Mary Mapple e la Spezieria della Morte

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A Schnorr, nella Foresta Nera, le tre socie della bottega "Spezie&Delizie" avevano il sacro terrore di cose misteriose tipo spettri, fate, e fantasmi. Disapprovavano la morte e detestavano i bambini. Non amavano marmocchi ad eccezione della bambina assaggiatrice della televisione del tutto simile a una foca per via di tutte quelle caramelle. Ma alle tre socie non importava, la ritenevano la più bella del mondo, completamente diversa da una sventurata come Mary Mapple, trovata in un cassonetto. Figurarsi!!! Mapple lo sapeva, era strana con tutti quei lividi, le occhiaie, la faccia pallidissima. E il fatto di essere nata il giorno dei morti, poi, era un segno di sventura certa. Ma, come il professor Appleby avrebbe detto: «…Nel cielo, sopra le nuvole. In posti di cui si favoleggiano meraviglie, e stranezze, e dove dar battaglia alla morte, accadono fatti inimmaginabili!» L'immagine di copertina è di Alice Chiavazza

Transcript of Mary Mapple e la Spezieria della Morte

Frontespizio

K.B. Wingard

Mary Mapple ela Spezieria della Morte

2014

Colophon

ISBN 97888909954841° edizione 10 Dicembre 2014

Òphiere

Copyright © 2014 Mamma Editori

Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini – Parma

telefono [email protected]

http://www.ophiere.it/

Immagine di copertina di Caffeina Design

FINITO DI STAMPARENEL MESE DI DICEMBRE 2014

PRESSO MAMMA EDITORI

Dedica

A me e alle mie due sorelle, a turno ognuna

un po’ Helga, un po’ Rachel e un po’ Frida

A Walda, Nickolas ed Anthony

perché facciano buon uso dei loro sogni

E al mio Oliver Irvine

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Preludio

Parlano i lupi nella brughiera, uno spazio infini-to. L’ululato risuona nel vento, tra nubi fosche. Un aquilone nero non sarebbe strano in un cielo

del genere e nulla di strano ci sarebbe se una bimba pallida e vestita di nero corresse sotto e ne tirasse il filo.

Cosa ci stesse a fare Mapple sotto quel cielo carico non era facile a comprendersi. Non si vedeva in giro nemmeno una casa, un tetto o un comignolo. O meglio, non sarebbe stato affatto facile a comprendersi senza i ben noti fatti avvenuti sei mesi avanti, per la precisione in Applestrasse, a Shnorr, nella Foresta Nera.

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1. Una sciagura immancabile

In Apfelstrasse le tre socie della bottega Spezie&Delizie avevano il sacro terrore di cose misteriose tipo spettri, fate e fantasmi. La signo-

ra Helga Howl, il capo, era una donna alta e grassoc-cia. Aveva una piramide di capelli gialli e unghie laccate color sangue. Rachel Meyer era bassa e curva, con un caschetto di capelli bianchi. Ruotava occhi molto spor-genti per spiare le persone di nascosto. Frida Keller era alta, ossuta e tremante.

Nessuna aveva mai avuto figli.

Di marmocchi, non ne avevano messi al mondo e non avrebbero mai voluto frequentarne. Li disappro-vavano tutti a esclusione dell’assaggiatrice della televi-sione, una ragazzina con la faccia rossa e il potere di decretare la confetteria migliore dell’anno. Le tre socie la ritenevano la bambina più bella del mondo anche se assomigliava a una foca per via di tutti quei dolciumi. A loro non importava. La chiamavano “tesoro” quando la vedevano in tv. La ritenevano completamente diversa, insomma, da un essere infelice come la neonata adottata sei anni prima da Archibald, il fratello di Helga.

La marmocchia di Archibald era stata trovata in un cassonetto! Poteva essere nata sotto una stella peggiore?

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L’adozione orribile era stata annunciata con una tele-fonata giunta dall’America e fino a quel giorno, per sei anni, era stata abilmente ignorata dalle tre signore. Non avrebbe potuto esserci evento più angoscioso e tremen-do di quello.

Quella bambina avrebbe procurato al caro Archibald la peggiore delle sciagure. Per fortuna era lontana! Abi-tava oltre Oceano con il fratello di Helga perciò loro non avrebbero mai avuto a che fare nulla con lei.

Del resto, lo sapevano tutti, i bambini portavano guai. Quando arrivavano c’era sempre un adulto desti-nato a mangiare l’insalata dalla parte delle radici. In-somma i mocciosi attiravano “l’Abominevole”.

E in fatto di cose misteriose nulla era più spaventoso dell’“Abominevole”. “L’Abominevole” sarebbe stata atti-rata sul povero Archibald. L’Abominevole avrebbe cau-sato incidenti e sventure come minimo, con una bambi-na tanto sfortunata!

E infatti puntualmente quel mattino di aprile in cui tutto ebbe inizio le tre socie avevano appena saputo del-la disgrazia.

La notizia della tragedia era strisciata all’interno della bottega Spezie&Delizie con la posta dell’alba, sottile e spaventosa come un telegramma. Lo aveva portato Dirk Martin con la sua divisa blu elettrico e il cappello rigi-do. Lo aveva consegnato a Helga con la solennità degna appunto di un funerale.

Era assai breve. Archibald, il fratello di Helga, nel sistemare l’insegna del suo emporio a Howell era cadu-to dalla scala e si era sfracellato a terra. La notizia era

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talmente tragica da esigere da Helga, Frida e la signora Meyer una riunione immediata attorno al tavolino della bottega.

«È accaduto! Come avevo previsto!» ruggì Helga con in mano il telegramma per farsi vento. Affilò lo sguardo e fece rullare sul tavolo gli artigli rossi della mano libera. Approfittò del silenzio generale e continuò: «Vi ricor-date? “Fa così pena!” disse Archibald quando telefonò dall’America sei anni fa. “Una bambina strappata alla morte, pensate” queste sono state le sue parole esatte! “Trovata appena nata in un cassonetto della spazzatura! L’ho adottata. Fa così pena!”» Helga fece scricchiolare i denti. «Pena!»

Le tre donne scossero la testa, Helga ne faceva molta, molta di più.

***

Frida ondeggiò in punta di piedi verso il fondo della bottega dove una scala di legno saliva al ballatoio. Le era sembrato di aver intravisto un cappello a punta ma non ne era sicura. Sperò di non essersi sbagliata nell’avvistare il vecchio già sveglio al di là della balaustra. Lo volesse il Cielo! Se lo augurava di tutto cuore per Helga così bisognosa dell’aiuto degli astri!

Appleby era uno scaccia-spiriti in un certo senso. Solo lui forse poteva inventarsi qualcosa per dissipare l’ala nera della morte. Per scongiurare la tragedia e la sventura sull’intera bottega.

«La situazione è grave. Povero Archibald! Gli aveva-mo detto di non prendere la bambina,» si sbracciò Frida

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appena vide la lunga vestaglia blu incedere giù per la scala.

Morgan Appleby seguì la socia giovane di Spezie&Delizie verso il tavolino della bottega. Emise un lungo sospiro e per poco gli occhialetti non gli scivola-rono giù dal naso alla vista di Frida in lacrime quasi fos-se scampata alle grinfie di un fantasma, presa a parlare invece di una bambina. Si schiarì la voce ma non richia-mò la socia giovane a spiegare il punto della questione.

«Povero Archibald e povera Helga!,» mormorò Ap-pleby quando ebbe raggiunto le tre donne e chinò il cappello a punta verso quella con i capelli biondi e il vestito rosso fuoco:

«Signora Howl è un triste giorno questo. Ha tutto il mio affetto, cara.»

