MARTEDÌ il manifesto IL MA NIFES T O CULTURA&VISIONI Lavita · cheria corrosi nella plastica,...

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MARTEDÌ 17 AGOSTO 2010 il manifesto pagina 11 AI TEMPI DELL’IMPERO La vita Giuseppe Genna S e devi arrivare al luogo della terapia, svolta a destra della immensa piazza dove correre è impossibile. Spezzata, diffranta piazza: ha eletto il marciume a sua natura seconda, uno strato di scaglie plastiche e organiche tra ricordi di aiuola. C’è una scuola verso l’angolo con Pellegrino Rossi. Davanti sono schierati i militari che il sindaco ri- chiese, le tute mimetiche, i baschi scuri, l’indolenza di una foga trattenuta. Si tengono lontani oramai gli egiziani, i marocchi, anche i turchi. La piazza è gremita, interrotta dalle rotaie dei tram lunghi e verdi, acquistati da una controllata Fiat, deragliano spesso, molti feriti a Milano per i tram che sono deragliati da quando sono entrati in funzione. Una strada verticale attraversa e si spegne nella piazza stessa al passaggio pedonale, verso la buca della metropolitana, da cui soffia un vento caldo e carico di polvere chimica. I giornali free press, invecchiati in poche ore, pagine calpe- state nella fretta da centinaia di persone, stanno ingricciati tra dente e dente della griglia orizzonta- le gialla per lo scolo dell’acqua al termine della scalinata di granito della linea tre, la gialla. Si prende per la pista piatta e sconnessa di Pellegrino Rossi. Passava di qui un tram, quat- tro binari sulla sinistra della carreggiata pun- tando verso fuori città. Hanno seppellito con l’asfalto quei binari rugginosi, nemmeno li han- no estratti dalla loro sede, per allargare via Pel- legrino Rossi, e dopo un anno emergevano pez- zi di rotaia ossidata arancione, a passare in mo- to si scivola, si muore. Hanno ricostruito tutto, abbattendo tutto. Il cen- tro polifunzionale policolorato Virgin. Sulla destra so- no crollate le case svuotate, malsicure, l’odore di coniglio bollito e carne in umido ormai impregna- va le pareti, le scale emanavano un vapore di stan- tio e minerale. Abbattute da giganteschi rostri, macchine che scagliavano enormi piombi sferici, le facciate come volti tumorati, sfondati da un car- cinoma, da un’esplosione ossea: non dall’ester- no, ma dall’interno. Vado verso il neurolaboratorio, ad Affori, l’ultimo quartiere, superata la svolta verso piazzale Dèrgano. In piazzale Dèrgano ero stato anni prima. Tutto era carbonato e umido lì. Stracci pesanti di acqua, non strizzati, attaccati a fili della bian- cheria corrosi nella plastica, arrugginiti nel fer- ro interno, pendevano dai balconi di ferro, la graniglia povera commista alla vernice della muratura, le mollette in legno consunto. Là avevano sparato a un uomo. Lo avevo visto riverso, tutto attorno era una real- tà rallentata, il colpo – dicevano – era stato secco, rauco, una tosse. La polizia stazionava lì, gli stivali opachi dell’ufficiale alto, il numero fittissimo di ran- dagi affacciati in cerchio per scorgere lo scanalare del sangue, a sorpresa scurissimo e mucoso, sul- l’asfalto di piazza Dèrgano. Il luogo della terapia è una piccola casa al centro della corte in un palazzo di ringhiera, non distante dall’ex nosocomio psichiatrico Paolo Pini, dove alla madre di mia madre praticarono cinquantasei sedu- te di terapia elettroconvulsivante, gli elettrochoc che la condussero al suicidio. L’accademia della sua morte di esausta. La terapia elettroconvulsivan- te sta per essere reintrodotta a Guardia Seconda, presso il Policlinico: si sappia. La piccola casa è adibita a terapie sperimentali. Sono terapie