipativa”, dove assieme agli scienziatisono coinvolti utilizzatori o cittadini con forme sostanziali di apporto. I principali “digital common” sonostati prodotti da comunità di innovatori: Wikipedia/Wikidata, il codice dei grandi progetti open source comeGNU/Linux, Apache, MySQL o le piattaforme cognitive come StackOverflow. Particolarmente significativoè il caso di OpenStreetMap, ha fornito una mappa del pianeta aggiornabile in tempo reale alle organizzazioni

50 F.Bria, E. Morozov (2018) le definiscono “grassroot communities of innovators”.

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che si occupano di disaster response, e che hanno bisogno di ridisegnare rapidamente le mappe in seguitoalle devastazioni operate da terremoti, inondazioni e tsunami.

Lo sviluppo di queste comunità è ostacolato dal potere dei monopoli. Ma anche da fattori sui quali si puòagire. Le comunità di innovatori avrebbero maggiori opportunità di sviluppo se l’Unione Europea, incoerenza con i propositi espressi nella comunicazione “Verso uno spazio comune europeo dei dati”51

dell’aprile 2018, e i suoi Stati membri investissero in modo massiccio nel rilascio di banche dati aperte;offrissero a queste comunità luoghi fisici in cui operare; promuovessero le loro possibilità di dialogo con lePMI.

Le città come avanguardia per la shared economy

La terza strategia ora descritta può trovare un punto di forza e di attuazione nel governo delle città. Esiste quil’opportunità, come osservano F. Bria e E. Morozov (2018), di realizzare un’inversione di rotta nella logica delle “smart cities”, concepite a lungo come strategie sostanzialmente affidate al governo delle imprese52, per ridare invece potere ai cittadini, sia attraverso l’amministrazione pubblica, sia direttamente: shared cities. Di questa riappropriazione dei poteri decisionali è parte rilevante la riappropriazione da parte dei cittadini/utenti dei loro dati identitari e dell’uso che ne viene fatto attraverso gli algoritmi di apprendimento automatico.

Le città costituiscono un mercato decisivo per lo sviluppo dei nuovi servizi fondati sull’intelligenza artificiale. Che tocca molteplici campi: mobilità e traffico, energia e illuminazione, incendi, evacuazioni, e prevenzione delle esondazioni, casa e manutenzione degli edifici, rifiuti, spazi pubblici, sicurezza e sorveglianza, etc.. Sono campi in cui, come osservano ancora Bria e Morozov, sono attive in modo crescente grandi imprese tecnologiche, come Siemens, IBM, Cisco, Phillips con un potenziale importante di innovazione dei prodotti e di miglioramento della qualità di vita. Ma, ancora una volta, si tratta di orientare questo cambiamento tecnologico in modo che non benefici solo né principalmente i ceti forti, ma che benefici anche, anzi principalmente, i ceti deboli. Sta qui l’importanza di fare pesare le aspirazioni e la voce di questi ceti sulle decisioni. A cominciare dall’uso che viene fatto dei dati che essi stessi forniscono. Nell’interesse di chi si ridisegna il sistema di mobilità? O si governa lo sviluppo degli affittacamere o di nuove forme di trasporto? O si modificano i sistemi di sicurezza? Tutte questioni dove è centrale e cresce il ricorso agli algoritmi.

Bria e Morozov riconoscono che sul cambiamento pesano scelte nazionali e internazionali (relative ad altre tematiche toccate dalle proposte del Rapporto del ForumDD). E arrivano con prudenza a scrivere che questa linea di azione nelle città” è un modo per prendere tempo”, mentre si cercano soluzioni più generali. Ma è untempo che può essere fruttuoso. La dimensione “città”, così come le dimensioni sub-cittadine, offrono un terreno dove si possono sperimentare nuove soluzioni attraverso una ricostruzione di percorsi di democrazia deliberativa che coinvolgano, oltre alle imprese, l’amministrazione, i singoli cittadini e le organizzazioni di cittadinanza attiva in cui una parte dei cittadini si ritrova. In questi percorsi possono svolgere un ruolo importante proprio le “comunità di innovatori in rete” che praticano forme alternative al “sistema tecnologico” dominante. Non a caso, Bria e Morozov indicano come obiettivo primario la sperimentazione diforme che modifichino “il regime di proprietà dei dati”.

In questa chiave si possono interpretare le innovazioni principali introdotte, con il contributo della stessa Bria come Chief Technology Officer, nella città di Barcellona. E la rete di città - di cui fa parte Milano, all’avanguardia in Italia su questo terreno - che è nata attorno alla condivisione della stessa strategia e alla Declaration of Sharing Cities.

51 Fra le misure previste nella comunicazione, la Commissione ha evidenziato, fra le misure previste, l’intenzione di ocntinuare a sostenere l’impiego di una vera e propria infrastruttura per dati aperti e la creazione di un centro Europeo di supporto per la condivisione dei dati, da realizzare nel 2019

52 Cfr. anche F.Barca, Alternative Approaches to Development Policy: Intersections and Divergences’, in OECD Regional Outlook, 2011, cap. 11.

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sé, per via della riunificazione), in cui è mediamente minore la diseguaglianza iniziale dei redditi dimercato, nonché maggiore la tassazione, e soprattutto rispetto ai paesi del capitalismo asiatico (tracui Giappone e Corea), in cui a minore tassazione corrisponde assai minore diseguaglianza deiredditi iniziali (di mercato). Insomma, paesi con modelli di corporate governance caratterizzati daforme di partecipazione e co-decisione, o comunque paesi in cui il modello di responsabilitàmanageriale non è orientato solo al valore per gli azionisti (come il Giappone), presentano livelli didisuguaglianza primaria mediamente minore dei paesi in cui è affermata la priorità delloshareholder value, suggerendo così che il governo di impresa, e il bilanciamento dei poteri al suointerno, abbia incidenza sulla diseguaglianze dei redditi a livello nazionale.

4 . segue. Nel trentennio di egemonia neoliberale il discorso economico ha teso a considerare talimodelli alternativi come residuali. È anche vero che in questi stessi paesi il panorama delle forme digoverno d’impresa si è differenziato, con l’adozione - in settori caratterizzati da produzioni a bassaqualificazione del lavoro - di modelli riconducibili alla dottrina dello shareholder value. Questo puòaver contribuito all’aumento delle diseguaglianze in questi paesi come ovunque. Tuttavia i modellialternativi di governo di impresa hanno continuato ad esprimere equilibri istituzionali persistenti,specialmente nelle imprese e nei settori più innovativi, con maggior valore aggiunto e livellimaggiori di impiego della conoscenza e di reciproca essenzialità delle risorse cognitive e degliinvestimenti in capitale umano dei lavoratori e dei manager. Non c’è ragione di credere che questeimprese in Germania, Olanda, Scandinavia o Giappone siano state meno efficienti di analogheimprese americane, inglesi o italiane - spesso anzi travagliate da crisi assai più gravi.

5 . Importanza delle norme sociali e dell’azione collettiva. Ne consegue che la scelta tra unequilibrio istituzionale o l’altro nel dominio della corporate governance non dipende solodall’efficienza. Al contrario, essa dipende da dinamiche di selezione dell’equilibrio su cui influiscel’emergere e affermarsi di diverse norme sociali, di ideologie e credenze, in cui si riflettono diverseinterpretazioni prevalenti dell’idea di giustizia sociale, e che guidano l’azione collettiva cosicché, inpresenza di passaggi critici e destabilizzanti, possono portare fuori da equilibri istituzionalipreesistenti, e ragionevolmente compatibili con nozioni consolidate di giustizia (si pensi altrentennio di compromesso tra capitalismo, welfare e democrazia in America dal quale si discosta lasuccessiva stagione di egemonia neoliberale con l’annessa dottrina dello shareholder value).

6. La responsabilità sociale di impresa (RSI) presa sul serio. Così come le forme istituzionali digoverno di impresa, anche le iniziative volte a promuovere la responsabilità sociale e la sostenibilitàdelle imprese dovrebbero essere viste nella luce dell’azione contro le disuguaglianze ingiustificabili.In origine l’approccio stakeholder alla gestione strategica e alla responsabilità sociale di impresa(RSI) fu concepito come modo per vincolare ed orientare eticamente, ma assieme legittimare, ladiscrezionalità manageriale (tipica del capitalismo manageriale anglosassone), sulla base di criteridi equo bilanciamento socialmente accettati. Al contempo, però, l’affermarsi della dottrina e dellaprassi dello shareholder value, e l’aumento crescente del peso della finanza speculativa sullagestione, lungi dal ridurre l’efficacia dei manager nell’appropriarsi di esorbitanti remunerazioni(come vanamente promesso dai modelli di agency theory degli economisti), ha sempre ostacolatoche la RSI fosse elevata a modello di governo, in cui le responsabilità dei gestori si estendesserodagli obblighi verso gli azionisti ad analoghi impegni (“responsabilità sociali”) verso gli altri

2Il livello delle diseguaglianze in Italia è analogo a quello dei paesi in cui è stato dominante il modello della primazia del “valore per gli azionisti”. Anche se il capitalismo italiano ha un passato caratterizzato da modelli differenziati, dal capitalismo “famigliare” (comunque concentrato sulla remunerazione del capitale) a quello “reticolare-territoriale”, tipico dell’economia dei distretti industriali, è un fatto che tutte le riforme degli ultimi anni in Italia, dalle privatizzazioni alla riforma del diritto societario, a singoli atti più specifici (si pensi alla riforma delle banche popolari o del credito cooperativo), sono andate in direzione dell’introduzione e del rafforzamento del modello del “valore per gli azionisti”.

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stakeholder - in primis i lavoratori - e al loro equo bilanciamento. Spesso la RSI è statasemplicemente considerata come un modo per lenire certune asprezze del modello dimassimizzazione del valore per gli azionisti. Se si vuole quindi prendere sul serio il messaggioimplicito nel movimento per la RSI, occorre non tanto proporre criteri di orientamento delladiscrezionalità manageriale, quanto promuovere l’empowerment degli stakeholder nella governance,rispetto al quale i gestori possano essere chiamati a render conto.

7 . Un contesto in evoluzione. In anni recenti maggiore consapevolezza di questo problema èemersa a livello europeo da iniziative che hanno teso a integrare l’approccio volontario coniniziative di istituzionalizzazione della RSI. La rendicontazione sociale, prima tutta devoluta ascelte volontarie, è divenuta, per scelta comunitaria, poi recepita nei diversi ordinamenti,obbligatoria per le società quotate. Come cominciano a testimoniare le prime prassi applicative,ciò indirettamente “piega” anche la governance perché costringe a confrontarsi con rischiambientali, reputazionali, sociali, e cioè in definitiva con gli impatti dell’attività d’impresa sututti gli stakeholder e sulla comunità di riferimento. Inoltre il piano d’azione del 2018 perfinanziare la crescita sostenibile della Commissione Europea prevede la futura definizione dellatassonomia della sostenibilità, indicando e specificando le attività che rientrano in questoperimetro, la loro classificazione e le modalità di misurazione con l’obiettivo di inserire latassonomia in tutto il diritto comunitario e costringere gli attori economici a compararsi entroquesto nuovo perimetro.

8. segue. Ancora più emblematica dell’urgenza di un cambio di prospettiva è la vicenda inglesedove, con un significativo rovesciamento di prospettive, è stato il governo conservatore asollecitare nel 2016 un cambiamento, accolto nel nuovo codice di corporate governance per lesocietà quotate in vigore dal primo gennaio 2019. Un codice in cui non solo si richiede laconsiderazione e il dialogo con gli interessi della work force, ma che indica varie stradealternative o combinate per il coinvolgimento nei processi decisionali dei lavoratori: la nomina diun membro del consiglio, l’indicazione di un consigliere indipendente e la creazione di unospecifico advisory panel. Una novità tanto più significativa perché proveniente dal paese da cuiper decenni è stata irradiata la dottrina dello shareholder valu; anche se non è difficileinterpretare tale novità come mossa adottata in ottica difensiva contro le iniziative più radicalisul tema annunciate dal Labour Party di Corbyn.