Helga Howl emise un sospiro più simile a un ruggito e fece balenare un lampo negli occhi socchiusi:

«Non ho bisogno di compassione. Sono furiosa con mio fratello! E ben gli sta. Non è un caso se io, Frida e Rachel siamo tanto felici di non avere figli, né ci è mai passato per la testa di averne!»

«Scusi?» Morgan Appleby sbirciò le facce delle altre due signore sedute al tavolo.

Anche Frida faceva di sì con la testa riccia color topo:

«Lo sanno tutti. L’arrivo di un neonato significa che qualche adulto deve andarsene. Altrimenti sulla terra non ci sarebbe posto per tutti!»

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«Conosciamo le conseguenze di avere intorno un bambino,» Rachel Meyer, in verde evidenziatore, ave-va espresso la sua opinione e l’aveva conclusa con un “uhuu” basso simile al verso di un gufo.

Appleby ebbe una stretta al cuore e si accarezzò la barba per tutta la lunghezza.

«I bambini non fanno alcun male e, Helga, lei deve essere davvero scossa per fare questi discorsi.» Il pensie-ro di tanta ingiustizia gli calpestò il cuore. Per giunta anche le altre erano d’accordo. E accavallavano le voci per spiegare.

L’Innominabile Abominevole andava evitata, mai nominata e meno che mai sfidata come invece facevano i clienti.

Molti acquirenti di spezie e caramelle inveivano con-tro il destino per essere stati separati dai cari defunti. E così, incauti, si lasciavano andare ai rimpianti e alle lamentele, attiravano come ape al miele l’ “Abominevo-le” – così le tre signore chiamavano la morte –. Quegli sventurati avrebbero dovuto fare tutto il contrario per allontanarla. Dimenticare gli estinti, vestire colori alle-gri e sopratutto evitare di mettere al mondo dei figli.

Ormai le tre signore lo ripetevano da un buon quarto d’ora.

Appleby si accomodò sulla sedia e si schiarì la voce:

«Guardando un po’ oltre…, la punta delle proprie scarpe, si potrebbe avere un’idea meno ristretta in fatto di vita e di morte…»

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«Non dica quella parola,» gufò la signora Meyer e si arruffò il caschetto di capelli bianchi. «È inutile sfidare l’Innominabile, alla fin fine l’ha sempre vinta. Meglio non stuzzicarla, mi creda.»

E Frida si strinse addosso il golfino azzurro:

«Mi meraviglio. Dovrebbe avere più tatto Herr Appleby.»

«Che tatto e tatto, – ringhiò Helga – è questione di non attirarci addosso più iella di quanta già non ce ne sia in giro,» concluse con gli occhi fissi al telegramma.

«Su, Helga, concentrati sull’eredità, cara,» la signora Meyer orientò gli occhi a palla verso Appleby con aria minacciosa. Contro la socia anziana però ci fu la reazio-ne della sorella di Archibald.

Helga si avventò a muso duro e diede l’impressione di volersi mangiare Rachel Meyer:

«Non c’è nessuna eredità. Archibald era sull’orlo del fallimento. Hanno preso tutto le banche,» sibilò tra i denti.

Appleby aggrottò i sopracciglioni canuti:

«Non vi chiedete piuttosto perché accadano cose del genere? Perché soffrano anche le persone più innocenti?»

«Stiamo con i piedi ben piantati per terra, Herr Ap-pleby… Tra mezz’ora arriveranno i clienti. Sbrighiamo-ci! – Helga puntò gli occhi sul registratore di cassa. – Cerchiamo di essere concreti e materiali insomma. Per esempio chiediamoci come mio fratello abbia potuto adottare una bambina trovata in un cassonetto. E il 2

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novembre! Il giorno dei morti!» Sbraitò e batté un pu-gno sul tavolo.

«E per di più avvolta in una carta da regalo con sopra stampata la faccia del Babbo Natale della Coca Cola,» aggiunse Frida con voce lugubre.

«E questo cosa c’entra?» minacciò Helga Howl dila-tando le narici.

La signora Meyer controllò con occhi sporgenti l’in-tero busto di Frida:

«Una sciocchezza delle tue, Frida. Non si vede come potrebbero aggravare la situazione una carta da regalo, il Natale e la Coca Cola!»

«Beh, riguardano i bambini, no?» Uscì da sotto i ricci color topo la vocina di Frida.

Rachel Meyer si arrese contro lo schienale della sedia e rispose a denti stretti:

«No, cara.»

«Su, su, – disse Appleby carezzevole, – magari quel Babbo Natale della carta regalo era uno spirito buono in grado di proteggere la bambina e scongiurare cose luttuose!»

Helga soffiò aria feroce dalle narici:

«Si è visto! Sì! Come no! Ci mancano gli spettri ades-so. Una vera fissazione questa degli spettri, Appleby!»

Appleby sollevò il dito indice:

«Ho detto “spiriti” non “spettri”. E mi spiace per lei, signora Helga, ma il mondo è attraversato da spiriti pie-namente attivi. Il mondo della leggenda e degli eroi…»

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«Figurarsi!» La bocca di Helga era una riga sottile e violacea.

«Mmmm, – Rachel Meyer afferrò il bastone da pas-seggio appoggiato al tavolo e lo batté due volte sul pa-vimento, – non l’abbiamo convocata per questo, Ap-pleby. Helga ha bisogno di un consulto, confortante possibilmente.»

«È presto detto, Frau Helga, – i baffi gli tremarono per trattenere il sorriso, – il suo negozio diventerà presto famoso in tutto il mondo.»

«Dice davvero? – Le palpebre inferiori Helga Howl si sollevarono in segno di sfida. – Non mi sta prendendo in giro?»

«Non mi permetterei mai. E poi non sono io a dirlo ma le stelle,» e indicò le travi del soffitto.

Frida lo interruppe:

«E io, allora?»

«Le stelle sono cieche in proposito,» ammise Appleby.

«Ecco. Lei per me non prevede mai grandi eventi. Nemmeno tragedie o malattie come fa per gli altri!»

Il professor Morgan Appleby protese la faccia e soc-chiuse gli occhi nell’impresa ardua di trovare una logi-ca nel discorso della socia giovane. Ma rinunciò subito, avvertiva un brontolio allo stomaco, come una richiesta urgente di cioccolata, panna e perle di toffies. Del resto, intendeva godere di tutti i vantaggi offerti dall’abitare una stanza al primo piano sopra Spezie&Delizie.

***

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Le tre socie osservarono Appleby tentennare in dire-zione delle scale per tornare in camera. Disapprovarono con una smorfia la barba enormemente lunga e bianca, i baffi spioventi, la vestaglia blu e il cappello foderato di pelo in tinta con la vestaglia. Lo spiarono ostili come fosse lo spettro di un mago piombato dal mondo delle fate e dei fantasmi apposta per terrorizzarle.

Infine Helga si eresse e marciò verso la porta a vetri.

Quando la socia di maggioranza nonché quella di-rettamente colpita dalla tragedia di Archibald ebbe vol-tato il cartello su “aperto” lampeggiò con gli occhi in direzione di Frida e Meyer e fece loro segno di seguirla. Spalancò l’uscio, e una volta all’esterno, si voltò verso la vetrina come dovesse studiarne l’allestimento. Ma trafis-se il cristallo con gli occhi senza vedere alcunché.

«È sempre più irritante,» disse tra i denti poi strinse le mani a pugno e se le portò davanti alla bocca.

Doveva controllarsi ma non era facile. Lei, Frida e la signora Meyer avevano frequentato i migliori maghi di Schnorr e dell’intera Baden-Württemberg per poi finire ad accontentarsi di un Appleby.

Il vecchio era un astrologo appena arrivato dal Re-gno Unito e, con quelle arie da filosofo, aveva promesso loro la benevolenza delle stelle del tutto gratuitamente in cambio della stanza.