che tentano di ridurre l’assunzione di farmaci, l’opposto delle ricerche condotte dalle mul- tinazionali. E tuttavia gli psichiatri e le psichiatre del centro firmano ricette per farmaci di seconda, terza, quarta generazione (i ricaptatori noradrenalinici, li si può prescrivere per un anno al massimo, gli effetti collaterali inducono sospetti, il mal di testa grigio col- pisce il 10% dei soggetti). I pazienti non tollerano l’impatto con le terapie di avanguardia. Sono colpiti da delirium tremens, a volte, da orticarie giganti, da febbri costanti. E si distribuisce metadone pure. Si fa da Servizio Tossicodipendenze. Allora c’è la fila dei nuovi tossici. I nuovi tossici milanesi io non credevo esistessero in questo modo. Sono universitari della Bicocca, del- la Bocconi, quadri, manager, gente del terziario e pe- rò anche bulli da discoteca, gente che sta in officina o in cantiere – questa dittatura del proletariato che annulla ogni differenza di classe e invera il suo oppo- sto, che è comunque dittatura di un proletariato. Entra nella stanza dove collaboro io una ragazza alta e pallida, fuori fa freddo, lei si è levata ogni abi- to fino alla maglietta. Controllo: non buchi sulle braccia. Il suo sguardo, intristito o etilico, comun- que svuotato o internato, incarcerato in un’interiori- tà non qualificabile, è ciò che tento di studiare abo- lendo le differenze tra me e lei, tentando di vibrare insieme a lei, il suo minuscolo inarrivabile sisma psichico: esistenziale. Io sono qui per collaborare con i terapeuti, sotto la supervisione rigorosa degli addetti responsabili. Un umanista che si trova in mezzo alla città delle al- te torri calcaree che crollano, le torri che Sigmund Freud e i suoi figli putativi per un secolo avevano eretto – quella città della speranza già malata. «È perché stanno ai piedi». «Cosa?» domando, mi scuoto dal torpore dell’em- patia e della fantasticheria. «I buchi. Lei stava cercando i buchi». «Dammi del ‘tu’, per favore». È perché mi sento coetaneo, ma non è vero: io sono un quarantenne, la ragazza ha vent’anni appena. «Stanno nei piedi, perché nessuno così li vede». «Lo so». Lo so: si fanno in casa, da soli, vivono con i genitori e si chiudono nella stanzetta, per chi ha anche soltanto visto i Settanta, per chi giocando a pallone osservava i gruppi in circolo di tossici ai giardini mentre scaldavano con la fiamma dell’ac- cendino sotto la scatoletta del Saridon – è incom- prensibile che questi ragazzini si facciano da soli. Lo speedball che si procurano, coca o anfe con ero. Co- sa piace?, cosa conduce a un’onda depressiva com- mista all’eccitante?, cosa li trascina da dietro la Cen- trale alla camera dove iniettano nel piede? Soli... «Non sento niente. Non è che ne voglio uscire, ma voglio uscirne». Dicono sì e dicono no: contemporaneamente. L’aumento delle patologie legate al borderline, la semipsicosi al limite della personalità multipla, ha su- bìto un’accelerazione impressionante in questi anni. Alle risorse umane delle aziende, quando ancora assumevano, prima della crisi finale, sceglievano spontaneamente e senza accorgersene i candidati più borderline: deboli nell’identità, davano tutto sul lavoro, distruggevano il microclima dell’ufficio, confliggevano, era un disastro. Che cos’è politico, oggi? Dove ruota il disgregamento? Dove si trova il ciclo senza fine dell’invenzione, dell’idea e dell’azione? La fine di tutto il nostro esplorare... «Il corpo, non lo sento. Vado con ragazzi e ragaz- ze, non lo sento». «Non stiamo facendo psicoterapia» dico. «Non parlarne, se non vuoi». «È indifferente. Non sento niente, nemmeno