9 . segue. Per finire, anche in Italia, sia pur confinata al caso piuttosto marginale delle impresesociali non cooperative, è stata approvata nei decreti legislativi attuativi della riforma del TerzoSettore una norma che richiede “un meccanismo di consultazione e partecipazione mediante ilquale i lavoratori, utenti e altri soggetti direttamente interessati alle attività siano posti in gradodi esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa sociale, con particolare riferimento allequestioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità di beni e servizi”,richiedendo in quelle di maggiori dimensioni la nomina da parte dei lavoratori ed eventualmentedegli utenti di almeno un componente nell’organo amministrativo e in quello di controllo. Alcontempo – con riferimento a un campo di applicazione assai più vasto - Confindustria eSindacati Confederali hanno raggiunto un’intesa sui “Contenuti e indirizzi delle relazioniindustriali e delle contrattazione collettiva” in cui, oltre ad auspicare che la contrattazione disecondo livello porti ad accordi sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte organizzative sullavoro, si considera una opportunità da valorizzare anche quella della “partecipazione (deilavoratori) ai processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa”.

1 0 . Una nuova prospettiva. I tempi sono dunque maturi per un cambio di prospettiva. Percontrastare le diseguaglianze inaccettabili, la prospettiva dello shareholder value va rovesciata a

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favore di una visione dell’impresa focalizzata sulla cooperazione tra i diversi stakeholder (azionisti,lavoratori, consumatori, fornitori ecc.) e sulla distribuzione equa del valore creato via cooperazione.Al contempo affermando una visione di governo dell’impresa che “internalizzi” la cura per laminimizzazione delle esternalità negative (insostenibilità ambientale ed effetti sociali negativiindiretti) di molte scelte imprenditoriali. Questo cambiamento di prospettiva servirebbe siaall’efficienza che all’equità.

11. Efficienza. Se l’impresa è un’istituzione che realizza il coordinamento e la cooperazione didiversi stakeholder, bilanciando interessi e aspettative in parte conflittuali in vista della creazionedi un surplus di valore, la realizzazione efficiente di tale obbiettivo non può prescinderedall’accordo e quindi dall’equa distribuzione del surplus stesso tra i diversi stakeholder - in primis ilavoratori detentori di risorse cognitive e di capitale umano specifico, essenziale alla creazione divalore specialmente nell’economia della conoscenza. Esistono perciò ottime ragioni di efficienza afavore di una visione di questo tipo.

12. Giustizia sociale. Tuttavia gli obiettivi che ci poniamo nel proporre la democratizzazione delgoverno d’impresa, anche se compatibili con l’efficienza, vanno intesi nella più fondamentaleprospettiva della giustizia sociale. Intesa non tanto come criterio di redistribuzione da parte delloStato del reddito già generato, ma come equa distribuzione primaria di diritti anche nella sfera delledecisioni economiche. Che quindi incide sul modo in cui il reddito, la ricchezza e più in generale ilbenessere sono generati e distribuiti all’origine. Di qui l’attenzione ai temi della pre-distribuzione

oltre che della re-distribuzione.

13. Un’autolimitazione non necessaria. Per fare questo passo occorre, però, andare oltre i limiti diuna visione prevalente nelle politiche di giustizia sociale. Sostenuta anche da chi, pur non avendomai accettato l’egemonia neoliberale nel corso dell’ultimo trentennio, ha tuttavia accettato la non

necessaria autolimitazione secondo cui la scelta collettiva sulla distribuzione dei beni socialifondamentali - oggetto della giustizia - si fermerebbe al di qua della soglia del governo di impresa, equindi non avrebbe per oggetto la struttura dei diritti che influiscono sulla presa di decisioni circa laproduzione e distribuzione primaria del surplus economico. Si è così finito per ignorare l’effettosulla diseguaglianza della distribuzione del potere (cioè del controllo sulle decisioni c.d. “residuali”,ovvero non previste da contratti) tra capitale e lavoro nel governo di impresa. Nell’erroneaconvinzione che le imprese non fossero una sede in cui si distribuisce autorità ed influenza. O in cuisi distribuiscono diritti di controllo, tali da influenzare tutte le contrattazioni tra stakeholder legati inmodo interdipendente gli uni agli altri dai loro investimenti e dalle loro reciproche decisioni, bendiversamente da quelle anonime e neutrali previste da inesistenti mercati perfettamenteconcorrenziali. Le istituzioni di governo dell’impresa, invece, non sono affatto neutrali ai fini dellagiustizia sociale. E nella prospettiva della giustizia vi è spazio non solo per la razionalità economicastrumentale (scelta dei mezzi dato il fine), ma anche per la ragionevolezza, cioè per l’accordoimparziale ed equo (nel senso di fair) tra stakeholder sui fini e sugli interessi da perseguireattraverso l’impresa.

14. Una visione più aggiornata. Una visione più aggiornata della giustizia sociale, che riconoscel’importanza, oltre che delle risorse (intese come beni sociali principali), anche delle capacità,spinge invece a considerare l’impatto delle corporate governance sulle capacità dei lavoratori edegli altri stakeholder. Favorire l’uguaglianza delle capacità (capabilities) di funzionare nei variambiti dell’attività umana (functionings), infatti, non implica solo offrire a ciascuno ugualiopportunità di formazione delle proprie abilità (skills), ma anche distribuire in modo equo diritti didecisione, cioè la libertà di scegliere positivamente di funzionare nella sfera del lavoro, e quindiprevenire decisioni che ostacolano tali funzionamenti. Ciò chiede di considerare allocazioni delle

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capacità che delimitano l’esercizio esclusivo dei diritti di decisione residuale da parte deiproprietari, e che implicano forme di condivisione (come nella proposta principale qui indiscussione) o il loro trasferimento (come nelle imprese cooperative). L’obbiettivo chiaramente nonè solo l’equa distribuzione del reddito, ma la promozione delle capacità dei lavoratori e degli altristakeholder di “ben funzionare” nel senso dell’esercizio dell’uguale cittadinanza nella sferaeconomica e del lavoro (uguaglianza di riconoscimento), da cui dipende la possibilità di funzionareadeguatamente anche in tutte le sfere della vita personale, famigliare e professionale - da cuidipende, cioè, il ben-essere (well-being) delle persone.

15 . Stakeholder empowerment. La nostra proposta di riforma del governo di impresa e dipartecipazione dei lavoratori e degli altri stakeholder risponde così a un’esigenza generale didemocratizzazione dell’economia che non può essere risolta, oltre un certo limite, direttamentedallo Stato, a causa (i) della ridotta capacità di intervento dello Stato anche a fronte dellaprogressiva globalizzazione dei fenomeni economici, (ii) dall’accresciuto potere, economico maanche politico, delle grandi imprese, che le rende in larga misura influenti sulle decisionipubbliche. Da questo punto di vista, la partecipazione degli stakeholder al governo delle impreseva concepito non solo come un problema di distribuzione del reddito, ma anche come unproblema di allocazione del potere sociale. Quanto sopra dà un’ indicazione chiara nel senso chela partecipazione degli stakeholder – e tra questi in primis dei lavoratori – al governo delleimprese deve essere concepita non tanto in una chiave di management awareness o, che è inlarga parte lo stesso, di stakeholder involvement – fare cioè sì che i manager delle imprese sianopiù consapevoli dell’impatto dell’attività dell’impresa sugli stakeholder - ma in chiave distakeholder empowerment, cioè di ricerca di forme di autotutela che consentano agli stakeholderdi agire direttamente a difesa dei propri interessi.

16. Tutti i lavoratori. Nel quadro generale dello stakeholder empowerment, la nostra proposta siconcentra in primis sui lavoratori in considerazione della loro centralità nell’ambito deglistakeholder delle imprese, sia in quanto fornitori dell’input chiave rappresentato dal lavoro comeinvestimento di capitale umano, sia in quanto potenziali azionisti dell’impresa, per effetto degliinvestimenti in capitale conseguenti al sistema pensionistico ed in particolare alle forme diprevidenza complementare che, in tutto il modo, hanno dato luogo alla emersione dei fondipensione quali attori preminenti del mercato dell’investimento nel capitale di rischio delle grandiimprese.

17. segue. Noi vediamo inoltre la partecipazione democratica dei lavoratori come ambito in cui darerappresentanza e creare confronto su decisioni vitali tra tutti i tipi di lavoro che sonoidiosincraticamente coinvolti dalle attività dell’impresa, nonostante la differenziazione delle formecontrattuali tra lavoro a tempo indeterminato e determinato, lavoro dipendente e lavoro soloapparentemente autonomo o parasubordinato, lavoro formalmente interno alla gerarchicadell’impresa oppure decentrato in unità produttive fornitrici esterne, ma in realtà dipendentiidiosincraticamente (per gli effetti lock-in degli investimenti specifici o per il potere di mercato)dall’impresa maggiore).

18. Comunità locali e consumatori. Inoltre la partecipazione democratica dei lavoratori è per noianche il canale per dare “voce” all’interno della governance dell’impresa agli stakeholder esternipiù importanti, come i consumatori, o gli utenti di servizi, e le comunità locali interessate agliimpatti ambientali dell’attività di impresa. Naturalmente, non pensiamo che i poteri e le forme dirappresentanza degli stakeholder esterni possano essere in tutti i casi identiche a quelle deilavoratori. Infatti diverso è il peso degli interessi in gioco, qualora ad esempio i lavoratori faccianoinvestimenti specifici che li legano idiosincraticamente all’impresa, mentre gli interessi dei

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consumatori potrebbero non essere analogamente legati ad una specifica impresa. Oppure, lecomunità locali possono essere interessate a ridurre esternalità negative dell’attività dell’impresa,ma non essere ugualmente interessate alla creazione di valore. La diversità di tali livelli dicoinvolgimento degli interessi consente di differenziare il potere assegnato a ciascuno stakeholdersecondo i casi. Ma è indubbio che dare voce ai consumatori e alle comunità locali è un requisitominimo per ridurre l’abuso del potere di mercato e del vantaggio informativo nelle relazionicontrattali da parte dell’impresa verso di loro, e per prevenire gli effetti ambientali negativi, che expost risultano non più eliminabili e ormai tendono ad avere conseguenze catastrofiche perl’ecosistema. La voce dei consumatori e delle comunità locali, inoltre, riflettendo anche le loropreferenze morali, apre il processo deliberativo nel governo di impresa ad una visione più generalee imparziale degli interessi di tutti gli stakeholder.

19 . Tattica e strategia. E’ quindi chiaro che la nostra proposta non solo non contraddice, maneppure esclude che sia opportuna in prospettiva strategica, una revisione del concetto di interesse

sociale in chiave di bilanciamento degli interessi di tutti gli stakeholder e, dunque, della necessitàdel superamento del paradigma dello shareholder value quale parametro di misurazione dell’azionedegli amministratori e di valutazione della loro responsabilità. Proposta di revisione che, tuttavia,richiederebbe una riforma a livello legislativo di alcune delle norme base del diritto societario, e,soprattutto, aprirebbe il fronte di un’aspra discussione che potrebbe rivelarsi puramente ideologica ein definitiva paralizzante. La nostra proposta consente un avanzamento in termini di stakeholder

empowerment che non si scontra con i principi fondamentali dell’ordinamento attualmente vigentee, quindi, costituisce una soluzione in chiave tattica più attraente pur non escludendo la prospettivastrategica più ampia di cui sopra.

2 0 . In conclusione, seppur considerando forme di rappresentanza differenziata, tendiamo apromuovere il valore della “uguale cittadinanza” anche nel campo del governo di impresa, ove tuttigli stakeholder (non solo imprenditori, manager, e azionisti, ma lavoratori, consumatori e comunitàportatrici di interessi ambientali) siano considerati d’ora in poi, in quanto soggetti autonomi,“sempre anche come fini, e mai come meri mezzi” (Kant).

La proposta in sintesi: consigli del lavoro e di cittadinanza nell’impresa

21. In generale, si propone l’introduzione di forme organizzative che consentano ai lavoratori e aglialtri stakeholder dell’impresa di incidere sul governo dell’impresa, anche attraverso una loropartecipazione alla gestione, sia in organi di partecipazione e cogestione di base sia conrappresentanze a livello degli organi di governo societario. Oltre a ciò andranno studiate lediscipline che possano favorire al massimo la cooperazione e la collaborazione tra tutti glistakeholder sia nelle sedi istituzionali, come le eventuali Autorità di controllo competenti e,ovviamente, gli enti territoriali, sia cercando di creare, nel rispetto delle autonomie collettive,appositi luoghi di possibile confronto.