«Dio solo sa, – tremò la voce di Frida, – con tutte queste disgrazie se non abbiamo bisogno di sapere cosa ci aspetta.»

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«Non dev’essere per forza lui a dircelo. Di astrolo-ghi ce ne sono tanti,» Rachel ritirò la testa come un tacchino.

Helga batté l’uno contro l’altro i pugni davanti alla bocca:

«Dobbiamo trovare un pretesto qualsiasi per sloggiarlo.»

Le altre annuirono ed Helga continuò a riflettere. Ci aveva pensato tante volte ma non si era mai decisa a dar-gli la disdetta perché fino ad allora erano sempre riuscite a spillargli qualcosa di soddisfacente. Anche in situazio-ni d’emergenza, tipo, oroscopi sfavorevoli della Senti-nella della Foresta Nera! Tuttavia trovava davvero insop-portabile quella fissazione di Appleby per il mondo degli spettri. E tollerava ancor meno tutto quello spingerle ad affrontare le paure, quei suoi racconti dell’orrore in cui fate ed eroi combattevano l’Innominabile. Helga ne aveva già abbastanza dei clienti fissati con incolmabili perdite, estremi trapassi, eccetera.

Tra confetti, tisane e caramelle la gente scivolava sul tema “caro defunto” e finiva per sospirare: “Ah! Potessi riavere mio marito, il mio gatto, il mio cactus!”

Helga rabbrividì e continuò a rimuginare in silenzio davanti alla vetrina.

I cari estinti erano proprietà dell’Innominabile Abo-minevole, ormai. Era meglio se restavano dov’erano sen-za chiamarli indietro. Avrebbero portato sciagure a non finire e dovevano essere ignorati, nemmeno rimpianti e tantomeno nominati ad alta voce.

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«Parlare di spettri è la via sicura per attirare l’Inno-minabile,» finì per sbottare Helga. E per fortuna non guardò in su. Avrebbe visto Appleby alla finestra preso a masticarsi i baffi per non ridere.

***

Era nella sua camera al primo piano e aveva spia-to tutta la conversazione avvenuta in strada. Gli erano sembrate davvero senza fine le angosce delle tre signore.

Tutte le loro precauzioni non bastavano più ormai. La lista delle cose da evitare, scansare e rifuggire si al-lungava di giorno in giorno: rovesciare il sale, incrociare gatti neri; guardare carri funebri vuoti, parlare di cari estinti, avere a che fare con bambini …E ora all’elenco si aggiungeva, ospitare filosofi con la mania degli spiriti. Del resto dietro il banco della bottega di Apfelstrasse spiccava una scritta “Non sono gradite le sorprese, meno ancora le improvvisate e non si danno merci a credito”.

Appleby si allontanò dalla finestra e pulì col dito la tazza di cioccolato. Lo succhiò e cercò di cancellare l’eco delle voci delle tre socie ormai alle prese con i primi avventori.

Qualcuno di istruito le avrebbe paragonate alle tre megere del Macbeth ma un occhio acuto non si sarebbe fatto sfuggire la verità. Non vi era nulla di stregonesco in loro, anzi, dove c’erano loro regnava l’ordine e la disci-plina. Nulla era capace però di scacciare nelle tre donne la paura che qualcosa potesse essere fuori posto.

Helga Howl aveva quarant’anni. Teneva i capelli biondi raccolti in un alto chignon a forma di torre, utile ai numerosi clienti della spezieria per individuarla nei

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momenti di ressa. Helga era sola. L’unico parente viven-te era stato il fratello Archibald.

La socia giovane Frida Keller era ossuta e aveva quei capelli ricci color topo. Il suo campo erano le erbe co-smetiche, oli di calendula, tinture madri di spirea per i brufoli, olio di lavanda contro le punture d’insetto. Camminava un po’ curva in avanti, abitudine acquisita a forza di restare china sulle clienti per impiastricciare loro la faccia. Frida abitava con la vecchia madre appena fuori paese.

Appleby tese l’orecchio. Era proprio la voce di Frida quella e risaliva dalla bottega.

Sembrava tutta presa a discutere con la Meyer.

«Non c’è dubbio. È vera quella cosa dei bambini che fanno trapassare. Se hai notato, quando aumentano le richieste di lenitivi per la crosta lattea dei neonati, calano le vendite di unguenti antiemorroidari per gli anziani.»

«Shsss. Non a voce alta, cara!» Arrivò secco il rim-brotto della signora Meyer.

Appleby smise di leccare la tazza e fissò il vuoto poi si batté con l’indice sulla tempia.

Doveva essere “antiemorroidari” la cosa da dire pia-no. Ma non perché “antiemorroidari” facesse paura. Curavano il bruciore di parti basse e nascoste di cui la signora Meyer doveva preferire ignorare l’esistenza.

Rachel era una tipa eccentrica del resto, e anche lei era molto sola. Era vedova e viveva in fondo alla via. Era già avanti con gli anni e ne andava molto fiera. Agitava il caschetto gonfio di capelli bianchi, come fosse una

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corona. E batteva il bastone a terra, come fosse uno scet-tro. Vi si appoggiava nel camminare e doveva trovarlo davvero utile perché Rachel Meyer era capace di restare in piedi in negozio per ore e ore.

Il quel momento Appleby udì uno scampanellio pro-venire dalla porta della bottega, seguito a breve da un altro e un altro ancora.

Stava arrivando molta gente, di certo era stata attirata dalla notizia della disgrazia di Helga e avrebbe ingan-nato la mattinata ad assaggiare tisane e compiangerla. Il professor Morgan Appleby non sarebbe stato di nes-suna utilità per quel giorno. Meglio andarsi a fare una passeggiata.

Così si tolse la vestaglia blu e il cappello imbottito a punta, e indossò una vecchia redingote color tabacco con sei mantelline. Si calzò sulla testa la scodella di lana tweed e cercò di scivolare inosservato sul ballatoio.

Il tintinnio dei campanelli sulla porta a vetri annun-ciò però un ennesimo ingresso.

Appleby lanciò uno sguardo distratto oltre la balau-stra e si immobilizzò.

Un berretto rigido blu e oro stava facendo capolino nel locale. Era ancora Dirk Martin, il postino, una se-conda volta quel giorno, e indossava la borsa a tracolla delle consegne. Il postino si fece largo, chiese permesso e menò borsate. Avvistato il pinnacolo giallo dei capelli di Helga, si sporse in quella direzione:

«Signora Helga, una notifica.»

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Helga era in fondo al negozio in piedi dietro l’alto trespolo della cassa e Frida si precipitò verso il postino a mani tese.

«Prego, dia a me. Lo consegno io.»

Per tutta risposta il giovane Dirk fece un passo indie-tro, serrò la borsa e ritirò la mano con la grande busta bianca.

«È mio dovere consegnarlo direttamente alla destina-taria: Frau Helga Hawl, Apfelstrasse 40, Schnorr, Baden Wurtemberg, Foresta Nera.»

Non aveva terminato di parlare quando avvertì sulle dita del piede destro il tacchetto di Frida Keller. Ciò tuttavia non gli impedì di raggiungere la meta.

Helga inforcò gli occhiali e aprì il lembo incollato con una rasoiata dell’unghia rossa. Poi estrasse un fasci-colo di fogli e il viso prese impercettibilmente a muo-versi da destra a sinistra nel silenzio generale. Quando lo sollevò dai fogli era paonazza fino alle orecchie.

Frida si ritrasse e portò le mani alla faccia.

La signora Meyer si avvicinò e posò la mano sulla spalla dell’amica.

«Cosa accade? Helga!» Chiese mentre intanto si pro-teva verso i fogli.