questo che sto dicendo. Ci sei tu lì davanti a me, non lo sento». La materia è diventata la nostra idea. La teodicea del banale, la difesa delle bave umanistiche. «Tu non puoi capire. Noi amiche ce lo diciamo. Non sentiamo. Ci lecchiamo. È indifferente. Tu sei lì che ascolti, io sono là che guardo. Non si sente niente. Coi ragazzi è uguale. La fine delle serate: è uguale». Alzatevi, andate: leccatevi l’un l’altro. Le notti fo- sforescenti, le notti dell’impero di occidente. «Non puoi capire. Senso del futuro. Che doman- da del cazzo...» È bella, lievemente sciupata, sotto gli zigomi. Sa- rebbe recuperabile: sì, recuperabile a cosa? Ecco la Dea Normalità, alla cui presenza invisibile la mia ge- nerazione è stata abituata nella fascia prenatale. Il feticcio della generazione metropolitana che ci pre- cedette. «Non immagini un futuro? Figli? Lavorare?» Tace. Lievemente imbronciata, solleva le mie stanche capacità di eccitarmi per qualcosa. Vorrei trasmetterle carne, vorrei inoculare in lei sperma sterile, vorrei scuoterle il gomito e slogarlo contro il muro. Lasciare la bava della mia generazione sulla sua schiena che non potrà comprendere... «Se mi dicono domani di andare in Australia, ci vado. Non c’è qualcosa di preciso, non so, non pen- so al domani. Quando mi faccio, forse, non penso, ma magari penso anche al domani». La nuova generazione italiana si esprime quoti- diamente con un lessico medio di 500 termini. Il re- sto è: puntini di sospensione, avverbi, treni di paro- le, gesti extraverbali. Lei agita le mani. Io tremo la mattina, in ansia, nel sisma, non av- verto la terra sotto i miei piedi, la pavimentazione non esiste più, tremo per la crisi. Sono scosso dalla mia povertà futura. Sono precario da quando lavo- ro, da ventidue anni... Io... Io... E la ragazza che sta pronunciando parole come immersa in un liquore brunito, denso: «... che il senso del futuro è una stronzata. Quali sogni?» Dove è la cittadella del potere da assediare? Dove noi, se mi guardo attorno nel sisma del futuro, assa- lito dagli spettri? Noi non ci siamo, siamo inesistiti, introiettammo la borghesia mangiandola. All’improvviso entra R.: è la psichiatra che fa la vo- lontaria ogni domenica. La ragazza che ho davanti la osserva svuotata. Uomini vuoti, svuotati, che sia- mo... Sta urlando, R., io non capisco, sta urlando di venire, venire a vedere, la televisione, è gravissimo, io mi alzo, è tutto rallentato e convulso al contempo. La ragazza è abbandonata. Sembra indifferente all’abbandono, ma non lo è: la radice nera, lo so, è l’abbandono – un abbandono infertole prima anco- ra che iniziasse. La sindrome universale, planetaria. Vado alla sala comune dei terapeuti, il televisore è acceso, Silvio Berlusconi è pallido, è buio, è allunga- to nel volto cavallino, è il Padre di Tutti, ha la bocca rotta, sanguinante, Nosferatu contrario, ineludibile, su qualunque canale televisivo, chiunque sta avver- tendo pietà per Silvio Berlusconi, l’Uomo Colpito: da cosa? Si alza, spalanca la pesante portiera blindata dell’auto, la body guard tenta di coprirlo, ha lo sguar- do assente, fuori di sé, spiritato, è il piccolo Dioniso dei misteri brianzoli, è assurto a re ed eccolo colora- to di sangue shakespeariano. «Shakespeariano» non significa nulla, oggi. È in mezzo alla folla, c’è confu- sione, è piazza Duomo a Milano, ha i denti rotti, gli incisivi scheggiati e il labbro lacero, spalanca le brac- cia, mostra a chiunque che è salvo, con un gesto cri- stico. «Cristico» è un aggettivo privo di senso, oggi. È lui. Tutto è lui e lui è tutto. Ha occupato tutto: qua- lunque simbolo, qualunque