22 . Organo amministrativo. Esistono in proposito varie forme possibili, molte delle quali giàsperimentate in diversi ordinamenti europei e previste anche nel diritto dell’Unione. Una primaforma di partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese è quella della partecipazione direttaattraverso la nomina di rappresentanti dei lavoratori nell’organo amministrativo delle imprese(board level employee representation – BLER). Questa soluzione, ben conosciuta in diversiordinamenti europei (primo fra tutti la Germania), senza un più ampio cambiamento normativo deldritto societario, si espone tuttavia a rischi di scarsa efficacia, a causa dell’esistente principio chevincola tutti gli amministratori al perseguimento di un unico interesse definito come “sociale” e

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sostanzialmente coincidente con l’interesse degli azionisti. Inoltre, il problema dell’esposizione deirappresentanti dei lavoratori al regime di responsabilità degli amministratori genera il concretorischio di un appiattimento dei medesimi su posizioni di minor rischio nella prospettiva degliazionisti. Ciò non implica che si debba allo stato rinunciare a questa forma di partecipazione che èin fondo, per molti aspetti, la meno complicata da realizzare. Implica solo che questa non può esserel’unica forma di partecipazione e, soprattutto, implica la consapevolezza della necessità diaccompagnarla e sostenerla con opportuni sostegni e appropriati accorgimenti. Resta in ogni casoben aperta la possibilità di definire altre forme di partecipazione dei lavoratori e degli altristakeholder a livello societario, mediante rappresentanti (nel caso dei lavoratori) che partecipino aiconsigli di amministrazione con funzioni e diritti non sovrapponibili ai membri ordinari, oppurepartecipino (nel caso degli stakeholder esterni) a organi consultivi del CdA.

23. I consigli del lavoro…. La forma principale di partecipazione alla quale si propone di far ricorso(anch’essa già ampiamente sperimentata fuori dall’Italia, sia a livello UE, sia in singoliordinamenti), è quella dei Consigli del Lavoro (works council). Si tratterebbe di organismi dirappresentanza istituzionalizzata dei lavoratori, al di fuori dell’organo amministrativo, e dunquesottratti sia al vincolo al perseguimento dell’interesse sociale (come attualmente inteso), sia alregime di responsabilità degli amministratori, ma nondimeno intesi come parte della governancedell’impresa per i poteri e dei diritti di varia natura (informazione, consultazione, espressionevincolante di pareri, veto, co-decisione) che sono a loro attribuiti nel contesto del processodecisionale dell’impresa; e con un collegamento istituzionalizzato con l’organo amministrativo divertice tramite partecipazione a mezzo di uno o più rappresentanti alle riunioni del consiglio diamministrazione, in qualità di avente diritto di parola e proposta su tutte le materie di interessestrategico, ma di diritto di voto solo su determinati argomenti.

23. …e di cittadinanza nell’impresa. Rispetto alle esperienze europee la nostra proposta ha tuttaviaalcune peculiarità che non ritroviamo altrove: l’unificazione nel consiglio del lavoro di tutti ilavoratori che contribuiscono in modo rilevante alla creazione di valore da parte dell’impresa (o deldistretto produttivo) indipendentemente dalle forme contrattuali, e la “voce” data nel consiglio airappresentanti di altri stakeholder. Infatti la nostra proposta prevede l’estensione dei consigli anchea livello di distretto, di rete contrattuale e di catena di subfornitura e a rappresentai delle comunitàlocali su cui ricadono le conseguenze ambientali dell’attività di impresa, nonché, ove sia rilevante,di rappresentanza dei consumatori o degli utenti. In tal modo una denominazione più appropriatapotrebbe essere Consigli del Lavoro e di Cittadinanza nell’ impresa (CLC). Proprio questeforme differenziate di partecipazione, che mantengono la funzione di rappresentanza del punto divista dei lavoratori e degli stakeholder, faranno sì che una governance efficace dell’impresa possaidentificarsi solo col bilanciamento equo tra gli interessi dei lavoratori e degli stakeholder nonfinanziari e quelli degli azionisti, superando di fatto la dottrina dello shareholder value.

24. Strategia di attuazione. Benché la nostra proposta sia abbastanza definita, almeno per i casitipici (come si vedrà nelle pagine seguenti), i suoi contenuti e anche il suo grado di dettaglio nonpotranno essere indifferenti al metodo adottato per introdurla. In breve, crediamo che per introdurreforme di democrazia economica e di partecipazione degli stakeholder al governo di impresa sidebba “attaccare” al contempo “dall’alto e dal basso”, cioè rendere complementari la regolazionevia norme imperative generali con l’autoregolazione attraverso accordi tra le parti e sperimentazionianche a livello di singola impresa, che sfruttino lo spazio dell’autonomia privata. Una completadisciplina legislativa infatti non funzionerebbe. Troppe sono le sfaccettature del problema rispettoalle diverse forme e dimensioni d’impresa, troppo estesa sarebbe l’ignoranza dei dettagli da partedel legislatore. Né si può ignorare che nessuna forma di governance può essere adottata e di fattoattuata se i soggetti interessati non ne vedono le convenienze e quindi non la fanno propria

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attraverso l’esercizio della loro autonomia (sebbene il contesto creato da un nuovo quadronormativo possa cambiare il calcolo delle convenienze). D’altra parte, la pura volontarietà eautoregolazione unilaterale delle imprese non funzionerebbe (e non ha funzionato per la RSI). Visono ovviamente interessi in confitto, limiti della razionalità, nonché la possibilità di trarrebeneficio da comportamenti opportunistici di aggiramento delle regole, che ostacolerebbero ilriconoscimento dei benefici che l’impresa può trarre da un nuovo modello di governance. Inoltreanche i benefici di reputazione sociale e di cooperazione di lungo periodo possono essere incerti inun contesto in cui gli impegni restino vaghi, non verificabili e quindi poco credibili per glistakeholder. E, infine, anche quando tali impegni potessero essere assunti, attraversoun’autoregolazione esplicita, tuttavia esisterebbero sempre molteplici reputazioni possibili, alcunedelle quali opportunisticamente più convenienti della perfetta conformità alle regole autoassegnateper chi persegua uno scopo egoistico nell’impresa.

2 5 . Complementarità tra regolazione e autoregolazione. La complementarietà degli strumentiregolativi e autoregolativi promette di essere più efficace. Innanzitutto, occorre un fattore di innesco(trigger) o d’avvio di un processo: una norma generale imperativa, che stabilisca obblighi minimicirca la costituzione dei CLC e abbia una portata prescrittiva e, soprattutto, una forte valenzaprogrammatica. A partire da essa, si può dare spazio all’autoregolazione, non intesa comeunilaterale e discrezionale, ma come definizione di regolamenti attuativi attraverso l’accordo delleparti interessate. Si formerebbe perciò un comitato di rappresentanti delle parti sociali (imprenditorie sindacati) e delle organizzazioni nazionali più rappresentative dei consumatori e degli interessiambientali, con lo scopo di stabilire regolamenti nazionali attuativi per ciascuno degli articoli dilegge suddetti. Che sarebbe assistito da una commissione tecnica ammnistrativa indipendente,composta da esperti di nomina pubblica, la quale vigilerebbe sulla corrispondenza delle regoleattuative concordate con le norme di legge, e che potrebbe intervenire per stabilire regolamentiattuativi qualora le parti e le associazioni non arrivassero all’accordo.

26. Soft law. Tali regolamenti sarebbero i termini di riferimento per l’attuazione della norma in uncontesto di soft law. Costituirebbero cioè la regola di default, che si applica in assenza di unadiversa volontà. Le imprese normalmente modificherebbero i loro statuti prevedendo l’istituzionedegli organi di partecipazione democratica dei lavoratori e degli stakeholder secondo quantoprevisto dalla norma e dai regolamenti. Esse potrebbero tuttavia non aderire ai regolamenti (opt-out)dietro motivata giustificazione e adottando soluzioni alternative che diano non dimeno attuazionealla legge, qualora ritengano tale soluzione più adeguata alle caratteristiche dell’impresa. Lemodalità di attuazione adottate dalle imprese sarebbero oggetto di rendicontazione nel bilancio disostenibilità sociale e ambientale e in una apposita relazione approvata dal CdA e inviata allacommissione tecnico-amministrativa. In caso tale modalità di attuazione, diversa dai regolamentiapprovati nazionalmente, non sia ritenuta coerente con le finalità e i contenuti minimi obbligatoridella legge, la commissione richiederebbe di adottare correzioni e integrazioni delle normestatutarie, in modo da recepire più sostanzialmente il contenuto delle le norme sulla partecipazione.Se, come è verosimile, i regolamenti attuativi nazionali stabilissero termini differenziati nel tempoper l’adesione di categorie di imprese di diversa dimensione, nondimeno le imprese potrebberoesercitare la loro autonomia statutaria, decidendo di attuare anticipatamente (opt-in) le disposizionisulla partecipazione dei lavoratori e gli stakeholder. Assieme agli obblighi di rendicontazione iregolamenti possono assegnare ampio spazio al monitoraggio dal basso e alla verifica indipendentesvolta da enti di terza parte, creati su iniziativa volontaria di associazioni di cittadinanza attiva,sindacati, associazioni di imprese e soggetti professionali della certificazione – e organizzati inmodo da essere al riparo da conflitti di interesse - affidando a tali enti il compito di attestare laconformità e l’efficacia delle soluzioni adottate dalle imprese. Attestati che sarebbero altresì la baseper la verifica da parte della commissione indipendente.

27. Deliberazione. In sostanza, una scelta collettiva (la norma generale di indirizzo), basata su un ampio confronto e consenso tra soggetti politici, sociali ed economici, può costituire l’innesco per

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avviare un grande cantiere deliberativo a livello nazionale, locale e a livello di impresa sulla sperimentazione di nuove forme di democrazia economica. Vari risultati delle scienze cognitive e dell’economia comportamentale suggeriscono che la deliberazione imparziale ai vari livelli generi motivazioni e preferenze che possono integrare gli interessi talvolta miopi ed egoistici delle parti, e motivare l’adesione alla norma, stabilizzandone l’attuazione (così, piuttosto che sul “paternalismo libertario”, noi fidiamo sulla capacità di dare forma alle preferenze via deliberazione democratica).

28. I termini legali minimi necessari. Un’ipotesi di massima circa il contenuto della norma di leggesarebbe la seguente:

a) Definizione di partecipazione alla gestione dell’impresa: presso le imprese con più di xdipendenti, e su iniziativa di almeno y di questi, sono costituiti i consigli del lavoro e della

cittadinanza nell’impresa (CLC) con lo scopo di organizzare la partecipazione dei lavoratori edegli altri stakeholder non finanziari (consumatori e comunità locali sui cui ricadono gli impattiambientali ) al governo delle imprese, così da garantirne l’uguale considerazione e rispetto nellagestione dell’impresa, permettere che essi apportino il loro contributo informato alla presa delledecisioni strategiche o che hanno effetto sulle loro condizioni, fare in modo che la gestione torninel reciproco vantaggio e corrisponda all’accordo libero e volontario tra tutti gli stakeholder.

b) Nel CLC sono rappresentati i lavoratori dipendenti e gli altri lavoratori che operanoprevalentemente per l’impresa indipendentemente dal contratto di prestazione d’opera. Sonoinoltre rappresentati i lavoratori delle imprese della catena di subfornitura e del contratto a rete,qualora ricorrano certe condizioni (da definire).

c) Il CLC ha il compito di nominare uno o più membri del CdA avente certi poteri (consultazione edecisione su certe materie in analogia con i poteri del CLC ).

d) Il CLC deve esser e informato e consultato su ogni tipologia di materia strategica e ha potere dicogestione (cioè il suo consenso deve essere obbligatoriamente ottenuto pena la nullità delladecisione dell’organo di gestione) su certe altre materie di interesse immediato dei lavoratori (lematerie sono da definire e precisate con elenchi via regolamenti attuativi).

e) Il CdA di imprese che abbiano un numero di dipendenti sopra la soglia x (medie imprese)stabilisce quali sono gli stakeholder e istituisce una commissione del CdA il cui scopo è laconsultazione dei rappresentanti di detti stakeholder attraverso le loro associazioni piùrappresentative.

f) Per imprese di dimensione superiore a una certa soglia x di dipendenti (medie imprese) il CLC,nella forma ristretta costituita dalle rappresentanze dei lavoratori, identifica categorie distakeholder esterni che vengono rappresentati nel CLC stesso. Si può inoltre prevedere che essooperi in due composizioni diverse, una ristretta ai soli lavoratori, e una allargata a tutti glistakeholder in relazione alle diverse materie trattate, e ai diversi diritti e poteri esercitati.Quando il CLC venga aperto a rappresentanze delle comunità locali per dare voce agli interessiambientali, le comunità locali esprimono i propri rappresentati mediate elezioni diretteorganizzate dalle locali Camere di commercio in collaborazione con gli enti locali territoriali.Alternativamente i rappresentanti dei consumatori sono nominati da assemblee delleassociazioni più rappresentative organizzate allo scopo di esprimere detti rappresentanti.

g) L’impresa ospita e offre supporto organizzativo per l’elezione e il funzionamento del CLC, epermette ai lavoratori eletti quali rappresentanti di riunirsi in orario di lavoro secondo iregolamenti approvati. Essa rispetta l’indipendenza della rappresentanza dei lavoratori nel CLCe di conseguenza né gli azionisti, né gli amministratori, né la direzione aziendale cercano di

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influire sulle elezioni dei rappresentanti nel CLC, ed evitando perciò di sostenere singolecandidature o liste mediante la formazione di associazioni di comodo. I lavoratori, presentanoliberamente la propria candidatura sostenuta da un numero minimo di firme di altri lavoratoriaventi diritto di voto. Le associazioni sindacali più rappresentative tra i lavoratori possonopresentare liste di candidati.

h) Su iniziativa di un numero minimo di lavoratori operanti presso un gruppo di imprese dipiccola/media dimensione (grandezze da specificare nei regolamenti) viene costituito un CLCterritoriale o distrettuale; l’organizzazione dell’elezione e dell’attività del CLC è garantita dallalocale Camera di commercio. Tali CLC distrettuali vengono eletti dai lavoratori operanti nelleimprese del distretto aventi qualsiasi contratto; nel CLC vengono eletti i rappresentanti dellecomunità locali aventi interessi di natura ambientale mediante procedure di consultazione direttadei residenti nella comunità locale di riferimento del distretto.

i) Norme sulla procedura di attuazione (rinvio a quanto descritto ai punti 24-26 ).