Alla fine Helga ruotò lo sguardo e raddrizzò il busto. Si schiarì la gola e annunciò:

«Signori, per oggi si chiude,» la voce vibrò distor-ta come se il collo fosse stretto da un cappio, quasi ir-riconoscibile. Appleby in un brivido studiò le braccia

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di Helga aprirsi come grandi ali e sospingere la gente all’esterno.

Appena si udì lo scrocco della porta chiusa, si levò il grido della signora Meyer:

«Helga!»

L’interpellata si voltò lentamente in direzione del ca-schetto bianco e lo trovò chino sulla missiva.

«È un provvedimento d’autorità! – Stava dicendo Ra-chel. – Ti affidano la bambina!»

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2. Ragni neri

Mary sopportò in silenzio che Miss Belly terminasse di impiastricciarle la faccia.

«Se tua zia ti vede con un livido del genere ti rispedisce indietro,» sospirò l’assistente sociale e mise via la scatolina di crema color carne. «Già sei pal-lida come un fantasma e vestita tutta di nero… Sembri la morte fatta persona.»

Mary si abbandonò sullo schienale e scrutò nell’oblò nero in cerca del sorriso della luna. Non poteva credere a quella faccenda della morte. Lei, altrimenti, sarebbe stata sottoterra da un pezzo. Inciampava in continua-zione, si schiantava contro oggetti duri e appuntiti, si imbottiva o si svestiva sempre nel momento sbagliato tanto da prendersi il raffreddore. Ed era sempre pallida, con le occhiaie e piena di lividi. Il suo era un coraggio tipo kamikaze, diceva il papà, tipo quello dei soldati che si lanciavano sulle navi con aereo e tutto. Sospirò.

Quando lo avrebbe rivisto? Era via da oltre un mese. Era stato rapito dalla morte secondo le signorine dell’i-stituto, ma non era possibile. Sarebbe stato necessario un ragno grandissimo.

Sì, perché i ragni c’erano invece. E quando ce n’era uno in giro succedevano disastri. Un piccolo click le fece battere il cuore.

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Il medaglione portaritratti si era aperto e Mary lo tastò attraverso la camicetta. Sì. Si era aperto. Lo estrasse dal colletto e accarezzò l’ovale d’oro.

Lo sportellino era ben spalancato.

Mary cercò subito gli occhi azzurri ridenti e rimase delusa.

Il vecchio St. Nick non sorrideva e fu come se nel cuore di Mary cominciasse a scendere qualche fiocco di neve. La faccia di St. Nick era un po’ gialla. Che gli desse fastidio volare in aeroplano?

Il viaggio durava già da due ore, lo aveva sentito dire da Miss Belly.

St. Nick aveva le sopracciglia bianche all’ingiù e gli occhi tristi. Guardavano qualcosa dietro di lei. Mary si voltò di scatto e vide una piccola ombra nera sparire dentro una cucitura dello schienale. Sentì freddo.

Un ragno nero? No, non lo era di certo. Cosa poteva farle poi un ragno nero in aeroplano, bloccata com’era sul sedile imbottito?

Non doveva pensarci, ora si era aperto il medaglio-ne! Tornò a guardare il Babbo Natale della figura nel portaritratti.

La bocca di solito sorridente ora era stretta, imbron-ciata. Anche St. Nick doveva essere preoccupato per il papà. La nevicata nel cuore si alzò in un vortice di bufera.

Mary sospirò e raddrizzò le spalle.

Non doveva nemmeno pensarci a questo. Il papà sa-rebbe tornato, non era come dicevano. Sarebbe venuto

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da lei e l’avrebbe riportata a casa. Sporse le labbra e le strofinò sulla figura di Babbo Natale.

Il lungo bacio terminò con uno schiocco.

«Su, facciamoci coraggio, St. Nick. Ci siamo sempre io e te, in un modo o nell’altro.» Spiò l’espressione del medaglione.

Babbo Natale aveva abbassato lo sguardo.

Mary sbarrò gli occhi.

«No, non andare via!» Implorò più piano possibile.

Ma gli occhi celesti restarono nascosti sotto le so-pracciglia folte e bianche.

Mary sentì pungere le lacrime.

Non c’era niente da fare. St. Nick voleva dormire. E infatti la molla scattò e il medaglione si richiuse.

Mary lo lasciò scivolare dentro il colletto.

Ma sì! Era solo un vecchio ritaglio di carta natalizia con il Santa Claus della Coca Cola. Le assistenti sociali glielo avevano detto e ridetto in quei giorni e ora le sem-brava di udirle di nuovo.

La neve nel cuore intanto si era depositata candida fino a riempirlo.

Era inutile cercare di convincere quelle persone ma St. Nick cambiava faccia.

Sì era un pezzo di carta della pubblicità ma il vecchio poteva essere allegro o triste. Era come se potesse cam-biare l’angolo delle labbra. A volte St.Nick lo spingeva in giù e a volte lo tirava in su. E poi aveva quel difetto della molla. Era strano. Si chiudeva all’improvviso e si

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apriva quando lei meno se lo aspettava. Ma restava osti-natamente chiuso se qualcuno tentava di aprirlo.

Era stato inutile cercare di spiegarlo alle signorine.

Le assistenti sociali non ci credevano, solo il papà lo faceva. Secondo lui il medaglione l’avrebbe protetta ma Mary non ne era affatto convinta.

Gliene capitavano di tutte negli ultimi tempi ed era-no cose davvero bruttissime.

***

La Hostess rallentò il passo. Una signorina magra spalmava una crema color nocciola sul mento di una bambina pallidissima.

Doveva essere fondotinta ma in faccia alla bimba sembrava fango sulla neve.

Era la stessa bambina vestita di nero di poco prima. Era salita sul bracciolo del sedile e aveva preso qualcosa dalla cappelliera. Però la piccola non doveva aver ben richiuso lo sportello e nessuno se ne era accorto. Proprio in quell’istante, infatti, l’aereo virò e il bagaglio a mano si rovesciò sui sedili.

La ventiquattrore rigida si proiettò sulla bambina ma questa proprio all’ultimo secondo si stiracchiò e la mano fece rimbalzare la valigetta diritta sulla faccia addormen-tata della signorina al fianco.

Dolorante, la donna sbatté la valigetta per terra dove, tra i sedili, si andò a rintanare anche la bambina.

La hostess ondeggiò e si inarcò.

«Vieni, piccola. Sulla poltrona stai più comoda, no?»

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La bambina scosse il caschetto di capelli neri come ali di corvo:

«Preferirei restare sulla moquette.»

«Si sente male la bambina?» Chiese la hostess.

La signorina magra alzò gli occhi al cielo:

«Non ci faccia caso. Fa sempre così. È un’orfana sa… A volte si fissa per avere qualcosa sopra la testa, per proteggersi.»

«Posso darti una cosa, allora» propose la hostess. Si allontanò e tornò dopo poco con un secchiello da ghiac-cio in plastica.

«Ok,» aveva farfugliato la bambina per via di un den-te mancante. E se lo era calzato in testa. Poi era sgattaio-lata fuori dal suo rifugio.

Per il resto del viaggio era rimasta così: seduta sul sedile, con il portaghiaccio infilato in testa e il naso in-collato all’oblò, tutta presa a mormorare tra sé e sé.

Quando la hostess servì il rinfresco la udì dire con tono arrabbiato:

«Era un ragno nero, lo dicevo io. Era un ragno nero.»

***

Helga aveva fatto presto a prepararsi e anche la signo-ra Meyer. Aspettava soltanto l’arrivo di Frida e digrignò i denti:

«Ovviamente ogni generosità presenta il conto prima o poi, Rachel. Questa …“disgrazia”, ormai è certo, verrà ad abitare in Apfelstrasse.»