gesto, ogni accadimen- to, passato presente e futuro, ogni falsificazione e qualunque certificazione di verità, la regola e la nor- malità e l’illegalità e il terrore e l’assenza di terrore. Ha portato a termine il progetto rivoluzionario, ca- povolgendolo. È la Carne del Buon Nonno: ecco la sua fragilità mortale. Empatizzano tutti. In un film su Hitler, La caduta, interpretato dall’attore tedesco Bruno Ganz, indugia il regista col primo piano della mano che trema per il Parkinson, la mano di Adolf Hitler: ecco l’oltraggio, ciò rende empatico chi ha tentato di distruggere l’empatia in toto. E noi? Io, gli psichiatri, la ragazza dello speed- ball? Dove siamo? Non siamo nel luogo dove si ten- ta di ricostruire l’empatia? Quale atto è l’atto politico? Chi ha ferito Silvio Berlusconi oppure le braccia aperte mentre sangui- na di Silvio Berlusconi? Perché assistiamo? Perché, ancora una volta, gli occhi svuotati davanti allo speedball «schermo»? Perché la sensazione disperata della domanda: e ora cosa facciamo? Quale punizione ci capiterà? Verrà accertato che il quarantenne feritore del premier è sotto terapia psicofarmacologica, viene seguito in un centro come quello dove collaboro io. Il quarantenne feritore invierà subito le scuse al pre- mier che ha sfregiato: chiederà: «Scusami». O mia generazione, tra le perdute dei secoli tu sei la pallida – la tua violenza ti spaventa e il padre non ti perdona. Strappa il tuo cuore, nelle buche della terra nasconditi. Fora l’occidente l’impero che transita di qui. I L M A N I F E S T O C U L T U R A & V I S I O N I L’AUTOREvvvvvvvvvvvvvvvvvv QUESTE PAGINE E GLI AUTORI DELLE LORO IMMAGINIvv Giuseppe Carlo Genna (il primo nome gli è stato dato in onore di Stalin, il secondo in omaggio a Marx) è nato nel 1969 a Milano, dove vive. Qui ha lavorato presso il mercato ortofrutticolo, per passare poi alla presidenza della Camera come consu- lente tecnico. È stato redat- tore della rivista «Poesia» e ha collaborato alla televisio- ne di Stato. Trascorso un periodo di «surreale disoccu- pazione», Genna è stato co- optato come collaboratore presso Mondadori, di cui ha curato il sito Web nel ’96-’98, dopo avere pubbli- cato negli Oscar un libro beffa sotto pseudonimo, che, in qualche modo, aveva a che vedere con il fenome- no nascente della Rete. Pres- so Mondadori sono usciti, oltre alla riedizione dei rac- conti e saggi di «Assalto a un tempo devastato e vile», il giallo «Catrame» e le alle- gorie in forma di thriller: «Nel nome di Ishmael» (tra- dotto in molti paesi tra cui Usa e Inghilterra, Francia, Germania, Russia, Giappo- ne), «Non toccare la pelle del drago» e «Grande Madre Rossa». Presso l’editore Pe- Quod Genna ha pubblicato, insieme a Ferruccio Parazzo- li e Michele Monina, «I De- moni»; e, con Igino Doma- nin, i racconti di «Forget Do- mani». Dalla fine del ’98 è stato nel formidabile e da lui rimpianto nucleo creativo che ha lanciato il portale satirico e di cultura Claren- ce. Da quest’anno pubblica con Einaudi Stile Libero. Questa pagina inaugura una serie di cronache semiserie dello sconfor- to che ci è cresciuto intorno negli ultimi anni. Sono racconti di scritto- ri giovani ma già molto affermati, ai quali abbiamo affiancato le immagi- ni di una coppia di artisti torinesi, Gianfranco Botto e Roberta Bruno della stessa generazione, anche loro molto noti grazie a lavori che utilizzano la fotografia per inquadra- re il degrado urbano e soprattutto le metamorfosi rapide, crudeli e incontrollate delle nostre periferie. BOTTO & BRUNO, «WALL STARS», STAMPA VUTEK SU PVC, CM 180X200, COURTESY ALBERTO PEOLA, TORINO

