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marzo | 2015 Anno 45 nr. 290 seconda serie sommario 3 intervista Maestro è chi insegna l’amore per il sapere Educare è questo: sospingere verso l’apertura di altri mondi Intervista a Massimo Recalcati a cura di Roberto Camarlinghi 15 studi Produrre servizi è tutelare diritti Ritrovare nella storia dei Servizi le ragioni e le possibilità per andare oltre la crisi Franca Olivetti Manoukian 29 prospettive A un giovane operatore della salute mentale Lettera aperta per riconoscerci in una storia che parla al futuro Peppe Dell’Acqua 36 Inserto del mese La recovery nella salute mentale Costruirsi una vita al di là «della malattia mentale» Vivere al di là della malattia Se la prognosi negativa è un mito da sfatare La cittadinanza è ancora terapeutica Progettare servizi orientati alla recovery A cura di Roberto Mezzina, Izabel Marin, Manuela Ciambellini, Anita Eusebi, Luca Negrogno, Fabrizio Starace 83 metodo Il limite nella quotidianità dell’educare Una risorsa a volte inaspettata dentro situazioni difficili Giulia Zanardi 93 luoghi&professioni Il farsi del viaggio educativo con il bambino Ancoraggi nella relazione educativa con storie di fatica di bambini e ragazzi Gilda Vischia 103 bazar punto Casorati | discussione Il manifesto delle Case del quartiere Coordinamento delle Case del quartiere di Torino | diari Il lungo viaggio verso la ripresa di sé Izabel Marin | locande La piola social dove il pasto è a 1 euro Roberto Camarlinghi L’archivio L’archivio degli articoli di Animazione Sociale è disponibile sul sito www. animazionesociale.it Le annate 1998-2012 sono riservate agli abbonati, quelle 1971-1997 sono accessibili a tutti

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marzo | 2015 Anno 45 nr. 290 seconda serie

som

mar

io3 intervistaMaestro è chi insegna l’amore per il sapereEducare è questo: sospingere verso l’apertura di altri mondiIntervista a Massimo Recalcati a cura di Roberto Camarlinghi

15 studiProdurre servizi è tutelare dirittiRitrovare nella storia dei Servizi le ragioni e le possibilitàper andare oltre la crisiFranca Olivetti Manoukian

29 prospettiveA un giovane operatore della salute mentaleLettera aperta per riconoscerci in una storia che parla al futuroPeppe Dell’Acqua

36 Inserto del mese La recovery nella salute mentale

Costruirsi una vita al di là «della malattia mentale» Vivere al di là della malattia Se la prognosi negativa è un mito da sfatare La cittadinanza è ancora terapeutica Progettare servizi orientati alla recovery A cura di Roberto Mezzina, Izabel Marin, Manuela Ciambellini, Anita Eusebi, Luca Negrogno, Fabrizio Starace

83 metodoIl limite nella quotidianità dell’educareUna risorsa a volte inaspettata dentro situazioni difficiliGiulia Zanardi

93 luoghi&professioniIl farsi del viaggio educativo con il bambinoAncoraggi nella relazione educativa con storie di fatica di bambini e ragazziGilda Vischia

103 bazarpunto Casorati | discussione Il manifesto delle Case del quartiere Coordinamento delle Case del quartiere di Torino | diari Il lungo viaggio verso la ripresa di sé Izabel Marin | locande La piola social dove il pasto è a 1 euro Roberto Camarlinghi

L’archivioL’archivio

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Fondato nel 1971 da Aldo Guglielmo Ellena

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inter vista | studi | prospett ive | inchiesta | metodo | strumenti | luoghi&professioni | bazar

Educare è questo: sospingere verso l’apertura di altri mondi

Intervista a Massimo Recalcati a cura di Roberto Camarlinghi

Se c’è qualcosa che resta insostituibile della scuola, è la funzione di animare il rapporto del soggetto con il sapere. La posta in gioco dell’insegnamento è ancora tutta qui: nell’introdurre l’allievo in un rapporto vitale con il sapere. Nel rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio: il desiderio di sapere, di approfondire, di capire. Se nella nostra vita ciò è accaduto, è perché abbiamo incontrato un maestro, un insegnante che ha amato il sapere e – amandolo – ce lo ha reso desiderabile. Un maestro che è stato capace di generare in noi quel trasporto amoroso verso la cultura che rimane il più grande antidoto per non smarrirsi nella vita.

Maestro è chi insegna l’amore per il sapere

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Dalle scuole elementari all’università, tutti gli insegnanti che portiamo con noi nella memoria hanno un tratto

fondamentale che li accomuna e che pre-scinde dai contenuti del loro insegnamen-to: amavano il sapere e – amandolo – ce lo hanno reso desiderabile. I maestri che hanno lasciato un segno nella nostra vita sono quelli che – incarnando il desiderio di sapere – hanno mobilitato in noi il desiderio di apprendere. Perché il gesto del maestro non è mai riempire le teste come recipienti, ma produrvi il vuoto e mantenere vivo il desiderio di sapere.Per questo è insensato l’approccio che di-stingue l’istruzione dall’educazione. Edu-care è sospingere verso l’apertura di mondi, promuovendo in ognuno – bambino o ra-gazzo – la ricerca della propria via singolare di accesso al sapere e al mondo. Educare è accendere il desiderio, quel desiderio che non è da confondere con il godimento im-mediato, ma con l’amore per l’altro, per il sapere, per l’altrove. Sono i temi della ricerca di Massimo Re-calcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, contenuti nel suo ultimo libro L’ora di lezio-ne. Per un’erotica dell’insegnamento, edito da Einaudi. Lo abbiamo seguito in alcune recenti conferenze, provando a cogliere le linee essenziali della sua ricerca.

Perché la scuola è centrale nell’educare Negli ultimi tempi lei si è dedicato al tema della scuola, a come possiamo immagi-narla, alla funzione educativa che malgra-do tutto riveste. Inizierei da qui, dalla sua idea di educazione...

Il problema dell’educazione è «come si diventa soggetti». E la scuola svolge una funzione decisiva nell’aiutare bambini e ra-

gazzi in questo percorso. Provo a spiegarmi partendo da un episodio che mi ha molto turbato. Una collega francese mi ha raccontato che, in un asilo francese di periferia, un’edu-catrice aveva portato con sé il figlio molto piccolo. Lo aveva messo in una stanza a fianco a quella dove si svolgevano le attività quotidiane del gruppo classe, ma quando è rientrata nella stanza lo ha trovato morto, ucciso da un altro bambino che era stato lasciato fuori dalle attività. Perché parto da questa scena? Perché esiste oggi una cattiva retorica che investe il tema dell’educare. La cattiva retorica consiste nel ritenere che il bambino sia già un soggetto. Invece non è così e quest’episodio lo mo-stra bene: il bambino lasciato solo è Caino, ammazza il fratello. I bambini – lo dico in modo brutale – non sono soggetti e il pro-blema dell’educazione è rendere possibile la loro soggettivazione, a partire da una po-sizione che ci fa esistere inizialmente come oggetti, con tendenze che non riusciamo a governare, dove la violenza è parte costitu-tiva dell’essere umano. Nella scena dell’asilo non dobbiamo vedere semplicemente una regressione dall’umano al bestiale, ma la presenza nell’umano di qualcosa che si manifesta come tendenza aggressiva, spinta all’odio invidioso, alla di-struzione dell’altro. Il punto scabroso è che uccidere il proprio fratello non appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. E allora cos’è l’educazione se non educare a rinunciare alla violenza come soluzione delle difficoltà dei rapporti? Se non educare a passare dalla violenza alla conversazione, dalla legge brutale della forza a quella dia-logica della parola? Questo è il movimento dell’educazione o, come preferisco dire, il movimento dell’u-manizzazione della vita, da cui dipende il nostro poter diventare soggetti. La nostra

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vita si umanizza nella misura in cui rinuncia alla violenza e accoglie la legge della parola. È uno dei compiti più difficili che incombe sugli esseri umani: saper rinunciare alla vio-lenza in nome del riconoscimento dell’Altro come prossimo, come essere singolare. È un riconoscimento che non è mai indolore perché ci obbliga ad accettare che «Io non sono tutto», che la mia vita non esaurisce quella del mondo e degli altri. Significa sop-portare quella che Freud considerava una «frustrazione narcisistica», necessaria per riconoscersi appartenenti a una comunità umana.

Dal chiuso della famigliaall’aperto del mondo In questo cammino di umanizzazione la scuola – lei dice – esercita una funzione insostituibile.

Sì, la funzione fondamentale della scuola risiede nel promuovere la legge della parola, l’incontro con altri mondi. Ed è qui che assu-me un senso la sua dimensione obbligatoria. La scuola – si sa – è scuola dell’obbligo. Si manifesta come obbligazione, dunque come trauma. Per tutti noi la scuola è stata un trauma, un trauma obbligatorio: il trauma della separazione dalla famiglia, il trauma – direbbe Jaques Lacan – della «demater-nalizzazione della lingua». Andare a scuola significa infatti riconoscere che la lingua materna non esaurisce il mondo. E dunque la scuola è innanzitutto questo taglio trau-matico, simbolico, che introduce il soggetto dal legame intimo, di sangue – che pure è fondamentale alla vita – a una dimensione più allargata di legame. La scuola sancisce l’obbligo di rivolgersi al mondo, staccandosi dal clan di appartenenza. Il trauma della scuola è dunque un trau-ma virtuoso, benefico e necessario, perché

obbliga il soggetto a decentrarsi, a non re-stare incapsulato nel proprio Io. La scuola porta dal chiuso della famiglia all’aperto del mondo, in cui tocca imparare a vivere. È veramente un passaggio – se si può dire così – dalla lingua materna all’alfabeto. C’è un libro di uno scrittore che amo molto, Andrea Bajani, che è proprio su questo va-lore straordinario delle lettere dell’alfabeto. S’intitola La vita non è in ordine alfabeti-co. Imparare le lettere dell’alfabeto – dice Bajani – significa imparare mondi, impa-rare a costruire mondi. L’apprendimento dell’alfabeto è lo svezzamento, è il vero svezzamento; avere in bocca non la tetta, ma la parola. Allora la scuola non è solo il trauma di ab-bandonare la lingua materna, ma è anche la possibilità dell’incontro. Incontro con che cosa? Incontro con altri mondi, altre voci, altre parole. Qui sta veramente l’importan-za della scuola, di ciò che resta della scuola, di ciò che deve restare della scuola.

Noi ci formiamo attraverso gli incontriLa scuola è fondamentalmente un luogo di incontri. E gli incontri sono decisivi per la nostra vita perché – lei ha detto recentemente – la forma della nostra vita è il risultato degli incontri che ab-biamo fatto.

Che cosa dà forma a una vita? Attraverso cosa ci siamo formati? La vita si forma attra-verso la contingenza pura degli incontri. Noi abbiamo la forma che gli incontri che ab-biamo avuto hanno fabbricato. Ancora più precisamente, noi siamo – tutti noi siamo – il modo attraverso il quale abbiamo dato una forma agli incontri che ci hanno formato. Da questo punto di vista, la scuola è luogo elettivo della formazione. Perché a scuola si

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fanno incontri tra le generazioni, si fanno incontri con le istituzioni, si fanno incontri tra pari. La scuola è luogo di incontri, però gli incontri non sono tutti buoni. Ci sono buoni e cattivi incontri e sia i buoni che i cat-tivi incontri lasciano un segno. Noi siamo il segno che ha lasciato su di noi l’incontro buono o cattivo. Se dovessimo dare una definizione molto semplice dell’incontro buono e dell’incon-tro cattivo, potremmo dire che il cattivo in-contro è fondamentalmente l’incontro che chiude il mondo, che chiude la possibilità di accesso al mondo. Quando facciamo un cattivo incontro il mondo perde ossigeno, perde l’orizzonte. Il buon incontro inve-ce è l’incontro che allarga l’orizzonte del mondo, cioè mi fa vedere – attraverso chi incontro – che il volto del mondo è un altro rispetto a quello che fino a quel momento avevo conosciuto. Il buon incontro – e bisogna essere disponi-bili a fare buoni incontri – è l’incontro che apre e moltiplica i mondi. Da questo punto di vista ogni buon incontro è un incontro d’amore. Gli incontri formativi, gli incontri che danno forma alla vita, i buoni incontri, sono sempre incontri d’amore, perché sono incontri che, spalancando i mondi, spalan-cano la nostra vita. La nostra vita non è più come prima.Questi incontri nella scuola si fanno attra-verso gli insegnanti innanzitutto, ma si fanno anche attraverso i libri. La lettura di un libro può essere in sé un incontro che lascia il se-gno. Dopo la lettura che feci da ragazzino del mio primo libro, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, ho ancora nelle narici l’odore di grasso che lasciava la mitraglia-trice arroventata. Quel libro per me è stato il libro che mi ha insegnato che esistono i libri, che esiste la letteratura, cioè che esiste la possibilità di fare esistere più mondi. Dunque il buon incontro apre i mondi,

li spalanca e spalancando i mondi apre la nostra vita.

Insegnare che il sapere si può amareIn questo contesto è fondamentale l’in-contro con il maestro, con l’insegnante. Colui che ha la funzione insostituibile di mediare l’incontro con qualcosa di decisivo nel nostro percorso di umaniz-zazione: il sapere.

Insegnante significa «colui che sa lasciare il segno». C’è insegnamento quando qual-cuno lascia in noi un segno: un segno che dà forma alla nostra vita. Ma di cosa è fatto questo segno, così decisivo nella formazio-ne della vita? Di cosa è fatto il segno che un insegnante sa lasciare nell’allievo? Noi sappiamo che questo segno non è fatto di sapere. Cioè non è un contenuto, un concet-to, una nozione, non è un oggetto teorico. Gli insegnanti che non abbiamo dimenti-cato, quelli che abbiamo incontrato e che hanno avuto un ruolo decisivo nella nostra formazione, noi li ricordiamo non per quel-lo che ci hanno insegnato, non per il «cosa» hanno insegnato, ma per la forma con cui hanno insegnato, per lo stile con cui hanno insegnato. Quello che è indimenticabile, negli inse-gnanti che non abbiamo mai dimentica-to, nei segni che il loro insegnamento ha impresso nelle nostre anime, è il loro stile. Un insegnante che lascia un segno, un in-segnante degno di questo nome, è un in-segnante che innanzitutto ama quello che insegna, cioè entra in un rapporto fisico, corporeo, erotico con il sapere. E dunque fa del sapere non qualcosa di astratto, ae-reo, semplicemente intellettuale, mentale, ma fa del sapere un corpo, fa del sapere un corpo erotico.

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Questa è una delle grandi doti di un inse-gnante: trasformare tutti gli oggetti teorici che trasmette ai suoi allievi – la serie di Fi-bonacci, la deriva dei continenti, una lingua straniera, le poesie di Giovanni Pascoli, i sette re di Roma... – in corpi erotici. Se que-sta trasformazione avviene, se avviene nella parola dell’insegnante, genera una secon-da trasformazione che accade questa volta nell’allievo. L’allievo non è più un recipiente da riempire, la sua testa non è una zucca vuota da colmare, ma l’allievo – grazie alla trasformazione del libro in corpo, dell’og-getto teorico in corpo erotico – si trasforma a sua volta in amante. Chi di noi non ha vissuto almeno una volta quest’esperienza: sentirsi amante del sape-re che il maestro trasmette? Amante non significa «essere riempito», ma «essere svuotato e messo in movimento». Quando c’è un incontro – a qualunque livello – che è formativo per noi, noi ci sentiamo messi in movimento. Dove c’è un buon incontro c’è messa in moto della vita, la vita si anima. Allora l’allievo si forma attraverso il vuoto più che il pieno. Questo mi pare un punto importante.

La scena inauguraledel gesto del maestro La buona scuola, scrive infatti nel suo libro, è quella che «sa testimoniare non soltanto di sapere il sapere, ma anche che il sapere si può amare, si può tra-sformare in corpo erotico» (p. 35).

Sì, il buon insegnante è colui che sa fare del sapere un oggetto del desiderio in grado di mettere in moto la vita, di allargarne l’oriz-zonte. È colui che introduce gli allievi in un rapporto vitale con il sapere, che rende possibile l’incontro con la dimensione ero-tica del sapere. In questo – credo – consiste

tutta la posta in gioco della partita dell’in-segnamento. E direi anche – ma su questo possiamo tornarci dopo – il ruolo che la scuola può giocare nella prevenzione delle tossicomanie o di qualunque altra forma di godimento immediato. Nell’incontro tra insegnante e allievo, non si tratta di riempire le teste con un sapere già costituito, ma di aprire dei buchi in quelle teste perché si metta in moto un movimento verso il sapere. Questa è la strategia educa-tiva fondamentale, che trova la sua matrice nel gesto che Socrate compie nei confronti di Agatone. Noi in Occidente, nella nostra tradizione, abbiamo infatti questa scena madre, da cui scaturisce veramente il ge-sto del maestro, il gesto dell’insegnante. La si trova in apertura di uno dei più bei e giustamente famosi dialoghi di Platone, Il Simposio.Agatone dà un banchetto dove invita arti-sti, teatranti, intellettuali, scrittori, filosofi a parlare dell’amore, del mito di Eros. Socra-te è uno degli ospiti più attesi, ma mentre si sta recando al banchetto si perde. Accade ogni tanto ai filosofi di perdersi nei propri pensieri. Socrate si è perduto in un cortile perché la Verità, come gli capitava spesso, lo ha visitato. Un servo assiste alla scena e riferisce ad Agatone. Così, quando Socrate

Il buon insegnante

fa del sapere un oggetto del desiderio

in grado di mettere in

moto la vita e di allargarne l’orizzonte.

Qui risiede anche

il ruolo che la scuola

può giocare nella

prevenzione.

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arriva al simposio, Agatone sa il perché del ritardo. La verità gli ha parlato, dunque So-crate sa. Perciò Agatone chiede a Socrate di sedersi vicino a lui affinché il sapere che la verità gli ha trasmesso possa essere travasa-to nella sua testa: «Stai vicino a me – gli dice Agatone – e parlami e travasa in me tutta la potenza del tuo sapere». Questa è l’illusione che tutti noi, in quanto allievi, abbiamo attraversato con i nostri maestri. Questa è anche l’illusione della scuola quando pensa che la trasmissione del sapere sia fondamentalmente un’atti-vità di riempimento. Ma Socrate – ecco il gesto – risponde ad Agatone: «Guarda che io sono vuoto come te, e come te desidero sapere». Socrate si offre dunque ad Aga-tone come amante del sapere, non come detentore del sapere. Ed è questo passaggio – dalla proprietà al desiderio, dal detenere il sapere al tendere al sapere – che costitui-sce il maestro. Agatone si trasforma così da coppa vuota ad amante del sapere: questo è il miracolo dell’insegnamento. Dove c’è insegnamento l’allievo diventa amante del sapere.

Il miracolo dell’ora di lezioneQuesto miracolo può avvenire – e spes-so avviene – nell’ora di lezione, che lei individua come «il vero cuore della scuo-la» (p. 7), fatto appunto di incontri col sapere che possono essere avventure profonde, esperienze non solo intellettuali ma emotive.

Sì, se dovessi dire che cosa rimane inso-stituibile della scuola, qual è il suo nucleo resistente, direi che è il tempo dell’ora di lezione. Perché il tempo dell’ora di lezio-ne è il tempo dell’incontro, perché l’ora di lezione spalanca i corpi, spalanca le porte,

spalanca le finestre, spalanca i libri, spalan-ca la vita. Un’ora di lezione può davvero cambiare la vita.Spesso l’obiezione che raccolgo è: ma come si può far nascere il desiderio nel campo dell’obbligo? È un grande tema della scuola questo. Perché la scuola è sempre scuola dell’obbligo in fondo, però è lì che si gioca la partita del desiderio. Come si può far espe-rienza della libertà, dell’erotismo del sape-re, laddove ci sono i programmi, ci sono i calendari, ci sono le verifiche, laddove esiste un dispositivo, un automaton, che imprigio-na sia gli allievi che gli insegnanti? Come far emergere la luce dell’incontro nel grigiore del dispositivo obbligatorio?Eppure, per quanto l’ora di lezione segua la scansione imposta dai programmi, non è mai prevedibile, nei suoi effetti, da nessun rego-lamento. Se noi esaminiamo più da vicino questo tema dell’insegnamento, dobbiamo riconoscere che il miracolo può sempre av-venire, nella misura in cui il maestro ama il sapere e – amandolo – lo rende desiderabile all’allievo, lo trasforma in corpo erotico. È la dimensione dialettica della didattica, capace di mobilitare il desiderio di sapere. Invece cosa succede a volte nella scuola? Che valutiamo ottimi – parlo adesso come professore universitario – quegli esami in cui gli allievi riproducono, clonano, pla-giano il sapere che devono studiare. A chi diamo 30? A chi riferisce con esattezza le mie parole o le parole del testo che ha stu-diato. La valutazione nella scuola si fonda sul modello del plagio, del conformismo. Ma in questo modo non c’è nessuna possibilità per gli allievi di apprendere in modo singo-lare, soggettivo, il sapere che viene trasmes-so. La devianza, l’irregolarità, l’anomalia, la bizzarria, la stramberia, cioè lo stile singo-lare viene soffocato da questa modalità di concepire la valutazione. E invece dovrebbe essere valorizzato.

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Favorire l’emergeredello stile singolare Lo stile singolare, le attitudini, le vocazioni, le anomalie sono i punti di forza del sogget-to, lo psicoanalista lo sa bene. Penso a uno dei miei primi casi: la madre che portava il figlio adolescente mi diceva: «Guardi, non fa altro che pensare alla morte, me lo faccia smettere di pensare». E io le rispondevo: «Signora, smettere di pensare è peggio della morte». Ecco, la ruminazione di que-sto ragazzo sulla morte, che può sembrare sintomatica, se non viene normalizzata, ma presa e girata nel verso giusto, si trasforma in un punto di forza. I punti in cui le piante sono storte, non alli-neate, non sono i punti che noi dobbiamo raddrizzare, come riteneva una vecchia pedagogia autoritaria che aveva trasmesso questa rappresentazione botanica dell’edu-cazione: raddrizzare le viti storte. Al contra-rio noi dobbiamo amare la stortura, amare l’anomalia, la bizzarria, la stramberia dei nostri figli perché lì c’è un tesoro. Lo dice anche il poeta: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori». In fondo l’educazione è dare la parola alla vite storta, non è produrre un tipo uniforme. Il modello botanico dell’educazione era il modello a cui dichiarò di ispirarsi il mio maestro supplente di seconda elementare. Io sono stato forse uno degli ultimi bocciati agli esami di seconda elementare, allora esi-stevano ancora. E ho in mente quest’uomo che, il primo giorno in cui è entrato in clas-se, ci ha guardati – all’epoca eravamo solo bambini, non c’erano ancora le classi miste, tutti con la giubba nera – e ci ha detto: «Voi siete delle viti storte, io sono il paletto e il filo di ferro che vi raddrizzerà!».Questo supplente non era da meno dell’al-tra maestra, una donna severa, sempre ve-stita di nero, che incarnava tutto quello che

non deve fare un bravo insegnante. Ricordo che un giorno, nel tempo della conversazio-ne, ci chiese: «Bambini, secondo voi che cosa rende bello il fuoco?». E allora ci fu un dibattito tra di noi, c’era chi alzava la mano e diceva «il fuoco è bello perché permette di stare attorno e di parlare», «il fuoco è bello perché si fanno le caldarroste», «il fuoco è bello perché porta la luce nel buio». Lei con disprezzo a ogni risposta scuoteva la testa e diceva «no, no, no». Scartava ogni tipo di interpretazione della bellezza del fuoco perché ci indicava di possedere lei la sola risposta possibile. Che alla fine, con aria saccente, ci svelò: «Il fuoco è bello... perché si muove!». Cito questi due episodi perché sono esempi di un modello disciplinare, io dico botanico per riprendere la metafora della pianta della vite da raddrizzare. Questo modello – che era il modello educativo psicopedagogico pre ’68 – contiene in sé l’idea che la sogget-tivazione sia mettere la divisa. Raddrizzare tutte le viti significa annullare la stortura che rende la vite – ma potremmo dire la vita – una vita unica.

Amare la stortura della viteIl modello botanico per certi versi è tor-nato in auge nell’ultimo periodo. Del resto l’avversione per ciò che ha rappresentato il ’68 è stata più volte dichiarata da chi ha fatto le recenti riforme della scuola...

Il ’68 ha introdotto una discontinuità – per come la giudico io – vitale, positiva, fonda-mentale. Una generazione di figli ha preso la parola e ha introdotto nell’educazione il tema della libertà. Questo è stato un tempo decisivo nella nostra storia, sebbene in ef-fetti l’eredità di questo grande passaggio si sia snaturata recentemente. Perché nel post

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’68 – gli anni ’70 in particolare – la scuola era un luogo di sperimentazione straordina-rio, un luogo di grandi trasformazioni col-lettive. Mentre oggi questa grande eredità del ’68 è stata tradita.Oggi siamo di fronte alla scuola delle «tre i», come sbandierava qualche tempo fa un ministro della Repubblica che fa il paio con i miei maestri delle elementari. Ma di-rei che nella scuola delle «tre i» – impresa, informatica, inglese – al centro non sono più tanto le viti storte da raddrizzare, ma le informazioni da immagazzinare. Il nuo-vo modello educativo psicopedagogico è fondato sul principio di prestazione: l’obiet-tivo è rafforzare le competenze a risolvere i problemi piuttosto che a saperseli porre. È un modello che implica una rappresenta-zione – diciamo così – computeristica della soggettivazione: le teste funzionano come computer e bisogna immettervi più files possibili. In questo modello il sapere non ha più rapporti con la vita, ma deve solo tra-smettere le competenze per rendere quella vita capace di prestazioni.Nella scuola di oggi abbiamo l’esasperazio-ne del principio di prestazione, dove non c’è posto per la singolarità nel processo di apprendimento, ma predomina un sapere anonimo e robotizzato da assimilare. Qual è l’alternativa secondo me vitale? L’alter-nativa – dicevo – è amare la stortura della vite, pensare che là dove ciascun allievo è anomalo rispetto alla misura, lì è il tesoro. Questo è un grande insegnamento con i no-stri ragazzi: dove un bambino, un ragazzino, mostra di essere diverso dagli altri, lì è il suo potenziale. Dove il soggetto soffre nei suoi sintomi, lì è la sua verità. Si tratta di ribaltare la prospettiva con cui si guardano i bambini, i ragazzi, i giovani. L’educazione non è condurre l’anomalia alla normalità, ma l’educazione è potenziare l’anomalia, potenziare il sintomo, poten-

ziare la stortura, potenziare la differenza. Ecco perché quando vedo ragazzi che hanno 10 in tutte le discipline resto sem-pre perplesso; per me quello è il segno che è in atto una macchinizzazione del sapere. Gli esseri umani hanno sempre attitudini e talenti, non possono eccellere in tutte le materie. Quando accade, è il segno che c’è un problema: un problema di prestazione, di conformismo, di far felici i genitori, di non saper tollerare una frustrazione. Allora direi che uno dei compiti della scuo-la è far emergere i talenti, far emergere le attitudini, far emergere le differenze, far emergere i desideri. Favorire cioè una sog-gettivazione del sapere e non un’assimilazio-ne passiva e conformistica.

Memorizzare il sapere e sospendere la memoriaA questo proposito nel libro lei richiama i due tempi fondamentali della didattica: la memoria e l’oblio: «Il movimento della conoscenza implica la memoria», ossia l’acquisizione del sapere che ci viene trasmesso, «ma solo al fine di sospenderla per rendere possibile un atto nuovo, una soggettivazione inedita del sapere» (pp. 61-62). Può spiegarci di più?

C’è un gesto di un grande pittore, Emilio Vedova, che merita qui raccontare. Vedova è stato anche professore all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Quando notava uno dei suoi allievi paralizzato di fronte alla tela vuota, interveniva intingendo lo spazzolone in un secchio di colore e dando un deciso colpo sulla tela. Questo aveva l’effetto di mettere in moto l’allievo. Prima del colpo di spazzolone l’allievo era intimidito, oppres-so, inibito dal bianco della tela. Dopo il col-po di spazzolone qualcosa si disinibisce, si mette in movimento, comincia a respirare.

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Che cosa fa Vedova? Che cos’è questo ge-sto? Non è semplicemente un modo per togliere quel senso di venerazione che il soggetto ha nei confronti della tela bianca. Non è semplicemente questo, è qualcosa di più sottile. Il principio da cui Vedova parte è pensare che la tela vuota, come la pagina bianca – la tela vuota per un pittore, la pa-gina bianca per uno scrittore, il silenzio per un musicista – sono in realtà stracolme. Per uno scrittore la pagina non è mai bianca, ma nella pagina bianca si deposita tutta la storia della letteratura: Kafka, Joyce, Proust… E dunque l’inibizione è un effetto di questa stratificazione.Come posso io scrivere qualcosa se tutto è già stato scritto? Se prima di me c’è Beckett, c’è Dante... Lo stesso vale per la pittura: come posso io osare dipingere se prima di me ci sono stati Picasso, Klee, Tintoretto? Impossibile! E allora l’operazione di Ve-dova è fare in modo che questo bianco sia davvero bianco, che questo vuoto sia dav-vero vuoto, che questo silenzio sia davvero silenzio. Rende dunque possibile il gesto creativo, perché qual è la condizione del ge-sto creativo? Non è la memoria di tutto quel-lo che è stato fatto, perché se noi ricordiamo tutto il rischio è di non poter generare mai niente di nuovo. Pennac sostiene che «è bello insegnare ai bambini le poesie a memoria». Io ero un bambino che non aveva mai voluto impararne una, però capisco la bellezza dell’imparare a memoria oggi. Imparare a memoria – dice Pennac – è come gettare i nostri figli nel fiume della lingua; non im-porta il contenuto, importa che capiscano che noi apparteniamo alla dimensione del linguaggio, che abbiamo una provenienza, una casa comune. Va bene, purché non si pensi che imparare a memoria esaurisca l’apprendimento. Anzi potremmo dire che per apprendere davvero bisogna dimenti-

care ciò che si impara. Perché ci sia davvero apprendimento bisogna che tutto ciò che abbiamo appreso a un certo punto venga disattivato per rendere possibile un gesto singolare, un gesto creativo. Questa idea la troviamo in tanti diari. Van Gogh, Klee conoscevano perfettamente la storia dell’arte. La loro tela era popolata da una ragnatela di nomi, di citazioni, di opere già viste. Ma per poter generare il nuovo occorre che tutta questa memoria venga ad un certo punto disattesa. Questo riguarda anche i temi dei ragazzi al liceo o le tesi di laurea. Finché è troppo presente l’ombra del pa-dre, finché è troppo presente l’ombra della memoria, è impossibile generare il nuovo. E dunque la condizione della creazione è la possibilità di accedere ad un oblio, ad un punto di dimenticanza, che è ciò che Vedova realizza attraverso questo gesto.

Apprendere non è fare come il maestroOgni processo creativo, di apprendimento singolare – lei dice – eredita la memoria, ma non la ripete, bensì la sospende per provare a dire qualcosa di proprio.

Sì, potremmo esprimere questo punto an-che dicendo che ci vuole un maestro, ma l’apprendimento non è fare come il mae-stro. Questo mi pare un punto decisivo. Il bravo insegnante non è colui che chiede di imitarlo, ma colui che promuove un accesso soggettivo al sapere. C’è una scena sull’apprendimento che si trova in un grande libro di filosofia, Dif-ferenza e ripetizione, di Gilles Deleuze. La scena è questa. Sulla spiaggia c’è un maestro di nuoto con il suo piccolo allievo. Il ma-estro spiega al bambino gli stili: la rana, lo stile libero, il dorso. Il bambino ripete i mo-

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vimenti – l’apprendimento è fatto anche di questo: trasmissione di competenze, di tec-niche, di sapere. Però poi arriva il momento in cui il maestro dice al bambino: «Adesso entra nel mare». È questo momento, in cui il bambino sperimenta l’impatto con l’onda, che davvero gli fa acquisire il sapere che il maestro gli ha trasmesso. Questo significa che non esiste trasmissione del sapere se l’allievo fa come il maestro. Non può fare come il maestro. Perché quan-do arriva l’onda cosa accade? Che l’allievo deve resettare tutto il sapere che ha imma-gazzinato, farlo proprio e rispondere – nel-la contingenza dell’incontro – all’onda che scompagina il sapere astratto della trasmis-sione. Chiaramente l’onda è un’immagine della vita. Noi abbiamo imparato sì gli stili, ma inventiamo un nostro stile – un nostro modo di fare la rana, il dorso, lo stile libero – solo quando impattiamo l’onda. Allora ne deduciamo che non c’è trasmis-sione del sapere senza maestro, ci vuole il maestro; ma non c’è apprendimento se la trasmissione è fare come il maestro. Il mae-stro è fondamentale, ma non si tratta di fare come il maestro; si tratta di inventare un proprio stile, cioè di dimenticare – mentre lo riconosciamo – il maestro. Noi non possia-mo fare senza il maestro, la formazione non è uccidere il maestro, come dicono alcuni. Fare a meno del maestro è qualcosa a cui possiamo arrivare solo se abbiamo avuto un maestro. Allora benedetto sia il maestro, benedetto sia l’incontro con un maestro, al-meno uno nella vita, dalle scuole elementari sino all’università. Devo dire che nella mia pratica di professo-re una delle cose che più mi emoziona ancor oggi è quando, nelle tesi di laurea o di dot-torato, sento che qualche mio allievo – che io riconosco come allievo, dunque che parla la mia lingua fondamentalmente, nelle cui parole riconosco le mie fatalmente – a un

tratto pronuncia parole nuove. Ci sono dei momenti in cui alzo gli occhi perché sento che lui parla, lei parla in un’altra lingua. A partire dalla mia lingua può parlare un’altra lingua. E questa è una grande emozione per un maestro, per un professore. L’emozione più grande è quando sentiamo sorgere dalla lingua della didattica un’altra lingua che è la lingua del soggetto, che è il soggetto come differenza assoluta.

Non aver paura di inciampareSu questo punto lei, citando Pier Aldo Rovatti, afferma che «l’insegnamento ha a che fare con la soggettivazione» e che «insegnare significa, né più né meno, insegnare a qualcuno a divenire un soggetto» (p. 110). Questo significa che l’impronta del maestro non è e non dev’essere un calco, sebbene ogni inse-gnamento porti con sé questo rischio. Come evitarlo?

Direi trasmettendo, insieme al sapere, la consapevolezza che non si potrà mai dire né sapere tutto. Un bravo maestro sa, men-tre trasmette il sapere, preservare il limite del sapere. Limite da intendere non come insufficienza del sapere, ma come condizio-ne profonda, umana del sapere. Un bravo maestro, mentre insegna, mentre trasmet-te il sapere, coltiva questo punto centra-le, questo mistero che abita il sapere, cioè l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Che non si risolve assimilando tutti i libri di tutte le biblioteche del mondo, ma mantenendo una tensione costante verso il sapere. Per-ché se anche sapessimo a memoria tutti i libri di tutte le biblioteche del mondo, non avremmo comunque realizzato una appro-priazione esaustiva del sapere. Perché il li-mite del sapere non è esterno al sapere. Il

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limite del sapere abita il sapere, è un punto interno al sapere.Un grande allievo di Lacan, Moustapha Sa-fouan, racconta che un bravo insegnante si distingue da come reagisce quando, prima di salire in cattedra, inciampa. È un test, dice. C’è l’insegnante che immediatamente si ricompone, facendo finta che non sia ac-caduto nulla. Questo, dice Safouan, non è un modello interessante. Poi c’è l’insegnan-te che si ricompone e, nel mentre si ricom-pone, con sguardo sadico cerca nell’aula chi si è permesso di sorridere per bacchettarlo. Nemmeno questa, dice, è la posizione au-spicabile. Il bravo insegnante, conclude, è quello che inciampa e fa dell’inciampo il tema della lezione. Ecco, qui abbiamo la qualità dell’insegnante. I bravi maestri sanno inciampare. Non temono la propria insufficienza, anche perché la mancanza, come detto, non è loro, ma del sapere. È il sapere che manca. E l’insegnante custodisce la mancanza del sapere. Per questa ragione Giovanni Gentile ha potuto affermare che, solo quando usciva dall’aula con la sensazione di aver appreso qualcosa che a lui stesso sfuggiva prima di cominciare, poteva considerare che quella era stata davvero un’ora di lezione.

L’inciampo mette in ricercaA proposito di questo inciampo voglio fare un’ultima, personale evocazione di maestro. Ricordo che quando entrai all’u-niversità Statale di Milano, agli inizi degli anni ’80, volevo assolutamente frequentare il corso di Mario Dal Prà. Lui insegnava storia della filosofia, io arrivavo a filosofia con un curriculum scolastico tormentatis-simo: bocciato più volte, con un diploma di esperto in coltivazioni di piante tropi-cali in serre calde, insomma un percorso

totalmente irregolare. Mi si diceva che Dal Prà fosse all’ultimo anno di insegnamento, così inserii il suo corso sebbene la guida dell’università lo indicasse come «vivamen-te sconsigliato per le matricole». Il corso era sulla Scienza della logica di He-gel e io che arrivavo dalla floricoltura non avevo gli strumenti concettuali per affron-tare un simile argomento. Però decisi di fre-quentare lo stesso e ricordo questo omino piccolo, che arrivava con sottobraccio i testi di Hegel – in tedesco e in italiano – e li com-mentava. E il commento del maestro, come sempre accade, illumina anche il testo più incomprensibile. Dove c’è insegnamento, c’è la luce, bisogna diffidare degli insegnanti oscuri. Il bravo insegnante è chiaro, strut-turalmente chiaro, perché porta la luce sul testo. E allora anche il testo più denso, più tortuoso, come la Scienza della logica, nelle parole di Dal Prà si scioglieva e diventava luminoso. Ma non tutto, ecco la grandezza del maestro. C’erano dei momenti – mentre commentava il testo – in cui si fermava, alzava gli occhi al cielo e poi diceva: «Qui dobbiamo fer-marci. Chissà Hegel cosa ha visto...». E non proseguiva, inciampava sul testo. L’effetto su di noi era che, appena finita la lezione, ci precipitavamo sul punto dove il maestro era inciampato. Perché l’inciampo rende pre-zioso l’oggetto su cui si inciampa, ancora più dell’oggetto che si trasmette. Perché è lì che si gioca la vera partita. Allora la forza del maestro è, per un verso, portare la luce nel testo, per l’altro preservare l’impossibile da dire nel testo. Ma è questo impossibile che mantiene vivo il desiderio di sapere.

La cultura al posto della drogaPer concludere, lei prima accennava che una scuola capace di rendere il sapere

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un oggetto di desiderio è una scuola che fa prevenzione. Può argomentare quest’idea?

Dicevo prima che il primo miracolo che ogni insegnamento degno di questo nome opera è trasformare gli oggetti teorici in corpi erotici. Il bravo maestro è quello ca-pace di erotizzare il rapporto con il sapere, di incarnare il desiderio di sapere, di tra-sformare il libro in un corpo, di far venire voglia di toccarlo, penetrarlo, annusarlo. Questo genera una seconda trasformazio-ne: l’allievo diventa amante del sapere. Il maestro, incarnando il desiderio di sape-re, mette in movimento l’allievo. Questa trasformazione dell’allievo in amante del sapere è fondamentale nell’insegnamento. L’ultima metamorfosi rappresenta la vera posta in gioco della formazione: trasforma-re i corpi in libri. È questa la sublimazione che accompagna le grandi e straordinarie trasformazioni dell’adolescenza.Forse è un po’ visionario quello che dico. Cosa vuol dire far diventare un corpo un libro? Vuol dire che il corpo dell’altro – sia esso il corpo sessuale della mia compagna di banco, sia esso il corpo del mondo, il corpo della città, ogni legame – diventa qualcosa che merita la nostra attenzione, la nostra cura, che non si può leggere in fretta, che non si può ridurre a strumento per il mio godimen-to immediato, ma bisogna dedicargli tempo. La lettura di un libro non è un mangiare in-gordo, la lettura esige tempo, sospensione, pausa, e soprattutto cura. Allora trasformare il corpo, il corpo di chi amo, il corpo del mondo in un libro è l’effetto più alto di una formazione. E questo è – se vogliamo – un al-tro nome dell’amore, che in fondo è il nome più alto dell’incontro.Pasolini diceva che c’è droga, cioè uso stru-mentale e dissipativo del corpo, dove non c’è cultura. La droga viene al posto della

cultura, la droga è l’esito di un «desiderio di morte» che si afferma sullo sfondo di un grande «vuoto di cultura». Quando non c’è cultura, non c’è linguaggio, non c’è parola, non c’è insegnamento, noi abbiamo la dro-ga. La droga come simbolo di una relazione con il corpo orientata solo dal godimento dissipativo. La funzione della scuola allora è mettere la cultura sopra la droga. È un podio strano, la cultura sopra la droga. Eppure educare è questo: mettere l’amore per l’e-teros, per l’altro, per il sapere, per l’altrove in cima a tutto. Riccardo Massa, che è stato un grande pedagogista in Italia, insisteva su questa etimologia del termine educare: por-tare altrove, cioè sospingere verso l’eteros, verso l’apertura di mondi.Allora direi che veramente, se c’è un ruolo che la scuola può giocare nella prevenzione, non è dato dai corsi e corsetti che si fan-no sulle tossicomanie e sull’anoressia. Né è dato dal professore che si mette a fare lo psicologo con i ragazzi – questa è un’altra retorica cattivissima del nostro periodo. Ma a un professore direi: spiega Ungaretti, spiega Montale, spiega le equazioni, spiegale bene! Fa’ in modo che questi oggetti siano vivi, appassionino, tengano sveglie le perso-ne! Così previeni, così salvi. Non metterti a raccogliere in classe i segreti dei tuoi alunni, come ho sentito dire da un insegnante. No, spiega Hegel, spiega Spinoza, fa’ in modo che l’insegnamento di Hegel e Spinoza sia un insegnamento vivo. Questo salva, per come vedo io le cose. Non l’insegnante psi-cologo del disagio, ma l’insegnante testimo-ne del carattere erotico della cultura. Questa è per me la prevenzione primaria.

Massimo Recalcati psicoanalista, è membro dell’Associazione lacaniana italiana di psico-analisi, direttore scientifico dell’Irpa (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata) e docente all’università di Pavia.

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | st rument i | luoghi&professioni | bazar

di Franca Olivetti Manoukian

I Servizi sociali e sanitari da troppi anni sembrano affannati da varie crisi collegate a riduzioni di finanziamenti e di organici, a delegittimazioni e contrapposizioni ideologiche, a nostalgie di un welfare mai raggiunto e incitamenti verso ri-organizzazioni di cui non si vede il senso. A chi sta dalla parte dei Servizi, a chi pensa che possano contribuire alla qualità della vita di singoli e famiglie, tocca oggi raccogliere idee, motivazioni, cooperazioni per andare oltre questa lunga epoca di crisi e per riaffermare la centralità dei Servizi pubblici e privati nel progetto di una società democratica. Perché produrre Servizi – non dimentichiamolo mai – è tutelare diritti.