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Aveva fatto ricorso tramite avvocati e protestato nelle ultime due settimane. Non c’era stato niente da fare. Avrebbe dovuto tenersi la bambina se non si fosse trova-ta un’altra sistemazione. Raddrizzò il busto e girò il viso intorno alla ricerca di Frida. Intanto continuò:

«La “disgrazia” arriva a Friburgo, da Newark a mezza-notte. Mezzanotte! Di cosa meravigliarsi?»

«Ed è il 30 aprile,» Rachel batté il bastone a terra.

«Cosa intendi dire?»

«La notte di Valpurga!»

Helga sgranò gli occhi e ammutolì.

La voce di Rachel vibrò di paura:

«Ma adesso cosa succederà?»

«Oh! Cosa può succedere! – Rispose la voce soffocata di Helga presa a trovare il buco delle maniche della giac-ca. – A tirare le cuoia sarà la vecchia Scolnits, speriamo, del numero 16. Le manderemo spesso la bambina con qualche dolce in regalo. La polacca vive praticamente solo di yogurt, non avrà il cuore di rifiutare.»

«Forse per questo ha raggiunto i centodue anni.»

«Per lo yogurt?»

«Se è lo yogurt a proteggerla, ne ha mangiato tal-mente tanto! La sua resistenza potrebbe essere maggiore della tua, – mormorò la signora Meyer. – E di solito, l’Abominevole colpisce… vicino…»

«Se è per questo, non credere di essere fuori pericolo. Chiamerà zie anche voi due, ci scommetto!»

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«Glielo vieteremo,» sentenziò Frida mentre soprag-giungeva trafelata.

«Sarà la prima cosa da chiarire. Promettilo, Helga,» ordinò la signora Meyer e batté il bastone sul pavimento.

Mentre si passava il rossetto, Helga mugugnò:

«Non resterò ad aspettare che mi crolli il tetto sulla testa,» poi prima di aprire la porta si fermò sullo zerbi-no, estrasse di tasca il mazzo di chiavi e fermò la mano a mezz’aria. «Ho un piano, avete presente il passo di do-menica scorsa, quello in cui l’uomo diviene padrone del creato e dà un nome a tutte le cose? Bene, faremo così: non la chiameremo con il suo nome. Gliene daremo un altro.»

«Giusto! – Sibilò la signora Meyer. – Inganneremo l’Innominabile. Non lo saprà mai. Per lei la bambina non esisterà neppure.»

«E che nome le daremo? – Chiese Frida in un soffio. – Posso cercarne uno sull’elenco telefonico?»

Ma gli occhi di Helga la pugnalarono.

«Ci vuole un nome vuoto. Deve confondersi con al-tri nomi… Non deve suscitare domande.»

«“Trasparente”?» Balbettò Frida.

«“Non c’è”,» gracchiò la signora Meyer.

«Ma no…,» ringhiò Helga. Erano già tutte e tre in strada e lei stava per girare le chiavi nella toppa quando si bloccò. «Può essere la nipotina di Appleby! Ecco la so-luzione! Mary Appleby. Ci toccherà tenerci quel vecchio gufo ancora tra i piedi.» Marciò di nuovo all’interno e sbraitò.

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«Herr Appleby!» Il richiamo penetrò il soffitto in di-rezione del ballatoio.

La lunga barba bianca comparve in cima alle scale preceduta dal naso rosso e adunco.

«Cara signora Helga, eccomi!»

«Abbiamo un problema e dobbiamo risolverlo in fretta. Scenda la prego.»

Non ci volle molto per spiegare.

Appleby doveva fingere. La bambina doveva risultare sua nipote. E il vecchio per una volta non oppose alcuna teoria strana .

«Nessuno si farà domande. E poi non parrà strano, Herr Appleby. Una nipote che parla inglese! Lei viene dal Regno Unito. Basterà istruire a dovere la bambina. A proposito, Appleby, da quale città ha detto di venire, lei?»

«Oxford,– disse Appleby dopo un attimo di esitazio-ne. – Sì, Oxford va benissimo. Ma la bambina può dire la verità riguardo all’America, può esser figlia di un mio parente negli Stati Uniti. Mi sembra più prudente.»

«Giusto, una soluzione molto saggia, – assentì Ra-chel Meyer poi tossicchiò e aggiunse con voce stridula, – ad ogni buon conto sarà meglio trovare al più presto un luogo più consono per M…, – Helga e Frida impal-lidirono, – la nipote di Herr Appleby.»

Helga annuì lenta col capo ma con un guizzo rossa-stro negli occhi aggiunse:

«Parole sante, signora Meyer. Un luogo molto, molto lontano…» E nemmeno lei si accorse di Appleby.

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Una ruga profonda gli serpeggiava sulla fronte. Del resto nessuna delle tre all’esterno dal negozio notò nep-pure la grande ragnatela tesa davanti alla luna.

Un grosso ragno pareva ghermire l’insegna di Spezie&Delizie.

***

Era sempre la stessa storia sbuffò Mary. Lanciò lo sguardo sulla notte oltre l’oblò dell’aereo. Aveva visto chiaramente un ragno nero.

Quello faceva succedere cose terribili come poco pri-ma. Era comparso sullo schienale e poi era caduta la valigetta. E in più non c’era nemmeno una stella. Tornò a spiare da sotto il secchiello in direzione di Miss Belly.

«Piantala di strofinarti il mento!» La voce dell’assi-stente sociale le sembrò simile a quella del navigatore sulla macchina del papà.

«Ma prude.»

«Così la tua nuova mamma vede le macchie viola e gialle, oltre a tutto il resto! Non riesci a stare in piedi, Mapple, sei piena di lividi. E ti rimanda indietro!»

La neve nel cuore di Mary divenne ghiaccio.

Lo sapeva, era strana. Era pallida, aveva i capelli neri come la notte, occhiaie scure ed era piena di lividi per via delle cadute. Se avesse avuto i capelli biondi e la fac-cia rosa, forse sarebbe stato tutto diverso.

***

«Allacciare le cinture, prego,» la hostess controllò la fibbia di Mapple. Poi le sorrise e finalmente ottenne la restituzione del secchiello da ghiaccio.

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***

All’interno del terminal fu Frida a restare indietro.

Rachel Meyer non cedette malgrado nell’aeroporto si udissero praticamente solo i tacchi in marcia della socia di maggioranza. Pestò a terra il bastone con sempre più energia finché Helga finalmente non frenò.

Rachel ritirò la testa nel collo, pienamente soddisfatta:

«Helga, rallenta per l’amor di dio,» la rimproverò mentre Frida zigzagava distratta dall’andirivieni.

Helga sollevò il mento:

«Cosa stiamo aspettando? Dobbiamo affrontare la situazione. Inutile perdere tempo.»

«Non è questo. La mia schiena, Helga,» si indignò Ra-chel. Doveva trattenere l’amica e riprendere fiato. Così dissotterrò un’idea avuta nel pomeriggio. «Hai pensato, Helga, cosa succederà con un bambino in giro in un negozio di caramelle, cioccolatini, toffies, confetti ecce-tera…, cara? Hai calcolato quanti dolci ti spariranno?»

«A questo in effetti, no, non avevo pensato, – am-mise Helga e impallidì. – I pericoli mi sembravano già abbastanza,» incupì la voce.

«Calmati adesso. Domani, agiremo all’alba. Riem-piremo i vasi della prima fila, tutti alla stessa altezza. E ogni sera, dopo la chiusura, li riporteremo a livello. Così, se manca qualcosa e la bambina ruba, lo scoprire-mo subito.»

Helga approvò solennemente col capo.

«Spiegalo bene anche a Frida,» intimò con un’occhia-ta verso la socia giovane.

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Frida Keller fissava a bocca aperta un gruppetto di indiane dagli abiti lunghi e dorati.