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MARTEDÌ 17 AGOSTO 2010 il manifesto pagina 11

AI TEMPI DELL’IMPEROLa vita

Giuseppe Genna

Se devi arrivare al luogo della terapia, svolta adestra della immensa piazza dove correre èimpossibile. Spezzata, diffranta piazza: ha

eletto il marciume a sua natura seconda, uno stratodi scaglie plastiche e organiche tra ricordi di aiuola.C’è una scuola verso l’angolo con Pellegrino Rossi.Davanti sono schierati i militari che il sindaco ri-chiese, le tute mimetiche, i baschi scuri, l’indolenzadi una foga trattenuta. Si tengono lontani oramaigli egiziani, i marocchi, anche i turchi.

La piazza è gremita, interrotta dalle rotaie deitram lunghi e verdi, acquistati da una controllataFiat, deragliano spesso, molti feriti a Milano per itram che sono deragliati da quando sono entratiin funzione. Una strada verticale attraversa e sispegne nella piazza stessa al passaggio pedonale,verso la buca della metropolitana, da cui soffia unvento caldo e carico di polvere chimica. I giornalifree press, invecchiati in poche ore, pagine calpe-state nella fretta da centinaia di persone, stannoingricciati tra dente e dente della griglia orizzonta-le gialla per lo scolo dell’acqua al termine dellascalinata di granito della linea tre, la gialla.

Si prende per la pista piatta e sconnessa diPellegrino Rossi. Passava di qui un tram, quat-tro binari sulla sinistra della carreggiata pun-tando verso fuori città. Hanno seppellito conl’asfalto quei binari rugginosi, nemmeno li han-no estratti dalla loro sede, per allargare via Pel-legrino Rossi, e dopo un anno emergevano pez-zi di rotaia ossidata arancione, a passare in mo-to si scivola, si muore.

Hanno ricostruito tutto, abbattendo tutto. Il cen-tro polifunzionale policolorato Virgin. Sulla destra so-no crollate le case svuotate, malsicure, l’odore diconiglio bollito e carne in umido ormai impregna-va le pareti, le scale emanavano un vapore di stan-tio e minerale. Abbattute da giganteschi rostri,macchine che scagliavano enormi piombi sferici,le facciate come volti tumorati, sfondati da un car-cinoma, da un’esplosione ossea: non dall’ester-no, ma dall’interno.

Vado verso il neurolaboratorio, ad Affori, l’ultimoquartiere, superata la svolta verso piazzale Dèrgano.

In piazzale Dèrgano ero stato anni prima.Tutto era carbonato e umido lì. Stracci pesantidi acqua, non strizzati, attaccati a fili della bian-cheria corrosi nella plastica, arrugginiti nel fer-ro interno, pendevano dai balconi di ferro, la

graniglia povera commista alla vernice dellamuratura, le mollette in legno consunto.

Là avevano sparato a un uomo.Lo avevo visto riverso, tutto attorno era una real-

tà rallentata, il colpo – dicevano – era stato secco,rauco, una tosse. La polizia stazionava lì, gli stivaliopachi dell’ufficiale alto, il numero fittissimo di ran-dagi affacciati in cerchio per scorgere lo scanalaredel sangue, a sorpresa scurissimo e mucoso, sul-l’asfalto di piazza Dèrgano.

Il luogo della terapia è una piccola casa al centrodella corte in un palazzo di ringhiera, non distantedall’ex nosocomio psichiatrico Paolo Pini, dove allamadre di mia madre praticarono cinquantasei sedu-te di terapia elettroconvulsivante, gli elettrochocche la condussero al suicidio. L’accademia dellasua morte di esausta. La terapia elettroconvulsivan-te sta per essere reintrodotta a Guardia Seconda,presso il Policlinico: si sappia.