Ritrovare nella storia dei Servizi le ragioni e le possibilitàper andare oltre la crisi

Produrre Servizi è tutelare diritti

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Produrre servizi, tutelare diritti: due verbi e due complementi oggetto che potrebbero, dovrebbero in

modo immediato sintetizzare in che cosa consistono le funzioni dei Servizi sociali territoriali, le ragioni della loro esistenza. Sono scritti separati da una virgola. Viene così simbolizzato che appaiono come due aspetti giustapposti. Potrebbero essere congiunti da una lettera «e»: connessione assai leggera, che pesa più o meno come una virgola. Preferirei inserire una «è», terza persona dell’indicativo presente del verbo essere che ha un significato affermativo. Produrre servizi è tutelare diritti.

La tutela di diritti è un bene per tuttiQuesta è l’ipotesi che mi propongo di as-sumere e sviluppare: oggi più che mai, in tempi di trasformazioni che ci sovrastano, di crisi più subite che capite, ciò che i Servizi sono in grado di produrre costituisce un contributo centrale rispetto alle possibilità di garantire i diritti soggettivi, quelli più vi-sibilmente violati perché inscritti in «inde-centi» situazioni di svantaggio e quelli più normalmente disattesi per impliciti, taciti accordi di mantenere silenzio.La salvaguardia di quelli che vengono anche qualificati come diritti umani (human rights, droits de l’homme) poggia solo in casi estre-mi su sanzioni (che comunque non possono intrinsecamente restituire l’integrità fisica e psichica della persona che porterà su di sé segni indelebili delle violazioni subite). Le modalità repressive con cui si tende in altri campi a ottenere il rispetto dei diritti hanno meno peso in questo ambito, proba-

bilmente perché le prove di comportamenti lesivi sono più sottili e opinabili e varie e variabili (secondo le diverse culture) sono anche le stesse interpretazioni di ciò che è stato compiuto. Per lo più accade che la tutela dei diritti sog-gettivi venga attivata in situazioni singolari, ma è bene ricordare che non è soltanto a vantaggio di un’unica situazione: riguarda tante situazioni analoghe, ma soprattutto costituisce una riaffermazione che ha un peso sociale e ha ricadute per tutta la so-cietà. Eppure siamo continuamente inter-pellati sulla domanda di quanto nelle nostre vite collettive sia diffusa la convinzione che la tutela dei diritti soggettivi riguarda tutti e non può trovare effettivo mantenimento e sostegno se non nel riconoscimento dell’e-sistenza di legami intrinseci e di una cultura condivisa inscritta nelle stesse differenze e dissimmetrie.

Un nuovo progetto socialeI Servizi territoriali nelle loro diverse arti-colazioni sono stati istituiti con la finalità di tutelare diritti che, scritti nella Carta costi-tuzionale italiana del 1948, non trovavano, con il trascorrere degli anni, effettiva consi-derazione e applicazione. Erano – e sono – diritti indicati nei principi fondamentali (art. 2, 3, 4) e ribaditi nei rapporti etico-sociali (in particolare art. 32 finalizzato alla tute-la della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività), ma la loro traduzione doveva misurarsi con un quadro sociale fortemente perturbato e segnato da blocchi e contrapposizioni di schieramenti cristallizzati per decenni.

* | Volentieri anticipiamo alcuni contenuti del vo-lume di Franca Olivetti Manoukian, Oltre la crisi. Cambiamenti possibili nei Servizi socio-sanitari, in

uscita presso Guerini e Associati, Milano 2015. Rin-graziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità e collaborazione.

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Nel secondo dopoguerra, grazie anche alle nuove configurazioni delle relazioni inter-nazionali, si andavano mobilitando apertu-re a evoluzioni modernizzanti rispetto agli assetti sociali consolidati, orientate allo sviluppo economico e politico in senso de-mocratico. In questo quadro, avanzano e si condensa-no tensioni verso una concezione più demo-cratica della vita sociale. Un primo indizio di attenzione ai modi di vivere dei cittadini è presente in quella legge Fanfani del 1958 con cui la tutela della salute viene affidata a uno specifico Ministero (scorporata quindi dal Ministero dell’Interno). L’istituzione della Scuola media unica agli inizi degli anni ’60 dà un segnale forte di una scelta politica collettiva di rimuovere le barriere tendenti a separare, già nell’iter scolastico di base, le appartenenze a una classe sociale e a predefinire le scelte succes-sive verso un lavoro operaio o impiegatizio modesto o verso studi e carriere professio-nali più elevati. Alla fine di quel decennio viene approvato il decreto di liberalizzazione degli accessi all’università, grazie al quale qualsiasi ti-tolo di scuola media superiore consente di iscriversi a tutte le facoltà universitarie. Le contestazioni studentesche e gli scioperi del ’68 e ’69 sono espressioni e conferme di movimenti che introducono e sostengono cambiamenti decisivi negli assetti legislativi e istituzionali tendenti a garantire a «tutti» i cittadini la tutela dei diritti di cittadinanza. Si rende più legittima e improrogabile la definizione di un nuovo quadro normativo che renda più pregnante l’obbligo di con-siderare gli esseri umani «uguali», degni di

godere delle stesse prerogative di dignità e di rispetto, al di là delle differenze di genere (uomini e donne), di età (adulti e «minori»), di integrità fisica e mentale, di razza e col-locazione sociale; un quadro che dia nuova esigibilità ai cosiddetti diritti soggettivi – al lavoro, alla casa, alla salute, alla crescita e all’educazione e istruzione. La ricostruzione e la ripresa economica nel nostro Paese hanno contribuito a maturare e promuovere una maggiore attenzione a come questi diritti potessero effettivamente essere esercitati: goduti.

La nascita dei Servizi territorialiI Servizi nascono entro questo clima socia-le (1). Hanno pertanto le loro radici entro movimenti sociali evolutivi e costituiscono elementi di innovazione entro una dinamica sociale rivolta all’instaurare nuove interazio-ni, a socializzare nuovi modelli di conviven-za, a introdurre nuove forme di regolazione dei rapporti tra singoli e gruppi. Compaiono come istituzioni che hanno come scopo prioritario quello di dare con-sistenza e rappresentatività a forze vive pre-senti nel contesto sociale perché sia possibi-le creare e mantenere nel tempo un nuovo ordine che ci si propone di realizzare. Sono espressione e deposito di valori che marca-no modi di pensare e di agire individuali e insieme tendono a rappresentare quello che è considerato «bene comune». Con le forti spinte ideologiche che li sosten-gono, i Servizi in quegli anni rappresentano effettivamente la volontà diffusa di realiz-zare una società più umana e giusta, capace

1 | Una lettura delle premesse ideali e culturali da cui hanno preso vita i Servizi e una analisi dell’avvio delle loro attività è stata proposta da me stessa in un

libretto a cui sono affezionata: Stato dei Servizi (il Mulino, Bologna 1988).

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di contrastare emarginazioni e devianze e di promuovere inclusione e partecipazio-ne verso un ben-essere accessibile a tutti: un sogno, un progetto sociale ideale e lu-minoso. Rappresentano e presentano forti istanze di trasformazione in particolare nei confronti di istituzioni educative, sanitarie e assistenziali, amministrative. Non a caso si pongono e sono visti da vari gruppi come protagonisti di cambiamenti sociali: in particolare di cambiamenti ri-spetto ai modi con cui la società affronta – affrontava o non affrontava – devianze, emarginazioni, esclusioni, distanze dalla «normalità». Lottano per l’affermazione e la realizzazione di modalità più umane di trattare il disagio, per la creazione di condi-zioni più rispettosamente attente alle per-sone e alle dimensioni relazionali. Pongono in primo piano la tutela dei diritti di tutti coloro che sono portatori di «diversità», di mancanze-menomazioni rispetto alla «nor-malità», i diritti di tutte quelle persone che la società tende a porre ai margini e quindi a escludere dalla partecipazione. L’idea guida è quella di contrastare delle pratiche tradizionalmente adottate per trattare situazioni di disabilità, come la ce-cità o la sordità, malattie mentali, disturbi dell’apprendimento e maltrattamenti in ambito familiare, discriminazioni e violenze sulle donne, tossicodipendenze, ecc. Non si deve più ricorrere a repressione e reclu-sione, istituzionalizzazione e isolamento; va contestata ogni impostazione amministra-tiva e tecnicistica, vanno esclusi interventi

«autoritari», strutturalmente non rispettosi dei diritti alla crescita personale, alla parte-cipazione sociale, alla salute, al lavoro, alla famiglia. I Servizi si devono rivolgere a tutti: non solo ad alcune categorie sociali (2).

Una alternativa alle istituzioni totaliAllo «stato nascente» i Servizi socio-sanitari territoriali si pongono come istituzioni anti-istituzionali, come nuove formazioni sociali intermedie che tendono alla demolizione delle istituzioni più tradizionali e consoli-date, chiuse e ingabbiate entro schemi di funzionamento dominati dalle esigenze di sottomissione dei singoli e di controllo totale dei comportamenti, di inibizione e schiac-ciamento di ogni autonomia e iniziativa in-dividuale. Appare più evidente che le varie istituzioni che si occupano di disagi sociali, nelle confi-gurazioni rigide e autoritarie via via assunte nel tempo, sono sempre più lontane dalle evoluzioni culturali che si vanno afferman-do: tendono all’autoconservazione più che alla funzione di regolazione dei rapporti e di mantenimento di valori collettivi (3).Per chi si trova a lavorare nei Servizi ogni ap-parato organizzativo rimanda agli assetti con cui le istituzioni funzionano e intervengono. Per contrastare le istituzioni sembra impre-scindibile rifiutare disegni e funzionamenti organizzativi su cui si reggono quotidiana-mente i trattamenti dei disturbi, i rapporti con gli utenti e tra gli operatori, le attività

2 | Per una analisi della complessa funzione sociale delle istituzioni segnalo il libro di Ota de Leonar-dis, Le istituzioni. Come e perché parlarne (Carocci, Roma 2001).3 | È proprio in quegli anni che ha tanto successo la traduzione italiana, curata da Franco e Franca Basaglia, del libro di Ervin Goffman, Asylums. Le

istituzioni totali: meccanismi dell’esclusione e della vio-lenza (Einaudi, Torino 1968). Parallelamente, finisce per essere posta in secondo piano la funzione positiva delle istituzioni, quella che consente di vivere in una società che non sia del tutto in balìa di rapporti di forza, che qualifica come civile la convivenza perché accetta l’esistenza dell’altro.

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La poca attenzione ai fattori organizzativiNelle considerazioni che sto aprendo sul decollo dei Servizi nel nostro Paese ho più volte fatto ricorso, non a caso, alle parole isti-tuzione e organizzazione. Non sono sinoni-mi. Senza addentrarmi in approfondimenti, mi pare comunque opportuno indicare una distinzione di massima tra i due concetti. Consideriamo le istituzioni come enti-tà aventi un’esistenza sovra-individuale, collettiva, caratterizzate da una intrinseca permanenza, indipendente dagli individui che nel tempo le hanno fondate e ne fanno parte; rappresentano un immaginario in cui è depositato un bene comune; definiscono confini e appartenenze, cornici simboliche che strutturano comportamenti e intera-zioni. Esse tuttavia lasciano molti vuoti che diventano aree di marginalità ed esclusione sociale e nel loro perpetuarsi tendono a di-stanziarsi dalla realtà che cambia in modo disordinato e accelerato.Possiamo riferirci alle organizzazioni come realtà sociali costituite da relazioni tra sin-goli e gruppi finalizzate al raggiungimento di obiettivi collegati ai mandati istituziona-li in modi che possono variare nel tempo. Sono pertanto più direttamente connesse al produrre e a come produrre, e più esposte alle contingenze, al mutare di condizioni economiche e culturali, di competenze e tecnologie e all’esigenza di verificare il pro-prio funzionamento attraverso riscontri e rimandi rilevabili nel contesto sociale. Nelle fasi iniziali di vita dei Servizi nel nostro Paese appare prevalente e dominante l’in-vestimento per solidificare la loro esistenza sul piano istituzionale. È importante che ci siano e che in tal modo dimostrino l’impe-gno per la tutela dei diritti di tutti i cittadini, anche dei «diversi». Quello che producono è scontato, comunque positivo.

interne e con l’esterno. In questo senso, nella nascita dei Servizi sono inscritte diffidenze verso tutto ciò che presentifica la funzione repressiva delle istituzioni: la struttura orga-nizzativa ne è la più immediata traduzione che va demolita o di cui si può fare a meno, per evitare di esserne condizionati. Qualificare questi nuovi Servizi come «ter-ritoriali» esprime la scelta di ancorarli a una prossimità che possa rendere la loro attività ben vigile e pronta. Insediandosi nei diversi contesti sociali è possibile per i Servizi tradurre concretamente la tutela dei diritti soggettivi in iniziative collettive ben identificabili, di per se stesse «rivoluziona-rie» rispetto all’esistente. Anche a fronte di interessi e posizioni contrastanti si tratta di abolire le scuole speciali, di chiudere orfa-notrofi e brefotrofi, di svuotare gli istituti, di demolire i manicomi. Si tratta di instaurare modalità relazionali più aperte e simmetri-che con le donne, con le famiglie e con i bambini stessi. In prima linea sono i Servizi socio-sanitari come i consultori (istituiti con una legge specifica nel 1975) e in seguito i Servizi di salute mentale e quelli per le tossicodipen-denze, che riuniscono professionisti di varie provenienze ed estrazioni: assistenti sociali, medici, psicologi, infermieri, psichiatri, a volte pedagogisti e sociologi. E si va anche a tentare di promuovere integrazioni tra sociale e sanitario. Si costituiscono a livello locale, in qualche area del Nord Italia, alcuni Consorzi socio-sanitari di zona; si sostengono collegamenti tra Servizi dei Comuni e neo-nate Unità sani-tarie locali; si attivano e vengono sostenute cooperative a cui vengono affidate attività da svolgere in strutture diurne e semi-re-sidenziali ritenute opportune e necessarie per particolari situazioni, ad esempio di ragazzi difficili, di tossicodipendenti o di malati mentali.

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4 | Mi riferisco in particolare alle concettualizzazioni introdotte dal libro di Richard Norman, La gestione strategica dei servizi (Etas, Milano 1985), e che ho

ripreso nel mio Produrre servizi (il Mulino, Bologna 1998).

Non so se questa ipotesi che sto proponen-do sia percorribile. Si può comunque con-statare come il lavoro attribuito ai Servizi, tanto complesso e impegnativo per chi è direttamente implicato, in quegli anni sia ben poco considerato dal punto di vista orga-nizzativo. La possibilità di introdurre azioni e interventi decisamente differenti da quelli tradizionalmente messi in atto sembra im-mediata, affidata alle condivisioni ideali e alle motivazioni militanti. La sola articolazione per l’organizzazione del lavoro a cui si fa esplicito riferimento nelle definizioni normative è l’équipe, che viene richiamata e raccomandata come se fosse un dispositivo-chiave per il funziona-mento del Servizio. Non è chiaro, tuttavia, quanto sia vista come dispositivo operativo necessario per lo svolgimento delle attività o quanto esprima l’idea di un funzionamento di gruppo concorde e armonico. Non va dimenticato che in quegli anni il gruppo, il piccolo gruppo di lavoro, il gruppo faccia a faccia, è nell’immagina-rio collettivo la traduzione più immediata (privilegiata e da privilegiare) della possi-bilità di interagire in rapporti simmetrici, di prendere parte attiva, di riconoscersi ed emanciparsi e di sperimentare micro con-testi «democratici» e anche di produrre in modo creativo ed efficace insieme. Sono diffuse varie idealizzazioni. Si sottolinea la centralità del riconoscersi «noi» come deter-minante per il buon lavoro.Gli operatori sono animati da intense mo-tivazioni ideali, che soprattutto nei primi tempi sembrano quasi poter sopperire a competenze professionali approssimative. Si teorizza persino l’opportunità che nei Servizi

venga individuato un operatore unico, a ga-ranzia di interazioni aperte ed empatiche con gli utenti, non condizionate da distanziazioni e asimmetrie che rischiano di riproporre pre-scrizioni e interventi autoritari. Probabilmente all’epoca (4) ci si è appoggiati e fermati all’idea che per la tutela dei diritti fosse essenziale e decisivo realizzare e mante-nere l’esistenza dei Servizi, la loro articolazio-ne decentrata e diffusa, le sedi e le dotazioni di organici di cui potevano disporre, il so-stegno che ottenevano dagli amministratori locali, la loro legittimazione: non altrettanti investimenti sembra che siano stati indirizza-ti a considerare gli aspetti di realizzazione del lavoro «produttivo di servizi» e delle relative esigenze di coordinamento e controllo.

La moltiplicazione di disagi e di serviziAgli inizi degli anni ’90 quando a livello po-litico e amministrativo sembra che si vada concretizzando la possibilità di instaurare anche in Italia un welfare state di cui si parla da anni come meta da raggiungere, gli as-setti di prosperità economica cominciano a manifestare alcune crepe. La società mostra sempre più fragilità, squilibri, contraddizio-ni e mostra soprattutto l’emergere di feno-meni poco o nulla governabili. Cresce il disagio; o meglio, non sappiamo bene se cresca in realtà o se non sia la sua rile-vazione a essere più attenta, grazie anche alla diffusione dei Servizi sociali e socio-sanitari. Infatti, quando si diffondono dei modelli di benessere, di salute, di vita familiare, di successo lavorativo, si notano molto di più e si sopportano sempre di meno carenze,

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disfunzioni e malesseri. Aumenta la perce-zione del disagio e corrispondentemente cresce la richiesta di eliminarlo. In questo quadro va diffondendosi anche la produzione di divulgazioni di saperi di tipo medico, psicologico, pedagogico. Paradossalmente, il diffondersi di cono-scenze in strati molto larghi di popolazione non porta maggiori capacità e competenze nell’affrontare la complessità di varie situa-zioni relazionali e familiari difficili, o meglio induce una acculturazione ambigua. I disagi che si fanno avanti premono per una crescita dei Servizi, per un loro potenzia-mento attraverso sedi più numerose e ade-guate, dislocazioni sempre più accessibili, attraverso l’apertura di nuovi e più specifici ambiti di intervento collegati a problemati-che emergenti (consultori per la menopausa, per i disturbi del comportamento alimen-tare, per adolescenti, per preparazione alla nascita, per percorsi di Ivg...), dotazioni di competenze professionali più approfondite e di strumentazioni più sofisticate . L’accesso ai Servizi di persone e famiglie con disturbi e patologie gravi, disabilità motorie e intellettive notevolmente invalidanti, mal-trattamenti e abusi – e non solo in condizioni di deprivazione economica e culturale – ri-chiede competenze consistenti di operatori, assistenti sociali ed educatori dotati di mo-tivazioni e capacità relazionali empatiche, ma anche specialisti preparati in campo diagnostico e terapeutico, psicologi, medici, psichiatri e neuropsichiatri, nonché terapi-sti della riabilitazione. Il funzionamento in équipe si va frammentando in diversi inter-venti specialistici, in ambulatori, ciascuno strutturato secondo specifiche impostazioni metodologiche e collocato più o meno im-plicitamente entro gerarchie che riservano maggior peso a chi ha posizioni professionali e istituzionali più forti e elevate. Chi lavora nei Servizi si trova così investito

sempre più di richieste, perché la società, l’opinione pubblica, «vede» queste difficol-tà e insieme presenta pretese, esige «rispo-ste adeguate». Questa locuzione (risposte adeguate) diventa quasi una parola d’ordine in tutti i Servizi, ma è carica di elementi am-bigui. Nel complessificarsi delle situazioni di disagio che arrivano ai Servizi e, paral-lelamente, nella diversificazione dei servizi per farvi fronte, gli interventi rischiano di «rispondere» al destinatario che l’operato-re tende a privilegiare perché questo corri-sponde al mandato del Servizio in cui lavora. Ma in quest’ottica di individualizzazione scivola via l’attenzione alla tutela dei diritti, intesa come costruzione di condizioni socia-li in cui tutti possano ritrovarsi considerati soggetti a pieno titolo.

La stradadell’aziendalizzazionePer quel che mi è possibile ricostruire, credo che le leggi 502/1992 e 517/1993 segnino un punto di svolta nella vita dei Servizi socio-sanitari nel nostro Paese. Vengono emanate effettivamente come «riforma della riforma sanitaria». Più che per le singole definizioni in esse contenute sono significative per l’impostazione che le caratterizza. Esprimono una sorta di inver-sione di tendenza per molti aspetti ricon-ducibile a una crescente preoccupazione per l’espandersi della spesa pubblica e per l’esigenza di porvi freno. Non si intende rinunciare a una ipoteti-ca politica di welfare, ma la si incanala su due binari che sembrano da un lato man-tenere linee strategiche congruenti con la scelte passate e dall’altro corrispondere alle nuove esigenze. Si ridisegna per tut-ta l’area sanitaria e socio-assistenziale un governo decentrato, affidato alle Regioni, e al tempo stesso si definisce per i Servizi

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un assetto organizzativo/amministrativo in grado di esercitare funzioni di controllo della spesa e di verifiche di efficienza, in modo analogo a quello che accade nelle imprese industriali e commerciali. È a questo punto che si registra una più consistente attenzione all’organizzazione dei Servizi sanitari e socio-assistenziali. Già ci si era avviati su questa strada quando, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, da parte di alcuni Comuni si era delegata l’attività qualificabile come sanitaria alle Unità socio-sanitarie locali e quando alcu-ne Regioni si orientavano a togliere dalla denominazione degli enti l’aggettivazione «socio». È tuttavia diventata più visibile dopo le leggi 502 e 517 che richiedevano la trasformazione delle Ussl o Usl in asl, aziende sanitarie locali, separandole dalle aziende ospedaliere. In seguito si è avuto un succedersi di disegni e ridisegni orga-nizzativi collegati ad accorpamenti, a ritiri delle deleghe, a varie esternalizzazioni a enti e cooperative, a costituzione di aziende spe-ciali con declinazioni differenti. In questo clima si è diffusa una sorta di acculturazione all’impostazione organiz-zativa dominante in aziende industriali; si sono acquisiti nel linguaggio corrente dei termini come «obiettivi», «budget», «flow chart», «lay out», «core business», «vision» che presentificano la cosiddetta aziendaliz-zazione. La stessa parola «azienda» rimanda immediatamente a una sorta di assimila-zione della produzione di servizi a qualsiasi tipo di produzione industriale, produzione di beni con uso di impianti e macchinari. E questo ha un duplice risvolto. Si assume e si diffonde un’impostazione complessiva che è incardinata su un modello fordista,

impregnato di razionalità astratta, incentra-to sulla divisione a tutti i livelli, in settori, in uffici, in competenze operative a seconda delle categorie e degli inquadramenti, sul-la definizione di regolamenti e procedure sempre più minute, sui controlli formali, sul privilegiare le comunicazioni dall’alto al basso e scoraggiare le interazioni orizzonta-li: un’impostazione verticistica che induce deresponsabilizzazioni diffuse. L’altra ricaduta è una sorta di apprezza-mento idealizzato del funzionamento delle organizzazioni «private» come garante di efficienza e di capacità di innovazione/adattamento, e parallelamente una dele-gittimazione del «pubblico» come impri-gionato in una corazza di inerzie e adempi-menti inderogabili, inevitabilmente statico e autoreferenziale. Ambedue questi aspetti si può ipotizzare che per alcuni anni abbiano contribuito a non sostenere le identificazioni degli ope-ratori a livello di base con i Servizi pubblici, con i Comuni e con le asl come enti locali finalizzati a tutelare salute e benessere. È come se si fosse alimentata una scissione tra «privato efficiente» e «pubblico inefficien-te» e si fosse sottovalutata la centralità – per chi lavora in un’organizzazione che produce servizi – del condividerne le finalità, i valori che danno senso e qualità all’operare quoti-diano con i destinatari. È forse interessante ricordare che, nelle stesse imprese produttrici di beni, alla fine del secolo scorso si cominciava a mettere in discussione il modello aziendale tradi-zionalmente acquisito per ricercare assetti meno rigidi, più mobili e aperti, per intro-durre e sviluppare una nuova cultura (5). Allora perché è stato tanto privilegiato il

5 | Norman R., Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio, Etas, Milano 2002.

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si aprono nuove elaborazioni sui contenuti dell’attività sanitaria, verso una concezione olistica, che mette al centro la persona e che distingue il «curare» come mettere in campo terapie finalizzate alla guarigione e il «prendersi cura» come mobilitazione di ascolti e attenzioni in una comunicazione ravvicinata tra operatore e persona che sof-fre e che è portatrice di disturbi e problemi di salute fisica e psichica.Non solo. Mentre si rafforzano regola-mentazioni e moltiplicazioni dei controlli finalizzati a migliorare la produttività, cioè a ottenere a tutti i livelli interventi qua-litativamente accettabili col minimo dei costi, ci si scontra con rigidità sostenute da varie istanze anche sindacali. Là dove per le inerzie inscritte nel settore pubblico risulta difficile introdurre variazioni speci-fiche nell’organizzazione del lavoro e nella retribuzione o in genere nel trattamento del personale, si ricorre alle cosiddette «esternalizzazioni». Con questo neologismo (anche un po’ astruso) si vuole indicare quella produ-zione che viene posta fuori dall’ambito in cui finora è stata realizzata. Gli interventi nei confronti di situazioni di sofferenza e malessere possono essere spostati dai Servizi pubblici per essere delegati ad al-tri sistemi produttivi, privati, gestiti con criteri di maggiore efficienza, ricorrendo ad altri contratti di lavoro, spesso precari, e a selezioni sommarie con scarse verifiche delle competenze professionali. Si pone l’interrogativo se questa sia una sorta di «privatizzazione che priva», nel senso che trascura il mandato istituzionale della tute-la della salute psico-fisica e degli altri diritti soggettivi, o se sia invece una consegna di finalità pubbliche ad altri attori sociali con cui si collabora proprio per poterle realiz-zare in modo più efficace.

riferimento all’azienda? Perché si è assunto un modello che stava per essere superato? Forse chiamare azienda una qualsiasi orga-nizzazione produttiva significa imprimere un’impostazione in cui il risultato econo-mico deve essere assunto come assoluta-mente prioritario. Ma è questa la maggiore finalità delle or-ganizzazioni dei Servizi, che anche quando sono private hanno comunque una funzio-ne pubblica?

La divaricazione dell’area sanitariaÈ andata individuandosi un’area di Servi-zi qualificabile come «sanitaria» che, con differenze tra le diverse Regioni, è stata in vari modi separata e orientata in senso più specificamente aziendalistico. Essa ha un mercato entro cui sono presenti diver-si soggetti privati e pubblici che erogano un’ampia gamma di attività, anche avva-lendosi di competenze specialistiche, al-tamente specialistiche, a cui i cittadini si rivolgono potendo scegliere liberamente. Il funzionamento organizzativo di quest’a-rea è fortemente regolato da disposizioni normative cogenti che dovrebbero garan-tire la qualità dei servizi forniti da ospedali e case di riposo, da comunità e Servizi am-bulatoriali. Per usufruirne è necessario che i cittadini seguano le procedure previste e dimostrino di avere le prerogative e le documentazioni che confermino le loro richieste. Entro questa impostazione si erogano pre-stazioni, azioni/risposta entro un rapporto interindividuale tra singolo destinatario e singolo operatore che – psicologo o fisiote-rapista o infermiere della salute mentale – è comunque qualcuno che «cura» e pertanto prescrive, inquadra, definisce, decide. Al contempo, è proprio in questo contesto che

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Le ambivalenzenelle regolamentazioniLe diverse sfaccettature delle configura-zioni che si vanno consolidando nei Ser-vizi sono rese più evidenti dall’ampliarsi e complessificarsi delle malattie croniche, delle disabilità permanenti, delle patologie oncologiche, di tutte quelle situazioni in cui si vive con esigenze di cure molteplici e diversificate, messe a disposizione da più professionisti, specialisti, collocati anche in sedi differenti e con modalità di lavoro tra loro disomogenee per stili e strumenti, per documentazioni e orari. Vengono proposte e sviluppate, in più ambiti e da più grup-pi, iniziative rivolte alla umanizzazione dei Servizi come se fosse necessario contrasta-re il funzionamento vigente per realizzare quello che sostanzialmente è il compito primario di queste organizzazioni. In quest’area, cosiddetta della cronicità, che col passare del tempo, proprio grazie ai progressi della medicina, sta crescendo (e che secondo le stime dell’Oms costituisce circa la metà delle richieste di cura presenti oggi nella società occidentale), si avverte più chiaramente l’importanza dell’integra-zione tra Servizi di cura e di riabilitazione, tra professionisti di area strettamente sani-taria e professionisti di area psico-sociale, tra ospedale e territorio, tra Servizi pub-blici che forniscono attività diagnostiche, interventi su patologie in fasi acute e Ser-vizi tendenzialmente messi a disposizione da cooperative per assistenza domiciliare, ospitalità residenziale o semi-residenziale di persone anziane e disabili. Contemporaneamente ci si orienta anche ad attribuire a chi si rivolge ai Servizi con-trattualità e capacità e, riservando soltanto alle situazioni più strettamente ospedaliere la denominazione di pazienti, si introduce l’idea che siano dei clienti, non tanto per-

ché debbano avere sempre ragione, quanto per modificare il sostantivo più tradizional-mente utilizzato – utenti (denominazione più connotata entro una cultura ammini-strativa) – e richiamare uno stile di lavoro e di rapporto più simmetrico, più attento e sollecito. Nell’evoluzione del sistema organizzati-vo dei Servizi sanitari sembrano pertanto presenti delle componenti ambivalenti se non quasi contrastanti: tra impianti lavo-rativi rivolti a standardizzare da un lato e iniziative per umanizzare e personalizzare dall’altro, tra spinta a modificare le orga-nizzazioni pubbliche e adottare affidamen-ti di interventi al privato, tra classificazioni di categorie di destinatari e valorizzazione delle loro capacità di scelta. Accanto a questi movimenti oscillanti va segnalato anche che da un lato si tendono a modificare i rapporti tra Servizi e cittadini per fare in modo che questi ultimi abbiano maggior voce in capitolo, siano più ascol-tati nei loro desideri e nelle loro attese, sia-no sempre più «persone al centro»; d’altro lato gli operatori che sono poi in contatto diretto con loro sono inquadrati in tempi sempre più compressi, in procedure sem-pre più codificate, funzionali a verifiche e valutazioni ed esposte al rischio di diven-tare impersonali. E la tutela dei diritti che i servizi sono chiamati a produrre, come si realizza in questo quadro? La domanda resta aperta. Probabilmente si è andata infiltrando una divaricazione tra produrre servizi e tutelare diritti.

La legge 328 e la riforma del Titolo VLa legge 328 del 2000, arrivata dopo molti anni di attesa di un atto istituzionale che ri-formasse tutto il sistema socio-assistenziale,

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L’area socio-assistenziale viene attribuita alle competenze delle Regioni che sono le-gittimate ad assumere delle scelte diverse anche rispetto alla allocazione delle risorse e alla definizione e programmazione degli interventi. Ogni Regione, dopo alcuni anni, predispone una legge di riordino delle po-litiche sociali che riprende e traduce la 328 con definizioni e interpretazioni differenti, ispirate a diversi indirizzi e rivolte a diverse declinazioni attuative, spesso orientate dai modelli di welfare già praticati e da visioni condivise dalle diverse componenti parti-tiche presenti nel governo locale.

La sorte dei Piani di zona Ci si può chiedere quanto i Servizi e gli ope-ratori, quelli appartenenti agli Enti pubblici ma anche quelli del terzo settore o del co-siddetto privato sociale e del volontariato, abbiano colto le componenti innovative del nuovo dettato istituzionale e abbiano visto la possibilità di farne leva per incrementare e migliorare i sottosistemi organizzativi e gli stessi interventi. Pensiamo in particolare a un dato che po-trebbe apparire un dettaglio, ma anche un indizio a cui ripensare: quanto e come è stata assunta la realizzazione del Piano di zona, un dispositivo in cui si condensano in modo significativo elementi caratterizzanti di una rinnovata prospettiva con cui intervenire nel sociale? Un Piano traduce in termini operativi delle linee di indirizzo rilevanti per dare nuovo impulso alla considerazione e alle strategie di azione rispetto ai problemi sociali: la prima è quella di ancorarsi al ter-ritorio, ovvero alla realtà socio-economica e culturale in cui si vive, di cui si può avere una conoscenza ravvicinata e con cui si può attivare e mantenere rapporti continuativi nel tempo. Questo dà confini all’operare ma

costituisce una presa di posizione forte per la legittimazione degli attori e degli inter-venti che si occupano di difficoltà sociali e per la definizione di orientamenti più aperti alle complessità che si tratta di affrontare. Si disegna un «sistema integrato di interventi e servizi sociali» e quindi è ben presente l’importanza di riconsiderare nell’insieme tutto ciò che si agita in questo campo. Al di là del richiamo ai diritti di cittadinanza che forse è un po’ formale e un po’ rapido, al-cuni elementi mi sembrano da sottolineare come particolarmente rilevanti:• la considerazione e il riconoscimento dell’esistenza nel contesto sociale di più soggetti istituzionali e non, pubblici e pri-vati che possono farsi parte attiva nel con-trasto ai disagi sociali; • la gestione degli interventi in diverse forme, dirette e indirette;• la valorizzazione delle iniziative e delle risorse che possono essere messe in campo da più parti e in più forme;• la rappresentazione degli interventi nel sociale come realizzazioni che richiedono delle progettazioni, ovvero degli investi-menti in idee ed elaborazioni, e anche delle verifiche e valutazioni di impatto;• la centralità dell’integrazione tra diversi attori sociali e tra diversi interventi. Si ha qui una ricomposizione di dimensioni istituzionali e organizzative che sembrereb-be poter orientare o ri-orientare positiva-mente delle ricomposizioni feconde per l’operatività dei Servizi. Costituisce un passaggio innovativo che probabilmente ha avuto ricadute meno importanti e penetran-ti di quel che ci si sarebbe potuti aspettare per diverse ragioni. Soltanto un anno dopo, nel 2001, veniva promulgata la riforma del Titolo v della Costituzione che ricolloca sostanzialmente la legge 328 in un nuovo assetto istituziona-le e ne indebolisce la portata e la pregnanza.

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al tempo stesso facilita connessioni. Il termine Piano può rimandare a processi di programmazione gerarchizzati e rigidi, ma si può anche ipotizzare che intenda esprimere l’importanza di una formalizza-zione scritta di un lavoro programmatorio a cui nel testo si dà più volte il nome di progettazione. Si danno esplicite indicazioni per organizzare i servizi, per rilevare dati, per «stimolare le risorse locali di solidarietà e auto-aiuto», per «responsabilizzare i citta-dini nella programmazione e nella verifica dei servizi», per realizzare integrazioni a livello operativo e di sistema. Mi risulta, tuttavia, che i Piani di zona siano stati visti con diversi atteggiamenti: inizialmente, soprattutto da alcuni, con en-tusiasmo e con impegno a darne traduzione operativa, da altri come adempimenti a cui era necessario sottostare o come tavoli su cui cercare di attribuire (o accaparrare) ri-sorse finanziarie. Ci si è scontrati con varie difficoltà, con Comuni portatori di interessi non univoci, con rapporti tra cooperative e OnlUs influenzati da giochi di potere, con associazioni di volontariato poco propense a inserirsi con contributi specifici. Forse soltanto in alcuni casi felici, attraver-so i Piani di zona, si è riusciti – mi sembra – a costituire un ambito realistico di ridefini-zione di condizioni per garantire per tutti più adeguate tutele dei diritti soggettivi, proprio attraverso una migliore e più mi-rata organizzazione concordata e integrata. Si può considerare questo un indizio con cui interrogare i Servizi? Nel corso del tempo, sedimentate, affievo-lite e cristallizzate le originarie motivazioni ideali, non si è forse depositata una cultura in cui le dimensioni istituzionali hanno as-sunto un peso, più nel senso di mantenere attese di trovare sostegni e legittimazioni che di suscitare idee e iniziative, di far co-gliere possibilità di intraprendere?

Le ricadute della «crisi»Intorno al 2008 dagli Stati Uniti rimbalzano in Europa e nel nostro Paese una serie di fenomeni che vengono complessivamente descritti come «crisi» e che danno ulteriore accelerazione e ampiezza a trasformazioni già in corso, che scuotono un ordine sociale a cui si è abituati e che collegano immedia-tamente accadimenti a livello globale con vicende della quotidianità.A livello individuale e familiare si avvertono come imminenti e possibili perdite di ric-chezza, di collocazione sociale per sé e per i propri figli: si percepiscono con angoscia ri-schi incombenti del venir meno di condizio-ni di abitazione e di lavoro e anche di salute propria o dei propri parenti anziani. È ser-peggiante un malessere sociale che sempre meno è prerogativa soltanto di alcuni strati sociali: sul piano collettivo tende a essere minimizzato o impacchettato (vi si dedicano infatti a livello governativo vari «pacchetti» di misure); ciascuno individualmente cerca di contrastarlo, anche di negarlo, in attesa che prima o poi il ciclone passi. Tutto questo si riversa sui Servizi in termini di maggior numero di persone e famiglie che ad essi accedono (o cercano di accede-re), di pesantezza dei problemi che vengono portati (intrecci di difficoltà economiche e relazionali), di diversi rapporti tra operatori e destinatari (manifestazioni di rivendica-zioni cariche di aggressività), di attese che non trovano risposte. Forse soprattutto si richiede ai Servizi di cambiare. Da parte dei vertici organizzativi vengono sollecita-te e talvolta anche imposte modificazioni sostanziali rivolte a ridurre la spesa e a far fronte comunque al malcontento diffuso. Da parte della gente sono sempre più forti le pretese di veder soddisfatti i propri di-ritti, da quelli di essere tempestivamente

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ascoltati nelle proprie difficoltà a quelli di essere difesi dagli sfratti, aiutati a pagare un mutuo, ottenere un sussidio. I Servizi, costituitisi come fautori di cambiamenti per realizzare maggiore equità, diventano uno degli avamposti più attaccati per esprimere risentimenti e impotenze.A fronte di un’esigenza di contenimento del debito pubblico tutte le organizzazioni dei Servizi vengono inglobate indistintamen-te entro quel sistema – o quell’aggregato – chiamato welfare, per anni considerato come una méta da raggiungere per ogni paese democratico e che oggi non appare più edificabile. Si cerca di qualificarlo in altri modi (welfare locale, welfare mix, wel-fare di comunità, welfare territoriale), forse per rendere meno laceranti tagli e riduzioni di spesa o anche per richiamare confini e riaggiustamenti con cui prospettare il rag-giungimento di una maggior efficienza.

Gli irrigidimentinel funzionamentoLa riforma del Titolo v della Costituzione, che dà ampio spazio alle autonomie locali, se da un lato crea opportunità per nuove combinazioni, dall’altro ha avuto esiti im-previsti rispetto alle attese: le Regioni si sono rivelate nel tempo organismi gover-nativi troppo distanziati dalle problemati-che dei diversi territori e soprattutto troppo differenziate nell’ampiezza, nelle risorse da investire e negli orientamenti, creando di-sparità nelle possibilità di fruizione dei ser-vizi da parte dei cittadini e probabilmente rendendo ancor più evidenti squilibri tra territori, inadempienze e assenze. L’adozione del cosiddetto modello «azien-dale» attraverso interventi di razionalizza-zione definiti (imposti) dall’alto un po’ in tutti gli enti pubblici e importato anche in cooperative e fondazioni, ha portato irri-

gidimenti nel funzionamento, appesan-timento di rendicontazioni e controlli di tipo quantitativo/formale, attenzioni alle esecuzioni di quanto prescritto. In particolare credo si sia sottovalutato quanto in tutto questo assetto abbia influito la considerazione dei singoli come varia-bile dipendente: personale classificato in categorie collocate entro linee gerarchiche e anche utenti, pazienti, clienti individuati per patologie e disturbi dei diversi organi e per aree corrispondenti a caratteristi-che strutturali (anziani, adulti, minori...). L’investimento nelle relazioni con i de-stinatari rischia di essere deviato verso la preoccupazione di non conformarsi a pro-cedure e protocolli, di essere colti in fallo e di subirne spiacevoli conseguenze. A che cosa sono ispirati questi mutamenti organizzativi con cui ci si attrezza per ri-spondere ai mutamenti più generali? È come se fossero acquisiti culturalmente come positivi e risananti dei criteri istituzio-nali e organizzativi già presenti e utilizzati. Non pare abbiano ottenuto riscontri inte-ressanti – nel senso anche di aver segnalato scelte da scoraggiare –, ma si continua a privilegiare, confermare e quasi rinforzare: • il ridimensionamento delle funzioni pub-bliche, minimizzandone e sottovalutandone

L’adozione del modello

«aziendale» attraverso

interventi di razionalizzazione

dall’alto, ha portato

a irrigidimenti nel

funzionamento, all’appesantimento

di rendicontazioni,

a controlli di tipo

quantitativo/formale.

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ne apprendimenti. In particolare credo che abbiano messo in luce che:• il lavoro nel sociale implica una centratura sul territorio, riguarda tutti coloro che lo abitano: è lì che si manifestano i disagi ed è lì che sono presenti risorse non pensate e non immaginate mobilitabili, generative di ulteriori risorse; questo porta a «scoprire» che tra Servizi e cittadini sono possibili di-verse interazioni, diversi scambi tra ciò che può essere messo a disposizione e ciò di cui si può usufruire con vantaggio reciproco; è pertanto cruciale l’investimento nelle re-lazioni di fiducia e nelle comunicazioni tra cittadini e Servizi e tra Servizi; • i problemi di singoli e famiglie vanno iden-tificati, distinti con specifici accorgimenti conoscitivi e collegati a questioni trasversali con diverse elaborazioni: questo consente di disporre di rappresentazioni più realisti-che delle difficoltà, di attivare responsabi-lizzazioni a livello individuale e collettivo, motivazioni e cooperazioni;• sono pensabili e sviluppabili connessio-ni tra gruppi e aree anche molto diverse e distanti tra loro; vanno costruite conver-genze per affrontare i problemi perché si può apprezzare l’efficacia (e non soltanto l’efficienza) di ciò che viene intrapreso solo attraverso visioni orientate da valori sufficientemente condivisi; la costruzione di legami è in divenire e va accompagnata nella ricerca di un «bene comune», che non si osa quasi neppur più nominare.È a partire da riconsiderazioni e riletture di questi orientamenti che mi sembra possibile aprirsi a proposte evolutive.