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3. Spezie & Delizie

Mentre miss Belly mostrava i passaporti, Mary osservò le buffe signore arrabbiate al di là dei soldati.

Una era gigantesca e continuava a girare la testa di scatto, l’altra con i capelli bianchi bastonava ogni cosa. Poi ce n’era una magrissima, tremolava. Sembravano aver perso qualche oggetto. Poi le pupille di Mary in-crociarono le iridi rossastre della gigantessa bionda.

La donna grande teneva gli occhi talmente fissi su di lei! Ci mancava solo una lente d’ingrandimento! Mary si sentì come le mosche quando lei le scrutava sul vetro della finestra.

Fu però questione di pochi istanti poiché il grande corpo con i capelli biondi puntò dritto in direzione di Mary seguito dal resto della compagnia. Poi cominciò a rallentare. La gigantessa allargò le braccia per fermare le altre due. E Mary trattenne il respiro.

La donna gigante protese la faccia a occhi socchiusi e spostò lo sguardo da lei a Miss Belly e ritorno.

La signorina dell’istituto era infatti tornata a fianco di Mary. Le passò un mano sul mento, alzò l’altra e l’agitò.

Le tre signore si rimisero in cammino e, quando fu-rono a un passo, Mary sospirò coraggiosamente.

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Non avevano nemmeno un sorriso. Anzi non dove-vano aver mai sorriso in vita loro. Per lo meno questa era l’impressione. Non erano solo serie, era come se tirasse-ro le orecchie all’indietro.

Poi la donna grande e bionda parlò e il suo benve-nuto fu:

«Pulisciti la faccia!»

«Le ha dato del gelato?» Schioccò la signora con i capelli bianchi.

«Io? Mai,» alzò le mani miss Belly.

«E cosa sono quelle chiazze marroni sul mento?» Inorridì la donna grande.

«Fondotinta!» Disse Mary. Quello lo sapeva con cer-tezza e sorrise a tutta faccia ma solo per un istante per-ché le tre avevano spalancato gli occhi per l’orrore.

«Ma le manca un dente,» piagnucolò quella tremo-lante delle tre.

Miss Belly intanto mormorava:

«Volevo coprirle quel livido sul mento ma lei ha con-tinuato a grattarsi tutto il tempo. Ha fatto un pasticcio.»

«Va bene, va bene,» la gigantessa picchiò l’aria con la mano ma poi sembrò arrabbiarsi di nuovo – con la signora magra questa volta – e ringhiò:

«Tutti i bambini perdono i denti!»

«Io no. Non l’ho perso, – Mary indicò il buco nero col dito –. L’ho rotto sul marciapiede.»

Le tre si portarono le mani alla bocca.

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«Ma non è una cosa grave. Ricrescerà,» spiegò Mary ma le signore continuavano a essere spaventate.

«Ma perché tutto questo nero?» Bisbigliava la signora magra.

«Il lutto, cara,» rispose a denti stretti quella gigante.

«Non è vero. Il mio papà non è morto,» disse piano Mary e senza più alcun sorriso.

Un coro di “Shss” la zittì.

Mary ricominciò a grattarsi il mento. Sarebbe stato impossibile piacere a quelle zie. Ancora più difficile che con la signorina Belly.

***

Il richiudersi delle portiere di un’auto risvegliò il professor Appleby dopo il pisolino seguito alla modesta razione di torta alla panna con decorazioni di smarties, frappè di fragola e strisce di liquirizia. Si alzò incerto se favorire la digestione con una tazza di cioccolato. Poi avvicinò il naso al riquadro freddo e buio della finestra e sotto, illuminate dalla lanterna dell’insegna, vide le signore impegnate a pagare il taxi, cercare le chiavi e sostenere del bagaglio.

E poi c’era un fantasma rigido come uno stoccafisso.

Appleby si tolse gli occhiali da presbite e guardò meglio.

Il fantasma era una bambina. Cioè, la bambina fanta-sma era la tanto benvenuta ospite nonché ufficialmente sua nipote. Finalmente era arrivata! E non poteva avere un aspetto più perfetto con quei cerchi violacei intorno agli occhi e il caschetto di capelli corvini, il cappottino

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e il cappellino neri. E le calze nere e le scarpe nere e i guantini neri. Perché, per quanto quella bambina fosse pallida, Helga, Frida e la signora Meyer lo erano di più.

Quest’ultima in quel momento rifilava al fantasmino due buffetti a tenaglia uno per guancia.

«Su, su! Un po’ di colore sul faccino,» sbuffava.

Fortunatamente per la faccia della bambina, Helga in quell’istante ebbe ragione dell’ultima serratura e guidò il corteo all’interno della spezieria.

***

Il mattino seguente all’alba Helga arrancò giù dal let-to fino in negozio per aprire a Rachel e Frida. Le scale le sembrarono molto più strette e ripide del solito. Erano pericolose. Un ascensore, forse? Ebbe una fitta di dolore alla tempia sinistra al solo pensiero di quanto poteva co-stare. Con un pugno sul passamano fece tremare anche il ballatoio. Maledetta bambina!

Pallida, con le occhiaie, piena di lividi, sdentata e ve-stita di nero! Per giunta, trovata ancora in fasce in un cassonetto della spazzatura, un 2 di novembre! E quel parlare con un medaglione faceva rabbrividire! Non solo era una bambina – e questo era già molto grave – ma sembrava il ritratto della morte stessa. Insomma una sciagura moltiplicata per cento, una bandiera sventolata sotto il naso dell’Abominevole: “ehi siamo qui, non ti ricordi di noi? Siamo qua belle polpose pronte da met-tere in pentola”. Mai, mai e poi mai il fratello avrebbe dovuto fare una sciocchezza simile.

«Hai parlato ad Appleby delle lezioni di tedesco? Così a settembre potrà andare a scuola. Deve fare il suo

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secondo anno, mi pare. No?» La domanda di Rachel si insinuò insieme all’aria fresca oltre lo stipite della porta.

«Sì, gliene avevo parlato già l’altro ieri. Sai, pensavo, per via delle lezioni di tedesco, la gente li vedrà spesso insieme.»

Gli occhi di Frida si velarono come accadeva quando non capiva.

«Conferma la parentela tra i due,» spiegò Helga e fece strada verso il retrobottega. «Comunque pareggiare il livello delle caramelle nei vasi è stata un’idea molto buona. Ostacolerà qualsiasi tentativo di furto.»

«Ruba anche?» Spalancò gli occhi Frida.

«Non ancora ma tenterà. Potrei scommetterci,» le ri-spose Rachel Meyer.

Dopo una colazione gustosa a base di tè verde e bi-scotti digestivi le tre socie salirono a svegliarla.

***

Mary sbirciò da sotto le coperte. Era ancora inson-nolita ma notò subito l’aria seria e indaffarata delle tre signore. Non le avrebbero sorriso nemmeno quel gior-no. Si raggomitolò contro la testata del letto e le osservò disfare la sua valigia. Poi le ordinarono di drizzarsi sul letto e la Signora Meyer cominciò a prenderle le misure.

Il metro giallo era freddissimo e ancora di più lo era-no le dita della signora con i capelli bianchi. Intanto parlavano.

«Potremmo adattare i vestiti di qualche anno fa. Quando eravamo più magre,» mugugnò Helga.

Frida alzò la voce:

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«Io sono sempre stata magra.»

La signora Meyer per farsi largo le piantò una gomi-tata nelle costole.

La signora Helga invece non aveva nemmeno udi-to. Era troppo impegnata a scrutare Mary. E infine concluse:

«Anche se la vestiamo di giallo, rimane uno scarafaggio.»

Mary controllò di non avere addosso qualche insetto.

«Potremmo ossigenarle i capelli,» osò Frida e si mas-saggiò le braccia.