La parte successiva del documento offre una descrizione più dettagliata di come le linee generalisopra esposte potranno essere interpretate e applicate, e costituisce suggerimento per l’attivitàlegislativa, di autoregolamentazione e sperimentazione, che sarà basata sul dialogo tra le partiinteressate.

Articolazione in dettaglio della proposta.

29. Funzione. Il CLC è un istituto che, attraverso l’esercizio di vari diritti e poteri (previsti dallalegge), consente ai lavoratori di partecipare alla gestione dell’impresa; tali poteri sono vincolanti perun’ ampia classe di decisioni dell’impresa, prese in ultima istanza dall’imprenditore, consiglio diamministrazione, dall’amministratore delegato o dal vertice manageriale, nel senso che per esservalide tali decisioni devono seguire un processo di consultazione ed espressione del parere cheprevede, secondo una procedura disciplinata, il coinvolgimento attivo del CLC. Per alcunematerie, inoltre, le suddette decisioni non possono esser prese, e meno che mai poste in essere, inassenza di consenso (accettazione o accordo) vincolante ed espressamente formulato dal CLC - checosì, oltre che un generale diritto informazione, discussione e proposta, su certe materie ha unpotere di co-gestione legalmente fatto valere.

30. Diversa natura rispetto alla rappresentanza sindacale. La suddetta caratterizzazione evidenziache non si tratta di un canale di rappresentanza sindacale, sebbene i sindacati dei lavoratori, comelibere associazioni di rappresentanza, possano svolgere naturalmente la loro attività ancheall’interno del CLC, candidando propri esponenti all’elezione nel consiglio, svolgendo audizioni didirigenti ed esperti sindacali da parte del CLC etc. La distinzione non consiste nel fatto che il CLCè eletto da tutti i lavoratori di una data impresa e non dai soli aderenti ai sindacati (questo è veroanche per le RSU). La distinzione è nella natura, funzione, poteri e diritti esercitati da CLC e daisindacati rispettivamente. Mentre i sindacati conservano la loro autonomia dall’impresa (qualesoggetto associativo di rappresentanza di un interesse legittimo, formalmente indipendentedall’impresa), il CLC fa parte del perimetro degli istituti di governo dell’impresa – cioèdell’impresa come istituzione. Il CLC, essendo istituito come un organo che partecipa allagovernance dell’impresa, ha perciò poteri e diritti di partecipazione ai processi decisionali che isindacati non possono esercitare direttamente. Al contempo il CLC non ha diritti di iniziativa erappresentanza sindacale, volti alla conclusione di contratti collettivi di lavoro a livello nazionale,territoriale o aziendale, né d’intraprendere le relative forme di azione collettiva (inclusa l’indizionedi scioperi ecc.). Alcune materie, quale la negoziazione dei salari e delle remunerazioni (cosa

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diversa dalla decisione di impresa se pagare in un dato momento e in quale misura, una partevariabile del salario commisurata ai risultati di gestione) possono essere considerate riservate allacompetenza sindacale. Inoltre l’ovvia esistenza di aree tematiche di comune interesse per i sindacatied i CLC – ad esempio l’organizzazione del lavoro o le conseguenze delle innovazioni sui livellioccupazionali - non implica che le competenze si sovrappongano e vi sia confusione dei ruoli.Infatti le finalità di rappresentanza degli interessi, i diritti e le modalità di azione dei sindacati (inciò che eccede la partecipazione con propri candidati al CLC) possono essere distinte nettamentedalla funzione, i diritti, i poteri e le attività esercitate dai CLC, rispondendo a finalità diverse eavendo significato in fasi differenti del più complessivo processo con cui i lavoratori interagisconocon l’imprenditore e nell’impresa alla luce dei propri interessi legittimi – ad esempio distinguendola fase della consultazione, espressione di proposte ed esercizio di poteri di cogestione(appartenente al CLC) da quella della contrattazione e dell’azione collettiva sindacale non solosulle materie dei contratti aziendali o nazionali, ma anche in caso di non rispetto da partedell’imprenditore delle procedure di partecipazione alla gestione.

31. Collocazione. Nel caso tipico il CLC è collocato a livello della singola impresa, e ne riguarda ilsistema di governo interno. La soglia comune in vari paesi, oltre la quale vi è l’obbligo di creazionedel CLC nell’impresa, qualora richiesto dai lavoratori, è 5 lavoratori dipendenti. Ciò significa chemolte piccole imprese potrebbero avere un CLC (con 5 dipendenti di norma vi potrebbe essere unsolo rappresentante). Tuttavia, specialmente per dare rappresentanza anche ai lavoratori di piccole opiccolissime impresa in organismi che abbiano la possibilità d’influire effettivamente sulle decisioniche hanno presa sulle loro condizioni, si possono immaginare le seguenti varianti nella collocazionedei consigli:

(i) per coinvolgere anche i lavoratori di piccole imprese collocate in distretti, il CLC può esserecollocato a livello distrettuale (inteso il distretto come fenomeno economico ma anche come entitàgiuridica) e sostenuto organizzativamente dalla locale Camera di commercio;

(ii) per coinvolgere i lavoratori di imprese che fanno parte di contratti di rete, il CLC può esserecollocato a livello di rete, ma sostenuto organizzativamente dall’impresa che costituisce il nodoprincipale della rete;

(iii) per coinvolgere i lavoratori delle imprese che fanno parte di un sistema di subfornitura intornoad una impresa di medie o (più spesso) grandi dimensioni (es. catena del lusso, automotive, ecc.), lacollocazione può essere a livello del sistema di subfornitura, e sostenuto organizzativamentedall’impresa che costituisce il principale contraente con la supply chain rilevante.

3 2 . segue. Nel caso in cui la dimensione territoriale e reticolare abbia maggiore importanzaeconomica che quella delle singole imprese, essendo queste in prevalenza piccole o medie impreseconnesse in modo essenziale nella forma di cooperazione fiduciaria tipica del distretto, si puòpensare che il CLC abbia essenzialmente natura territoriale e trovi supporto e ospitalità nella localeCamera di commercio. Per un’ impresa di medio/grandi dimensioni la collocazione tipica del CLC èinvece a livello dell’impresa stessa. Ciò tuttavia non significa che quello stesso consiglio non possaanche essere esteso a livello di rete o di sistema di subfornitura (supply chain). Se l’impresa inquestione è il principale contraente di una catena di subfornitura ad essa idiosincraticamentecollegata, oppure se l’impresa in questione è il nodo principale di una rete contrattuale, su cui essaesercita un’influenza prevalente rispetto agli altri partecipanti, allora quel CLC, benché abbiacollocazione a livello di impresa, dovrebbe essere anche il consiglio cui partecipano i rappresentantidei lavoratori collocati nella catena di subfornitura e nelle imprese legate da contratti a rete. Per leimprese di minori dimensioni – prive di CLC –, che facciano parte del sistema di subfornitura o delcontratto a rete con una impresa principale contraente, i lavoratori possono esprimere

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congiuntamente (a seguito di un’assemblea) uno o più rappresentanti nel CLC dell’impresamaggiore.

33 . Composizione. Nel caso tipico (ad esempio una impresa di medie dimensioni) il CLC ècomposto da rappresentanti di diverse categorie di soggetti ed è quindi un organo di partecipazionetipicamente multi-stakeholder. Sono infatti membri del CLC dell’impresa non solo i rappresentantidei lavoratori dipendenti dell’impresa (nella duplice composizione dei lavoratori con contratto atempo indeterminato e a tempo determinato), ma anche di tutte le altre categorie di lavoratori legatida contratti di prestazione d’opera con l’impresa (ad es. lavoro autonomo o parasubordinato,collaborazioni coordinate e continuative). Ciò che conta è che questi contratti configurino unarelazione di collaborazione che dura nel tempo, da cui dipende essenzialmente il successo e ilbenefico derivante dall’investimento di capitale umano da parte del lavoratore, e -anche se inapparenza senza relazione di subordinazione o organizzazione gerarchica del lavoro- in effetti vi èun’asimmetria di forza o potere tra le parti (rapporti che durano nel tempo con un singolo datore dilavoro che di fatto decide su ciò che i contratti non dicono). Inoltre, sono membri del CLCdell’impresa rappresentanti dei lavoratori operanti (secondo lo stesso criterio ora affermato) nelleimprese inserite nella catena di sub-fornitura dell’impresa principale o in un contratto a rete chelega molteplici piccole imprese con un’impresa principale. Qualora l’impresa superi una certasoglia dimensionale (superiore alla minima richiesta per la sua costituzione, di norma quindi inimprese di media o grande dimensione), sono infine rappresentati nel CLC dell’impresa irappresentanti di stakeholder esterni, cioè dei consumatori o utenti di servizi, e delle comunità localicircostanti agli impianti o alle sedi dell’impresa su cui ne ricadono gli impatti ambientali.

34. Bilanciamento tra le componenti. Benché la composizione bilanciata del CLC nelle diversecomponenti debba essere studiata dettagliatamente, e possa essere adattata dai regolamenti interni,tuttavia alcuni principi generali devono essere stabiliti, quali che le rappresentanze degli stakeholderesterni non esprimano la maggioranza dei membri, e che la maggioranza dei rappresentanti debbaessere costituita dai rappresentanti dei lavoratori interni all’impresa (senza distinzione di tipologiacontrattuale). Si può inoltre prevedere circa l’esercizio dei diritti e dei poteri, che i rappresentantidegli “stakeholder esterni” partecipino a pieno titolo a tutti i processi di consultazione del CLC daparte dell’impresa, ma che il CLC decida in composizione ristretta ai soli rappresentanti di tutti ilavoratori sulle materie per le quali ha potere di veto circa (materie che di norma riguardano lecondizioni immediate di vita dei lavoratori).

35. Elettorato attivo, membri “interni” all’impresa. I membri “interni” del CLC (pari a una quotamaggioritaria dei consiglieri) sono eletti da tutti i lavoratori di una data impresa indipendentementedalla forma contrattuale adottata dall’imprenditore per avvalersi in modo continuativo della lorocollaborazione. All’elezione di rappresentanti saranno perciò ammessi con ugual diritto di voto(una testa un voto) i lavoratori con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempodeterminato, gli “autonomi” o i parasubordinati che lavorano stabilmente per l’impresa. In generalequesti lavoratori hanno un rapporto continuativo e “idiosincratico” con l’impresa, a prescinderedalla forma contrattuale. In tal modo i consigli danno rappresentanza ai vari lavori che si svolgonoall’interno della stessa impresa e talvolta a lavoratori che svolgono gli stessi lavori, anche se condiverse forme contrattuali, ma che partecipano tutti in modo essenziale alla creazione di valore.Rientrano certamente in questo ambito i lavoratori apparentemente “autonomi” (ad es. i c.d.“riders”) legati a imprese via piattaforme digitali.