Franca Olivetti Manoukian, psicosociologa, è formatrice e consulente dello studio Aps di Milano: [email protected]

la portata per la vita di tutti: si sostiene una sorta di spostamento di attività dai Servizi pubblici perché le medesime attività pos-sono essere svolte da Servizi privati con maggiori competenze e soprattutto con maggiore attenzione ai costi. Il risparmio rimane il criterio per il funzionamento dei Servizi e la privatizzazione diventa la ga-ranzia di una buona gestione. La funzione sociale di integrazione e ricomposizione resta in secondo piano;• la centralità della produttività: si esige ef-ficienza o più efficienza e non solo da parte dei vertici dell’organizzazione, che hanno il compito di promuoverne un buon funzio-namento, ma anche da parte dell’opinione pubblica al cui giudizio direttamente o indirettamente l’organizzazione è esposta; per questo è necessario dimostrare tangi-bilmente che le spese diminuiscono o non aumentano e da qui si decidono limitazioni e valutazioni. È irrilevante se questo com-porta gravi disconoscimenti dei diritti sog-gettivi e ricadute in termini di aumento di tensioni e stratificarsi di conflittualità.

Inedite prospettive di pensiero e azioneContemporaneamente l’impoverimento generalizzato con cui si è costretti a con-frontarsi apre altri scenari. Arrivano se-gnali di nuove iniziative che introducono inedite e inaudite prospettive di pensiero e azione in diversi territori, che costitui-scono sperimentazioni molto interessanti e costruttive. Nell’orizzonte generale, rispetto a quel che ho richiamato fin qui, sembrano avere un peso limitato perché appaiono come fram-menti, come esperienze circoscritte soste-nute da alcuni fattori, in particolare di tipo culturale e relazionale. Sono esperimenti di cui tenere attentamente conto per trar-

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in ter v ista | studi | prospettive | inser to | esper ienze | metodo | luoghi&professioni | bazar

Lettera aperta per riconoscerci in una storia che parla al futuro

di Peppe Dell’Acqua

Nel numero 286 di Animazione Sociale, Eugenio Borgna, maestro di una psichiatria dell’ascolto e del colloquio, ha invitato a «rifondare la psichiatria come scienza umana». E ha rivolto il suo appello alla nuova generazione di operatori della salute mentale, senza il cui apporto – ha detto – «la grande rivoluzione basagliana rischia di svuotarsi e di perdere le sue ragioni d’essere». Come rivista, ci è subito venuto in mente di chiedere a un altro maestro, Peppe Dell’Acqua, di proseguire il discorso. Ne è nata questa «lettera aperta», rivolta a chiunque operi nel campo della cura e anche a tutti i cittadini e le cittadine con cui sempre più bisogna imparare a parlare.

A un giovane operatore della salute mentale

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Marco Cavallo, che tu forse co-nosci, ha insistito molto perché ti scrivessi. Di recente abbia-

mo fatto visita agli internati dei sei Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) che ora stanno per chiudere, siamo stati in viaggio per due settimane e abbiamo incontrato tantissime persone. Sono più di quarant’anni che andiamo in giro e di cose ne abbiamo viste, di storie ne abbiamo ascoltate, di persone belle e generose ne abbiamo conosciute tante. Abbiamo condiviso con loro l’attesa del cambiamento, la sorpresa per le impensa-bili scoperte, la commozione delle storie ritrovate. Continuiamo a incontrare persone, e so-prattutto giovani, che raccontano delle dif-ficoltà quotidiane, di chiusure, di assenze, di vuoti, di solitudini. Ci dicono di rinno-vate resistenze a un cambiamento sem-plicemente urgente e quanto mai ovvio. Lamentano la mancanza di una qualsiasi tensione etica, che suppongono essere stata il motore delle lotte di quegli anni. La lettura della recente intervista a Eugenio Borgna sul numero 286 di questa rivista (1) mi ha stimolato a scriverti. Con Borgna condivido l’indignazione per una psichia-tria indifferente ai valori dell’interiorità, ridotta alle psicofarmacologie, distante dai luoghi, dalle voci, dalla vita delle persone.

L’insostenibile grigiore delle psichiatrie È da tempo che sento parlare del gri-giore delle psichiatrie che oggi tengono il campo. «Le mani alla gola degli schi-zofrenici», per dirla con David Cooper, continuano a soffocare emozioni, parole,

passioni. Una scena, questa, che oggi si mostra quasi ovunque senza veli e senza vergogna alcuna.I giovani, più degli altri, rischiano di essere annientati (o di svanire) in questo scenario. Parlo dei giovani che vivono l’esperienza della psicosi e dei tanti giovani che come te si apprestano a fare questo mestiere. I primi rischiano la vita, i secondi, anche! E non ho bisogno di dirti cosa voglio inten-dere. Studenti di medicina, di psicologia, specializzandi, infermieri, tecnici, educato-ri quando scelgono di occuparsi dei malati di mente sono entusiasti, curiosi, disposti a mettersi in gioco.Li vedo generosi e desiderosi di cogliere il senso etico, politico e umano di questo la-voro. Hanno occhi che guardano e orec-chie che ascoltano.Accade che al primo impatto con le accade-mie, con i servizi di salute mentale vuoti e insensati, come troppo spesso accade, con diagnosi e cura che divengono bunker e ri-corrono routinariamente alla contenzione, con strutture residenziali e sedicenti comu-nità terapeutiche, dove domina la miseria della gerarchia, dell’infantilizzazione e dell’intrattenimento senza fine sono tentati di fuggire. Possono restare solo a costo di perdere la luce dei loro sguardi, diventare sordi e accettare la condanna a pratiche indicibili e alla solitudine quotidiana.Nel corso del tempo, un tempo sempre più breve, rischiano di perdere ogni curiosità, ogni desiderio. Arrivando nei luoghi della psichiatria, sperimentano lo sgomento dell’assenza. Per poter sopravvivere, sono costretti a prendere distanza. L’inferno che si presenta quotidianamente ai loro occhi diventerà invisibile. Non si può sopportare di stare in quella scena se non c’è mai un

1 | Borgna E., La terza rivoluzione che serve alla psi-chiatria, in «Animazione Sociale», 286, 2014.

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povero diavolo o un buon cristiano che condivide con noi quel dolore, quella fa-tica, che ci aiuti a continuare. Non si può che impedirsi quella visione, l’inferno non può che essere cancellato alla nostra vista e l’accettazione delle cose così come sono, immutabili e impenetrabili, diventa l’uni-ca possibilità per sopravvivere. Ecco, per questo Marco Cavallo mi spinge a scriverti. Le cose che voglio dirti mi assalgono e ri-schio di essere confuso e di annoiarti. Ma un qualche punto in premessa devo segnar-lo: riconoscerci in una storia che possiamo condividere e cogliere insieme il senso di quanto negli anni passati è accaduto.

Chissà se ti hanno mai parlato di GoriziaAllora dicevo, nel corso del viaggio abbia-mo attraversato 10 regioni e siamo stati accolti in 16 città. Nelle università, nelle piazze, negli ospedali abbiamo incontra-to persone. Parlato e ascoltato tantissimi giovani che ci chiedevano di questo nostro mestiere desiderosi di cominciare. Il loro valore è inestimabile e pure, nella trascu-ratezza e nella disattenzione, rischiano di perdersi, di divenire invisibili. Avrebbero bisogno, per non scomparire nel grigiore delle psichiatrie, di sentirsi vicini gli uni agli altri. Fanno fatica a trovare luoghi e modi per raccontarsi; per dirsi delle incer-tezze, delle frustrazioni, dei successi ina-spettati e della gioia che sempre il lavoro quotidiano con le persone è capace di resti-tuire. Avrebbero bisogno di trovare parole intorno alle quali costruire un dialogo, un conflitto, uno scontro, la capacità stessa di confrontarsi, di condividere, di opporsi, di disobbedire. Abbiamo bisogno tutti di riflettere sulle nostre storie, di frequenta-re esperienze e conoscere pratiche che ci aiutino a vedere che «si può».

Ecco mi piacerebbe parlare con te, di come ricominciare. È urgente.Ma forse prima sarebbe bene che tu mi dicessi delle tue esperienze, delle tue co-noscenze, dei tuoi punti di vista. Chissà se ti hanno mai parlato di Gorizia. Nelle facoltà di medicina, di psicologia, di in-fermieristica, di assistenza sociale e nelle scuole di specializzazione e di riabilita-zione psichiatrica è difficile trovare corsi, seminari, ricerche legati alla storia del cambiamento, alle possibilità di cura e di emancipazione che sono nate dalle prime porte aperte dell’ospedale goriziano. I rife-rimenti vengono cercati altrove, si studiano malattie, modelli di servizi, assetti sociali e politici che non tengono conto della scel-ta di campo che il nostro Paese ha fatto abbandonando il modello manicomiale, restituendo diritti, e scommettendo sulle possibilità dei singoli. Ovunque si inse-gna La Psichiatria e ovunque domina la freddezza del paradigma medico, troppo spesso mutuato da assetti culturali e sani-tari di altri paesi.Chissà cosa ti hanno raccontato della storia della malattia mentale? E del malato? Della legge 180? Della chiusura dei manicomi? Dei diritti? Delle ritrovate cittadinanze?

La salute mentale è altro dalla psichiatriaSo per certo che nelle nostre scuole è raro sentire parlare di salute mentale, che non è psichiatria! L’insegnamento dominante delle psichiatrie la ignora, oppure la incor-pora e la snatura. Così il dipartimento di salute mentale, in alcune regioni, diventa dipartimento di psichiatria e i servizi ter-ritoriali di salute mentale, ambulatori di psichiatria. È chiaro che non è la stessa cosa. I nomi tradiscono la persistenza di modelli che avremmo dovuto abbandonare

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e comunque una sorda resistenza al cam-biamento. Salute mentale è mettere in campo le per-sone con le loro singolari esistenze; cogliere l’insieme delle relazioni, delle tensioni, dei conflitti di una comunità; portare le risorse e le cure dalle istituzioni, dagli ospedali (mi riferisco qui alle strutture residenziali, ai «repartini» ospedalieri e non ultimo oggi agli Opg) nel territorio; spostare l’attenzi-one dalla malattia all’individuo (alla per-sona, al cittadino) e alle sue peculiari dis/abilità; muovere da azioni individuali ad azioni collettive nei confronti delle persone con disturbo mentale e dei loro contesti. Incontrare e «creare» esistenze.Quando ti parlo di cambiamento voglio intendere che i manicomi non ci sono più e siamo oggi impegnati, con la chiusura degli Opg, ad abbandonare per sempre gli ultimi residui dei dispositivi di interna-mento ottocenteschi; le persone che vivono l’esperienza del disagio mentale possono contare, se pure tra mille ostacoli, sui loro diritti riconquistati; le imprese sociali, le cooperative, nate proprio dalle macerie del manicomio, dove riescono a tener fede alle ragioni della loro origine e sono in grado di stare sul mercato e produrre lavoro, rendono concrete le speranze di crescita e di emancipazione di tantissimi; ovunque, bene o male, i servizi territoriali sono stati organizzati ed è possibile trovare Centri di salute mentale attivi e presenti quotidiana-mente a sostegno della vita delle persone; le associazioni di persone con disturbo mentale creano protagonismo, partecipa-zione e ripropongono la dimensione poli-tica delle esperienze, delle diversità, delle fragilità; in tanti luoghi dell’abitare e in tanti laboratori, è possibile oggi coltivare il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti; la qualità dei lavori e delle produzioni dimostra che è possibi-

le curare senza contenzioni, con le porte aperte, con programmi abilitativi perso-nalizzati, con percorsi di formazione e di inserimento lavorativo reali, con il sostegno e il coinvolgimento dei familiari, con l’ap-poggio puntuale, anche economico, nella vita quotidiana, con la possibilità per le persone di vivere identità plurali. Con la possibilità di guarire.

Perché la legge 180fa così fatica?Molti mi chiedono: ma cosa è accaduto ve-ramente, come mai dopo tanti anni la legge 180 fa tanta fatica, perché tante differenze? Non è semplice rispondere, ordini di di-scorso diversi si sovrappongono e creano grovigli difficili da sciogliere. Che cosa è stata la riforma dell’assisten-za psichiatrica in Italia, o meglio che cosa avrebbe dovuto essere se non un simulta-neo tentativo di attraversare la dimensione etica, disciplinare, politica e amministrati-va? Che cosa vediamo oggi, o dovremmo vedere, se non il radicale cambiamento delle organizzazioni del lavoro e delle pra-tiche, dei luoghi e dei tempi, delle tecniche e degli indirizzi disciplinari, della dispo-sizione strategica delle risorse in campo? A ben guardare, è la disposizione incerta, incompleta, approssimativa dei servizi di salute mentale nel territorio la chiave di lettura di ciò che è accaduto e accadde. La distanza (o la vicinanza) dalla vita delle persone, i riferimenti culturali e disciplina-ri im/mutati, in una sola parola l’organizza-zione e le sue forme permettono di cogliere il senso e le ragioni delle buone pratiche (e ancora meglio dei fallimenti).Ho avuto la fortuna di vivere a Trieste l’attenzione quotidiana, frenetica e os-sessiva allo smontamento dell’ospedale psichiatrico.

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La rassicurante stabilità del sistema mani-comiale si è dovuta tradurre nella ricerca incerta di modi e parole differenti, nella «banalità» del lavoro quotidiano, nel ri-conoscimento prima di tutto dell’irruzione dei bisogni delle persone sulla scena. I sog-getti non potevano più essere accantonati. È a partire da qui che sono nati i servizi di salute mentale e la loro capacità di radicarsi nel territorio e di operare criticamente sui modelli medici e psicologici dominanti, di produrre davvero protagonismo, di ve-dere la «persona non la malattia». È qui, credo, che bisogna giocare per uscire dal grigiore e dal pessimismo che oggi tanto si respira nei servizi e nelle accademie. L’organizzazione del lavoro ha dovuto pie-garsi alla presenza dei soggetti e i linguaggi del quotidiano hanno cominciato a tessere un lessico familiare, capace di riconoscere e sostenere le molteplici identità, di ascol-tare, di accogliere.

Il dottore domina ancora la scenaSono sempre più convinto che è necessa-rio trovare indirizzi, percorsi, visioni da condividere, alleanze e reti per formare associazioni, lavorare sempre insieme agli altri, fare gruppo. Bisogna avere la capacità di convergere e orientare lo sguardo verso orizzonti etici che insieme si riconoscono. I giovani operatori, al contrario, vengono avviati allo specialismo esasperato, all’ac-cettazione acritica di tecniche e modelli, a «difendersi» all’ombra di mansionari, di posizioni di garanzia, di protocolli. L’idea che tu debba diventare il bravo dottore è ancora profondamente radicata nelle scuo-le e nei servizi. Si propone e si riprodu-ce quotidianamente nella separazione di compiti e funzioni, in un circolo vizioso che porta a pensare che i centri di salute

mentale debbano essere poco più che uno studio medico associato con un infermiere che risponde al telefono e tiene gli appun-tamenti.Per fortuna il tempo non è passato inva-no e le persone oggi chiedono di guari-re. Mettono impietosamente in luce il fallimento di questi sistemi. Richiedono consapevolmente un ascolto singolare e un altrettanto singolare percorso di cura e di emancipazione. Chiedono di vedere valorizzati i loro faticosi e unici percorsi di ripresa. Vogliono essere aiutati e sostenuti nell’attraversare cruciali e rischiosi punti di svolta nella loro esistenza. Cominciano a disegnare, con la loro domanda, servizi popolati da una molteplicità di operatori, servizi che essi pretendono orientati alla guarigione, alla ripresa appunto, al soste-gno delle loro vite e dei loro sogni. Anche nel tempo lungo.In molti professionisti della salute men-tale l’adesione entusiastica al processo di chiusura dell’ospedale psichiatrico si ma-terializzò in un rafforzamento arrogante del modello medico, delle tecniche, dei farmaci, del dottore che domina la scena: finalmente psichiatri, psicologi, infermieri (con i loro sindacati) potevano liberarsi dal fardello del controllo sociale, proprio della psichiatria (manicomiale), della pericolosi-tà, delle ruvidezze che da questo momento dovevano essere delegati a un confuso e misero sociale. Potevano finalmente ri-trovare la purezza della psichiatria medica nel camice bianco inamidato di fresco, nei servizi ospedalieri, negli ambulatori, nelle cliniche private, negli istituti residenzia-li. Potevano affermare con l’ingannevole credibilità scientifica appena conquistata, fuori dal manicomio, l’indispensabile e irrinunciabile ricorso alle porte blindate, alle contenzioni, alle dosi eroiche dei trat-tamenti farmacologici.

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Le evidenze contano più delle scelte di campoMi chiedi dei risultati oggettivi, degli esiti dei trattamenti, se le persone stanno me-glio. Vuoi poter valutare i vantaggi dei mo-delli che ti vado proponendo. Mi richiami spesso all’evidence based per uscire dalle incertezze e dalle perplessità che ti assal-gono. Le possibilità nuove ed estese di ripresa, di integrazione, di emancipazione sono quanto mai evidenti. La presenza sulla scena, sempre più evidente, delle perso-ne che vivono l’esperienza del disturbo mentale allude a prospettive inaspettate. Forme originali di abitare, di lavoro e di socialità possono realizzarsi ovunque. Ma più che le evidenze, sono le scelte di campo che danno conto dei cambiamenti e dei ri-sultati. Potrei dirti per brevità della «porta aperta». La porta aperta, dicevamo in ma-nicomio, e continuiamo a dire nel mondo di fuori, per l’esercizio della cittadinanza. La porta aperta per un’etica della dignità, dell’inviolabilità del corpo, del rifiuto della violenza. La porta aperta per un lavoro di cura che (finalmente) può farsi nella con-siderazione dell’altro, nell’incontro, nella conversazione.

I libri di psichiatria che devi studiare par-lano di un mondo pulito, silenzioso, geo-metrico. La Ragione domina la follia dal giorno stesso della nascita della psichiatria. Nella copiosa letteratura psichiatrica non si trova ombra di una sofferenza, di un do-lore umanamente comprensibile, non un odore, non un grido, non una voce, non un silenzio. Non una prepotenza subita o esercitata. Emozioni e sentimenti raggela-no nel linguaggio della clinica, i sintomi si sostituiscono alle persone. Si costruiscono così spazi e trattamenti nella stessa rare-fatta atmosfera di irrealtà dei manuali di psichiatria. La quotidianità dei luoghi dove vivono veramente gli operatori, chiusi negli ambulatori e impegnati in prima linea ad affrontare la domanda di aiuto delle per-sone con disturbo mentale scompare. I giovani vengono avviati a questo mestiere come uno scalcinato esercito mandato al fronte della normalità per difendere tutti noi dalla follia in trincee fangose, fredde e ingenerose. Nell’armamentario che i giova-ni operatori, e gli psichiatri in particolare, portano in quelle trincee non c’è traccia alcuna di persone, di parole, di salute men-tale. Soltanto la presenza incontrastata di una Psichiatria che vuole apparire «moder-na» senza riuscire a liberarsi dalle antiche impresentabili origini.

La non oggettivazioneè il confine invalicabileBisognerebbe ampliare conoscenze sui diritti, sugli assetti normativi e legislativi, sulle politiche di salute mentale; si dovrà sempre più valorizzare il sapere disciplina-re collegandolo a quanto accade in termini trasformativi nella realtà dei servizi; occor-rerà essere capaci di attraversare gli ambiti scientifici anche per proporre visioni che si allontanino dall’abusato ricorso al paradig-

Nell’armamentario

che i giovani operatori, e gli psichiatri in particolare, portano in quelle

trincee non c’è traccia alcuna di

persone, di parole,

di salute mentale.

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ma clinico-medico. Bisogna muovere dalla consapevolezza delle nostre esperienze e dichiarare che molti dei servizi di salute mentale, così come sono organizzati oggi, hanno scarsa valenza di cura e non sono in grado di dispiegare le enormi potenzialità dimostrate dalle buone esperienze inno-vative e da un assetto legislativo unico al mondo. Ti sto dicendo che devi finalmente rischia-re di diventare protagonista. Una vasta schiera di giovani operatori non ancora del tutto «contaminata» dalla psichiatria, deve poter entrare in gioco e maturare co-noscenze anche in opposizione alla forma-zione accademica grigia e, per tanti di voi, mi dite, insoddisfacente.Ci sono azioni, trattamenti, posizioni che segnano drammaticamente il campo e biso-gna scegliere da quale parte stare. Il rifiu-to ostinato della contenzione, della «porta chiusa» e più in generale di tutte le forme inerti e stupide di oggettivazione rappre-senta il discrimine, il confine invalicabile. Con umiltà e abbandonando la conforte-volezza dei luoghi comuni occorre tornare sulle parole, ora a rischio di sparizione, che dettero inizio ai grandi cambiamenti negli Stati Uniti, in Europa e nel nostro paese. A fronte delle conoscenze certe apprese dallo studio della clinica dei disturbi mentali, bi-sogna ripensare al mondo dell’esperienza, a quanto accade veramente nella nostra quotidianità, alla fatica dell’incontro con l’altro. La messa tra parentesi della malat-tia, per esempio, ha restituito allo sguardo e all’ascolto uomini e donne nel divenire della loro esistenza; ha reso possibile nar-rare e ascoltare.Essere con le persone rende finalmen-te comprensibile la loro sofferenza. Le sottrazioni e le miserie di tanti servizi di salute mentale, una volta svelate, non pos-sono non diventare il punto di partenza,

faticoso e contraddittorio, per impegnarsi in pratiche di cambiamento intorno alla corporeità, alla materialità, alla tangibilità delle persone.

Cerchiamo insieme come ricominciareUno psichiatra, ed è la prima volta che ac-cadeva, cerca di prendere le distanze dalla cultura e dal paradigma biologico-clinico (che ha prodotto e riprodotto il manico-mio). Insieme ad altri giovani, si sta interro-gando sulla in/comprensibilità del malato di mente reso muto dalla rozzezza della persistenza dell’armamentario positivista. Quando gli toccherà di entrare nel mani-comio non potrà non vedere.Il 16 novembre 1961, Franco Basaglia entra nel manicomio di Gorizia.Per me è l’inizio del cambiamento che sto cercando di dirti. Una storia che tutte le volte che la racconto si traduce in presente e comincia a parlarmi di futuro.

Peppe Dell’Acqua, psichiatra, collaboratore di Franco Basaglia dal 1971, per molti anni direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, insegna psichiatria sociale all’Uni-versità di Trieste ed è direttore della Collana «180. Archivio critico della salute mentale» dell’editore alpha beta Verlag di Merano: [email protected].

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Quest’inserto esplora un concetto innovativo nella salute mentale: la recovery, un termine di difficile traduzione, ma di grande pregnanza. In italiano si può esprimere con «ripresa di sé». Non significa necessariamente guarigione clinica, bensì enfatizza il viaggio che ciascuno compie nel costruirsi una vita al di là della malattia.Proprio qui è il potenziale innovativo racchiuso in questo termine. Anche se i sintomi permangono, si può comunque star meglio, migliorare la propria vita. Come? A dircelo sono le stesse persone con esperienza di disturbo mentale severo: accettando la propria condizione, ridefinendo un senso di sé, imparando a chiedere aiuto nei momenti in cui si sente la crisi arrivare, negoziando coi servizi le cure, partecipando alla vita sociale con il lavoro e altre forme di inclusione.Com’è intuibile, il concetto di recovery non nasce dalla psichiatria biologica, oggi dominante, di cui anzi rappresenta la sfida più grande. Nasce invece dal movimento degli ex utenti, dall’ascolto dei racconti delle persone che hanno fatto i conti con la sofferenza, dal riconoscere dignità ai mille modi con cui i soggetti provano a superare le loro crisi, psicotiche o depressive. È dunque un concetto che dalle frontiere della salute mentale prova a farsi strada. Incontrando fatalmente la resistenza della psichiatria medica, purtroppo ancora preda di quello che nell’inserto viene definito «pessimismo kraepeliniano». Emil Kraepelin è lo psichiatra tedesco che, tra ’800 e ’900, ha sostenuto l’oggettività della malattia mentale, ritenendo irrilevante (ai fini della comprensione e della cura) il modo in cui

essa viene soggettivamente interpretata. «Kraepelin – ha scritto Eugenio Borgna – è rimasto estraneo all’arcipelago infinito della vita interiore dei pazienti. Nell’orizzonte kraepeliniano del discorso, la schizofrenia si trasforma in una malattia, in una realtà clinica, che segue le sue proprie leggi naturali: insensibile, dolorosamente insensibile a qualsiasi articolazione, a qualsiasi sollecitazione, ambientale e interpersonale, psicoterapeutica e socioterapeutica».Le «leggi naturali» della malattia mentale sono quelle della «prognosi negativa» e della «cronicità». Due miti che la recovery sfata, illuminando come le persone interagiscano attivamente col proprio disturbo (e nell’interagirvi ne influenzino il decorso) e coltivino il desiderio di costruirsi una vita oltre e nonostante il disturbo mentale. Per i servizi di cura è oggi vitale confrontarsi su questi terreni, per continuare a porsi a servizio della salute delle persone e dei territori. Le riflessioni di quest’inserto riprendono e rielaborano i contenuti del prezioso volume Guarire si può, curato da Izabel Marin e Silva Bon (uscito presso l'editore alpha beta Verlag, nella collana «180»).

38 | R. MezzinaVivere al di là della malattia 48 | I. Marin Se la prognosi negativa è un mito da sfatare

62 | M. Ciambellini, A. Eusebi, L. Negrogno, F. StaraceLa cittadinanza è ancora terapeutica

71 | I. Marin Progettare servizi orientati alla recovery

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A cura di Roberto Mezzina, Izabel Marin, Manuela Ciambellini, Anita Eusebi, Luca Negrogno, Fabrizio Starace

Costruirsi una vita al di là della «malattia mentale»

Nella storia della salute e della malattia mentale, è successo che a un certo punto abbiano cominciato a parlare i diretti interessati. E quando i soggetti portatori del problema riescono a farsi sentire, il problema viene a ridefinirsi. Dai loro racconti emerge che il disturbo psichico è un’esperienza attraversabile e dunque la cronicità non è un destino. Che la salute mentale è la capacità di riprendere in mano la propria vita e non per forza l’assenza di sintomi. Che se è difficile arrivare alla guarigione clinica, è comunque indispensabile perseguire una miglior qualità della vita. E – non da ultimo – che ai servizi di salute mentale spetta accompagnare le persone nei loro viaggi verso la «riconquista di sé». Un’idea potente, che in questi anni abbiamo imparato a chiamare «recovery».

Inserto del meseLa recovery nella salute mentale

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Il concetto di recovery attraversa oggi culture e prati-che della salute mentale e rappresenta la sfida più gran-de all’ideologia medica, nel momento in cui sottolinea il ruolo attivo delle persone e i fattori di significanza connessi alle loro storie, alle loro vite. È un concetto ormai entrato con forza nelle politiche e nei documenti ufficiali, anche dell’Oms (dalla Mental Health Declaration di Helsinki 2005 al nuovo Action Plan europeo), e appare centrale nel saldare le esperien-ze nate dalla deistituzionalizzazione della psichiatria e delle sue istituzioni, con il sapere che emerge dai processi di empowerment (acquisizione di potere) ed emancipazione delle persone.A partire dalla deistituzionalizzazione, a Trieste come in altre esperienze sul territorio nazionale, gli utenti dei servizi hanno infatti riguadagnato non solo un livello di potere, ma anche la possibilità di «dire», di avere la parola. E oggi chiedono che sia riconosciuto il valore dell’esperienza sofferente, sia pure come diversità.

Cosa si intende con recovery?Vi sono miriadi di definizioni di recovery, che fanno sì che il significato del termine di volta in volta muti sulla base delle intuizioni di studiosi, ricercatori, ope-ratori, esperti «per esperienza», familiari e formatori. In inglese il verbo to recover significa riaversi, ripren-

Roberto Mezzina

Vivere al di là della malattia Il viaggio per riprendersi la propria vita

Nella salute mentale si è fatta strada in questi anni l’idea di recovery. Significa «ripresa di sé» e rimanda al viaggio compiuto da ciascuno per costruirsi una vita al di là del disturbo mentale, anche severo. È un concetto che nasce dall'ascolto delle persone che hanno imparato a convivere con la propria sofferenza, senza farsene inchiodare ma prendendo coscienza dei margini di libertà che comunque sempre rimangono. Costituisce una sfida all'ideologia medica perché non si focalizza sulla malattia, ma mette in luce quel che occorre per vivere fuori dalla sua ombra. Come tale interroga oggi i servizi, gli operatori, le politiche.

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dersi, recuperarsi. E recovering è il percorso o processo che si compie. In italiano, nonostante l’origine latina del termine, non vi è nessuna parola che abbracci e in un lampo ci faccia cogliere questa accidentata polisemia.

Recovery non è la guarigione clinicaSi tende a identificare recovery con «guarigione», ma è corretto? In realtà la parola guarigione rimanda a un concetto forse ancora troppo medico, che non contiene nulla del senso dello star male. Benché la guarigione rappresenti la più alta aspira-zione di coloro che soffrono, di qualunque malattia si tratti, questa parola rischia di risultare fuorviante in psichiatria in quanto nessuna lesione biologica o alterazione anatomica è dimostrata. La psichiatria risulta inadeguata se propone una comprensione del fenomeno an-cora all’interno del modello medico-biologico di malattia-menomazione (illness-impairment) e disabilità (disability). La sregolazione di alcuni circuiti neurotra-smettitoriali non spiega infatti nulla della complessa condizione di disturbo severo, della sua esperienza soggettiva e del suo oggettivo corso o decorso.Da cosa si dovrebbe guarire ancora non è chiaro. Dalla malattia mentale, dalle psicosi, dalla schizofrenia in particolare? O dall’esperienza dell’essere paziente, ovvero dallo stigma, dagli esiti negativi e dagli aspetti disumanizzanti che i tratta-menti psichiatrici troppo spesso comportano?Guarigione richiama alla mente soprattutto un esito finale: un accadere biologico, favorito o addirittura determinato da terapie e cure, il che ripropone un nesso causale col lavoro terapeutico che non solo è difficile da dimostrare, ma che diventa ingiusto misconoscimento della complessità di tutti i fattori in gioco, in particolare di quelli soggettivi. In tal senso il concetto di guarigione mostra i suoi limiti, e giustamente la psichiatria inglese sottolinea che recovery non è cure, cioè non è il prodotto delle terapie psichiatriche quali esse siano.

Recovery è il viaggio nel ricostruirsi una vita al di là della malattiaAnche in senso psicodinamico, la psichiatria ha spesso delineato, utilizzando il suo linguaggio e i suoi codici, una psicogenesi della malattia. Ma non è descritto il processo attraverso cui la guarigione si realizza, e il tempo della guarigione rimane misterioso ancor più di quello dell’ammalamento. Su queste questioni non possiamo far altro che emettere ancora dei balbettii.Cos’è allora recovery? Potremmo dire che questo termine enfatizza il viaggio com-piuto da ciascuno nel ri-costruirsi una vita al di là della malattia. La recovery è presa di coscienza di sé e dei propri problemi, ma soprattutto dei propri obiettivi di esistenza. Il che significa uscire dal modello medico, di delega totale del corpo e della psiche ai tecnici per il trattamento della malattia. Si tratta dunque di un concetto che dobbiamo riconoscere come emergente al di fuori del mondo professionale, che ci piaccia o no, e che solo in un secondo tempo e con non poche forzature si può inquadrare nei codici della psicologia o della psichiatria.

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Riguadagnare controllo sulla propria vitaQuali sono gli indicatori della recovery? Scomparsa dei sintomi, oppure fiducia in se stessi, autostima, autodeterminazione, empowerment?

Alla base un diverso rapporto con il sintomoAl di là della definizione medica di guarigione, il concetto di recovery pone il tema del cambiamento del rapporto col proprio problema o col proprio disturbo: riguadagnare il controllo su ciò che ti accade e in senso più ampio sulla tua vita, migliorarne la qualità, vivere la vita più positivamente. «Progetto di sé» è forse l’espressione che descrive nel modo migliore tale processo. Il contributo scientifico maggiore all’idea di questo tipo di percorso lo si deve a John Strauss, che ha descritto il processo di elaborazione dell’esperienza psicotica come rapporto tra il sé e i sintomi, tra la soggettività del malato e l’oggettività, in un certo senso, della malattia. Nel percorso di recovery la persona in sé è il fattore determinante, con le sue capacità di coping, di resilienza e di affrontamento della malattia, ma anche di cambiamento personale, di accettazione di sé e di contem-poranea assunzione di responsabilità. A riguardo scrive Larry Davidson (1)

L’esperienza di recovery dalla malattia mentale implica un processo di recupero o di sviluppo di un ruolo valido e di un senso di identità positivo al di là della propria disabilità, e quindi la ricostruzione della propria vita nella comunità più ampia no-nostante le limitazioni imposte da tale disabilità.

È questa forse una delle migliori definizioni: in essa si compie il passaggio dal «ri-prendersi dal disturbo» al «riprendersi la propria vita», scompaginando le carte della psichiatria. Eppure nemmeno questa riesce a esprimere a fondo la complessità e la ricchezza del termine, l’ampio alone semantico di un oggetto scientifico che corre talora il rischio di essere interpretato come un costrutto contraddittorio, ambiguo e nebuloso.

Lo sviluppo di un nuovo senso del sé La questione della recovery rende più chiaro il modo in cui i soggetti si relazionano alla malattia, la direzionano, non vi soggiacciono più passivamente. Vivere «fuori dalla malattia», dal suo alone, dalla sua ombra, ne è l’obiettivo vero. Anche nella catastrofe vissuta della crisi, nell’abisso dello star male, vengono descritti dalle persone come dialetticamente compresenti sentimenti positivi e ricostruttivi: la ripresa è già contenuta nella lotta contro la malattia, o meglio nelle capacità del soggetto di affrontarla.Se la malattia è invariabilmente descritta come non-libertà e non-scelta, come trap-pola per il soggetto, la recovery non può che consistere in un processo di apertura

1 | Davidson L., Strauss J. S., Sense of Self in Recovery from Severe Mental Illness, in «British

Journal of Medical Psychology», 65, 1992, pp. 131-145.

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di possibilità. Vengono apprezzate le cose importanti per tutti: riavere una famiglia, avere amici con cui uscire, saper affrontare le relazioni interpersonali. E questo non coincide necessariamente con il superamento definitivo dei sintomi e con la sospen-sione delle terapie. Coincide invece con il riprendersi in mano la vita, ri-acquistare potere, assumere un nuovo ruolo come quello di «ex» paziente, quindi mettere alle spalle ma anche fare tesoro dell’esperienza, valorizzarla. Il tutto nel mentre si va a sviluppare «un nuovo sé» o meglio un «senso del sé», come afferma Strauss. Spesso capita che questo processo comporti il lottare per la propria autoafferma-zione anche contro la psichiatria: il malato «che si mette di traverso» al servizio rappresenta questa posizione in modo esemplare. Occorre in tal caso per gli ope-ratori accogliere il conflitto come elemento di trasformazione, capire e negoziare, trovare altre strade.Dove emerge il soggetto, dove si vede la persona e si assottiglia la malattia (e la psichiatria), si intravede così la possibilità di ridare valore all’esperienza sofferente come percorso personale e come significato interpersonale rivolto alla nostra vita sociale e alle possibilità di coesistenza.

Fenomenologia del percorso di recoveryQual è la fenomenologia del percorso di recovery?

La recovery è un processo, come la vitaLa recovery non è un esito, ma un processo, come la vita. Niente è definitivo, tutto è una lotta. Prima ancora che essere un costrutto psicologico o clinico, fa riferimento a elementi di base dell’esperienza umana, a ciò che ci unisce e ci rende partecipi dell’esperienza altrui. La recovery è il percorso che la gente compie nel superare eventi gravi dell’esistenza come lutti, malattie, separazioni: tutto ciò che cambia la vita in maniera irreversibile e rispetto a cui siamo chiamati a cambiare. È un cambiamento, anche parziale ma definitivo, del rapporto con la malattia: i punti di svolta sono rappresentati di solito da eventi precisi, ma anche da cambiamenti di atteggiamento. La recovery non è pertanto un processo graduale e progressivo, ma va avanti a salti, a volte retrocede, per poi ripartire; ciò che conta è la corrente che spinge.C’è dunque una direzionalità, ma non una linearità, ossia ci sono molte strade diverse che conducono a un diverso rapporto con la «malattia». La difficoltà per le persone, ma anche per chi cura, è saper riconoscere e valorizzare i passaggi, i salti qualitativi del percorso. Anche quando la persona sembra ferma, si arresta o arretra, può voler dire che sta raccogliendo le sue energie, in una progressiva accumulazione di risorse e di miglioramenti minimali non visibili, che rendono possibile poi un salto.

BOXDOPO MESI DI SILENZIO GIANFRANCO INIZIA A RACCONTAREÈ il caso dell’esperienza emblematica e straordinaria di Gianfranco, che dopo otto mesi di silenzio totale, improvvisamente, senza alcun motivo apparente e nessuna nostra aspet-

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tativa, inizia a parlare e a raccontare come ha passato il suo tempo a guardare la vita che scorreva davanti ai suoi occhi e le persone che frequentavano il Centro. Questo l’ha aiutato a pensare a se stesso e poi a maturare il salto, a essere pronto a tornare. Abbiamo ripreso la sua narrazione stupefacente in una lunga video-intervista in cui ricapitola la sua vita e le sue relazioni, e ci dice quanto sia stato importante per lui quel periodo di apparente passività e immutabilità.

Il soggetto riemerge dalla malattiaI racconti delle persone, e a volte la nostra stessa esperienza nel lavoro che facciamo, sembrano così illuminare, in modi talora intuitivi, che cosa voglia dire ripresa, e in un certo senso guarigione.Forse, in maniera pre-riflessiva, possiamo dire che la recovery «si vede» dal riemer-gere del soggetto, delle sue speranze, aspettative di vita, sogni, progetti. Pensiamo a tutte le volte che vediamo emergere delle persone dalla malattia, che sembra quasi assottigliarsi e scomparire. Ci sono persone che vediamo migliorare ina-spettatamente, dopo molto tempo e molte sofferenze; e persone che prendono coscienza dei propri problemi e finalmente sono in grado di analizzarli e situarli nella propria storia. E poi ci sono i mille modi che le persone dimostrano di avere per uscire da una crisi, chiudendo capitoli della propria vita o riconnettendosi a temi lungamente dimenticati. A volte ci sorprendono, uscendo dal linguaggio dei sintomi e presentandoci una lunga lista di consapevolezze.L’idea di recovery, ossia l’emersione del soggetto come evento che segna una svolta nel percorso terapeutico o nel rapporto col servizio o nella sua stessa esistenza, ci ha affascinato da quando a Trieste, postazione d’avanguardia delle trasformazioni anche della fenomenologia della domanda psichiatrica, abbiamo visto in essa l’esito di quella che Franco Rotelli ha chiamato la «deistituzionalizzazione della malattia» e non solo degli istituti che contenevano e oggettivavano il malato.

Che cosa rende possibile la recovery?Si possono individuare diversi livelli che rendono possibile la recovery:• personale: la recovery è qui vista come imparare a vivere «nonostante i sintomi», o comunque minimizzandone l’impatto, tentando di autogestirsi. «La vita nonostante i sintomi» era uno dei grandi insegnamenti della scuola della deistituzionalizza-zione: le persone pur all’interno di condizioni di malattia e di diversità potevano stare nella comunità, avere una vita normale, avere diritto a una risposta ai propri bisogni primari e di relazione;• familiare: questo livello sottolinea l’importanza del coinvolgimento della famiglia in un percorso di cambiamento che non riguarda soltanto il «paziente designato» ma i suoi familiari, che riconoscono che «il suo problema è – in qualche modo – anche il nostro». Spesso questo percorso mostra lo sviluppo di importanti consapevolezze sociali, partecipative e comunitarie, se non politiche in senso lato;• comunitario: l’accento è qui sul riconoscimento della valenza partecipativa, del contributo di integrazione e di solidarietà che ogni membro di una comunità o di una data società può dare verso chi soffre o ha sofferto di problemi di salute mentale;• servizi e operatori: le indicazioni al riguardo sono quelle di cambiare atteggiamenti,

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sviluppare sensibilità, affiancare un percorso personale alla formazione profes-sionale, ribellarsi a ciò che è dato per scontato, alle condizioni di lavoro talvolta disumanizzanti, all’istituzionalizzazione delle persone, alla lesione dei loro diritti difendendoli attivamente insieme alle persone stesse.

La recovery pone il tema del potere nel rapporto con i serviziL’attraversare le esperienze dentro alvei protetti e aperti rappresenta per molti il terreno favorevole della recovery. Questo chiama in causa i servizi, i loro atteggia-menti, ciò che dovrebbero soprattutto garantire.

Il potere, tema ben noto in psichiatriaOggi s’impone certamente un’ottica più ottimistica, una visione fondata sulla cer-tezza che esistono opportunità che i servizi devono poter garantire, utili a favorire la «ripresa». Ne sono esempi le situazioni di convivenza promosse dai servizi di salute mentale, il sostegno spontaneo di pazienti ad altri in crisi, la presenza qualificata dei familiari come interlocutori, l’alto grado di coinvolgimento di tutti gli attori nei programmi terapeutici.Queste opportunità chiedono ai servizi di muoversi oltre la relazione istituziona-le, perché solo così si apre la possibilità per chi è curato di recuperare una reale decisionalità riguardo alla propria vita. Ciò implica dover affrontare la questione del potere: un tema ben noto in psichiatria – fin dal passaggio fondamentale dal rapporto di dominio/controllo all’assistenza e alla relazione terapeutica – ma che non smette mai di riproporsi.Nel solco della deistituzionalizzazione, il rapporto istituzionale – soggetto-oggetto di trattamento, curante-curato – è diventato gradualmente un’interazione sempre più complessa. Si sono favorite tutte le modalità di partecipazione informale alla vita dei nuovi servizi di comunità, sulla base di una tendenziale reciprocità nei rapporti, includendo via via nel campo tutte le figure che potessero rendere più articolata tale bipolarità (familiari, cittadini, volontari...).Così i servizi oggi spesso tessono una rete partecipativa a partire da sé: è un network di scambi e di processi di «adozione», dove sono scambiate non merci ma valori d’uso e relazioni, mettendoli a disposizione e facendoli arrivare a chi per solito ne è escluso. Del resto, solo una pratica psichiatrica in cui le persone siano valorizzate come soggetti, dotati di una loro contrattualità, e in cui i loro bisogni, le loro aspet-tative, i loro obiettivi siano la sostanza dei progetti terapeutici, può produrre con-senso alle cure, fiducia, collaborazione, coinvolgimento nei programmi individuali da parte di ciascuno e dunque (ulteriore passaggio) opportunità di partecipazione collettiva alla vita di un servizio e alla sua trasformazione.