La piccola casa è adibita a terapie sperimentali.Sono terapie che tentano di ridurre l’assunzione difarmaci, l’opposto delle ricerche condotte dalle mul-tinazionali. E tuttavia gli psichiatri e le psichiatre delcentro firmano ricette per farmaci di seconda, terza,quarta generazione (i ricaptatori noradrenalinici, li sipuò prescrivere per un anno al massimo, gli effetticollaterali inducono sospetti, il mal di testa grigio col-pisce il 10% dei soggetti). I pazienti non tolleranol’impatto con le terapie di avanguardia. Sono colpitida delirium tremens, a volte, da orticarie giganti, dafebbri costanti.

E si distribuisce metadone pure. Si fa da ServizioTossicodipendenze. Allora c’è la fila dei nuovi tossici.

I nuovi tossici milanesi io non credevo esistesseroin questo modo. Sono universitari della Bicocca, del-la Bocconi, quadri, manager, gente del terziario e pe-rò anche bulli da discoteca, gente che sta in officinao in cantiere – questa dittatura del proletariato cheannulla ogni differenza di classe e invera il suo oppo-sto, che è comunque dittatura di un proletariato.

Entra nella stanza dove collaboro io una ragazzaalta e pallida, fuori fa freddo, lei si è levata ogni abi-to fino alla maglietta. Controllo: non buchi sullebraccia. Il suo sguardo, intristito o etilico, comun-que svuotato o internato, incarcerato in un’interiori-tà non qualificabile, è ciò che tento di studiare abo-lendo le differenze tra me e lei, tentando di vibrareinsieme a lei, il suo minuscolo inarrivabile sismapsichico: esistenziale.

Io sono qui per collaborare con i terapeuti, sottola supervisione rigorosa degli addetti responsabili.

Un umanista che si trova in mezzo alla città delle al-te torri calcaree che crollano, le torri che SigmundFreud e i suoi figli putativi per un secolo avevanoeretto – quella città della speranza già malata.

«È perché stanno ai piedi».«Cosa?» domando, mi scuoto dal torpore dell’em-

patia e della fantasticheria.«I buchi. Lei stava cercando i buchi».«Dammi del ‘tu’, per favore». È perché mi sento

coetaneo, ma non è vero: io sono un quarantenne,la ragazza ha vent’anni appena.

«Stanno nei piedi, perché nessuno così li vede».«Lo so». Lo so: si fanno in casa, da soli, vivono

con i genitori e si chiudono nella stanzetta, per chiha anche soltanto visto i Settanta, per chi giocandoa pallone osservava i gruppi in circolo di tossici aigiardini mentre scaldavano con la fiamma dell’ac-cendino sotto la scatoletta del Saridon – è incom-prensibile che questi ragazzini si facciano da soli. Lospeedball che si procurano, coca o anfe con ero. Co-sa piace?, cosa conduce a un’onda depressiva com-mista all’eccitante?, cosa li trascina da dietro la Cen-trale alla camera dove iniettano nel piede? Soli...

«Non sento niente. Non è che ne voglio uscire,ma voglio uscirne».

Dicono sì e dicono no: contemporaneamente.L’aumento delle patologie legate al borderline, la

semipsicosi al limite della personalità multipla, ha su-bìto un’accelerazione impressionante in questi anni.

Alle risorse umane delle aziende, quando ancoraassumevano, prima della crisi finale, sceglievanospontaneamente e senza accorgersene i candidatipiù borderline: deboli nell’identità, davano tuttosul lavoro, distruggevano il microclima dell’ufficio,confliggevano, era un disastro.

Che cos’è politico, oggi?Dove ruota il disgregamento?Dove si trova il ciclo senza fine dell’invenzione,

dell’idea e dell’azione?La fine di tutto il nostro esplorare...«Il corpo, non lo sento. Vado con ragazzi e ragaz-

ze, non lo sento».«Non stiamo facendo psicoterapia» dico. «Non

parlarne, se non vuoi».«È indifferente. Non sento niente, nemmeno

questo che sto dicendo. Ci sei tu lì davanti a me,non lo sento».

La materia è diventata la nostra idea. La teodiceadel banale, la difesa delle bave umanistiche.

«Tu non puoi capire. Noi amiche ce lo diciamo.Non sentiamo. Ci lecchiamo. È indifferente. Tu sei

lì che ascolti, io sono là che guardo. Non si senteniente. Coi ragazzi è uguale. La fine delle serate: èuguale».