36. Elettorato attivo: membri “esterni” all’impresa. Tutti i lavoratori (definiti come nei puntiprecedenti) operanti nelle imprese inserite entro una catena di fornitura o un contratto a rete con

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un’impresa principale eleggono i loro rappresentanti nel CLC dell’impresa suddetta (per una quotaminoritaria) – anche se contrattualmente essi sono legati a imprese (di norma piccole imprese)fornitrici dell’impresa maggiore. La partecipazione all’elezione dei rappresentanti avviene secondoil principio “una testa un voto”, separatamente nelle singole imprese, oppure, secondo ladimensione delle imprese, in comune tra i lavoratori operanti in imprese diverse su candidati che lirappresentano congiuntamente. Nel caso l’elezione dei candidati sia in comune tra lavoratori diimprese diverse, i lavoratori si riuniscono in apposite assemblee comuni prima del voto. Qualora leimprese fornitrici o legate da contratti a rete siano situate in prossimità dell’impresa maggiore,l’elezione di rappresentanti dei lavoratori esterni è organizzata dall’impresa come per i lavoratoriinterni; in caso contrario l’organizzazione del voto è sostenuta organizzativamente dalla maggioredelle imprese decentrate o dalle locali Camere di commercio.

37. Comunità locali, consumatori e utenti. All’elezione del CLC partecipano inoltre (sempre peruna quota minoritaria dei consiglieri) gli stakeholder non finanziari dell’impresa, in particolare iconsumatori e i cittadini delle comunità in cui opera l’impresa o la sua catena di subfornitura e sucui ricadono gli effetti esterni ambientali dell’attività dell’impresa. I rappresentanti di talistakeholder sono previsti solo nei CLC di imprese le cui dimensioni siano superiori a una certasoglia, in modo da configurare un effettivo impatto sugli interessi dei consumatori e sull’ambiente.A tale proposito si possono valutare diverse soluzioni: che sia il CLC nella composizione derivantedalla sola rappresentanza dei lavoratori a identificare la lista degli stakeholder esterni che devonoessere rappresentati, oppure che secondo i settori e le dimensioni dell’impresa siano regolamentinazionali (vedi punti 25-26) a stabilire quando e quali stakeholder esterni debbano esserenecessariamente rappresentati (ad esempio nel caso di produzioni industriali con netto potenzialeinquinante sembra ragionevole richiedere obbligatoriamente la presenza di rappresentanti dellacomunità locale con interessi ambientali).

3 8 . Segue. Laddove possibile, ad esempio quando si tratti di comunità locali identificabiligeograficamente, la partecipazione dovrebbe avvenire attraverso l’elezione diretta deirappresentanti della comunità, a seguito di forme di democrazia deliberativa, ad esempio assembleeed elezioni dirette che possono avere luogo in ambiti territoriali definiti ed effettivamenteinfluenzati dalla presenza dell’impresa. Le locali Camere di commercio e i comuni possono esseregli organizzatori di tali consultazioni. Analoga modalità può essere adottata nel caso di aziende diservizi che riforniscano un territorio determinato, in cui utenti possano quindi essere facilmenteidentificabili su base geografica. Nei casi in cui sia impossibile identificare una rappresentanzalocale (ad esempio il caso di consumatori disseminati ovunque) i rappresentanti dovrebbero essereeletti mendiate procedure di partecipazione (ad esempio assemblee e altre procedure diconsultazione tra i soci) concordate tra le associazioni maggiormente rappresentative dei suddettistakeholder.

39. Elettorato passivo. Sono eleggibili nel CLC lavoratori che prestano opera per l’impresa,indipendentemente dalle tipologie di contratto, nonché lavoratori che prestano opera,indipendentemente dalla forma contrattuale, per imprese che fanno parte della rete o della catena difornitura dell’impresa sede del CLC. Fatto salvo il criterio della parità di genere, i regolamentiinterni possono prevedere quote riservate a categorie di lavoratori svantaggiati (cioè meno garantitidalla forma contrattuale). Le candidature per il CLC di imprese di dimensioni medie e grandidevono essere presentate da un numero minimo di lavoratori e nel caso si tratti di candidaturepresentate da associazioni sindacali deve trattarsi dei sindacati più rappresentativi a livelloterritoriale e aziendale (circa il rischio di associazioni create dalla direzione aziendale odall’imprenditore per influenzare la composizione del CLC si veda la sezione 4). I sindacatipossono (devono?) presentare liste di candidati che coprono la rappresentanza di categorie diverse

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di lavoratori interni ed esterni. I candidati sindacali all’elezione nel consiglio possono esserelavoratori dell’impresa o esterni come prima definiti, ma anche (per una quota stabilita minoritaria)esponenti sindacali ed esperti di materie sindacali e d’impresa, non legati da contratti di lavoro econsulenza di nessun tipo con l’impresa.

40. Numero dei membri. Il numero dei membri del CLC potrà variare in base alla numerosità deilavoratori aventi elettorato attivo - seguendo il criterio dell’indifferenza della tipologia di contratto(più appropriato rispetto a ciò che accade in altri paesi europei, che prendono a riferimento solo ilnumero di lavoratori dipendenti) al settore e all’organizzazione dell’impresa, nonché alla suainterna differenziazione. Quello che segue è solo un esempio, senz’altra pretesa che darne unarappresentazione concreta

1 rappresentante da 5 a 10 occupati

3 rappresentanti da 11 a 100

5 rappresentanti da 101 a 300

7 rappresentanti da 301 a 700

9 rappresentanti da 701 a 1200

(da 1200 a 10000: 1 rappresentante aggiuntivo ogni 1000 lavoratori

da 10001 in poi: 1 rappresentate aggiuntivo ogni 2000 lavoratori)

41. Poteri dei CLC. I diritti e poteri del consiglio possono essere strutturati secondo i modelliofferti dalle esperienze dei works council (WC) di altri paesi europei, ad es. Olanda e Germania quidi seguito considerate.

42. Il modello olandese prevede che i poteri del WC siano organizzati in due ambiti: i) diritti diinformazione e consultazione, con possibilità di esprimere pareri che devono essere presi inconsiderazione dagli organi amministrativi prima di prendere le decisioni, ed essere accettati origettati in modo argomentato dagli stessi, secondo una tempistica stabilita che permetta lecontrodeduzioni del WC in un modello di dialogo istituzionale interno; ii) diritti e poteri diespressione del consenso vincolante sulle decisioni dell’impresa circa un sottoinsieme di materiesulle quali l’imprenditore o l’organo di gestione non può procedere in mancanza dell’accettazioneda parte del WC, cioè le decisioni dell’impresa non sono valide (questi sono veri e propri poteri dico-decisione e di veto da parte del WC). Conseguentemente materie decisionali sono così ripartite:

i) Informazione e consultazione su eventi specifici: la direzione aziendale ha l’obbligo diinformare per tempo e organizzare riunioni di consultazione con il WC, alle quali hannoobbligo di partecipare l’amministratore delegato o suoi rappresentanti nell’ambito delladirezione aziendale, dando poi tempo sufficiente affinché il WC esprima pareri e propostedi modifica, per decisioni da assumere da parte dell’organo amministrativo, il consiglieredelegato o la direzione aziendale sulle seguenti materie: a) trasferimento del controllosull’impresa o parti di essa; b) acquisizione del controllo di altre imprese, c) entrata inrelazioni di collaborazione di lungo periodo con altre imprese, incluse partecipazionifinanziarie in altre imprese o da parte di altre imprese; c) chiusura di attività dell’impresa odi significative parti di essa; d) ogni significativa riduzione, espansione o cambiamento dell’attività dell’impresa; e) maggiori cambiamenti nell’organizzazione o nella distribuzione dipoteri all’interno dell’impresa; f) ogni cambiamento dell’ubicazione territoriale delleoperazioni dell’impresa; g) piani di assunzione di lavoratori a tempo determinato o

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indeterminato, con contratto di lavoro parasubordinato o di “affitto” di gruppi di lavoratoriinterinali ecc.; h) investimenti finanziari a favore dell’impresa; i) assunzione di debito; l)offerta di credito ad altre imprese, a men che si tratti di operazioni abituali nella conduzionedell’attività dell’impresa; m) Introduzione di innovazioni tecnologiche e sostituzione ditecnologie precedentemente in uso; n) pianificazione di cambiamenti nell’organizzazionedel lavoro a seguito dell’introduzione delle innovazioni tecnologiche; o) misure riguardantil’uso di risorse naturali e fonti di energia, e la gestione dell’ambiente naturale nonché gliimpatti ambientali delle attività dell’impresa; p) elaborazione e approvazione del bilanciosociale e ambientale o di sostenibilità; q) assunzione di esperti e consulenti al fine diacquisire pareri su qualsiasi dei temi sopra riferiti.

ii) Consultazione periodica: obbligo dell’impresa di consultare il WC sulla gestione strategica,sui risultati economici e finanziari e sui piani di sviluppo con una periodicità fissa (es. 2volte all’anno).

Nel caso olandese l’imprenditore può rigettare i pareri e le richieste di emendamento del work

council in modo argomentato, e prima che la decisione si attuata il comitato ha tempo di ricorrere aduna autorità giudiziaria specializzata, per chiedere che la decisone dell’impresa non sia attuata. InItalia pare difficile immaginare l’intervento dell’autorità giudiziaria per modificare gli esiti delprocesso di consultazione. Ma occorre nondimeno prevedere modalità che non rendano laconsultazione mero cheap talk. Si può immaginare una riformulazione a tale proposito del ruolodelle Camere abitarli, con l’immissione di nuove competenze per gli arbitratori.

iii) Richiesta da parte della direzione dell’impresa del consenso o accettazione esplicita da

parte del WC, a seguito del processo di consultazione analogo al precedente, su proposte diregolamento circa le seguenti materie: a) schemi pensionistici integrativi, schemi di profit-sharing, schemi di remunerazione integrativa basata sul risultato, programmi di risparmio;b) remunerazioni e sistemi di valutazione; c) condizioni di lavoro conseguenti aprogrammi di riorganizzazione del lavoro, d) politiche di assunzione, licenziamentopromozione; e) formazione del personale; f) attività di volontariato e lavori socialmente utiliofferti dai lavoratori e sostenuti dall’azienda, g) programmi di welfare aziendale, h) attivitàdi monitoraggio e controllo dei lavoratori e della performance e rispetto della privacy; i)codici etici dell’impresa e regole di comportamento dei lavoratori; f) canali di speak up

interni all’impresa in materia di violazioni dei codici e delle regole di co,.

Su queste materie in Olanda l’imprenditore sottomette la richiesta di consenso al WC presentando leragioni della decisione. La risposta viene dopo un meeting di consultazione. Se la propostadell’imprenditore non è accettata e sottoscritta dal consiglio, in Olanda l’imprenditore può farericorso al giudice per fargli dichiarare l’irragionevolezza del veto del work council. È interessantenotare che il giudice può rovesciare decisioni dell’imprenditore per palese “unfairness” e quelle delCouncil per “irragionevolezza”: entrambi criteri della democrazia deliberativa. Anche in Italiaoccorrerà stabilire per queste decisioni un’autorità giudiziaria cui il CLC possa fare ricorso per fardichiarare nulla la decisione in caso in cui l’impresa proceda nonostante il mancato consenso.

iv) Ulteriori diritti e poteri: al WC è assegnato il compito di operare come un organo voltoall’osservanza della legalità nelle materie di diritto del lavoro, lotta contro lediscriminazioni, tutela ambientale e prevenzione della corruzione; inoltre Il WC è invitato aesprimere parere sulla nomina di ogni membro del consiglio di amministrazione.

v) Doveri di informazione da parte dell’imprenditore in vista della consultazione periodicacol consiglio sulle seguenti materie: natura e forma giuridica dell’impresa e suemodificazione; membri del consiglio di amministrazione e degli organi di gestione; se

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l’impresa fa parte di un gruppo, informazioni sulla natura e struttura del gruppo (anche seinternazionale); relazioni di lungo periodo tra l’impresa e altri soggetti che sono importantiper la continuazione dell’impresa, incluse elazioni contrattuali e partnership internazionali;organizzazione dell’impresa, assetto del management e distribuzione dei poteri al suointerno; informazioni sulla pianificazione di lungo periodo, bilancio di previsione e budget;i dati per la elaborazione del bilancio di sostenibilità (sociale e ambientale); numero equalifiche delle persone che lavorano per l’impresa nelle diverse funzioni e formecontrattuali; le politiche tenute in materia di personale nel corso del periodo precedete;tutti i contratti di lavoro collettivi e individuali sottoscritti nel corso dell’anno. Schemi diremunerazione concordati per il management e i membri degli organi di gestione;comparazione tra gli schemi di remunerazione degli amministratori e del management equelli per i vari livelli degli occupati dell’impresa.