C’è una recovery dalla malattia, ma anche dai trattamentiIl flusso comunicativo che viene così favorito nel servizio, in particolare nel Centro di salute mentale (nei momenti formali dei colloqui, degli incontri, delle riunioni,

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nel lavoro terapeutico individuale, familiare o di gruppo, oppure in una molteplicità di situazioni e occasioni informali), innesca sicuramente forme di partecipazione. Si creano momenti di aggregazione spontanea ai quali si affiancano momenti di auto-aiuto tra persone, in cui spesso il servizio mette in campo risorse integrative. Il «bisogno di relazioni» si pone ormai come centrale. E nella dimensione della relazione, che sia formalmente definibile come terapeutica o di aiuto, il punto è adoperarsi a trattare in modo paritario e reciproco. L’assunzione del rischio, del trattare la persona «come se» fosse fino in fondo in grado di stare nelle regole della relazione, è spesso necessaria. Al riguardo ha scritto Shula Ramon che c’è una recovery dalla malattia ma anche dai trattamenti, dalla mancanza di capacità personali ma anche dalla carenza di opportunità per attività valide. L’attenzione dei servizi va così alle esperienze vis-sute che si oppongono ai saperi degli esperti, al guardare le persone come attori, al considerare la qualità della loro vita sociale, con particolare riferimento alla vita quotidiana che è la dimensione dove accade la recovery.

Costruire l’accesso ai dirittiIn tal senso la recovery non può essere vista come un percorso solo individuale, altrimenti vi sarebbe di nuovo sottesa un’etica del riscatto dell’individuo da una condizione, la malattia, vista ancora come colpa. Non diversamente da come – nel linguaggio del potere – la riabilitazione è rieducazione.Nonostante l’enfasi sulla singolarità e sulla soggettività, recovery è certamente un fatto interpersonale e sociale. Proprio in quanto attiene all’individuo, si colloca nella globalità della sua esperienza di vita dentro un contesto sociale e culturale determinato. La dimensione sociale e partecipativa, in queste storie, indica che la persona sta emergendo dall’isolamento, dalla rottura di significato e comunicazione che si traduce in de-socializzazione. Si può percepire allora l’emergere di un sé sociale, una condizione di cittadinanza «vissuta» che è l’intima natura sociale della recovery. Ovviamente (ma non tanto per la psichiatria) le risorse materiali – il reddito, la casa, il lavoro – ne sono veicolo fondamentale (neanche a dirlo) perché rappresentano opportunità e costruiscono identità e contrattualità sociale.Ecco perché è preferibile legare insieme «recovery ed emancipazione», per sot-tolineare l’aspetto di non-libertà che è connesso alla condizione di malattia e di assenza di diritti. Benché forme di recovery siano possibili ovunque e anche nelle condizioni più estreme, essa si compie e s’invera solo là dove la libertà ha i suoi prerequisiti fondamentali (ossia in uno stato di godimento di diritti). Ecco perché «cittadinanza» è la parola che ormai viene più frequentemente associata a recovery per dotare il processo di senso e qualità.

Quanto devono ancora modificarsi i servizi?Il problema è come oggi le pratiche di salute mentale e di riabilitazione possano contribuire alla piena realizzazione del diritto a una cura che non sia sanzione, del

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diritto a un reddito, a una casa, a un lavoro, a una partecipazione attiva alla vita civile e sociale. Quanto debbono ancora modificarsi i servizi perché siano davvero «centrati sull’utente»?

Riconoscere la prospettiva dell’utenteIl lavoro di trasformazione delle pratiche e delle discipline appare lungo: è neces-sario stabilire forme di partecipazione attiva degli utenti ai servizi di comunità e rafforzare i legami con le istanze e i soggetti della vita sociale, per un pieno coinvol-gimento nella promozione di salute mentale (dai familiari agli operatori dei servizi sociali, sanitari e giudiziari, via via fino al corpo sociale). Non è un’operazione indolore perché va a toccare il nodo dei poteri e deve pertanto partire dal ricono-scimento che la prospettiva dell’utente, come soggetto e attore del proprio percorso di integrazione sociale e di emancipazione, è di fondamentale orientamento.Nessuno spiega a sufficienza come buone linee guida basate sulla recovery siano in grado di trasformare i servizi, che sono istituzioni dominate in modo materiale dalla loro logica interna e dalle loro strutture di potere, ma soprattutto dal paradigma medico-biologico. Cosa occorre dunque per un loro cambiamento? Una buona dose di senso comune? Scelte etiche? Una formazione ad hoc? La sola risposta, a mio avviso, è ancora una volta nella possibilità di agire una deistituzionalizzazione, forse in forme nuove e differenti, basate sul riconoscimento del contributo dell’utente nel servizio e sulla spinta delle energie trasformative verso la salute possibile. Ma non è ancora abbastanza.

Assumere come centrale la qualità della vita In servizi orientati alla recovery, i concetti di inclusione sociale e cittadinanza sono centrali. La partecipazione, i diritti, il potere e l’inclusione sociale sono strettamente intrecciati col ruolo dei servizi di salute mentale comunitari nel supportare i cambia-menti individuali, come agenzie che forniscono o catalizzano risorse e opportunità. Mentre l’approccio tradizionale al trattamento e alla guarigione enfatizza il sollievo dai sintomi e la prevenzione delle ricadute, per l’approccio orientato alla recovery la qualità della vita diventa centrale e il miglioramento sintomatico al contrario ha un ruolo variabile. Certamente va precisato che la recovery può accadere con o senza l’aiuto profes-sionale, o addirittura nonostante questo. I punti di svolta delle persone spesso coincidono comunque con aspetti dell’intervento del servizio, o del programma terapeutico personalizzato, o della presa in carico. E ciò ha certo a che fare con le opportunità offerte e le risorse messe in moto; ma si può inverare un senso tera-peutico e riabilitativo solo se il servizio riesce a sostenere e potenziare il senso di autodirezione e responsabilità della persona nel percorso.

Diventare servizi «attraversabili»Il servizio è orientato alla recovery se è «attraversabile», se cioè in esso la persona trova non le regole istituzionali che impoveriscono, sminuiscono e comprimono il soggetto in crisi, ma dei punti e delle persone di riferimento, un’accoglienza calda e

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partecipe, una disponibilità a occuparsi dei problemi di vita e non solo dei disturbi. L’attraversamento del servizio è connesso alla recovery, nel senso che l’offerta terapeutica e di risorse strumentali è orientata a dare degli stimoli, che però, se non si è in grado di cogliere, restano imposti, estrinseci. Il servizio può allora fare emergere una rete di supporto e renderla utilizzabile oltre che visibile, sviluppando un intervento di mediazione importante, per attivare l’aiuto e fare avvicinare la rete.La cura implica a sua volta l’assunzione di me operatore come soggetto che opera in un campo comune (mio e dell’altro), dove l’altro può «avanzare» e acquistare potere. Ma ciò comporta accettare che questi sia depositario di un sapere di tra-sformazione, e quindi un mettersi di lato, di fianco, per permettere una soggetti-vazione dell’altro. Perché emerga il soggetto, occorre che si metta in discussione il terapeuta, con le sue certezze. Ciò che deve guarire è allora innanzitutto la relazione tra chi assiste e chi è assistito. Recuperare il significato del termine assistenza: far da testimone, da segnapassi, da registratore del percorso, e al tempo stesso aiutare, sostenere. Non agire su, ma agire con. Per Basaglia tale «reciprocità» si basa sul fatto che il terapeuta è messo in discussione dal malato, come il malato dal terapeuta. Occorre che ognuno si renda riconoscibile all’altro, che anche l’operatore si metta in gioco e si soggettivizzi con il malato, uscendo dal rapporto istituzionale.

Mantenere un’apertura sul possibileAgire la deistituzionalizzazione è cambiare i rapporti di potere: si dà centralità ai bisogni dell’utente, senso ai suoi gesti, e «per vederli» si riduce la distanza nella re-lazione curante-curato. Perché la soggettività dell’utente emerga, quella dell’opera-tore deve entrare in gioco, confrontarsi con essa: il progetto terapeutico-riabilitativo nasce all’interno di una nozione nuova di contratto tra l’utente e il servizio.Per i servizi di salute mentale tutto ciò si traduce in accessibilità e flessibilità, tali da garantire un lungo periodo di sostegno se necessario, continuità di relazione e accesso a possibilità di scelta e opportunità (anche quelle di fallire e ritentare). Una relazione ispirata dunque non alla distanza «terapeutica», ma al coinvolgimento e alla personalizzazione nel cercare insieme un senso, al dare fiducia, al «rischiare» insieme e quindi al mantenere un’apertura sul possibile. Il che vuol dire offrire speranza e aspettative, ma anche riconoscere le competenze, i desideri e i valori. La recovery non consiste nell’insegnare nuove tecniche in un processo di oggettiva-zione e omologazione dell’esperienza individuale in qualche modello preformato di guarigione, come hanno cercato di fare in questi anni tentativi maldestri di «mec-canizzare» in un dispositivo semplice e schematico le «fasi del viaggio». L’idea che vi sia una sorta di «sciamano» o perfetto insegnante dev’essere rigettata: dobbiamo credere nella recovery come nella verità personale di ciascuno (2).

2 | È bene riflettere su come la recovery rischi di diventare una definizione accattivante, usata per creare l’illusione del cambiamento, e perciò una bella favola, un’ideologia (o peggio una sorta di

religione), mentre i servizi psichiatrici restano chiusi nei loro paradigmi. Una parola aggiunta all’equivoco della riabilitazione, come riparazio-ne dal danno iatrogeno operato dalle psichiatrie.

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Saper riconoscere la salute nella malattiaIl processo dialettico della recovery/guarigione non accade senza rimarcare una li-nea d’ombra, un chiaroscuro, in una totalità d’esperienza, dove c’è salute e malattia, il cui fulcro è la possibilità di riappropriazione di entrambe da parte del soggetto. Salute e malattia: parole importanti, pilastri concettuali che rimandano al celebre testo di Franca Ongaro Basaglia: Salute/malattia. Le parole della medicina. In esso l’autrice afferma che la clinica ha precluso la presenza partecipe della soggettività del malato; e la malattia ha sostituito nella medicina la globalità sano-malato che siamo, ovvero ha separato la malattia dalla vita e dall’ambiente. Dice:

Se la guarigione avviene, si tratta della guarigione di un corpo ignaro di sé, dei propri bisogni, delle proprie malattie e della propria salute, privato di ogni possibilità di partecipare e lottare per ottenerla […]. Una cura diversa non può che muoversi in questa direzione, offrendo una terapia che sia contemporaneamente stimolo a una riappropriazione di sé e alla comprensione della misura in cui abbiamo incorporato la logica che ci determina. Perché l’unica premessa a una possibilità di cura per la malattia dell’uomo è un rapporto diverso, soggettivo, partecipato nella vita e, quindi, nella malattia. Solo comprendendo che il valore dell’uomo – sano o malato – va oltre il valore della salute e della malattia, si può capire come la malattia, al pari di ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento di appropriazione o di alienazione da sé, quindi come strumento di liberazione o di dominio (3).

Ciò che è peculiare per gli esseri umani, diceva Franco Basaglia, è che la salute e la malattia sono in una continua relazione e tensione dialettica. Saper riconoscere la salute nella malattia: in questo senso «una psichiatria di vita e non di morte» deve riconoscere la soggettività delle persone e aiutarle a scoprire un senso nella loro esperienza. Aiutarle non solo a recuperare un nuovo senso della propria vita, ma anche a chiedersi come si inscrive la malattia, come «crisi», nella propria storia e in quale continuità si pone, invece di intenderla come una frattura, come alienazione da se stessi.Una persona con esperienza di disturbo psichico una volta ha detto: «La guarigione non esiste, esiste il miglioramento della propria vita». Queste parole ci indicano la strada da percorrere.

3 | Ongaro Basaglia F., Salute/malattia. Le parole della medicina, Edizioni alpha beta Verlag, Me-

rano (Bz) 2012, pp. 66-76.

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Il termine inglese recovery ricopre un’ampia gamma di significati: per l’Oxford Dictionary spazia dal con-cetto di «riguadagnare possesso o controllo» a quello di mettersi al sicuro per via legale, fino a definire «il riprendersi» o «il riaversi», come quando si dice di una persona che dopo uno svenimento «si è riavuta» o dopo un’esperienza disabilitante «si è ripresa». In questi casi, in inglese si usa dire che la persona ha avuto una «recovery».Quello che intendiamo oggi con recovery nel cam-po della salute mentale è un’idea di riappropriazione in prima persona del processo che porta le persone con un disturbo mentale severo ad attraversarlo e a superarne le maggiori difficoltà esistenziali, sociali, psichiche. È un’idea emersa a partire dagli anni ’90, che si è poi diffusa e consolidata nel primo decennio di questo secolo, entrando in uso a pieno diritto nell’ambito della salute mentale. Tant’è che si parla oggi di recovery da un disturbo mentale grave con un valore program-matico che la distingue dalle nozioni più tradizionali, come quella di «guarigione clinica».

Izabel Marin

Se la prognosi negativa è un mito da sfatareGli elementi fondamentali del processo di recovery

Le pratiche della psichiatria sono ancora spesso ispirate dal famigerato «paradigma kraepeliniano», secondo il quale la schizofrenia è una malattia cronica e la prognosi è un deterioramento progressivo. In realtà, già negli anni della deistituzionalizzazione, alcune importanti ricerche hanno messo in luce come la cronicità e la prognosi negativa siano miti da sfatare. Ma è stato soprattutto quando hanno cominciato a prendere parola i diretti interessati che si è compreso quanto sia sbagliato congelare le persone nel ruolo di «malati». Dai loro racconti i servizi possono, debbono imparare.

* | I due articoli di Izabel Marin ospitati nell’«Inserto» riprendono e rielaborano contenuti pubblicati nel volume Guarire si può, curato in-sieme a Silva Bon e pubblicato dall’editore alpha beta Verlag di Merano nella collana «180. Archivio critico della salute mentale». Ringraziamo l’autrice, l’editore e i direttori della collana (in particolare Peppe Dell’Acqua) per la collaborazione nel produrre quest’inserto (NdR).

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Gli studi epidemiologici di riferimentoL’attenzione al processo in prima persona e all’impegno del soggetto costituisce la novità e la particolarità dell’idea corrente di recovery, ma è bene ricordare quale sia stato il terreno preparatorio su cui si è innestata questa nuova prospettiva.

La cronicità non è un destinoDi recovery in salute mentale, infatti, si parlava già prima che emergesse la declina-zione attuale di tale concetto; basti ricordare la celebre ricerca di Richard Warner (1991), intitolata Recovery from Schizophrenia e ormai considerata un classico. Ma in cosa si distingue l’uso della parola recovery da parte di Warner, nella stagione delle grandi ricerche epidemiologiche degli anni ’80, dal significato attuale del termine? La differenza è che, allora, si parlava di «guarigione» dal punto di vista del ricer-catore, cioè di un osservatore esterno che aveva il problema di definire in qualche modo una «misura di esito», di outcome. E infatti si adottavano criteri – condivisi tra i ricercatori – per definire la «funzionalità» di una persona o da un punto di vista clinico («guarigione clinica», misurata in base alla scomparsa di certi sintomi) o da un punto di vista sociale («guarigione sociale», secondo criteri occupazionali, abitativi o di autosufficienza).In ogni caso, la definizione di recovery in quel contesto era un problema del ricer-catore (epidemiologo, clinico o sociologo che fosse). Cionondimeno quella stagione di ricerca è stata molto importante come terreno preparatorio per il cambiamento di mentalità che ci interessa. Le ricerche di quel periodo, infatti, come quelle di Warner e Ciompi, Harding (1) ,

Strauss, Carpenter, sono state una specie di colpo di

grazia, dal punto di vista scientifico, all’idea di «cronicità» e/o di esito degenerativo come destino associato alla diagnosi di schizofrenia.

La cronicità è un «artefatto sociale»Si può dire, insomma, che il famigerato «paradigma kraepeliniano» – la concezione della schizofrenia come malattia cronica per la quale la prognosi è un deteriora-mento progressivo – sia stato scientificamente affossato proprio in quegli anni.Sempre nello stesso arco di tempo (seconda metà degli anni ’80), studiosi come Ciompi e Harding hanno discusso l’idea di cronicità come «artefatto sociale» e McGlashan ha potuto concludere, sulla base di una revisione selettiva dei più im-portanti studi di follow-up del periodo (gli studi sul decorso a lungo termine), che «un gran numero di pazienti guarisce dalla schizofrenia» e che «la certezza della prognosi negativa nella schizofrenia è un mito».

1 | Lo studio condotto da Harding è il più lungo realizzato negli Stati Uniti. La ricerca è durata 32 anni e ha coinvolto 269 persone con disturbo psi-cotico severo, attraverso interviste periodiche nel loro contesto di vita e nell’ambito dei program-mi di riabilitazione. I ricercatori hanno trovato che circa due terzi dei soggetti corrispondevano ai criteri oggettivi della recovery (che sono: la

persona non assume farmaci, non presenta più sintomi né comportamenti che potrebbero indi-carla come «paziente con disturbo mentale»; la persona lavora, ha buone capacità relazionali con gli altri e non è ricoverata in ospedale psichia-trico) e/o del miglioramento significativo (per cui le condizioni della persona rispettano tutti i suddetti criteri di inclusione tranne uno).

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Nella loro analisi della nozione di «cronicità», Harding e i suoi collaboratori (1987) evidenziano la difficoltà di separare gli effetti residuali del disturbo mentale – ad esempio i sintomi negativi come l’apatia o il ritiro sociale – da una miriade di fattori ambientali e psicosociali, che vanno dagli effetti del processo di istituzionalizzazione all’identificazione con il ruolo del malato, dal mancato accesso ai programmi di riabilitazione alle ridotte opportunità economiche e sociali, dagli effetti collaterali dei trattamenti farmacologici al ruolo delle aspettative sfavorevoli degli operatori. Il pessimismo kraepeliniano continua a funzionare come una profezia che si auto-avvera: la perdita della speranza costituisce il contesto esistenziale delle persone con disturbo mentale.

Un concetto emerso sull’onda lunga della de-istituzionalizzazioneNon va dimenticato che questa apertura di possibilità positive in campo scienti-fico ha risentito del clima di apertura di possibilità pratiche legate ai processi di de-istituzionalizzazione avviati in precedenza con la crisi del «paradigma dell’in-ternamento». Occorre inoltre sottolineare che, una volta che si sono aperte, tanto sul piano scientifico quanto sul piano pratico, le possibilità di uscita dalla rassegnazione, dalle stanze ammuffite e bloccate della «cronicità» e della istituzionalizzazione, il problema inevitabilmente si è spostato.Non si tratta più di un problema di ricerca o di osservazione esterna su un «esito», un outcome (per quanto sia importante anche questo aspetto). Non è più soltanto un problema di cosa possano fare i soggetti di cura – i servizi, gli operatori – per colmare di buoni interventi quegli spazi di possibilità positive (sebbene anche que-sto sia rilevante). Ma è un problema che investe chi diventa soggetto, protagonista attivo e non ricettore, capace di muovere i passi necessari per sottrarsi al «mito» della cronicità e della «prognosi negativa» per il disturbo mentale severo.Ed è qui, su questo punto, che si innesta l’emergere dell’idea di recovery come assunzione su di sé del percorso necessario per uscire dalla propria difficoltà, da parte del soggetto che vive in prima persona l’esperienza del disturbo mentale.

L’esperienza personale è oggi la prima fonte degli studi sulla recoveryA dare impulso all’idea della recovery come visione (e prassi) trasformativa è stato il movimento degli ex-utenti psichiatrici. La comparsa sulla scena sia di racconti di esperienze vissute in prima persona, sia dell’organizzazione degli utenti (con la costituzione di gruppi di auto mutuo aiuto e di empowerment collettivo) ha inciso fortemente su quella che oggi si può definire una pratica orientata alla recovery. Quando si leggono gli scritti di una pioniera del movimento americano dei «so-pravvissuti psichiatrici»(2) o ex utenti, come Judi Chamberlin, o di protagonisti

2 | Negli Stati Uniti il termine survivor (soprav-vissuto) è stato utilizzato dal movimento degli ex utenti psichiatrici per distinguerlo dai termini «paziente» o «malato di mente», e connotarlo

con una valenza attiva e politicizzata nella lotta contro lo stigma e gli effetti iatrogeni dell’istitu-zionalizzazione psichiatrica, di cui essi si sono sentiti profondamente vittime.

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nell’elaborazione e diffusione dell’idea di recovery come Patricia Deegan o Ron Coleman, si percepisce la forza di persuasione di argomenti e analisi radicati nel profondo dell’esperienza vissuta.Così, la prima fonte della letteratura sulla recovery è oggi colui o colei che ha attraversato dall’interno difficoltà mentali e ha trovato la strada per venirne fuori. Sono le persone stesse che, avendo vissuto sulla propria pelle prima l’esperienza della malattia e della istituzionalizzazione, poi l’esperienza del faticoso impegno per uscirne, hanno cominciato a descrivere l’esperienza e a comunicarla agli altri. D’altro canto, anche gli operatori che hanno cominciato a scrivere sul tema hanno sottolineato la decisività dell’ascolto, da parte loro, delle testimonianze in prima persona dei soggetti in recovery.

Cosa vuol dire essere in recovery?La nozione di recovery da un disturbo mentale severo è diventata centrale in al-cune esperienze innovative negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, influenzando un cambiamento nella cultura dei servizi.

Un percorso di ridefinizione di séIn un documento inglese di indirizzo programmatico degli anni ’90 si legge la seguente definizione:

La recovery da un disturbo mentale severo si riferisce a un processo attivo, dinamico e altamente individuale attraverso cui una persona assume la responsabilità della propria vita e sviluppa uno specifico insieme di strategie rivolte non solo a fronteg-giare i sintomi, ma anche le minacce secondarie della disabilità, che comprendono stigma, discriminazione ed esclusione sociale. Un aspetto critico di tale processo è (…) lo sviluppo di un senso di se stessi come «altro dall’essere disabile».

Questa definizione di recovery offre dunque due importanti indicazioni: da un lato, i tentativi e le strategie per fronteggiare i sintomi e le difficoltà sono intesi come modalità attive sviluppate dal soggetto; dall’altro, tali modalità attive sono viste come parte di un più ampio insieme di abilità soggettive, dove il fuoco del problema si sposta dai «sintomi» in quanto tali alla possibilità che la persona ha di riappropriarsi di un’identità personale e sociale che vada oltre quella definita dal ruolo di «malato mentale» o «disabile».Per usare le parole di Patricia Deegan (1988), leader del Mental Health Consumer Movement negli Stati Uniti, il processo di recovery non implica che le persone ven-gano «aggiustate», come si aggiusta una macchina; si tratta piuttosto di ristabilire attivamente un nuovo modo di ridefinirsi come persone. Il percorso di ridefinizione di sé è segnato da una nuova consapevolezza delle proprie condizioni, che non com-porta il ripristino di quelle precedenti il disturbo, né tantomeno l’accettazione passiva del disturbo e delle sue limitazioni. I racconti «dal di dentro» dell’esperienza della sofferenza psichica indicano come sia possibile, nonostante il disturbo, riconquistare una identità sociale significativa e riprendere in mano la propria vita.

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«Io non sono guarita: io ho vinto»In questo cambio di prospettiva, sono le persone stesse a poter giudicare meglio l’estensione del loro processo di recovery. Per gli autori del movimento degli ex utenti o survivors, la «disabilità» psichica è soltanto uno degli aspetti dell’intera vita della persona. Nasce così l’espressione «essere in recovery» in riferimento alle persone con una condizione di disturbo mentale severo e prolungato che hanno superato del tutto o in parte gli effetti devastanti che ne conseguono, anche se non sono completamente scomparse le manifestazioni sintomatiche.William Anthony (1993), uno dei primi ricercatori nel campo della riabilitazione psichiatrica a diffondere l’idea di recovery come valore programmatico per i servizi di salute mentale, la definisce così:

La recovery è un modo soddisfacente di vivere la propria vita che comporta lo sviluppo di nuovi significati e motivazioni, nel crescere come persona al di là degli effetti catastrofici del disturbo mentale.

Questi effetti sono spesso di natura sociale e includono le barriere imposte da una condizione di svantaggio e di stigma, che vanno dalla mancanza di accesso alle opportunità, alla perdita di un ruolo socialmente valido, alla rottura dei legami affettivi più significativi. Per Sally Clay, che lavora come «difensore» (advocate) e sostenitrice del movimento degli ex utenti psichiatrici negli Stati Uniti, la lotta contro lo stigma è un elemento caratterizzante del proprio percorso. Lo stigma, scrive, non deve essere una vergogna per chi ne è segnato, ma un distintivo d’onore:

L’esperienza della follia è una ferita che ha cambiato la mia vita e mi ha permesso di aiutare gli altri e di conoscere maggiormente me stessa. Sono orgogliosa di tali risultati. Io non sono guarita: io ho vinto.

Il paradosso della guarigione nonostante il persistere della malattiaMolte persone con esperienza di recovery indicano che il maggiore guadagno che hanno avuto nel loro processo di ripresa è stato quello di accettare il proprio di-sturbo e di incorporare la propria esperienza all’interno di un ridefinito senso di sé. Emblematico è l’esempio riportato da Patricia Deegan, docente e ricercatrice sul tema della recovery e dell’empowerment. Basandosi sulla propria esperienza condivisa con altre persone, afferma (1988, p. 98):

Il nostro percorso di guarigione è profondamente segnato dall’accettazione delle nostre limitazioni. Ma adesso, invece che essere disperati, troviamo nelle limitazioni personali il terreno dal quale far nascere le nostre uniche possibilità. Questo è il paradosso della guarigione: accettando quello che non possiamo fare o essere, iniziamo a scoprire cosa possiamo fare e chi possiamo essere

Il ridefinirsi come persona implica la ridefinizione del problema mentale come parte integrante della propria vita. Lo sviluppo di una nuova percezione di se stessi e di una propria identità diventa uno degli aspetti chiave su cui verte tutto il processo

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di guarigione. Il senso di sé è una componente fondamentale dell’essere umano ed è caratterizzato dallo sforzo attivo che le persone compiono per far fronte agli eventi e alle difficoltà, per sviluppare nuove competenze maturate dalla propria esperienza e per vivere la propria vita in modo soddisfacente.

Il processo che porta alla riconquista di sé Se il disturbo mentale severo è stato descritto come «la malattia del sé», caratte-rizzata non soltanto da un profondo sconvolgimento cognitivo ed emotivo, ma anche da una trasformazione della propria identità percepita interiormente da sé ed esteriormente dagli altri (Estroff, 1989), nel processo di recovery la riscoperta e la riconquista di un sé attivo costituisce uno dei passaggi necessari da compiere.

Alla base un nuovo senso di séIn una ricerca che è stata una pietra miliare in questo campo, condotta da Davidson e Strauss nel 1992 presso l’Università di Yale (in cui sono state intervistate 66 persone con diagnosi di schizofrenia), si è sottolineata l’importanza della ricostruzione del senso di sé nel processo di recovery da un disturbo mentale severo. Nell’articolo a compendio dell’intera ricerca (Davidson, Strauss, 1992) gli autori riprendono la nozione di «senso di sé» da un insieme di studi degli anni ’80 in diversi settori che comprendono la psicologia medica, sociale e antropologica. Queste ricerche suggeriscono, in particolare, che il senso di sé svolge una funzione nel modo in cui si affrontano malattie somatiche, eventi di vita stressanti e depres-sione. Un rafforzato senso di sé può aiutare a migliorare vari aspetti del disturbo e sostenere gli sforzi per fronteggiare e adattarsi a un contesto di malattie croniche o di eventi di vita critici; in questi casi, la persona sente di poter realizzare qualcosa (senso di autoefficacia), di avere un controllo sulle proprie emozioni (luogo interno di controllo) e di avere stima di sé.Ma se ciò è vero nel caso di patologie non psichiatriche, a maggior ragione diventa imprescindibile esplorare questi elementi all’interno delle condizioni di interesse psichiatrico, visto che «lo scenario del sé» è il luogo stesso della sofferenza mentale. Gli autori sottolineano (ivi, p. 132):

Lungi dall’essere soltanto una nozione teoretica (...), il senso di sé si presenta come la componente principale nell’esperienza quotidiana di chi soffre di un disturbo men-tale grave. È una componente che le persone con questi disturbi spesso descrivono come un fattore chiave nei processi di sviluppo del disturbo e del suo cambiamento.

Scoprire parti di sé non toccate dal disturboUn primo aspetto del senso di sé nel processo di guarigione riguarda il fatto che la persona si rende conto di poter avere un senso attivo di sé anche se continua a esperire una disfunzione dovuta al proprio disturbo. Per alcune persone ciò può significare una riscoperta di parti di sé non toccate dal disturbo e che possono essere quindi utilizzate indipendentemente da esso.

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Questo graduale risveglio comporta un’intuitiva apertura, un rudimentale «avverti-re se stessi». La traccia comune nelle varie esperienze è una nascente consapevolezza di questi aspetti di se stessi finora sconosciuti, che può includere la sensazione di poter fare qualcosa di più e di meglio di quello che si sta facendo. In questa scoperta contano le piccole cose che accadono, come uscire dalla stanza dove si era rinchiusi a causa della propria paura e dei sintomi, guardarsi intorno, accettare un aiuto da parte delle persone «significative», come operatori, familiari, amici. Tutto ciò è importante per rafforzare la fiducia nelle proprie potenzialità: una nuova consapevolezza di sé come persona potenzialmente capace comporta il progressivo sviluppo di un senso di speranza, che apre la strada alla sensazione di poter mi-gliorare la propria condizione che accompagnerà poi l’intero processo di recovery.

Fare un inventario delle proprie forze e debolezzeUn secondo aspetto è il procedere a una sorta di inventario delle proprie forze e delle proprie debolezze: «prendere le misure» di quello che si può o non si può fare e sentirsi più sicuri nell’affrontare nuove situazioni che possono rappresentare una sfida. Un inventario personale si può fare inizialmente a livello elementare, immaginandosi in un’azione semplice («posso uscire dalla stanza e partecipare alla riunione?»), fino a un livello più elevato di riflessione («posso riprendere a lavorare a tempo pieno?»). Ciò può determinare l’inizio di un percorso in cui raffigurarsi mentalmente il proprio futuro o il recupero di abilità dimenticate, come per esempio riprendere in mano un progetto interrotto prima del disturbo. In questa situazione la persona incomincia a fare le «provviste di forze» e si attrezza gradualmente con gli «ingredienti necessari» per raggiungere i propri obiettivi, talvolta anche quelli all’apparenza più semplici.Questo aspetto del processo di recovery, che rappresenta la preparazione a un’azio-ne successiva, può anche avere un periodo di evoluzione lenta: dalla consapevolezza di poter essere una persona attiva alla realizzazione di un obiettivo desiderato. Il punto critico è rappresentato dal sostegno degli altri, in quanto la persona è ancora vulnerabile e ha bisogno di tempo, di essere compresa e sostenuta.

Esercitarsi nelle azioni e riflettere sui risultati ottenutiA questo punto, il processo di riscoperta delle proprie capacità di riattivarsi com-porta l’esercitarsi nelle azioni e il riflettere sui risultati ottenuti, incorporandoli nelle azioni successive. La persona può scoprire di essere capace di prendersi cura di sé e agire a proprio beneficio, smettendo di essere soltanto il «recettore» della volontà altrui. Comincia a percepire di essere una persona capace di scopo, azione e responsabilità mettendosi alla prova e svolgendo piccoli compiti che, anche se all’apparenza semplici o ordinari, implicano la scoperta di abilità e di aree di efficacia.Sebbene il processo di scoperta di sé come persona più attiva e autonoma non appaia stabile e costante nella vita di chi attraversa un disturbo mentale severo, i piccoli successi agiscono a favore di una graduale costruzione di autonomia. Attra-verso le esperienze di successo, la persona può scoprire di avere la capacità, anche

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inaspettata, di allargare la propria rete di conoscenze, di condividere momenti di socialità, di prendere iniziative che riguardano la propria vita. Imparare a conoscere e gestire le proprie risposte emotiveCome negli altri aspetti sopra indicati, lo sviluppo di una nuova capacità di avvalersi della propria esperienza serve come strumento prezioso per monitorare, governare e compensare il disturbo nel proprio contesto sociale. Sentirsi più solidi perché sostenuti dalla propria esperienza può avere la funzione di «rifugio» dal disturbo, per evitare di stare nuovamente male, oppure può servire per combattere gli effetti secondari come l’ansia, lo stress e lo stigma nel contesto sociale in cui si vive. Impa-rare dalla propria esperienza a distinguere se stessi dal disturbo porta a riconoscere quelli che possono essere definiti i «segnali» (o i «campanelli di allarme») derivanti dalla tensione e dai fattori di stress nello sforzo interattivo con gli altri.Come nel campo delle malattie fisiche, il ruolo del senso di autoefficacia, del con-trollo sulle proprie emozioni e dell’autostima aiuta a combattere stati prolungati di disturbi somatici e di eventi di vita stressanti, così anche per la persona con un disturbo mentale severo l’autopercezione di essere capace di gestire l’ansia e lo stress può contribuire ad aumentare le competenze nel prendere parte più attiva nel proprio progetto di vita, nello sviluppare strategie quotidiane per fronteggiare i problemi, nell’imparare a esercitare autocontrollo sui sintomi, incrementando le proprie capacità di mantenere gli impegni nel contesto sociale e lavorativo.

Un cambio di atteggiamento verso il proprio disturboJohn Strauss è stato uno dei primi ricercatori a sostenere la cruciale importanza del ruolo attivo delle persone con un disturbo mentale severo nell’interagire e influenzare il decorso del loro disturbo.

Non ci si considera più vittime impotenti della malattiaIn un suo recente scritto (2008), Strauss sostiene che sta ancora cercando di rispon-dere alla domanda che gli aveva posto, quindici anni prima, una donna intervistata per la sua ricerca: «Perché il medico non mi chiede mai cosa faccio «io» per aiutare me stessa?», vale a dire perché si informa soltanto sui sintomi, il lavoro, le relazioni sociali, il trattamento, senza chiederle mai quale sia il suo apporto personale nel far fronte al problema? Ecco il commento di Strauss:

Questa donna ha sollevato la questione della soggettività. Non considera se stessa una vittima impotente della malattia, né tanto meno un oggetto i cui sentimenti e le cui azioni sono irrilevanti per il proprio percorso, sia nei momenti di crisi sia nel processo di ripresa.

L’autodeterminazione e la volontà di stare meglio sono entrambi elementi nello sviluppo di un senso di sé attivo e possono rappresentare un punto di svolta nel

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processo di recovery. Questi aspetti di se stessi, sostiene Strauss, possono essere considerati come un cambiamento di atteggiamento verso il proprio disturbo: molte persone «dopo un prolungato periodo di sofferenza non si sono semplicemente rassegnate a dover convivere con un disturbo, ma desideravano costruirsi una vita oltre e nonostante il proprio disturbo mentale».

Si prende parte attiva alle decisioni che riguardano la propria saluteNell’affrontare la questione del cambiamento nel modo di percepire se stessi in rapporto alla propria vita, ai propri sintomi e alle proprie condizioni, Ron Cole-man considera «la scelta» una delle pietre miliari dell’esperienza di guarigione. Incrementare le decisioni che riguardano se stessi, assumere i rischi delle scelte che si fanno sono aspetti di un atteggiamento propositivo nell’interazione con i propri problemi, come pure nell’interazione con gli altri. Scrive Coleman (2001):

Dobbiamo avere fiducia nello smettere di essere malati per cominciare a essere in guarigione. La strada della guarigione richiede non solo che facciamo le nostre scelte, ma anche che prendiamo la responsabilità di tutte le nostre scelte, buone e cattive.

Affinché le persone possano avere controllo sulla propria vita, in modo da ri-guadagnare un ruolo propositivo ed efficace, tuttavia, devono essere fornite loro opportunità di scelta e di contrattazione nel rapporto con i servizi e con le persone coinvolte nel processo di aiuto. Parlando dell’utilizzo dei farmaci nel suo percorso di recovery, Pat Deegan (2007) riassume così la sua visione delle cose: «l’esperto medico» e «l’esperto cliente» sono entrambi seduti in una stanza e nessuna delle due parti è meno importante dell’altra, devono condividere le informazioni in modo da poter arrivare alla migliore decisione possibile sul trattamento da intraprendere. Le persone devono quindi essere coinvolte in tutti gli aspetti della pianificazione, dello sviluppo e dell’implementazione dei servizi che le riguardano, così come devono essere coinvolte anche negli aspetti della vita sociale che esulano dal trattamento e dalla riabilitazione. Solo questo coinvolgimento sostanziale può portare a un empowerment e a un senso di controllo sul proprio ambiente e sulla propria vita.

Il ruolo degli «altri significativi»«La recovery è un’esperienza profondamente umana, facilitata dalle risposte pro-fondamente umane degli altri», scrive William Anthony (1993). Se la comprensione del ruolo svolto dalla persona è essenziale per comprendere il suo processo di guarigione, è altrettanto fondamentale capire come gli altri possano avere un ruolo rilevante in tale processo.

Il sé non esiste senza la convalida degli altriNelle diverse ricerche sulla recovery, la presenza degli «altri significativi» è un denominatore comune per la capacità che essi hanno avuto di stimolare, sostenere

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e mantenere una presenza costante, anche nei momenti più critici della vita delle persone che stanno lottando per riprendersi: «Il sé non esiste senza la convalida da parte degli altri», afferma Coleman.Per le persone con esperienza di recovery i fattori decisivi dell’aiuto risultano es-sere il contenuto e la qualità percepita delle relazioni di vicinanza, sia per quanto riguarda i familiari che gli amici. I familiari rappresentano talvolta l’unico contatto sociale conservato dalla persona in grave difficoltà, che vive una condizione di isolamento. Il sostegno dei familiari, anche quando è difficile da riconoscere, può essere d’a-iuto nel superare la resistenza alla socialità (per esempio, vincere la vergogna di «essere diventate persone con una sofferenza mentale»), così come può essere utile nel cercare di ristabilire un contatto scandito dai semplici gesti della quotidianità ordinaria (anche se le circostanze non sono ordinarie).

Il supporto emotivo come fattore di svoltaGli aspetti pratici, come base elementare del sostegno, vanno messi in relazione con i significati emotivi della presenza dell’altro. Molte persone con esperienza di recovery hanno sostenuto che la cosa più importante per loro nella relazione con un parente, un operatore sociale o un amico è avvenuta quando «si sono sentite prese sul serio» (Strauss, 2008). In una prospettiva di reciprocità, il supporto emotivo viene a essere determinante quando il familiare è stato capace di cambiare se stesso durante il processo di recovery, sentendosi «maturare in qualche modo assieme» al proprio parente, mettendosi direttamente in gioco, in un percorso di crescita che coinvolge en-trambe le parti.Sia dalla letteratura sulla riabilitazione psichiatrica, sia da quella sulle esperienze vissute, risulta che uno dei «fattori di svolta» – tanto centrale quanto periferico – nel processo di recovery sia stata la presenza di persone capaci di «trasmettere la speranza». Saper trasmettere la speranza è quanto definisce la relazione di aiuto, che si tratti di familiari, amici, operatori o pari. Come racconta Patricia Deegan (1993, p. 97):

Potrei ricordarmi un momento specifico in cui una piccola e fragile fiamma di spe-ranza e coraggio ha illuminato la nostra oscurità e la nostra disperazione. Anche quando abbiamo ceduto, là stavano quelli che ci amavano e che non cedevano. Loro non ci hanno mai abbandonato. (...) Il loro amore per noi è stato come un costante invito, un richiamo a essere qualcosa di più della nostra autocommiserazione e disperazione. Il miracolo è che gradualmente abbiamo incominciato a sentire e a rispondere a questo amorevole invito.

L’efficacia dell’approccio del sostegno paritarioL’«altro significativo» è rappresentato spesso dalla figura del «pari» (peer support), cioè dalle persone che hanno vissuto l’esperienza di un disturbo mentale e si sono riprese o si stanno riprendendo, e offrono il loro aiuto, appunto paritario, attraverso la testimonianza e la condivisione della propria esperienza.

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L’efficacia dell’approccio del sostegno paritario passa attraverso l’esempio, che rende presente e concreta la speranza di farcela. Le persone che raccontano di questo aspetto dell’aiuto sottolineano come diventi molto difficile continuare a non nutrire speranze quando si è circondati da altre persone ugualmente in difficoltà che stanno facendo passi in avanti nel loro processo di guarigione.Anche per Coleman (2001) la dimensione «condivisa» ha giocato un ruolo fon-damentale nel proprio percorso, dal momento in cui è arrivato nel gruppo degli uditori di voci:

Ho sentito valorizzato il mio sé. (...) Credo che il più grosso cambiamento che mi sia capitato nel gruppo sia stato che ho smesso di essere Ron Coleman lo schizofrenico e sono diventato Ron Coleman che sente le voci, e per quanto questo fosse solo l’inizio del processo di guarigione, era già un buon inizio.

Gli operatori non come tecnici, ma come alleatiPer quanto riguarda l’aiuto ricevuto dagli operatori di un servizio, nel racconto delle persone con esperienza di recovery, è determinante l’attenzione ricevuta, genuina e diversa rispetto a quella considerata convenzionale o formale, perché diretta alle persone in quanto tali e non come «pazienti». Come sostiene Davidson (2003):

Il prendersi cura di qualcuno in modo genuino non è qualcosa che può essere prescritto, richiede che l’operatore offra se stesso in un modo che non deriva soltanto dalle sue responsabilità come operatore, ma è basato sul suo rendersi conto dell’umanità comune di entrambe le persone. Sebbene questa distinzione possa sembrare sfuggente o astratta, essa fa la differenza per chi si trova dal lato di chi riceve l’aiuto.

Per Alain Topor (2006), l’operatore fa «qualcosa di diverso» rispetto al ruolo atteso se stabilisce un rapporto di reciprocità e di condivisione di responsabilità e di interessi comuni. Significa che l’operatore va oltre quello che può essere consi-derato il suo compito istituzionale, non si comporta secondo un copione atteso, o secondo la solita routine formalizzata, bensì si mette in gioco sul piano personale e fa conoscere aspetti di se stesso. In altre parole, gli operatori sono considerati d’aiuto «quando costruiscono un rapporto positivo con la persona, un rapporto spesso descritto come di amicizia».In ogni caso, quel che sembra caratterizzare l’aiuto dell’altro nel percorso di gua-rigione di una persona è la possibilità di diventare un suo «alleato», che si tratti di un pari o di un operatore. Per spiegare il ruolo degli operatori nel gruppo di uditori di voci di cui fa parte, Ron Coleman (2001) scrive:

Quando gli operatori conducono il gruppo, la cosa che cerco sempre di fargli com-prendere è che loro sono «parte» del gruppo; se non sono uditori di voci, allora il loro ruolo è di essere degli alleati. Non sono lì come tecnici, sono lì come alleati.