Mentre scartavano come poco pratica l’idea di Frida di tingere “i capelli della bambina”, la lavarono e la ve-stirono. Le infilarono calzoni verdi, maglietta arancione e golf rosa. Infine le legarono un bel fiocco rosso in testa. Poi le tre signore le ordinarono di tornare in piedi sul letto e si misero a fissarla.

«Un po’ meglio, – distolse lo sguardo Helga ma poi la trafisse di nuovo. – Ed ecco le regole.»

«La prima di tutte: non chiamarci zie. Non sei nostra nipote,» Rachel aveva interrotto la socia di maggioranza.

Helga ringhiò:

«In quanto trovatella, non sei una vera nipote nean-che per me. Perciò non chiamarmi zia. Divieto assoluto. Sei la nipote di Herr Appleby!»

«Chi è Herr Appleby?» Chiese Mary in un fiato.

«Un signore già molto vecchio per nulla contrario ad avere nipoti,» sparò Helga. «Se qualcuno dovesse chie-

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derti il nome, gli dirai “sono Mary Appleby, nipote di secondo grado di Herr Appleby”. Capito? Così, se qual-cuno vuole altre informazioni, tu puoi dire “è compli-cato, non mi so spiegare”. Capito tutto? Chi sei?» Helga riprese fiato.

Mary ruotò lo sguardo e cercò di ricordare, poi, balbettò:

«Mapple!»

Le signore si guardarono tra loro con le facce arrabbiate.

«Ok, niente panico,» ordinò Helga e allargò le brac-cia. «Ok, Mapple. Da questo momento sei Mapple. Spiegheremo noi meglio le cose complicate a chi dovesse chiedere.»

«Allora chi sei?» Chiese Meyer puntandole addosso un dito nodoso come ramo.

«Mapple!»

«E hai zii?»

«No!»

«Ma sì, cara,» si contorse Frida.

«E invece, no. Io non ho zii. Io ho un zio solo, il signore vecchio.»

«Ok, perfetto, – digrignò i denti Helga. – Allora sei pronta. Scendiamo. Si è fatto tardi.»

Così Mapple fu scortata da basso e le tre signore tro-varono già un cliente intento a bussare sulla porta a ve-tri. L’uomo entrò e come prima cosa fissò Mapple:

«Chi sei bella bimba? Una nipotina?»

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«No,» risposero tutte tre le signore, quasi urlando.

«È la nipote di secondo grado di Herr Appleby,» spie-gò la signora Meyer.

«E come ti chiami, piccola?»

«Mapple!»

Ma l’uomo non la guardava più.

«Assomiglia al professore, Helga, in effetti. Per lo meno per i vestiti. Strani, vero? Stesso gusto eccentrico, intendo dire,» spiegò e ingoiò una caramella.

Mapple intanto era rimasta a bocca aperta senza udi-re più nulla di cosa dicevano gli adulti. La sera quando era arrivata era buio e non aveva capito di trovarsi in un posto tanto meraviglioso.

Dal taxi in Apfelstrasse aveva visto subito da lontano il negozio Spezie&Delizie. C’era una lanterna illumina-ta e l’insegna in ferro battuto sbatteva al vento. Poi, una volta scesa dall’auto, era rimasta abbagliata dalla vetrina lucida e divisa a quadretti, addobbata di stelle alpine e fiori gialli. Quando infine era entrata, c’era stato un suo-no sottile come di campanelle di cristallo. Il vento fred-do era rimasto fuori e ovunque c’era odore di caramello e vaniglia, menta, liquirizia, limone. Le era sembrato bello ma solo ora poteva vedere “quanto” era bello!

Ben sveglia e alla luce del giorno, Mapple potè ruota-re su se stessa senza smettere di vedere scaffali scuri alti fino al soffitto.

Ogni ripiano aveva un pizzo bianco e sopra erano allineati vasi di tutte le forme. C’erano bocce, ciotole, bottiglie, grandi barattoli dal coperchio dorato. E dentro

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ognuno di questi scrigni di cristallo c’erano montagne di erbe, semi, bacche… Ma anche pastiglie, caramelle sfaccettate, a forma di fagiolo, quadrate e ovali… Map-ple smise di piroettare solamente quando il pavimento cominciò a ondeggiare.

Quando la testa smise di girarle, evitò il settore dro-ghe, spezie, medicamenti, e infusi, e costeggiò gli scaffali dei dolci. Guardò più da vicino.

C’era veramente di tutto: toffies, liquirizie, gelatine, mash mallow, zuccherini sotto spirito, fondenti, tor-roncini, gelatine, cotognate, chupa chups, gommose a forma di mora, gommose verdi coperte di zucchero, tronchetti digestivi, cioccolatini cuneesi, boeri, confetti con nocciola, pralines, pastiglie, bon bons, mozartini, confetti di zucchero con pistacchi, con mandorle, con anici, confetti di cioccolato con chicchi di caffè o con scorze d’arancio, alchichingeri, calissons, frutti di Mar-torana, amaretti, wafer, berlingots, cialde, meringhe e macarons… Il negozio era pieno di dolci a portata di mano e lei ingoiò l’acquolina.

Avrebbe fatto di tutto per restare in quel posto fan-tastico. Lo sapeva, tutti quei lividi non risultavano bene. Ma avrebbe fatto del suo meglio. Avrebbe evitato di inciampare e fare cadere cose preziose. Le premeva veramente.

«Ma abiterò qui?» Chiese con un filo di voce.

Finalmente nel negozio non entravano clienti da un paio di minuti e le tre signore circondano Mapple.

«Certo che vivrai qui! L’ha deciso il giudice. Lo hai scordato? E non fare storie.» Nemmeno le parole secche

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della signora Meyer riuscirono però a rendere Mapple meno estasiata.

«E non stare lì impalata,» Helga sbuffò.

Mapple rispose come in sogno:

«Posso mangiare qualcosa? Non ho ancora fatto colazione.»

«Oh, no, cara. Non abbiamo tempo ora. E poi è tar-di. Ormai perderesti l’appetito. Dovrai aspettare il pran-zo, carina. Ci spiace tanto,» concluse la signora Meyer e ritirò la testa nel collo.

Mapple si chiese perché la signora vecchia avesse l’a-ria tanto soddisfatta ma non ebbe tempo di pensarci.

La Meyer aveva ricominciato:

«È l’inizio di una nuova vita per te, cara. Un nuovo nome, le lezioni di tedesco. Ed è ora di affrontare l’argo-mento “spezieria”.»

Da come lo diceva, “affrontare l’argomento” sarebbe stato bruttissimo. E infatti lo fu.

Vietato toccare o prendere qualcosa della merce esposta. Vietato rivolgere la parola alle signore o ai clien-ti. Rispondere solo se interrogata. E alla fine concluse Frida:

«È un mestiere molto faticoso mostrare tutto questo e rimettere a posto, Mapple.»

«Perciò, guai a te, se creerai problemi,» abbaiò Helga.

Mapple studiò gli scaffali pieni di vasi e tutto le fu di colpo chiarissimo. Quelle signore erano stanchissime.

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Doveva darsi da fare e cercare di dare una mano. Maga-ri, prima o poi, le avrebbero voluto bene.

Come prima cosa notò tre vasi, non facevano per niente bella figura.

C’erano dentro palline di colori smorti. Un vaso di palline verdognole, accanto a un altro di palline gial-licce, a sua volta accanto a un altro di palline rosine. Avrebbe cominciato proprio da quelli, un vaso multico-lore sarebbe stato molto più bello.

Stava per infilare la mano nel vaso di palline verdo-gnole quando un click la fermò.

Era il rumore del medaglione. Si era aperto.