4 3 . Il modello tedesco, che pure può esser adottato, prevede una maggiore articolazione egraduazione dei diritti e poteri del WC, secondo il seguente schema: a) diritto di informazione; b)diritto di ispezionare la documentazione; c) diritto di supervisione (riguardante la verificadell’osservanza da parte dell’impeditore di norme sul lavoro, la sicurezza, i contratti di lavoro e gliaccordi); d) diritto di esprimere raccomandazioni su azioni relative ai benefici da offrire aicollaboratori; e) diritto di consultazione (ad es. prima di ogni decisone circa licenziamentiindividuali e collettivi, che implica la nullità di licenziamenti di cui non sia stata data tempestivanotizia, ovvero in materia di nuove assunzioni); f) diritto di esprimere pareri ( su ogni materiariguardante la gestione del personale); g) diritto di opposizione (ad es. in materia di licenziamenti);h) diritto di veto e co-decisione ( ad es. su tutti i provvedimenti in materia di gestione del personaleche possano portare pregiudizio alle condizioni di lavoro o portare al licenziamento di lavoratori i)diritto di negoziazione su tutte le materie rilevanti di gestione del condizioni di lavoro e ditrattamento dei lavoratori, inclusi orari , bonus, regole di comportamento e forme di monitoraggio,sicurezza e salute, piani di welfare aziendale, e remunerazione variabile in base al risultato (NB:queste materie in effetti configurano un diritto di concludere contratti di lavoro da parte del WC chesostituirebbero il ruolo del sindacato nel firmare accordi aziendali e che non si applicano all’Italia);l) potere di dare o negare il consenso con valore vincolante sulle materie relative ai cambiamentiorganizzativi e strutturali dell’impresa con effetto sull’organizzazione del lavoro e l’occupazione:riduzione e/o chiusura di rami di attività, trasferimento delle attività, fusioni con altre imprese,cambi dell’organizzazione del lavoro, introduzione di nuovi metodi di lavoro a seguitodell’adozione di nuove tecnologie, innovazioni di prodotto o processo.

Su tutte le materie in cui esiste un potere di co-decisione come in Germania, qualora permanga undisaccordo tra consiglio e imprenditore, si ricorre alla mediazione di terza parte di un organopubblico. Resta da vedere a chi debba essere attribuita questa funzione in Italia.

44. Materie e diritti/poteri. Alla luce delle esperienze europee, si può ipotizzare di organizzare lematerie su cui il CLC è chiamato (a vario titolo ) ad intervenire in tre categorie: (A) Materie dicarattere generale in cui le scelte dell’ impresa possono incedere su tutti gli stakeholder, ovvero ladefinizione di piani strategici di medio e lungo periodo, oppure interventi straordinari checomportano rilevanti modifiche degli assets aziendali e della composizione della compaginesocietaria (fusioni e acquisizioni) , le alleanze di tipo strategico o le modalità di gestione, nonché leprincipali decisioni di rilevanza strategica (qualità dei prodotti o servizi, investimenti finanziaririlevanti in altri settori o imprese, apertura di nuovi rami di attività, investimenti in ricerca e nuovetecnologie, ecc.), nonché la nomina dell’amministratore delegato e dei dirigenti apicali dell’impresae la distribuzione tra di essi dei poteri gestionali. (B) Materie di natura gestionale che hanno effettoprevedibile e intenzionale sulle condizioni generali dei lavoratori, cioè programmi di

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riorganizzazione del lavoro anche a seguito di adozione di innovazioni organizzative e nuovetecnologie, scelte di localizzazione e delocalizzazione di impianti o sedi produttive, programmi disviluppo dell’occupazione, salute, welfare aziendale, ecc., politiche generali relative alleremunerazioni (ad esempio la politica sul massimo dovario ammissibile tra minimi e massimisalariali, management incluso, adottati dall’impresa). (C) Materie che più direttamente si riflettonosu posizioni individuali di gruppi identificabili di lavoratori (livelli occupazionali, assegnazione dimansioni in base a piani di organizzazione del lavoro, effetti diretti di delocalizzazionisull’occupazione, programmi di reimpiego o riqualificazione dei lavoratori, piani formativi,sicurezza sul lavoro, piani di remunerazione - specie nella parte variabile, bonus ecc., interventi diwelfare aziendale, definizione di piani pensionistici, avanzamenti di carriera , orari di lavoro, ecc.).

Rispetto a tali materie il CLC può esercitare tre tipi di diritti/poteri cui corrispondono doveri daparte della direzione aziendale: 1) diritto di informazione, cui corrisponde il dovere di offrire tuttal’informazione rilevante per una scelta in tempo utile (cioè in modo completo rispetto alla decisionee in tempo sufficientemente anticipato rispetto alle decisioni del CdA per dar modo di formare unorientamento ragionato ed eventualmente formulare una contro-proposta); 2) diritto/potere diessere consultato e di esprimere una proposta o contro-proposta e ricevere una risposta argomentatadalla direzione aziendale, cui corrisponde il dovere di seguire una procedura formale diconsultazione, sottomettere proposte e le informazioni rilevanti per la decisione e di attender iltempo dovuto per la controproposta, nonché rispondere in tempi stabiliti circa l’accettazione e menodelle controproposte; 3) diritto/potere di cogestione: cioè il diritto di esprimere consenso vincolantesu certe proposte di decisione e quindi, in sostanza, diritto di veto su certe decisioni a meno che sudi esse non si raggiunga l’accordo esplicito del CLC a seguito di un processo di consultazioneanalogo al caso (2), e di conseguenza il dovere per la direzione di sottomettere tali decisioni a unprocedura volta ad ottenere consenso esplicito, che non può essere un ultimatum, quindi il dovere dinon procedere con l’attuazione della scelta, né con altre decisioni che abbiano conseguenze per ilavoratori se non è stato acquisito consenso esplicito da parte del CLC. Data questa tripartizionesembra naturale che le materie di tipo A (strategie) e B (piani che prevedono conseguenze per lecondizioni dei lavoratori nel loro insieme) siano oggetto dei diritti di informazione e diconsultazione (1 e 2); ma che le materie che rientrano nella categoria C (scelte che riguardanodirettamente le condizioni di lavoro o il trattamento di gruppi identificabili di lavoratori) siano inaggiunta oggetto del diritto di cogestione (3: consenso vincolante e potere di veto).

45. Partecipazione a livello dell’organo di amministrazione dell’impresa. Il CLC nomina uno o piùrappresentanti che partecipano all’organo amministrativo avendo pieni diritti di ricevere ladocumentazione preparatoria, udizione, parola e proposta sull’insieme delle materie definite comeoggetti di diritti/potere di informazione e consultazione (di cui al punto 44) del CLC, e avendoinoltre diritto di voto sulle materie per le quali il CLC ha diritto di cogestione, cioè il cui il consensoè vincolate (di nuovo punto 44). Tali rappresentanti non sono di necessità membri del CLC, nédipendenti o collaboratori dell’impresa. Per questi rappresentanti, qualora non siano membri delCLC, possono essere richieste (dai regolamenti) qualifiche professionali e condizioni di onorabilitàanaloghe a quelle dei consiglieri ordinari nei CdA, benché i doveri cui soggiacciono tali membrispeciali del CdA sono definiti in modo distinto e sostanzialmente diverso rispetto a quelli deimembri ordinari del CdA (in particolare essi non sono vincolati dalla definizione di interesse socialené dai doveri di fedeltà e riservatezza dei membri ordinari). Qualora non siano membri del CLCdell’impresa, essi devono essere indipendenti professionalmente dall’impresa e dagli stakeholderfinanziari dell’impresa (e le loro ulteriori attività) per evitare condizioni di conflitto di interesse conil CLC che rappresentano. Il costo della loro prestazione quali membri speciali del CdA è coperto

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dall’impresa, che a tale proposito non potrà far ricorso a stock option o strumenti in cui laremunerazione dipenda da una misura del “valore per gli azionisti”.

46. Consultazione degli stakeholder a livello societario da parte degli organi di amministrazione.Le società per azioni devono costituire un comitato interno al CdA (oppure, là dove non ci fosseCdA, formato dall’amministratore unico più due dirigenti dipendenti) con i seguenti compitispecifici: 1) consultare il CLC dell’impresa due volte all’anno sulle materie di interesse generale edordinario, ed ogni vota che decisioni di natura straordinaria siano in programmazione o all’odg delCdA tali che sia dovuta la consultazione del CLC; 2) individuare gli stakeholder esterni specifici diquell’impresa (al di là ovviamente dei lavoratori), riconoscerne le modalità di rappresentanza, diincontrarne tutte le rappresentanze due volte l’anno, di tenere stabili contatti, di fare ogni anno unarelazione sull’attività svolta, di sottoporre alla valutazione degli stakeholder le decisioni nellematerie di loro interesse (lista da specificare in sede di regolamenti attuativi). A questo comitatopartecipano i rappresentanti del CLC nel CdA. In tal modo gli stakeholder esterni, anche se con unpotere diminuito rispetto ai rappresentanti dei lavoratori, possono concordare posizioni comuni nelCLC e quindi far valere la loro voce nella consultazione a livello societario. Anche le procedure diconsultazione degli stakeholder esterni a livello societario devono esser regolate in modo daprevedere informazioni complete in tempo utile per potersi formare un orientamento e aver modo diformulare una proposta, eventualmente alternativa, prima che le decisioni siano prese, e nondovrebbero perciò limitarsi all’ascolto di aspettative o richieste cui non segue un dovere di risposta,né tanto meno limitarsi a una rilevazione di gradimento a proposito di pratiche o decisioni già prese.

47. Costi di funzionamento. L’impresa sostiene i costi di funzionamento del CLC (per i lavoratoridi tutte le tipologie contrattuali), nel caso si tratti di una grande impresa cui afferiscono lavoratori dipiccole imprese inserite in una rete di subfornitura essa sostiene anche i costi della partecipazione diquesti lavoratori. Nel caso di un consiglio composto da lavoratori di sole piccole imprese avetedimensione distrettuale e territoriale il costo di funzionamento e il supporto organizzativo è offertodalla locale Camera di commercio.

I punti di forza della proposta

48. Oltre lo shareholder value. La proposta costituisce uno strumento che, senza implicare unariforma diretta e radicale del diritto societario attuale e della visione dell’impresa che lo sostiene (unvantaggio di per sé nel breve periodo), compie un passo concreto nella direzione del superamentodelle sue principali storture e in particolare della concezione dell’interesse sociale che lo identificanello shareholder value.

4 9 . Bilanciamento. Dal punto di vista specifico della corporate governance, i CLC possonocontribuire ad un governo più bilanciato dell’impresa che tenga conto di interessi diversi da quellidegli azionisti di controllo, senza soffrire i limiti di istituti come quello degli amministratoriindipendenti o della stessa BLER (responsabilità, riservatezza e limiti all’accountability, ecc.).

50. Multi-stakeholder. I CLC possono costituire uno strumento per canalizzare la partecipazione algoverno dell’impresa non solo dei lavoratori ma anche di altri stakeholder, e si presentano quindicome un tool istituzionale coerente con le prospettive multistakeholder che sono ormai al centro deldibattito a livello europeo e mondiale.

51. Unificazione del lavoro. I CLC consentono agevolmente di dare voce alle forme di lavoro chenon si identificano con il classico rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e che quindidifficilmente trovano ingresso nelle forme di rappresentanza del lavoro tradizionali (sindacati).

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Avendo veste istituzionale di organi di partecipazione alla gestione dell’impresa, la partecipazionealla cui elezione può esser vista come diritto/dovere del lavoratore sotto qualsiasi tipologiacontrattuale, ma la cui esistenza non dipende dall’adesione volontaria dei singoli lavoratori, lapartecipazione a questi organi può essere più difficilmente dissuasa, come avviene invece perl’adesione al sindacato, col ricatto della non stipula/rinnovo del contratto.

52. Visione strategica e poteri effettivi. I CLC costituiscono forme di rappresentanza dei lavoratoriche – anche grazie alla potenziale apertura ad altri stakeholder – non sono limitate a una logica dicontrapposizione contrattuale finalizzata a rivendicazioni di carattere salariale e su altri benefici(aspetti su cui è prevalente il ruolo del sindacato), bensì dotate di poteri effettivi di intervento nelprocesso decisionale dell’impresa, sui aspetti di natura strategica, inclusi poteri di cogestione e diveto legalmente riconosciuto sulle conseguenze delle strategie per le proposte relative ai trattamentidei lavoratoti (che ovviamente il sindacato non potrebbe esercitare).