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Il ruolo delle risorse materiali e sociali Nella letteratura recente, è stata sottolineata l’importanza dei fattori sociali e am-bientali come facilitatori nei processi di recovery. Come possono le persone riguadagnare potere sulla loro vita e un ruolo nella so-cietà, se non hanno adeguate possibilità materiali, risorse economiche e culturali per ricostruire la propria identità sociale?

Spesso le persone subiscono una perdita di ruolo e identità socialeCome scrive Peppe Dell’Acqua (2013), per chi soffre di un disturbo mentale severo è molto difficile soddisfare l’elenco dei «normalissimi bisogni» che tutti abbiamo: avere un reddito o svolgere attività significative; avere una sistemazione abitativa; lavorare con soddisfazione; essere parte della comunità; non essere discriminati; dare senso alla propria esistenza. I contesti sociali, nella misura in cui ostacolano l’accesso ai diritti di cittadinanza, favoriscono il processo di interiorizzazione del ruolo di malato e la condivisione dei pregiudizi della società. Di conseguenza, le persone diventano più isolate so-cialmente e più esposte allo stigma. Come afferma Deegan, riferendosi alla diagnosi di schizofrenia ricevuta a 18 anni:

La mia identità era ridotta a una malattia agli occhi delle persone che si occupavano di me. Era soltanto una questione di tempo perché incominciassi a interiorizzare questa visione stigmatizzata e disumana di me stessa.

Il processo di identificazione nel ruolo del malato mentale è un processo sociale e interpersonale: implica che una persona che «ha» un disturbo mentale finisce per «diventare» il proprio disturbo. Questa progressiva perdita di ruolo e di identità è segnalata come un cambiamento significativo da molte persone che attraversano un prolungato periodo di males-sere. Le persone cessano di lavorare, si ritirano dalle scuole, perdono contatti con la famiglia e con gli amici. In questo modo perdono i loro ruoli sociali validi e le identità accettabili che ne derivano. Talvolta, quello di paziente è uno dei pochi ruoli che rimangono.

La centralità del lavoro nel percorso di recoveryPerciò, nel concettualizzare il processo di recovery, bisogna prestare attenzione anche alla dimensione sociale del processo di ricostruzione materiale dei diritti di cittadinanza. Essere disoccupato, non avere una casa, non avere una fonte minima di reddito costituiscono evidenti ostacoli per le persone che stanno lottando per riprendersi.In questa prospettiva, il lavoro può essere considerato uno dei più importanti fattori di facilitazione del processo di guarigione: costituisce una risorsa estrema-mente importante in quanto permette alla persona di uscire dallo status di malato e di assistito. Il lavoro provvede non soltanto a un guadagno economico, ma offre struttura e scopo, opportunità di socializzazione e di sviluppo di nuove relazioni

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sociali, di valori e significati e di piena cittadinanza (3). Nel riguadagnare un senso di appartenenza nella comunità, va anche sottolineata l’importanza degli impegni delle persone nei «compiti di sviluppo sociale»: la lotta per fare fronte allo stigma e alla discriminazione sociale, l’aiuto agli altri e il lavoro di volontariato, la parte-cipazione a gruppi di auto-aiuto e per lo sviluppo e il cambiamento delle politiche in salute mentale sono attività altrettanto gratificanti e significative.

La guarigione come processo dinamico e apertoIn quanto detto finora, è implicita una concezione della recovery come processo aperto, complesso, che richiede del tempo. In contrasto con la dicotomia statica guarito/non guarito, si delinea un’idea di recovery come processo che concerne l’intera vita della persona.

La recovery è un processo, come la vitaQuesta visione è stata sostenuta da un numero consistente di ricercatori, molti dei quali con un’esperienza personale di disagio mentale. Per esempio Rae Unzicker, nel suo resoconto autobiografico (1989), quando le chiedono che cosa le abbia cambiato la vita, risponde:

Per me, e credo per molti altri, è raramente una sola cosa. La recovery è un processo, così come lo è la vita.

Nella prospettiva delle persone che hanno attraversato l’esperienza del disturbo mentale e di quanti hanno superato nel lungo periodo l’esperienza della istituzio-nalizzazione, la guarigione non è intesa quindi come un prodotto finale, ideale o statico. Spesso è descritta come un’attitudine, un modo di vivere e di sentire, una visione o un’esperienza, anziché un ritorno alla normalità o alla salute (Davidson, 2003). Questo modo di definire la recovery come un processo vitale e dinamico è espresso frequentemente, nella letteratura del movimento degli ex utenti psichia-trici, con l’espressione essere in recovery piuttosto che essere recovered, cioè essere guariti. Come sottolinea Patricia Deegan (1993), la recovery

è un processo non perfettamente lineare, a volte il nostro percorso è fatto di errori e fallimenti, si scivola indietro, ci si riorganizza per ripartire da capo. L’obiettivo è affrontare la sfida delle nostre difficoltà e stabilire un nuovo e rafforzato senso di integrità e di scopo nella vita, all’interno e oltre i limiti del disturbo.

3 | Le opportunità di lavoro, di perseguire i pro-pri interessi e disporre di denaro sufficiente per invitare un amico a cena, ad esempio, possono essere elementi di grande supporto. I movimenti per la deistituzionalizzazione hanno sottolineato l’importanza della restituzione dei diritti di citta-

dinanza e della costruzione di alternative nei con-testi reali di vita delle persone. Perché quanto più le persone hanno accesso ai diritti di cittadinanza, tanto più possono ricostruire una identità sociale e riguadagnare un ruolo nelle relazioni sociali.

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E, come la vita, può implicare passi avanti e ricaduteSecondo quanto afferma anche William Anthony (1993), parlare di processo di-namico e aperto offre un’immagine di costruzione continua, di percorsi basati su una serie di passi progressivi che possono

implicare crescita e ricaduta, periodi di veloci e di lenti cambiamenti. Mentre la tendenza può essere verso l’alto, l’esperienza del giorno per giorno non è sempre direzionata. Intensi sentimenti possono sopraffare improvvisamente, così come momenti di introspezione o periodi di crescita possono accadere inaspettatamente. Il processo di recovery è tutt’altro che sistematico e pianificato.

Ma è nella concettualizzazione di Ron Coleman che l’idea di processo viene argo-mentata in modo più esplicito, quando l’autore propone la distinzione tra recovery e mantenimento (maintenance). Con quest’ultimo termine Coleman si riferisce alla pratica istituzionale della psichiatria, secondo cui l’esito migliore è visto come una condizione sostanzialmente statica, in cui la preoccupazione del servizio non va oltre la riduzione del rischio di «ricaduta» del paziente, «congelandolo» in tal modo nel ruolo di malato. Al contrario, la recovery come processo dinamico comporta lo sviluppo delle persone verso nuovi traguardi di appropriazione di sé e perciò anche di riduzione della dipendenza dal servizio.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

•Anthony W., Recovery from mental illness: The guiding vision of the mental health service system in the 1990s, in Cohen M. et al. (a cura di), Assessing and Developing Readiness, Center for Psychiatric Rehabilitation, Boston 1993. •Coleman R., Guarire dal male mentale, manifestolibri, Roma 2001. •Davidson L., Strauss J., Sense of Self in Recovery from Severe Mental Illness, in «British Journal of Medical Psychology», 65, 1992.•Davidson L., Living Outside Mental Illness. Qualitative Studies of Recovery in Schi-zofrenia, New York University Press, New York 2003.•Deegan P. E., Recovery: The lived experience of rehabilitation, in Cohen M. et al., op. cit. •Deegan P. E., The Lived Experience of Using Psychiatric Medication in the Recovery Process and a Shared Decision-Making Program to Support It, in «Psychiatric Rehabi-litation Journal», 1, 2007.•Dell’Acqua P., Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, Feltrinelli, Milano 2013.•Estroff S. E., Self, Identity, and Subjectivity Experiences of Schizofrenia. In Search of the Subject, in «Schizofrenia Bulletin», 2, 1989.•Harding C. M., Zubin J., Strauss J. S., Chronicity in Schizofrenia: Fact, Partial Fact, or Artifact?, in «Hospital and Community Psichiatry», 5, 1987.•Strauss J., Prognosis in Schizophrenia and the Role of Subjectivity, in «Schizofrenia Bulletin», 2, 2008.•Topor A., Others: The Role of Family, Friends, and Professionals in the Recovery Process, in «American Journal of Psychiatric Rehabilitation», 9, 2006.•Unzicker R., On My Own: A Personal Journey through Madness and Re-emergence, in «Psychosocial Rehabilitation Journal», 1, 1989.•Warner R., Schizofrenia e guarigione. Psichiatria ed economia politica, Feltrinelli, Milano 1991.

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Nella vita quotidiana delle persone con disagio psi-chico, dei loro familiari e degli operatori che lavorano per la salute mentale di comunità, temi come il lavo-ro, l’abitare, la qualità delle relazioni di vicinato e del «capitale sociale» assumono un ruolo fondamentale nel determinare un migliore decorso della malattia mentale. A sua volta, il conseguimento di prognosi positive per la persona ha effetti trasformativi sull’immagine collet-tiva della malattia e della persona con disabilità, non più considerata un peso, ma una potenziale risorsa. È quindi indispensabile costruire progetti di cittadi-nanza, orientati alla recovery e al miglioramento della qualità della vita. Come Social point.

Un progetto d’inclusione nella comunitàAttivo a Modena dal 2006, Social point è un progetto nato dall’iniziativa delle realtà del terzo settore, attual-mente finanziato dal Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche (Dsm-Dp) dell’Azienda Usl di Modena (dopo un periodo di sperimentazione qua-driennale, finanziato dalla Fondazione Cassa di rispar-mio di Modena). L’AUsl ne ha assegnato la gestione al Consorzio di solidarietà sociale, in partnership con il Centro servizi del volontariato, l’associazione di fami-liari e amici di pazienti psichiatrici «Insieme a Noi»,

Manuela Ciambellini, Anita Eusebi, Luca Negrogno, Fabrizio Starace

La cittadinanzaè ancora terapeuticaL’esperienza del Social point a Modena

Da Basaglia in poi abbiamo imparato a vedere le persone che vivono il dolore della mente come persone e non come diagnosi, come malattia. Persone che faticosamente guadagnano margini, a poco a poco più ampi, di libertà. Libertàintesa come possibilità di godere di diritti, di esprimere bisogni, di alimentare desideri, di scoprire i propri sentimenti, in una parola di vivere. Questa libertà è il singolare prodotto di quella stagione ed è quanto di più salutare si possa immaginare. «La libertà è terapeutica», si diceva allora. Oggi potremmo dire che lo è «la cittadinanza», la parola che meglio esprime l'idea di recovery.

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l’associazione di utenti «Idee in circolo» e l’Arci. Inizialmente operativo solo nei comuni di Modena, Sassuolo e Castelfranco, dall’aprile 2012 è stato esteso a tutti i Distretti della provincia. Nella fase di avvio l’obiettivo era creare proposte di socializzazione e tempo libero per gli utenti dei servizi di salute mentale la cui condizione non consentiva percorsi riabilitativi di tipo occupazionale, in modo da alleggerire il carico assistenziale dei centri diurni e delle famiglie. Negli anni successivi, Social point si è confrontato a tutto tondo sulla salute mentale come tema che riguarda non solo pochi «addetti ai lavori» o qualche utente e i suoi familiari, ma tutti i cittadini. Il progetto si è così sviluppato su tre livelli di intervento:• facilitazione dell’inclusione sociale di persone con disagio psichico tramite attività di volontariato e tempo libero, mirando a valorizzare risorse individuali e collettive in modo che l’identità non sia monopolizzata dall’esperienza di malattia; • sensibilizzazione, formazione e informazione del territorio sui temi legati alla salute mentale;• diffusione di un’idea positiva di salute mentale come oggetto di responsabilità collettiva e creatrice di capitale sociale per il territorio.Se dunque inizialmente il progetto rispondeva al bisogno di una riduzione del «cari-co», in una seconda fase si è diffusa la cultura per cui il tempo libero e la cittadinanza attiva sono opportunità da offrire alla popolazione che accede ai servizi di salute mentale, indipendentemente da quanto i singoli pesino sui servizi e sulle famiglie.

Da utenti dei servizi a volontari del territorioParallelamente a questa presa di consapevolezza da parte degli operatori, è stata necessaria una riflessione sulle modalità di lavoro sia con gli utenti che con il terri-torio. La prassi insegna che, se gli operatori del servizio vogliono lavorare in ottica di empowerment e recovery, sono inevitabilmente indotti a rivedere il modello operativo.L’evoluzione del modello di lavoro ha riguardato innanzitutto gli obiettivi condivisi con gli utenti. Il cittadino con disagio psichico che arriva al servizio Social point è chiamato a riflettere – insieme agli operatori – sui propri interessi, su ciò che gli piace fare, sugli ambiti in cui sente di avere più esperienza. In un primo incontro si valuta l’interesse a partecipare alle attività proposte dalle realtà del territorio; quindi si procede all’attivazione della rete di soggetti dell’as-sociazionismo presente in modo capillare nella comunità (circoli, polisportive, associazioni di volontariato anche non direttamente interessate ai temi della salute mentale), verificando la possibilità di inserimento di nuovi volontari. In termini di finalità, viene facilitato un processo di empowerment, costruendo con l’utente una proposta di impegno attivo del tempo libero e valorizzando la scelta e la responsabilità individuale. Gli operatori favoriscono momenti in cui l’utente «mette tra parentesi» la propria situazione critica (che lo definisce in maniera univoca come soggetto di bisogno e oggetto di cure) e arricchisce la propria autorappresentazione attraverso momenti

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di libero sviluppo di attitudini personali creative, in un contesto paritario e di «normalità». Contemporaneamente, l’operatore lavora per promuovere e radicare nel territorio e nei servizi in rete un pensiero diffuso volto a valorizzare il sapere e le risorse, e non solo a evidenziare i problemi dei cittadini con disagio psichico. È fondamentale – in queste occasioni di incontro con le realtà del territorio – parlare di «guarigione possibile» e di «miglioramento della qualità di vita». Obiettivi – questi – che il lavoro degli operatori di Social point mostra essere concretamente raggiungibili. Se infatti ci si prende cura dei contesti relazionali in cui le persone vengono inserite, si osserva come emergano da parte loro particolari abilità, risorse, capacità attive e propositive. Ciò fa sì che anche gli utenti portatori delle condizioni patologiche più gravi possano trarre grande beneficio, oltre che dalla realizzazione di progetti riabi-litativi individuali, dal mutamento di percezione che il contesto sociale ha di loro.

Il lavoro con la rete delle risorse territoriali L’operatore di Social point è chiamato quindi a intervenire sulla facilitazione di processi piuttosto che sulla creazione di singoli progetti, come accadeva prevalen-temente in precedenza. Centrale diventa in questo senso il lavoro con la rete delle risorse territoriali.

Aiutare le associazioni ad accogliere le persone con disagio psichicoUn primo tema su cui ci si è concentrati nel lavoro con le risorse territoriali è stato l’accoglienza del disagio. Dai volontari delle organizzazioni aderenti emergeva la richiesta di approfondimento e sostegno.In questa fase, in collaborazione con il Centro servizi per il volontariato, si sono svolti interventi formativi finalizzati alla decostruzione degli stereotipi sul disagio e a valorizzare la persona inserita in attività di volontariato. Le associazioni di volontariato, superati i timori iniziali, hanno mostrato un signifi-cativo miglioramento delle modalità relazionali e di accoglienza. Si è reso evidente come le esperienze di cittadinanza attiva degli utenti abbiano permesso di costruire una competenza sul disagio psichico che diviene poi patrimonio del territorio e si restituisce alla comunità come capitale sociale permanente. Questo crea una risorsa che il mondo del volontariato impiega per la propria mission: coltivare le proprie competenze relazionali permette infatti di essere più efficaci nel costruire comunità solidali e coese. Spesso, gli inserimenti di persone con disagio, in virtù dell’incremento di riflessività che richiedono sulle modalità comunicative dell’organizzazione, finiscono per aumentare lo «stato di salute» dell’organizzazione di volontariato stessa.Emerge così la doppia finalità del lavoro di Social point: da un lato realizzare l’empowerment della persona con disagio psichico costruendo insieme a lei, con la massima personalizzazione possibile, una proposta di impegno attivo del tempo; dall’altro restituire consapevolezza al territorio della responsabilità condivisa nei confronti della salute della comunità.

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Promuovere una diversa concezione del tempo liberoLa funzione di «facilitatore di spazi relazionali» reali è diventata sempre più deter-minante nel qualificare la prassi operativa di Social point. Pur partendo da invii da parte dei Centri di salute mentale (csm) – cui storicamente è affidato un mandato volto a evidenziare le «carenze» dell’utente, il dis-funzionamento, la dis-abilità – l’operatore di Social point lavora secondo un diverso approccio, volto a valorizzare le capacità invece delle disabilità delle persone e a lasciare spazio a ciascuno per esprimere scelte e responsabilità (1). Questo cambio di approccio è avvenuto gradualmente da parte degli operatori di Social point. E quando è stato condiviso con gli operatori dei servizi di salute mentale nei tavoli di coordinamento (dove si definiscono le modalità di erogazione del servizio e si determinano le caratteristiche dei soggetti beneficiari, cioè si «og-gettiva» il bisogno su cui si interviene) si è presentata talvolta una certa difficoltà di comunicazione.In ambito psichiatrico è ancora diffusa una considerazione delle attività di socia-lizzazione come strumenti per riempire il tempo di utenti dei centri diurni o come alternative a inserimenti lavorativi non praticabili. Una sorta di «intrattenimento», così come efficacemente descritto da Benedetto Saraceno (2). Ma quest’ottica è sem-pre più stridente rispetto a una metodologia globale di progettualità sociosanitaria, coerente con i principi dell’empowerment e della recovery.Inoltre in alcuni operatori dei servizi era presente l’idea secondo cui alcuni utenti, caratterizzati da un funzionamento troppo compromesso, non avrebbero mai potu-to fruire delle possibilità offerte da Social point, «poco protette» perché realizzate sul territorio e non nei centri, e troppo «difficili» perché esposte alla partecipazione di «normali» cittadini, portatori di aspettative troppo alte rispetto alle «social skills» delle persone con disagio. Considerazioni e valutazioni che segnalavano, da un lato, una resistenza culturale e organizzativa al processo innovativo in corso, dall’altro una modalità assistenziale che rischiava di cristallizzare gli utenti ai livelli di disabilità associati alla malattia, anche quando la malattia era in remissione.Certo è innegabile che alcune attività, che richiedono oggettivamente particolari caratteristiche per essere svolte, risultano inadatte per alcune persone. Nondimeno anche persone dalle abilità sociali gravemente compromesse hanno evidenziato gli effetti positivi dello sviluppo di una soggettività costruita sulle proprie risorse e sulla propria partecipazione attiva. Questo non ha invalidato le valutazioni tecniche e mediche sul funzionamento delle persone, ma le ha corredate di altre importanti considerazioni e prospettive (3).

1 | Il Dsm-Dp di Modena ha incluso il Progetto Social point in un più ampio programma di orien-tamento dei servizi alla recovery e di acquisizio-ne e applicazione dei principi dell’International Classification of Functioning.2 | Saraceno B., La fine dell’intrattenimento. Ma-nuale di riabilitazione psichiatrica, EtAs, Milano 1995.

3 | Anche alcuni inserimenti in progetti collettivi molto «difficili» per competenze richieste hanno ottenuto effetti inaspettati con persone segnate da diagnosi funzionali gravi, considerate «senza speranza» dagli operatori più «conservatori». Significativa in tal senso l’esperienza di eman-cipazione delle persone collocate in soluzioni abitative nell'ambito «Progetto residenze».

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Tutti chiamati in causa come personeIn un percorso orientato a sostenere l’accesso ai diritti di cittadinanza attiva da parte dei cittadini con disagio psichico, è cruciale che questi possano riappro-priarsi dell’esperienza che vivono, riconoscendosi soggetti e non semplicemente utenti del percorso.

Oltre lo stigma dell’identità di utente Ciò costituisce una sfida assolutamente critica per la persona con disagio poiché, già nella costruzione sociale della propria «malattia», entrano in gioco elementi che definiscono in maniera asimmetrica la sua relazione con il contesto circostante, che sia familiare o di cura. L’«identità» di utente porta con sé una carica stigmatizzante della quale il mondo della malattia mentale è inevitabilmente permeato: per questo, sul piano cultura-le, non ci si può esimere dall’affrontare le rappresentazioni collettive della salute mentale e della malattia.In Social point, lontano dalle abitudini «istituzionalizzanti» che si sviluppano nei setting assistenziali di salute mentale tradizionali, le persone con disagio, indipen-dentemente dal loro «livello di funzionamento» e dalle loro etichette diagnostiche, sono stimolate e guidate nella realizzazione di finalità concrete e «vere», utili e posi-tive, condivise da altri cittadini che partecipano a tali attività. In questi contesti tutti sono chiamati in causa in quanto «persone», al di là di una loro eventuale malattia. E ciascuno, in quanto consapevole della propria esperienza e di un proprio sapere, può contribuire a innescare un processo di cambiamento culturale. Da utenti a soci: nasce «Idee in circolo» In linea con queste premesse, si è sempre più accentuata, negli anni, la consape-volezza da parte degli operatori di Social point che il lavoro di sensibilizzazione, promozione, formazione e informazione del territorio non poteva più fare a meno del coinvolgimento diretto degli utenti, in particolare di quelli definiti «esperti», ossia di coloro che hanno attraversato l’esperienza di malattia e sono ora in grado di metterla a disposizione della comunità.Così, nel 2011, si è deciso di costituire l’associazione «Idee in circolo», fondata e gestita da cittadini in maggior parte con disagio psichico, per promuovere assieme a chiunque abbia voglia di collaborare una cultura di inclusione e cittadinanza attiva nel territorio modenese. La decisione è maturata sulla base delle assemblee periodiche di un gruppo di lavoro, denominato «Le parole ritrovate» (4) , composto da utenti, operatori, volontari, familiari.Le assemblee sono state il luogo in cui, forse per la prima volta, utenti del servizio

4 | Nel 2009 Social point è entrato nel movimento «Le Parole ritrovate», nato a Trento nel 1993 con l’idea che «non si tratta semplicemente di dare la parola a chi non l’ha sinora avuta, si tratta piut-tosto di ritrovare assieme le parole». Dal 2009

Social point partecipa ai coordinamenti nazionali e agli incontri annuali, organizzando a Modena assemblee e convegni (www.leparoleritrovate.com).

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di salute mentale hanno sentito di poter pubblicamente e liberamente esprimere le proprie esperienze in maniera incisiva e determinante per gli altri. E la grande carica del movimento è cresciuta man mano che sono aumentate le occasioni di confronto: sapere che l’apporto di ciascuno modifica sensibilmente il risultato del lavoro di gruppo ha costituito un importante elemento di spinta per mettersi in gioco personalmente. Il confronto di gruppo ha provocato inoltre un’apertura e una consapevolezza del peso delle proprie parole che risulta essere una novità dirompente nell’esperienza di alcuni degli utenti coinvolti: le parole assumono «un peso specifico», per alcuni mai provato.

Potenza delle assemblee: si ritrova insieme la voceLa dimensione assembleare e paritaria, come metodologia, influisce positivamente sul livello di stigma esterno e internalizzato, e dunque sulla capacità dei cittadini con disagio psichico di riappropriarsi di un proprio progetto di vita complessivo. Il confronto collettivo (5) permette infatti di sottrarre il «sintomo» all’oggettivazione tecnica e di ricostruirne il senso in un percorso di vita collettivamente dotato di significato, condiviso, dialettizzato dalla lettura e dall’ascolto comune, alla pari. Le esperienze personali, una volta raccontate e messe in circolo, diventano vettori di consapevolezze collettive nuove, che vanno a «scomporre» gli oggetti costruiti dalle istituzioni.Accanto a questi momenti assembleari, gli operatori di Social point hanno cercato di facilitare anche l’avvio di alcuni gruppi di auto mutuo aiuto, con l’idea di formare, nel tempo, utenti facilitatori. Il metodo di base, definito del «fareassieme», costituisce una forza trasformatrice perché permette a ciascuno di realizzare quella partecipa-zione responsabile al lavoro collettivo e di aprire la propria visuale sull’altro come persona da accogliere con la propria esperienza.

Il recupero di una contrattualità socialeQuesto approccio rende protagonisti i soggetti coinvolti ed evita la riduzione degli utenti e della loro sofferenza a semplici «oggetti» nelle mani delle pratiche assisten-ziali. Di qui è maturata la consapevolezza sempre che il lungo e difficile percorso della cura verso la guarigione (recovery) non passa solo attraverso la presa in carico da parte dei servizi, ma anche attraverso il recupero di un proprio ruolo sociale. L’azione sul contesto sociale e culturale di riferimento, che vede proprio i soggetti «esclusi» come protagonisti attivi, dotati di contrattualità sociale e impegnati a svolgere vari livelli di interlocuzione per realizzare iniziative di promozione della

5 | Nelle assemblee – sempre aperte a tutti e sempre in cerchio per potersi reciprocamente ascoltare – il confronto verte su temi scelti dalle persone, dentro un filo rosso che per il 2015 è «resistere». Nelle assemblee si dà voce alle sto-rie delle persone, alle loro emozioni e forme di espressione, alle loro angosce e disperazioni, ma

anche alle loro speranze e guarigioni possibili. Il confronto collettivo permette di distruggere l’infinita serie di pregiudizi e incomprensioni con cui si tende a svuotare di animo le esperienze di vita di chi attraversa la sofferenza psichica. Smar-candosi dal destino che l’etichetta di «persona con malattia mentale» disegna per molti.

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propria condizione, è allora un’azione importante che ricolloca i soggetti deboli in una chiara posizione di cittadinanza attiva.Il protagonismo di cui si è fatta e si continua a fare concretamente esperienza nelle assemblee diventa stimolo costante alla rivendicazione di una posizione di rilievo nei confronti di tutta la cittadinanza e di un ruolo di sensibilizzazione nei confronti della comunità. Nelle riflessioni collettive, l’attenzione passa così dalla malattia alle condizioni sociali, culturali ed economiche che favoriscono l’emarginazione e l’isolamento: diventa progressivamente chiaro a molti che lo sforzo per la riappro-priazione della propria salute passa per un esercizio collettivo di organizzazione e di sensibilizzazione volto ad aumentare la coscienza comune.Su questo terreno germogliano le iniziative pubbliche e si sviluppano le proget-tualità rivolte alla comunità, in cui gli utenti iniziano a esprimersi pubblicamente, portando il punto di vista dei cittadini che usufruiscono dei servizi di salute mentale.

Per una settimana in cittàsi parla di salute mentale Significativo, da questo di vista, il progetto «màt - Settimana della salute mentale», promossa dal Dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche dell’AUsl di Modena dal 2011 è collocata a cadenza annuale nella seconda metà di ottobre. Si tratta di una settimana di dibattiti, conferenze, eventi artistici e culturali aperti a tutta la cittadinanza, dislocati in diverse aree di Modena e della provincia, per sensibilizzare il territorio sui temi della salute mentale e implementare la lotta al pregiudizio e allo stigma che gravano su chi soffre di disagio psichico.

La costruzione partecipata dell’iniziativaL’evento si svolge sulla base di un percorso di progettazione partecipata, in collabo-razione con le associazioni Idee in circolo e Insieme a Noi, e vede il coinvolgimento di partner istituzionali e di un’ampia rete di soggetti dell’associazionismo di utenti, familiari e operatori dei servizi di salute mentale, del volontariato, del privato sociale e imprenditoriale, della scuola e dell’università, delle fondazioni.La prima edizione ha visto per la prima volta operatori del servizio di salute mentale e volontari delle associazioni collaborare fianco a fianco nelle fasi di ideazione, progettazione e realizzazione dell’iniziativa. L’edizione successiva ha registrato la definizione di una vera e propria convenzione tra il Dipartimento di salute mentale e le associazioni di utenti e familiari al fine di sviluppare un percorso partecipativo finalizzato alla costruzione «comunitaria» dell’evento, secondo una formula orga-nizzativa via via più strutturata e organica.L’iniziativa si pone come forma di «innovazione sociale» di grande importanza per il territorio: si tratta di un percorso di costruzione partecipata che ha stimo-lato empowerment organizzativo nel Dipartimento di salute mentale e promosso processi di integrazione tra i servizi pubblici e i soggetti del territorio a vario titolo interessati al tema della salute mentale nei suoi aspetti tecnici, scientifici, politico-sociali, artistici e culturali.

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La malattia mentale smette di essere tabùLa Settimana rientra tra gli strumenti messi in campo per intervenire innanzitutto sulle rappresentazioni negative e stigmatizzanti della malattia mentale e delle per-sone che ne soffrono. La malattia mentale, di fronte agli utenti e ai familiari che si organizzano per promuovere eventi culturali e di sensibilizzazione, smette di essere un tabù per la comunità. Il disagio diviene piuttosto una condizione attraversabile, «che può colpire tutti» (6), dalla quale si può uscire facendo affidamento sulle risorse tecnico-professionali e solidaristiche presenti sul territorio. màt costituisce un’occasione per sperimentare e mostrare pubblicamente la possi-bilità di percorsi di «empowerment» per le persone seguite dai servizi. È il momento culminante in cui assumono visibilità i progetti personalizzati di inclusione sociale e i progetti collettivi di cittadinanza attiva, rivolti a utenti, che quotidianamente arricchiscono il lavoro clinico e terapeutico dei servizi di salute mentale, conferen-dogli ampiezza di respiro e di prospettiva. Più in generale, l’iniziativa si colloca all’interno di un’azione che va così a modificare la rappresentazione sociale dei disturbi mentali e l’espressione stessa della domanda di salute mentale da parte della popolazione.

Si delineano nuove politiche di salute mentale Dal lavoro si è sviluppata una nuova consapevolezza delle pratiche rivolte all’in-clusione di individui e gruppi in condizioni di esclusione sociale. È emersa una modalità nuova di rilevazione dei bisogni e di confronto pubblico sulle politiche di salute mentale, in cui il dialogo tra erogatori e utenti delle prestazioni risulta decisivo per la costruzione di politiche pubbliche più incisive e orientate alla promozione dell’inclusione sociale delle persone con disagio.Dall’analisi condivisa dei bisogni è emerso infatti che l’articolazione tradizionale dei servizi terapeutici e riabilitativi non è ancora sufficientemente orientata a una reale «ri-contrattualizzazione» delle persone con disagio (ossia a sostenere la loro contrattualità) e queste spesso, anche anni dopo gli episodi più acuti, continuano a restare «a carico» delle famiglie o comunque «cronicizzate» in situazioni segnate da impossibilità di esercitare diritti di cittadinanza, da difficile accesso alle opportunità del territorio, da scarso capitale sociale, da esclusione dal mercato del lavoro, da poca disponibilità di beni e di risorse durevoli, da condizioni gravi di esclusione sull’asse della casa e del lavoro.Insomma, per le persone trattate dai servizi psichiatrici c’è ancora il rischio che si prospettino traiettorie esistenziali fatte di cronicità, esclusione sociale, povertà, in una «spirale del disagio» che finisce spesso per inghiottire la maggior parte delle famiglie.La Settimana, ma più ancora il lungo processo che porta alla sua costruzione, ha dunque anche l’obiettivo di incidere sui decisori pubblici. Mostrando che le poli-

6 | In effetti in questi anni nel territorio modene-se vi è stato un incremento costante del numero di cittadini trattati dai servizi di salute mentale

(fonte, Relazione annuale, Dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche dell’AUsl di Modena).

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tiche più adatte per affrontare la malattia mentale non sono l’istituzionalizzazione e la moltiplicazione di posti letto in istituzioni pubbliche o private, o residenze «protette» in cui collocare gli utenti per tutta la vita, bensì la creazione di luoghi, opportunità e competenze di inclusione sociale.

I segni di un nuovo welfareLa Settimana costituisce il laboratorio e la sintesi degli elementi di innovazione e cambiamento culturale che il Dipartimento di salute mentale ha condotto negli ultimi anni. Màt è il prodotto concreto di quei principi di «sussidiarietà orizzontale e verticale» che dovrebbero caratterizzare il nuovo volto dei sistemi di welfare; sistemi capaci di superare impostazioni tradizionalmente (e sempre più insostenibilmente) assi-stenzialistiche e di implementare forme di partecipazione orientate alla promozione attiva del benessere collettivo. Il passaggio cioè da prestazioni «sanitarizzanti» a prestazioni indirizzate alla progettazione di comunità, alla creazione di prodotti relazionali e sociali, è il futuro cui allude questa sperimentazione.L’impatto sulla riduzione dello stigma e sul cambiamento culturale nella comu-nità è perseguito a partire dal metodo ideativo, progettuale e organizzativo degli eventi, secondo cui utenti, volontari e familiari delle associazioni hanno assunto una posizione di protagonismo e insieme di collaborazione con gli operatori del Dipartimento di salute mentale. Per i servizi si tratta di un modello di lavoro nuovo: coloro che ricevono prestazioni non sono più solo fruitori passivi, consumatori di prestazioni e determinanti di costi per l’amministrazione pubblica, ma divengono essi stessi promotori di processi, collaboratori dei servizi, figure di mediazione tra i professionisti e i cittadini che portano al servizio la loro domanda di salute.L’impostazione di tale percorso di costruzione partecipata ha dovuto confrontarsi con gli inevitabili aspetti inerziali espressi da alcuni segmenti delle istituzioni, ma ha condotto allo sviluppo di una nuova forma di riflessione condivisa sui bisogni espressi e sulle prassi attraverso cui si erogano i servizi sanitari, di interlocuzione con chi direttamente fruisce di tali servizi, con setting e finalità diverse da quelle tradizionali della «cura», e la conseguente riformulazione della relazione tra tecnici e utenti. Sempre più i servizi che vogliano rispondere ai nuovi bisogni di salute mentale dovranno essere accessibili a tutti, non evocare il timore associato all’immagine stereotipata del «paziente psichiatrico» socialmente escluso e pericoloso. La speri-mentazione dei progetti di inclusione sociale sviluppati «dal basso», dalle associa-zioni di utenti e familiari, ha mostrato che un approccio non fondato sulla disabilità ma sulla valorizzazione della libertà di scelta e del recupero della contrattualità sociale riduce significativamente il livello di esclusione e attiva percorsi innovativi di socializzazione. È questo l’orizzonte verso cui incamminarsi.

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C’è ancora molto da imparare sui processi di recove-ry e sui servizi orientati a sostenere le persone in tali processi. Tuttavia, in questi anni abbiamo iniziato a capire meglio che cosa favorisce e che cosa ostacola il possibile cambiamento nella vita delle persone, in particolare rispetto alla pratica dei servizi di salute mentale. Se infatti da una parte le persone devono attingere alle proprie personali risorse per determinare un migliora-mento della propria condizione, dall’altra un servizio consapevole di quali siano gli strumenti più utili da offrire faciliterà e renderà più rapida la loro ripresa.Pertanto ci focalizzeremo ora sui fattori relazionali e sociali che sono apparsi più rilevanti nel contesto triestino, tenendo conto del ruolo che hanno avuto i servizi (1). Il riferimento, oltre all’esperienza pratica dei servizi di salute mentale, è alle ricerche condotte in questi anni sulla recovery, basate sull’ascolto delle persone con esperienze di sofferenza mentale (2).

Izabel Marin

Progettare servizi orientati alla recoveryCome i servizi possono favorire la «ripresa di sé»

Le persone con disturbi mentali anche gravi raccontano come sempre, persino nei momenti più bui, permanga comunque una parte di sé che resiste alla malattia, che cerca i modi per contenerne gli effetti catastrofici, che prova a ricercare nuove possibilità di vita. Questi racconti offrono indispensabili indicazioni ai servizi, che sempre più devono saper accompagnare il viaggio che le persone compiono per costruirsi una vita dentro e oltre la sofferenza. Orientarsi alla recovery significa, per un servizio, consentire ai soggetti di negoziare la propria cura, includersi nella società, abitare identità differenti.

1 | Nel patrimonio di esperienze della deistituzionalizzazione a Trie-ste – dalla chiusura dell’ospedale psichiatrico in poi – si possono ritrovare alcuni prerequisiti per il funzionamento di un servizio territoriale orientato ai processi di ripresa e di guarigione.2 | Nella rubrica «I diari degli operatori» di questo numero sono riportati alcuni stralci di storie di persone in recovery. Per una lettura più ampia e articolata si rimanda al volume Guarire si può. Persone e disturbo mentale (Edizioni alpha beta Verlag, Merano 2013), curato da Izabel Marin e Silva Bon (NdR).

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Assumere un’altra idea di guarigioneNella definizione che i soggetti intervistati danno della propria recovery è determi-nante l’aspetto processuale, che la caratterizza come «un cammino di ricerca e di costruzione ancora aperto», «un processo lungo, doloroso, e possibile».

Non più il contrario di malattia Le persone si percepiscono nettamente migliorate rispetto a una condizione iniziale di perdita di sé, si ritrovano con una capacità nuova di vivere la propria realtà e le relazioni sociali. Tra i significati che assume la recovery c’è quindi la capacità di controllo sulle crisi – e perciò dei sintomi – in un processo in cui si impara a «convivere con una debolezza». La guarigione non è più contrapposta a uno stato di «malattia». La ridefinizione di se stessi come persone, di cui il disturbo mentale è semplicemente una parte, può essere inteso come uno degli aspetti più profondi della recovery.Quello che accomuna tutte le testimonianze raccolte è il ruolo del servizio di salute mentale nel sostenere e nello stimolare gli sforzi personali verso un processo di cambiamento della propria condizione. Dai racconti emerge che il servizio ha avuto un importante ruolo come promotore di processi ri-abilitativi, di empowerment, di svolte significative per la ripresa. I punti di svolta sono associati spesso a eventi di natura sociale: incontri signifi-cativi con altre persone che stanno vivendo la stessa esperienza, ma anche con un operatore, uno psichiatra, un amico. Oppure sono legati a fattori strutturali, per esempio aver trovato un lavoro soddisfacente o aver ripreso un ruolo lavorativo abbandonato con la comparsa del disturbo, avere una casa per sé o essere tornati a vivere in famiglia.

Guarire è stare bene nel socialeÈ altrettanto importante osservare quanto sia rilevante la dimensione sociale della recovery in tutti gli aspetti che riguardano la ricostituzione di uno stato di benessere psichico. La recovery non avviene nella solitudine: è un processo intersoggettivo in continuo cambiamento. È nel contesto sociale che la dimensione più strettamente soggettiva si convalida e diventa sostanziale. Come viene rilevato da recenti ricerche in questo ambito, i contesti comunitari sono ambiti di potenziale sviluppo della partecipazione attiva che fanno guadagnare senso di appartenenza, diventando quindi fattori di recovery. I contesti di «rete» e di «comunità» rappresentano supporti sociali fondamentali dove sentirsi inclusi, accettati, agenti attivi e cittadini. Per la maggior parte delle persone, la ricostruzione di una rete sociale avviene, in un primo tempo, a partire dal Centro di salute mentale (Csm): per alcuni, la rete di conoscenze si allarga poi effettivamente al di fuori del contesto del servizio, mentre altri hanno ancora bisogno di usufruire del suo supporto.La dimensione sociale acquista significato in relazione al ruolo dei servizi nella

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misura in cui essi riescono a sostenere le persone nel loro contesto di vita, sia nell’attivare l’aiuto della propria rete di persone significative, sia nell’attrarre risorse umane e materiali per la creazione di opportunità sociali miranti all’inserimento in contesti di normalità (3).

Attrezzarsi per accogliere la domanda di aiutoIl primo contatto con un servizio psichiatrico è descritto dalla maggior parte degli intervistati come un’esperienza drammatica, perché strettamente connessa alla presenza di pregiudizi per i luoghi di cura, spesso percepiti come stigmatizzanti. La persona sembra andare incontro a una sorta di catastrofe personale prima di accettare un aiuto. Questa esperienza, che può significare «varcare una soglia» e sancisce il proprio timore di essere pazzi, pone il servizio di fronte al bisogno di attrezzarsi per acco-gliere la domanda di aiuto in cui la costruzione di un rapporto di fiducia, necessario a stabilire un’alleanza terapeutica, è l’elemento essenziale. In tal senso, un servizio orientato al dialogo e all’ascolto «va incontro» alla persona avvicinandosi concretamente ai suoi bisogni e la considera come soggetto attivo e corresponsabile nel trattamento, che passa attraverso una corretta informazione e una negoziazione su programmi e scelte terapeutiche da intraprendere.I luoghi del contatto, nell’andare «verso la persona», sono i suoi luoghi di vita: l’abitazione, il quartiere, il posto di lavoro; i contenuti della presa in carico sono l’insieme di soggettività, rapporti sociali, condizioni materiali di vita (4). Nel momento in cui la persona entra in contatto con il servizio di salute mentale, nonostante la drammaticità del vissuto di mancata speranza e di isolamento so-ciale in cui si trova, si apre nei suoi confronti una nuova costellazione di risposte necessarie per cominciare a ricomporre i tasselli della propria storia e a infrangere «il muro nella comunicazione con il mondo». Questo spiraglio rappresenta spesso un punto di svolta nella propria condizione. Se il momento drammatico è caratterizzato dall’isolamento, la guarigione incomincia nella riscoperta della possibilità di comunicare.

Favorire l’accettazione del disturboIn relazione allo stigma percepito nei confronti dei luoghi di cura, man mano che si sviluppano possibilità concrete e condivise sul piano dell’aiuto la drammaticità dell’impatto si attenua. Si deve anche tener conto del fatto che, nel linguaggio in uso

3 | Il ruolo dei servizi di salute mentale in re-lazione alla dimensione sociale della recovery è sottolineato in un documento importante, curato da Larry Davidson e colleghi: A Practical Guide to Recovery-Oriented Practice. Tools for Tran-sforming Mental Health Care, Oxford Universi-ty Press, Oxford 2008. Il documento individua

principi guida per la pratica dei servizi orientati alla recovery.4 | Cfr. Dell’Acqua P., Mezzina R., Risposta alla crisi. Strategie ed intenzionalità dell’intervento nel servizio psichiatrico territoriale, in «Per la salute mentale», 1, 1988.