Evviva! St. Nick si era svegliato. Era ora! Lo aprì ma ancora una volta lo trovò imbronciato. Anzi ancora più di cattivo umore del solito. Cercò di consolarlo raccon-tandogli delle meraviglie della spezieria ma non ci fu niente da fare. Nemmeno il bacio riuscì a farlo sorridere e alla fine lo sportellino si abbassò di nuovo.

Solo al richiudersi del medaglione Mapple notò l’ombra scura sopra di lei e si voltò di scatto. Per un momento aveva creduto che si trattasse di un grande ragno nero.

E invece no.

L’ombra era proiettata da un signore altissimo.

Lo sbirciò dai piedi alla testa e le mancò il fiato.

Era uguale spiccicato a St. Nick. Aveva anche il cap-pello a punta, floscio. Perfettamente identico se non fos-se stato per il colore. Il vero St. Nick aveva una vestaglia rossa, non blu.

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«Nonpossocrederci,» disse d’un fiato.

«Cosa non puoi credere?» chiese il Nick blu e abbassò la testa mentre incrociava le mani dietro la schiena.

Appena Mapple ebbe finito di stropicciarsi gli occhi glielo disse:

«Adesso non posso farglielo vedere ma lei, signore, è ugualissimo a un disegno,» indicò il medaglione che ancora pendeva fuori dal colletto. «È che è rotto e si apre da solo a volte.»

«Oh, ma è una cosa molto speciale, allora. Richiede qualcuno di speciale per usarlo. Se non si sanno adope-rare aggeggi come quelli, è un vero guaio.»

«Scusi, signore, lei come fa a saperlo?»

«Oh piacere! Sono il professor Morgan Appleby,» disse il vecchio e tese la mano. «E tu devi essere la mia nipotina!»

«Mapple!» ammise lei incerta mentre si faceva striz-zare la mano.

Nick blu si abbassò e sorrise:

«Allora, vediamo “come faccio a saperne in fatto di medaglioni e bambini speciali”… Vediamo… Ti dirò ciò che so, Mapple. Se qualcosa ti minaccia, devi af-frontarlo. Non puoi far finta di non vederlo. Le cose spaventose devi farle diventare una sfida. Non vedi quei fantastici lividi, le occhiaie, il colore perfettamente bian-co della tua pelle? Non crederai siano cose senza un ben preciso significato?»

«Quale?»

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«Nessuno ti ha mai parlato del mondo degli eroi e delle fate che vincono l’Abominevole?»

«Abominevole?» Mapple ebbe un brivido.

«Oh, non aver paura, queste cose succedono nel mondo degli eroi e delle fate. Non quaggiù. No di certo. Cose come volare, compiere distanze enormi in un bale-no e vedere insieme nella totalità e nel dettaglio. Vi ac-cadono fatti inimmaginabili e del tutto mancanti di lo-gica. Sono solo voci ma sembra sia un mondo popolato di pazzi incoscienti, disposti a sacrificare l’osso del collo per missioni prive di un senso preciso. Vogliono sapere cosa c’è “al di là”!» E lo disse con un tono misterioso.

A Mapple si rizzarono i peli sulle braccia ma il pro-fessor Appleby aveva ricominciato.

«…Nel cielo, sopra le nuvole. In posti di cui si favo-leggiano meraviglie, e stranezze, dove dar battaglia alla morte. Favole!»

In quella con un click il medaglione d’improvviso si riaprì e Mapple sgranò gli occhi. St. Nick rosso aveva un sorriso felice, da un’orecchia all’altra.

«Ride!» Esclamò e indicò la figurina. «È davvero me-raviglioso, sa, signore? Per giorni e giorni è stato sempre sempre tristissimo perché, signore, le devo rivelare un segreto.» Mapple spiegò per filo e per segno la strana cosa delle facce mutevoli di St. Nick rosso e Appleby avvicinò il naso adunco per accertarsi se effettivamente gli somigliasse tanto.

Poi si raddrizzò e si chiuse il mento in una mano, le grandi sopracciglia preoccupate. Alla fine borbottò:

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«Per esempio, dovresti smetterla di giocare con il me-daglione come se fosse un orsacchiotto da coccolare o per farti consolare.» Poi sorrise con la faccia triste. «È un dispositivo molto potente, Mapple. Vedi di farlo fun-zionare. Non si può sfuggire al proprio destino se si è predestinati o speciali.»

Mapple sentì il cuore al galoppo, nessuno prima le aveva detto cose simili.

«Come fa a saperlo, signore?»

«Sono un filosofo.»

«Cos’è un filosofo?»

«Uno molto occupato a studiare stelle e libri.»

«Studia ancora, signore?!?» Mapple rimase a bocca aperta.

«Se non si studia non si riescono a scrivere libri.»

«Quanti ne ha scritti, signore?»

«Uno, ma non l’ho ancora finito.»

«E quando lo finirà, signore?» Mapple studiò gli oc-chi azzurri sorridenti. Era indecisa se credergli.

«Forse mai.»

«Oh…» A Mapple dispiacque per lui tuttavia il filo-sofo sembrava perfettamente felice. Così, cambiò argo-mento: «Io in questo momento pensavo di mescolare questi vasi e farli di tutti i colori.»

Appleby sgranò i piccoli occhi azzurri e per poco non gli cadde il berretto:

«Piuttosto, Mapple. Dimenticavo! Ho qualcosa per te. L’ho preparato proprio per il tuo arrivo.» Estrasse

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dalla manica amplissima un involto lungo e stretto. «È un aquilone di seta perfettamente bianca, come la tua faccia, – sorrise Appleby. – Tieni.»

Mapple lo prese incredula. Le tremavano le mani.

«Un aquilone! Di seta! Signore, non doveva. Io…,» disse mentre tastava il pacco.

«Non puoi aprirlo qui, Mapple. L’aquilone è molto grande. Potresti urtare qualcosa.»

Mapple mise un occhio vicino a un’apertura dell’in-volto e guardò dentro.

«Cosa cerchi?» Chiese Appleby.

«No, speravo… Mi domandavo se per caso, signore, ci fosse dentro qualche cioccolatino. Sa, non ho fatto colazione.»

«Perché?» Si meravigliò Appleby.

«Ormai è tardi e devo aspettare le dodici. Se no, mi rovino l’appetito.»

«Ah! È così. Allora andiamo a fare due passi, picco-la,» stese il braccio e la seguì verso la porta.

«Dove state andando?» Echeggiò una voce tremolante.

«Lezioni di tedesco, signora Frida,» rispose Appleby.

«Frida, sei la solita stupida. Se vogliono levarsi di tor-no, facciano pure, cara.»

Nell’aprire la porta, Mapple aveva udito benissimo il mormorio della signora Meyer. Ma non ci badò, c’erano cose ben più preoccupanti in quel momento.

«Lezioni di tedesco?» Chiese Mapple e infilò la mano in quella grande, nodosa e pelosa di Appleby.

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«Oh! Sì. Cominceremo con lo studiare la parola “krapfen” e ne mangeremo uno bello grosso.»

Così dopo aver divorato almeno otto krapfen nel caf-fè in fondo alla via, Appleby portò Mapple nella radura poco distante e le insegnò a far volare l’aquilone.

Mapple lo impugnò con mani tremanti. Un oggetto magico davvero. Lo spago era fatto di fili d’oro uniti in una treccia sottile. Ma era robustissimo, le spiegò il prof. Appleby.

Mapple notò un fatto strano. Quando lei pronuncia-va parole tedesche, si alzava molto di più. E poi Appleby nel distendere le lunghe stecche per aprirlo aveva usato un tono molto misterioso.

«L’aquilone dei sogni ti aiuterà, Mapple, – aveva det-to. – Anche questo, sai, è un oggetto magico. E anche in questo caso, vale la raccomandazione fatta per il tuo medaglione: fanne buon uso!»