53. Nuove tematiche. I CLC sono la sede appropriata per trattare temi nuovi su cui la contrattazionedi secondo livello per quanto prevista, non ha sempre presa efficace, e per influire sui quali occorrel’esercizio di un potere nella gestione. Ad esempio

Innovazione tecnologica digitale e AI e riorganizzazione del lavoro con conseguenti impattioccupazionali e sulle condizioni di lavoro, livelli di qualificazione ecc. , prevedibili in fase dipianificazione del tipo di innovazione tecnologia adottata (specialmente nell’impiego delleapplicazioni di IA che possono o meno essere volte a sostituire mansioni di lavoro esistentioppure a creare nuovo lavoro);

Welfare aziendale, strategie volte all’integrazione col welfare locale;

Controllo sui lavoratori attraverso nuove tecnologie digitali e rispetto della privacy;

Premi di produzione e parte variabile del salario collegata ai risultati dell’azienda, e inparticolare la decisione se e quando erogare tali premi in relazione alla valutazione da partedegli organi di governo dell’andamento dell’impresa.

Divari remunerativi all’interno dell’impresa: se non si ritiene che vadano regolati per legge,di certo dovrebbero essere oggetto di consultazione nell’impresa, il divario massimo /minimopotrebbe essere oggetto di potere di co-decisione (cioè l’aumento della remunerazionemassima porterebbe con sé anche quello delle remunerazioni minime).

54. “In tempo utile”. Su alcune delle suddette materie è prevista la contrattazione aziendale, maessa rischia di intervenire troppo tardi per essere effettivamente in grado di influire sulle decisionidell’impresa e sui termini che poi vengono ultimativamente proposti all’accordo (si pensi alleproposte di benefici di welfare aziendale, che richiedono l’accordo per aver accesso agli incentivifiscali, oppure alla parte variabile del salario). In questi casi il ruolo del CLC nella formazione delledecisioni aziendali che poi arriveranno alla fase della contrattazione aziendale, è complementare alpotere negoziale dei sindacati, poiché fa in modo che le proposte aziendali riflettano maggiormentel’interesse dei lavoratori, e realizza il principio per cui l’informazione su dette politiche debbaessere offerta “in tempo utile” affinché le rappresentanze dei lavoratori possano formulare proposteeventualmente alternative.

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Punti critici e possibili soluzioni

5 5 . Cosa accade se rimangono disaccordi? La proposta non avrebbe chiusura logica senzaprevedere come risolvere i confitti che possono persistere sia a seguito della procedura diconsultazione, qualora la direzione aziendale o l’organo amministrativo non accettino le proposte dimodifica da parte del CLC, sia - a maggior ragione - qualora la direzione aziendale procedanondimeno su un programma, sebbene non abbia ricevuto il consenso da parte del CLC nellematerie in cui l’ottenimento di tale consenso è obbligatorio. L’assenza di conseguenze in questi casirischierebbe di svuotare il significato della partecipazione. Possono essere immaginate soluzioniparzialmente distinte. Nel caso le controproposte del CLC non siano approvate o permanga undissenso, si può pensare di ricorrere a forme di mediazione di terza parte o di arbitrato (ad es.attraverso le camere arbitrali). L’opzione di non accordo, anche nel caso dell’arbitrato, deve peròessere considerata. Nel caso di decisioni su cui l’acquisizione del consenso sarebbe obbligatoria,tale opzione equivale alla nullità della decisione dell’imprenditore, o dell’organo amministrativo,prese in contrasto con le deliberazioni del CLC. Occorre perciò identificare l’autorità giudiziariadeputata a sancire la nullità della decisione dell’impresa, e le eventuali sanzioni, cui i rappresentantidel CLC possano appellarsi.

56. Rapporto di complementarità con il sindacato e la contrattazione di secondo livello. Questorapporto è certamente critico, poiché il CLC si occupa necessariamente di materie su cui anche isindacati hanno competenza, in particolare quelle della contrattazione di secondo livello. È possibiledunque che emerga la preoccupazione che un CLC efficace svuoti alcuni ambiti su cui i sindacatipotrebbero fare contrattazione. Secondo noi questa preoccupazione, pur legittima, sarebbe però malposta. La nostra visione è che occorra innanzitutto tenere piani separati, dal punto di vista del tipo didiritti, poteri e funzioni (contrattuale da una parte, contributo alla governance dall’altra), ma alcontempo riconoscere che nelle materie di sovrapposizione (che ovviamente ci sono) tali funzioni,poteri e diritti distinti, agendo in fasi e momenti separati, sarebbero complementari.

57. segue. Prima di tutto i sindacati sono le associazioni che possono candidare i propri aderentiall’elezione nel CLC ed è naturale attendersi che essi abbaino maggiore probabilità di essere eletti.È possibile anche limitare la presentazione di liste di candidati a sindacati che rappresentino unnumero minimo di lavoratori nell’impresa e nel territorio circostante, e che siano indipendenti dalladirezione aziendale. In ultima istanza questo sarebbe un punto di forza, perché i sindacatitrarrebbero legittimazione dall’avere i propri esponenti votati da tutti i lavoratori e non solo gliassociati (come già accade per le RSU). Secondariamente il rapporto col sindacato può esseregarantito dal fatto che una parte dei rappresentanti può essere costituito da esperti candidabiliverosimilmente dai sindacati, posto che debbano esser indipendenti dall’imprenditore. Espertisindacali possono inoltre essere ascoltati nel corso delle attività dal CLC.

58. segue. Il problema tuttavia resta per il fatto che su certe materie sono competenti tanto il CLCche il sindacato nella concentrazione decentrata. Bisogna allora evidenziare la differenziazione dellefunzioni, dei diritti e dei poteri. Si tratta in effetti di due strumenti istituzionalmente separati dirappresentanza degli interessi dei lavoratori, uno dentro il governo dell’impresa, l’altra comerappresentanza degli interessi dei lavoratori in quanto soggetto contrattuale indipendente, chestabilisce accordi con l’impresa, avendo perciò autonomia privata rispetto ad essa. Nelle aree disovrapposizione le due funzioni possono essere complementari: esse possono essere trattate in unalogica di partecipazione, ma possono prevedere anche l’azione sindacale rivendicativa.

59. segue. Tale complementarietà è duplice: nel caso di decisioni che hanno formazione inzialenegli organi dell’impresa, ma che di necessità devono arrivare al tavolo negoziale, in cui è previstoun ruolo contrattuale del sindacato (contrattazione di secondo livello), è chiaro che la partecipazione

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al CLC offre anche al sindacato informazione per svolgere meglio in seguito i propri compitinegoziali. Prima ancora però fa in modo che le proposte dell’impresa arrivino sul tavolo negozialedopo aver passato un processo di creazione del consenso con il CLC, rendendo così più facileconcludere accordi positivi per il sindacato ex post. È chiaro che è proprio sulle materie che nellanostra proposta sono oggetto di potere di co-determinazione da parte del consiglio - le qualiriguardano più da vicino le condizioni di lavoro dei singoli o di gruppi - che vi può essere unasovrapposizione con le materie d’interesse della contrattazione di secondo livello: ma questo esaltail valore della complementarietà. Significa, cioè, che certe proposte della direzione aziendale, chesarebbero molto conflittuali verso i lavoratori, e che aprirebbero una crisi delle relazioni sindacali,non potrebbero neppure arrivare legalmente al tavolo negoziale in qualità di proposte dell’impresa,perché sarebbero preventivamente fermate dalla mancanza di condivisione del CLC (con un poterelegale di veto impossibile da esercitabile dal sindacato). D’altra parte se nei processi di co-decisionenon si dovesse formare un consenso, se i pareri dei CLC dovessero essere ignorarti o si passassesopra la mancanza di consenso, anche laddove è dovuto, allora vi sarebbe una nuova legittimazionedel ruolo sindacale come soggetto che protegge la democrazia nell’impresa, e che può sostenere lacooperazione anche con il ricorso potenziale al conflitto e all’azione collettiva. In questo caso persostenere che l’impresa tenga nella dovuta considerazione le stesse posizioni del CLC.

60. Sostegno al potere negoziale. In ultima istanza dovrebbe essere evidente che attraversol’articolazione di ruoli, funzioni e fasi distinte tra CLC e sindacati in azienda è il potere negozialedei lavoratori nell’impresa ad accrescersi. Si consideri, di nuovo, il semplice fatto che i doveri diinformazione e consultazione del CLC sulle strategie di investimento all’estero, oppure diinnovazione tecnologica - che a medio termine possono creare opportunità di delocalizzazione e diriorganizzazione del lavoro, nonché effetti sui livelli di occupazione - devono essere adempiuti infasi molto iniziali della formazione delle decisioni degli organi di governo, e che sono preliminarialla decisione del CdA. Ciò mette i lavoratori e gli stessi sindacati, presenti nel CLC, in condizionedi preparare per tempo strategie, proposte alternative o azioni, che prevengano non tanto ledecisioni strategiche in sé, quanto le conseguenze negative che ne possono derivare per i lavoratori,attraverso una catena di decisioni ulteriori solo apparentemente inevitabili ex post, ma che in realtàpresentano molte alterative lungo il cammino. Ciò rende effettivo il diritto di informazione deirappresentanti dei lavoratori “in tempo utile”, riconosciuto dalle norme europee, che diventa tuttaviainvitabile solo se il dovere di informazione fa parte formalmente delle fasi preliminari dei processiformali di governo dell’impresa.

6 1 . Collusione e cattura da parte del management. Nel caso ideale di funzionamento dellademocrazia economica il management nominato dall’organo amministrativo ha ricevuto assenso nelprocesso di consultazione con il CLC. Nella realtà dei fatti non possiamo escludere che, in presenzadi una asimmetria di potere sulle materie strategiche tra CLC e organo di gestione (espressionedegli azionisti), il management possa rispondere di fatto alla coalizione dominante a livellodell’impresa, e che interagendo col CLC, possa cercare di colludere e catturarne i rappresentanti,ponendoli in conflitto con i loro rappresentati. Tale problema è molto più serio nei modelli di BLER

presenti in Europa, che nel nostro modello. Infatti, nel nostro caso il singolo partecipante al CdAavrebbe l’obbligo legale di rappresentare esplicitamente il CLC e sarebbe accountable nei suoiconfronti. La definizione dei suoi obblighi e le modalità di remunerazione ridurrebbero la possibilitàdi cattura. Resta tuttavia la possibilità di cattura del CLC stesso. Si dovrebbero prevedere a taleproposito (i) regole per la composizione del CLC che vietano la candidatura da parte diassociazioni sindacali che non diano garanzia di indipendenza rispetto all’azienda (es. numerominimo di iscritti, no finanziamenti da parte dell’azienda, ecc.); (ii) meccanismi di rinnovo cheevitino la formazione di posizioni di potere/rendita; (iii) regole di decisione e di democrazia interna

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che rendano difficile la cattura (maggioranze qualificate; procedure articolate di voto tali che pereffettuare la cattura del CLC se ne dovrebbe conquistare una super-maggioranza tale da escludereche il CLC possa in effetti essere in conflitto con i suoi rappresentati).

62. Rappresentanza degli stakeholder esterni all’impresa. Questo tema deve essere approfonditoper trovare una soluzione operativa, chiaramente disciplinata, che garantisca la significatività dellarappresentanza, non la mera nomina da parte delle associazioni (dei consumatori o ambientaliste)che può facilmente sconfinare nel lobbysmo. Nella nostra proposta in effetti si suggerisce che, perdare rappresentanza nei CLC delle maggiori imprese alle comunità che subiscono impattiambientali locali, i rappresentanti siano eletti mediante consultazione a diretta dei cittadini dellecomunità stesse, organizzata dalle Camere di commercio locali o dalle amministrazioni comunali,cui partecipino le associazioni ambientaliste attive nel territorio.