Alzatevi, andate: leccatevi l’un l’altro. Le notti fo-sforescenti, le notti dell’impero di occidente.

«Non puoi capire. Senso del futuro. Che doman-da del cazzo...»

È bella, lievemente sciupata, sotto gli zigomi. Sa-rebbe recuperabile: sì, recuperabile a cosa? Ecco laDea Normalità, alla cui presenza invisibile la mia ge-nerazione è stata abituata nella fascia prenatale. Ilfeticcio della generazione metropolitana che ci pre-cedette. «Non immagini un futuro? Figli? Lavorare?»

Tace. Lievemente imbronciata, solleva le miestanche capacità di eccitarmi per qualcosa. Vorreitrasmetterle carne, vorrei inoculare in lei spermasterile, vorrei scuoterle il gomito e slogarlo contro ilmuro. Lasciare la bava della mia generazione sullasua schiena che non potrà comprendere...

«Se mi dicono domani di andare in Australia, civado. Non c’è qualcosa di preciso, non so, non pen-so al domani. Quando mi faccio, forse, non penso,ma magari penso anche al domani».

La nuova generazione italiana si esprime quoti-diamente con un lessico medio di 500 termini. Il re-sto è: puntini di sospensione, avverbi, treni di paro-le, gesti extraverbali. Lei agita le mani.

Io tremo la mattina, in ansia, nel sisma, non av-verto la terra sotto i miei piedi, la pavimentazionenon esiste più, tremo per la crisi. Sono scosso dallamia povertà futura. Sono precario da quando lavo-ro, da ventidue anni... Io... Io... E la ragazza che stapronunciando parole come immersa in un liquorebrunito, denso: «... che il senso del futuro è unastronzata. Quali sogni?»

Dove è la cittadella del potere da assediare? Dovenoi, se mi guardo attorno nel sisma del futuro, assa-lito dagli spettri? Noi non ci siamo, siamo inesistiti,introiettammo la borghesia mangiandola.

All’improvviso entra R.: è la psichiatra che fa la vo-lontaria ogni domenica. La ragazza che ho davantila osserva svuotata. Uomini vuoti, svuotati, che sia-mo... Sta urlando, R., io non capisco, sta urlando divenire, venire a vedere, la televisione, è gravissimo,io mi alzo, è tutto rallentato e convulso al contempo.

La ragazza è abbandonata. Sembra indifferenteall’abbandono, ma non lo è: la radice nera, lo so, èl’abbandono – un abbandono infertole prima anco-ra che iniziasse.

La sindrome universale, planetaria.Vado alla sala comune dei terapeuti, il televisore è

acceso, Silvio Berlusconi è pallido, è buio, è allunga-to nel volto cavallino, è il Padre di Tutti, ha la boccarotta, sanguinante, Nosferatu contrario, ineludibile,su qualunque canale televisivo, chiunque sta avver-tendo pietà per Silvio Berlusconi, l’Uomo Colpito: dacosa? Si alza, spalanca la pesante portiera blindatadell’auto, la body guard tenta di coprirlo, ha lo sguar-do assente, fuori di sé, spiritato, è il piccolo Dionisodei misteri brianzoli, è assurto a re ed eccolo colora-to di sangue shakespeariano. «Shakespeariano» nonsignifica nulla, oggi. È in mezzo alla folla, c’è confu-sione, è piazza Duomo a Milano, ha i denti rotti, gliincisivi scheggiati e il labbro lacero, spalanca le brac-cia, mostra a chiunque che è salvo, con un gesto cri-stico. «Cristico» è un aggettivo privo di senso, oggi.

È lui.Tutto è lui e lui è tutto. Ha occupato tutto: qua-

lunque simbolo, qualunque gesto, ogni accadimen-to, passato presente e futuro, ogni falsificazione equalunque certificazione di verità, la regola e la nor-malità e l’illegalità e il terrore e l’assenza di terrore.Ha portato a termine il progetto rivoluzionario, ca-povolgendolo.