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nei servizi triestini, non ha un ruolo determinante quello che da Basaglia in poi si è chiamato «etichettamento» diagnostico. Ciò vuol dire che il problema dello stigma non è strettamente associato all’ «etichetta» clinica sovrapposta alla singola persona.La situazione è diversa pertanto da quella prospettata nella tradizione anglosasso-ne discussa dalla labeling theory. In quel caso, l’autostima della persona dipende dall’accettazione o dal rifiuto della diagnosi in quanto etichetta clinica: tra i soggetti che accettano l’etichettamento (diagnosi) si verifica una bassa autostima; per contro, nei soggetti che rifiutano la diagnosi del disturbo mentale grave, sono riscontrabili livelli più alti di autostima e maggiore indifferenza ai livelli dello stigma (5).Se invece non prevale lo stigma «da etichettamento» diagnostico, la percezione della persona presa in carico può focalizzarsi sulle limitazioni concrete che il di-sturbo pone alla propria autostima e sulle difficoltà relazionali che possono essere affrontate nell’interazione con operatori che non hanno bisogno della tipica distanza difensiva rappresentata dall’etichettamento diagnostico. Questo non vuol dire che le persone non possano scontrarsi con il rischio di in-validazione o discriminazione che anche all’interno di questo rapporto si genera. Tuttavia, il contesto più dialettico e diretto – non mediato dalla «distanza» dia-gnostica – permette che l’accettazione e la consapevolezza del disturbo e dei limiti a esso correlati aumentino in qualche misura la capacità di autodeterminazione e il senso di autocontrollo, nel riconoscimento e nella gestione delle difficoltà sul piano della funzionalità sociale.

Ricollocare la persona in una dimensione intersoggettiva e di opportunitàUn esempio di attenuazione dell’impatto con il servizio è dato dall’esperienza di Matteo, che per un periodo lavora come centralinista presso il Csm che lo ha in carico. Quell’esperienza a Matteo è servita per «sdrammatizzare il muro contro muro», dal momento che lui stesso diventa parte del servizio. La nuova prospettiva permette di rompere e scardinare la resistenza tradotta nella polarità semplificata «psichiatra contro malato». Matteo rivendica la sua collocazio-ne di «malato lontano dal credo psichiatrico», e tuttavia quella vicinanza attutisce il suo impatto con l’istituzione:

Col tempo, iniziando a conoscerli, ho visto che sono meno fermi in questa loro convinzione, e lentamente anch’io ho attenuato i miei pregiudizi nei confronti della psichiatria.

Non per questo Matteo è meno critico rispetto ai suoi diritti e ai suoi problemi. Non per questo tutti devono lavorare come centralinisti in un Centro di salute mentale.

5 | Warner R. et al., Acceptance of the Mental Ill-ness Label by Psychotic Patients. Effects on Functio-

ning, in «American Journal of Orthopsychiatry», 3, 1989.

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Le risposte del servizio, oltre al supporto medico farmacologico (6), vanno nella direzione dell’offerta di aiuti materiali, di mezzi e strumenti, di contesti e occasioni di aggregazione e di socializzazione, posti in connessione tra luoghi, attività e per-sone significative. Questi aspetti dell’aiuto, che determinano in parte il processo di ricostruzione di un «ritorno alla vita», sono mirati a ricollocare la persona in una dimensione intersoggettiva e di opportunità in cui compiere un percorso di riappropriazione di sé. Significano ritrovare un senso della possibilità di riavere ruoli e competenze sociali: per esempio aiuto nella ricerca o nel mantenimento di un lavoro, utilizzo del sussidio economico finalizzato alla formazione, supporto giuridico per la tutela della genitorialità.Il servizio, nell’attivare e attrarre risorse materiali, umane e sociali, vuole offrire opportunità che la persona può cogliere e utilizzare, in una sorta di «attraversamen-to» personale che la stessa fa del servizio, in cui alcune risorse vengono «apprese» e utilizzate nel proprio percorso, e altre no. Attraversare il servizio può significare provare a fare un inventario personale delle proprie forze e delle proprie debolezze che, come affermano Davidson e Strauss (7), costituisce uno degli aspetti principali dello sviluppo del senso di sé: «prendere le misure» di quello che si può o non si può realizzare, per sentirsi più sicuri nell’affrontare nuove situazioni che possono rappresentare una sfida.

Sostenere le reti sociali informali Circa il ruolo delle persone significative nel processo di recovery, è importante considerare i vari e diversi livelli di supporto della rete sociale. La chiave per com-prendere il ruolo dell’altro sembra essere la qualità e l’intensità della relazione. Se parliamo della rete sociale estesa, la sua importanza va considerata in quanto «potenzialità» di rapporti e possibilità di scambio che la persona riconosce come un valore in particolari momenti di bisogno. Ma la rete sociale ampia non è necessariamente una garanzia di supporto sociale. Il supporto dell’altro significativo spesso avviene all’interno di una relazione che ha componenti di intimità, spontaneità, durevolezza. Quando, all’interno di una rete, qualcuno viene considerato come persona significativa, si potrebbe dire che

6 | In relazione all’utilizzo degli psicofarmaci come supporto al percorso di ripresa, è importante co-noscere, dal punto di vista delle persone, se e come sono stati utili per il loro miglioramento. Quello che risulta importante dai racconti è il modo in cui l’utilizzo dello psicofarmaco diventa una risorsa te-rapeutica: quando viene indicato come strumento di consapevolezza sul proprio percorso; quando esiste la possibilità di scegliere e decidere assieme al medico il dosaggio o la sospensione a seconda del bisogno; quando l’assunzione permette di ave-re una qualità di vita soddisfacente. Il racconto di Nina riassume tutte queste caratteristiche: «I

farmaci di per sé, se non vengono usati bene o se vengono usati come unico aiuto, servono a ben poco. Però inseriti in un percorso di psicotera-pia, o in un rapporto positivo con lo psichiatra, sono fondamentali, perché ti danno la possibilità di riuscire a fermarti e riprendere quel minimo di lucidità che serve per uscire dalla crisi. Quando uno non capisce assolutamente niente, ha delle allucinazioni, non può vivere la comprensione».7 | Sono concetti sviluppati nel mio precedente ar-ticolo contenuto in quest’«Inserto»: Se la prognosi negativa è un mito da sfatare.

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si è stabilita una relazione di confidenza, considerata come fattore di protezione della salute mentale.Dai racconti emergono alcune figure che presentano tali caratteristiche relazionali: l’amica di Nina «che c’è e ci sarà sempre», il padre di Nicola e quello di Anna, come figure che offrono protezione e allo stesso tempo sono capaci di cambiare il proprio atteggiamento, creando situazioni di confidenza, di «intimità» e di «calore». Anche gli operatori sono menzionati quando riescono a stabilire una relazione autentica con la persona all’interno di un complesso di risposte ai bisogni, producendo, a partire dalla relazione, uno scatto nella situazione circostante.Dalle capacità del servizio di innescare percorsi di inclusione sociale emersi dai racconti e, in generale, dalle esperienze delle persone in recovery che troviamo nelle pubblicazioni, si comprende la chiara necessità di continuare a sostenere le reti sociali informali e di rendere centrale lo sviluppo dell’empowerment di chi usufruisce o ha usufruito di un servizio.

Promuovere gruppi di condivisioneNelle relazioni interne alla dimensione del servizio, per alcune persone è stato importante partecipare a momenti di interazione e di scambio informale, piccoli gruppi spontanei o facilitati dalla presenza attiva degli operatori. Questo contesto di accoglienza e di reciprocità permette alla persona di riaprirsi gradualmente, di guardarsi attorno, di misurarsi con gli altri attraverso il confronto e il dialogo, di riattivarsi come soggetto. I momenti di incontro quotidiano possono svilupparsi nell’organizzazione di piccoli gruppi di auto-aiuto, dove poter condividere le proprie esperienze e trovare percorsi comuni per far fronte ai problemi. Le risorse che il servizio mette a disposizione per promuovere aggregazione e socializzazione sono state apprezzate quando hanno permesso ad alcune persone di sviluppare nuove conoscenze e amicizie, e di con-seguenza maturare relazioni che esulano dal contesto stesso del servizio.I gruppi talvolta possono diventare risorse sociali importanti per le persone in alcuni momenti del loro processo di recovery; possono inoltre svilupparsi in forme più organizzate di supporto tra pari. Queste reti informali di sostegno reciproco nascono, si allargano, si differenziano e nell’evoluzione di questo processo includono e si fanno attraversare da chi ha bisogno di fare un percorso collettivo, di acquisire potere. I club di volontariato, i gruppi sportivi e culturali, e in particolar modo il gruppo di volontariato di donne hanno avuto un’importante risonanza per le persone: hanno significato ritrovarsi in una dimensione di accettazione e di condivisione di «orizzonti comuni» favorevoli alla ridefinizione di sé.

Supportare la rete familiare Quanto agli interventi relativi alla rete familiare, essi possono essere incisivi fin dai primi contatti con le diverse situazioni.

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Il contributo dei familiari è fondamentale per la ricostruzione della storia di vita del loro parente in quanto conoscono il «prima» del disturbo e possono aiutarlo a ricostruire un «dopo», il loro futuro. Anche se sostenere i propri cari può rappresentare un’esperienza positiva, l’impatto in termini di gravosità, soggettiva e oggettiva, è molto alto. In User Empowerment in Mental Health, documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2010, è stato rilevato che il 95% dei carers sono familiari, di cui l’82% donne (per il 90% madri). Il 29% dei carers familiari è impegnato nelle attività di supporto per più di cinquanta ore settimanali.I familiari hanno dunque bisogno di sostegno, di informazioni condivise e di affi-dabilità. Il familiare può essere orientato all’inserimento in specifici programmi di supporto, come nel caso del gruppo di familiari di persone con disturbo mentale severo. Questi programmi possono essere utili, innanzitutto, per permettere di uscire da un isolamento della propria situazione e per con-dividere problemi in comune con gli altri familiari. In tal senso, l’aiuto alla famiglia va nella direzione di un orientamento psico-educativo, per favorire uno sviluppo di adeguate strategie per far fronte ai problemi, che permettano loro di poter avere: • una migliore gestione dello stress relativo ai momenti di marcata difficoltà del proprio parente; • un aumento della consapevolezza e del controllo sulle proprie capacità di dare risposte e sulle proprie emozioni; • una riflessione sul proprio stile di vita e di relazione; • la possibilità anche di prendere distanza da quei problemi che non sono capaci di risolvere da soli.Il lavoro di supporto ai familiari di persone considerate ad alto carico è strutturato, oltre che da colloqui e consulenze, attraverso un programma di formazione e di riflessione a carattere psico-educativo, svolto in gruppo. Ogni anno il Dsm di Trieste, oltre a curare la pubblicazione di manuali e opuscoli informativi, organizza due corsi di formazione per circa venti familiari di persone con una storia più lunga di disturbo mentale, che durano ognuno dieci incontri con cadenza settimanale. Da circa dieci anni almeno una volta all’anno si organizza un corso di formazione e sostegno anche per familiari di persone all’esordio.In particolare, nell’intervento con i familiari va considerato come specifico tema di intervento lo stigma connesso al disturbo mentale, per due motivi fondamentali: in primo luogo perché lo stigma può essere percepito dalla persona all’interno del proprio nucleo familiare, e in secondo luogo perché la famiglia può diventare pro-tagonista nella lotta allo stigma e alla discriminazione, includendo la partecipazione e la promozione di attività orientate a modificare i pregiudizi e affermare il pieno diritto all’inclusione sociale dei propri parenti nella comunità.

Per una Carta dei servizi orientati alla recoveryIn conclusione, desideriamo riportare l’esito di un lavoro che ha coinvolto – in un confronto ripetuto nel tempo – diversi soggetti che partecipano alla vita dei quattro

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Centri di salute mentale del Dsm di Trieste: utenti, operatori, familiari e volontari. Risultato del lavoro è stata nel 2014 la realizzazione di un testo intitolato Carta della Recovery. I servizi di salute mentale e la guarigione (8).

Uno strumento per ripensare i servizi nel movimento della societàLa Carta della Recovery vuol essere «un nuovo strumento dei servizi di salute mentale che si rinnovano, per rispondere alle nuove domande delle persone e alla realtà che si trasforma». Appare infatti necessario ripensare ai servizi di salute mentale nel movimento di una società in continua trasformazione. Servono una nuova creatività e capacità di progettare, di agire. I ruoli e i bisogni delle persone con disagio mentale e delle loro famiglie si sono modificati nel tempo, grazie anche alle forme di associazionismo di utenti e familiari. Domande di aiuto più esplicite e chiare e la consapevolezza dell’importanza di tutelare i propri diritti sono effetti del cambiamento. Il protagonismo di persone e famiglie è parte integrante della complessità di un servizio orientato alla guarigione, e arricchisce l’offerta delle risposte che esso può dare. I servizi devono essere capaci di aiutare le persone ad attivare e utilizzare le risorse individuali e quelle esterne per conquistare uno stato di salute generale. Il tal senso, la guarigione diventa un diritto e acquista una dimensione sociale e politica.Occorrono allora servizi, e i cittadini devono rivendicarli laddove essi non esistono o sono inefficienti, che garantiscano un’accoglienza e un percorso di cura ade-guati, relazioni di aiuto fondate sulla reciprocità, risorse economiche per favorire inserimenti nella società, politiche sociali e culturali che contrastino lo stigma e la discriminazione, il pregiudizio tuttora dominante che l’individuo sofferente di un disturbo mentale sia «pericoloso», «incomprensibile», «inguaribile», «improdut-tivo» e «irresponsabile». È questa la dimensione sociale del concetto di recovery.

Una Carta nata dal desiderio di diffondere salute mentale La Carta della Recovery nasce per essere uno strumento applicato dai servizi che si rinnovano a fronte di una maturazione delle persone conquistata nel tempo, che è pure maturazione delle domande, e delle risposte. Nasce dai racconti delle persone le cui esperienze fanno capire che cosa aiuta e che cosa ostacola il processo di ripresa. Nasce dal fatto che nel tempo le persone siano riuscite ad assumersi delle responsabilità, a ricavare degli spazi di confronto riconosciuti, affrontando sfide come l’organizzazione del convegno annuale «Im-pazzire si può». Nasce dall’incontro con persone provenienti da altri paesi dove si parla di empowerment e di recovery non da ieri. Nasce dalla suggestione di creare un documento che si completi con le idee di molti e che possa servire a tutti.

8 | La Carta della Recovery è frutto di una ricerca partecipata iniziata nel 2011 quando a Trieste si imbastiva la seconda edizione del convegno an-nuale «Impazzire si può - viaggio nelle guarigioni possibili», condotta da un gruppo composto da esperti per esperienza ed esperti per professione.

Nel 2013 i contenuti della Carta sono stati discussi e validati in un percorso di formazione congiun-ta nei quattro centri di salute mentale triestini, prendendo a modello il metodo del focus group, con la partecipazione di circa cento persone, per la maggior parte fruitori dei servizi.

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Nasce da questo periodo complicato nel mondo che cambia velocemente e che porta via cose conquistate in tanti anni, con passione e fatica. Nasce dal desiderio di conoscere le realtà del nostro Paese dove le leggi per la salute mentale sono applicate in maniera disomogenea, determinando divergenze nelle pratiche a volte molto marcate. Nasce dal desiderio che la salute, compresa la salute mentale, rimanga pubblica, gratuita e per tutti.Nasce per poter domandare che cosa pensano della guarigione anche ai più difficili, i ribelli, i riottosi, che non stanno poi così «meglio», i disperati.

Le dodici caratteristiche di un servizio orientato alla recoveryLa Carta individua in dodici punti chiave le caratteristiche del servizio orientato alla recovery, ripercorrendo e riassumendo in modo efficace diversi argomenti di cui si è trattato poco sopra.

1. | I servizi centrati sulla persona Il servizio di salute mentale orientato alla reco-very privilegia la soggettività della persona (utente) e interviene utilizzando un ampio ventaglio di risposte personalizzate. Il progetto personalizzato che mira a un cambiamento importante deve essere un «vestito tagliato su misura», che fa suoi i bisogni, i valori, le preferenze della persona. Condivisione del percorso e assunzione della responsabilità da parte di tutti gli attori coinvolti sono punti di forza del progetto. I servizi devono attrezzarsi per mettere in campo le necessarie risorse materiali, umane e relazionali affinché ogni decisione utile al processo di emancipazione della persona sia condivisa.

2. | L’accoglienza Il servizio di salute mentale orientato alla recovery si interroga quotidianamente sui luoghi, i modi, i gesti, le parole, i significati dell’accoglienza. Accogliere è aprire una porta, materiale o simbolica, e farlo in maniera accogliente è far sentire chi entra il benvenuto, in un posto ospitale, dove possa essere a suo agio.

3. | La crisi e la ripresa Il servizio di salute mentale orientato alla recovery è attrezzato per affrontare la crisi, quel momento quando la persona è sicura di non farcela. Fronteggiare la crisi è offrire accoglienza, vicinanza, ascolto, condivisione, aiuto farmacologico accompagnando la persona fino alla ripresa. È far sentire che ci si può appoggiare, che non si è soli, che è possibile uscirne.

4. | La formazione per tutti Il servizio di salute mentale orientato alla recovery investe nella formazione e la promuove. La formazione per tutti i soggetti coinvolti nei servizi intreccia i saperi e le pratiche, da quelli professionali acquisiti dagli operatori a quelli risultanti dall’esperienza diretta delle persone che hanno provato il disagio mentale. È necessario inserire nell’agenda della formazione per gli operatori dei moduli formativi che prevedano la partecipazione di «persone con esperienza» in veste di docenti, per condividere i saperi (sulle leggi, sui diritti, sulla comuni-cazione, sull’accoglienza, sulla valutazione dei servizi). L’operatore deve inoltre poter accedere a un tipo di formazione che lo stimoli ad ascoltare la persona senza determinarne i bisogni a priori, a usare parole che portino rispetto e non infan-tilizzino, e a investire passione e amore nel proprio lavoro. È necessario creare e

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finanziare corsi formativi specifici per le persone con disagio mentale. In questo modo il sapere e gli strumenti tecnici rafforzano le conoscenze acquisite attraverso l’esperienza diretta, e si può creare una vera e propria professionalità.

5. | L’inserimento lavorativo e l’inclusione sociale Il servizio di salute mentale orientato alla recovery sostiene e promuove una cultura del lavoro vero, qualificato e remune-rato, e dell’inclusione sociale. Le offerte lavorative per le persone che sono inserite in percorsi di formazione/lavoro devono ampliarsi e poter soddisfare le diverse capacità individuali. Il lavoro va quindi ulteriormente diversificato. Bisogna liberarsi dal preconcetto che le persone fragili siano destinate a svolgere lavori semplici. Per raggiungere tale obiettivo è necessario educare i potenziali datori di lavoro all’importanza di promuovere una cultura di inclusione all’interno del sistema la-vorativo. Solo rinunciando a preconcetti stigmatizzanti il datore di lavoro è capace di scegliere bene anche per se stesso. Per le persone che attraversano l’esperienza del disagio mentale, inclusione sociale significa anche assumere un ruolo attivo rispetto agli strumenti e alle risorse necessarie a ricostruire una propria identità sociale e un senso di appartenenza e partecipazione alla vita della comunità, al di fuori dal contesto dei servizi di salute mentale.

6. | Lo stigma e l’oppressione interiore Il servizio di salute mentale orientato alla recovery deve saper contrastare situazioni in cui prevale lo stigma e il pregiudizio. Il pregiudizio sul disturbo mentale – e lo stigma che ne deriva – rimane un feno-meno devastante nella vita delle persone che stanno affrontando questo disagio. È talmente radicato nella società e nel modo di vedere e percepire le persone con problemi mentali, che le stesse lo interiorizzano come se fosse reale, convivendo con una sorta di oppressione interiore. I servizi devono perciò sviluppare una cultura della fragilità come risorsa, investendo nella formazione degli operatori, creando opportunità reali di inserimento nel lavoro e nella comunità, diffondendo la speranza che dal disturbo mentale si può guarire.

7. | La rete sociale e le persone significative Il servizio di salute mentale orientato alla recovery deve essere capace di sollecitare la formazione di una rete di persone significative attorno alla persona con disagio mentale, favorendo così la ricostru-zione dei legami sociali. Supportare le persone nello sviluppare relazioni di fiducia e renderle in grado di recuperare il senso di appartenenza a una comunità, deve essere uno degli obiettivi fondamentali perseguiti dal servizio. Gli operatori di un servizio di salute mentale sono parte integrante della rete sociale degli utenti. L’at-tenzione offerta deve essere genuina e differire da quella considerata convenzionale o formale. Gli operatori sono di aiuto quando non danno risposte automatiche e predefinite, ma cercano di conoscere le persone, di venir loro incontro. I familiari vanno supportati come parte integrante del processo di ricostruzione di capacità relazionali e di aiuto genuino. L’importanza della dimensione collettiva del recipro-co aiuto è ampiamente riscontrata nella letteratura sulla recovery. L’amicizia è parte di questa dimensione: occuparsi di qualcuno è il primo passo verso una relazione di reciprocità. Avere una relazione di amicizia, passare del tempo assieme, dedicare

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la propria attenzione all’altro, sono tutti aspetti fondamentali per la persona che ha un’esperienza di prolungato disturbo mentale.

8. | Il sostegno tra pari Il servizio di salute mentale orientato alla recovery deve offrire spazi di ascolto e di accoglienza dove le persone che frequentano i servizi quotidianamente, e quelle che vi sono accolte temporaneamente, possano sentirsi a proprio agio e aprirsi al dialogo, recuperando la volontà di partecipare alla vita di gruppo. Le persone con esperienza di disagio mentale possono collaborare con i servizi in qualità di «facilitatori», mettendo a disposizione le proprie conoscenze e i saperi acquisiti al fine di aiutare chi sta compiendo i primi passi verso la guari-gione. Il supporto tra pari (peer work) non si sostituisce, ma si affianca al servizio. Si agevola così la costruzione di un ponte comunicante tra la persona e il servizio, tra il dentro e il fuori, per tramite di un linguaggio più immediato e condiviso nella pratica. I gruppi di auto mutuo aiuto sono spesso fondamentali nel processo di guarigione. Permettono alle persone di imparare a raccontarsi, confrontarsi e condividere le proprie difficoltà con gli altri. Consentono inoltre di ricostruire reti sociali e legami di amicizia e di vincere il senso di inadeguatezza e di oppressione interiore. I servizi dovrebbero perciò favorirne l’avvio prevedendo la presenza di persone con esperienza che fungano da facilitatori.

9. | Gli spazi Il servizio di salute mentale orientato alla recovery ha tra le sue priorità la questione degli spazi. Gli spazi sono una conquista di libertà, come un luogo sempre aperto a tutti, dove però ciascuno può ritagliarsi un proprio angolo di intimità se sta male, può sentirsi protetto e al sicuro. Uno spazio dovrebbe essere bello e decoroso. Dovrebbe essere un ambiente di condivisione continua di interessi e passioni. Dovrebbe essere divertente, offrire possibilità di svago e distrazione, ma anche di impegno culturale e creativo che si conformi ai desideri di ognuno. È qui che si possono vincere la solitudine e la noia, investendo sia umanamente che economicamente nell’offerta di varie attività all’interno dei servizi. I servizi possono essere vissuti/visti come luoghi stigmatizzanti. Si sente la necessità di analizzare e mettere criticamente in discussione la percezione generale e culturale che «all’e-sterno» si ha del disagio mentale e delle persone che ne soffrono.

10. | L’utilizzo degli psicofarmaci Il servizio di salute mentale orientato alla recovery incoraggia le persone a fare un utilizzo consapevole dei farmaci, considerati un dispositivo transitorio del percorso. C’è una differenza tra l’assumere un farmaco, e utilizzarlo. L’assunzione implica passività, utilizzare è farne uso con consapevolezza, per stare meglio. Serve una farmacologia adeguata ai bisogni della persona, che non ne annulli i desideri e la volontà anche nel momento di crisi. Serve una farmacologia che non impedisca di esprimere i propri sentimenti, i propri pensieri, che permetta di crearsi la propria indipendenza senza soggiacere all’arbitrio di estranei.

11. | L’advocacy e l’associazionismo Il servizio di salute mentale orientato alla re-covery promuove e sostiene la creazione di gruppi trasversali di protagonismo, le associazioni di cittadini utenti e di familiari, i comitati di partecipazione come interlocutori per il rinnovamento dei linguaggi e degli strumenti del lavoro nel

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campo della salute mentale. È indispensabile che le istituzioni competenti tutelino i diritti delle persone che soffrono di un disagio mentale. Le associazioni di utenti e di familiari che si occupano della difesa dei diritti e della lotta per la promozione della salute mentale, sono cruciali per denunciare per esempio i soprusi, i servizi inefficienti, le misure di sottrazione e di contenzione. Nel processo di guarigione è di fondamentale importanza per le persone, soprattutto nei momenti di grave difficoltà, poter avere fiducia negli operatori dei servizi e nelle figure di supporto più significative. La persona deve poter scegliere di affidare a queste figure la cura dei propri figli, dei propri beni e la tutela delle proprie volontà da far rispettare nei momenti in cui non è in condizione di farlo da sé.

12. | I comitati etici Il servizio di salute mentale orientato alla recovery promuove e sostiene la costituzione di comitati etici formati anche da persone esperte per esperienza, che possano indicare e valutare che cosa faciliti e che cosa ostacoli i percorsi di guarigione, e garantire in tal modo il rispetto dei diritti delle persone negli interventi di salute mentale. Una delle attività del comitato etico dovrebbe essere quella di favorire una ricerca partecipata – esperti e persone con esperienza e loro familiari insieme – sui temi della salute mentale. Una ricerca critica e innovativa che aiuti a migliorare la comprensione dei problemi che riguardano da vicino le persone e, più generalmente, il funzionamento dei servizi stessi.In conclusione, il testo vuole rappresentare un primo passo nel lungo percorso della definizione di linee guida che raccolgano idee, principi e pratiche condivise nei servizi orientati alla recovery/guarigione. Ci auguriamo che possa essere un viaggio che molti avranno voglia di intraprendere, nella convinzione che molto c’è ancora da imparare, condividere e mettere in pratica.

Manuela Ciambellini è coordinatrice del Social point di Modena: [email protected] Izabel Marin è assistente sociale nel Servizio abilitazione e residenze del Dipartimento di salute mentale di Trieste: [email protected] Mezzina è direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste dell’Azienda per l'assistenza sanitaria (AAs) 1 triestina: [email protected] Negrogno è dottorando in sociologia presso l’Università di Urbino: [email protected] Fabrizio Starace è direttore del Dipartimento di salute mentale e Dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena: [email protected] Eusebi è giornalista scientifica freelance, collabora con Forum Salute Mentale e Màt: [email protected]’editing dell’«Inserto» è stato curato da Anita Eusebi insieme alla redazione di Animazione Sociale.

IL PROGETTOGLI AUTORI

Nel documento base del ii Appuntamento na-zionale degli operatori sociali (convocato da Animazione Sociale a Torino l'8-9 novembre 2013), pubblicato nel nr. 277 del 2013, si legge: «La logica della mancanza, del deficit, del danno ha creato distanze enormi. Per cui oggi chi ha un problema molte volte viene ai servizi solo se è costretto... perché la risposta che rischia di sentirsi dire è “adesso ti dico dove non funzioni”. Ma le persone sanno già dove non funzionano, piuttosto hanno bisogno di sentirsi chiedere “dimmi in quale momento della tua vita sei riuscito a fare delle cose”. Oggi allora diventa cruciale costruire interazioni che sostengano processi di capacita-zione nei destinatari dei nostri servizi. Per cui chiediamoci: che spazio facciamo al loro sapere informale nel costruire i nostri servizi? Quanto li coinvolgiamo nel comprendere i loro problemi e nel cercare le risposte?» (p. 27). In questa logica di lavoro il concetto di recovery si rivela fecondo per riformulare le pratiche professionali quotidiane.

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in ter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | s t rument i | luoghi&professioni | bazar

Una risorsa a volte inaspettatadentro situazioni difficili

diGiulia Zanardi

Il limite nella quotidianità dell’educare

Chi svolge un lavoro educativo è spesso confrontato con i limiti: quelli emergenti nella propria storia, quelli dei contesti in cui opera, quelli delle persone con cui lavora quotidianamente in una prospettiva educativa. Di fronte ai limiti che nascono da un reale che ci resiste, per tutti il rischio è duplice: quello di negarli chiusi in un narcisismo onnipotente, ma anche di subirli in modo passivo. Ci può essere una terza via da percorrere come educatori, dotata di maggiore generatività, ed è quella di sostare nei limiti, esplorarli con lucidità, da ricercatori attenti a intravedere le possibilità non viste in ogni situazione, per aprirsi a nuovi mondi relazionali.

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Quello del limite è divenuto solo di recente oggetto di una maggiore attenzione e di una comune rifles-

sione su come, in quanto uomini e donne, possiamo misurarci con il reale e le sue resistenze alla nostra azione. Osservando i contesti nei quali ci muovia-mo risulta infatti evidente come il limite costituisca un tema «caldo» e assolutamen-te attuale, che chiama in causa, attraversa e interroga tanto le relazioni tra persone, gruppi e culture, quanto gli attuali stili di vita e il sistema socioeconomico su cui que-sti si reggono. Per la nostra società, dunque, il limite co-stituisce un tema col quale è necessario confrontarsi e un varco da riconoscere e attraversare per poter immaginare scenari futuri possibili e sostenibili, uscendo da atteggiamenti di onnipotenza ma anche di impotenza.In quest’ottica, le pagine che seguono vo-gliono essere un contributo alla riflessione sulla valenza attivante e generativa che il limite può assumere, in particolare in rife-rimento all’azione di quanti – come opera-tori sociali, e in particolare come educato-ri – si misurano quotidianamente col limi-te: quello che caratterizza i contesti di la-voro e le storie delle persone incontrate, ma prima ancora quello che impregna i loro vissuti umani e professionali.Una riflessione al fianco di chi educa, dun-que, alla luce della nuova ricerca multidi-sciplinare che, anche nell’ambito delle scienze umane, sempre più vede nel limite il doppio volto della «barriera insuperabi-le» e della «soglia di ingresso».

Fragili in quanto umani e figli del tempoIl termine limite richiama, già nella sua eti-mologia (1), due dimensioni solo apparente-mente inconciliabili: barriera e ingresso; via inaccessibile e via d’accesso privilegiata; invalicabilità e possibilità di superamento. Si tratta delle due facce del limite con cui chiunque è chiamato, prima o poi, a con-frontarsi nei diversi ambiti, individuali e collettivi, della propria vita. Tale doppio volto assume una grande rile-vanza per chi, come l’educatore, lavora a stretto e quotidiano contatto con situazioni di estrema fragilità e delicatezza: in questi contesti, diventa fondamentale che l’incon-tro-scontro con la propria limitatezza – e con la percezione che il limite ci avvolge, ma al contempo ci apre ad altro – avvenga consapevolmente e sia accompagnato da quella capacità riflessiva che consente di fare della propria esperienza soggettiva, sociale e lavorativa un’imprescindibile fonte di conoscenza. Questo nella convinzione che «per guardare ai vissuti degli altri è in-dispensabile avere consapevolezza dei pro-pri» (2): l’educatore deve avere chiara l’im-portanza di lavorare innanzitutto su se stesso prima ancora che con l’altro. Prima di addentrarci nello specifico della riflessione, per delinearne meglio i confini è importante ribadire che il limite si configura al tempo stesso come carattere fisiologico della condizione esistenziale umana (quindi intima e biografica) e come attributo del contesto socio-culturale nel quale come uo-mini e donne ci muoviamo.

1 | Il termine deriva dal latino limes, vocabolo utilizzato dai romani per indicare le pietre – considerate sacre e inamovibili – che segnavano i confini, e dunque la frontiera, la linea di demarcazione oltre la quale non era lecito spingersi; al contempo limes era la via che

consentiva di penetrare nei territori di recente con-quista o da conquistare. In questa accezione, si lega anche al latino limen, che indica la soglia. 2 | Iori V. (a cura di), Quaderno della vita emotiva, FrancoAngeli, Milano 2009, p. 43.

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Dentro la fragilità prende forma l’esistenza «I limiti sono propri di qualsiasi forma di esistenza» (3). Così scriveva nel 1993 Piero Bertolini, padre della pedagogia fenome-nologica, sottolineando con forza gli ele-menti di contingenza e necessità storica che caratterizzano ogni forma di vita. L’uomo è sempre e comunque un essere storicamente collocato e la sua libertà di scelta deve scendere a patti con l’insieme delle condizioni sociali e culturali, in fondo esistenziali, in cui si trova immerso (4). La limitatezza, secondo Bertolini, è il fon-damento della natura sociale dell’uomo, poiché evidenzia che egli non basta a se stesso e che l’altro gli è in qualche misura necessario per conoscere sé e la realtà esterna. La tendenza a ricercare la relazione con l’altro sarebbe conseguenza e prova della «impossibilità per il singolo individuo di esistere autonomamente, ovvero al di fuori di un qualsiasi rapporto con l’altro» (5), poi-ché «è dall’incontro con l’altro che l’Io è in grado di cogliere o di comprendere tanto la realtà di se medesimo quanto la realtà del mondo» (6). La nostra quotidianità, intessuta di relazio-ni, grida dunque sempre il nostro bisogno dell’altro. Per usare il linguaggio di Vittorino Andreoli, la fragilità è «origine della voglia di legame, di comprensione, di solidarietà e di amore» (7).Lo scenario delineato chiama in causa l’e-ducatore, fragile per professione in quanto inserito in una quotidianità lavorativa fatta, per l’appunto, di relazioni e in cui la rela-

zione diviene il principale e «debole» – poiché non prescrittivo – strumento di intervento. «Limitato» in quanto essere umano e in quanto professionista dell’aiu-to che si confronta quotidianamente con circostanze e storie di vita che lo mettono duramente alla prova, non è infrequente che l’educatore sperimenti un senso di ina-deguatezza e impotenza, di fallimento e sconfitta: la percezione di fragilità può emergere prepotentemente per uno sba-glio, un percorso di recupero fallito, una scelta dell’utente non condivisa. Il limite in una società che chiede perfezioneSe la limitatezza si configura come una ca-ratteristica che accomuna tutti gli esseri umani, sorge spontanea una domanda: perché mai risulta oggi così difficile accet-tarla come parte integrante di sé? Fra le molte motivazioni, una, alla quale molti autori (8) rivolgono la propria atten-zione, spicca per importanza e influenza: si tratta dell’illusione di onnipotenza che abita e corrode ogni ambiente di vita. Esiste infatti un’implicita (anche se non così tanto) richiesta di perfezione da parte di una società impostata sull’idea che «vai bene» solo se hai successo, se spicchi fra i tanti. Per rispondere alla domanda di perfezione (e meritare dunque affetto, stima, conside-razione), si vive come «sotto la presenza di un giudice implacabile» (9), apprendendo fin dalla più tenera età a mascherare le pro-prie zone d’ombra e tutto ciò che in sé è indice di debolezza e fragilità.

3 | Bertolini P., Caronia L., Ragazzi difficili, La Nuova Italia, Scandicci 1993, p. 81.4 | Bertolini P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Scandicci 2002, p. 154.5 | Ivi, p. 191.6 | Ibidem.

7 | Andreoli V., L’uomo di vetro, Rizzoli, Milano 2008.8 | Si veda Augelli A., Tonalità emotive e paesaggi interiori nell’esperienza educativa, in «Animazione Sociale», agosto/settembre, 2007, pp. 59-60.9 | Peter R., Onora il tuo limite, Cittadella, Assisi 1997, p. 8.

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Si tratta di meccanismi che lavorano in profondità e di cui raramente si è consa-pevoli e che fanno sì che, anche quando si raggiunge un certo grado di consapevolez-za, riscoprire le parti di sé più scomode costituisca comunque una sofferenza: il limite, quando riemerge, può divenire to-talizzante, poiché ci si identifica a tal punto con esso da non essere più in grado di ve-dere e valorizzare le risorse e gli aspetti positivi di sé, come anche dei contesti in cui si opera.

Volti del limite nel lavoro dell’educatoreAnche la quotidianità dell’educare e del prendersi cura dell’altro è fatta di una com-plessità di sentimenti ed esperienze che espongono l’educatore all’incontro con le proprie fragilità. Ragionando attorno alla difficile presa d’atto di questa nudità inte-riore, Alessandra Augelli (10) individua al-cuni dei volti che il limite assume nella pratica dell’educare.• Il prevalere del senso di impotenza. Si ma-

nifesta nelle situazioni in cui ci si sente privi di strumenti e risorse, dunque impre-parati ad affrontare le richieste del conte-sto lavorativo. Come evidenzia Daniele Bruzzone, «non sempre si può fare tutto (non sempre, anzi, si può fare qualcosa), non sempre tutti ce la fanno» (11), e ciò ge-nera una diffusa sensazione di inutilità e inadeguatezza. • L’inganno del dono totale di sé. Può ac-cadere, soprattutto agli inizi del percorso professionale, di venire talmente coinvolti dalle storie che si incontrano da spendersi totalmente per l’altro, dimenticando di tutelarsi e di avere cura anche di se stessi. È la questione della «giusta distanza». Un equilibrio (sempre da re-inventare) fra ec-cessivo coinvolgimento e freddo distacco – in altre parole, la capacità di tracciare sani confini fra sé e l’altro – è necessario per la riuscita di ogni percorso, oltre che per la salvaguardia della propria salute psicofisica.• L’abbandonarsi a sensi di colpa. Non tutti i percorsi che un educatore intraprende hanno esito positivo. Concedersi di sba-gliare, accettare anche le sconfitte è forse l’aspetto più difficile e controverso dell’e-ducare. Si ha la sensazione di non aver fatto abbastanza e ci si assume in toto la responsabilità dell’accaduto, alimentando un’ansia di fallimento che porta a ingigan-tire gli ostacoli più che a favorire crescita e consapevolezza di sé. • La frustrazione per un «grazie» che non arriva. Se in ogni relazione è insita la ne-cessità di ricevere un riscontro rispetto al proprio manifestarsi in quanto persona, un ringraziamento è conferma e riconosci-mento del lavoro svolto, la prova che si è

10 | Augelli A., Tonalità emotive e paesaggi interiori, cit., pp. 59-60.

11 | Iori V., Quaderno della vita emotiva, cit., p. 155.

In un disperato e spesso

vano tentativo di difesa,

si creano corazze

e si erigono barriere

che paiono proteggere.

In realtà si frappongono

fra sé e gli altri, intaccando la capacità

di relazionarsi.

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agito correttamente. Quando i «grazie» vengono a mancare, la sensazione può di-venire di grande frustrazione per l’educa-tore che, faticando a scorgere il risultato del lavoro, vede indebolirsi entusiasmo e motivazione e, di conseguenza, fiducia nel proprio quotidiano operare.• Il sentirsi falliti nel prendere atto delle scelte altrui. L’educatore può offrire un’op-portunità di cambiamento, ma esso si con-cretizza solo se l’utente accetta e sceglie di accoglierlo. L’azione educativa non può mai essere imposta con la forza e ciò im-plica, per l’educatore, la non scontata ca-pacità di attenersi alle scelte fatte dall’u-tente anche quando non le condivide. In altri termini, la capacità di riconoscere all’altro il proprio spazio di autonomia e azione.• Il lasciarsi travolgere dalla mancanza di senso. La sofferenza spesso rimane priva di senso e viene percepita come ingiusta e inac-cettabile. Perché accadono certe cose? E perché a lui/lei e non a me? Sono domande che dicono la paura, la fragilità, la difficoltà di guardare in faccia un dolore che, privo di un perché, richiama al fatto che chiunque, educatore compreso, può esserne colpito. Rassegnazione e rinuncia all’azione si rive-lano spesso diretta conseguenza dell’incon-scio rifiuto di una sofferenza alla quale lo stesso educatore può rivelarsi impreparato.

Osservare sé e l’altro con tenerezzaLe esperienze e i sentimenti elencati in precedenza sono fortemente destabilizzan-ti, mettono cioè in crisi la propria immagi-ne di sé, rendendo concreto il rischio di «rompersi». Di fronte a tale rischio, la re-azione più frequente e immediata è la fuga,

che porta a ignorare il proprio sentire, a metterlo a tacere e a comportarsi come se niente fosse. Qual è la conseguenza di que-sta modalità di relazionarsi col limite, in altre parole con un’immagine di sé che non coincide con le proprie aspettative? Augelli sostiene che

l’esperienza del limite e della fragilità, quan-do non è assunta, quando non è profondamen-te compresa, crea corazze, che apparentemen-te danno sicurezza e protezione, ma in realtà rischiano di fare ancor più male. (12)

In un disperato e spesso vano tentativo di difesa, si creano corazze e si erigono bar-riere che apparentemente proteggono ma in realtà si frappongono fra sé e gli altri, intaccando la capacità di relazionarsi. Dal momento che, come visto, è proprio la re-lazione a richiamarci alla nostra umanità, e dunque alla nostra insufficienza, risulta chiaro che l’unico modo per preservare una determinata immagine di noi stessi sembra negare la relazione stessa, e con essa il nostro bisogno degli altri. Queste corazze, per quanto riguarda il ruolo educativo, possono assumere forme diverse, come l’isolamento, la spersonaliz-zazione (che porta a dare una risposta me-ramente tecnica ai bisogni delle persone), la deresponsabilizzazione (che, di fronte agli insuccessi e agli ostacoli, porta a ricer-carne le cause fuori da sé e per cui, di fatto, è sempre colpa di qualcun altro) (13). L’esito comune è l’accumularsi di un ma-lessere che rischia di compromettere la capacità di agire con consapevolezza il proprio ruolo. Non è un caso che questa professione sia oggi annoverata fra quelle maggiormente a rischio di burn-out, una sindrome da affaticamento ed esaurimento

12 | Ivi, p. 150.13 | Gherardi V., Le vie di fuga dalla professionalità,

in Gherardi V., Manini M., Didattica generale, Clueb, Bologna 2001, pp. 28-30.

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psicofisico fra le cui cause possiamo imma-ginare un sentire negativo che, non trovan-do uno sbocco verso l’esterno e una possi-bilità di elaborazione, finisce per influen-zare negativamente gesti, scelte e relazioni.