63. Democrazia deliberativa. Tuttavia per la rappresentanza degli stakeholder, oltre al numero dichi vota, conta anche la procedura deliberativa attraverso la quale vengono identificate le proposte einterpretati gli interessi che poi vengono sostenuti nel CLC in nome degli stakeholder. Si pensiperciò alla selezione di una piattaforma programmatica e di un rappresentante delegato a sostenerlaa nome della comunità locale in cui l’impresa risiede o della categoria degli utenti di un servizio.Queste situazioni creano l’opportunità per la sperimentazione di forme di democrazia deliberativa.Le cui regole base prevedono che l’argomentazione, la proposta e la difesa di posizioni e soluzioni,cioè il confronto pubblico, siano condotti in modo da favorire almeno tendenzialmente ilraggiungimento di accordi imparziali tra i partecipanti. Ciò permetterebbe una qualità deiprogrammi proposti, e della rappresentanza da parte di chi è delegato, che interpreta interessi assaipiù ampi di quelli direttamente detenuti dalle persone che partecipano ai dibattiti locali. Lepreferenze sostenute dai rappresentanti possono così essere comuni a un gruppo di stakeholder benpiù esteso di coloro partecipano effettivamente al voto.

64. Piccole imprese. la dimensione di “micro” di molte imprese italiane costituisce ovviamente unpunto critico della proposta, poiché è dubbia l’utilità e la possibilità pratica di consigli in cui siaeletto formalmente un singolo rappresentante, per interagire con un imprenditore, che manca di unastruttura manageriale formalizzata e interagisce facilmente con tutti i lavoratori. Inoltre spesso ledecisioni rilevanti per queste imprese vengono prese ad altri livelli, ad esempio a livello di relazionidistrettuali tra le imprese o nella catena di fornitura in cui la micro-impresa può occupare unaposizione di fatto subordinata. Tuttavia la proposta sopra illustrata trasforma questo elemento didebolezza in un elemento di forza. Si propone infatti di sfruttare livelli di aggregazione esistentidove possibile (distretto, contratti di rete, impresa-quale fulcro di sistema di sub-fornitura) percreare CLC rappresentativi dei lavoratori delle imprese, normalmente piccole o micro, chepartecipano a queste forme di aggregazione. L’appoggio delle Camere di commercio potrebbeessere una soluzione quando non vi sia una impresa dominante nelle relazioni con varie piccoleimprese, come nelle strutture di tipo distrettuale. In tali CLC sarebbe congeniale darerappresentanza oltre che ai lavoratori anche alle istituzioni e associazioni locali che interagisconocon le imprese a livello territoriale.

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Capitolo 3.

Programmi dei seminari aperti e interni

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Parte I. Un cambiamento tecnologico che favorisca la giustizia sociale

Programma Seminario interno della “Fase I” del Programma Atkinson, “Un cambiamentotecnologico che accresca la giustizia sociale”, 5 luglio 2018 presso la Fondazione Basso

Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un cambiamento tecnologico cheaccresca la giustizia sociale”, 15 novembre a L’Aquila presso il GSSI

Programma Workshop, in collaborazione con la Fondazione Comunità di Messina, “Uncambiamento tecnologico che accresca la giustizia sociale”, 1 febbraio 2019 a Messina

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UN PROGRAMMA ATKINSON PER L’ITALIASeminario Tema I

“Orientare il cambiamento tecnologico”

Fondazione Basso – via della Dogana Vecchia 5 Roma

5 luglio 2019 11.00 – 17.00

11.00 – 11.20 Introduzione dei lavori

11.00 – 11.20 Fabrizio Barca e Maurizio Franzini (Forum DD)

Presentazione proposte11.20 – 11.50: Presentazione Alessandro Sterlacchini (U. Politecnica delle Marche) 11.50 – 12.20: Presentazione Mario Pianta (U. Urbino)12.20 - 12.50: Presentazione Massimo Florio (U. Milano)12.50 – 13.20: Prima discussione

13.20 – 14.00: Pausa pranzo

Presentazione proposte14.00-14.30: Presentazione Edoardo Reviglio (CDP) 14.30 – 15.00: Presentazione Ugo Pagano (U. Siena) 15.00 – 15.20: Prima discussione

Discussione e conclusioni15.20 – 16.40: Discussione e conclusioni16.40 – 17.00: Conclusioni di Fabrizio Barca e Maurizio Franzini

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Seminario autunnale Atkinson Tema I

“Cambiamento tecnologico e impatto sociale: strumenti per riprenderne il

governo” Verso un Programma Atkinson per l’Italia

15 novembre 20189.15 – 17.00

Gran Sasso Science InstituteViale Crispi 7, L'Aquila

Registrazione: 8.45 - 9.15

Introduzione: Maurizio Franzini 9.15 – 9.25

I Sessione: 9.30 Mario Pianta (9.30 – 9.55)Cambiamento tecnologico e disuguaglianze: cosa succede e cosa si può fareMaria Erica Virgillito (9.55 – 10.20)Ritmi di lavoro e forme di controllo: dall'intelligenza artificiale a Industria 4.0

Discussants: Cristiano Antonelli e Fabrizio Traù (10.20 – 10.50)Luca Enriques, Federico Mucciarelli (10.50 – 11.15)Governance pubblica e privata delle organizzazioni e politiche pubbliche mission oriented Discussants: Francesco Vella (11.15 – 11.30)

Break 11.30 – 11.45

II Sessione: 11.45Eugenio Coccia (11.45 – 12.10)Biforcazioni nella ricerca e nel cambiamento tecnologico: anticipare gli impatti sociali?Discussants: Roberto Cingolani (12.10 – 12.25)

Ugo Pagano (12.25 – 12.50)Come far sorridere anche noi. Una proposta di riforma della proprietà intellettualeDiscussants: Nerina Boschiero (12.50 – 13.05)

Alessandro Sterlacchini (13.05 – 13.30)L’impatto sociale della ricerca e dell’innovazione: ipotesi di intervento nel contesto europeo e italianoDiscussants: Mario Calderini e Antonia Carparelli (13.30 – 14.00)

Pranzo 14.00 – 15.00

III Sessione – 15.00 Massimo Florio (15.00 – 15.25)L’impatto sociale della produzione di scienza su larga scala: come governarlo?Discussants: Giovanni Dosi e Andrea Filippetti (15.25 – 15.55)

Edoardo Reviglio (15.55 - 16.20)La CdP come mission oriented organization: strategia e governaneDiscussant: Andrea Roventini (16.20 – 16.35)

Cosa abbiamo imparato? Considerazioni conclusive di:

Alessandra Faggian (16.35 – 16.50)Gaetano Giunta (16.50-17.00)

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Parte II. Un lavoro con più forza per contare

Programma Seminario interno “Fase I” del Programma Atkinson, “Un lavoro con più forza percontare”, 19 giugno 2018 presso la Fondazione Basso

Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un Lavoro con più forza percontrattare”, 30 ottobre a Milano, presso la Casa della Cultura

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Seminario Tema II

“Ribilanciare il potere negoziale del lavoro”

Fondazione Basso – via della Dogana Vecchia 5

Roma

19 giugno 2019

14.00 – 18.00

14.00 – 14.30

Introduzione dei lavori

14.00 – 14.15: Daniele Checchi (Forum DD)14.15 – 14.30: Lorenzo Sacconi (Forum DD)

14.30 – 16.00

Presentazione proposte “esperti esterni”

14.30 – 15.15: Andrea Garnero (OCSE)15.15 – 16.00: Francesco Denozza (Università di Milano)

16.00 – 16.15

Break

16.15 – 18.00

16.15 – 17.45: Discussione proposte17.45 – 18.00: Conclusioni di Daniele Checchi e Lorenzo Sacconi

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15 proposte per la giustizia sociale 416

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Seminario autunnale Atkinson Tema II

“Ribilanciare la distribuzione del reddito, del potere negoziale e del controllo a

favore del lavoro” Verso un Programma Atkinson per l’Italia

30 ottobre 2018 ore 10.00 – 13.30Casa della Cultura - Via Borgogna 3 - Milano

Registrazione: 9.45 - 10.00

Introduzione: 10.00Fabrizio Barca Comitato Promotore Forum Disuguaglianze DiversitàDaniele ChecchiOrdinario di Economia Politica, Università di MilanoLorenzo Sacconi Ordinario di Politica Economica, Università di Milano

I Sessione: 10.20 Un salario minimo per legge in Italia? Una proposta per il dibattitoAndrea GarneroEconomista, Dipartimento Lavoro e Affari Sociali OCSE

10.50 Discutono:

Marco LeonardiOrdinario di Economia Politica, Università di MilanoMassimo PalliniOrdinario di Diritto del Lavoro, Università di MilanoFranco MartiniSegretario confederale, CGIL

II sessione: 11.20Ribilanciare il potere del lavoro e la democratizzazione del governo di impresaFrancesco DenozzaOrdinario di Diritto Commerciale, Università di MilanoAlessandra StabiliniRicercatrice di Diritto Commerciale, Università di Milano

11.50Il punto di vista del sindacato e le migliori sperimentazioni nelle aziendeVincenzo CesareSegretario regionale, UIL Milano Lombardia

12.10 Discutono:

Francesco VellaOrdinario di Diritto Commerciale, Università di BolognaCarlo BorzagaOrdinario di Politica Economica, Università di TrentoAnna GrandoriOrdinario di Organizzazione aziendale, Università BocconiSergio MoiaDipartimento Mercato del Lavoro, CISL Lombardia

12.50 Dibattito 13.20 Conclusioni: Daniele Checchi, Lorenzo Sacconi

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Parte III. Un passaggio generazionale più giusto

Programma Seminario interno “Fase I” del Programma Atkinson, “Un passaggio generazionale piùgiusto”, 10 luglio 2018 presso la Fondazione Basso

Programma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un passaggio generazionale piùgiusto”, 5 dicembre a Roma presso la Città dell’Altra Economia

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UN PROGRAMMA ATKINSON PER L’ITALIA

Seminario Tema III

“Diritto Universale all’eredità di ricchezza”

Fondazione Basso Via della Dogana Vecchia 5, Roma

10 luglio 201912.00 – 16.00

12.00 – 12.15

Apertura lavori

Elena Granaglia (Università La Sapienza - Forum DD)

12.15 – 13.15

Relazione degli esperti

12.15 – 12.45: Diego Piacentino (Università di Macerata)12.45 – 13.15: Brunella Casalini e Chiara Rapallini (Università degli Studi di Firenze)

13.15 – 13.45

Prima sessione domande e discussioni di chiusura della prima parte dei lavori

13.45 – 14.30

Pausa pranzo

14.30 – 14.50

Relazione discussant

14.30 – 14.50: Graziella Bertocchi (Università di Modena e Reggio Emilia)

14.50 – 15.10

Relazione finale di commento

14.50 – 15.10: Salvatore Morelli (Graduate Centre CUNY – Forum DD)15.10 – 16.00

Sessione di discussione finale

15.10 – 16.00: Risposte dei relatori e chiusura dei lavorProgramma Seminario della “Fase II” del Programma Atkinson, “Un passaggio generazionale piùgiusto”, 5 dicembre a Roma presso la Città dell’Altra Economia.

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Seminario autunnale Atkinson Tema III

“Imposte di Successione ed Eredità di cittadinanza”

Verso un Programma Atkinson per l’Italia

5 dicembre 201811.30 – 15.30

Città dell’altra economia Largo Dino Frisullo, Roma

11.00 – 11.30: Registrazione

Saluto di Benvenuto11:30: Andrea Morniroli

DATI di Contesto11:35-11:45: Salvatore Morelli illustra: evoluzione della concentrazione di ricchezza personale in Italia e le sue possibili cause.11:45-11:55: Giovanni D'Alessio illustra: dinamiche di andamento dell'incidenza dell'eredità sul totale della ricchezza e la fotografia delle eredità in Italia11:55-12:05: Vito Peragine illustra: i dati sulle disuguaglianze di opportunità e di mobilità intergenerazionale in Italia in confronto ad altri paesi. 12:05-12:15: Francesco Figari illustra: l’attuale sistema di imposte sui patrimoni e sui trasferimenti di ricchezza ed il loro impatto redistributivo in Italia in confronto ad altri paesi.

12:15-12:35Domande del pubblico e risposta dei relatori.

RELAZIONI degli esperti12:35 - 12:50Si puo’ rafforzare l'imposta sui patrimoni ereditati?A cura di Diego Piacentino

12:50 - 13:05L’eredità di cittadinanza: una politica realizzabile?A cura di Chiara Rapallini

13:05-13:30 Sondaggio e Domande del pubblico ai relatori.

13:30 - 14:00: Light Lunch

PANEL DIBATTITO CONCLUSIVO (moderano Elena Granaglia e Salvatore Morelli)14:00-15:00Graziella Bertocchi, Vincenzo Visco, Vieri Ceriani, Paolo Liberati, Massimo Baldini

15:00 - 15:30Domande conclusive e dibattito finale con il pubblico e gli altri esperti in sala.

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