È la Carne del Buon Nonno: ecco la sua fragilitàmortale. Empatizzano tutti. In un film su Hitler, Lacaduta, interpretato dall’attore tedesco BrunoGanz, indugia il regista col primo piano della manoche trema per il Parkinson, la mano di Adolf Hitler:ecco l’oltraggio, ciò rende empatico chi ha tentatodi distruggere l’empatia in toto.

E noi? Io, gli psichiatri, la ragazza dello speed-ball? Dove siamo? Non siamo nel luogo dove si ten-ta di ricostruire l’empatia?

Quale atto è l’atto politico? Chi ha ferito SilvioBerlusconi oppure le braccia aperte mentre sangui-na di Silvio Berlusconi?

Perché assistiamo? Perché, ancora una volta, gliocchi svuotati davanti allo speedball «schermo»?

Perché la sensazione disperata della domanda: eora cosa facciamo? Quale punizione ci capiterà?

Verrà accertato che il quarantenne feritore delpremier è sotto terapia psicofarmacologica, vieneseguito in un centro come quello dove collaboro io.Il quarantenne feritore invierà subito le scuse al pre-mier che ha sfregiato: chiederà: «Scusami».

O mia generazione, tra le perdute dei secoli tu seila pallida – la tua violenza ti spaventa e il padre nonti perdona. Strappa il tuo cuore, nelle buche dellaterra nasconditi.

Fora l’occidente l’impero che transita di qui.

I L M A N I F E S T O C U L T U R A & V I S I O N I

L’AUTOREvvvvvvvvvvvvvvvvvv

QUESTE PAGINE E GLI AUTORI DELLE LORO IMMAGINIvv

Giuseppe Carlo Genna (ilprimo nome gli è stato datoin onore di Stalin, il secondoin omaggio a Marx) è natonel 1969 a Milano, dovevive. Qui ha lavorato pressoil mercato ortofrutticolo, perpassare poi alla presidenzadella Camera come consu-lente tecnico. È stato redat-tore della rivista «Poesia» eha collaborato alla televisio-ne di Stato. Trascorso unperiodo di «surreale disoccu-pazione», Genna è stato co-optato come collaboratorepresso Mondadori, di cui hacurato il sito Web nel’96-’98, dopo avere pubbli-cato negli Oscar un librobeffa sotto pseudonimo,che, in qualche modo, avevaa che vedere con il fenome-no nascente della Rete. Pres-so Mondadori sono usciti,oltre alla riedizione dei rac-conti e saggi di «Assalto aun tempo devastato e vile»,il giallo «Catrame» e le alle-gorie in forma di thriller:«Nel nome di Ishmael» (tra-dotto in molti paesi tra cuiUsa e Inghilterra, Francia,Germania, Russia, Giappo-ne), «Non toccare la pelledel drago» e «Grande MadreRossa». Presso l’editore Pe-Quod Genna ha pubblicato,insieme a Ferruccio Parazzo-li e Michele Monina, «I De-moni»; e, con Igino Doma-nin, i racconti di «Forget Do-mani». Dalla fine del ’98 èstato nel formidabile e dalui rimpianto nucleo creativoche ha lanciato il portalesatirico e di cultura Claren-ce. Da quest’anno pubblicacon Einaudi Stile Libero.

Questa pagina inaugura una seriedi cronache semiserie dello sconfor-to che ci è cresciuto intorno negliultimi anni. Sono racconti di scritto-ri giovani ma già molto affermati, aiquali abbiamo affiancato le immagi-ni di una coppia di artisti torinesi,

Gianfranco Botto e Roberta Brunodella stessa generazione, ancheloro molto noti grazie a lavori cheutilizzano la fotografia per inquadra-re il degrado urbano e soprattuttole metamorfosi rapide, crudeli eincontrollate delle nostre periferie.

BOTTO & BRUNO, «WALL STARS», STAMPA VUTEK SU PVC, CM 180X200, COURTESY ALBERTO PEOLA, TORINO