Fare del limite una chiave di comprensione dell’uomoCosa ha a che fare tutto questo con la pro-fessione educativa? Un educatore che non sappia farsi carico delle proprie fragilità non sarà in grado di guardare con tenerezza alle fragilità dell’al-tro. Riconciliandosi con la propria umani-tà e debolezza saprà invece farsi vicino a chi soffre. Infatti, «perché uno si fermi vicino a un ammalato deve sapere di po-tersi ammalare» (14). Non c’è modo di incontrare l’altro e di comprenderne il dolore, la sofferenza, le difficoltà se non riconoscendo la propria fragilità, il fatto che in quella stessa situa-zione ci si sarebbe potuti, ci si può e ci si potrà trovare a propria volta.«Fuori del limite l’uomo perde ogni possi-bilità di comprensione» (15), infatti

si può capire che un altro si senta debole, fragile, diverso, tremante di sgomento, solo lasciando affiorare il ricordo di tutte le volte – o di almeno una volta – nelle quali noi stessi ci siamo sentiti deboli, fragili, diversi, tremanti di sgomento. (16)

L’uomo «perfetto», che sottostà alle regole della società della perfezione, non è in grado di accogliere la propria e l’altrui fra-gilità, perché la fragilità è un’esperienza che gli è estranea. Ecco allora l’importanza, anche per l’educatore, di accettare i propri limiti: solo imparando a convivere serena-

mente con se stesso egli potrà stare serena-mente con gli altri. L’accettazione del limi-te, in quest’ottica, è presupposto di relazio-ni sane, legami autentici, capacità di stare insieme. Etty Hillesum, in un contesto e in un’epoca diversi da quelli attuali, scriveva: «Avevo imparato a leggere in me stessa, e così ero in grado di leggere anche negli altri»

(17). L’educatore è chiamato a «leggere» se stesso, a intraprendere un percorso che, se portato a compimento, gli consentirà di comprendere dentro uno sguardo e un moto di tenerezza le persone che incontra. In questo senso, il prendersi cura del pro-prio limite si presta a una doppia lettura: una interna (accogliere la naturale debo-lezza e fragilità che ci contraddistingue personalmente in quanto esseri umani) e una «esterna»: il limite, infatti, è anche il confine che separa e differenzia le persone le une dalle altre, e come tale richiede di essere accettato e rispettato, riconoscendo che si è tutti portatori di visioni del mondo, schemi mentali, valori assolutamente par-ziali e soggettivi, che possono anche non essere condivisi. Significa riconoscere che esiste qualcuno o qualcosa di «altro» da me, le cui caratteristiche ed esperienze di vita possono portare a scelte e comporta-menti altri rispetto a quelli per me più adeguati.

L’intervento educativoaccetta il vincolo che è l’altroL’educatore deve essere consapevole del fatto che le persone che incontra e accom-pagna possiedono le proprie caratteristiche di personalità, le proprie idee e convinzio-ni, i propri valori di riferimento, che pos-sono anche (e spesso accade) non coinci-

14 | Andreoli V., cit.15 | Peter R., Onora il tuo limite, cit., p. 17.16 | Iori V. (a cura di), Quaderno della vita emotiva,

cit., p. 119.17 | Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, p. 208.

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dere con i suoi. Il suo compito non è tra-sformare l’altro nella persona che crede debba essere, ma, invece, aiutarlo a trova-re in sé gli strumenti e la forza per cambia-re, in una direzione che non è l’educatore a stabilire, ma che il soggetto, pur accom-pagnato, dovrà trovare da solo.In questo senso, il fallimento, il rifiuto, una scelta della persona non condivisa sono da leggere come espressione di un’alterità e di un’autonomia mai ingabbiabili .La competenza dell’educatore implica la capacità di riconoscere che l’altro non è mai una «tabula rasa», un vaso vuoto da riempire o un pezzo di argilla da modella-re, ma un soggetto che concorre nel deter-minare il risultato del percorso educativo: quest’ultimo, dunque, non dipende solo dall’azione dell’educatore, ma anche e so-prattutto dalla disponibilità della persona, delle persone a co-partecipare, dal loro desiderio di cambiare, dai loro tempi di maturazione. Riconoscere questo significa rinunciare alla presunzione di onnipotenza con cui tanti operatori si vivono in relazione alle perso-ne che accompagnano, per restituire ad esse il ruolo di protagoniste del proprio percorso umano. «Perché il suo lavoro si riveli efficace», scrive Bertolini in riferimento ai «ragazzi difficili» (ma il discorso è estendibile ai diversi campi d’azione), l’educatore «deve riconoscere nel ragazzo, nel ragazzo con-creto e in carne e ossa, il primo vincolo ai suoi progetti e alle sue azioni» (18). Ancora una volta siamo chiamati a rispet-tare i confini posti dalla natura e, fra essi, la libertà di scelta e le specificità delle de-cisioni prese dalle singole persone che af-fianchiamo.

Il fragile equilibrio fra superamento e accettazione Finora si è argomentata l’importanza di rispettare i propri limiti naturali, di accet-tare di non poter sempre dare il meglio o fare ciò che ci si era prefissati. Ciò che si è voluto suggerire è che passare dal ricono-scimento e dall’accettazione della propria limitatezza costituisce, per chi educa, una tappa imprescindibile della propria cresci-ta umana e professionale. Tale predisposi-zione accettante non può, tuttavia, diveni-re pretesto per l’immobilità o per la passiva rassegnazione nei confronti degli eventi. Come evidenziato, infatti, il termine «limi-te» sottende, oltre all’idea di invalicabilità, anche quella di soglia, passaggio e, dunque, di possibile evoluzione, spostamento, at-traversamento. Se è innegabile che il limi-te sia costitutivo della condizione umana – e dunque non possa mai essere del tutto colmato – tuttavia è proprio il limite a de-lineare uno spazio in cui l’educatore può intervenire con passione e competenza per favorire l’evoluzione delle situazioni e al-leggerirne le fatiche. La constatazione della propria limitatezza, allora, non deve diventare una scusa, una giustificazione che esonera dallo spender-si in ciò che si fa, ma, al contrario, essa implica l’interrogarsi su cosa è possibile fare delle proprie fragilità, con l’obiettivo di imparare a discernere le situazioni in cui i limiti riservano uno spazio di intervento – e possono dunque essere «spostati» – da quelle in cui è preferibile non interferire, poiché ciò costituirebbe una forzatura.Di fronte al limite, insomma, l’educatore può scegliere «tra lo slancio del supera-mento e la prudenza dell’accettazione» (19).Anche «arrestarsi di fronte a un limite non

18 | Bertolini P., Caronia L., cit., p. 82.19 | Iori V. (a cura di), Quaderno della vita emotiva,

cit., p. 158.20 | Ibidem.

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è sempre indice di impotenza: talvolta esprime una sapienza che solo l’esperienza pensata della cura sa generare» (20). In altre parole, invece che essere vissuto come un peso di cui disfarsi o farsi carico, il limite può diventare qualcosa di genera-tivo, a patto, però, di guardarlo in faccia e lasciarsi interrogare, per comprendere come esso possa essere «maneggiato» e messo a frutto. Alla luce di ciò, la consapevolezza del limi-te può costituire fonte di equilibrio rispet-to ai rischi del delirio d’onnipotenza e del senso d’impotenza. Non esistono ricette o formule universalmente valide che consen-tano di raggiungere tale equilibrio; ognuno dovrà trovare la personale misura fra le due spinte opposte: l’impulso a oltrepassare i propri limiti da un lato e la capacità di ca-pire quando fermarsi dall’altro.

Quali strumenti per la cura di sé Alla luce di quanto detto, risulta evidente, per l’educatore, l’esigenza di prendersi cura di sé per poter aiutare gli altri. Questo im-plica un occhio di riguardo per i risvolti emotivi del lavoro, allo scopo di acquisire sempre più dimestichezza nel muoversi all’interno dei propri «paesaggi interiori» (21). Micaela Filippini descrive la cura di sé come «un percorso di crescita interiore che spin-ge l’educatore a ripartire da sé per rilanciar-si nel mondo del lavoro educativo» (22). È, dunque, innanzitutto un percorso di autoanalisi, che fa dell’esperienza sogget-tiva dell’educatore un’imprescindibile fonte di conoscenza. Concretamente significa

sviluppare una riflessione sugli interventi educativi realizzati e sui loro effetti (positi-vi e negativi), sul proprio modo di relazio-narsi con le persone in situazioni difficili, sui sentimenti, le fatiche, i successi e gli insuccessi, in modo che ogni aspetto del lavoro possa divenire fonte di crescita per-sonale e professionale.Promuovere la riflessione rispetto alla pro-pria azione consente di prendere atto dei propri limiti, allo scopo di gestirli con at-tenzione e «tenerli sotto controllo». Ciò implica non fermarsi alle apparenze, ma scavare nelle cose e negli eventi e coglierne l’essenza, il significato più profondo. Tale capacità va allenata e messa alla prova. A tal fine, l’educatore dispone di strumen-ti che implicano un continuo travaso tra riflessione in solitudine e lavoro di gruppo.

Condividere con altril’esperienza del limiteUn primo strumento è la supervisione pro-fessionale, che dà la possibilità a un’équipe di riprendere e rielaborare – periodica-mente e sotto la guida di un esperto – il proprio operato, riflettendo sulle situazio-ni, sulle emozioni di difficile espressione, sui fallimenti e sugli eventuali intoppi ve-rificatisi. È un luogo di vera e propria «ma-nutenzione» (23) che «permette di gestire consapevolmente le proprie azioni, affian-cando alla dimensione del fare quella del pensare insieme suggerita dal gruppo di lavoro» (24). Si rivela quindi uno strumento prezioso per lavorare in gruppo sul limite, fino a creare un clima di apertura e dispo-nibilità fra gli operatori, essenziale affinché ciascuno si senta libero di esprimere dubbi

21 | Augelli A., cit., p. 57.22 | Filippini M., Aver cura di sé, in «Note di pasto-rale giovanile», aprile, 2009.23 | Biolcati R., Sagliaschi S., Promozione del benes-

sere e prevenzione, in Pani R., Biolcati R., Sagliaschi S., Psicologia clinica e psicopatologia per l’educazione e la formazione, il Mulino, Bologna 2009, p. 203.24 | Ivi, p. 204.

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e difficoltà, senza paura di mostrare le pro-prie debolezze.La condivisione delle fragilità può aprirsi anche a eventuali occasioni di confronto esterne al contesto lavorativo, con persone e gruppi non direttamente connessi al la-voro educativo. Le possibilità possono es-sere molteplici: una psicoterapia, un per-corso spirituale, la pratica di una disciplina orientale, tutto ciò che risulti funzionale all’acquisizione di una maggiore familiarità con la natura umana del proprio limite. Può essere arricchente anche il confronto con le realtà sociali che si muovono alla ricerca di varchi per andare oltre, mettendo in di-scussione gli attuali stili di vita e di sviluppo socio-economico.

Un inesauribilepercorso di apprendimentoNon meno importanti sono gli strumenti di autoanalisi: chi opera a contatto con la sof-ferenza e il disagio sociale, infatti, non può esimersi dal «lavorare» su se stesso. La scrit-tura è il primo, per importanza ed efficacia, di questi strumenti: la pratica del diario professionale è non a caso diffusa fra i pro-fessionisti dell’educazione. Oltre alle esigen-ze di natura pratica cui risponde, la scrittu-ra ha una valenza formativa: trasferire sulla carta i pensieri e le emozioni consente, in-fatti, di dar loro una forma, di definirli con maggiore chiarezza, di guardarli dall’esterno e secondo nuove prospettive, di riprender-li con maturato distacco. Secondo Duccio Demetrio, ripercorrendo la propria storia è possibile comprendere l’inevitabilità del dolore, la finitudine dell’u-mano e, in definitiva, riappacificarsi con se stessi, che non vuol dire mettere a tacere dubbi e inquietudini, ma piuttosto dare loro voce, esternarli per comprenderli nella loro

essenza. L’autobiografia, insomma, come rivisitazione dei propri vissuti, riconciliazio-ne con gli stessi e occasione di miglioramen-to, trasformazione e crescita personale.La costante auto-formazione dell’educato-re, tuttavia, non si limita al fare luce nei meandri della propria interiorità, ma guar-da anche all’esterno, alla necessità di for-mazione permanente che caratterizza ogni ruolo che richieda una preparazione – la quale non può esaurirsi sui banchi di scuo-la o sui testi universitari, ma necessita di essere costantemente aggiornata e messa in discussione. In particolare, per quanto ri-guarda l’educatore, si tratta di documen-tarsi sui bisogni sociali e culturali emergen-ti, sulle situazioni di maggiore urgenza, sulle normative che regolano gli interventi, sulle teorie e sui modelli educativi recenti.

Un tempo per pensarenelle organizzazioniAlla luce di quanto sottolineato, risulta fondamentale che le strutture lavorative immaginino e predispongano spazi, tempi e modalità che permettano agli operatori – che quotidianamente si fanno carico di parte delle sofferenze di chi accompagna-no – di esprimere i propri vissuti. In altre parole, uno spazio di rielaborazione di quanto incontrato e sperimentato. Spesso e volentieri la centralità di questa dimen-sione non viene colta, e il lavoro dell’edu-catore si riduce a un qualcosa di meramen-te esecutivo e prestazionale. È invece rile-vante che gli educatori rivendichino un

tempo per pensare e riflettere, per interro-gare quello che si fa e discernere. Un tempo per pensare, non solo i singoli atti, bensì la relazione che li lega, che intreccia ogni filo del lavoro nel tessuto, intelligente e affettivamente connotato, della cura. (25)

25 | Filippini M., Aver cura di sé, cit.

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Il limite da peso a risorsa nel lavoro In conclusione, alla luce delle riflessioni proposte, è possibile identificare tre prin-cipali modalità attraverso cui il limite può divenire risorsa del lavoro educativo.

Accettare la vulnerabilità Come più volte sottolineato, esiste un rapporto profondo e indissolubile fra vulnerabilità e relazione, per cui non esiste vera relazione senza pre-via e continua accettazione della vulnera-bilità. Ciò significa che riconoscere la pro-pria umanità – e con essa la possibilità della sofferenza e del fallimento nella propria vita – è l’unico vero modo per farsi vicini a chi soffre e, dunque, relazionarsi auten-ticamente. Solo imparando a stare serena-mente con se stesso, e accettando la pro-pria piccolezza e le proprie insufficienze, l’educatore potrà sviluppare un atteggia-mento di autentica compassione (dal latino cum e patior, «patire con» l’altro) nei con-fronti dell’altrui fragilità.

Valorizzare il fallimento «A volte un limite o un fallimento ci dicono su cosa dobbia-mo lavorare» (26): modi di dire, un po’ in-flazionati ma certamente veritieri, vogliono che sia cadendo che si impara a rialzarsi e sbagliando che si impara a correggersi. Anche per l’educatore è importante com-prendere e accettare che il suo percorso è un continuo «errare», fatto di successi, ma anche necessariamente di cadute – errori, insicurezze, sentimenti negativi – e che ciascuno di questi elementi è fondamenta-le per costruire e riaggiustare in itinere la prassi lavorativa. L’errore, allora, non è

26 | Contini M., Figure di felicità, La Nuova Italia, Scandicci 1988, p. 63.27 | Ivi, p. 177.

sbagliare, quanto piuttosto non trovare alcun valore nel fallimento. Il limite, se accolto, può aprire potenziali spazi di ri-flessione e mobilitazione delle proprie ri-sorse in vista di un miglioramento, dinami-che di cui non ci sarebbe alcun bisogno se tutto andasse sempre per il meglio. Aprirsi all’indefinitezza È importante svi-luppare un atteggiamento di «autentica disponibilità all’esistenza» (27) e agli avve-nimenti, belli e brutti, che possono carat-terizzarla: l’assunzione del limite impone una rinnovata visione del mondo e delle cose, a partire dalla presa di coscienza che non è possibile tenere sempre tutto sotto controllo. Tale consapevolezza è centrale per l’educatore, poiché apre alla possibili-tà di vivere la progettazione educativa non come un qualcosa di definito meccanica-mente, di stabilito dall’alto e calato sull’u-tente, ma come un evolversi continuo, aperto alle possibilità, ai mutamenti e alle deviazioni determinate da una molteplici-tà di variabili: prima fra tutte la presenza stessa delle persone nei loro contesti di vita, con le loro caratteristiche, scelte e vi-sioni del mondo.La missione dell’educatore, in definitiva, è educare al limite se stesso e, conseguente-mente, l’altro, dando il proprio contributo affinché i soggetti incontrati sentano come importante e concreta la prospettiva di un cambiamento, ma allo stesso tempo sap-piano anche amare la propria limitatezza, in quanto massima espressione della loro umanità. E vedere in essa non più una mancanza, ma la propria forza.

Giulia Zanardi, studentessa del Corso di lau-rea magistrale in Progettazione e gestione dell'intervento educativo nel disagio sociale, presso l'Università di Bologna: [email protected]

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inter v ista | studi | prospett ive | inser to | metodo | strumenti | luoghi&professioni | bazar

Ancoraggi nella relazione educativa con storie di fatica di bambini e ragazzi

di Gilda Vischia

Se ogni viaggio è un’esplorazione della vita, che viaggio è quello di un educatore professionale a fianco di bambini e ragazzi segnati da difficoltà? Per attraversare il corso dell’età evolutiva il bambino cerca adulti significativiche si mettano a servizio del suo irrinunciabile andare incontro al futuro. Dove sta la specificità del viaggio a fianco di un «adulto altro» come un educatore, e come si integra con la diversità degli interventi di altri operatori in un contesto sanitario? Quale mappa orienta le scelte dell’educatore nel cercare la strada insieme al bambino, se ogni viaggio di crescità è una storia da costruire?

Il farsi del viaggio educativocon il bambino

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Da circa vent’anni svolgo la mia atti-vità in un servizio sanitario pubbli-co territoriale di neuropsichiatria

dell’infanzia e dell’adolescenza, rivolto alla fascia evolutiva compresa tra gli 0 e i 18 anni con disagio nella relazione e nell’apprendi-mento e problematiche comportamentali.L’ esperienza professionale –, nell’aver os-servato e accompagnato lo spirito iniziatico dei bambini, dai 3 agli 11 anni, e le tappe del loro processo di crescita che, tra gli 11 e i 14 anni, si apre all’adolescenza – ha suscitato in me domande, dubbi e pensieri nei termini di una viva interrogatio. Credo che la brezza del desiderio di testimoniare la complessa condizione umana di chi cerca la propria strada identitaria sia scaturita dall’esperien-za di legame con loro. Attingendo da questo sentimento di grati-tudine, mi sono avvicinata a questo lavoro di ripensamento, di significazione:

In fondo quello che dobbiamo fare per ap-prendere è diventare esploratori, e lo scopo dell’esplorazione non è di scoprire se l’esplo-razione è una buona cosa, ma di ricavarne in-formazioni su ciò che si esplora. (Bate-son,1984)

Volevo ripercorrere la mia mappa di viag-gio e ripensare ai «naviganti», ai luoghi e alle storie incontrate.

Interrogarsi per dare senso alla relazioneIl termine educatore dà adito a una rosa di possibilità di intendimenti o a un mare magnum di fraintendimenti. Educare a che cosa? Sembra ancora ignoto, misterioso, l’agognato complemento. Potrebbe essere semplice: l’educatore fa educazione. Ma questo non ci definisce ancora, condizio-nati dal fatto che oggi numerose struttu-re, oratoriali e ricreative, non poche volte

usano il nome «educatore» per indicare un adulto che intrattiene i bambini: un adulto intrattenitore. In questi anni si sono fatti vari bozzetti e ritratti dell’educatore professionale, a se-conda del contesto in cui opera e a seconda delle trasformazioni avvenute nel panorama sociale o sanitario. A volte, per «comodità», l’identificazione dell’educatore professionale è collocata dentro un ruolo pensato nel binomio edu-catore-attività, cosicché l’azione educativa viene fatta corrispondere a un elenco, una declinazione di «cose da fare». Il contenu-to dei progetti educativi stilati corrisponde a un mansionario di operazioni e attività, dove la persona in crescita viene suddivisa in obiettivi ed elenchi di sotto-obiettivi a breve, medio e lungo termine, perdendo così di vista la globalità della persona e il suo tragitto personale di crescita. Fotoco-pie dell’essere umano, di cui si pietrificano aspirazione e desiderio. Di un ideale di es-sere umano. Ma è davvero questo il senso del lavoro educativo? Stilare una cronaca di azioni? Sembra già tutto previsto dall’adulto, come in una biografia già tracciata.

Distinguere dove porta la corrente La risposta delle istituzioni sanitarie e socia-li, di fronte alla complessità di questa fun-zione educativa, si è orientata allo sforzo, a volte, di annacquarla, altre di demonizzarla, altre ancora di caricaturarla: l’educatore è quello che «bada all’altro» andando a domi-cilio, quello che fa fare i lavoretti, quello che accompagna sul territorio, che aiuta a fare i compiti e così via, con l’assegnazione di un ruolo di custodia. L’educatore ha avuto in alcuni casi e in alcuni ambiti le vicissitudini istituzionali dello «straniero» da integra-

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re, con la sua cultura sconosciuta e quindi sospetta. In altre esperienze lavorative, l’e-ducatore è stato inteso come un tuttologo dell’inventiva e del divertimento.Queste sono alcune delle «onde emotive» che fremono nel viaggio educativo e che accomunano gli educatori. Non è suffi-ciente ripetere che educare è una questio-ne complessa, possiamo dire invece che è complessa perché fa sviluppare intorno una complessità di movimenti, fantasie, aspettative, ideali, realtà, luoghi comuni, stereotipi. Onde in superficie che hanno in realtà correnti e mulinelli sotterranei, meno visibili ma più profondi, che fanno parte della vita professionale. In fondo, la profondità di una professione è data dallo spessore che le si evidenzia intorno. La pluralità di queste domande ci sta aiu-tando sempre più a mettere a fuoco che il lavoro di definire e distinguere per indivi-duarci è veramente un lavoro impegnativo. Sembra che le rappresentazioni mentali che ruotano intorno all’educatore, a volte, siano rimaste cristallizzate e abbiano influenza-to le possibilità di un cambiamento reale. L’ambivalenza che ne deriva in alcuni casi non è rimasta solo a livello di rappresenta-zione mentale, ma ricade anche sulla realtà operativa della professione. Se un educatore cammina sul filo delle rappresentazioni istituzionali e assume nel suo operato una posizione di ambivalenza, rischia di non avere un suo spazio interno chiaro, disponibile ad accogliere i movi-menti evolutivi reali del bambino, costituti-vi per la sua crescita. Il costante «mandato» del far fare attività, legato all’educatore, ci muove una domanda fondamentale che proviamo a esplorare: come si pone l’edu-catore nella relazione con il bambino? Cosa ne fa delle comunicazioni del bambino? Cosa ne fa dell’inattività del bambino, della iperattività? Che tipo di modello gli offre?

Il farsi soggetto di ogni bambinoPenso che l’educatore possa mettersi in contatto con le comunicazioni del bambino solamente quando riesce a tenere distinte dentro di sé le sue emozioni e le emozioni del bambino. Il continuo lavoro di distinguere è quello che aiuta a differenziare via via l’adulto dal bambino, il bambino dall’adulto e a mante-nere la relazione di legame. Legame che si specifica e si definisce nella sua vicinanza e distanza e nella sua temperatura.Il lavoro educativo è fatto da questa capaci-tà di entrare nel livello della comunicazione del bambino e uscire, cioè identificarsi per aiutare il bambino a cercare e a trovare i suoi spazi di definizione e disidentificarsi per mantenere un pensiero sulla relazione. Viene rovesciata la prospettiva dell’inter-vento educativo: il bambino, in quest’ottica, non sarà «oggetto» destinatario di esperien-ze ludiche pensate e proposte dall’adulto, ma sarà il soggetto autore di esperienze e pensieri. Il bambino non sarà «a servizio» di atelier o laboratori strutturati, ma sarà l’adulto «a servizio» della relazione come esperienza: di come il bambino si separa e si ricongiunge con gli adulti, di come il bam-bino si mette in relazione con gli oggetti, del suo rapporto con il gioco, di come esprime i suoi moti d’animo, emozioni e sentimenti, di come si mette in relazione con l’adulto, di come utilizza il suo linguaggio espressivo, quale canale sceglie per investire le sue rap-presentazioni, il corpo, il disegno, la parola, se interagisce con il gruppo dei pari. I «materiali» educativi, gli «strumenti ope-rativi», individuabili in questa nostra ricer-ca, sono quindi da rintracciare nelle dimen-sioni relazionali che si mettono «in gioco» e nei pensieri che via via vengono fuori e si costruiscono nel farsi della relazione.

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È interessante notare come oggi spuntino tante figure professionali che si occupano di relazione. Come se la relazione fosse il male oscuro che ci preoccupa e ci fa sentire inadeguati, impreparati, incapaci e allora culturalmente ci «togliamo fuori» dalla re-lazione continuando a delegare esperti. Ab-biamo comunque capito che la relazione è un bene su cui dobbiamo investire. E la relazione è qualcosa che sta in mezzo fra il bambino e l’adulto.

Per comprendere ci vuole risonanza Allora, riprendendo il compito che ci siamo dati, possiamo delineare un adulto che vada verso una dimensione dell’ascolto. Un edu-catore che sia capace di mettere in sordi-na lo strumento verbale a vantaggio, per esempio, di modalità espressive corporee dei bambini. Non un educatore quindi che suggerisca norme di condotta o anticipi so-luzioni per correggere il disagio o appiana-re la difficoltà, ma un educatore empatico che si metta in contatto con la sua capacità di risonanza e la utilizzi per comprendere cosa sta avvenendo, all’interno della co-municazione, attraverso la manifestazione della difficoltà del bambino. Un educatore, potremmo dire, che abbia il compito di ac-cordare le corde dello strumento-relazione attraverso un’attitudine all’ascolto. La scommessa e la complessità del lavoro dell’educatore professionale consistono in un delicato e paziente lavoro di tenere di-stinti e insieme i diversi livelli che si mettono in moto in una professione d’aiuto, il livel-lo personale e il livello professionale che vengono messi «in gioco» nella dimensione relazionale. In questo affascinante e complesso mestiere la cosa fondamentale è tenere viva la disposi-zione ad andare incontro all’Altro. Principio

fondante delle professioni d’aiuto. Essere interessati all’Altro quindi, investendolo di un’aspettativa a ritrovare il suo corso d’ac-qua. Che c’è, sempre. Magari da sgelare o da far emergere, come un fiume carsico.Costruire la competenza relazionale dell’e-ducatore professionale significa essere di-sponibili a guardare dentro i livelli della relazione per ri-generarsi in atti di chiarez-za, per scrollarsi di dosso quelle pigrizie e quegli indugi mentali che arrugginiscono i pensieri, rendendoli a volte anacronistici. Attraverso questi atti di riformulazione si ri-spetta il flusso di nuove forme di identità e si accolgono i cambiamenti e le metamorfosi che si generano dal di dentro della relazio-ne, inaspettate e insospettate, cioè nuove: «Sono complessi i processi mentali che si devono compiere perché l’osservare diventi fonte di apprendimento» (Bick, 1964).Dato lo strapazzamento e l’abuso della parola «educare», nell’intento di dar fede alla sua complessità, teniamo come punto di partenza la sua etimologia, che vuole dire «tirar fuori».

L’attesa è l’incipit di un pensiero fecondoNel corso della mia esperienza mi sono trovata più volte a chiedermi quale fosse, quale potesse essere, quale avrebbe dovuto essere, quale sarebbe diventato l’ob-jectum da tirar fuori. Tradurlo, nel suo obiettivo e nella sua pos-sibilità di dinamica, mi faceva pensare a un contenitore e a un contenuto, a una perso-na accolta e a una che accoglie. Istituzio-nalmente, a qualcuno che arriva da fuori e a qualcuno che aspetta dentro. A due. Metaforicamente, a un ambiente e a una materia. Una materia e una forma in un flus-so continuo, in una vicendevole influenza costitutiva. Diceva Michelangelo che nella

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pietra è già inscritta la forma. Rispettare la vena della pietra, nella relazione di cura, significa respectare nel senso pieno etimolo-gico: volgersi a guardare il volto dell’Altro.Il maieuta falegname Geppetto non ha forse «tirato fuori» dalla materia del legno suo figlio Pinocchio? Non è questo il senso di dare alla luce? Non è questa l’azione del tirar fuori quando Geppetto scolpisce i sensi a Pinocchio? Geppetto fa Pinocchio partendo dall’ascolto della voce-sonorità del legno. È nell’accogliere quello stupore, quei picchiettii sonori, nel registrarlo den-tro di sé, nel tenerlo in considerazione, nel tendere l’orecchio a dove proviene quella voce, nell’interrogarsi sul chi è che parla.; è dentro questo sussulto, questo stupore, questo sentimento di incredulità e di me-raviglia, di sorpresa e di attesa, l’incipit di un pensiero educativo fecondo. Poi, in un tempo successivo a questo, Gep-petto comincia a osservare la materia legno da vicino. Solamente dentro queste premes-se ha inizio l’atto creativo di intaglio della gemma educativa a lasciare che l’altro sia con la venatura del suo legno.Ecco che allora l’attesa assume un valore, un senso. Non è forse l’azione educativa un’at-tesa? Qui si sustanzia la funzione educativa.

Riconoscere i movimenti trasformativiAttualmente circola una cultura «educati-va» che inseguendo performances è impe-gnata a sottolineare continue mancanze, a vedere il mezzo bicchiere vuoto, e trascura la consapevolezza di che cosa abbiamo e delle tappe di cammino che abbiamo per-corso. Come osserva Donata Fabbri:

Forse non si è ancora a sufficienza capito che la complessità non è un qualcosa di così inoffensivo e tranquillo come altre teorie scien-tifiche, non si è ancora capito che la comples-

sità tocca quello che c’è di più profondo o do-loroso in noi: il nostro modo di ragionare e di conoscere. (Fabbri, 1990, p. 29)

La collocazione degli educatori professio-nali nel comparto terapisti della riabilita-zione, quali psicomotricisti, logopedisti, fisioterapisti, ha costituito un’altra tappa di messa a fuoco del ruolo educativo. Nei cambiamenti legislativi c’è dentro anche quello che ci si aspetta da un ruolo. Siamo invitati a fare un altro atto di de-costruzio-ne per cercare di vedere, con l’aggiunta del compito riabilitativo, i pezzi di cui è fatto questo puzzle professionale. Lo suggerisce la definizione stessa dell’a-zione di ri-abilitare, rendere abile, che potremmo decodificare orientativamente come rendere capace. Capacità è anche l’u-nità di misura di un liquido. Liquido pen-sato quindi dentro a qualcosa che contenga, dentro un contenitore. Contenitore che ha una forma propria. Liquido, quindi, che ha una misura. Aldo Carotenuto, nel libro Le rose nella mangiatoia, si chiede:

Cosa significa raccogliere acqua in un’am-polla? Raccoglierla in un’ampolla significa de-limitare l’illimitato, dare forma a ciò che non ne ha, plasmare in una forma. La differenza tra l’uomo e l’animale risiede nel fatto che solo per il primo lo sforzo evolutivo è consistito nell’ordinare il mondo, nel dargli una forma. (Carotenuto, 1990, pp. 142-143)

Capacità di avere una forma significa de-finirsi: non una forma costretta e imposta da condizionamenti, ma che prende corpo e si sviluppa nelle trasformazioni che si ge-nerano nel processo di cura. Processo che, teniamolo bene in mente, ha quindi una sua dinamica, ha un dentro e un fuori, parti visibili e forze invisibili, qualcosa di chiaro e qualcosa di misterioso, qualcosa che ca-piamo e qualcosa che si nasconde, qualcosa che vediamo e qualcosa che sentiamo. Può

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aiutarci il linguaggio del cinema: c’è uno spazio inquadrato e c’è un fuori campo che dialogano con lo spettatore. Questi mo-vimenti dialoganti del dentro e del fuori, nel processo di cura, sono la sua dinamica.

La fiducia per non perdere la rottaLa meta del compito educativo, da segnare sulla mappa del viaggio di cura, è quella di essere d’aiuto alla persona a trovare la pro-pria capacità, l’unità di misura. La propria definizione-limite, che ne è anche il proprio contenuto. Il ruolo professionale educativo, in questo ambito istituzionale sanitario, è un ruolo di accompagnamento all’evoluzio-ne dell’identità. Ribattezzare con se stessi questo patto educativo ci aiuta ad andare alla fonte del nostro compito professionale, per riattingervi una forza di consapevolezza che è il senso più vero e faticoso, doloroso e gioioso nell’esperienza del viaggiare con la storia degli altri. Credo, con convinzione, che il sentimen-to che accompagna e caratterizza questa specifica professione d’aiuto sia, prenden-do a prestito il titolo di un libro, navigare l’incertezza per farcene qualcosa. Non c’è

una procedura delineata, il conforto di uno spartito musicale da seguire o di una ricetta. Il testo sacro, viene da dire, è la persona che incontreremo con la verità della sua storia, lo spartito sono le emozioni che, come le onde del mare, si muoveranno durante il viaggio della relazione educativa. Incontre-remo sentimenti di sconcerto, di spiazza-mento, ci sentiremo destabilizzati, inquieti, ma siamo chiamati a navigare tenendo il timone della barca, non perdendo di vista la rotta, e avendo cura dei passeggeri navi-ganti. Non ci è dato di sapere se l’imprevisto sarà una tempesta o una bonaccia di vento. Non si può sapere, a priori, la variabilità delle condizioni del mare durante l’intero viaggio. Non si sa quante volte dovremo buttare l’ancora e ormeggiare la barca. E aspettare, tremanti dell’incognita anche, ma fiduciosi. Sappiamo che dentro a ogni persona esiste un bambino autentico e lì dobbiamo curare l’orientamento del nostro intervento educa-tivo affinché diventi per ciascuno «evento educativo» di avveramento. In ciascuno di noi, bambino e adulto, esistono dei luoghi da cercare per ascoltarli e farli parlare, per poter comunicare e poterci capire.

Ciò che abbellisce il deserto, disse il picco-lo principe, è che nasconde un pozzo in qualche luogo... (Saint-Exupéry, 1987, p. 104)

Questa fiducia di base è il sapere della premessa educativa dell’educatore pro-fessionale.

Il legame spazio dell’autonomiaIl paradigma del lavoro educativo è la com-petenza relazionale costituita dall’ascolto empatico, dalla capacità di distinguere, dalla capacità di attesa, dalla consapevo-

Non c’è il conforto

di uno spartito musicale.

Il testo sacro è la persona con la verità

della sua storia,

lo spartito sono le

emozioni che, come

le onde del mare,

si muoveranno durante il viaggio della

relazione educativa.

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lezza e dall’assunzione dell’incertezza. Costruire la competenza relazionale del la-voro educativo vuol dire aprire la prospet-tiva di una professione maieutica. L’identi-tà dell’educatore poggia sulla competenza relazionale. Una relazione che educe, cioè «tira fuori» tracce, segni, forme, disegni, significati, punti di approdo, paesaggi men-tali. Una relazione che riconosce le intenzio-ni, cioè le «tensioni verso» la coscienza del rappresentarsi dentro le differenze neces-sarie per individuarsi, cioè per riconoscer-si come individui: io, io con l’altro, l’altro e non io, io e non l’altro, noi, l’altro, lui. Una relazione che accompagna i passaggi evolutivi della dipendenza, indipendenza e interdipendenza, volti a differenziarsi per individuarsi.Dentro l’istituzione sanitaria il ruolo pen-sato come «specifico» per far raggiungere l’autonomia e la socializzazione del bam-bino è il ruolo dell’educatore. Se l’autono-mia è qualcosa da raggiungere, è necessario pensare a un luogo di partenza da cui uscire, da cui muoversi, da cui partire. Il primo pensiero che ho incontrato in questi anni è stato questo pensiero-scoglio. Scoglio che può essere un luogo di partenza, di arri-vo, di sosta o di salvataggio, a seconda del punto in cui il bambino si trova nella sua traversata.Se l’autonomia è luogo di approdo, è impensabile non figurarsi un «da dove vengo?». Ecco, in questi anni mi è stato ne-cessario accompagnare i bambini a cercare quel luogo di partenza, a vedere se c’era, se c’era stato, se c’era ancora, se rimaneva una traccia consapevole. Ancora un luogo di legame: l’attaccamento. È in questa fase che l’educatore si può trovare fra due sponde: da una parte il bi-sogno del bambino, dall’altra il mandato di autonomia e socializzazione di cui, pur prescritto come punto di arrivo, non si scor-

ge nemmeno l’orizzonte. Ci si può sentire come impigliati dentro una rete di bisogni: del bambino, dell’istituzione e del ruolo educativo. Come se la sopravvivenza di un bisogno dovesse farne morire un altro. Ci si sente dibattuti, come un pesce fuor d’acqua. Qui si gioca la responsabilità dell’azione educativa che ha la funzione di fare da ponte tra, possiamo dire, il mandato istituziona-le assegnato e il bisogno emotivo espresso dal bambino in quel momento. È necessa-rio, quindi, porci domande sul bambino e sull’adulto: su quale bambino abbiamo in mente (che sia) e su quale adulto abbiamo in mente (di essere). Una relazione è educativa e d’aiuto quando è portatrice consapevolmente della possibi-lità trasformativa ed espressiva del bambino in crescita, la accompagna, la sostiene e la riconosce.

Il rispetto perl’andatura del bambinoPer essere d’aiuto al bambino è necessario anche saper tenere emotivamente nella re-lazione: si profila un educatore che affina la capacità di sopportare i momenti di confusio-ne, di sostare nei momenti di vuoto e nelle apparenti incrostazioni delle non ispirazio-ni, di accogliere gli intagli delle contraddi-zioni, le lacerazioni dei «non so», del patire i tempi morti, le densità dei silenzi come nebbie padane, la comparsa dei punti di luce, gli andirivieni delle incertezze, di ca-valcare «il peregrino dubbio», di indossare le rabbie della solitudine, il timore del bello. La relazione educativa è fatta da tutti que-sti traghettamenti reali e interiori, tra esi-tazione e trepidazione, tra struggimento e felicità.Orientarci a questo livello di riflessione aiuta a trasformare i luoghi comuni in

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luoghi di senso per ridefinire la tappa di percorso evolutivo del bambino e specifi-care il progetto educativo, discutendolo e confrontandolo, passo dopo passo, con gli operatori coinvolti. È necessario rispettare l’andatura del bambino per evitare il rischio di uno scollamento fra quello che hanno in mente gli adulti e quello che sta già facendo il bambino. Mi viene alla mente, per esempio, tutto il lavoro che fa il bambino nella fase iniziale di messa alla prova della relazione, quando è impegnato a «studiare» l’adulto, la sua affidabilità e capacità di tenuta: il bambino a volte esce ripetutamente dalla stanza, ab-bandonando l’adulto per andare a rifornirsi affettivamente della presenza del genitore o accompagnatore; spesso chiede di por-tare a casa un oggetto per sé, chiede che il suo gioco rimanga intatto e custodito per la volta seguente. All’insegna di queste comunicazioni del bambino, l’educatore ha una funzione precisa da svolgere: creare una base sicura all’interno di un sentimento di continuità relazionale. Un lavoro educativo che legga costantemente i bisogni emotivi del bam-bino e che attraversi, simbolicamente, le prove della storia del «lupo e i tre porcel-lini», per sentire se la relazione tiene. E la relazione tiene solo dopo che si sono create queste condizioni di base: di stabilità e di sicurezza e un ambiente di fiducia di cui il bambino fa esperienza e in cui si speri-menta.

Nuovi significati verso nuove rappresentazioniCi sono delle tappe da percorrere prima di arrivare all’autonomia e perché questa au-tonomia sia un pensiero su di sé che parta realmente dal bambino: sono le tappe costi-tutive del processo di crescita del bambino.

La funzione educativa nella relazione con il bambino si sostanzia, inoltre, nel prendere in considerazione il gesto stereotipato del bambino per muoverlo alla rappresenta-zione. Come guardare con uno sguardo nuovo la rappresentazione del bambino? Per fare l’esperienza di questo sguardo «in movimento» è necessario ascoltare, con un orecchio interiore, il riverbero emotivo che il bambino ci com-muove. Questo riverbero diventa spazio di immagini, di significati che inaspettatamente emergono e si affac-ciano nella relazione. E la nutrono e la fanno vivere, la fanno esistere. Questo spazio di significati è il punto vitale della relazione educativa: il nodo d’innesto. Possiamo pensare, per esempio, al momen-to in cui spontaneamente un oggetto di un gioco ricorrente, un segno grafico reiterato, una parola ripetuta, una mimica ostinata, muove una suscitazione o un’associazione inaspettata e insospettata, nuova. Come se quel «solito», quello «stesso» oggetto o segno o parola o silenzio o mimica si sgan-ciano, si liberano dalla capsula, dal giogo di un significato, e ricevono la luce di uno sguardo nuovo che fa gemmare un’intui-zione e risplendere un altro significato di senso: un senso trovato. Di frequente, se si pensa all’esperienza educativa, si presentano momenti o incon-tri che paiono infiniti, dentro a un noto e conosciuto, come imprigionati in un fermo immagine, come se «nel gesto in cui cia-scuna fu sorpresa, in quello restò fissata», come disse il poeta Ovidio.Momenti che sembrano risentire di un significato-incantesimo, dove il tempo, il bambino e l’adulto paiono cristallizzati. A questo punto, dobbiamo essere pruden-ti perché a volte i nostri stereotipi, i nostri sguardi spenti o stanchi, le nostre paure, le nostre difese ottuse, le nostre emozioni

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congelate, ci impediscono di cogliere i movi-menti insiti nella relazione o, semplicemen-te, di leggere il fermo immagine. Può esserci d’aiuto Eugenio Montale quando scrive:

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

È proprio a questo punto che, per tacita-re questi turbamenti, a volte spuntano le parole-targhette come palette di un vigile ammonitore: aggressivo, reattivo, iperci-netico, non collaborante e via di questo passo. Oppure è a questo punto che entria-mo in contatto con questo spazio congelato in attesa che si sgeli. Come suggeriscono alcuni autori:

Questo spazio impone capacità di manuten-zione e di salvaguardia e in cambio ci dà infor-mazioni e testimonianze che nessuno strumen-tario scolastico di osservazione sistematica e di valutazione oggettiva potrà fornire. Gli ele-menti che permetterà di incontrare non potran-no essere esportati se non dopo essere stati interrogati, compresi. (Cerioli, Antonietti, 1995, p. 96)

È accompagnando questo tempo di «sge-lamento» che potremo rinvenire il bambi-no: la funzione dell’intervento educativo a volte è nel riconoscere semplicemente che «per il momento è così», lasciando aperta però la possibilità di un cambiamento.Per accompagnare i passaggi di crescita del bambino è necessario anche all’educatore osservarsi nei suoi cambiamenti, sviluppar-si, crescere perché in una relazione educati-va avviene una trasformazione per entrambi: il bambino e l’adulto. Questo paziente lavo-ro mentale di «ri-costruzione» va nel senso di far uscire una forma di rappresentazione condivisa e utile, affinché il bambino possa sapere dove mettersi e si possa «ritrovare». Tenere presenti e insieme questi piani dif-

ferenti ci aiuta a vedere la complessità e la ricchezza di cui «è fatto» un bambino im-pegnato nell’impresa di crescere.

Un gruppo per pensare la progettualitàÈ necessario pensare al contesto in cui è inserito l’intervento educativo. Se l’istitu-zione sanitaria ha previsto l’inserimento dell’educatore nell’organico, ci sta in fondo dicendo che la strada della tutela della sa-lute mentale deve integrare la via medico-clinica e la via educativa per andare verso la storia del bambino e comprenderla, per un progetto di cura pensato in funzione del suo processo di crescita. La responsabilità dell’azione educativa non si esaurisce nel rapporto con il bambino, ma riguarda anche i «momenti di scalo» tra gli operatori coinvolti, per tenere a mente una rotta di navigazione che non perda di vista il bambino intero. Interagendo e con-frontando in una dimensione dialettica e di reciprocità le differenze operative, si colti-va, all’interno dell’istituzione sanitaria, una cultura reale della diversità come risorsa, della differenza come occasione di arric-chimento, come espressione della unicità e della molteplicità. È auspicabile un gruppo di lavoro che si assuma la funzione di pensare ed elaborare. Quando il gruppo di lavoro, come quello a cui qui si fa riferimento, è composto da ruoli eterogenei, ha da tenere insieme più linguaggi: quello medico-clinico, quello educativo, quello tecnico-riabilitativo. Il lavoro di pensare, nella pratica operativa, si trasforma in un lavoro di «tenere nella mente» e di apprendere la differenza che fa la ricchezza e la ricchezza che fa la dif-ferenza. Sarà una responsabilità democra-tica, individuale e collegiale, nei confronti del gruppo operativo, fondata sul dialogo,

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sull’ascolto e sulla pazienza per «fare una mente» intorno al progetto di cura. Una responsabilità non fondata sulle contrap-posizioni, rigidità e atteggiamenti di potere e di disparità, ma che si mette in gioco in una relazione dinamica flessibile e trasfor-mativa, che può crescere.

I bambini ci raccontanostorie di vitaUno strumento basilare nel lavoro educa-tivo è il lavoro di scrittura: una trascrizio-ne come atto di ripensamento, di rimessa a fuoco e di progettualità. Dov’è finito il taccuino delle annotazioni, fedele compa-gno di viaggio degli artisti di un tempo, di scrittori o poeti dell’anima? Chi parlerà più della biografia dei processi educativi? Il lavoro educativo è, abbiamo visto, qual-cosa che si costruisce nel tempo. Non avva-lendoci di protocolli scientifici che ricavano un dato numerico tecnico espresso in per-centuale, a servizio del processo personale svolto e compiuto dal bambino, sembra una fatica di Ercole individuare uno strumento riconosciuto a misurare quantificamente, quindi visibilmente, l’intervento educativo in ambito sanitario. Scrivere ci consente di convertire l’espe-rienza vissuta in una forma di rappresenta-zione perché ci permette di de-scrivere le sequenze del processo di costruzione del bambino. Attraverso questo delicato lavoro di montaggio dei movimenti, delle scoperte, delle soste, degli andirivieni, degli sposta-menti, dei paesaggi mentali del bambino, documentiamo la sua evoluzione e gli resti-tuiamo la sua storia. In quest’ottica, il ruolo educativo circostanzia, attraverso il mezzo della scrittura, la sua funzione di costruire e restituire senso. Quindi una narrazione che utilizza un linguaggio che non assolutizzi il bambino, ma accompagni le sue immagini,

le sue parole-frasi, i disordini, la confusione e la chiarezza, le difficoltà e le conquiste, che avvalori l’impresa del bambino che smon-ta e rimonta, disfa e costruisce. L’utilizzo della metafora, che fa lavorare insieme due mondi vicini e accosta campi di conoscenze, può essere nel nostro lavoro una risorsa per far nascere qualcosa che possiamo vedere figurativamente e per aiutarci a comunicare e condividere il processo del bambino. Una narrazione, possiamo dire, che sosten-ga lo sforzo conoscitivo del bambino e ri-spetti il suo personale e autentico processo di crescita. In questa nostra riflessione la metafora del navigare è stata d’aiuto per cercare di individuare e non perdere «an-coraggi» possibili. Il nostro viaggio ha esplorato la mappa della relazione che «si fa» ambiente educativo accompagnando le possibilità evolutive del bambino che «gioca» con i suoi pensieri, che si trasformano in punti di vista, idee, concetti e valori per crescere e comunicare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

• Bateson G., Mente e natura, Adelphi, Milano 1984. • Bick E., L’esperienza della pelle nelle relazioni oggettuali precoci, in Bonaminio V., Iaccarino B. (a cura di), L’osservazione diretta del bambino, Borin-ghieri, Torino 1964.• Carotenuto A., Le rose nella mangiatoia, Raffaello Cortina, Milano 1990.• Cerioli L., Antonietti A. (a cura di), Analogica-Mente: pensare pensarsi apprendere, Irrsae Lombar-dia, Milano 1995.• de Saint-Exupéry A., Il piccolo Principe, Bompia-ni, Milano 1987.• Fabbri D., La memoria della regina, Guerini, Milano 1990.

Gilda Vischia, educatrice professionale, la-vora nell’Unità operativa di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza di Varese: [email protected]

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Non ho mai capito la differenza tra un quadro astratto e uno figurativo. Per me la pittura è sempre la stessa e quando guardo un quadro di un artista o dipingo una tela quello che conta sono la composizione delle immagini, i rapporti dei colori fra di loro, l’idea pittorica nel suo insieme e guardare il quadro da molto vicino per godermi l’andamento delle pennellate. E se qualcuno mi domandasse perché io non faccia allora della pittura astratta, gli risponderei che forse non ne sarei capace, che sento la necessità di usare delle figurazioni, che, in fin dei conti, mi piace raccontare delle cose ed usare delle immagini tratte non dalla realtà ma da antiche memorie sovrapposte e che arrivano non so come nella mia testa.

punto

bazar | punto Casorat i | d iscussione | d iar i | l ibr i | segnalaz ioni | locande

Illustrazione e testo di Francesco CasoratiCollina imbrigliata, 1996, matita e penna.

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Negli ultimi anni a Torino sono stati aperti spazi co-

muni, laboratori sociali e cultu-rali in cui s’incrociano attività e persone, luoghi nei quali si esprimono pensieri e vissuti collettivi, che avviano esperien-ze di partecipazione, coinvolgi-mento e auto-organizzazione, spazi che oggi hanno un nome: Case del quartiere. Luoghi che si abitano, si vivono e si usano, che nascono da una storia di una città attiva e crea-tiva, che ha visto già nei decenni precedenti sperimentazioni di luoghi capaci di innescare pen-sieri e progetti e di coinvolgere parte della cittadinanza. Alla fine degli anni Novanta, dalle proposte di politiche urbane innovative e dagli stimoli delle istituzioni europee che spinge-vano ad adottare approcci nuo-vi, nascono spazi di uso pub-blico che superano le politiche settoriali e lavorano insieme ai cittadini per mettere in comuni-cazione centri e periferie. La Città di Torino raccoglie questi stimoli e nel 2007 nasce, in una zona periferica della cit-tà, la prima Casa del quartiere: Cascina Roccafranca. Negli

anni seguenti si sviluppano nuove esperienze in altri quar-tieri della città, attraverso storie e percorsi diversi ma con una base comune: spazi a uso pub-blico riqualificati, grazie alla collaborazione tra istituzioni pubbliche, fondazioni banca-rie, imprese sociali, associazio-ni e cittadini, luoghi che diven-tano spazi per la cittadinanza. Da maggio 2012 la Città ha invitato i soggetti gestori del-le Case a riunirsi intorno a un tavolo con il proposito di co-ordinare le attività attraverso il consolidamento di una rete per mettere in comune saperi, esperienze e progetti.

Presente e futuroin un documento-manifestoUn primo risultato del percorso di costruzione della rete è la ste-sura del «Manifesto delle Case del quartiere». Un documento che raccoglie gli elementi che caratterizzano questi nuovi spazi nella città, riaffermando l’importanza di pratiche sociali e culturali consolidate, ma so-prattutto evidenziando quegli aspetti d’innovazione che le rendono caratteristiche e uni-

che nel ricco panorama delle offerte culturali che la città of-fre. Un manifesto che racconta il presente e nello stesso tempo le prospettive per il futuro, un utile strumento di lavoro, che consente alle Case di confron-tarsi tra loro con quel che hanno realizzato fino a oggi e di trac-ciare un percorso per crescere e svilupparsi in futuro. L’idea delle Case nasce da una convinzione: le persone sono portatrici di bisogni, ma anche di competenze e disponibilità che possono essere messe a di-sposizione della comunità per soddisfare esigenze collettive. Sono esigenze che nascono dal-le difficoltà di vivere in modo dignitoso, da bisogni primari insoddisfatti come il lavoro e la salute, dall’essere soli nell’af-frontare le difficoltà della vita quotidiana, dalla mancanza di relazioni significative, dalla necessità di dare senso e signi-ficato alla propria vita; ma an-che dal desiderio di continuare a sentirsi attivi, di partecipare alla socialità del quartiere, di essere protagonisti della pro-pria vita, di poter contare nelle decisioni che riguardano la

«Case» della coesione sociale nei territori/1

Il manifesto delle Case del quartiereCoordinamento delle Case del quartiere di Torino

La coesione sociale è una costruzione collettiva nei territori, nella quale convergono l’investimento pubblico, la competenza degli operatori professionali, la disponibilità delle reti sociali che innervano i territori, l’allestimento di luoghi fisici che i cittadini vedono come simboli della vivibilità dei territori. Il «manifesto delle Case del quartiere» di Torino ci permette di aprire un confronto, al di là delle etichette, tra le molteplici sperimentazioni in Italia.

SOSTE DI DISCUSSIONE

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Le Case possono

contribuire a creare

una coscienza collettiva che stimoli

gli abitanti a essere

cittadini attivi, solidali e responsabili.

Comunità, di vivere uno spazio politico dove costruire soluzio-ni possibili e condivise. Le Case possono contribuire a creare una coscienza collettiva che renda consapevoli le per-sone della propria situazione, e possa stimolarle a essere cit-tadini attivi, autonomi, solidali e responsabili.Essere cittadini oggi è, infatti, uno dei modi in cui si partecipa alla cosa pubblica, una modalità nuova che si realizza non nella sfera della rappresentanza isti-tuzionale, bensì nel fare cose concrete, nella partecipazione alla soluzione dei problemi che interrogano il singolo e la collet-tività, nel cercare di dare risposte non solo alle proprie necessità, ma partendo da queste per com-prenderle in quelle di altri.Questo nuovo modo di conce-pire il rapporto fra città e citta-dini, non più fondato sul rap-porto dare/avere, operatore/utente, ideatore/utilizzatore, ma sullo scambio di competen-ze ed esperienze, trova espres-sione nelle Case in cui attività e iniziative non sono solo «per» i cittadini, ma anche «con» i cittadini, che si prendono cura dei propri bisogni, integrando le risorse pubbliche con quelle di tempo, di capacità, di rela-zioni, di vissuti e di idee di cui sono portatori. Veniamo dunque ai dieci punti del Manifesto così come sono emersi da molteplici momenti di confronto fra gli operatori.

1 | Luoghi aperti a tutti i cittadiniLe Case sono organizzate per accogliere, attraverso attività interculturali, tutti i cittadini dai più piccoli agli anziani, sen-

za discriminazione di genere, nazionalità, estrazione sociale e appartenenza religiosa. Si im-pegnano a soddisfare esigenze differenti, con un’attenzione specifica ai diversi livelli sociali e culturali delle persone. Esse promuovono iniziative popo-lari, curando la qualità delle proposte e coniugando cultura con socialità. Non si rifanno a un’ideologia con riferimenti a simboli, bandiere e movimenti, ma rispettano i differenti orien-tamenti culturali. Si riconosco-no, invece, in valori universali come la libertà di espressione, il diritto di partecipare alla vita sociale e politica, l’uguaglianza tra le persone, la giustizia socia-le, lo spirito di solidarietà e il rispetto dei diritti umani.

2 | Spazi di partecipazione attiva Le Case promuovono la parte-cipazione alla vita sociale e cul-turale dei quartieri attraverso differenti forme di cittadinanza attiva e di volontariato. Sono luoghi in cui si ricercano e si spe-rimentano nuovi modi di fare welfare, sviluppando le reti di prossimità, attraverso la ricerca pratica di soluzioni collettive a bisogni e attese comuni. Sono spazi capaci di accogliere e sostenere: la singola persona, valorizzandone le competenze e sostenendone il mettersi in gioco; i gruppi informali che sviluppano interessi comuni, fa-vorendone la nascita, la crescita e l’autonomia; le associazioni, i gruppi di associazioni, gli enti e le istituzioni, rafforzandone l’identità e la missione.

3 | Luoghi accessibilie generativi di incontri

Accoglienti, curate e attrattive, le Case del quartiere sono in-nanzitutto costruite attorno a criteri di accessibilità. • Economica, anzitutto. Offro-no attività gratuite e praticano prezzi popolari e contenuti.• Organizzativa, poi. Sono or-ganizzate in modo «leggero», permettono cioè un accesso libero alle strutture, un con-tatto diretto con gli operatori e la possibilità di ottenere in-formazioni in modo semplice e non burocratico.• Culturale, infine. Hanno una visione aperta, non ideologica-mente schierata, rispettosa dei diversi orientamenti politici democratici, delle diversità culturali e di genere.Trattasi dunque di luoghi della quotidianità, che permettono di sentirsi a casa, in una di-mensione sociale aperta, dove è possibile «stare» socializzan-do e dove si può «fare» par-tecipando alle attività o diven-tando i promotori di progetti e iniziative. Nell’insieme favoriscono in modo intenzionale le relazioni fra le persone, la conoscenza, l’incontro e il confronto fra le realtà che vi operano, fra i pro-getti che si realizzano, e creano le condizioni per far nascere sinergie e collaborazioni.

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4 | Spazi di tutti ma sede esclusiva di nessunoCome una piazza, aperta e ospitale, ogni centro accoglie numerose organizzazioni dan-do loro uno spazio per attività e incontri, con l’attenzione che non prevalga un uso esclusivo. I locali e gli spazi sono organiz-zati e strutturati per rispondere alle differenti necessità degli utilizzatori, mentre le attività dei gruppi si svolgono in libertà e autonomia, contribuendo nel loro insieme alla progettualità complessiva e alla costruzione di un’identità comunitaria.

5 | Contenitori di progettualità moltepliciCome vivi contenitori, pensati e organizzati, le Case sono in grado di raccogliere e valorizza-re un mix di attività e iniziative culturali, artistiche, sociali e ricreative, sportelli d’infor-mazione e consulenza, corsi a pagamento, laboratori gratuiti, servizi per famiglie, spettacoli, conferenze, mostre.Le strutture accompagnano e supportano i soggetti che inten-dono promuovere al loro inter-no progetti ed eventi, metten-do a disposizione competenze, spazi, idee e risorse perché que-sti possano realizzarsi in modo adeguato e soddisfacente, con un sempre maggiore livello di autonomia e auto organizzazio-ne. Più da vicino, sono un pun-to di formazione e promozio-ne artistica e culturale, poiché riconoscono nella creatività e nell’espressione artigianale uno strumento potente per genera-re comunità e futuro.Le diverse realtà della rete trovano la loro forza negli ele-menti che le uniscono e che le

diversificano come la specificità che nasce dalle singole storie, territori e persone.

6 | Gli operatoricompetenti artigiani socialiOgni Casa è gestita da gruppi di lavoro in grado di svolgere fun-zioni progettuali e organizzati-ve, coordinati da figure di re-sponsabilità in grado di curare la regia complessiva attivando modelli gestionali partecipati. Gli operatori sono artigiani so-ciali, che agiscono e sviluppano la propria professionalità attra-verso l’apprendimento che na-sce dall’esperienza e dalla sua analisi, da percorsi formativi, dall’attivazione di scambi e spe-rimentazioni. Essi sono stimo-lati a sviluppare competenze in diversi ambiti: sociale, relazio-nale, culturale, organizzativo e amministrativo, sviluppando le capacità di accogliere, ascolta-re, accompagnare e motivare i cittadini a essere protagonisti della vita socio-culturale della comunità.

7 | Luoghi intermedi fra il pubblico e il privato Le Case sono il risultato di azioni di «amministrazione condivisa» per la rigenera-zione di beni comuni urbani, frutto della collaborazione tra Amministrazione comunale e cittadini attivi. In tal modo svolgono un’im-portante funzione pubblica, essendo luoghi privilegiati di sviluppo di cittadinanza e di costruzione di reti sociali, di cui le Amministrazioni pubbliche condividono le azioni, le linee guida e le modalità di lavoro. Luoghi di aggregazione ma anche strumento per costruire

nuovo «welfare urbano», le Case del quartiere sono spazi condivisi in cui i bisogni perso-nali possono essere soddisfatti in modo collettivo, in cui viene dunque sollecitata la partecipa-zione e la relazione, dove è più che mai evidente la produttività del fare insieme.

8 | La sostenibilità economica fa leva sull’intraprendenzaLe Case sono progettate per tendere alla sostenibilità econo-mica. In tale logica sviluppano competenze imprenditoriali nella gestione delle risorse, nella lotta agli sprechi, nello sviluppo di attività commer-ciali accessorie e funzionali al progetto, nel coinvolgimento diretto dei cittadini, promuo-vendo iniziative di fundraising e di contribuzione collettiva. Non sono, però, interessate a raggiungere la completa auto-sostenibilità economica, che comporterebbe il rischio di cadere in logiche economiche di mercato e di snaturare la vo-cazione popolare e sociale del progetto. Per queste ragioni e per la funzione pubblica che esse svolgono, è indispensabi-le un sostegno da parte di enti pubblici e privati nel finanziare parte dei servizi che rispondo-no ai diritti di uguaglianza e pari opportunità.

9 | Il radicamento e le collaborazioni territorialiLe Case fanno parte del terri-torio in cui nascono e si deter-minano. Sviluppano – al loro interno e con le realtà con cui s’incontrano, siano esse profit o no profit – la capacità di ge-nerare ponti, confrontare pen-sieri e metodi, attivare sinergie

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nuove. Esse creano l’ambiente adeguato per costruire relazio-ni e legami sociali: privilegiano l’attivazione delle reti attraver-so il fare insieme, lo sviluppo di progettualità comuni, la re-lazione tra le persone, i gruppi e i progetti. Nell’ottica di allargare la pro-pria azione a tutto il territorio, esse cercano la collaborazione con le realtà e le strutture pre-senti nel quartiere in una pro-spettiva progettuale di «casa diffusa», capace di esprimersi al di là dei propri spazi.

10 | Governance condivisacon gli attori locali Le Case sono gestite da diversi soggetti radicati nel territorio: associazioni di primo e di se-condo livello, fondazioni o co-operative, in alcuni casi frutto

di un vero e proprio percorso partecipativo che ha coinvolto nella fase istitutiva numerosi attori locali. Sono strutture organizzative in grado di contribuire alla riqualificazione del quartiere coinvolgendo le diverse realtà locali, valorizzandone il lavo-ro, le iniziative, la capacità di rapportarsi con i cittadini, ri-conoscendo tutto questo come un effettivo patrimonio spen-dibile per costruire in modo corresponsabile una risposta locale orientata a migliorare e sviluppare il territorio.In definitiva, una Casa è un modello gestionale capace di apprendere dall’esperienza, di verificare costantemente la ri-spondenza delle varie iniziative attivate, di cogliere e analizzare bisogni e aspettative, di aggior-

nare continuamente il proprio progetto adattandolo alle nuo-ve esigenze.

Le Case del quartiere, attual-mente nove, coprono quasi com-pletamente il territorio della città di Torino: Cascina Roccafranca a Mirafiori Nord (www.cascinaroc-cafranca.it), Casa del quartiere di San Salvario (www.casadelquar-tiere.it), Bagni pubblici di via Agliè in Barriera di Milano (https://bagnipubblici.wordpress.com), Hub Cecchi Point nel quartiere Aurora (www.cecchipoint.it), Casa nel Parco a Mirafiori Sud (www.casanelparco.it), SpazioQuattro a San Donato (www.piuspazio-quattro.it), Barrito in zona Nizza Millefonti (www.barrito.to.it), Bos-soli83 nella zona Lingotto (www.bossoli83.it) e Casa di quartiere Vallette (http://i74010.wix.com/casadiquartiere).

Le persone che hanno vissuto su di sé l’esperienza del disagio mentale hanno cose importanti da dire: sui propri percorsi indivi-duali, sui momenti frammentati di malessere e di benessere, sull’esperienza acquisita attra-verso la propria sofferenza. Da qui l’importanza di ascoltare le loro storie. Ne proponiamo due – quella di Silva e quella di Pie-tro – raccolte dopo e durante le loro esperienze di cura nei Centri di salute mentale di Trieste. Per quanto diverse, raccontano la possibilità di riconquistare la pro-

pria «salute mentale». Per un’am-pia raccolta di storie si rimanda al volume Guarire si può (a cura di Izabel Marin e Silva Bon), nel-la collana «180. Archivio critico della salute mentale» dell’editore alpha beta Verlag di Merano (Bz).

Silva e l’importanza dell’agenda

Il trauma della mia vita è stata la separazione. Ho sempre

dato molta importanza alla fa-

miglia, e quindi, se fosse dipeso da me, non avrei mai rotto il matrimonio. In coincidenza con la separazione c’è stato il primo episodio di ricovero in ospedale. Avevo incominciato ad ave-re un senso di insicurezza, a sentire voci, come se gli altri mi parlassero, mi guidassero. Tutto ciò è degenerato alla fine di un anno scolastico, l’anno in cui poi mi sono separata, a

Storie di recovery

Il lungo viaggio verso la ripresa di séA cura di Izabel Marin

I DIARI DELL’OPERATORE

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settembre. Ero molto stanca per la fine del lavoro a scuola, ma soprattutto per un anno di tensione in famiglia.

Per motivi compositi e com-plessi in quel momento rap-presentavo l’anello debole di una catena: i miei figli (uno di 14 anni, l’altro di 16) non hanno potuto scegliere di stare con me, in qualche modo sono stati ricattati e sono rimasti col padre. Ho subìto il dramma dell’abbandono della famiglia, dei figli, della casa. Ancora adesso non riesco a liberarmi da quel ricordo.Tutta la solitudine nella quale ero piombata, pur vivendo in famiglia, ho cominciato a vin-cerla proprio nel momento del primo ricovero. Ho iniziato a riflettere e a parlare dei miei problemi. A ripensare al pas-sato e a segnare mentalmente tutte le cose che avrei voluto fare in futuro per me, invece di vivere solo per gli altri.Il periodo in cui ho comincia-to a essere curata al Centro di salute mentale di Barcola (Ts) ha rappresentato un momento di ripresa. È stato un periodo molto faticoso, con un’andatu-ra da gambero, un po’ avanti e un po’ indietro. Adesso ho l’im-

pressione che anche questi mo-menti di crisi siano dei passaggi positivi, prima vissuti come una regressione, una sconfitta, ma dopo il recupero, alcuni giorni dopo, mi sembra che tutto sia comunque un andare avanti nel percorso di guarigione.

Mi è stato d’aiuto soprattutto il modo di parlare dei medici e degli operatori, per cui sono riuscita a capire il percorso del-la malattia, il senso dello stare bene e dello stare male, dell’an-dare a fondo. Sono stata aiutata prima di tutto a ricostruire un progetto per la mia vita. Ho ri-trovato interessi intorno a cose già concretamente avviate e che durante gli ultimi anni del ma-trimonio avevo abbandonato. Al Csm, oltre a una certa scan-sione temporale dei colloqui, più frequente rispetto a quelli che possono essere sostenuti con il medico privato, ho tro-vato tutto un insieme di aggan-ci, di progetti, per esempio il «gruppo donne di Barcola», che portiamo avanti da tre anni. Il gruppo si è organizza-to intorno a letture di testi che proponevamo io e un’amica, insegnante pure lei. Andavo là dopo una giornata faticosa di lavoro e mi chiedevo «ce la faccio ad andare a Barcola con l’autobus oggi pomeriggio?». Ma ogni volta ritornavo a casa molto più rilassata. Con alcune persone di questo gruppo ho costruito rapporti veri di ami-cizia, riuscendo a scoprire da un lato problemi simili ai miei, dall’altro possibilità diverse e nuove di farvi fronte.

Una cosa che mi aiuta a difendermi nei momenti di

«vuoto» è l’importanza dell’a-genda. Programmo la mia vita. Poi sono disposta anche a cam-biare tutto: se c’è l’imprevisto magari tutto quello che ho pro-grammato va a monte, però, da quando sono sola, ho raccolto tutta la mia vita nelle agende. Anno per anno sono sempre più fitte di appuntamenti e di cose da fare e che mi interessa fare. Questo mi aiuta a coprire certe assenze. Cerco di fare del-le cose che mi piacciono, che mi fanno sentire sicura.Ultimamente ho vissuto un piccolo episodio di sofferenza psichica in coincidenza con il capodanno. In questi casi, prima di stare male veramente cerco di rivolgermi a un me-dico, prendo delle medicine che ho a casa. Ho imparato. Quest’anno sono andata con il taxi, di mia scelta, al Servizio di diagnosi e cura, pensando molto consapevolmente che mi avrebbe aiutato. La mattina dopo sono tornata a casa e ho ripreso la vita normale. L’im-portante è riuscire a capire in anticipo che si ha bisogno di aiuto.

La timidezza mi condiziona moltissimo quando sto male. Fa parte di questo processo di ricostruzione impegnarsi per vincerla. Per esempio, ar-rossisco come una bambina e nei rapporti sociali questo inibisce anche l’interlocutore, quindi dopo mi colpevolizzo e dico: gli altri stanno male in mia compagnia. Adesso mi ascolto, mi analizzo, sono consapevole che i momenti di tensione, di imbarazzo accadono più fre-quentemente in concomitanza con le crisi.

Una cosa che mi aiuta a difendermi nei momenti di «vuoto»

è l’agenda. Cerco di mettermi

cose che mi fanno

sentire sicura.

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Nei momenti in cui sono socialmente più debole, ho questo rossore, questo im-barazzo, magari mi viene la paura di uscire di casa. Ma se non esco il problema diventa più assillante, lo collego con la crisi e cerco di tenerlo sotto controllo. Il rossore è come un handicap, è come essere balbuziente. Quando si sca-tena, è più forte di me e mi fa sentire sconfitta. La mia auto-stima cade verticalmente. È un circolo vizioso: io mi disistimo e la paura del rossore diventa più assillante. Ora mi sembra un poco alla volta di saper controllarmi di più. Guarire per me è riuscire a vincere questa timidezza.

Leggo questo mio percorso come un cammino. Non ho raggiunto nessun traguardo, ma mi propongo, come un imperativo, la volontà di con-tinuare a lavorare su me stessa, di migliorare. Mi piacerebbe moltissimo costruire un rap-porto migliore con i miei figli, nel senso di far loro capire quel poco che io ho capito troppo tardi.

§§§

Pietro e l’addomesticamento della «cosa»

Per me è stato come com-battere con una cosa

che non si conosce. Non ti fa mangiare, non ti fa dormire. Stavo malissimo, non riuscivo nemmeno più a uscire di casa. Da oltre due anni avevo inter-rotto il lavoro, e nello stato mentale in cui mi trovavo non

sentivo neppure il desiderio di tornare a lavorare. Solo l’idea di alzarmi, fare anche le più piccole cose, era diventato un ostacolo insormontabile. Per me la vita «normale» era finita.Il momento di rottura è stata la malattia di mio padre, ma forse anche prima c’era qual-cosa che covava, un rapporto conflittuale con i genitori, un percorso non proprio impo-sto, ma mediato dalla loro vo-lontà, per cui i figli vengono «costruiti», sono sempre un po’ manipolati, e così è diffi-cile che poi prendano la loro strada.

Il mio malessere, la mia de-pressione, e la malattia di mio padre erano strettamente le-gate, come in un circolo vizio-so, perché dovevo accudirlo nelle sue esigenze primarie, in quanto invalido totale, e cercare di andare avanti con l’aiuto di mia madre. A un cer-to punto ho dovuto distaccar-mi un po’. Distacco non vuol dire abbandono, è anche un processo interno. Sentivo che dovevo allontanarmi da mio padre, dalla pesante situa-zione che si presentava venti-quattr’ore al giorno. Credo sia stato questo il cambiamento più importante che ho fatto, la scelta che si è rivelata decisiva.Ho dovuto trovare un equili-brio tra la mia salute e quella di mio padre, in modo da non ricadere nel malessere. Qual-che volta bisogna imparare a dire no, a guardarsi dentro. Se ritengo che qualcosa non vada bene per me, devo riuscire a dire di no, a costo di litigare. Darmi totalmente porterebbe a una ricaduta: posso dare fino

a quando me la sento, poi devo pensare anche a me stesso. Ciò non significa non avere amore per i propri genitori, ma impa-rare a patteggiare.Ho affittato una casa – e anche questo è stato uno sprone, un impegno da prendere con me stesso. Metterla a posto, farci dei lavori ha costituito infatti una responsabilità, un modo per non rimanere sempre bloccato con la testa al pen-siero della malattia. Era uno spostamento d’attenzione, che mi ha fatto prendere un’altra strada. Ma fondamentale è sta-to l’aver trovato una soluzione sul lavoro.

In questo percorso il suppor-to del Centro di salute menta-le si è rivelato determinante. Parlando col medico, infatti, abbiamo maturato insieme l’ipotesi di adottare un orario part-time, che mi avrebbe evi-tato una stanchezza eccessiva, cambiando al contempo sede di lavoro. Inizialmente c’era un po’ di smarrimento da par-te mia, ne parlavamo ma non ci potevo ancora credere. Poi, pian piano, sono cominciate ad arrivare le conferme che tutto il progetto era realizzabile.Ho dovuto scontrarmi, però, con le opinioni degli altri. Ri-durre l’orario lavorativo viene considerato un cedimento, una perdita, non solo di una parte dello stipendio. Tuttavia è un lavoro che devi fare con te stes-so: devi vedere che cosa è me-glio per te, perché non sempre ciò che va bene agli altri va bene anche a te.In questo processo è stato di grande aiuto per me il so-stegno del Centro di salute

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Definirmi guarito no,

credo sia sbagliato.

Diciamo che ho imparato

ad addomesticare

«la cosa». Non la scaccio, ma l’accetto.

mentale. Soltanto la figura di un professionista può aiutare. I familiari non sanno cosa sia questa «cosa», non sanno come sostenerti. A volte possono ad-dirittura creare una situazione peggiore, perché spronare può ottenere l’effetto opposto. Aiu-tare cercando di spronare l’al-tro ad andare avanti fa peggio-rare, perché in quel momento ti senti sull’orlo di un burrone e uno che ti sprona è come se ti spingesse giù. E poi ognuno ha un proprio tempo per poter uscire dal malessere, se non completamente, almeno per migliorare. Ognuno a un cer-to punto sente uno scatto, un clic, come un interruttore che si accende. Sentirsi dire: «Dai, su che ce la fai...» non serve a niente.

Prima di rivolgermi ai servizi, per circa un anno sono andato privatamente da un dottore e anche da una psicologa. È stato forse l’anno più brutto, perché ancora non sapevo cosa fare, a chi rivolgermi. Inizialmente pensavo di avere un male fisico, non pensavo alla testa, per cui andavo a fare tutti gli esami a livello organico per vedere se c’era qualcosa che non andava: l’elettroencefalogramma, l’elet-

trocardiogramma, l’analisi del sangue, delle urine, tutti gli esami possibili e immaginabili. Ma risultava tutto regolare. In-fine, dopo circa un anno, sono approdato al Centro di salute mentale, non ricordo bene per quale strada.La prima sensazione non è stata negativa. Chi inizia ad affidarsi al servizio pubblico lo associa subito ai «matti», si pensa al manicomio, perché la malattia psichica è sempre vista con pre-giudizio. Io ci sono andato con l’idea di voler conoscere anche quella dimensione, per vedere che aiuto potevo ricevere. A quel punto ho potuto fare un confronto tra i colloqui con lo psicologo del Centro di salute mentale e quelli in privato. Si parla sempre di quello che è successo, ma nel privato ci sono orari precisi e quando scade il tempo ti devi alzare e andare via, anche se sei sotto pressione o se devi ancora concludere: e questo sicuramente non è una buona cosa. Uscendo ti dici: cosa ho capito oggi? Eppure devi pagare. Finisce l’ora e devi pagare. Sono rimasto stupito invece con lo psicologo del Centro, perché mi dava la sua dispo-nibilità, aveva pazienza, non guardava l’orologio, facevo con lui una chiacchierata, senza premura. Senti il lato umano, la calma e la disponibilità dell’al-tro. Non ho avuto bisogno del servizio per trovare casa, ma è stato di grande aiuto – come dicevo – per il rapporto con il lavoro. Nella mia impossibilità di gestire la situazione, i servizi sono stati un tramite, hanno fatto un po’ le mie veci per po-ter portare avanti determinate

istanze nell’ambito del lavoro: contatti, certificati medici sul mio stato di salute e poi l’avvio della procedura di domanda di part-time indicando un possi-bile lavoro alternativo.

Definirmi guarito no, credo sia sbagliato. Non direi mai una parola definitiva, è una cosa un po’ così, di volta in volta, non si può dare una definizione esatta. Diciamo che va meglio di prima. Inizi a conoscere un po’ la «cosa», a lavorare sul sintomo, sulle cose che prima ti colpivano, ti aggredivano e da cui non sapevi come difenderti. Si ripresentano situazioni che hai già conosciuto, però ora sai addomesticarle. I sintomi si presentano comun-que, non riesci a cacciarli via del tutto: l’ansia, come fattore psi-cosomatico, la paralisi, la per-dita del tatto. I sintomi possono venire ancora a farti visita, ma li accogli, non li scacci; perché se li scacci via possono tornare con più forza, se invece li accet-ti dici: «Sei venuto a trovarmi? Va bene, accomodati». È una forma di maggiore controllo, cerchi di capire un po’ meglio come intervenire. È terribile quando non conosci la «cosa». Però se è «addomesticata» fa male in maniera diversa, in un altro modo, è un altro tipo di sofferenza. La «cosa» ti ab-batte, ti butta giù, ma impari a dire: «No, sono più forte di te, anche se ci sei io comunque vado avanti».

Izabel Marin assistente sociale, lavora nel servizio abilitazione e residenze del Dipartimento di salute mentale di Trieste: [email protected]

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Il circolo No.à. nella Torino nascosta ai pellegrini

La piola social dove il pasto è a 1 euro Roberto Camarlinghi

Q uando in bici cerco il 154 di corso Regina Margherita,

percorro la via che i pellegrini della Sindone non vedranno mai. Perché questo tratto di città, sulle mappe date ai turi-sti nei giorni di Ostensione (19 aprile-24 giugno), è segnato con una riga rossa. Come dire: «Di qui non passate».

A Porta Palazzo, nel grande ventreSiamo a Porta Palazzo, cuo-re multietnico della città, da sempre il «grande ventre» che a Torino accoglie la migrazio-ne. Un tempo dal Sud, oggi dal mondo. Qui hanno messo radici le grandi istituzioni cari-tatevoli della città, perché dove c’è migrazione c’è miseria. Il Cottolengo, l’Opera Giulia di Barolo, il Sermig poco distante. E i grandi santuari di devozio-ne cittadina: Maria Ausiliatrice, dove Don Bosco iniziò le sue attività a favore dei ragazzi, la Consolata. Proprio di fron-te, l’ex ospedale psichiatrico, il «manicomio delle donne» come si diceva fino agli anni ’60. Un quartiere denso insom-ma, di storia e umanità.Anche il Circolo No.à. - Gioia e Rivoluzione a suo modo pro-segue una tradizione – su un versante laico e civile – di at-tenzione agli ultimi della città. Tentando la sfida di far convi-

vere, in questo interno cortile dove sembra di entrare in una cartolina anni ’20, le diverse anime della città. Quella emar-ginata, quella artistica, quella musicale. E quella che va matta per gli spaghetti alici e broccoli o per gli hamburger di fassone piemontese qui proposti a prez-zi imbattibili. La sfida insomma di fare città, perché una città respira se le sue tante anime si parlano. È la prima volta che entro in questo capannone di 300 mq che nei secoli è stato tante cose. A inizio ’900 boita (in piemon-tese bottega artigiana), poi proprietà del Torino Calcio e dopo del Consolato di Birma-nia, quindi officina meccanica, oggi circolo Arci con cucina. Ci vengo perché ne ho sentito parlar bene. Qui si fa buon cibo, buona musica, buon teatro, e si produce socialità diffusa.Su facebook gira un post che indica il No.à. tra le 10 miglio-ri piole della città. Le piole, a Torino, sono le osterie di una volta, posti semplici, frequen-tati da ceti sociali molto diversi, con il pergolato (tòpia) e l’uva americana (uva fròla).

Una locanda che di giorno è mensa popolareProprio nella tòpia del No.à. mi siedo con Andrea Casa e Renato Piccolo, due dei soci fondatori,

in una tiepida serata di primave-ra. E mi faccio raccontare anzi-tutto l’aspetto sociale del locale. Perché qui, ogni giorno, dal 15 dicembre al 30 aprile, si è dato da mangiare a 50 persone inse-rite nel programma Emergenza freddo del Comune di Torino.«Nel progetto ci siamo capitati un po’ per caso. All’ultimo il circolo Arci che doveva occu-parsi dei pasti ha dato forfait. Così siamo subentrati noi. È un progetto impegnativo, ma che davvero ha senso. Del resto la nostra volontà è sempre stata quella di non essere solo circolo culturale e ludico-ricreativo, ma di attivarci nel sociale». Gli orari di accoglienza sono legati agli orari dei dormitori: «Noi diamo merenda e cena. Merenda dalle 15 alle 17, cena dalle 17 alle 19. Perché alle 19 le persone devono già rientrare nei dormitori. Alle 20 apriamo il locale a tutti». Per la verità non tutte sono persone collegate ai dormitori. «Il Comune di Tori-no inizialmente ci ha chiesto di occuparci di 30 senza dimora, poi di aggiungere 10 persone del quartiere in difficoltà. Noi abbiamo accettato e abbiamo deciso di aprire ad altre 10, così siamo arrivati a 50». Ma l’emergenza non finisce certo col freddo, è costante in questa zona. «Questo è un quartiere difficile, complesso.

ANDAR PER LOCANDE

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Per questo terremo aperto an-che nel mese di luglio e agosto, quando alcune mense comunali e private chiudono. L’obiettivo è dare da mangiare a 100 perso-ne al giorno, stiamo attrezzando la cucina». La vera novità, tuttavia, è in vista dopo l’estate. Offrire il pasto a un euro per disoccupati, anziani e persone in difficoltà economi-ca. «È un nostro vecchio sogno. Il modo migliore per sostenere la popolazione qua intorno, che spesso viene a chiederci aiuto. Stiamo provando a realizzarlo grazie al sostegno del Banco alimentare, della Coop e di al-tri supermercati che ci danno i prodotti e con il finanziamento delle Fondazioni e del Comune. Un’ora fa abbiamo saputo che la Chiesa Valdese ha considera-to questo progetto come desti-natario dei fondi dell’8 x 1000».

Dialogo e fermezza con gli spacciatoriSui muri sono scritte le due parole chiave del circolo. Gio-ia e rivoluzione. Chiediamo che senso abbiano oggi. «Noi siamo non violenti nel dna. Ci rifacciamo ai valori del nuovo umanesimo. Gioia è cercare di avere lo spirito positivo nono-stante le difficoltà. Rivoluzione è trasmettere nel quotidiano modelli diversi di comporta-

mento. Quando siamo arrivati qua, avevamo gli spacciatori di fronte. La popolazione ci diceva “siete pazzi, non cam-bierete mai nulla, sono 20 anni che proviamo a mandarli via”. Dopo un anno sono venuti a dirci “vi chiediamo scusa, siete stati bravi”». Cos’è cambiato? «La differen-za l’ha fatta il nostro modo di comunicare. Siamo sempre in-tervenuti cercando il dialogo, pur mantenendo la fermezza nei principi. Poi è chiaro, que-sti sono spacciatori, mettersi in conflitto con noi non fa como-do a loro. Perché noi da subito abbiamo chiamato i carabi-nieri, però non li chiamavamo chiusi nel locale, siamo sempre usciti a dirglielo in faccia: “Ra-gazzi, o la smettete o dobbiamo chiamare le forze dell’ordine’’. Loro a volte facevano gli spa-valdi: “Ma figurati, dai fallo’’. E noi per 2-3 volte l’abbiamo fatto davanti a loro».«Siamo in una zona molto dif-ficile. Molti si lamentano, ma questa è anche una zona piena di odori, di colori, di cultura, è bello star qua. Sei a Porta Palaz-zo, il mercato aperto più grande d’Europa, un’esperienza unica sul piano delle sensazioni e de-gli incontri. Sì ci sono aspetti negativi, ma dove non li trovi? Certo, per il circolo questa cosa non paga, “Io in quella zona non ci vengo perché è pericoloso”, ci dicono alcuni. Hai voglia a dire “Guarda che io sono tre anni che esco alle 3 di notte in bicicletta, a volte con l’incasso addosso, e non mi è mai successo niente”. Mai. Tut-ti i giorni in tre anni. In bici poi, neanche in macchina riparato dall’abitacolo».

Una programmazione aperta all’inattesoAnche il No.à. si propone come spazio di incontri, di mescolan-ze. «Dalle 20 in poi si può venire a mangiare, a bere, ad ascoltare musica. Alle 21.30 di solito ini-zia una serata a tema. Al lunedì e mercoledì c’è la scuola di comi-cità. Facciamo tanti spettacoli di teatro il venerdì e sabato. E poi concerti, laboratori di dan-za, di yoga, di autodifesa. Il martedì si è formato un grup-po di lettura. L’idea però è di non predeterminare troppo gli spazi, altrimenti fai un circolo chiuso. Abbiamo sempre detto “gli spazi teniamoceli un po’ li-beri, così se arriva qualcuno e ci dice di aver bisogno del circolo per due ore per fare le prove, glielo dai e ti conosci”. E dagli incontri nascono le novità. Per esempio adesso stiamo collabo-rando a un progetto di Contact Improvisation, che è la danza spontanea, libera, e nell’arco di 2-3 mesi siamo arrivati a 35-40 persone».Si potrebbe definire il circolo No.à. una sorta di «Casa del quartiere», come a Torino ne sono sorte tante (nove) in que-sti anni. Un presidio di socia-lità e un ventilatore di energie fresche. Esco dal circolo che è sera, mi guardo intorno. E que-sto tratto di via che i pellegrini della Sindone non vedranno mai mi appare un pezzo di To-rino che merita raccontare.

«Offrire il pasto

a un euro a disoccupati, anziani,

persone in difficoltà.

È un nostro vecchio

sogno, una risposta

alla povertà del

quartiere».

Circolo Arci No.à. (nonviolenza attiva) - Gioia e Rivoluzione - cor-so Regina Margherita 154 - Torino - [email protected]

Roberto Camarlinghi è giornali-sta di Animazione Sociale: [email protected]